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Sent. n. 165/2012/E.L. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE BASILICATA composta dai seguenti Magistrati: Dott. Luciano CALAMARO Presidente relatore Dott. Vincenzo PERGOLA Consigliere Dott. Giuseppe TAGLIAMONTE Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 7873/EL del Registro di Segreteria, ad istanza della Procura regionale presso questa Sezione nei confronti di - XX Rosa Maria Anna, nata a XXCCXXCCXX (MT) il 22/07/1952, XX Renato, nato a XXCCXXCCXX (MT) il 19/05/1957, XX Rosa, nata a Matera il 14/03/1963, XX Giuseppe, nato a Matera il 17/10/1956, XX Leonardo, nato a XXCCXXCCXX (MT) il 19/06/1945, XX Massimo, nato Policoro (MT) il 05/01/1975, XX Paolo, nato ad Aliano (MT) il 28/10/1947 e XX Leonardo Giuseppe, nato a Matera il 03/11/1975, tutti elettivamente domiciliati in XXCCXXCCXX, al Corso Umberto I n. 17, presso lo studio dell’avvocato Domenico Padula che li rappresenta e difende;

Sent. n. 165/2012/E.L. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL ... · rimborso spese legali sostenute per la ... delle spese legali sostenute da amministratori di un ente ... parere di regolarità

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Sent. n. 165/2012/E.L.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE BASILICATA

composta dai seguenti Magistrati:

Dott. Luciano CALAMARO Presidente relatore

Dott. Vincenzo PERGOLA Consigliere

Dott. Giuseppe TAGLIAMONTE Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 7873/EL del Registro di Segreteria, ad

istanza della Procura regionale presso questa Sezione

nei confronti di

- XX Rosa Maria Anna, nata a XXCCXXCCXX (MT) il 22/07/1952, XX Renato, nato

a XXCCXXCCXX (MT) il 19/05/1957, XX Rosa, nata a Matera il 14/03/1963, XX

Giuseppe, nato a Matera il 17/10/1956, XX Leonardo, nato a XXCCXXCCXX (MT) il

19/06/1945, XX Massimo, nato Policoro (MT) il 05/01/1975, XX Paolo, nato ad Aliano

(MT) il 28/10/1947 e XX Leonardo Giuseppe, nato a Matera il 03/11/1975, tutti

elettivamente domiciliati in XXCCXXCCXX, al Corso Umberto I n. 17, presso lo studio

dell’avvocato Domenico Padula che li rappresenta e difende;

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- XX Anio, nato a Bari il 18/10/1952, rappresentato e difeso dall’avvocato Antonio

Maria DE SENSI, elettivamente domiciliato in Potenza, alla Via Ciccotti n. 10, presso Casa

Dello Russo Albina

- XX Mariano, nato a Policoro (MT) il 22/09/1976, XX Rosa, nata a Molfetta (BA) il

09/04/1958, XX Giovanni, nato a XXCCXXCCXX (MT) il 26/06/1961 e XX Salvatore, nato

a XXCCXXCCXX (MT) il 08/11/1958, tutti elettivamente domiciliati in Marconia di

XXCCXXCCXX, alla Via Ippaso n. 23, presso lo studio dell’avvocato Pasquale Tuccino

che li rappresenta e difende ;

- XX Rocco Salvatore, nato a XXCCXXCCXX (MT) il 07/01/1937 ed ivi residente in

Contrada Terranova;

Visto l’atto introduttivo del giudizio ed esaminati tutti gli altri atti e documenti della

causa;

Uditi, nella pubblica udienza del 13 dicembre 2011, con l’assistenza del Segretario

dott. Angela Micele, il relatore dr. Luciano Calamaro, il Pubblico Ministero nella persona

del sostituto Procuratore generale dott. Ernesto Gargano, gli avvocati Padula, De Sensi e

Tuccino per i rispettivi assistiti.

Ritenuto in

F A T T O

Con deliberazione n. 41 del 30.06.2008, il Consiglio Comunale di XXCCXXCCXX, tra

l’altro, provvedeva, ai sensi dell’art. 194, comma 1, lettera e) del decreto legislativo 18

agosto 2000, n. 267, al riconoscimento del debito fuori bilancio di € 6.873,45, a titolo di

rimborso spese legali sostenute per la propria difesa dal sig. X Pietro, assessore del

Comune di XXCCXXCCXX, in relazione al procedimento penale R.G. n. 985/00

incardinato presso il Tribunale di Matera.

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Detto procedimento si era concluso con sentenza di assoluzione n. 241 del 14

maggio 2003 (“perché il fatto non sussiste” per il reato di falso e “perché il fatto non

costituisce reato” per il reato di abuso di ufficio).

In precedenza, il sig. X, con istanza del 17.02.2004 aveva chiesto al Comune di

XXCCXXCCXX il pagamento diretto in favore del proprio legale, avvocato Giovanni

D’Onofrio, dell’importo di euro 13.746,91.

Con determina dirigenziale n. 113 del 14 dicembre 2004, era stato liquidato un

acconto di euro 6.873,46.

La Procura regionale presso questa Sezione giurisdizionale, ritenendo che dalla

fattispecie in esame emergessero profili di danno per l’erario, emetteva, in data

15/11/2010, l’invito di cui all’art. 5, comma 1, del d.l. 15/11/1993, n. 453, convertito dalla

legge 14/01/1994, n. 19, come modificato dal d.l. 23/10/1996, n. 543, convertito con

modificazioni nella legge 20/12/1996, n. 639, nei confronti dei consiglieri del Comune di

XXCCXXCCXX, che avevano votato la delibera.

Omologo atto veniva notificato all’avvocato Anio XX, responsabile dell’ufficio legale

dello stesso Comune, il quale aveva curato l’istruttoria, espresso parere favorevole di

regolarità tecnica sulla proposta della delibera stessa e, nella qualità di responsabile del

procedimento, disposto l’adozione dei conseguenti provvedimenti di propria competenza.

In data 15/12/2010 i signori XX Giuseppe, XX Leonardo Giuseppe, XX Renato, XX

Rosa, XX Leonardo, XX Paolo, XX Massimo e XX Rosa Maria presentavano le proprie

deduzioni, evidenziando la mancanza di un quadro univoco di riferimento ed oscillazioni

della giurisprudenza, tali da escludere la rimborsabilità delle spese legali sostenute da

amministratori di un ente locale in un giudizio, penale o civile.

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Sostenevano, inoltre, la adeguatezza delle somme rimborsate e la insussistenza di

comportamenti connotati da dolo o colpa grave, tenuto anche conto dei pareri tecnici e

contabili rilasciati dai competenti uffici comunali.

Omologhe difese venivano spiegate dall’avvocato Rocco XX, con deduzioni

presentate il 18/01/2011.

Quest’ultimo deduceva che nella sua condotta non fosse ravvisabile l’elemento

psicologico del dolo o della colpa grave, tenuto conto, tra l’altro, dei pareri dei dirigenti

dell’ufficio ragioneria e soprattutto dell’ufficio legale dell’ente, competente nella materia.

Soggiungeva, altresì, che il dirigente del predetto ufficio legale, nell’adottare i

provvedimenti di liquidazione, non solo aveva fatto riferimento all’indirizzo consolidato

della giurisprudenza, affermativo del riconoscimento del diritto al rimborso, ma aveva

anche espresso il suo parere sull’arricchimento ed effettivo incremento patrimoniale

dell’ente che sarebbe stato pari al 100%.

Infine, dopo aver fatto cenno all’esistenza del parere del Collegio dei Revisori dei

conti, affermava la netta divisione di competenze e delle correlate responsabilità tra organi

politici ed organi burocratici.

Nel corso della richiesta audizione, tenutasi il 28/02/2011, l’indagato precisava di aver

fatto affidamento sui pareri dei tecnici e sulla deontologia del professionista.

I signori XX Giovanni, XX Salvatore, XX Mariano e XX Rosa, tutti rappresentati e

difesi dagli avvocati Cafasso Carmela e Tuccino Pasquale del foro di Matera, ognuno con

distinto atto dell’11/12/2010, hanno sostenuto la legittimità del rimborso delle spese legali

ad un amministratore locale, coinvolto in un procedimento penale per fatti inerenti i compiti

d’ufficio, laddove sussistano i necessari presupposti della assenza di conflitto di interesse

con l’ente, della piena assoluzione in sede penale e della diretta connessione tra

contenzioso e carica ricoperta.

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Con riferimento alla sentenza n. 197 del 2000 della Corte costituzionale, dopo aver

rappresentato che l’art. 39 delle legge Regione Sicilia n. 145/1980 configura normativa

speciale applicabile esclusivamente al personale dell’amministrazione regionale, hanno

dedotto che l’art. 24 della legge Regione Sicilia 23/12/2000, n. 30 ha interpretato la

predetta norma, includendo espressamente i pubblici amministratori nel novero dei

soggetti ai quali è assicurata l’assistenza legale mediante rimborso di tutte le spese

affrontate.

Da ultimo, hanno eccepito che la delibera in questione è stata supportata da attività

istruttoria, con relativi pareri favorevoli, sia da parte dei dirigenti dell’ufficio legale e del

servizio ragioneria, sia da parte del Collegio dei Revisori dei conti.

Nell’audizione tenutasi in data 11/02/2011 hanno precisato di aver agito in assoluta

buona fede, in quanto tutto deponeva nella direzione della assoluta legittimità dell’atto che

si andava ad approvare, non mancando di segnalare di aver chiesto recentemente di

discutere la revoca della predetta delibera.

L’avvocato Anio XX, rappresentato e difeso dall’avvocato Gaetano Esposito del foro

di Matera, ha rappresentato, in primo luogo, la legittimità del diritto al rimborso delle spese

legali sostenute dagli amministratori.

Ha, poi, eccepito la carenza dell’elemento soggettivo della colpa grave adducendo di

essersi limitato ad esprimere un mero parere di regolarità tecnica, peraltro obbligatorio, ma

non vincolante, sulla proposta di deliberazione in questione, la cui adozione rientrava

nell’esclusiva competenza del Consiglio comunale.

Ha rappresentato, altresì, che la approvazione della delibera di riconoscimento di

debito, si è perfezionata alla stregua del parere di regolarità contabile, espresso dal

dirigente del Servizio finanziario, e di quello rilasciato dal Collegio dei Revisori dei conti,

atti che renderebbero la sua posizione marginale.

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Nella audizione tenutasi il 14/02/2011 ha ribadito detti argomenti.

Le deduzioni e gli argomenti svolti dagli invitati non apparivano alla Procura regionale

idonei per poter procedere alla archiviazione della vertenza, per cui veniva emesso l’atto

introduttivo del giudizio.

Premette l’attore che non sono applicabili, nella specie, le norme che prevedono

l’assunzione a carico dell’ente di appartenenza delle spese sopportate per gli oneri di

difesa da parte di un proprio dipendente, per fatti o atti direttamente connessi

all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti di ufficio.

In proposito rappresenta che la materia è ora regolata dall’art. 28 del C.C.N.L. per il

personale del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali del 14 settembre 2000, il

quale, sostanzialmente, riproduce il testo dell’art. 67 del d.P.R. 13/05/1987, n. 268.

Le suddette disposizioni prevedono che “l’ente, anche a tutela dei propri diritti e

interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei

confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del

servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione

che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del

procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento”.

La giurisprudenza, prosegue la parte attrice, con riferimento alla materia oggetto di

causa, avrebbe distinto la posizione dei dipendenti rispetto a quella degli amministratori.

In particolare la scelta del legislatore di stabilire per i dipendenti un trattamento

diverso e più favorevole rispetto agli amministratori, non apparirebbe discriminatoria né

irrazionale, stante la diversità intrinseca delle posizioni giuridiche rivestite da questi ultimi

rispetto a quelle dei dipendenti degli enti locali, come statuito dalla Corte costituzionale

con la pronuncia n. 197/2000 con riferimento all’articolo 39 della legge Regione Sicilia 29

dicembre 1980, n. 145.

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Nel delineato contesto l’art. 24 della legge Regione Sicilia n. 30 del 23/12/2000 (di

modifica dell’art. 39 della legge Regione Sicilia n. 145/1980) non farebbe che confermare

la necessità della interpositio legislatoris.

Nello stesso ambito si inscriverebbe l’indirizzo delle Sezioni Unite della Corte di

cassazione, secondo cui “alla norma riportata non può essere riconosciuto il valore

interpretativo, e perciò retroattivo, declamato dal legislatore regionale, perché essa non fa

emergere uno dei possibili significati normativi insiti nella disposizione interpretata, ma ha

aggiunto un elemento del tutto nuovo ed estraneo ad essa, consistente nell’estendere a

soggetti nuovi la norma prima riservata ai dipendenti regionali. Tali nuovi soggetti vanno

individuati sicuramente nei pubblici amministratori” (cfr. Cass., SS.UU., n. 3413/2008).

