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Sabino Fortunato Governance nel fallimento Convegno di Torino

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Sabino FORTUNATO

1. Grazie Presidente. Il tema della “governance” del fallimento è

certamente fra i più delicati della recente riforma e probabilmente è

 prematuro esprimere compiute valutazioni al riguardo. Sia Fabiani che De

Marchi hanno sostanzialmente posto in luce che le prassi sono ancora poco

consolidate, perché si possa esprimere un giudizio adeguato sulla nuova

filosofia che governa la struttura organica della procedura. Tuttavia, questaforzata “sospensione del giudizio” corre il rischio di far passare in secondo

 piano il quadro spesso contraddittorio e confusionale che ci consegnano i

vari interventi normativi succedutisi a così breve distanza.

E’ noto, per esempio, che proprio prendendo spunto dalle criticità

con cui la riforma ridisegna i poteri del giudice delegato e il ruolo

autorizzatorio del comitato dei creditori, il Tribunale di Firenze, con decreto

del 13 dicembre 2007 (cfr. in Il fallimento, 2008, 194 con nota contraria di

C. ESPOSITO, I rapporti tra gli organi del fallimento al vaglio di

costituzionalità), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dei

novellati artt. 41, co. 1 e 4, e 35 l. fall. ora sotto il profilo di una non

“preventivata” sottrazione dei poteri autorizzatori al giudice delegato ora – e

all’opposto – sotto il profilo di un eccesso di potere autorizzatorio in capo

allo stesso giudice delegato nel caso di inerzia o mancato funzionamento del

comitato dei creditori.

La verità è che emergono molte resistenze alla riforma in sede

giurisdizionale e che queste resistenze trovano terreno fertile e agevolazione

nelle “mine vaganti” disseminate lungo il testo legislativo. Direi, anzi, che il

decreto correttivo del settembre 2007 (d.lgs. n. 169/2007), se per un verso

ha apportato numerose e meritorie correzioni ai primi interventi, per altro

verso ha segnato in alcuni casi dei veri e propri arretramenti, rispetto al

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disegno iniziale, come è accaduto, ad esempio, per il “programma di

liquidazione”.

2. Occorre allora chiedersi qual’è la filosofia di fondo sulla cui base

la riforma ha cercato di delineare i rapporti fra gli organi della procedura.

Giovanni Lo Cascio, in un bello scritto dedicato al tema che ci

occupa (Organi del fallimento e controllo giurisdizionale, in Il fallimento,

2008, 369), ha osservato che sono possibili, ovviamente, modellidifferenziati di governance del fallimento; e in particolare e agli estremi, un

modello pubblicistico, in cui il Giudice assume un ruolo pervasivo e

direttivo della gestione e liquidazione del patrimonio del fallito; e un

modello privatistico, in cui il potere giurisdizionale resta completamente

estraneo alla funzione gestoria e liquidatoria affidata ai privati interessati,

limitandosi esclusivamente a risolvere le controversie giudiziali che

dovessero insorgere.

Massimo Fabiani non ritiene che si debba parlare di

“privatizzazione” (o di “degiurisdizionalizzazione”) delle procedure

concorsuali, poiché sino a quando esse restano procedure giudiziali è

improprio connotarle in termini puramente privatistici. Non v’è dubbio,

tuttavia, che l’autonomia negoziale di debitore e creditori è ampiamente

valorizzata dalla riforma e che il tentativo operato è stato quello di

 perseguire una maggiore efficienza delle soluzioni alle crisi d’impresa

 proprio spostando l’accento dal ruolo direttivo assegnato in passato

all’organo giurisdizionale al ruolo che debitore e creditori possono più

direttamente giocare sia nella fase prefallimentare, mediante accordi fra gli

interessati, sia nella stessa fase fallimentare, mediante il protagonismo

attribuito ai creditori, che sono portatori degli interessi maggiormente lesi

dall’insolvenza.

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Ora, la giustificazione teorica di questo protagonismo dei creditori

 può essere ricercata nella tesi dello spostamento di titolarità del patrimonio

insolvente in capo alla massa dei creditori proprio per effetto della

insolvenza giudizialmente accertata ovvero, come a me pare più corretto,

nella tesi dell’esproprio del solo potere gestorio dal debitore ai creditori; ma

tutto ciò non modifica l’opzione di fondo. La procedura fallimentare assolve

innanzitutto ad una funzione satisfattiva delle ragioni dei creditori, è ad essa

strumentale; ed anche la finalità di valorizzare e salvaguardare gli“organismi produttivi” nella procedura concorsuale non può che essere

subordinata alla finalità satisfattiva dei creditori.

