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SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO DI SAN MATTEO DELLE CHIAVICHE Istituto comprensivo Dosolo, Pomponesco, S.Matteo RICERCA DI STORIA LOCALE E STORIA DELL’ARTE a cura degli alunni della classe IIA a.s. 2013-2014

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SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO

DI SAN MATTEO DELLE CHIAVICHE

Istituto comprensivo Dosolo, Pomponesco, S.Matteo

RICERCA DI STORIA LOCALE

E STORIA DELL’ARTE

a cura degli alunni

della classe IIA

a.s. 2013-2014

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Indice

Capitolo 1: l’ascesa dei Gonzaga p.4

Da capitani a duchi

Capitolo 2: le donne di casa Gonzaga p.7

Agnese Visconti

Paola Malatesta

Cecilia Gonzaga

Barbara di Brandeburgo

Una donna del Rinascimento: Isabella D’Este p.9

Capitolo 3: il Palazzo Ducale (Introduzione) p.11

Quadro del Morone p.12

Sala del Pisanello p.13

Sala di Manto p.15

Sala Arcieri p.16

Sala di Troia p.17

Sala dei Fiumi p.18

Sala degli Specchi p.19

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Appartamento di Isabella (lo studiolo) p.20

Appartamento di Vincenzo p.22

Galleria del Passerino e della Metamorfosi p.23

Capitolo 4: il Palazzo Te (introduzione) p.24

Giulio Romano e il palazzo p.25

Camera del Sole p.27

Camera di Ovidio p.27

Sala di Amore e Psiche p.28

Sala dello Zodiaco p.31

Sala dei Giganti p.32

Sala dei Cavalli p.33

Capitolo 5: La basilica di Sant’Andrea p.34

S. Longino e i Sacri vasi p.35

Interno di Sant’Andrea e tomba del Mantegna p.37

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di Manjot Singh

La famiglia dei Corradi di Gonzaga viveva all’ombra del monastero di

S.Benedetto in Polirone, fondato dai Conossa. I vasti terreni dei monaci

venivano dati in affitto o donati a chi si impegnava a coltivarli; così i Corradi

divennero ricchi proprietari terrieri e presto si trasferirono in città, dove

divennero i sostenitori della famiglia dei Bonacolsi, quando questi presero la

città, trasformandola in signoria, nel 1273. Finì in quell’anno l’epoca comunale

mantovana.

Nel 1328 Rinaldo Bonacolsi, detto il Passerino, fu tradito da Luigi della famiglia

dei Gonzaga; il 16 Agosto, in una notte di tradimenti ed attacchi, fu cacciato e

ucciso da Luigi della famiglia dei Gonzaga, aiutato da Cangrande della scala di

Verona, come ben racconta il quadro del Morone, conservato nel palazzo

Ducale.

Iniziò così la lunga dinastia dei Gonzaga, che terminerà solo nel 1707, quando

Mantova finirà sotto l’impero asburgico e perderà la sua autonomia.

Per consolidare il loro potere attuarono una un’intensa politica matrimoniale,

stringendo o sciogliendo di volta in volta alleanze con le famiglie potenti

italiane ed europee. La loro fortuna fu senz’altro segnata dall’alleanza con la

potente famiglia degli Sforza di Milano ma anche dal loro schierarsi a favore

dell’Imperatore, grazie al quale ottennero la carica di capitani e poi i titoli

nobiliari di marchesi e duchi.

LUIGI

Nato nel 1268, visse a lungo e si sposò tre volte, firmando così alleanze con

famiglie importanti dell’epoca come i Malaspina e i Malatesta. Le tre mogli

aumentarono i capitali della famiglia, grazie alle doti che portarono con sé.

Dopo il colpo di stato da lui organizzato contro il Passerino, il 28 agosto 1328

Luigi venne eletto capitano di Mantova. Lo stesso, nel 1335, divenne vicario

imperiale di Mantova e signore di Reggio Emilia. Luigi morì il 18 gennaio 1360,

lasciando al figlio Guido il titolo di capitano.

LUDOVICO II

A Gianfrancesco fu concesso il titolo di marchese dall’imperatore Sigismondo

nel 1433, in cambio di una somma di denaro. Fu lui a chiamare il Pisanello a

Mantova per abbellire le pareti del palazzo ducale. E fu sempre lui a chiamare a

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corte Vittorino da Feltre, umanista e futuro precettore di molti membri della

famiglia Gonzaga, tra cui il figlio Ludovico, futuro marchese di Mantova. Questi

entrò a 11 anni entrò nella scuola di Vittorino, che fu

determinante per la sua formazione. Nel 1433 sposò

Barbara di Hohenzollern di Brandeburgo, nipote

dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Poiché

anche Barbara era giovanissima e non ancora in età

da figli, frequentò la medesima scuola del marito. Nel

1451 Ludovico chiamò l’architetto Fancelli ad

introdurre lo stile rinascimentale a Mantova. Grazie

alle sue mosse politiche, Mantova prosperò e Ludovico

dimostrò di essere un vero signore del Rinascimento

anche per le sue doti di uomo d’armi e di letterato.

Chiamò il Mantegna a corte, a cui commissionò la

decorazione della “camera picta”, usata per ricevere importanti politici

dell’epoca. Sotto il suo governo, a Mantova, si svolse la dieta, a cui

parteciparono il papa, gli ambasciatori dei più potenti re europei e

dell’imperatore e i rappresentanti degli stati indipendenti come Venezia o il

ducato di Savoia. Il concilio aveva come scopo la definizione di una strategia

contro i Turchi. Grazie a questo avvenimento la città di Mantova divenne il

centro della politica internazionale dell’epoca e questo favorì la famiglia dei

Gonzaga: l’anno successivo, infatti, Ludovico ottenne che il figlio secondogenito

fosse eletto cardinale, e cioè, per la famiglia, ricchezza, potere e prestigio. Con

il papa Pio II a Mantova giunse anche Leon Battista Alberti, che

successivamente, proprio su commissione di Ludovico, realizzò le sue opere

mantovane. Dopo 34 anni di regno, Ludovico morì nella sua rocca di Goito,

probabilmente di pleurite, il 12 giugno 1478.

FRANCESCO II

Nato nel 1466 dal III marchese di Mantova, Federico I, fu presto promesso

sposo alla figlia di Ercole D’Este, colei che diventerà la regina del

Rinascimento: Isabella D’Este. Francesco si dedicò soprattutto all’arte della

guerra, per ingrandire e potenziare il suo stato,

mentre la diplomazia politica fu lasciata nelle mani

della saggia e venerata moglie. Francesco II fu il

primo della casata a portare la barba come facevano

gli antichi Romani: molti successivamente lo

imitarono. Nonostante l’interesse per la guerra, non si

sottrasse al fascino della cultura e dell’arte: fu lui a

commissionare al Mantegna il ciclo pittorico dei trionfi

di Cesare. Fu fatto prigioniero dei Veneziani, poiché

partecipò alla lega di Cambrai contro Venezia. Grazie

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all’intercessione della moglie, fu rilasciato. Morì il 19 marzo 1519.

FEDERICO II

Nacque nel 1500 e aveva solo 19 anni quando suo

padre, Francesco II, morì e lui divenne quinto

marchese di Mantova. Già nel 1517 era stato stabilito

l’accordo matrimoniale che legava il giovane Federico

diciassettenne a Maria Paleologa, di 8 anni: la

celebrazione delle nozze avvenne nello stesso anno a

Casale del Monferrato, la terra della sposa. Sposando

Maria Paleologa, Federico II sarebbe dovuto

diventare marchese del Monferrato, ricca terra da

sempre desiderata da principi, ma il suocero morì prima di inoltrare tale

richiesta all’imperatore Carlo V. Nel frattempo Federico II si legò

sentimentalmente a Isabella Boschetti, anche lei sposata, dalla quale ebbe un

figlio, Alessandro e per la quale fece costruire il palazzo Te. Nel 1524, infatti,

chiamò a Mantova Giulio Romano, il più prestigioso allievo di Raffaello, per

realizzare una villa adatta ai suoi divertimenti. Ma nel 1527 arrivò a Mantova

dal Monferrato la moglie legittima, appoggiata da Isabella D’Este, la madre che

non aveva mai perdonato al figlio la relazione extraconiugale illegittima. Nel

1528 Isabella Boschetti subì un tentativo di avvelenamento: Federico accusò la

moglie e chiese e ottenne l’annullamento delle sue nozze con Maria; tuttavia se

la riprese dopo la morte del fratello di lei, per ottenere il Monferrato: ci riuscì.