Parimenti pertinente alla vicenda risulterebbe il principio, enunciato dallo stesso

giudice, in forza del quale “il rapporto tra la P.A. ed il funzionario onorario, connesso

all’attribuzione di funzioni pubbliche, si distingue sia dai rapporti di pubblico impiego,

sia dai rapporti di parasubordinazione o di collaborazione continuativa e coordinata,

visto che il funzionario onorario non è esterno all’ente pubblico, ma si identifica

funzionalmente con l’ente medesimo ed agisce per esso e il compenso allo stesso dovuto

non ha carattere sinallagmatico-retributivo, ma indennitario” (cfr. Cass. S.U.

n. 2033/1985, 1556/1994, 3129/1997, 5398/2007, 3413/2008, 9160/2008).

Ne conseguirebbe che, in controversia, non apparirebbe “ pertinente il richiamo

all’analogia, che risulta correttamente evocabile quando emerga un vuoto normativo

nell’ordinamento, vuoto che nella specie non è configurabile, atteso che il legislatore si è

limitato a dettare una diversa disciplina per due situazioni non identiche fra loro, e la detta

diversità non appare priva di razionalità, atteso che gli amministratori pubblici non sono

dipendenti dell’ente, ma sono eletti dai cittadini, ai quali rispondono (e quindi non all’ente)

del loro operato.

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In ordine poi alla pretesa applicabilità della disciplina in tema di mandato, l’art. 1720

c.c. (secondo cui il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni, pagargli il

compenso e risarcirgli i danni subiti a causa dell’incarico, ipotesi quest’ultima

astrattamente evocabile nella specie) non risulta applicabile …omissis…perché le spese di

difesa non sono legate all’esecuzione del mandato da un nesso di causalità diretta,

collocandosi fra i due fatti un elemento intermedio, dato dall’elevazione di un’accusa poi

rivelatasi infondata” (cfr. Cass. 10052/08, 5398/07, 9363/07, 16845/04, Cass. pen.

41145/02, v. pure Cons. Stato 2242/00, parere n. 792 del 16/03/2004

e, da ultimo, Cass. 12645/10).

Delineato in tal modo il quadro ordinamentale e giurisprudenziale di riferimento, sia

costituzionale che di legittimità, la Procura regionale reputa evidente che il rimborso delle

spese legali a favore del sig. X, nella sua qualità di assessore del Comune di

XXCCXXCCXX, non si sarebbe dovuto effettuare; in ogni caso risulterebbe palese anche

la violazione dell’articolo 67 del dPR n. 268 del 1987 in forza del quale la scelta del legale

deve essere effettuata “ di comune gradimento”, circostanza non ricorrente in fattispecie

avendo l’interessato omesso di sottoporre la scelta del difensore all’ente locale.

Sotto altro profilo la parte attrice rappresenta che per il reato di abuso l’assessore X è

stato assolto perché il fatto addebitatogli non costituiva reato, ma la vicenda

evidenzierebbe la sussistenza di un conflitto di interessi con l’ente locale, preclusiva del

rimborso delle spese legali, per tale segmento del giudizio penale.

Del resto l’ente pubblico, prima di accollarsi l’onere delle spese legali, sarebbe

chiamato a procedere ad attente e rigorose valutazioni delle istanze di rimborso, al fine di

assicurare una buona, ragionevole ed imparziale amministrazione delle risorse pubbliche,

contenendo le connesse erogazioni “al massimo”, anche per evitare facili ed ingiustificati

esborsi.

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Dalla documentazione agli atti di causa risulterebbe, invece, il rimborso a piè di lista

di quanto richiesto, senza valutare la veridicità ed adeguatezza delle affermazioni del

professionista e senza verificare la conformità della parcella presentata alla tariffa

professionale.

Al riguardo, osserva l’attore che:

- la tariffa applicabile era quella del 1994;

- agli atti del Comune non è stata trovata alcuna documentazione;

- gli onorari applicati dal professionista sono quelli massimi, in parte raddoppiati, in

parte triplicati e in parte quadruplicati, senza alcuna motivazione in ordine alla particolare

complessità della causa;

- la voce “archivio” indicata nella notula del professionista figura solo nella tabella

civile e non in quella penale, per cui non spetta il relativo importo richiesto;

- la voce “esame documentazione”, indicata sia nella fase preliminare che in quella

dibattimentale, costituisce una duplicazione di quella “studio documentazione”, per cui non

spetta il relativo importo richiesto;

- la voce “studio atti e documenti processuali” appare generica ed il relativo importo

di € 1.032,91 va ridotto ad € 258,25 (€ 51,65 x 5, quante sono le udienze preliminari a cui

è stato presente il legale);

- dalla documentazione acquisita presso gli uffici giudiziari competenti è risultato che

il professionista incaricato della difesa del X ha partecipato ad una sola udienza di

discussione nella fase preliminare (udienza del 02/06/2000), per cui l’importo spettante

non è di € 1.933,64, bensì di € 619,75;

- allo stesso modo, è risultata una sola presenza all’udienza dibattimentale di

discussione (udienza del 14/05/2003), per cui l’importo spettante non è di € 2.417,05,

bensì di € 619,75.

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Le somme indebitamente rimborsate, quindi, configurerebbero danno erariale di cui

sono stati chiamati a rispondere tutti coloro che hanno concorso ad adottare la delibera n

41/2008, e più precisamente, i componenti dell’ organo collegiale che l’hanno approvata

e i dirigenti che hanno curato l’istruttoria, espresso parere favorevole sulla proposta e

provveduto ad adottare i provvedimenti conseguenti.

L’intera vicenda, ad avviso del requirente, apparirebbe, sotto molteplici aspetti,

connotata da un grado di superficialità e negligenza particolarmente grave e rilevante, dal

momento che la delibera più volte citata sarebbe stata votata senza una idonea e corretta

valutazione circa la sussistenza dei presupposti necessari per il legittimo

riconoscimento del debito fuori bilancio e per il conseguente pagamento della

prestazione professionale.

L’attività posta in essere dai convenuti non potrebbe che ritenersi ingiustificabile,

approssimativa ed in aperto contrasto con il principio di economicità della spesa e con

quello di buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 Cost.

Nella fattispecie risulterebbe pacifico che il Consiglio comunale, abbia esercitato

un’attribuzione propria intestatagli dall’articolo 194 del d.lgs 18/08/2000, n. 267 e che i

pareri di regolarità tecnica e contabile non abbiano natura vincolante per l’organo

deliberante.

La giurisprudenza avrebbe chiarito, infatti, che i pareri espressi dai responsabili

dell’area tecnica e del servizio finanziario dei Comuni costituiscono atti preparatori che

legittimano l’adozione delle deliberazioni per le quali i pareri stessi sono richiesti.

Ciò nonostante, prosegue la Procura regionale, configurerebbe dovere dell’organo

tecnico fornire al soggetto politico, specie su problematiche di grande rilievo, come quella

in esame, tutti gli elementi necessari, anche in termini problematici, in base ai quali

l’organo deliberante può assumere una decisione consapevole ed informata.

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Nella vicenda oggetto di causa, sarebbe mancata del tutto tale prospettazione, pur

vertendosi in materia connotata da elevati margini di discrezionalità ed incertezza.

Trattandosi di rimborso di spese legali, il convenuto avvocato XX avrebbe

gravemente abdicato ai suoi fondamentali doveri di diligenza e di accortezza, causando

così al patrimonio del Comune di XXCCXXCCXX un danno erariale pari alla somma

indebitamente erogata a titolo di rimborso delle spese legali.

Rilievo questo, tanto più marcato, ove si consideri la professionalità specifica e la

particolare competenza in materia del citato dipendente, in quanto preposto all’ufficio

legale.

La circostanziata natura del parere di regolarità tecnica, proveniente da soggetto

altamente qualificato e dotato di specifica competenza, in una materia di particolare

contenuto tecnico-giuridico quale il rimborso delle spese legali, ne avrebbe valorizzato il

ruolo e la portata.

Conseguentemente, la responsabilità dell’organo elettivo, che pure sussisterebbe

(una diversa interpretazione porterebbe infatti ad una sostanziale ed inammissibile

irresponsabilità degli organi politici, cfr. Corte conti, Sez. Basilicata, n. 127/2008),

resterebbe attenuata ove esso si sia conformato ad un parere tecnicamente

formulato, reso da autorevole soggetto, il quale ultimo si atteggerebbe alla stregua di un

atto preparatorio ed ausiliario che, sebbene di contenuto non decisorio, fungerebbe da

presupposto di diritto preordinato al corretto esercizio della funzione amministrativa e,

quindi, influente sul procedimento di formazione della volontà dell’ente.

Soggiunge l’attore che, oltre ad aver espresso il parere favorevole di regolarità

tecnica, l’avvocato XX avrebbe curato anche tutta l’attività istruttoria, finalizzata

all’adozione della delibera in questione (in particolare, la predisposizione delle schede per

accertamento e riconoscimento di ogni singolo debito, ai sensi dell’art. 194, lettera e, con

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attestazione della utilità ed arricchimento per l’ente), nonché provveduto ad adottare i

relativi conseguenti atti di liquidazione.

Al contrario, dovrebbe ritenersi non pertinente la pretesa di attribuire al responsabile

dell’area economico – finanziaria valutazioni di legittimità generale, rientrando nelle

funzioni del medesimo solo apprezzamenti riferiti alla regolarità contabile, qualora, come

nella specie, la deliberazione proposta comporti impegno di spesa o diminuzione di

entrata.

Allo stesso modo, il parere favorevole del Collegio dei Revisori dei conti, espresso nel

verbale del 22/12/2006, si sarebbe limitato ad accertare la certezza, la liquidità e

l’esigibilità dei debiti in questione, sulla base della documentazione trasmessa dal

dirigente dell’ufficio legale del Comune.

Considerato, dunque, che l’organo tecnico consultivo che ha indotto quello decidente

alla scelta non potrebbe rimanere estraneo alla vicenda produttiva di danno ove esso

abbia reso un parere, la cui natura non vincolante resterebbe irrilevante, l’attore

ritiene equa, ai fini del riparto di responsabilità tra le condotte di soggetti concorrenti nella

causazione del danno, la ripartizione del danno nella misura di 1/3 a carico dell’avvocato

XX, e per i restanti 2/3, in parti uguali, a carico dei Consiglieri comunali che hanno votato

favorevolmente la delibera di riconoscimento di debito.

Con memoria in data 17 novembre 2011 si sono costituiti in giudizio i convenuti XX

Giuseppe, XX Leonardo Giuseppe, XX Renato, XX Rosa, XX Leonardo, XX Paolo, XX

Massimo e XX Rosa Maria contestando la pretesa attrice.

Con il primo motivo viene rappresentata l’inesistenza di un quadro univoco di

riferimento, ordinamentale e giurisprudenziale, in materia di rimborso spese in favore dei

pubblici amministratori.

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La questione della rimborsabilità delle spese legali sostenute da un amministratore di

un ente locale in un giudizio penale o civile in conseguenza di fatti ed atti direttamente

connessi all'esercizio e a causa della funzione pubblica ricoperta, conclusosi con una

sentenza di assoluzione piena, non sarebbe disciplinata, al contrario di quanto avviene per

i dipendenti degli enti stessi, da una specifica normativa.

La giurisprudenza, peraltro, avrebbe chiarito che ove manchi un qualsiasi conflitto di

interessi con l'amministrazione, conflitto valutabile anche ex post, ossia alla conclusione

del procedimento penale, detto rimborso è conforme a legge.

A tal fine viene citata copiosa giurisprudenza anche della Corte dei conti (sez. giur..

Regione Lazio, 13 luglio 2009 n. 1356, Sez.II, 08.02.2010 n. 30, Corte dei Conti reg. Lazio,

25.08.2009 n. 1657, Corte dei Conti reg. Liguria, 29.10.2008 n. 636) e di questa Sezione

(Sez. Basilicata, 5.06.2006 n. 159 relativa agli amministratori del comune di Moliterno).

Quanto innanzi a conferma della assoluta inesistenza del presupposto "quadro

univoco di riferimento interpretativo della giurisprudenza" dedotto nell'atto di citazione.

Nella fattispecie ricorrerebbero tutti i requisiti enunciati dalla giurisprudenza per il

riconoscimento del diritto al rimborso: diretta connessione del contenzioso processuale

alla carica espletata, carenza di conflitto di interessi tra gli atti compiuti dall'amministratore

e l'ente, conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione che abbia accertato la

insussistenza dell'elemento psicologico del dolo o della colpa grave.

Con il secondo motivo i convenuti lamentano di aver deliberato all’esito di una

compiuta attività istruttoria tecnico-contabile dalla quale traspariva la complessità del

giudizio penale e la congruità delle somme rimborsate.

