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23 Per la tua pubblicità chiama Gabriele Lodetti allo 02860806 - Giorgio Lodetti allo 0258302093 ARTISTI IN RIVISTA Direttore Responsabile: Giorgio Lodetti / Direttore Artistico: Roberto Plevano / Progetto Grafico: Franco Colnaghi Via Molino delle Armi, 5 - 20123 Milano • Tel. 02 58302239 02 58302093 - Fax 0258435413 di B occa di B occa Anno III, N. 9 • Gennaio-Marzo 2004 Dove abitare? E con quali abitanti mai per limitrofi coinquilini? La domanda qui nell’area pazzescamente metropolitana, dove le scapole dell’uno agganciano lo sterno dell’altro e nel luogo dove l’olfattività,se mai su- perstite, di ognuno è linciata dalla secrezione o sudora- zione ghiandolare della congerie umana che gli si acca- tasta sopra in compatta variabilità, la domanda, si dice- va, è organoletticamente fondata e di difficile, leggasi impossibile, elusione civile. Pippo Spinoccia, con il gar- bo e la misura imprevedibilmente anche sovvertitrice che trasferisce nell’opera, non si dà alla reticenza con- suetudinaria rilegata nei cataloghi d’arte, ma ordisce e ardisce una risposta operativamente artistica.Allora Spi- noccia, al cui mazzo di carte dell’inventività non manca una sola briscola, sembra vivere uno scarto nel processo distributivo e incomincia a collocare a destra e a sinistra le sue figurazioni, inappuntabilmente tutto in un unico fiato.Spinoccia che ha percorso l’intero speco vertebra- le appenninico di questa penisola, passando dalla sua trinacria alla mia nebbia, non è di quegli artisti che si rifugino nella nostalgia e nella sua espressione di quat- tro approvvigionamenti dal capoluogo originario, sem- pre cari all’orchestrazione gustativa dei non pochi di- gnitari dei nobilissimi luoghi comuni. La sua salita ver- so le note timbriche e perimetriche dell’espressionismo germanico, a partire dalla foresta nera in su, è un proce- dere in cordata solitaria, come un gentile alpino che non rinunci alla fattura dell’abbigliamento suo proprio, quello sì ringagliardito dallo scirocco originario. Ma poi, c’è un ma poi: la forte contornazione delle na- ture morte di Cézanne che approda antropologica- mente a quelle delle figure di Rouault, entrambi di- scendenti dai fili di luce e di piombo delle silenti nor- diche vetrate, in Spinoccia sono diventati dei semplici materiali, anche geometrici, del suo bel cantiere del Novecento, che ha saputo rigovernare nell’inventario dell’allusione artistica figurativa. Queste segnature nere ed eleganti diventano, nell’impresa di costruzioni di Spinoccia, l’urbanistica del villaggio, la sua profilatura snella e circompresa, sotto le scaglie di luce dell’ora del giorno, ora segreta di un giorno interiore, porto sicuro o rovello dell’incantamento. Nero, che non è la man- canza di luce, come nel bianco e nero, ma nero come saturazione di tutti i colori dello spettro, vale a dire non il nero che angustia come luogo della penuria, ma quello della sazietà delle cromatiche luci occorsevi. E questo nero felice, (l’espressione ossimorica è candida- bile, si creda, ad una sua accettabilità,) rieccolo farsi gra- In un mondo come il nostro dove l’arte ha la pretesa più di voler stupire che commuovere,occorre avere le idee chiare e lavorare in una direzione di riconcilia- zione, una sorta di nuovo patto tra l’artista e il pubbli- co,il progetto di un contenitore in cui sono benvenu- ti tutti i moderni mezzi espressivi, dal computer alla telecamera, senza abbandonare quelli tradizionali. Si vuole ripristinare la consapevolezza del lungo cam- mino della storia dell’arte, senza negazioni alcune. Questo non significa che bisogna solo continuare a copiare i classici, ma anche ai giorni nostri si può rea- lizzare un affresco senza fare del manierismo. Si apre Figuralismi all’insegna della semplicità e della chiarezza, liberati da promesse utopistiche slegate dal vissuto quotidiano. Una serie di mostre che partono da Milano per approdare prima in Europa e poi in A- merica, un sito internet (www.figuralismi.tk) dove vengono accolti gli artisti che sono interessati al pro- getto, un dialogo aperto con i poeti, con i musicisti e con artisti che si sono dimostrati sensibili ad accoglie- re questa nuova realtà. La proposta appare come pri- ma inaugurazione operativa di un progetto iniziato ancora nel 1990. Figuralismi mi sembra quasi un de- stino, scritto da qualcuno in un luogo indefinito, op- pure definito da noi in ogni momento della nostra crescita artistica e culturale. L’operazione è sempre la stessa: tracciare il segno del nostro essere nel mondo. Le ipotesi possono essere entrambe vere. il tutto può essere visto come prodotto da noi, libero arbitrio, op- pure accolto giacché era predestinato ad essere for- mulato. 0Nel Medioevo si pensava che la sapienza, e- spressa con un linguaggio ricco di spiritualità, fosse patrimonio solo dei chierici, mentre i laici erano de- stinati a restare ignoranti. Anche il nostro tempo ha generato una nuova separazione del sapere artistico. Di fatto, una schizofrenia che ha prodotto due gruppi distinti di operatori delle arti. Da un lato i letterati- critici che hanno dettato le regole e i sistemi, dall’al- tro gli artisti che hanno spesso eseguito le visibilità delle teorie. Era successo anche nella cultura neoclas- sica quando gli archeologi insegnavano agli artisti-e- secutori la purezza degli stili classici (dorico, ionico e corinzio). Riflettendo su tutto ciò, ho immaginato questo nuovo “spazio” dei Figuralismi, le idee nasco- no senza separazioni ideologhe o di appartenenza. La teoria si relaziona direttamente con la pratica e ogni artificiosa separazione tende ad essere esclusa. Ad un primo approccio imbattersi in un nuovo “ismo”, può generare diffidenza se non addirittura perplessità. Ne abbiamo incontrati ormai molti nell’ultimo secolo. Tutti alla ricerca di una nuova verità:Cubismo,Astrat- tismo, Dadaismo, Surrealismo, ecc.Volevano trasfor- mare il mondo immaginare nuovi sistemi di produrre arte. Sono stati accolti con grande entusiasmo, altri hanno creato persino sconcerto. E comunque hanno turbato profondamente.Tutti volevano concorrere a definire una verità al di fuori delle tradizioni e delle certezze delle culture già consolidate. L’Ismo che qui si annuncia procede in una direzione opposta. Si propone di divenire dimora della propria interiorità, non la ricerca continua di sconvolgenti teorie rivoluzionarie. Si affida alla comprensione, vuole raggiungere la contemplazione, rappresentare il nostro essere nel mondo. Pippo Spinoccia il luogo del dove Guido Oldani Figuralismi Icone dopo le Clonazioni Felice Naalin ta, o graticola, sbarre d’impedimento in cui non si sa mai da che parte di esse stia il più libertario o il peggio soggiogato. I numeri sono di celle dove si impara la mielagione umana, come quella delle api operaie e la golosità filozuccherina ha le sbarre adescatrici del dia- bete. Le facce, invece, assumono sulle loro spalle l’intera drammaticità delle figure o meglio dei figuri umani che hanno preso a menarvi vita, come dei parafulmini bagnati in una nottata di pieni e fragorosi temporali. Il bilanciamento è nella tavolozza dispiegata e attutita, manifesta e poi rivolta al pudore della terra e dell’ocra, alacre carne dell’abi-tare consentito nell’opera spinoc- ciana. Il suo equilibrio di colore, in cui è sempre un lu- core a lasciare l’ultima impressione, si gioca tutto nella scala che va dal sommesso al fremito di salvificazione appena in calce. E dunque codesta circoscrizione pitto- rico architettiva del lavoro di questo autore,alla fin fine non inchioda il visitatore, pardon!, il viandante traso- gnato, a nessun trasalimento verso l’abisso. Certo, ci sa- rebbe anche quello, a voler proprio guardare, ma ciò che salta addosso di più è quel senso minimo di impal- pabile luminosità, come se il tutto potesse essere una lanterna a chiarore breve, là dove uno di questi giorni saremo lasciati cadere mollemente, quasi un’Alice nel paese delle meraviglie, ma in una storia di segno tutt’al- tro e imparagonabile. Che ci sia qui quel che vedrebbe un diogene, tra la lanterna e quel che lascia scorgere, a fine ricerca, se aggiornasse a noi la sua domanda? Pippo Spinoccia. Cornucopia mediterranea altarini e dipinti 1998-2002 a cura di Bruna Milani Piacenza, Studio Jelmoni Via Molineria S. Nicolo, 8 dall’8 al 22 maggio Autoritratto speculare in cella 2003, acrilici su tela e carta cm 93 x 60 segue a pag. 24 Spinoccia per le Segrete di Bocca in 3° pagina Momento ore 12,50 2003, disegno a fusaggine e acrilico, cm 42 x 29

Segrete di Bocca N. 9

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Nasce dall’esigenza sempre maggiore di promuovere la giovane Arte contemporanea Italiana, l’esigenza da parte della storica libreria Bocca di Milano di diffondere sempre più capillarmente il proprio notiziario informativo: Le Segrete di Bocca. Quadrimestrale d’attualità artistico e culturale nato nel duemila come inserto della rivista Arte incontro in Libreria, oggi si emancipa da inserto a Rivista indipendente. Forte della distribuzione gratuita ad oltre duemila nominativi di clienti fidelizzati alla Bocca, diffusi sul territorio italiano, specializzati o semplicemente interessati alle arti contemporanee italiane ed internazionali. La Rivista punta su collaborazioni mirate a migliorare i propri contenuti, attraverso l’avallo e il contributo delle Gallerie d’Arte, oltre che a stringere rapporti di collaborazione con strutture organizzative di prima linea presenti sul territorio nazionale. Forte dell’appoggio di oltre trenta collaboratori, tra cui giornalisti e critici d’arte, è oggi possibile far parte di questo nutrito entourage, formatosi in sette anni di attività editoriale. Insieme saremo in grado di dar voce alle più differenti ricerche nel campo dell’Arte Contemporanea Italiana. La Libreria Bocca sempre in prima linea nella promozione, attraverso il vostro contributo, potrà diventare un faro nella nebbia di questo complicato sistema che è l’Arte Contemporanea. Unisciti a questa nuova iniziativa editoriale e collabora con Le Segrete di Bocca, Artisti in Rivista. Per maggiori informazioni contatta Giorgio Lodetti: 338 2966557 oppure via e.mail: [email protected]

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ARTISTI IN RIVISTA

Direttore Responsabile: Giorgio Lodetti / Direttore Artistico: Roberto Plevano / Progetto Grafico: Franco Colnaghi

Via Molino delle Armi, 5 - 20123 Milano • Tel. 02 58302239 02 58302093 - Fax 0258435413

di Boccadi BoccaAnno III, N. 9 • Gennaio-Marzo 2004

Dove abitare? E con quali abitanti mai per limitroficoinquilini? La domanda qui nell’area pazzescamentemetropolitana, dove le scapole dell’uno agganciano losterno dell’altro e nel luogo dove l’olfattività, se mai su-perstite, di ognuno è linciata dalla secrezione o sudora-zione ghiandolare della congerie umana che gli si acca-tasta sopra in compatta variabilità, la domanda, si dice-va, è organoletticamente fondata e di difficile, leggasiimpossibile, elusione civile. Pippo Spinoccia, con il gar-bo e la misura imprevedibilmente anche sovvertitriceche trasferisce nell’opera, non si dà alla reticenza con-suetudinaria rilegata nei cataloghi d’arte, ma ordisce eardisce una risposta operativamente artistica.Allora Spi-noccia, al cui mazzo di carte dell’inventività non mancauna sola briscola, sembra vivere uno scarto nel processodistributivo e incomincia a collocare a destra e a sinistrale sue figurazioni, inappuntabilmente tutto in un unicofiato.Spinoccia che ha percorso l’intero speco vertebra-le appenninico di questa penisola, passando dalla suatrinacria alla mia nebbia, non è di quegli artisti che sirifugino nella nostalgia e nella sua espressione di quat-tro approvvigionamenti dal capoluogo originario, sem-pre cari all’orchestrazione gustativa dei non pochi di-gnitari dei nobilissimi luoghi comuni. La sua salita ver-so le note timbriche e perimetriche dell’espressionismogermanico, a partire dalla foresta nera in su, è un proce-dere in cordata solitaria, come un gentile alpino chenon rinunci alla fattura dell’abbigliamento suo proprio,quello sì ringagliardito dallo scirocco originario.Ma poi, c’è un ma poi: la forte contornazione delle na-ture morte di Cézanne che approda antropologica-mente a quelle delle figure di Rouault, entrambi di-scendenti dai fili di luce e di piombo delle silenti nor-diche vetrate, in Spinoccia sono diventati dei semplicimateriali, anche geometrici, del suo bel cantiere delNovecento, che ha saputo rigovernare nell’inventariodell’allusione artistica figurativa. Queste segnature nereed eleganti diventano, nell’impresa di costruzioni diSpinoccia, l’urbanistica del villaggio, la sua profilaturasnella e circompresa, sotto le scaglie di luce dell’ora delgiorno, ora segreta di un giorno interiore, porto sicuroo rovello dell’incantamento. Nero, che non è la man-canza di luce, come nel bianco e nero, ma nero comesaturazione di tutti i colori dello spettro, vale a dire nonil nero che angustia come luogo della penuria, maquello della sazietà delle cromatiche luci occorsevi. Equesto nero felice, (l’espressione ossimorica è candida-bile, si creda, ad una sua accettabilità,) rieccolo farsi gra-

In un mondo come il nostro dove l’arte ha la pretesapiù di voler stupire che commuovere,occorre avere leidee chiare e lavorare in una direzione di riconcilia-zione, una sorta di nuovo patto tra l’artista e il pubbli-co, il progetto di un contenitore in cui sono benvenu-ti tutti i moderni mezzi espressivi, dal computer allatelecamera, senza abbandonare quelli tradizionali. Sivuole ripristinare la consapevolezza del lungo cam-mino della storia dell’arte, senza negazioni alcune.Questo non significa che bisogna solo continuare acopiare i classici, ma anche ai giorni nostri si può rea-lizzare un affresco senza fare del manierismo.Si apre Figuralismi all’insegna della semplicità e dellachiarezza, liberati da promesse utopistiche slegate dalvissuto quotidiano. Una serie di mostre che partonoda Milano per approdare prima in Europa e poi in A-merica, un sito internet (www.figuralismi.tk) dovevengono accolti gli artisti che sono interessati al pro-getto, un dialogo aperto con i poeti, con i musicisti econ artisti che si sono dimostrati sensibili ad accoglie-re questa nuova realtà. La proposta appare come pri-ma inaugurazione operativa di un progetto iniziatoancora nel 1990. Figuralismi mi sembra quasi un de-stino, scritto da qualcuno in un luogo indefinito, op-pure definito da noi in ogni momento della nostracrescita artistica e culturale. L’operazione è sempre lastessa: tracciare il segno del nostro essere nel mondo.Le ipotesi possono essere entrambe vere. il tutto puòessere visto come prodotto da noi, libero arbitrio, op-pure accolto giacché era predestinato ad essere for-mulato. 0Nel Medioevo si pensava che la sapienza, e-spressa con un linguaggio ricco di spiritualità, fossepatrimonio solo dei chierici, mentre i laici erano de-stinati a restare ignoranti. Anche il nostro tempo hagenerato una nuova separazione del sapere artistico.Di fatto, una schizofrenia che ha prodotto due gruppidistinti di operatori delle arti. Da un lato i letterati-critici che hanno dettato le regole e i sistemi, dall’al-tro gli artisti che hanno spesso eseguito le visibilitàdelle teorie. Era successo anche nella cultura neoclas-sica quando gli archeologi insegnavano agli artisti-e-secutori la purezza degli stili classici (dorico, ionico ecorinzio). Riflettendo su tutto ciò, ho immaginatoquesto nuovo “spazio” dei Figuralismi, le idee nasco-no senza separazioni ideologhe o di appartenenza. Lateoria si relaziona direttamente con la pratica e ogniartificiosa separazione tende ad essere esclusa.Ad unprimo approccio imbattersi in un nuovo “ismo”, puògenerare diffidenza se non addirittura perplessità. Neabbiamo incontrati ormai molti nell’ultimo secolo.Tutti alla ricerca di una nuova verità:Cubismo,Astrat-tismo, Dadaismo, Surrealismo, ecc.Volevano trasfor-mare il mondo immaginare nuovi sistemi di produrrearte. Sono stati accolti con grande entusiasmo, altrihanno creato persino sconcerto. E comunque hannoturbato profondamente.Tutti volevano concorrere adefinire una verità al di fuori delle tradizioni e dellecertezze delle culture già consolidate.L’Ismo che qui si annuncia procede in una direzioneopposta. Si propone di divenire dimora della propriainteriorità, non la ricerca continua di sconvolgentiteorie rivoluzionarie. Si affida alla comprensione,vuole raggiungere la contemplazione, rappresentare ilnostro essere nel mondo.