Ma poiché Maria morì, egli sposò la sorella Margherita. Nel 1530 Federico si

trovò ad ospitare a Mantova l’imperatore Carlo V d’Asburgo, diretto a Roma e

da questi ottenne il titolo nobiliare di duca. Federico morì a 40 anni nella

residenza di Marmirolo, dove si era ritirato dopo essersi ammalato.

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di Taha Berrou

Agnese Visconti

Nasce a Milano nel 1363 dalla famiglia nobile dei Visconti,

signori della città lombarda; il padre è Bernabò Visconti e

la madre Beatrice della Scala, i famosi Scaligeri che hanno

aiutato i Gonzaga a prendere il potere a Mantova,

spodestando i Bonacolsi.

Nel 1375 è promessa in sposa a Francesco I Gonzaga

all’età di soli 14 anni e quell’anno arriva a Mantova. Viene

descritta dalla cronache come bruttina, malaticcia e triste.

Tuttavia ben presto viene accusata di adulterio dal marito: si dice che l’abbia

tradito con un certo Antonio da Scandiano, ma prove non furono mai trovate.

In realtà il falso tradimento è inventato dal marito per liberarsi della

principessa milanese e sposare così Margherita Malatesta, matrimonio che

serviva a rafforzare l’alleanza tra le due famiglie e a dimostrare fedeltà verso

Gian Galeazzo Sforza, che aveva spodestato i Visconti a Milano. Agnese, fedele

al padre, viene decapitata il 7 febbraio 1391 con il falso amante e i due

seppelliti in piazza Pallone. Per questo ancora oggi una leggenda narra che il

suo fantasma si aggiri nella piazza in cerca di giustizia.

Paola Malatesta

Nasce a Pesaro nel 1393. È figlia di Malatesta IV della

famiglia Malatesta, condottiero e signore di Pesaro e di

Fossombrone, e di Elisabetta da Varano.

Nel 22 agosto 1409 sposa Gianfrancesco Gonzaga. Hanno

sei figli. Paola Malatesta porta ai Gonzaga la gobba, una

malformazione che verrà ereditata per generazioni dai

discendenti della famiglia mantovana, diventando un loro

difetto. Dopo la morte del marito, si ritira nel convento di

Santa Paola, da lei stessa fondato nel 1420, a Mantova.

Muore nel 1449.

Cecilia Gonzaga

Nasce a Mantova nel 1426 ed è figlia del marchese Gianfrancesco Gonzaga e di

Paola Malatesta.

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Cecilia è passata alla storia come una donna forte e determinata in un periodo

dominato dagli uomini, in cui le donne non possono nemmeno scegliere la loro

vita. Si dice che da piccola già all’età di sette anni sapesse parlare il greco

benissimo e fosse un’allieva di brillante intelligenza

della scuola “Ca’ Gioiosa”, fondata dal grande umanista

e maestro Vittorino da Feltre. Il padre la promette in

sposa ad Oddantonio da Montefelto, duca d’Urbino,

nonostante lei voglia diventare monaca. Ma alla morte

del padre, avvenuta nel 1441, riesce a realizzare il suo

sogno. Entra così nel monastero della madre, dove

muore nel 1451.

La medaglia qui riportata le fu regalata dal fratello, che

la fece realizzare dal famoso artista Pisanello. Cecilia è ritratta seduta su rocce,

mentre accarezza con tranquillità la testa di un unicorno (raffigurato come una

sorta di caprone con lungo corno dritto in fronte), mansuetamente

accovacciato in primo piano. Secondo la mitologia greca, gli unicorni erano

bestie feroci e selvagge, catturabili solo da vergini, per cui la sua presenza è

un evidente richiamo alla virtù della fanciulla. Anche la falce di luna sullo

sfondo rimanda a Diana, la mitica dea vergine.

Barbara di Brandeburgo

Barbara Hohenzollern di Brandeburgo, figlia di Giovanni, uno

dei principi elettori dell’imperatore, lei stessa nipote

dell’imperatore Sigismondo, nasce il 30 settembre 1423 e

viene a Mantova da bambina, a 10 anni, per sposare

Ludovico II Gonzaga, da cui avrà ben sette figli. L’alleanza

con l’imperatore, che aveva portato ai Gonzaga il titolo di

marchesi, rafforza il potere della casata mantovana. Anche

lei, essendo bambina, studia con gli altri componenti della

famiglia, nella scuola di Vittorino da Feltre, divenendo una

delle più importanti figure del Rinascimento italiano. Impara quattro lingue e

diviene un’esperta di letteratura. Ma soprattutto è una donna intelligente che,

insieme al marito, amministra e ingrandisce il patrimonio di famiglia. Insieme a

tutta la sua famiglia, è ritratta da Andrea Mantegna nella famosa “Camera

degli sposi”.

È grazie a lei che il famoso dolce natalizio, l’anello di Monaco, arriva a Mantova

e diventa uno dei dolci caratteristici del periodo natalizio. Muore nel 1481.

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UNA DONNA DEL RINASCIMENTO: ISABELLA D’ESTE

di Aurora Minelli

INTRODUZIONE

Isabella d’Este, moglie di Francesco II, è ricordata come “prima donna del

Rinascimento italiano”.

Era una donna bella, affascinante, intelligente e

con carattere fermo e volitivo, amante delle arti

e del lusso, capace di dettare la moda all’intera

Europa, reggere lo Stato in assenza del

marito, consapevole della sa influenza nella

politica internazionale, tanto che si definisce

“nipote dei re d’Aragona, figlia e sorella

dei duchi di Ferrara, coniuge e madre dei

marchesi e duchi Gonzaga”.

LA VITA

Isabella nacque il 17 maggio 1474 da Ercole I

d’Este e Eleonora, figlia di Ferdinando I

d’Aragona, re di Napoli. La sorella di

Beatrice d’ Este, duchessa di Milano e moglie di Ludovico Sforza, non la

eguaglierà mai per peso politico e abilità diplomatiche.

Il 28 maggio 1480 venne creato il contratto nuziale tra gli Este e i Gonzaga. Il

suo promesso sposo, Francesco II, all’epoca non aveva ancora 14 anni; mentre

lei ne aveva solo 6. Perciò il matrimonio avvenne dopo sette anni e fu

celebrato a Ferrara, il 12 febbraio 1490. L’obbiettivo dell’unione era legare le

due capitali e Milano. Nel 1509 governò da sola Mantova in assenza del marito,

catturato dai Veneziani. Alla morte del marito gli succedette il figlio, ma

essendo troppo piccolo, la madre esercitò la funzione di reggente. Quando tre

anni dopo il figlio prese il comando, iniziarono le divergenze con il figlio, che

aveva ereditato tutte le debolezze del padre. Decise perciò di viaggiare per le

corti milanese, napoletana e romana. Nel 1527 fu testimone del sacco di Roma

e il suo palazzo fu l’unico a non essere saccheggiato. Nel 1530 assistette

all’incoronazione dell’imperatore Carlo V a Bologna. Ritornata a Mantova, si

ritirò prima nella reggia gonzaghesca di Marmirolo, poi in quella di Solarolo,

dove morì nella notte tra il 13 e il 14 febbraio del 1539 all’età di 65 anni.

LA VITA SOCIALE E CULTURALE

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Isabella, quando arrivò a Mantova, si innamorò subito della corte mantovana e

diede il suo contributo per crearvi un nuovo clima culturale. Divenne padrona

di un’importante corte di letterati e di musicisti, chiamati a Mantova proprio da

lei. Fu anche in relazione coi maggiori artisti del tempo come Mantegna e

Leonardo. Ad Aldo Manuzio, tipografo veneziano, ordinò migliaia di libri, dando

vita ad una delle più complete e aggiornate biblioteche personali di corte

dell’epoca, in cui trovarono posto libri di letteratura classica latina e greca,

testi di filosofia, romanzi cavallereschi dei cicli bretone e carolingio, raccolte di

poeti e classici della letteratura italiana del Duecento e del Trecento, opere di

artisti suoi contemporanei. Lei stessa ebbe modo di conoscere Ludovico

Ariosto, artista ospite alla corte estense, e di seguirà la stesura del suo poema

“L’Orlando furioso”. Isabella spendeva molto denaro on solo in libri, quadri,

medaglioni e statue (divenne un’appassionata collezionista di sculture

romane), ma anche in vestiti e gioielli, tanto da diventare il riferimento del

mondo occidentale riguardo alla moda, al galateo, alla cosmesi e alla bellezza.