In tale caratterizzato contesto non apparivano necessarie valutazioni comparative con

la tariffa professionale, sicuramente non di propria spettanza e competenza.

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Peraltro rappresentano che la somma liquidata deve ritenersi congrua soprattutto se

raffrontata con le parcelle di molto superiori normalmente praticate.

Gli onorari vennero liquidati in conformità alla determinazione n. 113 del 14.12.2004,

già assunta dal Dirigente del Settore 8° del Comune di XXCCXXCCXX, con la quale era

già stato corrisposto all'assessore X - senza rilievo alcuno - un primo acconto di €

6.873,46.

Il consiglio comunale si sarebbe limitato, quindi, a dare esecuzione alla predetta

determinazione provvedendo al saldo in relazione ad un processo conclusosi nel 2004,

senza aggravio di interessi o altri oneri connessi all'inutile decorso del tempo,

contribuendo a sistemare posizioni debitorie dell’amministrazione che, altrimenti,

avrebbero potuto sfociare in conflitti tra l'ente e gli ex amministratori.

Con il terzo motivo si deduce l’irrilevanza dell'assenza del preventivo gradimento da

parte dell’amministrazione in ordine alla scelta del legale, stante la posizione antagonista

dell’ente locale cui non poteva essere rimessa detta facoltà.

I convenuti, infine, denunciano la mancanza del dolo e/o della colpa grave, nel

comportamento censurato ex adverso, avendo semplicemente espresso un voto in

adempimento del proprio mandato riguardo ad una questione che aveva visto la totale

estraneità dei pubblici amministratori rispetto ai fatti contestati, sulla base dei pareri tecnici

e contabili rilasciati dai competenti uffici comunali e degli indirizzi giurisprudenziali univoci.

Il consiglio comunale, inoltre, non avrebbe fatto altro che applicare una prassi già

sperimentata e consolidata nel passato - senza conseguenze - facendo completo

affidamento sulla continuità amministrativa e sui pareri espressi dagli organi tecnici

competenti.

Conclusivamente viene invocato il rigetto delle pretese avversarie e la liquidazione

delle spese e compensi di giudizio.

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In data 22 novembre 2011 si è costituito, mediante deposito di memoria, il convenuto

XX.

Eccepisce, in via preliminare, la inammissibilità dell'atto di citazione per il mancato

deposito dello stesso presso la Segreteria della Sezione.

Sull'atto di citazione notificato al convenuto non risulterebbe apposta alcuna

stampigliatura o timbratura indicante l'avvenuto deposito dell'atto introduttivo del giudizio

presso la Segreteria della Sezione entro il termine di 120 giorni previsto dal vigente

ordinamento.

L'eccezione sollevata, nella prospettazione difensiva, sarebbe rilevabile d'ufficio e

non sanabile nemmeno dalla costituzione in giudizio del convenuto, come statuito dalla

giurisprudenza richiamata in memoria .

Ulteriore eccezione di inammissibilità dell'atto di citazione, viene articolata per essere

stato l’atto introduttivo del giudizio notificato al domicilio anagrafico dell'odierno convenuto

a mani proprie anziché al domicilio eletto presso l'avvocato Gaetano Esposito, a cui, in

sede di deduzioni difensive, era stato rilasciato dal convenuto mandato di rappresentanza

e difesa.

Risulterebbe, quindi, evidente la lesione del principio del contraddittorio di cui all'art.

101 c.p.c, e l’impedimento, di fatto, all'esercizio del diritto di difesa, tenuto conto della

circostanza che rispetto alla prima fase, nel presente giudizio è stato conferito altro

mandato a nuovo e diverso procuratore.

Soggiunge il convenuto che, pur volendo annoverare l’invito a dedurre nell’alveo

dell’attività non processuale e, quindi, estranea al giudizio, non potrebbe dubitarsi che il

conferimento del mandato e l'elezione del domicilio espressi nelle deduzioni presentate, ai

sensi dell'art. 84 c.p.c, debbano intendersi rilasciati per l'intero procedimento, e, quindi,

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con produzione di effetti vincolanti per tutta l'attività processuale, ivi compresa quella

notificatoria.

In linea di principio, ne conseguirebbe che, se pur è riconosciuta la non obbligatorietà

della notifica presso il domiciliatario dell'atto di citazione, tuttavia in presenza di un

espresso conferimento consacrato in un contratto (art. 141 comma 2 c.p.c.), quale è il

mandato ad litem, l'attività notificatoria diventerebbe obbligatoria al domicilio eletto presso

il difensore incaricato con regolare mandato; evento che nella fattispecie si sarebbe

verificato, essendo stato rilasciato nelle controdeduzioni difensive mandato ad litem e la

correlata elezione di domicilio, per cui la notifica dell'atto di citazione non si sarebbe potuta

eseguire a mani proprie, come avvenuto, bensì nel domicilio eletto presso il procuratore

costituito.

In via preliminare il convenuto eccepisce la intervenuta prescrizione dell’azione di

responsabilità amministrativa, in quanto i termini della stessa, nel campo dell'attività

gestoria, inizierebbero a decorrere "dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero,

in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta” (l. n. 639/96) ".

Nella specie, il danno contestato dalla Procura regionale si sarebbe consumato con

l'adozione della determinazione dirigenziale n. 113 del 14.12.2004, con la quale, venne

disposto il rimborso per intero delle spese legali richieste dall’Assessore X Pietro; solo per

il verificarsi di un evento involontario esterno, ossia l'insufficiente capienza nell'apposito

capitolo di bilancio, si sarebbe proceduto “a rimborsare allo stesso solo il 50% dell'intero”.

Stante l'obbligazione assunta con la predetta determinazione, il restante 50%, pari ad

€ 6.873,45 avrebbe potuto essere riconosciuto come debito fuori bilancio, circostanza

formalizzatasi con l'adozione della delibera di C.C. n. 41 del 30.06.2008.

In proposito il convenuto sostiene che la fattispecie dannosa si completi "nel

momento in cui nasce nel patrimonio del soggetto leso il vincolo giuridico di pagare una

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determinata somma a favore di un terzo, non essendo rilevante il conseguente

pagamento, semprechè esso abbia origine dallo stesso fatto e costituisca semplice

conseguenza di esso, senza integrare una ipotesi di danno autonoma" (Corte conti Sez.

Sicilia 03/01/1995 n. 8).

Nella prospettazione difensiva, se il danno deriva da un provvedimento illegittimo, il

fatto pregiudizievole si realizza con la sua adozione o con il primo pagamento ancorché il

nocumento sia continuato e progressivo, nonché aggravato successivamente al suo primo

manifestarsi.

Conseguentemente, atteso che l'obbligazione nei confronti dell'Assessore si sarebbe

perfezionata con l'adozione della determinazione dirigenziale n. 113 del 14/12/2004, da

quella data decorrerebbero i termini della prescrizione.

La difesa non ignora il diverso orientamento giurisprudenziale secondo cui "quando il

danno è la sommatoria di pagamenti frazionati nel tempo tutti risalenti ad un unico atto

deliberativo o, comunque, ad un 'unica manifestazione di volontà, la decorrenza della

prescrizione va individuata nella data dì ciascun pagamento ".

Sostiene, peraltro, che nella fattispecie il richiamato principio non possa trovare

applicazione, in quanto per la liquidazione delle spese legali richiesta dall'assessore non

era previsto nessun pagamento frazionato nel tempo, tenuto conto che la determinazione

dirigenziale n. 113 del 14/12/2004, aveva proceduto al riconoscimento dell'intera

obbligazione e al pagamento del solo 50% per l'insufficiente capienza nell'apposito

capitolo di bilancio.

A tal fine richiama la statuizione delle Sezioni Riunite della Corte dei conti 30.10.2002

n. 3/QM, secondo cui "dal primo rateo decorre la prescrizione per tutti i danni, anche futuri,

derivati dall'atto lesivo" (In tal senso Corte dei conti Sez. 3° 11.07.2007 n. 194/A).

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Al fine di corroborare la fondatezza dell’eccezione, la difesa del convenuto richiama le

fasi della spesa disciplinate dall’articolo 182 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267,

al fine di evidenziare l’avvenuto perfezionamento delle prime tre con l'adozione della

determinazione n. 113 del 14/12/2004, mentre il solo pagamento, per la parte residua, che

di per sé non costituirebbe elemento essenziale alla formazione dell'obbligazione, si

sarebbe realizzato il 15/07/2008 con determinazione dirigenziale n. 96.

A sostegno delle estese conclusioni viene richiamata la sentenza della Sezione

giurisdizionale di appello della Corte dei conti per la Regione Siciliana 22.01.2002, n. 7,

secondo cui "i termini prescrizionali decorrono dalla data dell'ordinazione e liquidazione

della spesa, essendo questo il momento in cui maturano precise obbligazioni nei confronti

dei soggetti contraenti, e non dalla data del pagamento, che costituisce soltanto un

momento successivo meramente materiale alla cui eventualità non può assoggettarsi la

funzione di certezza propria dell'istituto della prescrizione".

Considerato che, l'invito a dedurre della Procura regionale è stato notificato al

convenuto in data 18/11/2010, mentre la determinazione dirigenziale di liquidazione n. 113

è stata adottata il 14/12/2004, apparirebbe ictu oculi che l'esercizio dell'azione risulterebbe

prescritto e l'arco temporale della prescrizione quinquennale compiuto.

Sempre in via preliminare, ma gradata, viene invocata l'estensione del contraddittorio

nei confronti del Dirigente dell'Area Finanziaria del Comune di XXCCXXCCXX e dei

componenti del Collegio dei Revisori dei conti, in relazione ai dei pareri di regolarità

contabile e di legittimità, espressi in relazione alla delibera consiliare di riconoscimento dei

debiti fuori bilancio.

Nel merito il convenuto contesta la pretesa attrice per i seguenti motivi:

- Legittimità della deliberazione C.C. n. 41 del 30 giugno 2008. Assenza e/o

inconfigurabilità del danno erariale.

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Sul tema della rimborsabilità delle spese legali sostenute dagli amministratori, non si

registrerebbe un quadro univoco di riferimento interpretativo ( interpretazione analogica

dell’art. 16 d.P.R. 1 giugno 1979, n. 191, dei principi generali del diritto civile dettati, in

tema di mandato, dal 2° comma dell'art. 1720 del codice civile, interpretazione estensiva

dell’art. 3, comma 2-bis, del d.l. 543/1996).

Il Ministero dell'Interno, con nota 12 luglio 2002 prot. 15900/10/B/l/A, in conformità a

quanto statuito dal Consiglio di Stato, inoltre, avrebbe ritenuto "praticabile la rifusione delle

spese legali sostenute dagli amministratori se gli atti o i fatti dedotti in giudizio siano stati

posti in essere nell'espletamento del mandato o del servizio ed a condizione che,

riconosciuta l'assenza del dolo o colpa grave, il procedimento si sia concluso con una

sentenza di assoluzione con formula piena, passata in giudicato".

La parificazione, ai fini del rimborso delle spese legali, degli amministratori ai pubblici

impiegati sarebbe stata reiteratamente sostenuta e ribadita dal Giudice contabile a partire

dalla pronuncia delle Sezioni Riunite n. 501 del 18.06.1986.

La giurisprudenza (Corte dei conti reg. Liguria 29 ott. 2008 n.636, Corte dei conti reg.

Lombardia 19 ott. 2005 n. 641) ne avrebbe subordinato la ricorrenza dall’avverarsi dei

seguenti presupposti:

a) la sussistenza di una connessione con i compiti d'ufficio dei fatti oggetto del

processo penale;

b) mancanza di conflitto di interessi con l'Amministrazione di appartenenza;

c) conclusione del processo penale con una sentenza di assoluzione.

Soggiunge la difesa del convenuto che la giurisprudenza (contabile, civile ed

amministrativa) avrebbe riconosciuto l'esistenza del diritto al rimborso delle spese legali

sostenute dagli amministratori degli enti locali, ancorandolo a differenti previsioni

normative.

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L'autonomia del diritto soggettivo degli amministratori locali al rimborso delle spese

ed al risarcimento dei danni subiti nel corso dell'espletamento del mandato, ricavabile dai

principi generali dell'ordinamento e dall'art. 51 della Costituzione, avrebbe, peraltro,

trovato negli anni ‘ 90 un primo solido aggancio normativo e, cioè,

l'art. 3 comma 2bis del d.l. n. 543 del 1996, convertito dalla legge n. n. 249 del 1996,

recante "Disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti" secondo cui

"in caso di definitivo proscioglimento ....le spese legali sostenute dai soggetti sottoposti al

giudizio della Corte dei conti sono rimborsate dall'amministrazione di appartenenza".

Con riferimento a detta disciplina, osserva il convenuto, la Suprema Corte di

cassazione ha statuito che "l'effetto perseguito dalla legge non è quello di porsi come

disposizione speciale rispetto alla disciplina generale del fenomeno come si presenta nei

giudizi ordinari, ma quello di stabilire una disciplina surrogatoria di quello" (Cass. Civ., SU,

17014/03).