Pippo Spinocciail luogo del dove

Guido Oldani

FiguralismiIcone dopo

le ClonazioniFelice Naalin

ta, o graticola, sbarre d’impedimento in cui non si samai da che parte di esse stia il più libertario o il peggiosoggiogato. I numeri sono di celle dove si impara lamielagione umana, come quella delle api operaie e lagolosità filozuccherina ha le sbarre adescatrici del dia-bete. Le facce, invece, assumono sulle loro spalle l’interadrammaticità delle figure o meglio dei figuri umaniche hanno preso a menarvi vita, come dei parafulminibagnati in una nottata di pieni e fragorosi temporali. Ilbilanciamento è nella tavolozza dispiegata e attutita,manifesta e poi rivolta al pudore della terra e dell’ocra,alacre carne dell’abi-tare consentito nell’opera spinoc-ciana. Il suo equilibrio di colore, in cui è sempre un lu-core a lasciare l’ultima impressione, si gioca tutto nellascala che va dal sommesso al fremito di salvificazioneappena in calce. E dunque codesta circoscrizione pitto-rico architettiva del lavoro di questo autore, alla fin finenon inchioda il visitatore, pardon!, il viandante traso-gnato, a nessun trasalimento verso l’abisso. Certo, ci sa-rebbe anche quello, a voler proprio guardare, ma ciòche salta addosso di più è quel senso minimo di impal-pabile luminosità, come se il tutto potesse essere unalanterna a chiarore breve, là dove uno di questi giornisaremo lasciati cadere mollemente, quasi un’Alice nelpaese delle meraviglie,ma in una storia di segno tutt’al-tro e imparagonabile. Che ci sia qui quel che vedrebbeun diogene, tra la lanterna e quel che lascia scorgere, afine ricerca, se aggiornasse a noi la sua domanda?

Pippo Spinoccia. Cornucopia mediterraneaaltarini e dipinti 1998-2002a cura di Bruna MilaniPiacenza, Studio JelmoniVia Molineria S. Nicolo, 8dall’8 al 22 maggio

Autoritratto speculare in cella2003, acrilici su tela e carta

cm 93 x 60

segue a pag. 24

Spinocciaper le Segrete di Bocca

in 3° pagina

Momento ore 12,50

2003, disegno a fusaggine e acrilico, cm 42 x 29

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Figuralismi, appagando anche le aspettative del pubbli-co, si pone come un incontro. Un contenitore chenon esclude nessun tipo di produzione.Tutti riconosciamo che il bello assoluto è veramenteuscito di scena, le varie ricerche quasi sempre elitariesovente si sono allontanate dal senso dell’apprensionecomune.Quello che si cerca è un recupero di interes-se e di credibilità. Spesso l’arte ha perso il suo pubbli-co per reciproca incomprensione. Molti appassionatisi sono rifugiati nei grandi autori,nell’arte del passato,abbandonando frequentemente le nuove proposteche risultavano incerte.Partendo dalle periferie del dibattito sull’arte figurati-va, i Figuralismi - icone dopo le clonazioni mettono inpratica l’arcaico simbolico, la capacità che ha l’imma-gine di rimandare alle memorie soggettive. Un’estasiche concede il tormento e/o la gioia.Agli inizi, mi sono incontrato con i filosofi per defi-nire i Figuralismi, pensando di promuovere un sistemaespressivo-linguistico comprensibile.Capace di commuovere. Pronto ad accogliere chisperava di ricevere l’Arte. In quest’elemento fecondo,s’ipotizzava un contenitore possibile per gli artisti, at-tenti alla propria unicità, consci di dovere la veritànell’Arte.Si pensava di radunare artisti, in un apparen-te disordine, capaci di affrontare con i sistemi delleimmagini la visione poetica del presente.Anni passatinel profondo malessere dell’isolamento a sbirciaresommovimenti poco capiti e mai pienamente condi-visi. Il tempo lungo di meditazione teorica è stato inogni caso necessario per capire e per cogliere la ne-cessità di proporsi. Non si tratta di ripercorrere la sto-ria come è stato fatto da alcuni citazionisti. Le vissuteesperienze non si cancellano e le clonazioni disgusta-no nei ritorni. Ogni cosa ha una sua dimensione.Ogni manifestazione naturale o artificiale ti aiuta acapire meglio il nostro presente. Le esperienze delnostro tempo ci hanno resi smaliziati e liberi. Ci han-no dato occhi più attenti. Il caos potrebbe trasformar-si in ordine, non cercando le regole, ma accogliendodelle regolarità. La grammatica e la sintassi dell’artenon sono definibili a priori ma nelle pratiche di ogniartista. Attraverso l’attenzione al mondo, l’artista di-venta capace di mettere in crisi la logica economica-quantitativa attualmente dominante. Forse pensare al-la genialità della proposta di Filippo Tommaso Mari-netti (Noi canteremo…i nostri occhi abituati allapenombra si apriranno alle’più radiose visioni di lu-ce) con il suo Futurismo non è sbagliato. Ci aiuta acapire il modo di agire, di creare gruppo capace dipotenti passioni, di desideri, di ambizioni che sipossano realizzare nei comportamenti. Se oggi ab-biamo un vantaggio, rispetto al passato, è nel noncostringimento dottrinale, tutti abbiamo voglia di li-bertà, tutti abbiamo il desiderio di creare in autono-mia la nostra arte.Il “canto” è aperto.(e-mail: [email protected])Felice Naalin, pittore, scultore e scrittore, laureato in architet-tura a Venezia, è professore di Storia dell’Arte.

segue da pag. 23

Ricordare il primo incontro con un’opera d’arte co-me significato della propria esistenza.Tutto può con-correre a renderla indimenticabile: il momento, illuogo, l’ambientazione, la propria età, le condizionifisiche, morali e materiali.Vorremmo sapere da chileggerà questo breve scritto, il suo primo incontrocon un’opera d’arte indimenticabile.“L’uomo cerca nell’opera d’arte la scossa di un incontrocon l’invisibile e non la contemplazione di una virtuositàtecnica”. Jean Servier

Questo bellissimo concetto dà l’esatta idea di ciò chel’arte è come messaggio e comunicazione tra gli uo-mini. Il vero artista è un “iniziato”che fa da mediato-re tra i non iniziati e la potenza superiore dello spiri-to cui tutti gli esseri umani consciamente o incon-sciamente tendono. In tale senso è di fondamentaleimportanza il “primo incontro” con un’opera d’artesenza preventiva preparazione. Se l’opera d’arte pos-siede la capacità di attirare attenzione comunicandociò che contiene, e che tuttavia è invisibile, si produ-ce quella scossa emotiva che unifica lo spirito dell’ar-tista a quello dell’osservatore. La prima impressioneforte, quale che sia, resterà impressa nel DNA di chi

Cosa dire su Pasquale De Luca? Loconosco da più di otto anni e possodire che è una persona sincera, buonae affidabile. Molto semplice, ama lanatura, sua fonte inesauribile di ispira-zione. È vissuto in mezzo al verde, apochi passi dal mare. Suo nonno eraun contadino, coltivava piante di a-rance, mandarini, mandorle e ulivo.Da lui ha preso l’amore per la natura enon mi sorprende coglierlo spesso in-tento ad osservare un uccellino sullaspiaggia. Ha sempre creduto in quelloche faceva, da piccolo disegnava e di-pingeva senza alcun insegnamentotutto ciò che gli capitava, un lume o

un vaso di terracotta. Decise di frequentare l’Accade-mia di Belle Arti di Catanzaro, e nel ’93 prese la laurea.Lo conobbi nel ’95 per puro caso e ho trovato in lui u-na persona affidabile, socievole e sincera, con una gran-de passione per l’Arte e il suo mondo.Abbiamo mododi discutere, di scambiare idee, pareri e andare a vederequalche mostra insieme. Non è facile andare avanti edesprimersi, ma ha una forza e una volontà immense. Lavoglia di dare e comunicare è più forte di qualsiasi altracosa. La grinta, la passione e la dedizione che mette nelsuo lavoro è meravigliosa. Ha un piccolo studio nellaparte antica di Cropani Marina e lì passa la maggiorparte del tempo, è circondato da cose curiose, legnettiraccolti dal mare, conchiglie, vecchi macinacaffè e tantilibri d’arte classica e moderna, intere collezioni di fasci-coli di artisti e videocassette.Cos’altro dire su di lui, cheè una persona che ha tanta voglia di comunicare la suaarte e farsi apprezzare così com’è.Tende le sue tele dasolo, le inchioda sul telaio, gli piace crearsele su misurae a modo suo. Ma è da un po’ che non riusciva a vede-re la tela più come un semplice supporto per i colori.Desiderava qualcosa di diverso che gli comunicasse.Così un giorno vide un vecchio sacco abbandonato edè partito tutto da lì. Il ricordo del nonno contadino checoltivava la sua terra e mieteva il grano. Le sue manidure, forti piene di calli erano il peso del suo lavoro.Ec-co perché il sacco con la sua ruvidità, il suo odore di

Fragole e pannocchie di De LucaFrancesca Torchia

Fragoleolio su tela di saccocm 90 x 86,5

Pannocchieolio su tela di saccocm 130 x 110

grano, di castagne, fa scaturire nella sua mente una seriedi emozioni cui deve dare libero sfogo.Ecco che nasco-no: le Fragole e le Pannocchie, due fra i più bei sacchi di-pinti, sintesi dei suoi pensieri più intensi. Il sacco non èpiù solamente materia, supporto,ma è un pensiero e glispazi lasciati nudi senza colore sono un’emozione, unasperanza. Nell’insieme, il sacco vissuto è passato, ricor-do, è una forza che attraverso il pensiero esplode e in-contra la materia. Il disegno, il colore, sono il suo pre-sente, la sua vita, la sua gioia, il suo modo di esprimersi.Nella pannocchia, e nelle fragole, frutti della natura, siriflette la sua semplicità. Riesci quasi a vivere nel qua-dro, ad avvertire le sue stesse emozioni. La tecnica, il di-segno, l’equilibrio, i colori puri, in perfetta armonia, laluce pulita, serena quasi vibrante, tutto viene percepito,simultaneamente, davanti a un suo dipinto.Qui racchiude la natura e la sua volontà. Gli augurocon tutto il cuore di riuscire a fare apprezzare la sua ar-te, cosi come l’apprezzo io.

Incontro con l’opera d’arteFernanda Borio

l’ha provata e mai, rivedendo l’opera in tempi succes-sivi, riproverà la stessa irripetibile emozione. Certa-mente verrà 0 in tutti i suoi aspetti: formato, mate-riale, tecnica, composizione e così via e la conoscen-za di ciò che ne è il soggetto la renderà materialmen-te più comprensibile e fruibile. Ma l’attimo magicodel primo incontro sarà qualcosa di simile a un para-diso perduto. L’opera d’arte può trovarsi sola e isolatain un ambiente chiuso o aperto, stretto o largo ed es-sere di per se stessa il centro motore di attrazione.Oppure può far parte di una mostra dello stesso au-tore ed emergere tra tutte le altre per le sue qualitàintrinseche percepite dall’osservatore.O ancora, può trovarsi nell’ambito di una collettivache sollecita il raffronto tra opere di diversi autori,tecniche ed espressività opposte fra loro. A chi vi siaccosta senza averla mai vista prima, o che conoscal’autore indirettamente per fattori culturali, o chenon ne conosca neppure la collocazione temporaleevolutiva in un certo periodo storico, l’opera d’arteindirizza il suo richiamo, proporzionale a ciò checontiene al di là di quanto è immediatamente visibi-le. A questo punto entra in funzione la psicologiadell’osservatore che nel soffermarsi davanti a un’ope-

ra ne avverte il linguaggio nuovo per lapropria sensibilità che lo porta a impri-mersi nella memoria in modo indimenti-cabile il primo incontro con quell’operad’arte. La folgorazione che proviene dalprimo incontro provoca nell’osservatore,a volte a livello inconscio, le domande:“Cosa mi attrae in quest’opera così in-tensamente? Al di là della sua oggettiva-zione espressa da un titolo, l’atto creativocosa contiene e vuole comunicarmi?”.Sentire l’interna vitalità dell’opera d’arteproduce la “scossa” citata da Jean Serviere chiaramente evidenziata da Michelan-gelo nell’incontro delle due mani: quelladel Creatore e quella che ha creato, dan-dole vita.

Michelangelo Buonarroti,Creazione di Adamo

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Che cosa può indurre oggi un artista a continuare l’ope-ra di Marcel Duchamp, quando fu proprio lui a rompe-re con tutte le tradizioni? Non sarebbe meglio comin-ciare col chiarire questa domanda, precisando che, forse,Duchamp ha stravolto il modello della creazione artisti-ca senza tuttavia rompere con una o più tradizioni spiri-tuali? Per rimanere al processo creativo, è un dato gene-ralmente acquisito che Duchamp è all’origine di una se-rie d’interrogativi sull’arte che hanno instaurato unanuova forma di trasmissione. Sarebbe, dunque, il padrefondatore di una stirpe di ricercatori, pensatori e poetiriuniti sotto l’egida del Processo Creativo. Ora, comefunziona questo cervello creativo? Che cosa capta, checosa sovverte, lui che è sempre a caccia del nuovo, del-l’insperato e del meraviglioso? Da quali circostanze for-tuite comincerà a tessere la sua tela avventurosa? E comecontrassegnare la costellazione o configurazione impro-babile che la sua mente è riuscita a strappare al caos? Chenome dare a quella cosa che nasce un mattino, senza cheil suo nome risuoni nuovamente degli echi venuti datradizioni diverse e dunque da stili diversi? Gli interroga-tivi si riducono ad uno solo: come rompere continuan-do? Fu questo il senso dell’opera di Kierkegaard in La ri-petizione: porre l’assoluto come unico maestro di pensie-ro. Continuare Duchamp, ecco un progetto ambizioso.Ci troviamo nell’attuale esposizione davanti ad un’operaambiziosa, frutto di tutta una vita di lavori che si conca-tenano, riferendosi l’uno all’altro come il pensiero diDuchamp. Perché è proprio a Duchamp che rende o-maggio Roland van den Berghe. Bisognava, per far ri-conciliare Duchamp con se stesso, fargli incontrare Fer-nando Pessoa. È cosa fatta in MUTU M’ e nell’AB-BRACCIO. Cosa può fare, allora, un artista oggi? Unartista che subisce il peso delle tradizioni millenarie, chealtro non lasciano, se non tracce? Solo le tracce fanno so-gnare, dice il poeta René Char. Ed è proprio nonostantese stesso, ma grazie alla propria memoria, che l’artista di-venta un punto d’incontro e prosegue l’interrogativometafisico trasmesso da alcuni esploratori che gli invianodei segnali. Rimarrà sempre la questione della rivelazio-ne e del linguaggio cifrato, del mistero e della sua attra-zione, della seduzione e del rifiuto delle immagini. Unastruttura ricorrente propone l’estensione dell’Uno nelmultiplo, a condizione che lo sguardo dello spettatorecreativo vada costantemente dall’uno all’altro polo dellacreazione. Il suo sguardo si esercita al va e vieni e si sof-ferma su un dettaglio che diventa chiave. Proprio comelo spettatore, l’artista aspetta che il caso gli porga unachiave d’interpretazione del mondo. Da lì, tutti i simbo-li si susseguono in una serie sempre aperta. Duchamp ePessoa, Roland van den Berghe e Eduardo e PeppinoDe Filippo. Se l’artista vuole rimanere assente dalla suaopera, il risultato sarà Marcel-Fernando-Eduardo e Pep-pino.È così che tutte le deviazioni diventano possibili, inquanto indici dell’inafferrabile poeticità dell’Essere. Pos-siamo fare incontrare l’Expresso portoghese con Le Mon-

de francese, facendo in modo che uno abbracci l’altro.Eccoci in piena metafisica dell’estensione. Farli incon-trare a 45º, sotto la protezione di una tenda trasparente.Vi aggiungeremo, in Le Monde, un triangolo costituitoda dieci punti (1+2+3+4+10: la Tetractys pitagorica, le10 Sefirot) sotto forma di lacrime, il cui vuoto si proiet-terà su l’Expresso sotto forma di mongolfiere azzurre, sei.In effetti, piegandosi uno sull’altro, i nostri due giornalientrano in un’altra dimensione. Al disotto della lineadell’orizzonte (del Grande Vetro...) regna il mondo diqua giù, lineare e pesante, mentre planando al disopra