Fu un’ottima musicista di strumenti a corda: sosteneva che essi fossero

superiori a quelli a fiato. Sosteneva anche che la poesia fosse incompleta

finché non veniva trasposta in musica.

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di Giulio Longo

Il palazzo Ducale è considerato da molti una vera città. Infatti è costituito da

vari edifici, collegati tra loro da corridoi, cortili e gallerie, le cui parti sono state

costruite in epoche diverse.

I nuclei più antichi del palazzo risalgono al periodo precedente l’arrivo dei

Gonzaga. Ambienti distinti e separati tra loro furono costruiti in epoche diverse

a partire dal XIII secolo, inizialmente per opera della famiglia Bonacolsi.

L’edificio, destinato a residenza ufficiale del capitano del popolo e del podestà

in epoca medievale, appartenne poi ai Bonacolsi, fino a quando i Gonzaga

presero la città con la forza e quindi si insediarono nel palazzo.

Il primo nucleo dello stabile, commissionato a spese del comune da Guido

Bonacolsi, fu realizzato su un’area della contrada di sant’Alessandro,

demolendone le strutture architettoniche che la occupavano.

Nel 1352 Luigi Corradi fece erigere nuove mura intorno alla città. Francesco

fece costruire il castello di S. Giorgio, composto da quattro torri merlate e da

un cortile interno; esso ebbe una funzione militare, in quanto nelle segrete

venivano rinchiusi i prigionieri di guerra. Il figlio GianFrancesco ristrutturò la

cosiddetta “corte vecchia” e chiamò il Pisanello, mentre Ludovico II portò il

Rinascimento a Mantova, chiamando a corte artisti del calibro dell’architetto

Luca Fancelli, di Andrea Mantegna e Leon Battista Alberti. Fancelli realizzò la

domus nova. Francesco II continuò la ristrutturazione del palazzo e costruì

un’ala nuova, posta tra il castello e la cosiddetta “corte nuova”. Isabella fece

costruire lo splendido studiolo in perfetto gusto rinascimentale. Suo figlio

Federico, grazie all’aiuto del grande Giulio Romano, continuò i lavori sia nel

castello sia nella corte nuova. Con Guglielmo Gonzaga il palazzo diventò più

organico e venne collegato alla basilica di Santa Barbara. Egli fece costruire

l’appartamento verde e le stanze degli arazzi, volute come sale di

rappresentanza. Famosi sono gli appartamenti del figlio di Guglielmo, Vincenzo

I, i cui soffitti provengono dal palazzo di San Sebastiano. Vincenzo chiamerà a

corte il Rubens. Con il 1600 inizia il declino dei Gonzaga e anche del palazzo: i

pezzi migliori vengono venduti a Carlo I d’Inghilterra tramite un mercante

francese, nel 1628. Il saccheggio dei Lanzichenecchi e delle truppe tedesche

lascerà un segno nel palazzo. Dopo il crollo della casata, avvenuto nel 1707

con la fuga di Ferdinando Carlo, del ramo Gonzaga-Nevers, accusato di

tradimento, arrivano gli Austriaci, che insediano i loro uffici e i loro archivi. Per

buona parte del 700 e del 1800 il castello di S. Giorgio diventa sede delle

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carceri cittadine e alcune parti del palazzo vengono abbattute. Nel Novecento,

invece, comincia una fase di recupero del palazzo, che porterà alla scoperta del

ciclo del Pisanello.

di Davide Carnevali

Si accede al palazzo ducale oggi da piazza Sordello, iniziando la visita dal

vecchio nucleo della cosiddetta corte vecchia. Uno scalone monumentale

accompagana al pinao superiore, dove, nella sala di Sant’Alberto, si trova il

celebre dipinto di Domenico Morone del 1494 “La cacciata”. Narra cioè la notte

del 16 agosto 1328, in cui gli allora signori di Mantova, i Bonacolsi, furono

cacciati dai Gonzaga. La scena ha un dettaglio grottesco: Rinaldo Bonacolsi, in

fuga sul suo nero destriero, trova la morte battendo la testa sulla grata di

chiusura del palazzo dove voleva rifugiarsi. Ciò che è interessante nel quadro è

anche che esso ritrae la facciata originale del Duomo, in perfetto stile tardo

gotico e in equilibrio con gli altri palazzi della piazza. L’attuale facciata, infatti,

risale al 1756.

Il quadro del Morone

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di Davide Carnevali

Pisanello fu un pittore veronese che ben presto divenne esponente della

corrente artistica denominata “gotico fiorito o internazionale”. Chiamato a

Mantova da Gianfrancesco, per lui e la famiglia creò dipinti e medaglioni.

Rimase al servizio dei Gonzaga per circa vent’anni, Partecipò al saccheggio di

Verona del 1439, motivo per il quale, pare, fu accusato di tradimento e

allontanato da Mantova. Non poté dunque completare la sua più importante

opera mantovana, passata alla storia come il “ciclo del Pisanello”.

Fondamentalmente per una migliore comprensione dell'arte del Pisanello la

scoperta nel 1969 di un importante ciclo di sinopie (disegni preparatori per

affreschi) e affreschi con scene cavalleresche ed episodi bellici nella sala dei

Duchi nel Palazzo Ducale di Mantova.

Il Torneo-battaglia di Louvezerp è un

affresco a soggetto cavalleresco dipinto da

Pisanello tra il 1436 e il 1444 nel Palazzo

Ducale di Mantova, in particolare nell'ala

detta Corte Vecchia. Pare che a Pisanello

fosse stato chiesto di illustrare il “Lancelot”,

un romanzo che narra le imprese dei

cavalieri della Tavola Rotonda e dunque

parte del ciclo bretone. La scena venne

imbiancata in un'epoca imprecisata e riscoperta negli anni Sessanta e

immediatamente restaurata. La sala venne commissionata da Gianfrancesco

Gonzaga. Nell'opera compare infatti la sua impresa del pellicano, in un

voluminoso cappello del nano a cavallo subito sopra il luogo in cui si trova il

cavaliere dell'impresa della ricerca del santo Graal (la coppa in ci bevve Cristo

durante l’ultima cena). Se gli affreschi sono piuttosto frammentari, più

completa appare invece la sinopia. Perduta è tutta la zona inferiore della

decorazione, che venne completamente demolita e rifatta agli inizi del XIX

secolo. Il soggetto è la battaglia di Louvezerp, tratto dalla letteratura

cavalleresca. Contemporaneamente è rappresentata la scena di un torneo, che

si svolge prima della partenza degli eroici cavalieri. In questo episodio

Lancillotto e Tristano combattono alla presenza di Ginevra e Isotta e poi

partiranno alla conquista del Graal. Alcuni cavalieri portano gli stemmi dei

Gonzaga, ad indicare l’origine eroica e nobile della famiglia mantovana (motivo

La sala del Pisanello

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encomiastico). La scena, incompiuta, si estendeva sulle pareti, cercando

illusionisticamente di annullare gli spigoli ed è composta per semplici

accostamenti di figure, con una dilatazione in tutte le direzioni, senza alcun

centro focale. Ogni frammento viene analizzato e riprodotto con un'attenzione

analitica, ma manca un criterio unificatore, creando così un effetto

"caleidoscopio”. Da sottolineare la preziosa tecnica utilizzata dal pittore: la

base ad affresco è finita con colore steso a secco (tempera) e con pastiglia e

lamine metalliche (d’oro e d’argento).

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di Giovanni Perini e Maicol Malacarne

La sala di Manto, che in origine costituiva l’ingresso all’appartamento di Troia,

sistemato da Federico ll Gonzaga, deve l’aspetto attuale all’intervento di

Guglielmo, che dispose la creazione dell’appartamento grande del castello

verso la fine del VII decennio del Cinquecento. Pertanto il vasto salone

costituisce contemporaneamente l’ingresso di due diversi appartamenti. Qui

Guglielmo volle che la decorazione fosse dedicata alla celebrazione della

famiglia Gonzaga, partendo dalle origini stesse della città di Mantova. Otto

riquadri vennero dipinti a olio su muro e raccontano sulla parete est, lo sbarco

di Manto, leggendaria figlia dell’indovino Tiresia, nelle paludi del Mincio e,

proseguendo in senso orario il convito di Manto, la fondazione della città di

Mantova fatta dal figlio Ocno, tre scene di fondazioni urbane durante il

Medioevo (la costruzione di porta Leona, la costruzione di porta Pradella e la

costruzione del ponte dei Mulini) e due scene relative a lavori urbani eseguiti

dai Gonzaga (Ludovico I che fortifica la corte e Federico II che cinge la città di

mura difensive).