- Irrilevanza della mancata sottoposizione della scelta del difensore alla

condivisione dell'Ente.

Il non aver sottoposto la scelta del difensore alla condivisione dell'Ente non potrebbe

costituire ostacolo al rimborso delle spese legali sostenute dagli assessori, in quanto

l'interpretazione estensiva, di cui sarebbe suscettibile l'art. 67 del d.P.R. 13/05/1987 n.

268, consentirebbe di accertare la carenza di conflitto successivamente all’avvio del

processo penale e anche al suo esito.

Soluzione che riscuoterebbe conforto anche nella disposizione contenuta nell'art. 18

del d.l. 25/03/1997, n. 67, convertito dalla legge n. 135/97, che disciplina l'analoga

situazione dei dipendenti dello Stato consentendo la liquidazione delle spese legali ex

post.

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In controversia l'assenza di conflitto di interesse con l'Amministrazione, non sarebbe

stata verificabile ex ante, ma solo all'esito del giudizio, in quanto rinvenibile concretamente

dagli atti del processo, per cui correttamente si sarebbe riconosciuto ex post il diritto degli

amministratori al rimborso delle spese di giudizio anche al fine di evitare l’insorgere di un

contenzioso civile.

L'indirizzo favorevole della giurisprudenza trarrebbe vigore non tanto dall'applicazione

diretta delle norme relative ai dipendenti degli enti locali, ma in base ad un'applicazione

analogica delle regole generali sul mandato ex art. 1720, comma 2, cc.

Da ciò conseguirebbe che agli amministratori possono essere rimborsate le spese

sostenute per la difesa in giudizi relativi a fatti commessi a causa di servizio e senza

necessità di preventiva comunicazione all'ente ex art. 67 del dPR n. 268/1987.

- Assoluzione nel giudizio penale.

Il convenuto rappresenta che dalla lettura della sentenza del Giudice penale, emerge

chiaramente che l'attività dell'assessore è stata svolta in diretta connessione con i fini dell'

ente, con totale assenza del dolo o della colpa grave e del conflitto di interesse, elementi

di cui l’amministrazione comunale ha tenuto conto nel riconoscergli il diritto al rimborso

delle spese di giudizio dallo stesso sostenute.

- Mancato esame della conformità della parcella alle tariffe professionali.

Sostiene il convenuto che la parcella posta a base della richiesta di rimborso delle

spese legali sostenute dall'assessore, non avrebbe potuto essere modificata nel suo

importo autonomamente e discrezionalmente da parte dell'Ente, come ritenuto dalla

Procura regionale, trattandosi di rimborso ex post eseguito in favore del richiedente

assessore.

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Lo scrutinio capillare e minuzioso dell'attività processuale, configurerebbe iniziativa

impedita all’ amministrazione, posto che si verterebbe in tema di spesa già anticipata e,

quindi, pagata.

Controversi, poi, apparirebbero i limiti al sindacato giurisdizionale sul giudizio di

congruità in ordine agli oneri di difesa da rimborsare che, per le amministrazioni statali,

l'art. 18 del d.l. n. 67/1997 intesta all'Avvocatura dello Stato.

In tale contesto il controllo dell'Avvocatura erariale non consentirebbe la

determinazione diretta dell'ammontare del credito del dipendente in sede giurisdizionale

(TAR F.V.G. 11 Gennaio 2007 n. 43 e TAR Lazio, Roma, Sez. I, 7 Ottobre 2004 n. 10451).

La suddetta procedura, peraltro, risulterebbe applicabile ai dipendenti dello Stato, ma

non anche a quelli degli enti locali.

L'ulteriore sindacato sulla congruità della parcella, di natura tecnica, dovrebbe essere

limitato alla valutazione delle prestazioni indicate nella parcella stessa, al numero dei legali

officiati e alla complessità della causa.

In definitiva, l'apprezzamento di congruità, che potrebbe essere effettuato

dall'Amministrazione, riguarderebbe l'adeguatezza delle spese legali delle quali viene

chiesto il rimborso in relazione al parametro costituito dalla tariffa applicata (nella specie

quella approvata con d.m. 5.10.1994 n. 585), e tenuto conto della natura e della

complessità della causa, dell'importanza delle questioni trattate, della durata del processo,

della qualità dell'opera professionale prestata e del vantaggio arrecato al cliente, vale a

dire dell'esito del giudizio.

In sintesi mentre l’ordinamento avrebbe riconosciuto all'Avvocatura dello Stato

elevata attribuzione di ordine generale tecnico-legale, nessuna norma di ordine generale

disciplinerebbe, in modo specifico, il sindacato delle Amministrazioni diverse dallo Stato.

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- Inconfigurabilità del danno erariale — Carenza dell'elemento soggettivo - Assenza di

colpa grave.

Il richiamato contrasto giurisprudenziale in materia, rileverebbe sotto un diverso (e

concorrente) profilo di inconfigurabilità del danno erariale contestato, stante la carenza

dell'elemento soggettivo.

Il convenuto richiama, all'uopo, il principio enunciato dalla giurisprudenza secondo

cui: "la grave colpevolezza è ravvisabile nel caso di norme strettamente prescrittive, cioè

di quelle che non lasciano alcun dubbio sui comportamenti da seguire, nella loro

immediata e diretta violazione; nel caso di norme non altrettanto letteralmente cogenti, la

colpa grave va ravvisata in macroscopiche violazioni del dettato normativo, ponendosi in

palese contrasto con esso, dandone una lettura superficiale "(Corte dei conti, Sezione

seconda Centrale, n. 162/03).

La medesima pronuncia, su un caso di responsabilità amministrativa della giunta per

l'adozione di un delibera di riconoscimento del rimborso di spese legali, ha aggiunto:"..

.sicuramente nel caso in esame, agli interessati non può imputarsi grave trascuratezza

nell'applicazione di norme che presentano, comunque, profili di dubbio sulla loro

interpretazione o, meglio, sulla loro estensione ".

Assume la parte resistente che al fine di dirimere l'incertezza interpretativa ed il

contrasto giurisprudenziale relativo al diritto al rimborso delle spese legali, è intervenuta la

Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 12645 del 24 maggio 2010, con la quale

è stato ribadito il consolidato principio che "In assenza di un nesso eziologico tra

l'adempimento dell'Ufficio e la perdita pecuniaria, non può essere riconosciuto agli

amministratori locali il diritto al rimborso delle spese legali sostenute per la difesa in un

procedimento penale. Tanto più che il danno risarcibile presuppone un comportamento

incolpevole dei ricorrenti".

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- Inefficacia e/o inidoneità, in termini eziologici, del visto di regolarità tecnica ai fini

della causazione del danno.

Gli estesi argomenti militerebbero per la inconfigurabilità - da un punto di vista

oggettivo e soggettivo - del danno contestato.

Tuttavia nell'ipotesi in cui la deliberazione inerente il rimborso delle spese legali

dovesse ritenersi illegittima e foriera di danno erariale, occorrerebbe differenziare la

posizione dell'avvocato XX - che si sarebbe limitato ad esprimere un mero parere di

regolarità tecnica sulla proposta di deliberazione - rispetto a quella dei consiglieri

comunali.

Il danno erariale non potrebbe essere ascritto, in termini eziologici, alla condotta

dell'esponente, avendo egli agito nella qualità di responsabile dell'Ufficio Affari legali

rilasciando un avviso (obbligatorio, ma non vincolante) sulla regolarità tecnica, ex art. 49

del d.lgs. 267/2000.

Tale disposizione si atteggerebbe alla stregua di un corollario (logico prima ancora

che giuridico) del principio angolare di separazione funzionale tra sfera politica e sfera

gestionale; solo all'organo politico spetterebbe l'attività di indirizzo, e, pertanto, le

valutazioni di merito sulle questioni oggetto di delibera.

Conseguentemente la scelta di merito della deliberazione dovrebbe ricondursi

soltanto all'organo politico, nella fattispecie il consiglio comunale.

Per contro, il parere di regolarità tecnica non investirebbe la legittimità dell'atto,

limitandosi a verificare la sussistenza dei presupposti, a monte, che consentono all'organo

politico l'adozione della delibera.

Diversamente opinando, infatti, si ascriverebbero ai funzionari le scelte di merito

intestate dalla legge agli organi politici.

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A tal fine il convenuto richiama la giurisprudenza secondo cui è stata affermata

l'insussistenza della responsabilità amministrativa a carico del funzionario per

l’espressione del parere favorevole di regolarità tecnica su una proposta di deliberazione

del Consiglio Comunale di riconoscimento dei debiti fuori bilancio sul rimborso delle spese

legali, stante la delimitazione fissata dalla legge per detto parere.

Limitazioni che andrebbero individuate nella verifica di legittimità, in linea tecnica, che

la materia in deliberazione rientri nella effettiva competenza dell'organo deliberante e che

sul piano della regolarità tecnico-amministrativa sussistano i presupposti di fatto che

legittimano il ricorso ad una tale deliberazione, a prescindere da ogni valutazione e

sindacato nel merito degli atti prodromici che l’ hanno resa necessaria .

Merito e ragioni le cui valutazioni sarebbero di esclusiva pertinenza dell'organo

deliberante, libero di determinarsi in ordine alle stesse, non essendo il parere predetto

vincolante.

La riportata prospettazione troverebbe ampia conferma nel dibattito consiliare; nel

relativo verbale, infatti, emergerebbe nitidamente l'autonoma espressione di volontà

dell'organo collegiale nell'approvazione dell'atto deliberativo di riconoscimento di debito.

I pareri espressi dalle competenti strutture sarebbero stati considerati come

presupposti di diritto che "non possono interferire sull'autonomo e corretto esercizio dei

poteri spettanti all'organo deliberante" ... "la delibera .... è di esclusiva pertinenza del

Consiglio Comunale…. il parere del responsabile dell'area tecnica e del responsabile

dell'area economica finanziaria si sono correttamente ispirati, nei confini delle valutazioni

tecniche e contabili attribuiti dall'ordinamento, alla verifica della positiva sussistenza dei

presupposti legittimanti l'adozione della delibera.... nessun nesso causale corre nella

specie tra i pareri espressi e il dedotto danno erariale" ( Corte dei conti, Sez. giur.

d'appello Sicilia, 13 gennaio 2009 n. 1).

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Il convenuto, infine, rappresenta che il parere preventivo di regolarità tecnica non

potrebbe assurgere - argomentando dai principi posti dagli artt. 1223 cod. civ., 40 e 41

cod.pen. - a causa immediata e diretta del danno erariale.

Con memoria redatta il 10 dicembre 2011 si sono costituiti in giudizio XX Mariano, XX

Rosa, XX Giovanni e XX Salvatore.

Sostengono i convenuti che il rimborso delle spese legali ad un amministratore è del

tutto legittimo, posto che quest’ultimo, nell'espletamento della carica ricoperta, è un

pubblico funzionario che compie atti ricollegabili alla cura di interessi pubblici.

Richiamano, a tal fine, l'art. 28 della Costituzione, l’art. 58 della legge 142/1990, l'art.

16 del dPR n. 191/1979, l'art. 67 del dPR n. 268/1987 e l'art. 50 del dPR n. 333/90.

All'amministratore comunale, pur in assenza di una norma specifica di riferimento,

andrebbe estesa la stessa tutela prevista per il dipendente dell'ente locale e, in particolare,

quella garantita dall’art. 67 del dPR 13.05.1987 n.268, che racchiuderebbe un principio di

carattere generale a tutela e protezione di tutti i soggetti dell'azione amministrativa.

Al medesimo, pertanto, coinvolto in un procedimento penale per fatti inerenti la carica

pubblica ricoperta, ove non sia ravvisabile una situazione di conflitto di interessi con l'ente

presso il quale è incardinato ed accertata una diretta connessione tra contenzioso

processuale e carica ricoperta, in caso di assoluzione, andrebbe riconosciuto il diritto ad

ottenere il rimborso delle spese legali sopportate.

In tale contesto si inscriverebbero le pronunce della Corte di cassazione (13.12.2000

n. 15724 e Cass. 3.01.2001 n. 48), le quali hanno ritenuto applicabile, indifferentemente

agli amministratori e ai dipendenti, l'art. 16 d.p.r. 1 giugno 1979 n. 191, seppur alle

condizioni dell'assenza di conflitto di interessi e di quella secondo cui il procedimento

penale riguardi fatti connessi all'espletamento del servizio o all'adempimento dei doveri

d'ufficio.