dell’orizzonte, possiamo scorgere il numero sei,(1+2+3), a connotazione aerea e cosmica, primo nume-ro perfetto,“numero nuziale”per Platone, sigillo di Salo-mone e, innalzato al quadrato (6x6=36), grande Te-tractys pitagorica: (1+3+5+7) + (2+4+6+8)=36. Inquesto gioco di specchi, stampigliare e stampare, piegaree spiegare, lo spettatore-lettore si ritrova complice delletrasformazioni-trasmutazioni infinite.Alle quali l’autore-attore può aggiungere i propri ricordi dell’azzurro piùbello fra tutti gli azzurri: l’azzurro perfetto del cielo delPortogallo, il cui colore corrisponde “esattamente” al-l’azzurro delle ali dei piccioni dipinti che s’incontrano inuna certa frazioncina, di una certa regione del Portogal-lo: Fabrica, per la precisione, nelle vicinanze di Tavira.Senza dimenticare, in questo caso specifico, gli echi e gliscambi tra personaggi e avvenimenti raccontati in LeMonde, l’Expresso, Grand Hôtel e Arte Incontro in libreria diMilano, che ben porta il suo nome. Ma che titolo attri-buirgli? L’Abbraccio. Quest’opera abbraccia un’opera pre-cedente intitolata MUTU M’, ars combinatoria aventecome risultato l’Egitto con la dea Mut, il luogo nel de-serto chiamato Mût e il quadro di Duchamp intitolatoTu m’. MUTU è formato da quattro lettere, che casofortunato. Gli spettatori sono presi, malgrado loro, inquesta rete di segni che non fanno l’opera,ma che costi-tuiscono la tela di fondo sulla quale l’opera crea l’evento.I materiali dell’opera diventeranno quanto piu possibiletrasparenti. Il plexiglas è perfetto per suggerire un nuovoGrande Vetro, in cui lo spettatore è preso nella semplicitàdell’abbraccio sotto la tenda del tabernacolo. I due gior-nali, piegati sotto la protezione del cielo, suggerisconoun rovesciamento cielo-terra altrettanto radicale e anco-ra più aereo del capovolgimento dell’Orinatoio a 90ºche rinvia la Fontana ad una speculazione sulle dimen-sioni spaziali e spirituali. Forma e immagine aerea, l’Ab-braccio permette ai due protagonisti, Eduardo e Peppinoalias M.D. e F.P. di spiccare il volo, e perché no in mon-golfiera, ottimo mezzo di trasporto, riflettente e legger-mente imprevedibile nel suo percorso. È come se l’ope-ra di un artista ne illuminasse un’altra e, al limite, comese tutte le opere d’arte s’illuminassero reciprocamente.Ma cosa succede? Perché Peppino abbraccia con losguardo e con la mano il viso del fratello? Sappiamo chesi sono riconciliati sul letto di morte di Peppino. Maperché Marcel presenta allo spettatore il proprio profiloavendo l’aria di guardare altrove? Leggiamo l’iscrizione

che compare sulla pietra tombale della famiglia Du-champ:“D’altronde sono sempre gli altri che muoiono”.In una nota Roland suggerisce che Marcel Duchamp, losguardo rivolto lontano, sembra vedere la fine del tun-nel, il bagliore della luce... L’artista sale e scende dal su-blime al popolare, attento solo al processo creativo.È co-sì che come in una favola,Duchamp e Pessoa s’incontra-no sotto le sembianze dei fratelli Eduardo e Peppino DeFilippo che si riconciliano. Si abbracciano. È l’attimodella morte, il ritiro definitivo dell’incompiuto che uni-sce.È grazie a quest’attimo, forse, che la creazione conti-nua. Creazione tentacolare di legami, che si prolunganonella mente di ogni spettatore. Dove finisce l’opera, do-ve inizia la lettura? Marcel Duchamp amava il filo chevola e cade, tre volte, scoprendo la manifestazione del-l’Uno. In occasione della mostra First Papers of Surrealismnel 1942 a New York, divenne attore-spettatore sroto-lando un lungo spago in molteplici viluppi, formandouna ragnatela dal pavimento al soffitto e tra i pannellidell’esposizione, riportato nel catalogo come “sixteenmiles of string”.Voleva indicare la difficoltà di capirel’arte moderna, secondo l’interpretazione di Harriet eSidney Janis, o si trattava piuttosto di un tentativo di oc-cultare le opere d’arte? O ancora: l’Uno si scioglie, si sro-tola e così facendo si mette a nudo. Si mette a nudo co-me la Sposa. Piero Manzoni lascia che una linea si sroto-li e si riarrotoli e il cilindro stesso diventa opera. È possi-bile che ogni intervento umano comporti perdita di ve-rità? Lo sguardo di Marcel si perde verso una luce im-probabile, mentre guarda, compassionevole, il fratelloFernando morire. La du-plicità regna. È quando il tragi-co si fonde al grottesco che la creazione continua. Verti-gini. Ci sarebbe dunque sempre un’ante-opera e unaante-lettura, qualsiasi lettura? La creazione come l’inter-pretazione non sono forse una risposta ad un appelloche di per sé è gia risposta ad un appello precedente?Tutto torna. Ed una ex-position (esposizione) che altrofa se non trarre dall’invisibile ciò che accade ad ogni i-stante in un qualche luogo, ossia stabilire dei collega-menti, tessere delle tele? Nel processo creativo tutto sisviluppa in un mondo che non aspetta altro che essererivelato e che forse si ripiega nel segreto. Il giornale. U-na pagina si piega, l’Uno diventa due, il due diventaquattro, in croce. Il processo è cominciato. Una paginapuò contenerne un’altra. L’abbracciante-abbracciato. Lapagina piegata diventa tetto, custode della scrittura. Lapagina stampata diventa giornale, evento. Un luogo puòcontenerne un altro, una data un’altra. Nascita-morte. Igiornali possono essere leggermente rivisti e corretti:IMMIXTURE, firma V.V.V., allusione a Breton. Lamongolfiera dei due avventurieri dello spazio atterra inun luogo stranamente chiamato Mût. Richiamo alla deaMut rappresentata nel geroglifico da un avvoltoio.Ecco-ci in Egitto, terra d’origine. Il lettore, felice, ha il tempodi ritrovarvi Tu m’, l’ultima tela misteriosa di MarcelDuchamp, alias R.Mutt, col suo volo di quadrati colora-ti disposti in prospettiva come in un tunnel. Le dimen-sioni, le pieghe, le superfici rimandano lo spettatore adun universo scintillante. Lo scritto rinvia ad una scrittu-ra ad infinitum. Le domande riecheggiano nello spaziodell’esposizione.

L’abbraccioRoland van den Berghe e Marcel Duchamp

Annie Reniers

FOUND ANNOUNCEMENTMESSAGGIO GenovaWednesday, June 13, 1979Grand Hôtel 10 Giugno 1979N.23 – Anno XXXIV L. 400Reversion (1979 – 2003) Roland Van den Berghe

White Newspaper, (Bruxelles, 27 April 1968)Nell’aprile del 1968 Van den Berghe fece girare a vuoto il cilindro di stampadella rotativa sulla quale veniva stampato il settimanale di cultura belga “DeSpectator”. In questo modo produsse 100 giornali in bianco che in data 4maggio 1968 furono presentati al pubblico riunitosi nella Sala Rotonda delPalazzo delle Belle Arti di Bruxelles.

Corriere Della Sera, Milano, Mercoledi 4 luglio 1979 Anno Piccola Publicita p.16, 17 Messagi Personali, Roland Van den Berghe

ANNIE RENIERS è nata a Bruxelles nel 1941. Ha studiatoFilosofia e Letteratura Tedesca all’Università di Bruxelles, dove siè laureata con una tesi in ontologia-fenomenologia dell' arte con-temporanea. È attualmente docente di Estetica e Storia dell’artecontemporanea all’Università di Bruxelles (VUB). Ha pubblica-to numerosi saggi di estetica e volumi di poesie in fiammingo efrancese. Ha vissuto a Roma dal 1965 al 1977.

MARIA GRAZIA GROSSI traduzione dal francese

NICK STRONG immagini al computer

Segrete di Bocca, 30 Marzo - 25 Aprile 2004

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È stato davvero un incontro fortunato quello tra “Que-stioni di cuore” e Mojmir Jezek: fortunato soprattuttoper me perché il tratto morbido e misterioso di Jezekha reso inconfondibile la mia rubrica: sfogli magari di-strattamente “Il Venerdì” e devi per forza fermarti da-vanti ad una finestra su cui si affacciano soffici cuoritrafitti da pugnali, bocche a cuore, cuori faticosamenteportati sulle spalle da ometti, cuori in un cassetto, cuoricome mazzi di fiori: cuori sempre molto rossi, di unrosso festoso. Per frettolosità non l’ho mai ringraziatodella pazienza e del talento con cui ogni settimana dàveramente luce alle incertezze e spesso anche agli au-tentici dolori di chi mi scrive.Lo faccio adesso, approfittando di questa sua mostra,che si intitola proprio, e lo ritengo un grande omaggio,“Questioni di cuore”: e su suo invito ci sono proprio “imiei cuori”, anche quello più emblematico della miarubrica, un cuore a terra, frantumato come un coccio.Certe volte, mi pare che sia lui a rispondere meglio dime a chi mi scrive: io uso le parole, che spesso hannotorto o sono insufficienti, lui usa l’immagine essenzialee certe volte crudele: mancano i volti, nei suoi disegni,perché sono inutili e quando disegna i corpi, ne porgesolo un pezzo, essenziale e protagonista: un seno, unanatica, una gola, una mano, un piede, una schiena. Sonogli emblemi di un feticismo amoroso, l’interpretazionedi un desiderio o di un sogno di chi scrive perché amacon difficoltà, perché non è amato, perché è negletto: etalvolta persino perché è felice, e Jezek l’ha capito pri-ma di me.

“Ha grande potere evocativo, non solo colui che vive una datamitologia ed agisce di conseguenza, ma anche ogni autenticonarratore di miti, creatore o risuscitatore di mitologia”Karely Karenki

Forza evocatrice del Mito, invenzione plastica, ricerca dirigorosi equilibri sono la giusta chiave di lettura per le

sculture di Nicoli. Il Mito è l’im-magine di un mondo perduto ep-pur così vivo nella coscienza econsapevolezza dell’uomo con-temporaneo, laddove i valori e-

tici e civili che connotaronole gesta degli dei ed eroisembrano oggi essere venutimeno o, forse, non esseremai esistiti. Noi abbiamoperduto l’accesso immedia-

to alle grandi realtà del mon-do spirituale, ed a questo ap-

partiene tutto ciò che è auten-ticamente mitologico; la scultura

di Claudio Nicoli ci ricorda chefatti grandiosi sono avvenutisulla terra e che questo “pas-sato glorioso” è in parte re-

È sempre difficile scrivere di un giovane talento, tradur-re in parole le raffigurazioni di Marcello Mantovani perseguirne il nesso filologico che lega la sua pittura allarealtà di oggi con convinzione di grande carattere.I ritratti dei familiari, di amici, sono temi recenti, af-frontati con la stessa carica espressiva, con la volontà diaggiungere sempre qualcosa di nuovo al suo linguaggiopittorico. Considero quindi questi ultimi dipinti comeparte integrante della sua ricerca artistica.La volontà del colloquio umano è, per Marcello, so-prattutto volontà di poesia. Egli non cerca delle formema trova figure, volti, oggetti e frutti. Ferma sulla telavolti di persone, gente di oggi: un quotidiano di affettie storia è il suo racconto. La carica di passione realisticae la coscienza stilistica sono colte in piena adesione sen-timentale, risolte con toni lirici e subito integrate nellaresa oggettiva. L’equilibrio formale è ugualmente com-plesso e armonioso nel canto di personaggi scanditi disegni e colore, intrisi di luce. Marcello non si è mai di-

cuperabile. Il percorso artistico di Claudio Nicoli affon-da le sue radici in quella che è la cultura classica, dallaquale ha attinto non solo la ricerca plastica ma anche laforza evocatrice del mito. Il mito come fonte per narra-re grandi gesta in chiave di lettura personale e modernanelle sue scelte interpretative. Dalla terra prescelta daglietruschi, Nicoli ha sicuramente tratto grande fonte d’i-spirazione.Trasferitosi prima in Toscana, terminati glistudi accademici, poi in Umbria non lontano da Chiu-si, l’antica Cleusin, insediamento urbano già dal VIII se-colo a.C. e poi romana Clusium una delle più antichecittà della Dodecapoli Centrale, ridà vita a forme arca-ne, antiche, com’è antico lo spirito che lo porta a pla-smare dalla terra suggestioni di memoria classica nellapiù spontanea e limpida espressività.“Sono nato con l’ar-gilla in mano”dice l’artista; ed è ancora una volta la terra,questa volta tutta emiliana, nasce infatti nel 1958 a SanGiovanni in Persiceto a pochi chilometri da Bologna, acostituire il suo bagaglio emotivo. Per Nicoli è il panedella memoria che impasta tradizione e cultura; nellaterra che l’ha visto bambino, l’argilla era dappertutto as-sieme all’acqua, un autentico invito alla creazione. Laricerca plastica di Nicoli nasce infatti dal suo stesso in-conscio e da un immaginario che fa parte della nostracultura mediterranea. Egli attinge al “Grande Passato”,riportandolo emotivamente in sintesi, si rivolge alla pla-sticità greca per ciò che concerne gli equilibri ed alla e-nigmaticità etrusca per ciò che riguarda il “racconto”.Claudio Nicoli, dice Paolo Levi in “Le fusioni del Mitoe della Storia”, “…è uno scultore atemporale, formalmentedisinvolto e grazie alla sua poetica egli può confrontarsi con iMaestri che attraverso i secoli hanno costruito il grande museo

Claudio NicoliPatrizia Cerri

della nostra storia dell’arte”; ed ancora,“…all’interno di ognisuo lavoro, si avvertono premesse arcaiche, che nulla tolgono adun pathos contemporaneo.Egli riesce ad essere eretico e nel con-tempo severo, rigoroso nel suo richiamo alla classicità e rivolu-zionario nell’esplicitare le lezioni apprese dalle modalità dellaraffigurazione contemporanea. Dovremmo, nella vita, impararea sfrondare, a togliere tutto ciò che non è necessario”, dice l’ar-tista”; ed ancora “lo vedi il perno vitale sul quale poggia l’e-sistenza della scultura, il centro dell’equilibrio attorno al qualeessa ruota? Allora puoi comprendere l’opera; e l’anima del per-no è l’idea”. Nicoli perviene ad una sintesi estrema dellasua ricerca plastica nella serie di Cavallo e Cavallo e cava-liere dal 1990,dove “l’equilibrio” rappresenta per l’artistala costante ricerca di una valenza etica insita nel “fare ar-te”, il rigore composito avvicina lo spettatore all’essenzadell’opera stessa che passando attraverso lo spirito si fis-sa sulla materia. In queste opere l’au-tore affronta, tra l’altro, la dualità la-cerante del binomio che, ricompo-nendosi, muta la sua parte animalein un impeto dello spirito volgendosi inenergia vitale. Fortemente espressiva è la serie Icaro,dove un’esasperata tensione ritmico-emotiva sotto-linea un’evoluzione interiore dell’uomo verso unacrescita spirituale. Tensione, torsione, dunque, e-quilibri assoluti di masse in espansione, fram-menti di volti di Eroi lacerati (Elmo di Achil-le, 1993 ), sono le creature che Claudio Ni-coli ha prediletto per meglio lasciar trape-lare l’arcana saggezza del Mito.

scostato da un riferimento alla realtà, proprio perché larealtà è l’invenzione che ciascuno di noi fa del mondoche percepisce: la sua pittura, il suo mondo poetico, lasua realtà, la sua felicità di dipingere, le sue nuove inten-zioni di ridurre il quadro alla luce-colore, con supportomaterico, arricchito da una colorazione fatta da terrecalde di tono. Per Marcello, matita o pittura, il discorsoè tutt’uno. È interessante come sa cogliere, rappresenta-re così bene ciò che avviene dentro di lui: ha gli occhibuoni per capire la buona pittura e s’abbandona allagioia di dipingere.Dipinge i suoi pensieri, è sincero, sa che l’arte modernae contemporanea è micidiale e spesso è fatta di indovi-nelli linguistici. Marcello ha imposto la nuova visione ela realtà, che da tempo andava maturando, osservando, ela ricerca si è arricchita, ha acquisito nuove sfumature,ha spostato la sua attenzione agli affetti familiari più vi-cini, oltre i luoghi dove di solito ritrae i suoi personag-gi.Ha chiuso la porta dello studio per meglio meditare.Sono bastati pochi metri e l’incontro con nuove facce enuovi accordi luminosi per ampliare di conoscenza isuoi abituali procedimenti pittorici. È cambiata soprat-tutto la luce, una luce di composizione e di spazio, do-ve le nuove facce vivono con diretta e immediata e-

spressione fatta di tocchi sicuri, dentro densi im-pasti materici con luce uniformemente diffusa,che si distende con omogeneità sulle figure dan-do solidità plastica, pur rimanendo sempre caldadi tono e sentimento. La materia pittorica dellasuperficie riceve i personaggi in un’atmosferadorata e conferisce all’immagine una sensazionedi calore e di diario.La figura, strettamente collegata da tempo allestagioni del cuore, alle emozioni, agli stati d’ani-mo, è interpretata in un gioco denso di alta e fer-vente matericità di luce/colore.La ricerca di Marcello, poetica e tecnica, è incen-trata in una sorta di evocazione figurale, sensoria-le, in sospesi racconti, come possibilità e urgenzadi sentire e di vivere la natura umana. Oggi, intanta giovane pittura europea si avverte una cosìdecisa ripresa della figura, un desiderio/bisognodi guardarsi, di conoscersi, di tornare a specchiar-si recuperando un’identità fisica: il corpo, e un’i-dentità temporale: la memoria.Le ricerche tecnologiche sull’immagine (foto, ci-nema, video), utilizzate come nuovi media, sonomomentaneamente rifiutati dal nostro pittore,che preferisce oggi esprimersi in forme di reali-smo tormentato, arricchito da segni ritmici cosìche la scelta formale tende ad un espressionismoduro, selvaggio, con forti sciabolate segniche e uncolore sicuro. L’orto di casa, dei sentimenti do-mestici, delle persone che lo abitano: questa è lascelta e il mondo di Marcello, che, da poco, hacircoscritto il suo interesse a pochi soggetti e apochissime figure, interessato più alle tessiture diluce, maturando uno stile originale di rappresen-tazione, capace di far sentire la figura armoniosa-mente inserita nel contesto naturale.Marcello racconta la sua vita, fatta di atmosfere

Caro MarcelloNatale Addamiano

familiari dove,da vero pitto-re, trasporta e realizza unasua galleria di personaggi,cercando quasi di raggiun-gere l’effetto di un reporta-ge, di un diario per immagi-ni vive, suggestive di comu-nicazione e di una buonasapienza caratteriale e psico-logica delle persone ritratte,come documento di vita.Queste ultime sono perfet-tamente inserite nei bianchicaldi dello spazio, i voltisempre risolti con tocchi si-curi ed evidenziano i trattisomatici e le espressioni, omeglio le maschere espressive delle persone. A questoscopo Marcello esplica una indubbia, ben maturata ca-pacità tecnica: le sue immagini vivono anche di una suaidentità espressiva e psicologica.Auguri, Marcello, con una stretta di mano.