A me pare che sia importante ribadire il principio per cui il

fallimento persegue la finalità primaria della soddisfazione dei creditori,

anche per non trasformare gli istituti concorsuali in occasioni di pura

speculazione. Un recente decreto del Tribunale di Roma respinge una

 proposta di concordato fallimentare avanzata da un terzo, proposta che pur 

 prevedeva la soddisfazione integrale dei creditori, ma a fronte

dell’acquisizione di un patrimonio immobiliare del fallito ad un prezzo di

gran lunga inferiore al valore di mercato dello stesso.

La procedura serve a soddisfare le ragioni dei creditori, ma non può

tradursi in una espropriazione ingiustificata di quanto compete comunque al

debitore.

Così inquadrata la logica del “modello privatistico”, ben si

comprende qual è il ruolo che è chiamato ad assolvere il comitato dei

creditori, quale organo esponenziale degli interessi della massa dei creditori.

3. Il comitato agisce nell’interesse di tutti i creditori concorsuali. Di

qui la particolare attenzione posta dall’art. 40 l. fall. sulla nomina dei

componenti.

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Innanzi tutto sul piano della tempestività: non c’è più bisogno di

attendere il deposito e l’esecutività dello stato passivo. Il giudice delegato è

investito del potere di nomina sin dal primo momento della dichiarazione di

fallimento, incombenza che deve comunque assolvere entro trenta giorni dal

deposito della sentenza sulla base delle “risultanze documentali”, previa

consultazione del curatore che dovrebbe essere già in possesso della

contabilità e dei creditori che abbiano dato la propria disponibilità o abbiano

segnalato nominativi di altri creditori idonei, sia con la propria domanda diammissione al passivo sia con altra apposita e anche precedente

comunicazione. Non v’è dubbio che in questa fase, così anticipata, possono

sorgere concrete difficoltà, soprattutto sul piano della equilibrata

rappresentatività dei componenti il comitato. Ma proprio per questo siamo

di fronte ad una sorta di “nomina provvisoria”, allo stato degli atti. Né va

dimenticato che il legislatore indica un numero minimo e un numero

massimo, in tre o in cinque membri. Il giudice delegato, insomma, proprio

in considerazione della più compiuta verifica dello stato passivo o per altro

giustificato motivo potrà modificare la composizione numerica e qualitativa

del comitato, ad esempio aumentando o diminuendo il numero dei

componenti o ancora modificando alcuni componenti in relazione alle

risultanze dello stato passivo definitivo. A mio avviso la norma è

sufficientemente flessibile, per cui legittima una modifica del comitato in

corso d’opera, anche in relazione alla concreta rappresentatività degli

interessi in gioco nel corso della procedura. Nel “giustificato motivo”

(formula ampia, in cui possono ricomprendersi motivi soggettivi – 

concernenti il singolo componente – e motivi oggettivi – concernenti lo

stato della procedura) può configurarsi, ad esempio, anche la situazione

conseguente ad avvenuti riparti, per cui mano a mano che i creditori

vengono soddisfatti il giudice delegato potrebbe rivedere la composizione

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del comitato e adeguarla ad una migliore rappresentatività dei creditori

residui che mantengono un reale interesse alla procedura.

Il carattere esponenziale del comitato dei creditori è confermato non

solo dalla modularità della sua composizione nelle varie fasi della

 procedura, di cui è interprete il giudice delegato, ma altresì dallo speciale

 potere di cui è investita la collettività dei creditori in sede di “adunanza per 

l’esame dello stato passivo” ai sensi dell’art. 37– bis l. fall. I creditori

 presenti che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi, “possonoeffettuare nuove designazioni” in merito ai componenti del comitato e il

Tribunale (non più il giudice delegato) provvede alla nomina dei soggetti

designati sul solo presupposto che siano rispettati i criteri numerici e

qualitativi disposti dall’art. 40.

E a tal riguardo la norma indica criteri certamente ragionevoli per 

evitare il prevalere di alcune categorie a discapito di altre, allorché

sottolinea che la composizione del comitato deve tener conto di una

“equilibrata” rappresentatività dei creditori per quantità e qualità dei crediti

da essi recati e in relazione alla “possibilità di soddisfacimento” degli stessi,

contro fenomeni di disimpegno per mancanza di concreto interesse.