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Rappresentano, inoltre, i convenuti che l'ente, prima di convenire di assumere a

proprio carico ogni onere di difesa in un procedimento di responsabilità civile o penale

aperto nei confronti di un proprio funzionario, deve valutare la sussistenza di alcune

essenziali ed imprescindibili condizioni:

a. la sussistenza della necessità di tutelare i propri diritti, i propri interessi e la propria

immagine;

b. la sussistenza della diretta connessione del contenzioso processuale con la carica

espletata o con l'ufficio rivestito dal pubblico funzionario;

c. la carenza di conflitto di interesse tra gli atti compiuti dal funzionario e l'ente;

d. la conclusione del procedimento con una sentenza di assoluzione, che abbia

accertato la insussistenza dell'elemento psicologico del dolo o della colpa grave.

La compresenza di detti presupposti, soggiungono i resistenti, deve essere accertata

rigorosamente, ma, una volta acclarata, al pubblico amministratore interessato va

riconosciuto il diritto al rimborso delle spese legali sostenute.

Nella fattispecie, il controllo esercitato dal consiglio comunale, prima dell'adozione

dell'atto, sarebbe stato rigoroso, circostanza che i convenuti ritengono comprovata dalla

articolazione dello stesso atto di citazione nella parte in cui afferma che la delibera n. 41

era supportata da pareri di regolarità tecnica.

Se, dunque, i consiglieri comunali, prima di adottare l'atto, si sono preoccupati di

verificarne la regolarità e la legittimità, ricorrendo all'acquisizione di pareri altamente

qualificati in ordine alla regolarità tecnica e giuridica dello stesso, non sarebbe ravvisabile

alcuna responsabilità in capo agli stessi.

Del resto, secondo gli esponenti, il rimborso non potrebbe restare precluso per il sol

fatto che la scelta del difensore possa essere stata autonoma e non condivisa.

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L’ammissibilità del rimborso, anche in tale ultima evenienza, risulterebbe

acconsentita, in giurisprudenza ed in dottrina nell'ipotesi in cui "il dipendente (o

amministratore) ometta di sottoporre la scelta del difensore alla condivisione da parte

dell'ente, quest'ultimo può, sussistendone i presupposti, decurtare la parcella, ma giammai

può negare il diritto al rimborso”.

Alla luce delle suesposte considerazioni, accertata la mancanza di responsabilità, i

resistenti concludono per il rigetto della pretesa avversaria.

All’odierna pubblica udienza il pubblico ministero ha confermato l’impianto

accusatorio.

Con riferimento alla eccezione di inammissibilità dell'atto di citazione, sollevata dalla

difesa del convenuto XX, ha sostenuto come alcuna censura possa essere avanzata in

ordine alla avvenuta notificazione dell'atto di citazione presso la residenza della parte e

non presso il domicilio eletto, alla stregua della giurisprudenza della Corte dei conti ( Sez.

Campania n.386 del 2009 e Sez. II Centrale d'Appello n.l del 2008).

In ordine alla eccezione di intervenuta prescrizione del credito erariale, formalizzata

dalla medesima difesa, ritiene che il dies a quo decorra dal momento dell'effettivo

pagamento, quando, cioè, si verifica l’effettivo depauperamento per l'Amministrazione.

Conclusivamente ha chiesto l’accoglimento della domanda.

L'avvocato Padula, ha rappresentato che la tesi accusatoria risulterebbe affetta da

palesi lacune e incongruenze, ribadendo la sussistenza del diritto al rimborso delle spese

legali sostenute anche da un amministratore di un ente locale, imputato in un giudizio

penale conclusosi con sentenza di assoluzione, in conseguenza di fatti ed atti connessi

direttamente all'esercizio e a causa della funzione pubblica ricoperta.

Ha precisato, inoltre, che il riconoscimento del debito fuori bilancio è stato deliberato

sulla scorta di pareri tecnici.

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Quanto alla misura degli onorari, rappresenta che la parcella del legale recava il visto

dell'Ordine degli avvocati, per cui nessuna indagine doveva a tal fine compiere il consiglio

comunale.

L'avvocato De Sensi, nel riportarsi al contenuto della memoria di costituzione, ha

sottolineato, in particolare, come nella delibera di riconoscimento di debito di cui è

controversia, non sia stato in alcun modo citato un parere di legittimità, ma di sola

regolarità tecnica, reso dal proprio assistito nella sua posizione di responsabile dell’Ufficio

legale.

Ha insistito, in via subordinata, nell’accoglimento dell’istanza di integrazione del

contraddittorio nei confronti del Dirigente dell'Area Finanziaria del Comune di

XXCCXXCCXX e dei componenti del Collegio dei Revisori dei conti in relazione ai pareri

dai medesimi espressi in relazione alla deliberazione di riconoscimento di debito.

L'avvocato Tuccino, ha posto in risalto la rilevanza del parere reso dal XX ai fini

dell'approvazione della richiamata delibera.

Tutti i difensori hanno concluso per il rigetto della domanda attrice.

In tale stato la causa è stata trattenuta per la decisione.

Considerato in

DIRITTO

1. In via pregiudiziale vengono in rilievo le eccezioni sollevate dal convenuto

XX, di integrazione del contraddittorio nei confronti di soggetti rimasti estranei alla

controversia e di inammissibilità dell’atto di citazione, quest’ultima articolata in relazione al

sostenuto omesso deposito dell’atto stesso presso la Segreteria di questa Sezione

giurisdizionale e alla sua errata notificazione presso il proprio domicilio e non presso

quello eletto in sede di presentazione delle deduzioni difensive.

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1.1. La prima eccezione, ancorchè avanzata in via subordinata, investe la

regolarità del rapporto processuale, per cui la sua trattazione precede le altre questioni

pregiudiziali.

Il convenuto si duole dell’omessa evocazione in giudizio del Dirigente dell'Area

Finanziaria del Comune di XXCCXXCCXX e dei componenti del Collegio dei Revisori dei

conti, in relazione ai pareri, rispettivamente, di regolarità contabile e di legittimità, dagli

stessi rilasciati in relazione alla delibera consiliare di riconoscimento dei debiti fuori

bilancio.

Detti avvisi, risultando quanto meno sovrapponibili al parere di regolarità tecnica

espressa dal convenuto, avrebbero dovuto determinare l’evocazione in giudizio dei

soggetti indicati, nei cui confronti viene chiesta l’integrazione del contraddittorio.

La legge 14 gennaio 1994 n. 20, modificata dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639,

ha introdotto, in via generale (e fatta eccezione per i casi previsti dalla legge stessa), il

principio della personalità e parziarietà della responsabilità amministrativa, in luogo di

quello previgente della solidarietà, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario di cui

all'art. 102 c.p.c..

L'integrazione “facoltativa” del contraddittorio (artt. 107 c.p.c. e 47 r.d. n. 1038 del

1933) è rimessa alla valutazione del Giudice ove si versi in una fattispecie di comunanza

di cause, cioè quando dall'impianto accusatorio (ed entro i limiti dallo stesso imposti, ai

sensi dell'art. 112 c.p.c.) emergano condotte autonome di terzi che abbiano potuto

incidere sul processo di causazione del danno, sovrapponendosi o collegandosi alla

condotta degli evocati in giudizio, in tal modo rendendosi opportuna la loro chiamata per

ragioni di economia processuale, anche al fine di evitare conflitto di giudicati (Sezione

Giurisdizionale Campania, n. 1135/2007; Sezione III Centrale, n. 419/2007; Sezione II

Centrale, n. 234/2007; Sezione Giurisdizionale Umbria, n. 223/2007).

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Al riguardo osserva il Collegio che ai sensi dell’articolo 49 del decreto legislativo 18

agosto 2000, n. 267 “Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta ed al

consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine alla

sola regolarita' tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti

impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla

regolarita' contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione”.

Il comma 3 dello stesso articolo prevede la responsabilità in via amministrativa e

contabile per i soggetti che hanno espresso i sopra citati pareri.

Ritiene il Collegio che l’attestazione di regolarità contabile non determini l’insorgere di

responsabilità del Dirigente che l’ha rilasciata, tranne l’ipotesi di macroscopiche

illegittimità ( Sezione giurisdizionale Toscana 3 settembre 2012, n. 415).

In sintesi, almeno in fattispecie, il parere di regolarità contabile espresso dal Dirigente

del settore esercizi finanziari del Comune di XXCCXXCCXX in data 25 giugno 2008, è

consistito nella attestazione di copertura della spesa, avulsa dalla valutazione di profili di

legittimità della spesa stessa.

A diversa conclusione si deve giungere in relazione all’attività del Collegio dei

revisori.

Sebbene l’articolo 239 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, sembri

delineare attribuzioni di natura prettamente contabile, va osservato che, in realtà, detta

disciplina intesta all’organo di revisione compiti di vigilanza sulla gestione dell’ente locale.

E’ pur vero che detto compito viene esercitato “…anche con tecniche motivate di

campionamento” ( articolo 239, comma 1, lettera c), ma non certo quando venga

rassegnata al controllo una specifica questione, come, in fattispecie, quella attinente al

riconoscimento dei debiti fuori bilancio.

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A ciò si aggiunga la delicatezza della materia che ha richiesto una specifica e

rigorosa disciplina, con la conseguenza che, in tali evenienze, l’esame degli atti esige non

solo riscontri meramente contabili, ma anche un controllo sulla legittimità della spesa,

come, del resto, sembra riconoscere lo stesso verbale del Collegio dei revisori del 22

dicembre 2006 che reca l’intestazione “ Debiti fuori bilancio: parere sul riconoscimento di

legittimità”.

Ritiene, peraltro, il Collegio che la richiesta integrazione del contraddittorio nei

confronti dei membri dell’organo di revisione, non possa essere accolta.

Ai sensi dell’articolo 1 quater della legge 14 gennaio 1994, n. 20 “Se il fatto dannoso

è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna

ciascuno per la parte che vi ha preso.”.

Detta disposizione non attribuisce al Giudice la verifica della presenza dei

presupposti per la chiamata in giudizio dei soggetti rimasti estranei alla controversia, ma

solo l’indagine sulla riferibilità agli stessi dell’intero danno, di cui si reclama il risarcimento

con l'atto introduttivo ovvero di altra somma che costituisca (eventualmente) nocumento

per le pubbliche finanze, in rapporto alla condotta tenuta da ciascuno come fonte della

“singola responsabilità” nel senso indicato dalla legge.

In estrema sintesi in caso di responsabilità concorrenti, come in controversia, la

finalità che si propone il convenuto chiedendo l’estensione del contraddittorio nei confronti

di soggetti non evocati in lite, è soltanto quella di coinvolgerli nel giudizio per sentirli

condannati a parte del danno contestato, il cui risarcimento, altrimenti, resterebbe

interamente, o nelle misure indicate dall’attore, a suo carico.

Tale corretta pretesa, come accennato, è disciplinata dalla richiamata disposizione

anche in assenza del coinvolgimento nella controversia dei soggetti nei cui confronti è

riconosciuto dal Giudice l’apporto causale nella produzione del danno, da tenere conto ai

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fini della misura del risarcimento addebitabile ai convenuti ( Sezione I centrale d’appello 5

luglio 2012, n. 356; Sezione II centrale d’appello 1 marzo 2012, n. 119).

In estrema sintesi nella quantificazione del danno, il Collegio deve tenere conto della

parte di danno ascrivibile ai soggetti non evocati in lite, scorporandola dal risarcimento

richiesto dall’attore.

1.2. Con la prima eccezione di inammissibilità dell’atto di citazione, la parte

convenuta lamenta che detto atto, notificato presso il suo domicilio, sia risultato sprovvisto

di “stampigliatura o timbratura” indicante l’avvenuto deposito dell’atto stesso presso la

Segreteria della Sezione giurisdizionale entro il termine di giorni 120 fissato dall'art. 5,

comma 1, del decreto legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito con modificazioni dalla

legge 14 gennaio 1994, n. 19, come sostituito dall'art. 1 comma 3-bis, della legge 20

dicembre 1996, n. 639.

Ai sensi della richiamata disciplina “Il procuratore regionale emette l'atto di citazione

in giudizio entro centoventi giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle

deduzioni da parte del presunto responsabile del danno…. “.

Dagli atti di causa risulta che la copia dell’atto di citazione non reca la stampigliatura

attestante il deposito dell’atto presso la segreteria di questa Sezione giurisdizionale, come

evidenziato dalla parte interessata.

Peraltro detta mancanza si appalesa del tutto irrilevante, sul piano formale e

sostanziale, ai fini della ammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio.

Sotto un primo, peraltro assorbente, profilo va osservato che il convenuto ha chiesto

ed ottenuto l’audizione personale da parte del Procuratore regionale, tenutasi in data 14

febbraio 2011.

Da tale data, dal medesimo ben conosciuta, decorre il termine di centoventi giorni

fissato dalla citata normativa.

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Orbene a prescindere dalla stampigliatura sull’atto di citazione della data di deposito

presso la Segreteria della Sezione, il XX avrebbe potuto agevolmente controllare

l’avvenuto rispetto dell’indicato termine tenendo conto della data di notifica dell’atto

medesimo – evidentemente già depositato presso la Segreteria della Sezione - e quella

della sua audizione.