Io sono Vanessa, 2003, acrilico su tavola, cm 50 x 82

Chiara, 2003,acrilico su tavola

cm 40 x 50

I batticuori diJezek Mojmir

Natalia Aspesi

Cavallo e cavaliere, 2002, bronzo, cm 38 David, 1997, bronzo, cm 54, p.d.a.

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Sono state la consistenza o la malleabilità le proprietàche hanno fatto della carta l’oggetto dell’attenzione edel lavoro di Grazia Gabbini? Da anni l’artista condu-ce con tenacia e rigore una ricerca appartata e consa-pevole. I suoi collages di carta e pigmenti nascono a-malgamando carte veline, carte giapponesi, carte rici-clate e carte da giornale e accorpandole con il colore.Oltrepassata la superficie di fogli in apparenza fragilied effimeri, si scoprono veri e propri campi di forze,forze che un tempo gravitavano al centro mentre og-gi se ne allontanano. In questi lavori elastici e resisten-ti la materia è colta in un istante del suo incessante di-venire, esprimendo un senso di sedimentazione e oraanche di affrancamento. Sono vive testimonianze del-lo scorrere del tempo ed evocano arcane presenze re-cuperate nella memoria: reliquie del passato ma anchefigure del mondo fantastico. Sono opere che condivi-dono le leggi della scultura e quelle della pittura:prendono corpo grazie agli strati di materia, a unacomposizione articolata e al dialogo con l’ambiente,ma è pur sempre il colore che provoca la metamorfo-si. È attraverso un paziente lavoro di sovrapposizioni emacerazioni, in cui anche il caso svolge la sua parte,che Gabbini trasforma la carta in una sorta di pelle,quella che lei chiama “la pelle della pittura”. Un pro-cedimento per addizione il cui risultato è una sottra-zione di peso. Questo paradosso della massima legge-rezza congiunta con la massima pesantezza si potenzianell’ultimo ciclo di lavori, intitolato In margine. Circaun anno fa l’artista introduceva per la prima volta ilfilo di ferro, un “materiale” e al tempo stesso un “se-

Il rinvenimento casuale di alcune fotografie di mo-bili e interni d’epoca (presumibilmente risalenti aglianni ’20-30), innesca nel fare artistico di Max Marrauna dinamica reattiva volta alla manipolazione de-strutturante dell’immagine.Le fotografie in questione, memorie ingiallite, par-zialmente deteriorate dall’azione erosiva del tempo,sono infatti, all’origine di questi lavori che l’artistastesso, non a caso, chiama Lavagne. L’incontro fortui-to e non preventivato con le sbiadite virtualità dellefotografie, porta in sé una forza eventica che inten-ziona l’agire dell’artista, rendendo di fatto possibileun processo creativo che rivendica ad elementi resi-duali del passato una nuova condizione d’esistenza. Isuoi segni forti e decisi tendono a liberare l’immagi-ne dall’esilio della propria riconoscibilità, ridefinen-done il proprio destino di cosa; tendono ad infran-gere l’involucro cristallizzato della sua esistenza sto-rica, assegnando le tracce e i frammenti visibili chepur permangono di essa ad una dimensione a-stori-ca: quella dell’opera, in cui si condensa il nucleo del-l’esistere creativo. L’originaria struttura fotografica,sotto l’incalzare ritmico del gesto, diventa superficienuova — Lavagna, appunto — su cui riattivare ilpercorso di formazione del segno, la sua genesi scrit-turale, in un progressivo disvelamento di: forme e si-gnificati; punti di fuga; prospettive mutevoli; larghecampiture nere in cui si contestualizzano porzionidell’immagine primaria che, in un costante e scam-bievole trapasso dal passato al presente, aprono nuovispazi alla narrazione pittorica. E, ogni lavagna diven-ta elemento essenziale — E(s)senza — in una suc-cessione di stati d’esistenza in cui nessuno degli ele-menti coinvolti comincia e finisce, ma tutti si pro-lungano l’uno nell’altro (Bergson). Ciascuna di essecostituisce un elemento sintattico prezioso nell’im-paginazione del divenire esistenziale, nella sua inin-terrotta ri-scrittura. Ogni lavagna è materia infinita,ritmica continuità che scandisce “la vita temporaleprofonda, il moto invisibile” che attraversa la superfi-cie dell’opera; in cui si delinea chiaro il cammino diricerca di Marra.

L’oiseau s’est confondu avec le vent,Le ciel avec sa véritéL’homme avec sa réalitéPaul Eluard

La pittura di Marianna Baglìo è fatta di silenzi, di lucismorzate,di colori meditati ed estremamente controlla-ti, che caratterizzano tutte le fasi di un percorso legatoai valori della forma e della composizione.Un percorsoche si è sviluppato attraverso poco più di vent’anni dipresenze nelle gallerie italiane e francesi, di un impegnoe di una indagine espressiva che ha preso l’avvio all’Ac-cademia Albertina di Belle Arti, alla scuola di FrancescoMenzio ed Enrico Paolucci. E in tale angolazione, si èsviluppato un discorso quanto mai sostenuto da una in-

Della materia di cui sono fatti i sogniSara Fontana

E(s)senza lavagneTeolinda Coltellaro

Il senso musicaledella linea

Angelo Mistrangelo

gno”. Un materiale “dissonante” rispetto alla carta etuttavia sempre ricondotto entro un equilibrio armo-nico. Da allora nelle forme si è accentuata la tendenzaad aprirsi verso l’esterno, verso una più dinamica in-terazione con lo spazio, del resto già insita nelle cartedel passato. Sono invece cambiati gli strumenti: al co-lore atmosferico ed evocativo di un tempo è suben-trato un colore più pulito, mentale, e prevalgono blulavanda, giallo acido e arancio; inoltre l’acqua e l’ariahanno preso il posto del fuoco, con esiti formali sem-pre più eterei e depurati.Non a caso le suggestioni ri-chiamate dall’artista spaziano dai “colori delle notti o-rientali de Le mille e una notte, ai petali di Yves Kleinsulle sue superfici dorate, alle forme libere e leggeredel liberty, a certi corpi marini che ondeggiano si-nuosi negli abissi”. L’ultimo capitolo della sua speri-mentazione, sempre nell’ambito di una dialettica gra-vità-levità, si è schiuso con l’utilizzo di altri materialidi recupero. Sacchetti del pane e scatole di cartonevengono trasformati in soffici nidi che abbraccianoframmenti di memoria, amorevoli custodi di sogni epaure. Così Gabbini ribadisce quella necessità di con-tenimento che l’ha spinta a racchiudere sotto plexi-glas i piccoli lavori intitolati Icone.

teriore e interiorizzata visione della realtà circostante,da una capacità manuale che le ha permesso di “fissare”un paesaggio della memoria, da una intrinseca volontàdi dare vita e consistenza a una foglia o a un limone, auna scodella o a un peperone verde, a una mela o a unaconchiglia. Il dettato di questa artista, che ha insegnatodiscipline artistiche nelle scuole statali, appartiene a unadimensione mai sconfitta dalle consuetudini, dalle sot-tili angosce esistenziali, dai rapporti umani,ma tutto ap-pare scandito all’insegna di una energia che si traducein un contenuto lirismo. Si avverte, in ogni caso, una e-strema consapevolezza nel delineare gli elementi di unnaturalismo che va oltre la più scontata quotidianità,per trasformare ogni gesto in colore, ogni sentimentoin una linea tagliente e, talora, lievemente inquietante,ogni lontano orizzonte in un paesaggio suggestivo ericco di segrete riflessioni. Si ravvisa, quindi, nell’operadella Baglìo una tensione che percorre la superficie delquadro secondo un flusso che tende a un andante mu-sicale, a una nota che si libera incorporea nello spazio, auno spartito che riemerge da lontane stagioni e da in-commensurabili silenzi.

La Ciotola, 2003lavis ed acquarello, cm 31 x 18

In margine, 2003collage di carta e pigmentifili di ferro, cm 70 x 200

Nido, 2003, collage di cartae pigmenti, fili di ferrocm 19 x 19 x 19

Fuga, 1992, tecnica mista su vecchia foto anni ’40/50cm 15 x 24, foto N. Masciovecchio

Diagramma dell’anima, tecnica mista su vecchia foto anni ’40/50cm 24 x 18, foto, N. Masciovecchio

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Macromappa, 2003, tecnica mista su tela, cm 100 x 100

È un magma di colori tenuto assieme da un filoconduttore, il filo della necessità di una ragione,di un motivo di essere, quello che dà vita alleopere di Silvia Varini, quasi il tessuto connettivodi un’anima in ansia, in cerca di uno specchio,una superficie su cui riflettere la ragione di esi-stere, come un amore per la vita che voglia giu-stificarsi. Così l’acrilico sembra voler imprigio-nare una tensione pronta ad esplodere, a proiet-tare in un iperspazio simbolico pianeti che sonogrumi di emozioni, aromi di un microcosmoche l’artista vuole indagare, quasi incidere con ilbisturi a cercare il calore di un corpo, il sussul-to di una reazione di vita. È come una “confes-sione terapeutica” e, non a caso, gli inserti di bli-ster all’interno delle opere sono un chiarorichiamo alla funzione principale della pittura, aquell’indagine ribelle e appagante che ne fadesiderio di divincolarsi da un destino troppostretto e incomprensibile e, d’altro canto, diaccarezzarne la trama, scomporne e decifrarnela caotica casualità, costringendola a un proget-to ordinato, quasi assecondando un magicoordito. Prendono forma così autentiche mappeesistenziali, schemi lineari misti a lampi di colo-re che denunciano il composto smarrimentopsicologico di fronte a una ricerca che ha ilsapore di un’evasione concettuale, ma che èin realtà istanza estrema di ingrandimento,tentativo inconscio di definire una sorta distruttura molecolare della realtà, formulandoneuna istintiva e liberatoria composizione.La Nostra è preda di una specie di “nuclearismointrospettivo” che non teme, come quello stori-co, deflagrazioni atomiche,ma la composta con-statazione del vuoto, di una vita come riassuntodi pure emozioni, mutilata di consistenze for-mali, delicato e istintivo intreccio di percorsiesistenziali: linee di tensione, quasi generate daun campo magnetico, si stagliano sopra macchiedi colore di forte impatto emotivo e si allaccia-no alla tela come ferite ricucite da punti disutura. Sono cicatrici ispessite, materiche, chetradiscono il desiderio di recuperare un’identità,di affermare una certezza, di indirizzare un gio-vanile entusiasmo senza concedersi a un incom-bente e insidioso, siderale spazialismo, amaradenuncia di una terza onirica dimensione difuga da una quieta bidimensionalità figurativa.Si assiste così a un salvifico recupero terapeuti-co del colore, di una commossa orchestrazionedi tachisme, destinato a comporre un effetto dimusicale stordimento, pura catarsi emotiva.Vengono alla mente i sublimi accostamenti cro-matici di Burri, le sue originali intrusioni dimateriali d’uso comune sembrano ricalcare lostesso sogno e bisogno di decodificare la vita efarne un messaggio di umana e composta accet-tazione, forse di serena sconfitta.La Nostra giovane e promettente artista ha giàfotografato nelle sue tele il disorientamentomoderno di una società che ancora non sadistinguere tra forma e concetto, tra pensosariflessione e accattivante emozione.Forse il tenue linearismo lirico che popola lesue opere nasconde la comune sensazione diuna vita di precari equilibri in cui tutti ciimprovvisiamo incerti acrobati sospesi adanaloghe esili funi che ci donano un senso disicurezza nell’affrontare le luci e i colori diuna emozionante quanto breve traversata.

Aldo Benedetti

Mappe terapeutiche

Grazia Chiesa ha avuto l’indirizzo da GiorgioLodetti dopo aver ammirato le gigantografie diopere d’arte, sul ponteggio di Corso Magenta 10.Come mai, si era chiesta, non pubblicità com-merciale, ma una scelta controcorrente, una testi-monianza di profondo amore per il bello e perl’arte? Da parecchi mesi, infatti, con il titolo Dedi-cato a Lei si susseguono artisti di qualità indiscussa.Grazia vuole conoscere l’artefice di questa ideastraordinaria perché condivide la stessa disinteres-sata passione per l’arte. Con modi vivaci, il giova-ne e cordiale mecenate ci introduce nel suo stu-dio e, dinnanzi ad uno scrittoio allegramente di-sordinato, iniziamo a parlare con slancio e since-rità.Grazia: Mi presento, io sono la seconda generazionedella Fondazione d’Ars-Oscar Signorini, che pubblicala rivista d’arte contemporanea D’Ars, fondata nel Ses-santa, e organizza mostre in gallerie e strutture dove lagente è invogliata a conoscere l’arte.M.: allora avremo un futuro insieme. Sa quantigiovani artisti conosco ormai da anni, con i qualiho allacciato un rapporto di grande amicizia, eche quando sono in crisi mi chiamano anche dinotte? Hanno una critica eccellente dalla loro,mafanno fatica a trovare spazi per esporre quando ecome vorrebbero: la galleria pretende almeno 100quadri all’anno quando loro riescono a farne 15 o20. Il mercato ha certe regole e se non le rispettisei tagliato fuori automaticamente.Il nostro statuto dice che Signorini ha voluto la nostraorganizzazione per aiutare gli artisti ad affermarsi nelcampo dell’arte, soprattutto i giovani.Vede, in questo settore, ci sono alcuni che nonhanno né qualità pittoriche né tecnica, eppureforse perché si presentano bene o sono social-mente conosciuti hanno successo: quelli bravi, al-lora, vanno in depressione e telefonano di notte.Spesso abbiamo discussioni molto animate nonper il modo d’interpretare la pittura, ma su comemuoversi in questo mondo di pittori.“Si sostiene l’arte sostenendo lo spirito dell’arti-sta” che ha bisogno di sentirsi apprezzato perquello che fa. Quando c’è amicizia ci si può per-mettere d’avere confronti chiari e poi è impor-tante per il pittore avere qualcuno che dica le co-se come stanno senza alcun fine commerciale.So-no cresciuto in una casa piena di quadri, poi misono sposato con una persona che ama moltissi-mo l’arte ed è stata una continua crescita.Come si chiama sua moglie?Maria. Quello che mi ha sempre affascinato negliartisti è la bravura. Quando giro per le mostresento dire che il pennello non è più importante:secondo me tutti, come i grandi del passato,devo-no partire da una grande tecnica per poi svilup-pare un proprio percorso.La gigantografia espostain dicembre in Corso Magenta ha suscitato l’inte-resse di Patrizia Valduga che ha scritto un articolosu Repubblica intitolato: “Grazie Serafini per lastrage di Corso Magenta. L’unico simbolo di Mi-lano degno di essere menzionato”. L’ironia delquadro era tutta in quei piccoli babbi natale, stesistecchiti, in un mondo dove tutti corrono senzameta.Quanto misura?Otto metri per otto. Serafini è un grande, l’avevoinvitato nella mia piccola Galleria in via Sant’A-gnese per partecipare alla mostra sullo Zoo dome-stico e si è presentato con un maialino… È un ar-tista geniale in tutte le sue forme d’arte, dalla pit-tura all’architettura, ai libri, famosissimo il suoCodex pubblicato, vent’anni fa, da Franco MariaRicci.E questa “Lei” di Dedicato a Lei, chi è?È un mistero facile da scoprire perché nasce pro-prio da questo mio modo d’essere. Non mi inte-ressavano tutte quelle agenzie pubblicititarie cheproponevano contratti così un giorno, mentrepassavo in Corso Magenta per controllare il pa-lazzo che stavo ristrutturando mi è venuta l’ideadi dare visibilità ai miei amici artisti e abbinare al-l’immagine esposta una quarta di copertina su Ar-te Incontro. Il rapporto con Giorgio e Gabriele,giovani proprietari della Libreria Bocca, è cosìricco d’entusiasmo che ci contagiamo a vicenda!E poi “Lei” chiaramente è Maria. In questa ope-razione non desidero si parli di me ma degli arti-