In definitiva i criteri di composizione del comitato appaiono flessibili

e al contempo idonei, se ben applicati, a garantire un organo rappresentativo

ed altresì professionalizzato, considerato che ciascun creditore che venga

nominato a tale carica può delegare le proprie funzioni ad un professionista

qualificato (art. 40, ult. co., in relazione all’art. 28 l. fall.).

4. Ai meccanismi di nomina si accompagnano ovviamente i nuovi

 poteri attribuiti al comitato, non più meramente consultivi né

immediatamente gestori (funzione che compete al curatore), ma

autorizzatori e perciò direttivi delle operazioni gestorie e liquidatorie della

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 procedura. E’ un potere che nella disciplina del ’42 si ripartiva fra giudice

delegato e Tribunale, soprattutto per gli atti di straordinaria

amministrazione. Ambedue organi giurisdizionali, cui oggi il legislatore

 parrebbe sottrarre il potere autorizzatorio per incardinarlo nel comitato dei

creditori; e ciò del tutto in linea con l’ispirazione di fondo. Se è vero che

l’interesse primario da realizzare con la procedura fallimentare è la

soddisfazione delle ragioni dei creditori, allora ad essi deve competere – per 

il tramite del loro organo esponenziale – la valutazione di “convenienzaeconomica” degli atti gestori e liquidatori del patrimonio del fallito.

Lo spostamento del potere autorizzatorio in capo al comitato dei

creditori, dunque, si fonda sul tradizionale principio per cui il miglior 

giudice dell’interesse da perseguire è, in via di principio, il titolare di

quell’interesse e non un terzo, sia pure imparziale.

Il ricavato degli atti liquidatori (e gli effetti degli stessi atti

conservativi) ridondano a vantaggio innanzi tutto dei creditori che su di esso

devono trovare concorsuale soddisfazione. Gli atti gestori e liquidatori del

curatore, dunque, devono essere autorizzati dal comitato dei creditori (art.

41, co. 1°, l. fall.).

La norma, in verità, attribuisce al comitato anche funzioni

consultative nei casi previsti dalla legge o su richiesta del Tribunale o del

giudice delegato. E sin qui, mi sembra che tale compito si sposi con la

 principale funzione autorizzatoria dell’organo. Ma gli attribuisce anche una

funzione di vigilanza sull’operato del curatore, funzione a mio avviso

impropria se non intesa in senso restrittivo e strumentale al compito

decisionale che è proprio del comitato. In altre parole è certo ben più

corretto parlare di “vigilanza” del giudice delegato sull’amministrazione e le

operazioni compiute dal curatore (art. 31, co. 1°, l. fall.); del resto al giudice

delegato spettano più in generale “funzioni di vigilanza e di controllo sulla

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regolarità della procedura” (art. 25 l. fall.), così come il Tribunale “è

investito dell’intera procedura fallimentare”. La funzione di vigilanza,

insomma, è più consona all’Autorità Giudiziaria, che esercita altresì i poteri

sanzionatori conseguenti alla rilevazione di irregolarità e inadempienze nel

corso di quell’attività di controllo.

Ma al Comitato dei creditori quel potere di vigilanza è assegnato

“nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite”, come dispone l’art. 31, co.

1°, l. fall. e dunque strumentalmente a compiti autorizzatori e consultivi cheè chiamato ad assolvere. Sì che il comitato, collegialmente, ma anche ogni

suo singolo componente possono ispezionare in qualunque tempo le

scritture contabili e i documenti della procedura; possono chiedere notizie e

chiarimenti al curatore (e al fallito) (art. 41, co. 5°, l. fall.). Il comitato può

altresì chiedere al Tribunale la revoca del curatore (art. 37), ma parlare di

vigilanza sul curatore continua a sembrarmi funzione del tutto

impropriamente ad esso attribuita.