Sotto altra angolazione si deve osservare che il decreto del Presidente della Sezione

in data 10 maggio 2011 di fissazione dell’udienza di trattazione della controversia, è stato

apposto in calce all’atto di citazione precedentemente depositato presso la Segreteria

della Sezione stessa.

La tempestività dell’emissione dell’atto ( centoventi giorni dalla data della audizione

dell’interessato del 14 febbraio 2011), appare, quindi, agevolmente riscontrabile.

Tra le due riportate date, infatti, è intercorso un periodo di tempo inferiore a quello

prescritto dalla citata normativa.

L’eccezione avanzata dal convenuto deve essere, pertanto, respinta.

1.3. Con la seconda eccezione pregiudiziale il convenuto denuncia la inammissibilità

dell’atto di citazione sostenendone la irregolare notificazione presso il suo domicilio, in

luogo di quello eletto in sede di presentazione delle deduzioni difensive.

L'art. 5, comma 1, del decreto legge 15 novembre 1993, convertito con modificazioni

dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19, come sostituito dall'art. 1 comma 3-bis, della legge 20

dicembre 1996, n. 639, ha individuato, nell’ambito del giudizio di responsabilità

amministrativa, due distinte fasi – una pre-processuale e una processuale – il cui

spartiacque è costituito dall’emissione dell’atto di citazione in giudizio (Corte dei conti, Sez.

III, d’appello n. 267/2007 e Sez. I d’appello, n. 26 del 2010).

La prima, di esclusiva titolarità della Procura Regionale, si apre con la notifica

dell’invito previsto dall’articolo 5, comma 1, della citata legge n. 19 del 1994 ed è

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caratterizzata dalla mancanza del contraddittorio tra Procuratore regionale ed indagato,

stante la prospettiva sostanzialmente collaborativa tra l'organo requirente ed il presunto

responsabile impressa dalla legge, al fine di consentire una valutazione completa della

vicenda potenzialmente produttiva di danno.

Si tratta, quindi, di una procedimentalizzazione posta a garanzia del diritto

dell’intimato a vedere definita la sua posizione nel tempo prescritto dalla legge (Corte dei

conti, Sez. I d’appello, n. 26 del 2010 cit e Sez. III d’appello 14 marzo 2012, n. 231).

Tanto premesso, osserva il Collegio che la parte convenuta, senza minimamente

porre in dubbio l’effettiva ricezione dell’atto di cui si denuncia l’inammissibilità, si duole di

una “violazione del contraddittorio” per il mero fatto di essere stato l’atto di citazione

notificato al suo domicilio e non presso quello eletto nella fase pre - processuale.

Peraltro, come correttamente evidenziato dall’attore, l’eccezione , nella sua intrinseca

consistenza, concernerebbe la nullità della notifica e non già la inammissibilità dell’atto

introduttivo del giudizio, con la conseguenza che per tale atto sarebbe configurabile, al

massimo, una ipotesi di nullità derivata ai sensi dell’articolo 159 cpc.

La lamentata “lesione del contraddittorio” conduce a ritenere che l’eccezione in

rassegna scaturisca da un equivoco di fondo sul regime che il codice di rito, applicabile ai

giudizi innanzi alla Corte dei conti in forza del rinvio dinamico di cui all’art 26 del r.d. n.

1038/1933, assicura alla notifica presso il “domicilio eletto”, a termini dell’articolo 141 cpc,

rispetto a quello relativo alla notifica presso il “procuratore costituito” disciplinato

dall’articolo 170 cpc.

“L’articolo 141 cpc, con l’espressione “può”, facoltizza alla notifica “mediante

consegna di copia al domiciliatario (cfr. art. 141 comma 1), in luogo di quella diretta al

destinatario dell’atto, imponendola come “obbligatoria” al domiciliatario stesso solo se “

inserita in un contratto” (cfr. art. 141 comma 2).L’articolo 170 cpc, invece, non prevede

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alternative di sorta alla notifica al “procuratore costituito”, stabilendo che “tutte le

notificazioni e le comunicazioni si fanno – appunto – al procuratore costituito, salvo che la

legge (e solo la legge) disponga altrimenti”.Ciò che, sul piano teleologico, è perfettamente

in linea con gli scopi perseguiti dalle riferite disposizioni.Entrambe rivolte alla tutela del

destinatario dell’atto, esse mirano, nell’un caso (art. 141 cpc), a “porre in grado la persona

presso la quale il domicilio è stato eletto di informare tempestivamente della notifica stessa

colui che lo ha designato” (cfr. Cass. Civ. Sez. II^ n°6098/ 1999), e nell’altro caso (artt. 170

cpc), a rendere effettivo il “ministero del difensore” (ex art. 84 cpc), al quale vanno

notificati gli atti anche se nel conferimento del mandato a suo favore non vi sia stata

alcuna elezione di domicilio (cfr., in termini, Cass. Civ. n°142/1973).

Insomma, nell’ipotesi della mera elezione di domicilio, è la figura del destinatario

dell’atto che prevale su quella del domiciliatario, essendo riservato al primo ogni

valutazione sull’atto stesso, anche ai fini della eventuale nomina di un difensore;

viceversa, nell’ipotesi della costituzione in giudizio mediante un legale, è la figura di

quest’ultimo a prevalere, in relazione alle specifiche conoscenze tecnico-giuridiche

richieste dal processo, che portano ad ipotizzare anche una lesione dei diritti di difesa,

connessa ai tempi (piuttosto ristretti) ed alle formalità (essenziali) del giudizio, in ipotesi di

notifica di atti direttamente all’interessato, atteso che ogni valutazione processuale sul da

farsi è rimessa appunto al predetto legale.

Ben si comprende allora perché, mentre la notifica al “procuratore costituito” ha

valore assoluto e non ammette altra forma concorrente di notifica, la notifica al

domiciliatario invece, per pacifica giurisprudenza, concorre con quella fatta direttamente

all’interessato (cfr., in termini, Cass. Civ., Sez. Un. n°10245/1994 e Cons. Sta. Sez. VI

n°454/1991), o –se si preferisce – è “alternativa a quella di cui agli artt. 138 e 139 cpc” (cfr.

Cass. Civ. n°4097/1988)” ( Sezione Umbria n. 260 del 2001).

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D’altronde, se lo scopo della notifica di cui all’art. 141, comma 1, cpc è – come detto

– quello di consentire alla “persona presso la quale il domicilio è stato eletto di informare

tempestivamente della notifica stessa colui che lo aveva designato come domiciliatario”

(cfr. ancora Cass. Civ. Sez. II^ n°6098/ 1999), la notifica entro i termini di legge

direttamente all’interessato, ex art. 138 e 139 cpc, avrebbe un effetto sanante, ai sensi

dell’art. 156, ultimo comma cpc, espressamente richiamato dal successivo art. 160,

avendo la notifica stessa, comunque, raggiunto il suo scopo.

Anche la giurisprudenza di appello della Corte dei conti è pervenuta ad omologhe

conclusioni, statuendo che la fase dell’invito a dedurre rientra nell’attività dell’istruttoria

dell’organo requirente. Di conseguenza, la notifica dell’invito non

incardina un giudizio “ ma, più semplicemente, un dialogo formale con il convenibile, per

una verifica dell’ipotesi di responsabilità, emergente dagli atti, e per una più completa

conoscenza del fatto; una sorta di collaborazione nell’interesse obiettivo della giustizia,

alla quale l’invitato è incentivato dall’interesse di evitare una chiamata fondata su mere

apparenze formali. Essa, quindi, inizia e si esaurisce prima e fuori del giudizio, e non è

necessariamente seguita da esso” (Sez. II 11 marzo 2003, n. 87).

In tale senso milita anche la giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui la

Corte dei conti è investita della causa di responsabilità amministrativo-contabile solo con

l’atto di citazione (sentenze nn. 415/1995, 163/1997 e 513/2002).

Di conseguenza, il deposito delle deduzioni non equivale alla costituzione in giudizio

e l’elezione di domicilio, perfezionata in quella sede, è irrilevante ai fini della notificazione

dell’atto di citazione. In fattispecie quest’ultima, pertanto, si appalesa rituale,

avendo raggiunto i suoi effetti e, cioè, quello della legale conoscenza della lite da parte del

destinatario e quello di porlo nelle condizioni di apprestare la propria idonea difesa, come

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ribadito dalla più recente giurisprudenza della Corte dei conti ( Sezione Lazio 17 giugno

2011 n. 925; Sezione I giurisdizionale centrale d'appello 15 dicembre 2010, n. 682).

2. Il XX ha, inoltre eccepito l’avvenuta prescrizione del credito erariale ai sensi

dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, nella considerazione che il

dies a quo va individuato nella “…data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso

di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta”.

Nella specie, l'evento dannoso contestato dalla Procura regionale si sarebbe

consumato con l'adozione della determinazione dirigenziale n. 113 del 14.12.2004, con la

quale, era stato disposto “di rimborsare per intero le spese legali richieste dall’Assessore X

Pietro, e solo per il verificarsi di un evento involontario esterno, ossia l'insufficiente

capienza nell'apposito capitolo di bilancio, si sarebbe proceduto a rimborsare allo stesso

solo il 50% dell'intero”.

In sintesi il vincolo giuridico sarebbe riconducibile alla richiamata determinazione,

restando irrilevante il conseguente pagamento con la conseguenza che il danno

deriverebbe dal provvedimento illegittimo o con il primo pagamento, ancorché il

nocumento sia continuato e progressivo.

Considerato che l'invito a dedurre della Procura regionale è stato notificato al

convenuto in data 18/11/2010, mentre la richiamata determinazione dirigenziale di

liquidazione n. 113 è stata adottata il 14/12/2004, il credito erariale risulterebbe attinto

dalla prescrizione quinquennale.

2.1. L’eccezione è infondata.

La costante giurisprudenza della Corte dei conti individua nel momento del

pagamento l’esordio della prescrizione, posto che solo in tale momento si realizza la

diminuzione patrimoniale sofferta dall’amministrazione.

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Al riguardo le Sezioni Riunite della Corte dei conti hanno enunciato il principio

secondo cui prima del pagamento, “vi è solo una situazione di danno potenziale, che

proprio perché tale, può anche non attualizzarsi” (sentenza n. 7/QM/2000), a dispetto della

attualità e concretezza dell’obbligazione risarcitoria.

Con sentenza 5 settembre 2011, n.14, le stesse Sezioni Riunite hanno statuito che:

- ”…. il definire “evenienze”, peraltro “eventuali e sostanzialmente teoriche” (SS.RR.

n. 3/QM/2003), quelle del non pagamento o della rinuncia da parte del creditore, non da

contezza del perché dovrebbe ritenersi ammissibile un’azione di responsabilità nei

confronti del presunto responsabile in assenza del materiale pagamento da parte della

P.A. al terzo danneggiato, ponendo, così, in essere i presupposti (non solo teorici) di una

situazione di oggettivo ingiustificato arricchimento dell’Amministrazione, ancorché il

soggetto condannato abbia poi a disposizione idonei strumenti processuali per far valere

innanzi al giudice civile tale situazione” .

- “Alla stregua della regola generale contenuta nell’art. 2935 c.c. “(richiamata nella

sentenza n. 5/QM/2007 di queste Sezioni Riunite), la prescrizione inizia a decorrere dal

giorno in cui il diritto può essere fatto valere (cioè quando il danno è divenuto certo,

concreto ed attuale) e l’individuazione del dies a quo della prescrizione non può essere

effettuata con riguardo al momento in cui è insorto il semplice obbligo giuridico di pagare,

con l’ulteriore conseguenza che la diminuzione del patrimonio dell’ente danneggiato – nel

che consiste l’evento dannoso – assume i caratteri della concretezza, attualità ed

irreversibilità solo con l’effettivo pagamento”.

Nel delineato contesto si appalesa del tutto irrilevante la prospettazione difensiva

secondo cui l’obbligo dell’amministrazione comunale sarebbe sorto al momento della

determinazione dirigenziale n. 113 del 14.12.2004, con la quale, era stato disposto di

rimborsare per intero le spese legali richieste dall’assessore X, e solo per l'insufficiente

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capienza nell'apposito capitolo di bilancio, si sarebbe proceduto alla liquidazione della

metà delle sue spettanze.

Sotto un primo profilo, infatti, valgono le considerazioni appena riportate con

riferimento al momento di insorgenza del danno; sotto distinta angolazione il convenuto

non tiene nella giusta considerazione il fatto che il pagamento delle somme configuranti

danno erariale, si è potuto effettuare soltanto a seguito di delibera di riconoscimento del

debito, per cui, a tutto concedere, il parametro di riferimento nella costruzione difensiva

dovrebbe essere tale atto e non la determina dirigenziale del 2004.