sti e del loro lavoro. Il pri-mo, Adriano Pompa, è fi-glio del grandissimo Gae-tano, che la critica dovreb-be riscattare da un ingiustooblio.Adriano è un minia-tore moderno che dipingesoggetti fantastici su fondioro e produce 15 quadriall’anno. Dopo di lui ab-biamo esposto un artistamolto noto, presente intutte le più importanti col-lezioni pubbliche: OddNerdrum che ha illustratoil manifesto del 45° Festi-val di Spoleto organizzatoda Giancarlo e ErancisMenotti. Per questo in-quietante e straordinariopittore norvegese è stata lasua prima partecipazionein Italia. Poi è stata la voltadi quel pittore toscano dalla tecnica raffinatissimae dal carattere molto scontroso, che è Luca Cro-cicchi, amatissimo da Te-stori. Il lavoro esposto faparte del suo secondo pe-riodo, quello più serenoche si rifà a Bellini e a Pie-ro della Francesca.In dicembre abbiamo e-sposto Luigi Serafini e afebbraio Vittorio Pescato-ri, che nel giugno scorsoha presentato le sue foto-grafie sul nuovo orientali-smo, in una mostra a Palaz-zo Reale.Ogni sua immagine è unpezzo unico ritoccato conterre e le sue scatole magi-che colgono l’anima delprotagonista con giochi dispecchi.Alcuni hanno visto in lui l’emulo di Car-tier Bresson. Successivamente avremo GiuseppeBergomi, uno tra i più im-portanti scultori italiani,seguito dal nuovo manife-sto del Festival di Spoletoper il quale non abbiamoancora scelto l’artista.Lino Frongia, un emilianoelegante, molto apprezzatoda Gianni Versace, sarà l’ul-timo.La sua produzione è costi-tuita, prevalentemente, daautoritratti copiati dai clas-sici.In futuro vorrei organizza-re una mostra, in uno spa-zio pubblico di Milano,dove ogni artista possa e-sporre almeno tre opereoltre al quadro già presen-tato. Questi i sogni di Dedicato a Lei. Intanto por-tiamo a termine l’immobile da ristrutturare.Lei di che cosa si occupa?Mi sono laureato in giuri-sprudenza, ma ho preferitoseguire l’attività di famiglianel settore edile.Quando mi propongonouna ristrutturazione cercodi ridare vitalità a queste“vecchie signore”, senzafare interventi radicali.È lungimiranza?Più che lungimiranza è at-taccamento alle belle cosedel passato.L’arte mi aiuta ad averesensibilità e rispetto perl’antico. Io sono convintodi questo:“l’arte fa cresce-re se hai voglia di cono-scerla”.

Dedicato a Leiincontro con un mecenate

Silvia Venuti

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Giardino delle piante di GirafeLegno e metalle, 2003

Roberto Abbiati ha la capacità di trovarestorie al limite dell’incredibile e di svilup-parle in progetti, che diventano anchemostre caratterizzate da un’intensa poesia,installazioni che commuovono i visitatorie poi,— secondo tutta la gamma della suaintensa creatività,— spettacoli teatrali cheriscuotono un grandissimo successo dipubblico e di critica. È andata così conNavi, balene e marinai la mostra che ho a-vuto l’onore di curare nel 2001 presso lagalleria Santabarbara a Milano ispirata alromanzo Moby Dick di Herman Melville,che poi nell’estate del 2002 a mia insapu-ta è diventata un’istallazione presso castel-lo Pasquini a Castiglioncello e uno spetta-colo teatrale itinerante per l’Italia, ripro-ducente la stiva della nave del capitano A-chab dove si può accedere solamente adodici persone per volta. Roberto conquesta performance teatrale ha saputo tra-sformare l’esposizione in un’installazione

vivente, dove anche il pubblico fa parte dell’opera e dovesculture analoghe a quelle in mostra costituiscono la sceno-grafia, appese sulle pareti della stiva. Vecchi cassetti con po-sate, attrezzi da falegname,piallatrici,disegni, conchiglie e fildi ferro che riprendono la forma della nave o quella dellabalena e che Roberto apre e chiude come finestre animate.Ora Abbiati ha saputo ripetersi, cambiando di nuovo tutto.Il nuovo spunto creativo è venuto da una bellissima storiarealmente accaduta e da tempo dimenticata: quella dellaprima giraffa giunta nell’Europa moderna, che non vedevaanimali di questo tipo dal tempo dell’impero romano.Zara-

Roberto Abbiati e il viaggio di ZarafaVladek Cwalinski

Fra tutti gli oggetti i più cariSono per me quelli usati.Storti agli orli e ammaccati,i recipienti di rame,i coltelli e forchetteche hanno di legno i manici,lucidi per tante mani;simili formemi paiono di tutte le più nobili.Come le lastre di pietra

fa, così veniva chiamato l’animale, era stata catturata in Su-dan ancora piccolissima come dono, offerto dal viceré d’E-gitto Mehmet Ali, destinato al re di Francia Carlo X. Se-guendo il corso del Nilo fu condotta prima a Khartum epoi al Cairo dove fu separata dal fratellino.Da qui giunse adAlessandria d’Egitto dove fu imbarcata su una nave che at-traversò il Mediterraneo, con un foro nel ponte per per-metterle di metter fuori la testa. Essa attraccò a Marsiglianell’ottobre del 1826 e subito una folla di curiosi iniziò ainteressarsi al suo prezioso carico. La curiosità popolare ar-rivò a tal punto che Zarafa, insieme al suo custode arabo A-tir, nel suo trasferimento a piedi verso Parigi per andare alJardin des Plantes al quale era destinata, passò tra due ali difolla entusiasta che la guardava con ammirazione.Essa giun-se alla meta e rimase al Jardin des Plantes per diciotto anni.Le sue sembianze avevano così colpito la fantasia del popo-lo da influenzare la moda parigina per più di un decennio:si hanno allora cappelli a forma di collo di giraffa,vestiti cheriprendevano il suo pelo maculato, servizi da té con teiere acollo lungo e tazzine ornate con giraffine… Roberto Ab-biati riesce ancora una volta a stupirci con le sue opere, re-

intorno a case antiche,da passi lise, levigate,e fra cui crescono erbe,codesti sono oggetti felici.Penetrati nell’uso di molti, spesso mutati,migliorano forma, si fanno preziosi perché tante volte apprezzati.

(B. Brecht, Poesie e canzoni, Einaudi)

centemente esposte alla libreria Bocca dal 26 febbraio al 6marzo 2004,proponendoci con la formidabile vena poeticache lo caratterizza tutto il viaggio di Zarafa a partire dalcontinente africano, evocato dagli splendidi caratteristicistrumenti in legno che escono dai suoi cassetti a scandire leprime tappe del viaggio. Zarafa è sempre lì, come una pre-senza inequivocabile e discreta, essa appare come un’im-pronta sul fondo delle scatole-ambienti, bagnata da unapioggerellina di colore sgocciolante a dripping, quasi ricor-do di tutte le intemperie che ha dovuto subire sul pontedella nave prima di giungere a destinazione. Il suo aspettovaria nel corso delle tappe di questo viaggio e si modificapassando dall’impronta a un vero e proprio ready made ret-tificato dove in memoria e ad onore della miglior venapoetica di Marcel Duchamp Roberto Abbiati gli dedica u-na canzone lontana e quotidiana utilizzando gli oggetti piùcari ormai logori dall’uso per ricavarne forme che, comeper incanto, vanno a formare la fisionomia di Zarafa, unagiraffa con le rotelle che percorre le strade della Francia, u-na giraffa attaccapanni che esce dall’anta-ponte di legnodella scatola-nave in cui viaggia ad ammirare il cielo stella-to.Viaggio.Viaggio di Zarafa e viaggio-ringraziamento de-gli oggetti che passando di mano in mano, da mestiere inmestiere, da offerta in offerta, da mostra in mostra arrivanoal loro Jardin des Plantes.

Les souvenirs de l’environnement visuel de l’enfance etde l’adolescence, restent tellement gravés dans nos mé-moires, dans notre conscient et notre subconscient,qu’ils nous intérpellent souvent de loin dans notre pré-sent. Parfois, ce sont des actes qui nourrissent l’instantprésent, précisément dans une rencontre avec le passéde l’imaginaire et des idées, forgeant le sens créateur,valorisant les choix et la sensibiité esthétique et artisti-que. Gualtiero Mocenni a toujours fait preuve dans savie artistique d’une grande fertilité créative, d’une é-norme énergie qui s’est traduite par une quantité con-sidérable de sculptures, de peintures, de gravures… Ondirait même qu’avec le temps, son enthousiasme et sonénergie ont exploré chaque jour davantage, ce dont té-moignent de nouvelles réalisations de plus en plusnombreuses, de nouvelles participations à des sympo-siums aux quatre coins du monde, sans parler des œu-vres significatives réalisées aux Etats-Unis, enUkraine, à Cuba, etc. Pour la seule année 2002,Mocenni a pris part à plus de cinq symposiumseuropéens de sculptures et notamment à unprojet sur le théme de l’Europe réalisé en Sar-daigne, pour lequel il a remporté le PremierPrix.Mocenni a réalisé une œuvre à Montbrison, enFrance, sur le thème d’Astrée et Céladon, inti-tulée La Rivière Lignon. Cette sculpture à la sty-lisation élégante, trouve sa clarté dans les cour-bes de volumes savamment superposés dont latension se développe à travers des formes pures,retrouvant I’éclat lumineux du ciel nocturned’Astrée,qu’Hésiode évoque dans La Théogonie,avec la force du vent porteur de vie, psychotro-pe.Dans l’œuvre de Mocenni, le rapport lumiére-espace-temps joue un rôle décisif, plus particu-lièrement dans les dernières œuvres réalisées de2001 à 2003. Il crée autour de ces sculptures unespace mental structuré dans lequel la forme,cristallisée dans la matiére du marbre ou de lapierre, opère et résonne d’une vision optiquediversifiée, dans laquelle l’artiste englobe la vi-sion et la pensée, dans un mouvement vibratoi-re de lumiére et d’ombre et un épanouissementde la forme sculpturale. Les courbes se suiventaccentuées par une succession de lignes droitesqui se chevauchent dans la répétition et déga-gent l’imaginaire de la matière propulsée dansun espace lisible, en tant qu’objet partagé, évo-

quant la subjectivité et l’objectivité de l’œuvre d’art àdéfinir en tant qu’émergence de l’idée.Maîtriser les différentes techniques de travail du bois,du fer, de la pierre, du béton et en extraire le maxi-mum, témoigne à la fois d’une habilité tactile, manuel-le, et d’un cheminement mental.Le rythme des sculptures de Mocenni est lié à la verti-calité, à la blancheur de la pierre, exprimant aussi untourment métaphysique qui s’élève vers le ciel, or-donné en un rythme musical et porteur d’un nouveaumythe. Il se produit comme un mirage chez Mocenni,que René Char, (Visage de semence, 1938), inspiré, adécrit comme des:“…Volumes qui se mêlent / Et sur-faces qui s’aiment…”Ante Glibota, historien d’art et d’architecture, membre del’Académie Européenne des Sciences, des Arts et des Let-tres, Paris.

Gualtiero Mocenniou la poésie de la ligne entrecroisée

Ante Glibota

Symposiumint. di Kalinovac (Croazia),1998, pietra bianca d’Istria,cm 150 x 90 x 250

Cinquantenne romano sempre abbronzato quasisempre a petto nudo, vive in totale simbiosi con laterra del suo giardino incantato, che da alcuni annista realizzando in Maremma, con una profonda tota-le e viscerale passione per i suoi animali, cavalli,muc-che, cinghiali, cani, pavoni, tutti di razze molto parti-colari, ma sono i galli da combattimento, che fino dabambino ha collezionato, a godere della sua predile-zione.Li ha comprati in giro per il mondo e naturalmentenon combattono, ma sono i soggetti più frequentidella sua pittura, e lui li ritrae con una precisione ma-niacale, con una cura del dettaglio come fossero de-stinati a testi di studio scientifico.È dal 1975 che dipinge a tempo pieno, scolpisce e, sucommissione, fa lavori di falegnameria come nellebotteghe del passato, realizzando tavoli, cassapanche,sedie dipinte con i suoi soggetti preferiti.L’architettura dei giardini, altra sua grande passione,l’ha portato a realizzare dal nulla bellissimi giardinicresciuti in pochi anni. La sua arte si esprime ancheattraverso le pitture a muro, dove con la consueta cu-ra, raffigura alberi e paesaggi di grande effetto che harealizzato in casa di amici prima e in numerosi luo-ghi pubblici poi.

Giovanni SanjustElena M. Daverio

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Sono reduce da una rilettura dell’opera di Proust “Allaricerca del tempo perduto” e ancora una volta di piùmi convinco che il tempo che sto vivendo è il tempodelle incertezze, dei dubbi, delle incomprensioni e deldissolvimento dei valori, di tutti i valori che le societàdel passato ci hanno tramandato. Quasi un preludio deltramonto.Voler dare vita ad un mondo nuovo non èpiù neanche un sogno,né tanto meno un’utopia perchéil mondo nuovo è quello che ci sta alle spalle, quello

appena trascorso nellanostra più autenticaincapacità di com-prendere cosa ci stiaaccadendo. Siamo giànel futuro, ma i piùnon se ne accorgono.Questo è il motivoper cui un individuo,ricco per meriti pater-ni, di madre ebrea,con simpatie maschili,più malato che sano ea sua detta incapace divolere, abbia, senzaperaltro renderseneconto, scritto uno deitesti più emblematicidel secolo passato.Che ben due, tra imeglio organizzati e-ditori del tempo(Grasset e Gallimard)abbiano rifiutato il

suo lavoro, peraltro già pubblicato a fascicoli in una ri-vista, la Nouvelle Revue Francaise, e vincitore del Gon-court, conferma l’incapacità di comprendere dei con-temporanei.E se non ci imponiamo di cambiare, di aprire la mente

per sforzarsi di capire, sempre, in ogni circostanza, allo-ra perdiamo l’occasione di godere di una grande fortu-na che ci è capitata, senza che fossimo andati a cercarla,la fortuna di essere vivi.Uno dei campi di prova dentro cui capitalizzare i pro-pri sforzi è l’arte, quell’attività dell’uomo, linguaggio u-niversale, capace di mettere in relazione culture diverse.Gli artisti, tutti gli artisti, ne sono gli alfieri.Tra loro horecentemente conosciuto anche Osvaldo Mosconi.Da lui ho ricevuto le sei figure femminili che ha realiz-zato, tempo fa, per un ciclo di mostre, alla Libreria Boc-ca sul tema della nudità femminile. Dalla mostra diRoberto Plevano, la prima:Donne allo specchio, l’iniziati-va ha raccolto le adesioni di Luciano Ragozzino, LucaVernizzi, Giancarlo Cerri. In questa società Il nudo fem-minile è passato da sinonimo del bello a messaggio pub-blicitario, con lo scopo di far vendere qualsiasi prodot-to, soprattutto se con la donna non c’entra nulla. Un e-sempio? Pensate alle pubblicità dei reggiseni, dei col-lant,degli assorbenti,delle creme per il corpo,ma anchedella birra, di autovetture, del silicone o della cioccola-ta.Visitando almeno una volta la fiera del libro di Fran-coforte, vi accorgereste che l’editoria negli ultimi anniha abbandonato metà dei padiglioni e che metà diquelli occupati, in rappresentanza della produzionemondiale, è a base di sesso.Il nudo femminile di Mosconi, con le sue forme mi co-munica una sensazione di forza primitiva, energica erassicurante.La tranquillità di una madre che in grembosente crescere la sua creatura. La possanza delle rocce,quando le rocce sono possenti, i verdi dossi collinaridella terra di mia madre, le Marche, e l’immanenza del-le montagne. Mi intrigano questi suoi disegni. Li hoguardati e riguardati più volte cercando di coglierne lachiave di lettura. Senza conoscere nulla dell’autore. Laforma di quelle figure mi trasmette una sensazione diquiete, quasi di una presenza potente che ti rassicura, tiprotegge, ti accompagna. Mi lasciano nel dubbio se

stiano aspettando o stiano fuggendo. Da qualiesperienze dell’animo di Mosconi potrebberoscaturire queste visioni femminili? Non siscorgono volti, né seni, né tantomeno morbi-de curve di ventri gravidi. Non si vedono,però si percepisco. Da dove viene allora lasensualità che queste immagini mi comunica-no? Sinuose ed arcuate schiene seguite dapossenti natiche e le cosce, per lo più assenti,quando presenti, richiamano solide fonda-menta sulle quali si impiantano potentementele intere figure. Il pensiero corre inevitabil-mente alle sculture di Moore.Come in lui, l’originale ricerca di Mosconiprende avvio dall’arte primitiva. Più di scultu-ra che di pittura parlano queste figure. Nei la-vori di Mosconi si percepisce un contenutopsicologico che tenta di raggiungere l’equilibrio traforme astratte e forme figurative.Ho ripensato all’espe-rienza di Plevano i cui nudi erano stati ispirati dallerocce della Sardegna, convincendomi che an-che dietro ai disegni di Mosconi dovevanostarci dei massi, delle presenze naturali forti,stabili e rassicuranti, dei contatti intensi conquella parte di natura più distante dal paesag-gio, natura priva di forme di vita animale evegetale, povera di colore, ma ricca di forme.Credo di intuire una delle chiavi di lettura deisuoi lavori. Mosconi, infatti, è un geologo.L’osservazione della natura per motivi profes-sionali quindi è decisiva nella vita dell’artista.Grazie ad essa arricchisce la propria cono-scenza della forma, alimenta la propria ispira-zione e conserva una propria freschezza dellavisione. Le rocce mostrano in che modo lanatura lavora la pietra.Questi disegni presentano perciò una sor-prendente potenza strutturale e una forte ten-sione formale che fa di loro un’opera artisticadi cui sono lieto, benché non sia mio mestie-re, di avervene parlato e un giorno non lonta-no potervele mostrare.