Del resto, una interpretazione restrittiva di questo compito in capo al

comitato dei creditori parrebbe trovare oggi un avallo ulteriore nella

riformulazione del rinvio operato, in tema di responsabilità dei componenti

il comitato, all’art. 2407 c.c. dal penultimo comma dell’art. 41 l. fall., in

forza del quale non è più richiamato (dopo il decreto correttivo) anche il

secondo comma di quella norma, ma solo il primo e il terzo. A parte la

 problematicità del rinvio in sé considerato, è certo che il mancato richiamo

del secondo comma dell’art. 2407 esclude che si possa invocare a danno del

comitato una responsabilità per omessa vigilanza sul curatore, insomma che

esso possa essere chiamato a rispondere secondo il noto criterio della

responsabilità solidale e concorrente del vigilante per i fatti o le omissioni

del curatore, ove il danno non si sarebbe prodotto se avesse vigilato in

conformità agli obblighi della propria carica.

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5. Questo il disegno di base con una sua certa logicità e coerenza.

Senonchè, e qui vengo all’ultimo aspetto del mio intervento, un tale disegno

risulta minato da una serie di regole, sparse qua e là e ulteriormente

aggravate dal decreto correttivo, per cui gli esiti della riforma possono dirsi

in qualche modo scontati. Con una mano si dà e con l’altra si toglie, sì che

 prevale nella prassi una sorta di implicita controriforma.

Punti di emersione di questo “controcanto” appaiono gli istituti

dell’esercizio provvisorio (art. 104 l. fall.), dell’affitto di azienda (art. 104 – bis l. fall.) e del programma di liquidazione (art. 104 – ter l. fall.).

Il potere autorizzatorio dell’Autorità Giudiziaria riemerge in barba

ad ogni proclama innovativo.

L’esercizio provvisorio può essere disposto dal Tribunale in sede di

sentenza dichiarativa, sotto una duplice condizione, positiva (evitare che

l’interruzione dell’attività determini un “danno grave” evidentemente al

 patrimonio aziendale) e negativa (purchè l’esercizio non arrechi

“pregiudizio ai creditori”). In un momento successivo, pur quando è già

funzionante il comitato dei creditori, il potere autorizzatorio si sposta dal

Tribunale al giudice delegato, benché su proposta del curatore e sentito

“favorevolmente” il comitato stesso. Può ben comprendersi che il Tribunale,

nella fase iniziale e in mancanza della costituzione degli altri organi

fallimentari, adotti in via d’urgenza e di supplenza una decisione che compie

in sostanza una valutazione di opportunità e convenienza per conto della

massa dei creditori. Meno comprensibile è che tale potere continui ad essere

incardinato nel giudice delegato quando il comitato è già stato formato,

 benché quel potere sia limitato da un parere vincolante del comitato

medesimo e dunque da una valutazione di opportunità e convenienza in

capo all’organo esponenziale degli interessi creditori.

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Giudizio di opportunità del comitato che, peraltro, sembra poter 

impedire in qualsiasi momento la prosecuzione dell’esercizio provvisorio,

quando il comitato dovesse esprimere un parere contrario nel corso di un

esercizio già avviato. Ma se il potere del giudice delegato, in termini positivi

o negativi, è sempre condizionato al conforme vincolante parere del

comitato, non così accade per il Tribunale cui permane, in concorrenza, il

 potere di ordinare la cessazione dell’esercizio provvisorio in qualsiasi

momento e laddove ne ravvisi l’opportunità, pur sentiti curatore e comitato(ma non necessariamente in senso conforme).

La confusione dei ruoli e delle funzioni, come si può notare,

raggiunge in questo controdisegno il parossismo.

Il modello è destinato a ripetersi nel caso dell’affitto di azienda,

quando esso sia disposto ancor prima della presentazione del programma di

liquidazione. Su proposta del curatore e previo parere favorevole (e dunque

vincolante) del comitato dei creditori, l’affitto di azienda viene autorizzato

dal giudice delegato “quando appaia utile al fine della proficua vendita

dell’azienda o di parti di essa”. Nel che, come per l’esercizio provvisorio, è

insito un giudizio di merito rimesso all’organo giurisdizionale della

 procedura, con buona pace del disegno generale recato dall’art. 25 l. fall. in

cui i poteri del giudice delegato parrebbero connotarsi solo in termini “di

vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura” e non anche in

termini di partecipazione attiva all’amministrazione del patrimonio

fallimentare.

Ma è nella formazione del “programma liquidatorio” che il

legislatore raggiunge il massimo dell’ipocrisia riformatrice ed evidenzia il

 proprio intento controriformatore.