La pretesa erariale, in conclusione, risulta tempestivamente esercitata ciò che

determina il rigetto dell’eccezione di prescrizione.

3. La controversia si incentra sulla spettanza ad un assessore di un comune

del rimborso delle spese legali sostenute per la difesa in un procedimento penale nel

quale era stato imputato per fatti direttamente connessi alla carica ricoperta.

L’attore richiama a sostegno della domanda lo specifico settore dell’ordinamento

giuridico, che consentirebbe il rimborso in questione per i dipendenti degli enti locali e non

anche per i suoi amministratori nonché la giurisprudenza in materia.

In ogni caso rappresenta che il rimborso liquidato è stato superiore a quello spettante.

Poiché, inoltre, il Consiglio comunale ha disposto il pagamento di cui è controversia

con delibera di riconoscimento di debito, evidenzia come sia stata condotta dalle

competenti strutture dell’ente locale una istruttoria insufficiente e l’estrema superficialità

con la quale l’organo consiliare ha deliberato.

La vicenda, come sopra sintetizzata, pone, due diverse questioni: la prima è relativa

alla spettanza del rimborso delle spese legali sopportate da un amministratore di un ente

locale per fatti direttamente connessi all’espletamento della sua carica in un procedimento

penale conclusosi con sentenza di assoluzione; l’altra afferisce alla ratio e alla concreta

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applicazione dell’istituto del riconoscimento del debito disciplinato dall’articolo 194 del

decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, da parte del Consiglio comunale di

XXCCXXCCXX per erogare all’interessato la parte residua del rimborso delle richiamate

spese legali.

3.1. In relazione al profilo da ultimo citato, e prima ancora di entrare nel merito della

spettanza o meno del rimborso di cui è controversia, ritiene il Collegio di dover individuare

la finalità, i presupposti e i limiti del riconoscimento del debito disciplinato dall’articolo 194

del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

La citata normativa stabilisce:

“1. Con deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con diversa

periodicita' stabilita dai regolamenti di contabilita', gli enti locali riconoscono la legittimita'

dei debiti fuori bilancio derivanti da:

a) sentenze esecutive;

b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli

obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purche' sia stato rispettato

l'obbligo di pareggio del bilancio di cui all'articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di

gestione;

c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme

speciali, di societa' di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali;

d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica utilita';

e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3

dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilita' ed arricchimento per l'ente,

nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.

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2. Per il pagamento, l'ente puo' provvedere anche mediante un piano di

rateizzazione, della durata di tre anni finanziari compreso quello in corso, convenuto con i

creditori.

3. Per il finanziamento delle spese suddette, ove non possa documentalmente

provvedersi a norma dell'articolo 193, comma 3, l'ente locale può far ricorso a mutui ai

sensi degli articoli 202 e seguenti. Nella relativa deliberazione consiliare viene

dettagliatamente motivata l'impossibilita' di utilizzare altre risorse.”

Si deve subito premettere che la delibera di cui si tratta non pone limiti alla indagine

sulla sussistenza, o meno, dei presupposti legali del riconoscimento del debito finalizzata

all’accertamento della realizzazione di un danno per l’erario.

L’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, a termini del quale sono

insindacabili nel merito le scelte discrezionali della pubblica amministrazione, non esclude,

infatti, la verifica giudiziale della sussistenza dei presupposti dell’ingiustizia del danno, ma

solo dell’opportunità della opzione effettuata.

La materia del riconoscimento del debito di cui al comma 1, lettera e) del richiamato

articolo 194, è stata più volte esaminata dalla giurisprudenza che è pervenuta ai seguenti

approdi:

- “se da un lato il riconoscimento del debito fuori bilancio è atto discrezionale

dell’amministrazione, dall’altro l’ente pubblico deve fornire puntuale dimostrazione

dell’eccezionalità del ricorso a tale forma di impegno delle risorse pubbliche e dell’utilità

della prestazione ricevuta dal terzo. L’eccezionalità dell’evento e l’utilità della prestazione,

nei limiti oggettivi e soggettivi in cui sono motivati nel provvedimento di riconoscimento,

possono essere oggetto di valutazione da parte della Corte dei conti al fine di escludere

l’irragionevolezza della decisione assunta, e dunque l’illegittimità del ricorso a tale

straordinaria procedura sotto il profilo dell’eccesso di potere, con dirette conseguenze di

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responsabilità amministrativa” (Sezione Lazio 26 ottobre 2010, n. 1990, e in termini Sez. I

Appello n. 115/03, Sez. III Appello n. 192/04);

- “la violazione degli equilibri di bilancio – non effettuata nell’ambito

dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza e non circostanziata dai

requisiti dell’accertata nonché dimostrata utilità ed arricchimento per l’ente – causa un

danno che non può che ricadere necessariamente sul soggetto agente” (Sezione Trentino-

Alto Adige n. 26/06);

- l'istituto del riconoscimento dell'utilitas dei debiti assunti in violazione dei principi di

contabilità pubblica deve necessariamente essere coniugato con i principi posti a presidio

della corretta gestione delle risorse finanziarie pubbliche e, perciò, va effettuato solo in

presenza di un concreto accertamento dell'utilità scaturente da oneri contrattuali privi di

copertura, con riguardo all'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza

dell'ente, da esternare con rigorosa motivazione nella relativa deliberazione ( Sezione

Campania 16 giugno 2009, n. 716);

- poiché la disciplina vigente in materia di debito fuori bilancio subordina il

riconoscimento all'accertamento dell'utilità e dell'arricchimento per l'ente locale (art. 37 del

d.lg.vo n. 77/95 poi trasfuso nell'art. 194 del d.lg.vo 267/2000), sussiste danno erariale nel

riconoscimento del debito fuori bilancio per il pagamento degli onorari professionali di

progettazione, laddove i progetti non siano stati utilizzati per difetto del relativo

finanziamento (Sezione Calabria 13 febbraio 2006, n. 208);

- in ipotesi di debito fuori bilancio per acquisizione di beni o servizi in difetto di

impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo, oggetto di

riconoscimento a termini dell'art. 37, comma 1, lett. a) del d.lg.vo n. 77/1995, a seguito

dell'esecutività, per mancata opposizione, del decreto ingiuntivo emesso, ad istanza del

privato fornitore, per il relativo corrispettivo, l'aggravio di oneri per spese e competenze

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legali inerenti alla procedura monitoria - al contrario dell'aggravio di oneri per interessi -

non è ascrivibile all'amministratore e funzionario che hanno consentito la fornitura, in

quanto conseguente, non all'irregolare ordinazione della prestazione in difetto di

preventivo impegno di spesa, ma alla mancata proposizione dell'opposizione al decreto

ingiuntivo ( Sezione Puglia 20 maggio 2004, n. 469);

- l’adozione di un atto di peculiare rilievo e delicatezza sotto il profilo finanziario e

contabile quale il riconoscimento di un debito fuori bilancio impone particolare cautela e

rigore valutativo ( Sezione Terza Centrale d’appello 27 dicembre 2011, n. 888).

In argomento, la Sezione del Controllo della Corte dei conti, con deliberazione

n.101/95, ha enunciato il principio secondo cui ” Il provvedimento con il quale

l’amministrazione riconosce il proprio debito nei confronti di un privato, a fronte di

prestazioni ricevute al di fuori delle normali forme di contrattazione, ha carattere

assolutamente eccezionale e può ritenersi conforme a legge solo allorché dalla

motivazione dell’atto sia possibile evincere l’assoluta impossibilità di avvalersi, nella

specie, delle normali procedure di contrattazione, nonché l’effettiva e comprovata utilità

delle prestazioni ricevute, non essendo legittimo, viceversa, il ricorso a tale istituto per

consentire il pagamento di obbligazioni assunte nella consapevolezza della mancanza di

fondi sul bilancio dell’esercizio in corso” .

Questa Sezione, con riferimento alla deliberazione di riconoscimento di debito e

all’interpretazione dell’articolo 194, comma 1, lettera e) del decreto legislativo 18 agosto

2000, n. 267, ha statuito che” il Consiglio Comunale deve valutare l’utilità dell’acquisto o

del servizio per l’ente e, solo in caso positivo, assumere la responsabilità di ricondurre la

procedura nella contabilità, senza che, però, la irregolarità venga rimossa. Da qui la

necessità che il Consiglio proceda ad una valutazione della fattispecie di spesa

irregolarmente posta in essere vagliando tanto l’esistenza delle condizioni (utilità ed

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arricchimento), espressamente previste dall’art. 194, co.1, lett.e, del T.U. del 2000, quanto

le ragioni in base alle quali gli organi di amministrazione dell’ente disattesero le regole per

l’assunzione del regolare e pieno impegno della spesa relativa al servizio in questione, e

ciò al fine di accertare eventuali responsabilità, e di evitare che si ripetano omologhe

situazioni di irregolarità nella gestione della spesa.Ciò vale, ad avviso del Collegio,

soprattutto nella fattispecie “ricognitiva” disciplinata e contemplata dalla lettera e) del

richiamato art. 194 del T.U. Enti Locali del 2000, che impone, nella fase di accollo del

debito istituzionalmente contratto, che i componenti del Consiglio Comunale effettuino una

rigorosa verifica dei presupposti normativi preordinati al valido e regolare riconoscimento

del “debito fuori bilancio”, dandone compiuta contezza nell’impianto motivazionale del

provvedimento. Diversamente operando, l’organo consiliare finirebbe per assecondare,

attraverso una sorta di “automatismo procedimentale” assolutamente non consentito

dall’ordinamento, una serie indiscriminata di iniziative di spesa autonome e scoordinate,

illegittimamente assunte in violazione delle regole finalizzate al rispetto della

programmazione della spesa, scaricandone le conseguenze in via sistematica sul

Comune, in tal modo determinando, sia pure indirettamente, una situazione di permanente

illegittimità e precarietà finanziaria” (Sezione Basilicata 13 ottobre 2011, n. 180).

Applicando gli enunciati principi alla fattispecie oggetto di giudizio, si deve rilevare

che la deliberazione n. 41 del 30 giugno 2008 del Consiglio Comunale di XXCCXXCCXX,

appare sprovvista dei presupposti che ne legittimavano l’adozione per i motivi che in

seguito verranno esposti.

3.2. La seconda questione che presenta la controversia riguarda la legittimità

dell’assunzione a carico del bilancio dell’ente del rimborso delle spese legali in favore di

un assessore.

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La restituzione in argomento, viene censurata e ritenuta illecita dalla parte attrice per i

seguenti motivi:

- l’ordinamento non annovera disciplina che consenta il rimborso delle spese legali

agli amministratori di un ente locale; al contrario specifica normativa, non suscettibile di

interpretazione analogica, contempla l’ipotesi del rimborso di cui si tratta per i dipendenti

degli enti stessi;

- omessa sottoposizione della scelta del difensore da parte dell’assessore all’ente

locale;

- presenza di un conflitto di interessi tra assessore ed ente locale;

- omesso rigoroso esame della parcella del legale da parte delle strutture dell’ente e

del consiglio comunale.

3.2.1. La materia della assunzione da parte degli enti locali delle spese legali

sostenute da propri dipendenti per procedimenti penali promossi nei loro confronti, è

attualmente regolata dall'articolo 28 del C.C.N.L. per il personale del comparto delle

Regioni e delle Autonomie locali del 14.9.2000.

In precedenza, e all’epoca dei fatti, in termini pressochè analoghi si poneva la

disciplina recata dagli articoli 16 del d.P.R 1.6.1979, n. 191, 22 del d.P.R. 25.6.1983, n.

347 e 67 del d.P.R. 13.5.1987, n. 268.

Ai sensi della disposizione da ultimo richiamata :

“1. L'Ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l'apertura di un

procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o

atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti

d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi,

ogni onere di difesa sin dall'apertura del procedimento facendo assistere il dipendente da

un legale di comune gradimento.

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2. In caso di sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o con colpa

grave, l'Ente ripeterà dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in ogni grado

di giudizio.”

La giurisprudenza della Corte dei conti, nell’interpretazione della suddetta disciplina,

ha enunciato i seguenti principi:

- mentre dall’articolo 16 del d.P.R 1.6.1979, n. 191 poteva dedursi la possibilità di

rimborso delle spese legali a procedimento concluso, l’articolo 67 del menzionato d.P.R.