Il soffitto della grande sala è ligneo a cassettoni. Nella parte superiore delle

pareti ai dipinti ad olio si alternano lesene (= finte colonne incassate a rilievo

nel muro) e pannelli di stucco.

CURIOSITÀ SULL’ORIGINE DI MANTOVA

In realtà pare che Mantova abbia origine etrusche e risalga al VI secolo a.C. Il

nome deriverebbe da Mantus, una divinità infernale etrusca, a cui Ocno, suo

fondatore, l’avrebbe dedicata. Furono poi i Romani a confondere Mantus con

Manto, la maga indovina, figlia del greco indovino Tiresia, citato da Omero,

anche a causa del poeta Virgilio, che ne parlò nelle sue opere.

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di Giovanni Perini e Maicol Malacarne

All'estremità della galleria Nuova si apre la grandiosa sala degli Arcieri, nella

quale Viani sistemò, intorno al 1600, l'appartamento del duca Vincenzo. Il

nome del salone viene dall’uso destinato al corpo di guardia.

Vanto della sala sono certamente i

dipinti esposti, anch’essi

provenienti da soppressioni di

chiese e monasteri: vi è la

celebre tela del fiammingo Pietro

Paolo Rubens, consegnata alla

chiesa della Santissima Trinità

nel 1605 e già parte di un

maestoso trittico. La tela

rappresenta la famiglia Gonzaga

in adorazione della trinità: in primo

piano ci sono il duca Vincenzo

con l moglie Eleonora De Medici, più arretrati il padre di Guglielmo con la

moglie Eleonora D'Austria.

Nella sala sono conservate altre importanti opere di pittura.

L’ambiente è caratterizzato da enormi mensole parietali, decorate con figure

fantastiche, che sorreggono un soffitto sfarzoso di stucchi creati dal Viani. Alle

pareti sono invece affrescati i cavalli dei Gonzaga, loro grande passione, per i

quali erano famosi in tutte le corti d’Europa. La pittura dei cavalli è un gioco:

essi sono posti dietro a tendaggi, dai quali si vedono solo alcune parti dei loro

corpi, così da invogliare lo spettatore a riconoscerli.

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di Giovanni Perini e Maicol Malacarne

Il vasto salone da cui l'appartamento prende il nome è la sala di Troia, decorata con storie tratte dall'Iliade di Omero e dall'Eneide di Virgilio. Le

decorazioni sono di Giulio Romano e dei suoi numerosi aiutanti e risalgono al periodo tra il 1536 e il 1539. La sala e l’appartamento di cui faceva parte

furono commissionati da Federico II; essi vennero prima usati come residenza dei Gonzaga e poi come appartamento lussuoso per gli ospiti importanti. La

parte inferiore, non decorata, fino all’ultimo sacco dei Lanzichenecchi del 1630 era ricoperta da mobili che contenevano oggetti preziosi.

A partire dalla parete meridionale, da sinistra, sono rappresentate le vicende della guerra di Troia: il ratto di Elena, il sogno di Ecuba, il giudizio di Paride,

Teti consegna le armi ad Achille, il cavallo di Troia, Vulcano fabbrica lo scudo ad Achille, la morte di Laocoonte e dei suoi figli, Aiace fulminato sullo scoglio.

La battaglia infuria sulla volta, al cui centro sono dipinte alcune divinità dell'Olimpo.

Dalla parete corta, sul lato orientale, si vede il lago Inferiore attraverso la

loggia di Eleonora.

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LA SALA DEI FIUMI di Giada Ferrari

Voluta dal duca Guglielmo intorno al

1575 per svolgere la funzione di

refettorio di corte, questo salone è

un esempio di trasformazione di una

loggia aperta in una sala per conviti.

L’attuale decorazione pittorica a

pergolato risale al 1773-1775 ed è

dunque in stile rococò. Sulla volta è

illustrato il tema mitologico di

Fetonte, che chiede il carro del sole

ad Apollo, mentre sulle pareti sono

state rappresentate le

personificazioni dei fiumi del territorio mantovano (Po, Oglio, Chiese, Mincio,

Secchia). Occupano le testate dalla sala due nicchie a

forma di grotta decorate in stucco e mosaico, con vasi e

stemmi, datate XVII e XVIII secolo. La galleria si affaccia

su un giardino pensile, arricchito da gallerie con volte e

botte; qui un tempo erano coltivate le erbe e le spezie

utilizzate per preparare i cibi dei Gonzaga.

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IL SALONE DEGLI SPECCHI di Giada Ferrari

Terminato all’inizio del Seicento e realizzato in forma di loggia, aperta sul

cortile d’Onore, per volere di Vincenzo I, l'ambiente fu chiuso per ospitare

quadri della collezione gonzaghesca fino al 1627. Dal 1773 al 1779 fu arricchito

con decorazioni e specchi di gusto neoclassico. Gli affreschi seicenteschi della

volta e delle lunette presentano numerosi giochi ottici e temi mitologico-

allegorici. Sul soffitto si riconoscono infatti Apollo e Diana (che guidano

rispettivamente il carro del Sole e della Luna), il monte Olimpo, personificazioni

di virtù (Concordia, Umiltà, Munificenza, Innocenza, Felicità e Filosofica).

I giochi ottici più evidenti sono i cavalli e la donna con l'anello in mano e il

braccio teso: entrambi gli affreschi sembrano muoversi insieme al visitatore.

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L’appartamento di Isabella d’Este

di Aurora Minelli

LO STUDIOLO

Lo studiolo era un posto privato di Isabella, ricavato all’interno del palazzo

Ducale. All’inizio era situato nel castello di San Giorgio, ma poi nel 1523 venne

trasferito negli appartamenti di Corte Vecchia. Isabella fu l’unica donna ad

avere un suo studiolo personale, perché

preferiva gli interessi intellettuali e artistici

a uno stile di vita frivolo.

Tra il 1519 e il 1522 Isabella si trasferì a

Corte Vecchia. Le stanze del suo

appartamento si trovavano tutte al piano

terra e si accedeva alla nuova grotta,

l’ambiente più sacro, da un’ apertura diretta

nello studiolo. Resta un inventario del 1542

che permette di capire la disposizione degli oggetti; l’ambiente doveva risultare

molto affollato, ma calcolato su principi di simmetria e armonia del decoro

interno.

Cadde in disuso dopo la morte della marchesa e le pitture vennero traslocate in

un’altra zona del palazzo. Dopo di che vennero donate al cardinale di Richelieu,

che le portò a Parigi. Gli altri arredi vennero venduti e dispersi, quelli

riconosciuti si trovano in più musei. Qui la marchesa aveva raccolto pezzi di

archeologia, antichità varie, dipinti commissionati ai più illustri artisti dell’epoca

su temi mitologici e allegorici.

Lo studiolo è arredato con armadi in legno lavorato, all’interno dei quali erano

collocati gli strumenti musicali, la carte e il pennino per la composizione, gli

oggetti per lo studio e gli esperimenti. Il soffitto della grotta è caratterizzato da

decorazioni dorate su sfondo azzurro. Fa parte dell’ambiente anche il giardino

segreto, che riporta un’epigrafe in latino che data la costruzione

dell’appartamento 1522. Tra la grotta e lo studiolo vi è un prezioso portale

marmoreo con tondi in rilievo raffiguranti un airone che ingoia un serpente

(simbolo della vittoria del bene), Minerva (dea della sapienza), una civetta

(sacra a Minerva), un usignolo (mito dell’infedeltà coniugale), una coppia di

tortore (simbolo di fedeltà), un leopardo (indica la lussuria), una scimmia, un

pavone e due figure allegoriche che ricordano la sapienza terrena, che rischia

di essere ingannata se non tendo verso la sapienza divina.

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IL MOTTO E LE IMPRESE

L’impresa e il motto nel Rinascimento rappresentano un particolare modo di

comunicare sentimenti, principi, filosofia di vita e condizioni. Così anche

Isabella inventò i suoi.