 Nei progetti Trevisanato il “programma di liquidazione” non voleva

essere né un libro dei sogni né una camicia di forza. Era concepito (e ne

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rivendico l’idea originaria, invero subito accolta dagli altri componenti della

Commissione di studio) alla stregua di uno strumento autorizzatorio

generale per gli atti di amministrazione e liquidazione del curatore.

A prescindere da chi dovesse essere il titolare del potere

autorizzatorio (Tribunale, Giudice delegato, comitato dei creditori),

l’esigenza di base era quella di snellire e velocizzare il compito gestorio e

liquidatorio del curatore e di rendere trasparente il suo operato, nella misura

in cui egli si fosse attenuto a quanto già previamente autorizzato.Per questo il programma di liquidazione non poteva e non doveva

risolversi in una mera “dichiarazione di intenti”, come ha giustamente

sottolineato il dott. Fontana. Doveva e deve essere sufficientemente

specifico, poiché - una volta approvato - il curatore avrebbe dovuto andare

avanti da solo, certo sotto la vigilanza continua degli organi giurisdizionali e

con l’obbligo di una informativa e rendicontazione periodica e continua, ma

 pur sempre con una piena autonomia di iniziativa conforme al già delineato

 programma.

E ciò spiega perché il testo originario (ora abrogato) dell’art. 104– ter 

l. fall. disponesse che “l’approvazione del programma di liquidazione tiene

luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie ai sensi della

 presente legge per l’adozione di atti o l’effettuazione di operazioni inclusi

nel programma”.

Ma il decreto correttivo ha arretrato su tutta la linea. Se per un verso

sembra cedere alla “nouvelle vague” di un potere autorizzatorio (anzi, la

legge parla di “approvazione”, nel che forse vi è un potere più intenso di

quello puramente autorizzatorio, posto che il comitato può proporre al

curatore modifiche al programma presentato) che si incardina nel comitato

dei creditori e che parrebbe escludere nella fase formativa ogni ingerenza

del giudice delegato, per altro verso ripristina una “autorizzazione

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singolare”, atto per atto, da rilasciarsi dal giudice delegato per “l’esecuzione

degli atti conformi” al programma di liquidazione.

Il programma di liquidazione, ora enfatizzato come “l’atto di

 pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e ai termini previsti per 

la realizzazione dell’attivo”, è sostanzialmente svuotato di forza precettiva e

sollecitatoria.

Il giudice delegato autorizza gli atti di esecuzione del programma e

ovviamente parrebbe dover compiere innanzi tutto una valutazione dilegittimità, meglio di “conformità” dell’atto esecutivo al programma.

Senonchè egli non perde il potere di vigilanza e controllo sulla “regolarità”

della procedura (art. 25 l. fall.), sì che non solo dovrebbe poter convocare

curatore e comitato “ogni qualvolta lo ravvisi opportuno per il corretto e

sollecito svolgimento della procedura” (art. 25, co. 1°, n. 3), ma dovrebbe

allora poter adottare – a fronte di un atto del programma di liquidazione che

egli dovesse reputare irregolare – il diniego di autorizzazione anche se per 

ipotesi l’atto esecutivo risulti conforme al programma approvato. E badate,

sin qui si potrebbe ritenere che tutto proceda secondo un accettabile disegno

di ripartizione dei ruoli: controllo di convenienza e opportunità in fase

approvativa esercitato dal comitato; controllo di legittimità o regolarità del

singolo atto od operazione esercitato dal giudice delegato in fase di

“autorizzazione singolare”.

Ma potrebbe spingersi il controllo autorizzatorio del giudice delegato

sino al punto da compiere altresì la valutazione di merito, di opportunità e

convenienza dell’atto, sovrapponendo il proprio definitivo giudizio a quello

del comitato dei creditori?

 Non mancano indici che potrebbero orientare l’interprete in una tale

direzione. Innanzi tutto il termine “autorizza” rinvia normalmente anche ad

una valutazione di merito. Così come di merito può essere il giudizio

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autorizzatorio espresso sugli atti liquidatori del curatore da compiere ancor 

 prima dell’approvazione del programma, benché solo nel caso in cui il

“ritardo” può determinare “pregiudizio all’interesse dei creditori” e pur 

sentito (ma non necessariamente in senso conforme) il comitato dei

creditori. E ancora di merito sembra l’intervento autorizzatorio del giudice

delegato per l’esercizio provvisorio e per l’affitto di azienda ante

 programma di liquidazione. Sì che ha buon gioco chi osserva che non si può

 pensare che il giudizio di merito, espresso dal giudice delegato primadell’approvazione del programma di liquidazione su tali atti indubbiamente

straordinari, scompaia poi solo perché quegli atti vengano inseriti in un

 programma di liquidazione approvato dal comitato dei creditori.