Osvaldo MosconiGiacomo Lodetti

Plevano intervistaMario Raciti

Roberto Plevano

Mario Raciti, Mistero, 2003

L’incontro con Raciti è avvenuto nel suo studio con modalità perme nuove,un registratore acceso per qualche ora, con un fitto dia-logo illuminante e commovente, mentre il mio occhio scorrevasulle opere appoggiate ai muri, con la luce che si affievoliva altramonto e le emozioni che si accavallavano intense e vivifican-ti. Più di una intervista si è trattato di un colloquio sullo scibileumano, la vita, l’arte, la comunicazione, l’inconscio. Qui la suaparola appare concisa ed essenziale nella trascrizione delle partisalienti della registrazione.Puoi delineare, per sommi capi, il tuo percorso artistico?Ho iniziato negli anni ’50.Ancora prima mi incoraggia-va uno zio commerciante di quadri.A 18 anni vinsi unpremio agli “Incontri della gioventù”. Partecipavano al-lora quelli che poi furono miei compagni di percorso:Vago, Della Torre,Vaglieri, Romagnoni. Un amico miconsigliò di iscrivermi a Brera, invece frequentai l’Uni-versità laureandomi poi in Giurisprudenza, rimanendoper diversi anni come un fuoriuscito con un continuotravaglio interno. Nei primi anni ’60 decisi di dedicarmiesclusivamente alla pittura: cominciai a guardare al-l’informale con la volontà poi di costruire una nuovaimmagine, emblematica, visionaria, alla ricerca dei sub-strati della pittura; raccontare non direttamente ma perdati traslati che sottendessero altro, immagini lontane. Inquel periodo leggevo molto di psicanalisi, frequentavogli spettacoli musicali: ricordi indelebili con Furswan-gler, la Callas, Mitropulos, la Schwarzkopf… In pittura, eda allora, ho cercato costantemente le radici, il lato ance-strale, “presenze assenze”, oggetti favolosi, risalendo aigrandi nodi dei miti: ancora oggi queste opere ultimeche vedi qui in studio, della serie dei “Misteri”, nascon-dono tutte un senso dell’oltre, di non percepibile, eventiche “non ci sono”.Tutto questo ha a che fare con un’altra dimensione, un aldilà.Che rapporti ha, secondo te, il fare artistico con la morte?Sono fatti estremamente connessi: l’arte, anche la piùgioiosa, fa sempre i conti con la morte. L’arte cerca di e-sorcizzare la morte attraverso l’eros, e nello stesso tempone soccombe, perché l’eros è morte.Argomenti troppocomplessi da risolvere in poche parole.L’arte comunque,l’arte della durata, esorcizza la morte perché la vince neltempo. Se ci pensiamo, tutte le nostre azioni sono co-struite sulla morte. Forse ci distrae dal senso della mortel’ovvio, il banale, l’effimero, tutte cose che però ci dona-

no la tristezza del niente. Ci sarebbe da dire che l’arteche non abbia rapporto con la morte non sia arte.“Nonavrai in me un’immagine che non abbia scolpito il sensodella morte”, ha scritto Michelangelo.Vorrei azzardareche tutta l’espressività, anche la più obbiettiva, sia esisten-ziale. Non c’è una pittura, una installazione, un video,come puro dato oggettuale: tutto deve riferirsi all’uomo,alle sue problematiche. L’arte nasce dalla profondità.Avolte sposata alle nostre precarietà, ai nostri complessi:comunque alla complessità della psiche. Forse AdReinhard dipingeva in modo razionale e pulito perchéaveva la fobia delle mani sporche. Io, ad esempio, ho di-pinto teleferiche, palloni sonda o spazi irraggiungibiliperché ho il timore di staccarmi da terra.Cosa significa per te essere attuali?L’artista, anche quello apparentemente conservatore, az-zarda sempre. E’ ovvio. Ma certa confusione che regnaoggi ha fatto confondere la novità, l’azzardo, con dellesemplici varianti di mezzo. La pittura è caduta in disuso,secondo taluni, perché cosa vecchia, abusata. I giovaniche escono dalle Accademie spesso abbandonano la telaper dedicarsi alla fotografia, ai materiali più vari per leloro installazioni, ai video. I reggitori del sistema basanospesso su tali varianti “tout court” il loro concetto di“nuovo”. È l’epoca del formalismo, a scapito dei conte-nuti. L’artista che sia tale può esprimersi con qualsiasimezzo, ritengo tuttavia che la pittura, che richiede senzasotterfugi personalità e cultura per dire veramente, sia in-tramontabile perché mezzo diretto, comando razionaleed emozionale che testimonia senza trucchi il nostro fa-re. Come la nostra firma che, nonostante ogni tecnolo-gia, è ancora insostituibile apporto personale. In una re-cente nota di presentazione a una mostra di acquerelli diWalter Valentini, così scrivevo:“La pittura davanti all’og-getto reale fingendolo ce lo allontana, ce lo sottrae, lorende oggetto sognato”.Da cosa nasce in te l’impulso all’opera? Quando sai che l’ope-ra è compiuta?L’opera nasce da un attrito: la banalità del presente e l’esi-genza di evocare fattori lontani,profondi,e portarli alla lu-ce qui ed ora.E’per me una sfida al banale del quotidianocol ridestare in noi il senso della favola,del canto,del mitoche poi di per se stesso è costituito da fattori controversi.Anche quando è narrativa, la mia pittura è lontana dallecose: il mio colore, i miei segni più che vedersi, si sentono.Così si crea uno spazio imprevedibile che vive sulla ten-sione: quando il tutto si congloba e “dice”, unendo unaforma consona ai contenuti, e non posso aggiungere nétogliere, l’opera è compiuta.Le tue opere muovono l’inconscio. In alcune, soprattutto i pastel-li, sei più evanescente,morbido con una misteriosa effusione di co-

lore, in altre sei più costruttivo ma anche con un senso di collassoincombente che risucchia il tutto verso il nulla. Siamo all’auroradella percezione, mi fai pensare alla mia stupita visione infantiledella realtà, siamo nell’indicibile e ciò mi commuove; sento unastruggente nostalgia di come vedevo e sentivo e di come tutto ap-parisse leggero e magico, luminoso.È bello ciò che dici, sì è così! Noi galleggiamo nel miste-ro tra segni che ogni tanto collassano nel nulla per poiriemergere, e questo è il dramma dell’uomo ma anche lasua continua rinascita. Porsi dei perché e rimandarne lasoluzione, perché attualmente impossibile, ci pone a ci-mento, ma la soluzione la cerchiamo perché abbiamo lasensazione che esiste.Le tue opere mettono in crisi razionalisti,pragmatici e linguisti e se-miologi:Umberto Eco lo ricovererebbero alla Neuro in crisi di iden-tità, sto scherzando, ma tu hai la rara capacità di strutturare e de-strutturare i significati in modo genialmente sublime;è il fascino delnulla che diventa un pieno nel giardino incantato delle scoperte an-cestrali, siamo all’inizio dopo la fine e le possibilità sono infiniteperché infinite sono le istanze vitali.C’è speranza perché la vita èsperanza.E l’ultimo quadro che mi stai facendo vedere ora, ispira-to alla guerra, è il più inquietante di tutti: mi sembra una grossameteora che sta arrivando, cupa e piena di antichi presagi e la terracon i suoi fardelli è li che aspetta inconsapevole tra uno spot televi-sivo e l’altro,ma nella luce del tramonto la meteora diventa leggerae trasparente e scivola via inconsapevolmente.Un’ultima domanda: se tu avessi fatto l’avvocato tutta la vita?Come pittore ho intentato causa alle banalità e ho sposato lecause dei sogni.Come avvocato nelle aule dei tribunali, sareistato l’avvocato, forse, di cause perse delle cause perse…

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da fra una natura morta “antica” e una natura morta“moderna”, in quanto Cézanne, Van Gogh, Matisse,Braque, Picasso — e si potrebbero aggiungere alcuneri-produzioni/re-invenzioni di Lichtenstein degli anni1972-1975 — affrontano “la rappresentazione del sog-getto inanimato in modo simile e omogeneo a quellodell’universo animato”. La caratteristica che anzituttocolpisce nei dipinti di Daniela Giovannetti è la perfe-zione tecnica, che si potrebbe dire “fiamminga”, eserci-tata costantemente nella ricerca dell’ “anima” delle res,ma l’opera d’arte deriva sempre da un’esperienza e,come ha affermato Man Ray, non è destinata “a susci-tare ammirazione per l’eccellenza tecnica”. In modoconforme alla tradizione delle nature morte, la pittricedispone la maggior parte degli oggetti lungo un asseorizzontale, ma non sempre: sceglie un asse verticaleper La torre, edificio metafisico di stoffe ripiegate esovrapposte in cui il gioco di luce-ombra evidenzia lastabilità precaria, per il Vaso con rotolo di carta e per Il vasoartistico, dove la verticalità è giocata sul telo di lino,sfondo perfetto per trasparenze ed ombre. Il taglio piùoriginale, però, è forse lo sfondo in diagonale de La cio-tola dorata e de La ciotola marrone, mentre in Comp-osizione su panno bianco, la disposizione geometrica deglioggetti — una studiata distrazione da essa è data dalcoperchio appena scostato e sottolineato dall’ombra —risalta sul telo: in questo caso, il telo, elemento ricor-rente come sfondo, diventa anch’esso oggetto “prota-gonista” al pari degli altri, marcato al centro da unacucitura che sottintende il rimedio a un taglio (potreb-be esservi un’allusione per contrasto ai tagli sulle tele diFontana?), a destra da una piega che vive della suaombra, a sinistra da una sfumatura necessaria su unpanno non ben disteso. Ci troviamo proiettati in unastaticità acronica, immersi in una condizione esistenzia-le lontana dal fluire del tempo e il “correlativo oggetti-vo”, per ripetere di nuovo Eliot, è qui tangibile nellospostamento da arte a realtà e viceversa. Questi oggettiassorti nel significato etimologico del termine, personae,maschere-attori di sentimenti, metafore di emozioni,vivi di luce e di oscurità, ci appaiono personaggi incerca di parole non consumate, di sentimenti inespres-si, dominati con forza, che potrebbero trovare neglihaiku giapponesi: non è casuale che la pittura diDaniela Giovannetti abbia avuto successo a Tokyo.L’apparente realismo mimetico di queste nature morte,ma le chiamiamo così per convenzione, perché sono

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Dialogo con l’oggettole nature morte di Daniela Giovannetti

Maria Grazia Bajoni

nature “vive”, non intaccate dall’orrore occulto dellavanitas che pervadeva le nature morte antiche, l’essen-zialità che costringe a una lettura frontale e respingetutto quanto è accessorio, ci sollecitano ad essere inter-locutori attivi: dobbiamo capire perché i Frutti secchipossono esistere soltanto su quel loro supporto cartaceoappoggiato a un tavolo che deve assolutamente stagliar-si su uno sfondo nero; perché i fiori non sono mai reci-si per addobbo, non raccolti in un bouquet, non messiad agonizzare in un recipiente, ma sono riprodotti sin-golarmente, nella loro unicità, proprio come lo sono Ilibri antichi che poggiano su un piano non disegnato,maimmaginabile: un oggetto/soggetto non dipende da unaltro, ma vive in sé. E se osserviamo le camelie dellaLucchesia, soggetto caro a Daniela Giovannetti per laleggerezza del loro essere, nonché per affetto verso lasua città natale, o i fiori di melograno, intuiamo unarisposta moderna e signorile a tanta splendida icono-grafia dei giardini del Quattrocento fiorentino, a taluniparticolari decorativi di cui si dilettò, ad esempio, Be-nozzo Gozzoli nella Cappella dei Magi nel PalazzoMedici Riccardi a Firenze.Ma l’oggetto/soggetto sem-bra chiederci ancora di più come nel caso dell’Accappatoio giallo che ci appare come una cosa usata ocome una quinta di teatro, ma è di più: è un segno,semplice ed esatto, eppure sconvolgente nella sua com-plessità simbolica di astrazione dissimulata. La raffina-tezza dei Limoni dipinti su rame è notevole per il giocodi luce ottenuto dalla combinazione del riflesso delmetallo con i colori del dipinto e con le fonti di luceambientali; questi frutti esistono come i limoni nei fregidei Della Robbia per la loro concretezza, ed esistonocome i poetici, simbolici, limoni di Montale nei “silen-zi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine /a tradire il loro ultimo segreto”, creature che sgelano ilcuore,“trombe d’oro della solarità”.Tecnica non appe-santita dal virtuosismo, imitatio/aemulatio del soggetto,non replica ossessiva, accordi e contrasti, ci appaiono imodi esclusivi dell’arte di Daniela Giovannetti.

Magnolia, 2003olio su ardesiacm 20 x 30

“Nei momenti più disperati della mia vita di artista”,disse nel 1920 Felice Casorati, intento a dipingere Leuova sul cassettone, “io ho potuto riconciliarmi con lapittura, dipingendo umilmente una scodella, un uovo,una pera”: questa considerazione, provocatoriamenteesplicita in rapporto all’affermarsi delle avanguardieartistiche, ritorna alla nostra memoria oggi, quando cicapita di vedere le nature morte di DanielaGiovannetti, perché — è forse superfluo dirlo — più omeno tutti cerchiamo, in qualche modo, riproduzionidella realtà che, per dirla con T.S. Eliot, ci possano libe-rare dal peso dell’eccessiva realtà che siamo costretti,nostro malgrado, a sopportare. Lucchese di nascita, for-matasi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, DanielaGiovannetti ha esposto in molte rassegne personali ecollettive in Italia (a Milano, Firenze, Roma, Lucca,Arezzo, Bari), in Europa, a Bruxelles e a Wuppertal,negli USA, alla Loring Gallery, Massachusetts, a NewYork e in Giappone, a Tokyo. Il fatto che sia una donnaa dipingere nature morte non può non richiamare gliillustri precedenti dell’anversese Clara Peeters e dellanostra Giovanna Garzoni, pittrici non secondarie nelpanorama dell’attività artistica europea del XVII seco-lo. Tuttavia — come ha notato A. Veca (Art DossierGiunti, n. 46, 1999, p.43) — c’è una differenza profon-

Roger Caillois apre quel suo grande libro,Au coeur du fantastique, con questa tranquilla,apparentemente tranquilla, confessione:“So-no attratto dal mistero”, soggiungendo tutta-via: “ma non mi abbandono con compia-cenza agli incantesimi del fantastico”.Miste-ro e fantastico sono dunque per lui due ordi-ni di realtà, che non si confondono ma ne-cessitano l’uno dell’altro. Il mistero è semprelegato al fantastico.Ma il mistero implica l’e-nigma, l’interrogazione, l’analisi. Il fantasticosenza mistero è sterile divagazione. Questastraordinaria simbiosi tra mistero e fantasticosembra proprio il fulcro attorno al qualeruota la ricerca pittorica di José D’Apice. Il

fulcro, in particolare, dei nuovi lavori che costituiscono ilciclo Bestiario, di cui Castelbasso Progetto Cultura 2003offre una scelta in anteprima. Caillois, in quel suo libroche è l’albero genealogico del mistero, dichiara di essereattratto dal mistero unicamente per il bisogno di decifra-

re persino l’indecifrabile. Forse lo si può af-fermare anche del pittore brasiliano (che vi-ve e lavora da più di vent’anni in Italia): il ve-ro terminale del suo viaggio visivo è l’attodel conoscere, del pervenire insomma “aubout de l’énigme”(Caillois).La pittura di Jo-sé viene dai domini del mistero, ne esce e virientra perdutamente. Non è una pittura so-lo misteriosa: è una pittura misterica. Perquesto, certi suoi “rituali” restano segreti an-che all’occhio più critico che vi si inoltri.Ma quanto più appare velata di un’inattacca-bile aura, in realtà non fa che offrirsi quasi e-sigendo d’essere svelata,violata.Da dove vie-ne, allora, la magia di que-sto Bestiario? Forse

da una tecnica pittorica abbagliante e ambigua, capace diunire tutta la capziosità del disegno antico alle più mo-derne tecnologie fotografiche e digitali; o forse dall’in-credibile sodalizio che s’instaura qui tra un medioevobarbarico che risente di Antelami e Wiligelmo, le figure ei simboli di una ritualità arcaico-tribale e quelli di un im-maginario surrealista rivisitato… La suggestione primariadi questa singolare pittura è d’essere nello stesso tempo

ermetica e contagiosa: è una pittura che non dà una ri-sposta univoca sulla sua matrice di mistero, ma che però,suscitando una lunga serie di domande assedianti, finiscecon l’introdurre quel mistero in ognuno di noi che so-stiamo davanti a un quadro di José D’Apice.