Il suo motto fu “Nec spe nec metu”, ossia ”Senza speranza, senza timore”. Con

ciò Isabella esprime l’impossibilità dell’uomo di controllare la sua sorte, a cui

bisogna però andare incontro con forza e determinazione. Essa è dipinta sulle

pareti dello studiolo.

Famosa è l’impresa del XXVII: 27 le lettere dell’alfabeto greco; 27 è la

lunghezza massima della corda comprensiva di tutti i suoni musicali; 27 è il

cubo di 3, numero perfetto e sacro per eccellenza… Insomma, sembra che

Isabella abbia creato una specie di formula magica, unendo ciò che più

l’affascinava: la musica, l’astrologia, l’alchimia…

L’impresa delle pause musicali, dipinta sulle pareti dello studiolo, è bella e

complessa, non a caso tra le più care a Isabella, che la utilizzò almeno dal

1502, quando la utilizzò per decorare una veste per una festa a Ferrara in

onore della cognata Lucrezia Borgia. L’interpretazione di questa impresa, però,

non è certa, ma forte è l’invito al silenzio, legato probabilmente alla

meditazione e all’ozio inteso alla latina, ossia la riflessione e lo studio.

Un simbolo di Isabella sono YS, un monogramma che significa Isabella e che si

ripete spesso nel castello di San Giorgio. Un altro è YSF, che richiama il nome

del marito e l’amore provato per lui.

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L’appartamento di Vincenzo

di Nicolò Bellini

Il cosiddetto appartamento ducale venne creato nei primi anni del ‘600

all’interno della Domus Nova; l’autore della ristrutturazione fu Antonio Maria

Viani, architetto preferito dal duca Vincenzo I Gonzaga, figlio di Guglielmo.

Vincenzo I Gonzaga divenne duca di Mantova nel 1587; uomo fantasioso e

volubile, amante dello spreco e della dissolutezza, le sue avventure ebbero

spesso toni boccacceschi. Annullato il primo matrimonio con Margherita

Farnese, Vincenzo I si risposò con l’illustre Eleonora de Medici.

Gli ambienti si aprono con un ampio salone chiamato salone degli Arcieri così

chiamato perché destinato al corpo di guardia.

Le tre sale maggiori, ora dette di Giuditta, del Labirinto e del Crogiolo, erano

un tempo chiamate delle Province, del Labirinto e del Marchese Francesco.

L’ultima era così chiamata perché era abbellita con quadri che ricordavano le

imprese compiute dal marchese Francesco II Gonzaga.

I preziosi soffitti lignei delle tre stanze furono collocati a cura della duchessa

Eleonora de’ Medici mentre il duca partecipava all’assedio di Canissa durante la

terza spedizione in Ungheria contro i Turchi.

Sala di Giuditta

Tra le lesene rinascimentali provenienti dal cinquecentesco palazzo di S.

Sebastiano, così come il soffitto, sono conservate quattro tele con Storie di

Giuditta, del pittore napoletano Pietro Mango, attivo a Mantova intorno alla

metà del ‘600 per Carlo II Gonzaga-Nevers. Alle pareti sono invece esposte

opere di Domenico Fetti: il redentore e gli 11 Apostoli, e 6 santi su lavagna.

Originariamente sulle pareti, al posto delle tele che vediamo oggi, erano

collocati i Trionfi del Mantegna, venduti nel 1628 al re d’Inghilterra Carlo I per

rimpinguare le casse dei Gonzaga.

Sala del labirinto

Deve il proprio nome al soffitto ligneo dipinto e dorato che riproduce un

labirinto. Anch’esso come gli altri soffitti lignei di queste stanze proviene dal

palazzo San Sebastiano e porta al proprio interno il motto “forse che sì forse

che no”, probabilmente tratto da una musica popolare. Nella stanza è visibile

anche un’iscrizione che allude alla battaglia di Canissa in Ungheria, episodio di

una vera e propria crociata a cui prese parte il Gonzaga contro i Turchi e a cui

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l’incertezza della vittoria e il rientro a Mantova è testimoniato dal motto, che

più genericamente vuole ricordarci l’incertezza della vita. In questa sala sono

esposte ampie tele che rappresentano le quattro età del mondo: l’età del ferro,

l’età dell’oro, dell’argento e del bronzo, dipinte nel 1610 da Jacopo Palma il

giovane. Si possono inoltre ammirare due busti in marmo di Lorenzo Ottoni,

rappresentanti due principesse di Mirandola.

Sala del Crogiuolo

Nel vasto soffitto è raffigurato l’emblema (cioè simbolo) del crogiuolo

(strumento con cui si fondevano i metalli), simbolo della bontà e della

limpidezza politica di Francesco II; sotto di esso si trova il fregio con putti e

cani, proveniente dalla sala dello Zodiaco. I ritratti esposti provengono da

Mirandola e raffigurano i principi della famiglia Pico. E’ inoltre presente una

specchiera settecentesca in vetro di Murano.

La galleria del Passerino o delle Metamorfosi

Così chiamata perché il cadavere imbalsamato di Rinaldo Bonacolsi,

soprannominato appunto il ‘Passerino’, vi si trovava in posizione eretta. Si

narra che la fortuna dei Gonzaga finì quando uno di essi decise di liberarsi del

corpo del nemico battuto. La leggenda vuole che a disfarsi della mummia di

Passerino fu l'ultima duchessa di Mantova, Susanna Enrichetta di Lorena la

quale, stanca dell'inquietante spoglia, fece gettare il corpo nelle acque del lago.

Si avverò la profezia di una maga che previde la perdita del potere a chi si

sarebbe sbarazzato della mummia: i Gonzaga, infatti, caddero alcuni anni

dopo, nel 1707.

La galleria è formata da ambienti comunicanti. Ai soffitti vi sono storie tratte

dalla Metamorfosi di Ovidio, da cui il secondo nome della sala. Dai Gonzaga in

questa sala furono raccolti oggetti rari, curiosità del mondo vegetale e animale

come coccodrilli e uova di struzzo, feti mostruosi, in un vero e proprio museo

di Storia Naturale.

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Il palazzo Te: introduzione

di Timur Rella

Verso la metà del XV secolo Mantova era divisa dal canale “Rio” in due grandi

isole circondate da quattro laghi, formati dal fiume Mincio; una terza piccola

isola, chiamata sin dal Medioevo Tejeto e abbreviata in Te, venne scelta per

l’edificazione del palazzo attuale. Essa era collegata alle mura meridionali della

città da una ponte. Le ipotesi più probabili fanno derivare il termine da

"tilietum" (località di tigli) oppure dal celtico "tezza", fuso col latino "atteggia",

entrambi col significato di capanna, oppure ancora dal termine gallico "terza",

che significa tettoia, in riferimento tutti alle antiche e modeste abitazioni che

erano state costruite nella zona.

Costruito tra 1524 e il 1534, fu commissionato di Federico II Gonzaga a Giulio

Romano. Ma numerosi sono i documenti che attestano come già dalla metà del Quattrocento il terreno fosse stato utilizzato. La zona risultava paludosa e

lacustre, ma i Gonzaga la fecero ben presto bonificare. Agli inizi del 1500 Francesco II Gonzaga, marito di Isabella d’Este, vi fece costruire stalle per gli

amati cavalli di razza e anche una casa padronale. Rimangono infatti tracce di un edificio di pregio con pitture murali nei sottotetti dell’attuale palazzo e un

affresco reca la data 1502 e le iniziali del committente.

Morto il padre e divenuto signore di Mantova, Federico II, suo figlio, decise di

trasformare l’isoletta nel luogo dello svago e del riposo e dei fastosi ricevimenti

con gli ospiti più illustri, un luogo cioè dove non doveva svolgere incarichi

politici ma solo rilassarsi con la sua amante Isabella Boschetti, che qui

risiedeva.

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di Matteo Gelati

Giulio Pippi, detto Giulio Romano, è stato un

illustrissimo architetto e pittore del Rinascimento e della

corrente del Manierismo. Nacque a Roma nel 1499 e già negli anni romani egli rivelò una grande abilità grafica,

raccogliendo inoltre, il lascito raffaellesco in campo architettonico. Fin da giovane fu il suo allievo più dotato.

Quando Raffaello morì, Giulio ne ereditò la bottega.

Venne chiamato da Federico II Gonzaga nel 1524 come artista di corte a Mantova per realizzare il palazzo Te. Tale

commissione lo impegnò per dieci anni a partire dalla fine

dell'anno.