 Non intendo prendere posizione, in questa sede, su quale sia la

soluzione più sistematicamente appropriata da fornire al quesito

sull’estensione del giudizio autorizzatorio del giudice delegato in sede di atti

esecutivi del programma di liquidazione. Mi limito ad osservare che, se non

siamo allo “scherzo da operetta”, poco ci manca.

6. L’istituto del comitato dei creditori, voluto come simbolo di una

innovazione radicale nella riforma delle procedure concorsuali, esce

sabotato dallo stesso legislatore alla fine dei molteplici “atti” (ricordo

l’espressione usata da Luciano Panzani) con cui è stato scandito il processo

riformatore.

E in verità esso già nasceva, sin dal primo atto, minato alla base dalla

sua disciplina – per così dire – di contorno, che ne ha condizionato

fortemente l’avvio. Non c’è solo un problema di mentalità che deve

modificarsi e di una abitudine inveterata ad un comitato che ha sempre

svolto il ruolo della “bella statuina”.

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Regime del compenso (art. 41, co. 6°, e art. 37– bis, co. 3°, l. fall.) e

regime di responsabilità (art. 41, co. 7° e 8°, l. fall.) hanno sin da subito reso

 poco appetibile il comitato, sì da rendere normale e non già eccezionale il

 potere sostitutivo del giudice delegato (art. 41, co. 4°, l. fall.).

Al di là del rimborso spese, che dovrebbe essere garantito ai

componenti del comitato (e con i fallimenti senza attivo, forse che subentra

lo Stato?), il compenso è solo del tutto eventuale, rimesso com’è alla

discrezionale decisione della maggioranza “numerica” dei creditori ammessie presenti all’adunanza per l’esame dello stato passivo, nei limiti peraltro del

dieci per cento (si ritiene complessivo per l’intero comitato) di quello

liquidato al curatore.

La responsabilità è certo il “pendant” del potere autorizzatorio e

decisionale attribuito al comitato; ma a parte la difficoltà di modellare il

relativo regime sulla falsariga dell’organo sindacale delle società azionarie

laddove il comitato svolge funzioni ben più pregnanti di quelle di mero

controllo sul curatore, a parte l’attenuazione arrecata dal decreto correttivo

con la eliminazione del richiamo alla responsabilità concorrente, forse il

regime è troppo sommariamente ed omogeneamente delineato, senza

distinguere fra gratuità e onerosità dell’incarico.

 Dulcis in fundo, l’inerzia, l’impossibilità di costituzione (per 

insufficienza di numero o indisponibilità dei creditori) o di funzionamento

(evidentemente per continuata mancata riunione) del comitato, o anche solo

in caso di urgenza, le funzioni del comitato vengono riprese in pieno dal

giudice delegato. E badate bene, quale che sia quella funzione, anche solo

meramente consultiva e non solo decisoria.

V’è chi ha suggerito che l’inerzia o il mancato funzionamento del

comitato non dovrebbe sanzionarsi con l’intervento sostitutivo del giudice

delegato, ma con un “arresto” della procedura, sì da responsabilizzare in

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 pieno la massa dei creditori. In una logica di reale coinvolgimento dei

creditori alla direzione della procedura, essi dovrebbero sapere che il

malfunzionamento del comitato può pregiudicare notevolmente le loro

ragioni e dovrebbero allora attivarsi per sostituire e comunque

adeguatamente stimolare il comitato ad assolvere compiutamente le proprie

funzioni.

Ma forse, come ben ha osservato Alberto Jorio, tutto milita contro

l’efficienza dell’istituto del comitato dei creditori, poiché proprio laddove siverificano le insolvenze maggiori, in cui più concreto ed attuale potrebbe

essere l’interesse dei creditori anche forti ad impegnarsi nell’attivazione di

un comitato professionalizzato e funzionale, il fallimento è procedura del

tutto residuale, sostituito dalle variegate e incessantemente rinnovantesi

“edizioni” dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

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