SpazioBoccainGalleria5-18 maggio 2004

Annunciazione, 2003china su carta anticacm 121,8 x 87

Tabula, 2004tecnica mista su carta anticacm 54,5 x 53,2

José D’ApiceSilvia Pegoraro

Il mio Colosseo, 2004, china su pergamena, cm 81,3 x 62

Daniela GiovannettiRealismo Magico

presenta Rossana Bossaglia

Trento, Spazio After Seven-VivereVia Bolzano, 59

Dal 12 marzo al 17 aprile

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Sul filo dell’artea cura di Stefano Soddu

a r t e c o n t e m p o r a n e a

V. le Col di Lana, 8 - MI0258317556 - 3485630381

Via Scoglio di Quarto, 4 - MITel. 0258317556 - 3485630381

domanda surreale

“L’Arte è unamalattia?”

risponde Rosanna Forino

Ci ho pensato solo un attimo. Ma certo che è una ma-lattia! Una malattia gravissima, senza speranza, senza cu-re conosciute e sempre in via di peggioramento. Scorrein un senso nei vasi sanguigni e poi nel senso opposto

nei vasi linfatici. Siarrotola nel cervel-lo, preme negli oc-chi e raggiunge ledita… un pensierodopo l’altro, un’im-magine dopo l’al-tra. Pervade tuttocome l’acqua nonarginabile. Perònon è infettiva: unostarnuto, una strettadi mano non con-tagia il prossimo.Paradossalmente, èuna malattia chenon conduce alla

morte, al contrario aiuta incredibilmente a vivere: met-te la mente in fermento, costringe la mano a impugna-re fermamente il pennello (potrebbe trasformarsi in unfioretto) ed a immergerlo nel colore. Così comincia unduello a tre. I protagonisti: te stesso, il tuo inconscio, latela bianca.Ad ogni stoccata una risposta.Toccato! E viaun altro affondo… fino a che nasce un equilibrio diforme, di colori e sopraggiunge anche la pace interna.Fino alla successiva opera. Malattia senza speranza diguarigione… per fortuna!

Il surrealismo inFrida Kalho

Mimma Pasqua

La questione del Surrealismo in Frida Kalho è stata mol-to dibattuta. È noto come Breton sostenesse l’apparte-nenza, senza ombra di dubbio, dell’artista al movimentoda lui fondato nel 1924. Ma è altrettanto nota la reazio-ne di Frida Kalho all’accoglienza calorosa fra i surrealistia Parigi, nel 1939, dopo la mostra alla galleria “PierreColle”, quando afferma di non aver mai saputo di essereuna surrealista fino a quando André Breton, arrivato inMessico nel 1938, non glielo aveva detto. In realtà la so-la cosa di cui fosse sicura era che dipingeva tutto quelloche le passava per la testa e perché ne aveva bisogno.

Diego Rivera definivaquella di Frida una pit-tura “realista”, poiché lasua unica fonte di ispira-zione era la sua vita.An-dré Breton arriva inMessico nel 1938, ma icaratteri che egli riscon-tra nella pittura dell’arti-sta sono, ad ogni buonconto, presenti già neglianni precedenti. Possia-mo quindi parlare di unanaïveté di Frida Kalho,

di una sua genuina originalità che la mette al riparo damode e tendenze? Una cosa certa è che non si lasciò in-fluenzare, per scelta consapevole e per carattere, dal mu-ralismo messicano.La sua è una pittura che sceglie il pic-colo formato, perché esige un rapporto di intimità conlo spettatore.Un rapporto ravvicinato che consenta a chiosserva di cogliere la lenticolare, minuziosa descrittivitàche ad essa presiede. La pittura di Frida Kalho, è statodetto, è un’autobiografia raccontata per immagini, ma èsoprattutto, a mio avviso, l’autobiografia dello sguardoche coglie se stesso. L’artista si osserva, osserva i segni e icambiamenti che lo scorrere del tempo imprime sul suoviso, i solchi scavati dalla sofferenza. La sua immagine è

un’icona di grazia allucinata e inquietante. È consapevo-le che l’autorappresentazione, come specchio della vita, èciò che rende vivibile la vita stessa e sopportabile il do-lore. La sua colonna spezzata è il suo io frammentato, lasua realtà frantumata. Fare di questi frammenti un puzz-le colorato e intricato come la foresta messicana, vestiredi vesti scintillanti e appariscenti, di scialli, di anelli e col-lane la sagoma fragile che la fa assomigliare alle Madon-ne messicane cariche d’oro. La sua arte si svolge in unterritorio di confine, fra una ingenuità da ex voto, comescelta consapevole, e un certo intellettualismo. Fra un’a-desione convinta verso la forma espressiva popolare del-l’ex voto, di cui adotterà le modalità rappresentative, eduna elaborazione sapiente che non può prescindere dal-l’attenzione e dalla conoscenza della realtà che la circon-da.Abbiamo ragione di ritenere, e la sua vita, la sua par-tecipazione agli eventi storici e culturali del suo paese, enon solo, ne sono la prova, che Frida conoscesse i movi-menti artistici del suo tempo, così come partecipava aidibattiti accesi sulla storia e il destino del Messico, e cheil cenacolo di artisti, pittori e fotografi che frequentava sifacesse portatore delle novità e dei fermenti che attraver-savano il mondo dell’arte. Si è detto che elementi, percosì dire surrealisti, esistevano nella sua pittura prima an-cora del suo incontro con Breton.Tuttavia, dopo la Mo-stra Internazionale del Surrealismo del 1940 a Città delMessico, organizzata da André Breton e Wolfgang Paa-len, a cui parteciparono noti artisti surrealisti europei emessicani, è possibile notare un cambiamento decisonella sua pittura. Se si confrontano opere come HenryFord Hospital (1932) o Little Burbank con altre succes-sive al 1940 si nota come allo stile fantastico e ingenuo,fondato sull’arte popolare messicana, si contrapponga u-na maggiore complessità ed enigmaticità. Opere comeCiò che l’acqua mi ha dato rappresentano la traduzione diquello stato di semincoscienza, invocato dai surrealisti, incui i freni censori si allentano. È la rêverie, dove il lega-me con la realtà persiste in una sorta di sogno ad occhiaperti e in cui elementi allucinatori si mescolano a datireali. Immagini che rimandano a Dalì,ma anche a Bosche a Brueghel. Su un corpo immerso nell’acqua di unavasca da bagno vagano fantasmi di morte, di paura, disessualità cruenta, in un’atmosfera sospesa e rarefatta ac-centuata dalla tonalità grigio-blu e dalla vernice stesa astrati leggeri.Non sorprende pertanto l’ammissione di Frida Kalhoche giustifica l’enigma di un quadro di decisa ispirazionesurrealista affermando di adorare la sorpresa e l’imprevi-sto che rendono magica la realtà.

Visita allo studiodi Sangregorio

Stefano Soddu

Siamo a metà degli anni Ottanta. Una giornata di prima-vera. Si è svolta una manifestazione d’arte sul lago di Mo-nate, in provincia di Varese.Sculture e installazioni colloca-te in riva o nell’acqua.Di grande suggestione.Eravamo incompagnia, io e mia moglie, di Valeria Belvedere, non an-cora gallerista ma appassionata cultrice d’arte e collezioni-sta.Al termine della manifestazione Valeria ci propone diandare a trovare lo scultore Giancarlo Sangregorio che hal’abitazione e lo studio a pochi chilometri da dove erava-mo. Ricordo una grande casa con vista sul lago, un uomodi età matura,apparentemente esile,di passo elastico pienodi forza e sprizzante energia.Una collezione di arte africa-na splendida, raccolta in numerosi viaggi effettuati in quelcontinente. Una compagna di aspetto raffinato e con ac-cento straniero e nordico. Un deposito di sue sculture inpietra e legno inglobato in uno spiazzo fuori dal cancello.Fu quella una visita breve ma lasciò in me un segno e unricordo destinato a durare nel tempo.Da allora di Sangre-gorio ho visto molte opere e l’ho incontrato più volte invarie occasioni espositive, pur senza farmi riconoscere eessere riconosciuto; ho seguito così alcune tappe del suopercorso, considerandolo un maestro e uno dei miglioriscultori contemporanei. Siamo ora nel 2003. Sergio Dan-gelo chiede a me e a Gabriella di andar con lui e sua mo-glie Carla all’inaugurazione della mostra organizzata dalComune di Sesto Calende per Sangregorio. È nata cosìl’occasione di un nuovo incontro e della mostra che Sco-glio di Quarto organizzerà per lui la prossima primavera.Così è anche nata, per poter scegliere e vedere le opere daesporre, l’opportunità di una nuova visita alla sua casa e alsuo studio.“Venerdì prossimo venite anche con Sergio e Carla a

colazione a casa mia.Vi preparo la polenta.Aspettatevi un pran-zo frugale, però”. L’età non ha spento gli occhi vivaci e pe-netranti.Ha una voce giovanile e la sua figura minuta, so-stenuta da un bastone etnico con l’impugnatura a scettrodecorata e sporgente, sprizza forza, carattere, determina-zione. La casa sorge a mezza collina, il lago è visibile ma èdistante. Si accede da una via secondaria che scorre inmezzo al verde. Posteggiamo la macchinain uno spiazzo davanti al cancello, accantoal deposito di sculture del mio ricordo.Imbocchiamo un vialetto che porta all’in-gresso protetto da un loggiato che ospitadue grandi sculture con taglio figurativo.Ci accoglie Giancarlo, uomo schivo e unpo’ burbero. È solo in casa. Dietro unaporta a vetri scodinzola un cane.“Preferi-sco, quando ho ospiti, tenerlo chiuso. È buonoma un po’ invadente”. Un largo ingresso,sulla destra un corridoio con libreria e va-ri oggetti d’arte moderna, ma anche afri-cana, inseriti tra i libri, una sala da pranzoaccanto alla cucina. In fondo un grandesoggiorno con ampie vetrate sulla vallata.Una porta dà alle camere da letto. L’arre-damento è sobrio. Alle pareti dipinti egrafica di noti autori contemporanei. Nelsoggiorno, verso la parete destra, alcuneantiche statue africane che arrivano finoal soffitto; sulla sinistra due divani su cui ciaccomodiamo mentre attendiamo di esse-re chiamati a tavola. Una calda polenta gialla, una selezio-ne di ottimi formaggi, uno spezzatino di carne tenerissi-ma di agnello australiano e del buon vino. La compagniafa buon umore; Sergio Dangelo è come sempre un gran-de affabulatore e ci rallegra con chiacchiere non solo da“salotto”, aneddoti su artisti di fama frequentati e ricordisui tempi andati.Qualche accenno di discorsi più seri o e-sistenziali ci conducono al caffè, servito alla turca.È ora dicuriosare nello studio o meglio nei depositi di scultureraccolte in casa, visto che il lavoro viene soprattutto svoltoall’esterno.Un’ala della casa, posta nella zona più bassa delgiardino, composta da varie stanze adiacenti e da un am-pio seminterrato, è piena di lavori, alcuni imballati, altri avista. È come una miniera, più si “scava” e più emergonofiloni di lavoro frammisti a collezioni di oggetti etnici.Sculture di varia misura e qualità di pietra strutturate ablocchi, sculture con inserti di legno o vetro.Composizio-ni effettuate per sperimentare nuovi materiali e alcunecon parti insolitamente colorate di rosso. Sculture con ac-cenni figurativi: le più vecchie; altre, la maggior parte, dicultura astratta.C’è materiale non per una sola mostra, ma per riempireun intero museo. È meraviglioso scoprire, spostando unlavoro,uno splendido pannello, e spostando il pannello unpiccolo oggetto misterioso non ancorafinito. Sangregorio con passo leggero ciillustra i periodi, le esperienze che nonhanno ancora dato frutto e i progetti ap-pena abbozzati e non ancora conclusi,come i lavori che intendono percorrerela via “dal dentro al fuori” in fase di for-mazione. Ci dice anche di essere stanco,di non credere più all’arte come soluzio-ne della vita, almeno della sua: ma il suolavoro dimostra il contrario al di là di o-gni dubbio e di qualche momento dipessimismo che ciascuno è costretto a vi-vere. Per la mostra in Scoglio di Quartotorneremo però a scegliere le opere da e-sporre,“che venga un’idea nuova per cui val-ga davvero la pena organizzare la mostra; unprogetto… una tematica da sviluppare… nonso…”ci dice, lasciando in sospeso la frase.Poi a casa, in una camera da letto con te-stata africana e copriletto cucito a manoa piccoli telai, ci mostra le sue “carte”, u-na ad una. Sono carte spesse, lavorate artigianalmente sucui sono incisi segni forti, e colori naturali, da scultore.Descrive con poche parole i soggetti, lasciando alla nostraimmaginazione ogni altra deduzione. La giornata si con-clude con una visita ad un edificio progettato dall’archi-tetto Rino Balconi; collocato su una vicina collina vi pos-siamo ammirare alcuni interventi e sculture del Maestro:inserito in un grande soggiorno, un meraviglioso caminoe all’ingresso un suggestivo portale. Restiamo d’accordodi incontrarci presto a Milano, in Galleria, per definire idettagli di quella che sarà certamente una mostra da nonperdere.

Frida Kalho, Io e la mia balia

Rosanna Forino, 2004

La mezzanotte il verno1969

Inconoscibile, 1967

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Nello scorso febbraiosono stato gratificatodalla visione di tre rasse-gne d’arte in altrettantelocalità di esposizione,

racchiudenti un paradigma di intersecazioni e di asso-ciazioni di idee e di sensazioni. In primo luogo: la glo-riosa Libreria Bocca — che da tempo predilige il corol-lario di Galleria d’arte — ha ospitato per una dozzina digiorni sui suoi stigli opere pittoriche di Natale Adda-miano,per la gran parte costituite da paesaggi della natiaPuglia, nella fattispecie dell’altopiano murgiano, laddoveil pittore nacque sessant’anni fa, più precisamente a Bi-tetto, villaggio di poche anime della provincia barese,nella quale si addensano grossi centri agricoli.Un elegante catalogo saggiamente proposto e contrad-distinto da un pannello d’evocazione impressionista,nonché una pubblicazione di Disegni giovanili edita aMantova, corredano la fisionomia e il tocco di Adda-miano. I cupi tratti, torbidi e aggressivi, dei disegni nonsi conciliano con la compostezza serena, quasi direi idil-liaca di vena turneriana, con paesaggi delle Murge, do-minati dall’aridità della dura pietra millenaria (mi siaconsentito di richiamarmi alle recenti scoperte di ormedi dinosauri e di uno scheletro pietrificato in migliaia di

millenni, in agro di Altamura, evenienzeentrambe che hanno determinato di questalocalità nel cuore dell’altipiano un’omofo-nia con la basca Altamira, a sua volta singo-lare sipario di reperti antichissimi), sullaquale il mandorlo fiorito e il querciolo soli-tario nonché l’arida forra della gravina, in-gentilita come una vezzosa antinomia da u-na bagnante ancheggiante, si stagliavano peril tramite di un equilibrio ritmico di sa-pienti pennellate.Non esiterei nel definire il quadro Nottur-no,2002 opera di maggior rilievo ed effetto,in cui sotto un cielo corrusco e folgorantenell’estrema luce di un tramonto,quasi direi

un richiamo ai cromatismi chiaristici di Lilloni, le lam-pare dei pescherecci vaganti nel mare di Molfetta —dove Addamiano ha vissuto,operato ed esposto — sem-brano lucciole vaganti oppure grumi di luci metropoli-tane, quali si scorgano da un’orbita stellare. Con Adda-miano viene avulsa la secolare emarginazione delleMurge, dominate dall’immaginario collettivo dall'in-quietante presenza del massiccio Castel del Monte di fe-dericiana memoria, e ricondotte nell’ambito della no-stra storia dell’arte. Né ebbero scosso l’estro dei duemaggiori pittori pugliesi, sia del barlettano Giuseppe DeNittis, che pur ritrasse le ariose strade dell'Appenninodauno e del litorale adriatico, sia di Gioacchino Toma, ilquale non lascerà orma del natio Salento, applicatosi al-le nature morte e all’infelice Luisa Sanfelice nell’aspetta-zione del patibolo.In secondo luogo: da un quarto di secolo Natale Adda-miano ricopre la carica di docente di Pittura all’Accade-mia delle Belle Arti di Brera,cattedra un tempo attribui-ta ad Aldo Carpi, interprete delicato di volti e di mem-bra esauste a Mauthausen, tra i rari superstiti dell’olo-causto. Ho così ammirato, nello stesso febbraio, nel Ser-rone della Villa Reale di Monza, i suoi quadri, in cui lamitezza d’animo, riverberata nel pastello, conserva unincanto evocatore su cotanto martirio.In terzo luogo: uno stimolo nostalgico della mia infan-zia mi ha mosso a Gorizia, dove a Palazzo Attems l’an-cor valido ultranonagenario Anton Zoran Music ha da-to lustro alle sue ultime fatiche.Il riferimento con Addamiano è insito nella simbiosi trale Murge e la similare prospettiva e uniformità del Car-so, motivo immanente in Music, tuttora fedele alla le-zione di Tomea e alle sue ascendenze slovene,nonché dipar suo testimone degli orrori di Dachau, ritratti con unferoce vigore espressionista.Tutto ciò è antitetico all’ha-bitat e all’humus delle sue marine dalmate e liburnichedove i larici di Monte Nevoso e i dirupati castellieri del-le Alpi dinariche costituiscono un’estatica reminescenzadel migliore Böcklin.L’avvenimento artistico ha contri-buito a render più visibile l’afflusso dei visitatori da ol-

treconfine, che si riversavano a Gorizia dall’Alto Isonzo,dalle valli di Idra e del Vipacco che furono italiane nel-l’arco dei due conflitti mondiali, rimaste appartate ed e-stranee ma ora fautrici dell’indiscutibile concordia italo-slovena. La mostra è stata operative sino al 29 febbraio,giornata suppletiva nella rara incidenza di una domeni-ca bisestile, quasi un ulteriore motivo di plauso verso ungran verdaglio che onora l’arte d’Europa.