Progettato a pianta quadrata con ampio cortile interno, il palazzo si ispira

concettualmente alla villa rustica antica, dove si privilegiavano le vedute

orizzontali, in un continuo dialogo tra architettura e ambiente circostante. Un tempo decorato con un labirinto, con quattro entrate sui quattro lati, l'entrata

principale dava verso la città; si tratta di una loggia, la cosiddetta Loggia Grande, all'esterno composta da tre grandi arcate su colonne binate.

A differenza dei palazzi urbani, Palazzo Te

prevede una distribuzione degli spazi nobili al

piano terra, leggermente rialzato, per salvaguardarlo dalle piene del Mincio, e ambienti

di servizio al piano superiore.

La decorazione dell’esterno e la scansione architettonica delle facciate sono tratte dal

repertorio antico. Giulio Romano crea un ordine

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unico ritmato dalla presenza di lesene (pilastri che sporgono leggermente dal

muro), che reggono una trabeazione composta da architrave e fregio dorico con metope decorate (lastre poste nel fregio, decorate con bassorilievi). Le

metope del lato nord sono ornate con una serie di imprese gonzaghesche,

mentre questi emblemi non compaiono nelle altre facciate.

Il palazzo ha proporzioni insolite: si presenta come un largo e basso blocco, la cui altezza è circa un

quarto della larghezza. Tutta la superficie esterna è trattata a bugnato (comprese le cornici delle

finestre e delle porte). Le bugne sono pietre lavorate sporgenti dal muro. Pare che il palazzo

fosse, in origine, dipinto anche in esterno, ma i colori sono scomparsi.

Il cortile principale, dove è collocato il giardino, si chiude con un’esedra, cioè una serie di archi che fungono da portali, anch’essi realizzato da Giulio Romano

con bugne.

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Sala del Sole

di Sharon Singh

La camera del Sole aveva la funzione di introdurre gli

ospiti alle camere dedicate alle opere di Ovidio, famoso poeta latino. Questa

Sala prende il nome dall’affresco centrale, che raffigura il carro del sole e

quello della luna. Con un sorprendente scorcio dal basso verso l’alto, viene

rappresentata l’ora del crepuscolo con i due gemelli divini, Apollo e Diana, che

si danno il cambio; il dio del sole, dai riflessi rossastri, sul carro esce di scena,

mentre alle sue spalle arriva la luna, dalle tonalità pallide, tirata da due cavalli

e guidata da Diana: un cavallo bianco rappresenta il giorno e uno nero

rappresenta la notte, a significare che la luna si muove sia di giorno sia di

notte.

Qui si concentra la decorazione originaria della volta: la

campitura azzurra di fondo è ritmicamente scandita da compartimenti a rombi in stucco bianco, che racchiudono

figurine tratte prevalentemente da monete e gemme antiche, di cui Giulio Romano era collezionista, ma anche

dal repertorio dei più alti maestri del ‘500 italiano come Raffaello e Michelangelo. Negli scomparti triangolari e ai

bordi del riquadro centrale, compaiono anche emblemi e imprese dei Gonzaga di Mantova.

La decorazione della sala, analogamente alle altre decorazioni di quest’ala del palazzo, è risalente al 1527-1528 ed è attribuita a Giulio Romano e alla sua

scuola.

Sala di Ovidio La stanza deve il suo nome alle rappresentazioni mitologiche raffigurate nei fregi e tratte dalle Metamorfosi di Ovidio. La decorazione

della sala pittorica risulta essere realizzata intorno al 1527, tra le prime dell’intero palazzo. La stanza è rettangolare,

illuminata da una sola finestra, con un soffitto “a cassettoni” e un grande camino. La

decorazione si caratterizza per la presenza di

riquadri con scenette tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, eseguiti su fondo scuro. Sono stati

scelti gli episodi che trattano i temi dell'amore e della fertilità. Tale insistita allusione erotica ha fatto anche pensare che le camere

fossero destinate ad ospitare Isabella Boschetti, amante di Federico, ma non va tralasciato il riferimento ai piaceri della

poesia e della musica, come evidenziato dalla presenza del mito di Orfeo e dalla contesa tra Apollo e Pan.

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La sala di Amore e Psiche di Valeria Barilli e Alice Orlandelli

Qui Federico II ha

sviluppato la grande

passione per l’amore. Si

tratta dell’ambiente più

suntuoso del palazzo,

destinato ad accogliere

solamente gli ospiti più

illustri per banchetti e

cene. Nel registro che gira tutt’intorno c’è scritto il motivo per cui è stato

costruito il Palazzo, ossia il desiderio del principe di trovare un onesto ozio che

lo ritemprasse dopo le fatiche del lavoro: “FEDERICUS GONZAGA II

MAR(CHIO) V S(ANCTAE) R(OMANAE) E(CCLESIAE) ET REIP(UBLICHAE)

FLOR(ENTINAE) CAPITANEUS GENERALIS HONESTO OCIO POST LABORES AD

REPARANDAM VIRT(UTEM) QUIETI CONSTRUI MANDAVI”. La decorazione della

camera è realizzata tra il 1526 e il 1528; le fonti registrano interventi diretti di

Giulio Romano.

Il tema centrale dell’intera decorazione è Amore: divinità “mostruosa”, il più

potente tra tutti gli dei, temuto dallo stesso Giove, al quale nessuno può

sottrarsi. Sulle pareti sono dipinte diverse favole mitologiche, che narrano di

amori contrastati, clandestini, tragici e non corrisposti.

Le pareti sud-ovest coinvolgono il visitatore nei preparativi di un suntuoso

banchetto, al quale partecipano gli dei.

Protagonisti dell’evento Amore e

Psiche, sdraiati sul cline e tra loro la

figlia, Voluttà. Si tratterebbe del

banchetto che si svolge sull’isola di

Venere, a Citerea, nel sud del

Peloponneso, così come descritto nel

testo umanistico da cui le vicende

mitologiche sono tratte. I volti dei due

sposi, però, sono di Federico II e dell’amante Isabella Boschetti.

Un altro dipinto è quello di Giove, che si trasforma in serpente per sedurre le

dee, in questo caso Olimpiade. Filippo il Macedone, marito di Olimpiade viene

accecato da un fulmine, la stessa fine che fa il marito di Isabella Boschetti.

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Sulle altre pareti sono dipinte

numerose relazioni tra gli dei e gli

uomini (Venere e Adone, Bacco e

Arianna, Giove e Olimpiade), ma

anche fra divinità (Marte e Venere,

Aci e Galatea) o tra uomini e animali

(Pasifae e il toro).

L’affresco più importante della parete

Nord è quello di Marte (Ares per i

Greci), figlio di Giove e Giunone, e Venere, Afrodite per i Greci, la cui nascita è

controversa ma è certo che fu data in

sposa a Vulcano. I due fanno il bagno.

Marte diverrà il suo amante ma, essendo

Venere la dea dell’amore, egli non sarà

l’unico. In un’altra scena Marte, infatti,

vuole inseguire Adone, giovane di

straordinaria bellezza, di cui la dea si è

invaghita, ma Venere vuole fargli cambiare

idea. Mentre cammina si punge il piede

con una rosa bianca che, macchiata dal

sangue della dea, diviene rossa.

Il camino tra le due porte finestre e di

fronte alla porta che si affaccia sulla Sala dei Cavalli, è in marmo rosso ed è sovrastato dalla gigantesca figura di Polifemo.

La favola di Amore e Psiche

Amore era il figlio di Venere e di Marte. Psiche, invece, era una principessa

umana, la cui bellezza aveva provocato l’invidia di Venere. Così la dea ordinò a

suo figlio di scendere sulla Terra e di far innamorare Psiche di un uomo vecchio

e brutto. Ma Amore appena vide Psiche se ne innamorò perdutamente. Quindi,

per non incorrere nelle ire di Venere, escogitò un trucco: avrebbe portato

Psiche in un palazzo incantato, dove sarebbe sempre andato a trovarla nel

cuore della notte senza farsi mai vedere.

Intanto il padre di Psiche, preoccupato, perché la bellezza di sua figlia era tale

da spaventare tutti i pretendenti, andò a chiedere aiuto ad Apollo. Il dio gli

rispose di vestire Psiche da sposa e di esporla su una roccia, dove un essere

non umano, che “faceva paura anche agli dei”, l’avrebbe presa e portata

lontano per sposarla. Il povero re pensò che sua figlia sarebbe andata in sposa

ad un mostro ma obbedì.

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Psiche, rimasta sola, fu presa dal Vento e fu trasportata in una valle dove si

addormentò. Al suo risveglio si ritrovò in un palazzo meraviglioso, tutto in

marmo. La sera avvertì vicino a lei la presenza del marito nominato

dall’oracolo. Ma lo sposo invisibile la avvertì: non doveva cedere alla tentazione

di vederlo, altrimenti lo avrebbe perso per sempre! Così passarono i giorni e le

notti, durante i quali Psiche si innamorò perdutamente di Amore. Ma un giorno,

cedendo alla curiosità, decise di

approfittare del sonno dello

sposo per guardarne il volto. In

quei tempi lontani i lumi erano

ad olio e qualche goccia cadde

dalla lampada su Amore, che si

svegliò e poiché era stato ormai

riconosciuto da Psiche, fu

costretto ad abbandonarla.

Psiche, disperata, cercò il suo perduto amore e si sottopose ad una serie

interminabile di prove. Finché, con l’aiuto di Giove, padre di tutti gli dei,

l’amore trionfò. La mortale Psiche sposò il dio Amore e fu chiamata in cielo tra

gli dei, dove fu celebrato un fastoso banchetto di nozze.

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di Simone Malagola

La camera prende il nome dagli stucchi presenti nella volta, dove il tema dominante è la

personificazione dei venti. Il ruolo dei venti è quello

di separare la volta celeste, con le divinità e i segni zodiacali, dal mondo terreno dove, influenzate dalle

stelle, si svolgono le vicende umane. La sala veniva denominata anche camera de’

Pianeti, delle Medaglie, dello Zodiaco. Motivo centrale della decorazione della sala è quello

astrologico, cioè l’influsso che le stelle esercitano sull’uomo, come spiega l’epigrafe sopra la porta

meridionale: “DISTAT ENIM QVAE SYDERA TE EXCIPIANT” che si traduce: “dipende infatti da quali

stelle ti accolgano (alla nascita)”. L’articolazione della volta in pannelli tiene conto del tema: lo schema

geometrico vede la raffigurazione, al centro, dell’impresa del Monte Olimpo, attorno al quale si dispongono le dodici divinità olimpiche (affrescate o

modellate a stucco), che hanno il compito di proteggere i segni zodiacali.

Questi ultimi sono presentati nel perimetro della volta come bassorilievi e si alternano a dipinti con le personificazioni dei mesi.

L’influsso delle diverse costellazioni, associate ai segni zodiacali, è invece raffigurato nella fascia alta delle pareti. Le storie sono racchiuse in una cornice

circolare in finto marmo, dipinta in prospettiva. Giulio Romano illustra le attitudini e le attività indotte negli uomini non tanto

dal segno zodiacale, quanto dalle costellazioni “extra zodiacali” presenti alla nascita.

La camera fu utilizzata come ambiente riservato; qui si intrattenne, nel corso della sua visita nel 1530, l’imperatore Carlo V, dopo aver pranzato nella camera

di Amore e Psiche con i membri illustri della famiglia Gonzaga.

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La Sala dei Giganti

di Cristopher Gelati

La Camera dei Giganti è l’ambiente più famoso e stupefacente di Palazzo Te.

Giulio Romano vi propone una sperimentazione pittorica originale e ineguagliata per secoli.

L’ambiente è concepito come un insieme spaziale continuo, dove l’invenzione

pittorica interagisce con la realtà e lo spettatore si sente catapultato nel mito.

La vicenda che viene messa in scena è quella

della Caduta dei Giganti, tratta dalle Metamorfosi di Ovidio. Abitanti della terra scellerati e presuntuosi, i

Giganti volevano sostituirsi agli dei. Per fare ciò tentarono di conquistare il monte Olimpo, accostando

tra di loro i monti Pelio e Ossa e iniziarono a scalarli.

Ma in seguito Giove punì i Giganti, scatenando contro di loro la furia degli elementi e colpendoli con i fulmini

infallibili, aiutato da Giunone. Lo spettatore è trasportato nel mezzo di questa scena, con la schiera

numerosa degli dei dell’Olimpo, Giove alla testa, su nel cielo e la rovinosa e violenta caduta dei Giganti qui sulla terra. A dividere il

cielo dalla terra stanno ai quattro angoli della camera, i venti, che soffiano tra le nubi. Più in basso crollano montagne, palazzi e templi, sotto le cui rovine

giacciono in pose scomposte i Giganti. Sul lato orientale trovava spazio un camino, che ora non c’è più. L’invenzione giuliesca sfruttava anche questo

suggestivo elemento architettonico, poiché il fuoco, sprigionato dal camino, proseguiva, nella finzione pittorica, nelle fiamme che escono dalla bocca del

gigante Tifeo, qui dipinto sepolto sotto le rocce delle Sicilia: è lui la causa delle eruzioni dell’Etna.

Da notare come tutt’intorno, ad altezza uomo, corrano lungo la camera scritte

graffite, non eliminate nel corso dei restauri negli anni Ottanta perché

considerate documento storico: le prime iscrizioni risalgono addirittura al XVI

secolo e testimoniano i passaggi di truppe e soldati mercenari, che

soggiornarono in questo palazzo.

La sala non ha angoli: questo crea un effetto acustico tale per cui, bisbigliando

in un angolo della sala, si può comunicare con chi sta all’angolo opposto.

C’è chi ha dato un’interpretazione politica alla stanza: Giove sarebbe

l’imperatore Carlo V, mentre i giganti vinti i principi italiani ribellatisi

all’imperatore, a differenza dei Gonzaga, che furono sempre suoi alleati.

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di Timur Rella

I cavalli sono sempre stati la passione dei grandi re, dei principi e dei sovrani

d’Europa. Anche i Gonzaga avevano le loro scuderie con bellissimi esemplari di

cavalli. Quando si stava costruendo palazzo te, Federico Gonzaga disse ed

ordinò a vari artisti di dipingere in

una delle sale più grandi, i ritratti

dei suoi cavalli preferiti. Essi

furono dipinti a grandezza naturale

e di alcuni di essi c’e’ scritto anche

il nome. Questa stanza era

dedicata alle feste più importanti,

ai belli di corte e come sala da

recivimento per le visite di

personaggi importanti. Le pareti

sono decorate con finti pilastri

corinzi, finte sculture a bassorilievo

e delle nicchie dove sono raffigurati i vari esemplari di cavalli. La stanza prende

la luce da cinque finestre, sono dipinti anche dei finti marmi. Al centro della

parete meridionale c’e’ un grande camino. I cavalli sono talmente veri che

sembrano vivi, la loro bellezza la loro forza e la loro eleganza sono sublimi. Fra

un cavallo e l’altro ci sono delle nicchie dove sono raffigurati personaggi antichi

ed al di sopra di essi sei fatiche di Ercole. Sul soffitto è raffigurato il monte

Olimpo, la sede degli dei. C’e’ dipinto tanto oro ed in mezzo ad esso ci sono

ramarri e salamandre simboli di Federico.

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di Filippo Beltrami

Edificata per volere di Ludovico II Gonzaga in quella che oggi si chiama piazza

Mantegna, su progetto di Leon Battista Alberti, sostituisce una chiesa

benedettina dell’IX secolo, che era diventata insufficiente ad accogliere i

pellegrini che ogni anno venivano a venerare la reliquia del sangue di Cristo.

Dell’antica chiesa rimane il campanile tardo-gotico.

Costruita sui resti di due chiese preesistenti, fu edificata a partire dal 1472 e

conclusa 328 anni dopo, cioè nel 1800, e dunque rimaneggiata più volte;

l’interno, infatti, si discosta molto dal progetto originario dell’Alberti. I lavori

furono affidati a Luca Fancelli, perché l’Alberti morì due mesi dopo la posa della

prima pietra.

Nel complesso la basilica si presenta

con un corpo edificato a partire dal

Quattrocento, quello progettato

dall’Alberti, sormontato da una cupola

risalente al Settecento, progettata dal

siciliano Filippo Juvara, mentre le

decorazioni pittoriche dell’interno

appartengono al ‘500, al ‘600 e al ‘700.

La basilica ha una volta a botte, che

nasconde la vera grandezza dell’edificio.