di Boccadi Bocca

S̀ivaLacarpia

In collaborazione conSANTABARBARA

ARTE CONTEMPORANEA

Segrete di Bocca25 maggio 2004 ore 18,30

fino al 25 giugno 2004

Via Molino delle Armi, 5 (interno)Tel. 02.58302093 - www.libreriabocca.com

Un triplice incontroEmanuele Lazzati

A. CarpiLe cabine a settembre1961, olio cu cartonecm 30 x 40

Z. Music, Ida, 1987tempera su carta,cm 42 x 27

N. AddamianoNotte d’estate, 2003olio su tavolacm 23,7 x 25,2

“Era più difficile ieri o oggi? Stiamo parlandod'arte: nello specifico “la pittura”. Il fare, perciòpensare a qualcosa di nuovo, era, è e sarà unaproblematica di sempre. Ma questo non deve fre-nare o fermare coloro che sentono l’esigenza didipingere (anche se spesso si dice che è statofatto tutto). Non è vero.C’è sempre da fare, e non è poco. Il presente e ilfuturo. Di sicuro ci vuole intelligenza, modestia,capacità, impegno e poesia. Un esempio si puòavere osservando le opere di S̀iva, questo giova-ne che guarda con attenzione al passato cercan-do nel presente. Silenzio e fragore? Sacro e pro-fano? Insensibilità e dolore? Travolti da questiinterrogativi si ha il desiderio di entrare in questicorpi, a volte quasi gonfi e poco godibili, perpoter vedere da vicino e capire meglio ciò chesuccede e perchè succede. Una volta entrati ètutto meno tragico e, grazie a quelle stilettateche fanno da impronta, con esse abbiamo unabuona guida per proseguire quasi in punta dipiedi ma senza timore in queste carni che sem-brano accettare di buon grado le “sevizie” subi-te. In questo scenario, i colori sono caldi, i puntineri diventano arabeschi su pentagrammi dibuona musica. La tela si espone, sicura che qual-cuno la potrà apprezzare."

G. Santabarbara

rituale 7, 2004acrilico e bitume su tela, cm 80 x 100

rituale 1, 2003acrilico e bitume su tela, cm 80 x 100

rituale 3, 2003acrilico e bitume su tela, cm 70 x 100

Omaggio a Moreno Chiari, 2004acrilico e bitume su tela

cm 150 x 170

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L’ulti-ma piccola e

gioiosa mostra diClemen Parrocchetti

è stata un invito a visitarela gentile artista nel suo lumi-

noso studio. Un panorama tutto milanese, un ottavopiano che si affaccia sul gugliato del Duomo e sotto ilfungo della torre Velasca.La parrocchetti ha al suo attivo,dal 1955,una lunga sto-ria espositiva. Numerose e vivaci tappe hanno contrad-distinto il suo cammino fino a quell’estate del 1997, incui l’artista si trovò una quantità di indumenti di lanadistrutti dalle tarme. Avevano fatto baldoria nei suoi ar-madi.Presa da rabbia andò a documentarsi, ha ingrandito e-normemente questi animaletti, dapprima disegnandolie poi costruendoli con garze,fili di ferro e cotoni di va-ri colori. Questi piccoli insetti, trasformati in scultureimprigionate in involucri trasparenti, si potevano vede-re fino al 1° febbraio salendo lo scalone del Museo diStoria Naturale di Milano ora, come luminose pianta-

ne, sono disseminati nello studio insieme a disegni cheritraggono non solo le tarme ma anche altri “amici”,nati da un racconto fantastico creato dalla Clemen:scorpioni, scarafaggi, pulci, pidocchi e cavallette. “Ri-tratti” che costituiscono per Carlo Pesarini, entomolo-go del Museo, una sorta di felice “entomologia delsommerso”!Clemen Parrocchetti percorre un solco pittorico esclu-sivamente proprio, liricamente sottolineato al femmini-le ma senza alcuna ombra di femminismo grazie ad unaestrosa inventiva, sensibilità e colta ironia.“Non è giusto tenere mezzo cielo stellato e l’altra metà in pie-na notte” cosi pensando, al mezzo cielo femminile, Cle-men ha iniziato anche a creare con gli oggetti della cul-tura della donna e negli anni ’70 costruiva con materia-li poveri e soffici, con stoffe colorate vivacemente, uni-te a nastri e fili, per esprimere un fermento-ribellioneed una ottimistica visione da fabbro-sarta.Franco Russoli colse “la sua vitalistica, favolistica esplosio-ne di felicità nel segno di un non sense che dava fiori e fruttigustosi volteggianti nell’aria limpida del paese della since-rità…”.Per Dino Buzzati la sua pittura “è nevrotica ed in-

sieme ottimista, perchénell’arte di questa paz-zerella a lieto fine c’è u-na mescolanza di disegnidei bambini, dei matti,l’arte pop, il sadismo, lesagre carnevalesche con tor-nei di grotteschi e diabolici mascheroni”.Ieri ed oggi l’inventiva, la fresca e la franca comunicati-va delle sue immagini, dall’arazzo al pittorico, hannosempre coinvolto l’attenzione critica di Rossana Bossa-glia:“…seguo da molti anni la sua attività e ogni volta e sem-pre più, sono sorpresa e gratificata dalla freschezza e giocositàdel suo stile, dalle soluzioni compositive che ella escogita comese ogni volta scoprisse l’arte in quanto ludus, …il luogo dellalibertà d’espressione, un gioco non ingenuo dove l’esperienzadi vita, anche quella del dolore, si tramuta in disarmata spe-ranza e ci consegna un sorriso”.Clemen è una creatrice infaticabile che presto ci sor-prenderà,di nuovo, con altre gallerie di ritratti: etnici, a-nimali e se stessa.Una sorprendente Frida Khalo milanese!

Clemen ParrocchettiPietro Sergio Mauri

Ho scoperto una nuova gemma nell’incavodel braccio destro, così piccola che quasinon la vedevo. Il tempo è vicino, anchequest’anno (ma ha senso parlare di anni?).Solo il pensiero accelera il pulsante dellalinfa, e una strana gioia, un tenero calore,percorre questo mio nuovo corpo. E ognivolta lo stupore e questo stupido sorrisoche mi dipinge sul volto (ma tanto nessunomi vede). Quel primo mattino, al levar delsole, tutto era antico e tutto era nuovo.Qualcuno (Dio? Allah?) aveva mischiato lecarte degli elementi.Nel buio, il silenzio fa-ceva intuire spazi infiniti, assoluti. Poi, pi-gramente, come una carezza assonnata, laluce bianca ha percorso la linea dell’oriz-zonte. Ricreando lo spazio. E quella stranamusica... solo dopo un po’ ho capito che e-ra un respiro. L’ho capito dall’odore caldo,fragrante della terra che saliva dal basso,smuovendo nuvole di materia, cani, cavalli,alberi, radici. Sì, ricordo lo squillo del cellu-lare, ricordo di avere sbuffato (ma possibileche neanche in bagno…) e poi più niente.Ricordo sempre meno. La memoria scivo-la,mi abbandona.Perché proprio questo ri-cordo è rimasto tra i tanti che avevo? La se-ra, prima di addormentarmi, come in una

preghiera recito i nomi dei sette nani, perrassicurarmi di esistere. La prima volta chesono fiorito ero spaventato da morire. Og-gi rido, ma ricordo di aver pensato:“Sonomalato!”. La corteccia che si apriva, e poiquel fastidioso prurito. Quanti teneri ger-mogli ho grattato ed estirpato, con quellafuria bestiale che nasce dalla paura. Poi unpalpito di verde,una minuscola foglia spun-tata proprio all’altezza del cuore, e mi sonosciolto in una risata. Me ne sono accortoquasi immediatamente, quando ho cercatodi correre via. La prima reazione è stata diconfusione e di rabbia… poi la disperazio-ne di non poter più camminare. La consa-pevolezza (di essere ormai straniero a mestesso, di avere un corpo che cresce e cam-bia anche contro il mio volere) è venutadopo. Ma ho smesso da un pezzo di soffri-re. Non riesco ad immaginare che qualcosasi possa muovere spontaneamente in questostrano teatro vitale. Solo l’ansimare del suo-lo solleva voragini che strappano il cielo emutano continuamente il paesaggio.…come sarà?

SpazioBoccainGalleria20 maggio - 6 giugno 2004

Enzo Fiore...Al levar del soleMariagrazia Serina

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Se si dovessero tracciare le coordinate entro cui col-locare il lavoro di Ferdinando Greco probabilmenteesse sarebbero essenzialmente tre: materia, inquietu-dine e racconto.Con la materia Greco ha instaurato un dialogo in-tenso, spesso estremo, a volte contrastato e in alcunimomenti persino sensuale, quasi carnale, ma certa-mente costruttivo e mai scontato. Fin dai lontani e-sordi, l’artista ha ingaggiato una lotta che lo ha por-tato a domare quegli accumuli informi e ad adattaregli strati polimaterici, i grovigli di stracci, le colle e ipigmenti, disordinatamente riversi sulla tela, al teatrodella vita. Un teatro che per Ferdinando ha umoritragici, emotivi, traboccante com’è di pathos e dipassioni. Dai primi Reperti (coperchi di tombini me-tropolitani cristallizzati in strati di tempere e PVC)degli anni Settanta, ai più recenti Paesaggi portati via(grandi vedute cariche di colori, emozioni, di spasi-mi di materia contratta o irrimediabilmente lacera-ta), si coniuga tutto un repertorio di soluzioni for-mali che rendono l’intero suo lavoro ricco di conte-nuti, di simbologie e artisticamente fecondo di solu-zioni. L’inquietudine è, d’altro canto, l’elemento chedomina l’atmosfera, che asseconda interrogativi ata-vici e forse proprio per questo insolubili ma semprestimolanti: vita e morte, ragione e istinto, religione eamore. Essa è qualcosa che permea di sé ogni piùpiccola parte del tutto, dal colore alla stoffa, dalla pla-stica all’oggetto cercato e deposto tra le pieghe di

quel rigurgito di mondo. L’inquietudine per Grecosi fa allora sentimento, affanno, malinconia, strazian-te desiderio (quasi mai appagato) di certezze, insazia-bile esigenza di affetti, urgenza di ardore, di vita. Es-sa diviene tensione continua verso le misteriose eterribili passioni umane, verso quella parte di sé e dialtro da sé che alla logica preferisce l’impulso, alla re-gola contrappone i moti dell’anima, al raziociniopredilige i sensi. Del resto, è compito dell’artistaspingersi verso gli estremi e per Ferdinando, gli e-stremi hanno sede nella parte indomita della natura(anche umana), la stessa che ha stregato Turner eBlake, Friedrich e Constable. Greco un romantico?Sì, se per Romanticismo intendiamo la lotta per l’e-sistenza, l’anelito al primitivo, i travagliati sospiri del-l’essere, il mistero della morte e, con essa, la nostalgi-ca ricerca di ciò che non è più. Cosa sono quei Mu-tanti se non creature partorite dalla paura, dal presa-gio e dal ricordo? Cosa sono quegli ampi paesaggi,aggravati da sassi e da legni, se non la concretizzazio-ne di una segreta memoria? E quelle figure che e-mergono dal nero profondo, cosa sono se non fanta-smi del passato, spettrali presenze dissepolte da pol-verosi stipiti dello spirito?E per ultimo il racconto, elemento costante di que-sto percorso, quasi condizione sine qua non per poterancora dipingere. È, quello di Greco, un narrare au-tobiografico e diaristico in cui racchiudere riflessio-ni, ricordi, pensieri e appunti letterari senza soluzio-

ne di continuità.Un parlare, anzi,sarebbe megliodire un inarresta-bile flusso di co-scienza (stream ofconsciousness) chesi fa segno, mes-saggio e contenu-to. Pagine e pagi-ne di lettere che siriversano sulle su-perfici con ardoree ansia, non perun bisogno deco-rativo o enfatico,ma per la necessitàdi colmare con ilverbo quello cheper ragioni di spazio e di sintesi compositiva nonpuò trovare sfogo con la pittura o tra le carnosebraccia della materia. Negli ultimi quadri, poi, l’erose lo spirito, la vita e la morte, la ragione e il senti-mento, il desiderio e il timore lottano o convivonosullo stesso terreno (Sono venute a cercarmi le ombre,quelle maschili accompagnate da una bambola, 2003), sifronteggiano contendendosi i centimetri di colore ei grumi di macerie, catalizzando su se stessi l’essenzadel divenire.

Materia e sentimento, il percorso di Ferdinando GrecoLorella Giudici

Strano questo mioandar via assistito da

piccoli mostri, avreipreferito un prete

1999/2000olio e vinilici su PVC

cm 150 x 170

L’uomo della pioggia2004

tecnica mista su telacm 210 x 175

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Tutto ha avuto inizio quando un socio della Bocca mi parlò di un’artista ligure, sua amica, cheavrebbe voluto farmi conoscere, per allestire una mostra dei suoi lavori in libreria. Non ricordocon precisione quando accadde il fatto, ma da allora sono trascorsi non meno di due anni.Ricordo invece l’impatto del quadro di Serena. Più delle mie parole, per comunicare le immagi-ni del suo lavoro, mi avvalgo di un passo di una sua poesia, dal titolo Tazza bianca e nera: “il

liquido trasparente della tazza, emanava soave, un impercettibile odore brillante di starnuti maifatti che ti fanno sfrigolare le orecchie per poi non farcela più ....” E ancora da una sua lettera del 1991: “Vorreispiegare come sono nate le due serie di lavori e come sono rese tecnicamente. Ciascun acquerello rappre-senta una delle posizioni base del TAI-CHI-CHUAN, l’antica arte del movimento cinese per la saluta e la lon-gevità. Ho cercato di esprimere, unito all’aspetto fluttuante e magico delle posizioni, quello un po’ smitizzan-te ed ironico di me in quel contesto”. Grazia, delicatezza mista a incertezza, dubbio e fragilità, più fisica chespirituale, scarsa considerazione dello scorrere del tempo, assenza dei punti di riferimento, sensibilità ediscrezione riassumono per me che l’ho conosciuta, non solo la fisicità del personaggio, ma tutta la sua arte.Si è avvalsa della collaborazione, in questa circostanza, del suo compagno, Franco Carrozzini, che l’ha aiu-tata a realizzare la colonna delle Segrete di Bocca, qui presentata nei disegni preparatori, e che gliè costata ben due viaggi Genova-Milano, andata e ritorno, per gli adattamenti e le migliorie appor-tate al progetto iniziale. Maria Serena Olivari è nata a Genova il 23 aprile 1952, città in cui oggivive e lavora nel campo della grafica. Laureata nel 1976, in architettura, da tempo è dedita esclu-sivamente alla pittura e alla ceramica. Possiede un discreto curriculum di personali e collettive,in prevalenza tra Genova e Milano, ma con uscite a Melbourne, Firenze, Bari, Svizzera e Finlandia.

Serena OlivariLa Colonna delle Segrete di Bocca

di Boccadi Bocca Via Molino delle Armi, 5 - Milano

La Colonna delle Segrete di Bocca