Infatti Ludovico II voleva una chiesa che rappresentasse la magnificenza, la

grandezza e il potere raggiunto dai Gonzaga. Ma siccome la chiesa andava

realizzata in una piazza di piccole dimensioni, bisognava trovare una equilibrio

tra le richieste della committenza e gli spazi disponibili. Così l’Alberti ideò una

facciata proporzionata alla piazza, dunque piccola, nascondendo la reale

grandezza della chiesa con la volta a botte posta sopra. La maestosa facciata

richiama i modelli classici, come si vede bene dall’arco trionfale. Sotto e

centrale si apre un maestoso fornice (arco di passaggio), ai lati del quale si

aprono due porte con architrave sormontate da nicchie e finsetre.Sopra il

frontone tipico dei templi greci si innalza la volta. L’entrata è preceduta da un

vestibolo con volte e cassettoni: si tratta di uno spazio, detto “pronao”, che

veniva appositamente creato affinché le persone che entravano in chiesa

avessero un luogo protetto, separato dalla strada, dove ripulirsi dei peccati.

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San Longino e i Sacri Vasi di Francesco Sanfelici

La Leggenda

Longino fu l’antico centurione che con una

lancia (dal greco “lonke”, da cui essa prese il

nome) trafisse il costato di Cristo in croce. Egli

aveva problemi oculari e quando una goccia

del sangue del crocifisso gli cadde sugli occhi,

guarì. Da quel momento Longino si convertì.

Raccolse sia la terra intrisa del sangue di

Cristo sia un pezzo della spugna con la quale i

centurioni l’avevano tormentato e li pose in

una scatola di piombo. Tempo dopo si spogliò

delle sue vesti, non accettò l’oro per il lavoro

svolto e diventò un predicatore.

Tornò in Italia, da dove proveniva. Arrivò a

Mantova nel 36 d.C., portando con sé il santo

sangue. Qui cominciò a predicare, dopo aver nascosto nell’Ospedale dei

Pellegrini il suo tesoro. Poco dopo, il 15 Marzo del 37, fu decapitato, subendo

anch’egli il martirio, come molti altri cristiani dell’epoca. Sul luogo della

decapitazione, chiamato Cappadocia, è sorta la chiesa di Santa Maria del

Gradaro.

La reliquia di Cristo venne sotterrata in un’urna e per molti secoli se ne persero

le tracce…

La storia dei Vasi continua… I viaggi

dei vasi

Comunque, la leggenda prosegue. La

reliquia rimane nascosta a tutti fino

all'anno 804, quando viene casualmente ritrovata, accanto alle ossa di San

Longino per rivelazione di Sant’Andrea, proprio dove ora sorge la chiesa a lui

dedicata. Leone III e Carlo Magno arrivano contemporaneamente a

Mantova per avvalorare l'importante scoperta. Il primo la autentica come

reliquia e pare abbia deciso di creare la diocesi di Mantova; il secondo prende con sé una particella della reliquia e la porta in Francia, forse a Parigi. Ma nel

924 la popolazione mantovana, terrorizzata dal prossimo arrivo dei barbari ungheresi, nasconde nuovamente il sangue, dividendolo in altre due parti: una

parte viene seppellita e verrà ritrovata nel 1479 vicino al Duomo, l'altra fuori

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porta, di nuovo nell'orto dell'oratorio di Sant'Andrea, sorto accanto al luogo

dell'antico ospedale dei pellegrini proprio per commemorare il primo ritrovamento. Misteriosamente, tutti perdono il ricordo della localizzazione dei

nascondigli. Bisogna giungere al 1048 per un secondo e definitivo

ritrovamento. E' l'epoca della dominazione di Bonifacio di Canossa e della moglie Beatrice; un mendicante cieco, di nome Adalberto, vede apparire in

sogno, la notte tra il 4 e il 5 marzo, Sant'Andrea, che gli rivela il punto in cui scavare. Per vincere le resistenze di Beatrice, piuttosto scettica, il santo si

presenterà altre due volte. La reliquia viene finalmente trovata, insieme al corpo di Longino. Sul posto, nell'area del monastero benedettino, viene

edificata la nuova chiesa di sant'Andrea, che quattro secoli dopo sarà distrutta da Ludovico Gonzaga per far posto alla basilica attuale, progettata dall'Alberti,

nel 1472.

Nel 1459, quando a Mantova vi è Ludovico II Gonzaga, il papa Pio II convoca una Dieta, a cui sono invitati tutti i principi europei, per liberare Costantinopoli,

caduta insieme all’impero romano d’Oriente, nelle mani dei Turchi nel 1453. Si narra che il papa in quei giorni stesse male, ma si rivolse alla sacra reliquia e

ottenne un miglioramento delle sue condizioni di salute, così confermando la

preziosità e autenticità del sangue di Cristo. Da quel momento comincia la venerazione ufficiale della reliquia, collocata nel

1500 nei due primi vasi, poi andati perduti. Nel 1848, infatti, durante la dominazione austriaca, alcuni soldati trafugarono i vasi cinquecenteschi d’oro e

la spugna. Solo nl 1876 la reliquia torna in Sant’Andrea per volere dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, che fa eseguire due nuovi vasi a

sue spese.

Impossibile qui analizzare i complessi rapporti tra leggenda, mito e verità storica. San Longino non è il patrono della città; tuttavia, la figura del cavaliere

apostolo compare in gran parte delle monete prodotte dalle zecche mantovane

e riveste, insieme a Virgilio, il ruolo di protettore della nostra terra.

I Vasi ai nostri giorni

Dal suo ritrovamento la reliquia viene esposta ogni anno all’adorazione dei

fedeli. La reliquia è nella cripta della basilica, custodita in una cassaforte, la cui

apertura è molto complicata e che richiede la presenza di minimo quattro

persone: il Prefetto, il Vescovo, il Capitolo del Duomo e un rappresentante

della Fabbriceria di Sant’Andrea, che sono in possesso delle dodici chiavi

necessarie. Il venerdì santo vengono estratti i due reliquiari dalla cassaforte ed

esposti alla devozione dei fedeli prima di essere portati in processione.

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di Nisrine Souhail

Grandioso, solenne e classico, a croce latina, l’interno è ad una sola navata,

coperta da una volta a botte. Tutta la chiesa è riccamente decorata, un gusto

che ben poco ha a che fare col progetto dell’Alberti, ma che ha risentito del

gusto delle epoche a lui successive, durante le quali la basilica è stata finita.

Su ciascun fianco si aprono tre grandi

cappelle quadrate, pure con

copertura a botte. Dalla grandiosa

cupola (80 m di altezza) scende una luce

imponente che illumina il transetto, sotto il

quale si trova la cripta, a cui si può

accedere per una delle quattro scale

ricavate nei pilastri che reggono la

cupola.

Realizzata nel 1595, la cripta è a croce greca e conserva i vasi che contengono

la reliquia del preziosissimo sangue di Cristo, secondo la tradizione portato a

Mantova da Longino. I vasi sono stati collocati sopra un altare in un tempietto,

eretto nel 1818, dentro un’arca ornata da un bassorilievo in bronzo.

Nella prima cappella a sinistra si trovano la tomba di Andrea Mantegna, qui

sepolto nel 1506, ed il busto bronzeo che lo raffigura.

Nella prima cappella a destra, invece, si trovano tre

tondi staccati dal vestibolo della basilica. Essa è

adibita a battistero ed è molto sobria perché mancano

le decorazioni.

Nella seconda cappella sono presenti sulle pareti

affreschi con la raffigurazione del Paradiso, Purgatorio

ed Inferno, mentre nella terza cappella vi è una pala

con Madonna e Santi.

Anche la quarta cappella è affrescata, mentre l’altare è decorato con

rappresentazioni sacre riferite alla VERGINE.

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Nella sesta cappella si trova una pala con Natività, copia cinquecentesca di un

dipinto di Giulio Romano; anche gli affreschi si rifanno a disegni di Giulio

Romano.

Nel braccio destro del transetto, sulla destra, si apre una cappella, nella quale

sono collocati dei monumenti sepolcrali provenienti da varie chiese sconsacrate

della città.

Nel presbiterio c’è l’altare maggiore, costruito nel 1803. Alla sinistra dell’altare

va notata una statua del Duca Guglielmo Gonzaga, in preghiera del 1572.

Il braccio sinistro del transetto mostra nella cappella di destra una pala di

altare seicentesca, mentre sulla testata di fondo dello stesso transetto,

un’uscita laterale immette in piazza Leon Battista Alberti.