268/1987 non prevede tale opzione (Sezione Abruzzo, 17 maggio 2004, n. 428; Sezione

Lazio 1 febbraio 2011, n. 141);

- il comma 2 dell’articolo 67 del d.P.R. 268/1987, pone in risalto la diversità della

prospettiva di ausilio ex ante, giacché se il meccanismo fosse quello del rimborso, in caso

di condanna l’Amministrazione non potrebbe recuperare nulla, non avendo sostenuto

oneri. Del resto la “assistenza” da parte di un legale di comune gradimento ( articolo 67,

comma 1), evidenzia nitidamente la necessità di una preventiva valutazione da parte

dell’Amministrazione ( Sezione Lazio n. 141 del 2011 cit.);

- nel sistema “a rimborso”, caratterizzato, quindi, dal conferimento ex post degli oneri

già affrontati dal dipendente (previsto ad esempio per i dipendenti statali dall’art.18 della

legge 21.5.1997, n. 135), l’erogazione da parte dell’ente è consentita esclusivamente in

caso di assoluzione con formula piena che escluda in modo incontrovertibile la presenza

del dolo o della colpa grave. In particolare la liquidazione delle spese legali può essere

legittimamente disposta quando gli imputati – dipendenti siano stati assolti con la formula

più ampia e liberatoria e, cioè, con una sentenza che abbia riconosciuto la non

sussistenza del fatto criminoso o la non attribuibilità ai medesimi. Diversamente l’esito del

giudizio penale “perché il fatto non costituisce reato”, non implica l’automatico

riconoscimento della insussistenza di fatti dannosi per l’erario. Tale formula assolutoria

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non equivale, assiomaticamente, a escludere che le condotte dei dipendenti possano

rilevare sotto il profilo della responsabilità erariale (Sezione Lazio 12 ottobre 2009, n.

1908);

- l’articolo 67 consente l’assunzione degli oneri di difesa dell’ente “anche a tutela dei

propri diritti e interessi”. “….tale indicazione non può che significare che l’Amministrazione,

nell’accollarsi un onere (qualora, beninteso, non vi sia “conflitto con l’ente“), si deve anche

far carico che la vicenda processuale non abbia esiti che possano ripercuotersi

negativamente sui suoi interessi o sulla sua immagine pubblica. E’ questa la ragione per

cui la disciplina vigente stabilisce che il legale deve essere di comune gradimento” (

Sezione Lazio n. 141 del 2011 cit.);

- la menzionata disciplina impone all'Ente, prima di deliberare di assumere a carico

del proprio bilancio ogni onere di difesa in un procedimento di responsabilità civile o

penale aperto nei confronti di un proprio funzionario, di accertare la compresenza delle

seguenti circostanze essenziali:

a. necessità di tutelare i propri diritti e interessi e la propria immagine;

b. diretta connessione del giudizio alla posizione rivestita dal dipendente all’interno

dell’apparato tecno-burocratico;

c. inconfigurabilità di conflitto di interessi tra gli atti compiuti dal dipendente e l'ente

(Sezione Lazio n.141 del 2011 cit.);

- l'ente è tenuto a ponderare i propri interessi nel quadro del pendente procedimento

giudiziario, per assicurare una buona e ragionevole amministrazione delle risorse

economiche e a tutela del proprio decoro e della propria immagine. In tale quadro,

l’assunzione delle spese dei procedimenti penali in cui siano implicati i propri dipendenti o

amministratori è strettamente legato alla circostanza che tali procedimenti riguardano fatti

ed atti in concreto imputabili non ai singoli soggetti che hanno agito per conto della

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Pubblica Amministrazione, ma direttamente ad essa in forza del rapporto di

immedesimazione organica. La ponderazione degli interessi in gioco ai fini della

rimborsabilità delle spese legali ai dipendenti pubblici o amministratori deve assumere

particolare rigore (cfr., in tal senso, tra le tante, C.d.S. Sez, V, dec. n. 2242/2000, Cass.,

Sez. I, sent. n. 15724/2000).

3.2.2. Tanto premesso deve ritenersi esclusa la possibilità dell’assunzione da parte di

un ente locale delle spese di difesa di un suo amministratore coinvolto in un procedimento

penale per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del suo ufficio.

Il Collegio non ignora la giurisprudenza che è pervenuta ad opposta soluzione;

ritiene, peraltro, che il contesto normativo di riferimento, vigente all’epoca dei fatti di cui è

controversia, militasse nel senso di ritenere legittimo l’accollo delle spese di difesa da

parte degli enti locali esclusivamente nei confronti del proprio personale e non anche dei

suoi amministratori.

Al riguardo è opportuno premettere, come già accennato, che l’assunzione a carico

del bilancio dell’ente locale delle spese di difesa di propri dipendenti, è stata disciplinata

dalla contrattazione collettiva e, precisamente, dall'articolo 28 del C.C.N.L. per il personale

del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali del 14.9.2000 e, in precedenza, e

all’epoca dei fatti, in termini pressochè analoghi dagli articoli 16 del d.P.R 1.6.1979, n.

191, 22 del d.P.R. 25.6.1983, n. 347 e 67 del d.P.R. 13.5.1987, n. 268.

Gli accordi collettivi, in virtù dei criteri di ermeneutica negoziale, si applicano solo nei

confronti dei lavoratori in essi contemplati.

“La natura contrattuale delle norme contenute negli accordi collettivi……preclude

l’applicazione dell’art. 12 delle preleggi, riguardante esclusivamente i principi in tema di

interpretazione e di analogia delle leggi; preclusione che trova una sua ulteriore conferma

nel successivo art. 13 (sempre delle preleggi) il quale esclude categoricamente per tali

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contratti il ricorso all’analogia ( in tal senso Cass. 7519/83, 5726/85, 6676/86, 3216/87)”

(Sezione giurisdizionale Veneto 2 dicembre 2011, n. 647).

Del resto “il ricorso al procedimento analogico postula una lacuna della disciplina

normativa, che debba essere colmata facendo riferimento ad una norma diretta a regolare

un caso simile o una materia analoga e basata su una ratio munita della capacità

espansiva necessaria per comprendere nell'ambito di quella norma anche la specifica

controversia da decidere. Così non è nel caso in esame, perché ……( il rimborso delle

spese legali) riguarda altri soggetti, collocati in posizioni e ruoli diversi, in relazione ai quali

quella disciplina risulta dettata, sicché non di lacuna deve parlarsi ma di diversità di

trattamento giuridico (ai fini di cui è causa), giustificata appunto dalla diversità di posizioni

e di ruoli “( Cass. 16845/2004).

La questione di cui si tratta, del resto, è stata oggetto di approfondita interpretazione

da parte della Corte costituzionale e della Corte di cassazione.

Il Giudice delle leggi con la sentenza 8 – 16 giugno 2000, n. 197, ha riconosciuto la

conformità ai precetti della Costituzione dell’articolo 39 della legge della Regione Sicilia 29

dicembre 1980, n. 145 nella parte in cui non prevede che il diritto all’assistenza legale,

riconosciuto ai dipendenti sottoposti a procedimenti di responsabilità civile, amministrativa

o penale in conseguenza di fatti ed atti connessi all’espletamento del servizio e dei compiti

d’ufficio, nel caso di esito a loro favorevole, sia esteso ai "funzionari o amministratori" per

fatti e atti connessi all’esercizio delle loro funzioni in assenza di un rapporto di

dipendenza.

La richiamata disposizione, di contenuto sostanzialmente sovrapponibile a quello

recato dall’articolo 67 del d.P.R. n. 268/87, è stata ritenuta esente dalle prospettate

censure di illegittimità costituzionale nella considerazione che “ vi è sicuramente un profilo

rilevante che, nell’ambito dell’organizzazione dell’ente di appartenenza, investe la

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posizione del dipendente e non anche quella dell’amministratore: il rapporto di

subordinazione. Mettere le proprie energie lavorative a disposizione del datore di lavoro,

assumere su quest’ultimo, oltre all’obbligo della retribuzione, i rischi e i corrispondenti

oneri di protezione per tutto ciò che viene fatto dal lavoratore nello svolgimento della

prestazione oggetto del rapporto, sono i tratti che caratterizzano il lavoro dipendente; tratti

immediatamente percepibili allorché ci si riferisca alle qualifiche funzionali meno elevate,

ma che non vengono meno quando, come nel caso degli alti funzionari o dei dirigenti, il

lavoro richieda prestazioni professionali, che, per qualità, comportino livelli di autonomia

decisionale e potere di gestione anche prossimi a quelli dell’amministratore. Si tratta

sempre di conferire all’ente di appartenenza le proprie energie lavorative, ciò che non

avviene per gli amministratori, la cui immedesimazione organica con l’ente si basa su un

rapporto, variamente configurato in dottrina, ma che comunque non è di lavoro

subordinato”.

La Corte costituzionale ha, quindi, statuito, in relazione alle due posizioni di

dipendente e amministratore di un ente pubblico, che “residua pur sempre un elemento

differenziale sul quale è ben possibile al legislatore, senza superare i limiti della sua

discrezionalità, costruire una disciplina diversificata in materia di indennizzabilità degli

oneri di difesa sopportati dai dipendenti, per il caso in cui si trovino sottoposti ad un

procedimento all’esito del quale siano dichiarati esenti da responsabilità”.

La scelta del legislatore di stabilire per i dipendenti un trattamento diverso non appare

come discriminatoria né irrazionale, stante la diversità intrinseca delle posizioni giuridiche

rivestite dagli amministratori rispetto a quelle dei dipendenti degli enti locali.

Soltanto con l’articolo 24 della legge Regione Sicilia 23 dicembre 2000, n. 30 (

disposizione innovativa e non interpretativa come precisato dalla Corte di Cassazione S.U.

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13 febbraio 2008, n. 3413), la previsione dell’articolo 39 citato è stata estesa agli

amministratori degli enti di cui si tratta.

Ciò conferma, come ben evidenziato dalla Procura regionale, la necessità della

interpositio legislatoris.

Sulla questione, oggetto di giudizio, la giurisprudenza delle Sezioni Unite della

Cassazione ha enunciato il principio, secondo cui “il rapporto tra la P.A. ed il funzionario

onorario, connesso all’attribuzione di funzioni pubbliche, si distingue sia dai rapporti di

pubblico impiego, sia dai rapporti di parasubordinazione o di collaborazione continuativa e

coordinata, visto che il funzionario onorario non è esterno all’ente pubblico, ma si identifica

funzionalmente con l’ente medesimo ed agisce per esso e il compenso allo stesso dovuto

non ha carattere sinallagmatico-retributivo, ma indennitario” ( cfr. Cass. S.U. n.

2033/1985, 1556/1994, 3129/1997, 5398/2007, 3413/2008, 9160/2008).

La Suprema Corte, con sentenza più recente rispetto a quelle richiamate (

Cassazione Sezione I, 24 maggio 2010, n. 12645), dopo avere circoscritto le

problematiche interpretative e richiamato i propri approdi e quelli del Giudice

amministrativo ( Cass. 10052/08, 5398/07, 9363/07, 16845/04, Cass. pen. 41145/02, v.

pure Cons. Stato 2242/00, parere n. 792 del 16/03/2004), ha statuito che:

a. “non appare pertinente il richiamo all’analogia, che risulta correttamente evocabile

quando emerga un vuoto normativo nell’ordinamento, vuoto che nella specie non è

configurabile, atteso che il legislatore si è limitato a dettare una diversa disciplina per due

situazioni non identiche fra loro, e la detta diversità non appare priva di razionalità, atteso

che gli amministratori pubblici non sono dipendenti dell’ente, ma sono eletti dai cittadini, ai

quali rispondono (e quindi non all’ente) del loro operato”.

b “In ordine poi alla pretesa applicabilità della disciplina in tema di mandato, l’art.

1720 c.c. (secondo cui il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni,

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pagargli il compenso e risarcirgli i danni subiti a causa dell’incarico, ipotesi quest’ultima

astrattamente evocabile nella specie) non risulta applicabile …omissis…perché le spese di

difesa non sono legate all’esecuzione del mandato da un nesso di causalità diretta,

collocandosi fra i due fatti un elemento intermedio, dato dall’elevazione di un’accusa poi

rivelatasi infondata”.

L’ordinamento vigente all’epoca dei fatti e la giurisprudenza formatasi al riguardo,

deponevano, quindi, nel senso di escludere la possibilità di far gravare sul bilancio

dell’ente locale gli oneri di difesa di un suo amministratore coinvolto in un procedimento

penale per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del suo ufficio.

3.2.3. Il secondo argomento sviluppato dall’attore a sostegno della domanda, è

individuato nella illiceità del rimborso delle spese legali, stante l’omessa sottoposizione

della scelta del difensore da parte dell’assessore all’ente locale.

Si tratta all’evidenza di una prospettazione avanzata in via subordinata, posto che

l’asse intorno al quale ruota l’atto introduttivo del giudizio si identifica con l’esclusione di

ogni spettanza in favore di un amministratore di un ente locale degli oneri di difesa dallo

stesso sostenuti per il coinvolgimento in un procedimento di responsabilità civile o penale

per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei

compiti di ufficio.

Tale profilo della domanda merita condivisione.

Si deve premettere che l'assunzione dell'onere relativo all'assistenza legale

dell'amministratore da parte dell'ente locale non è automatica, ma configura l’esito di

valutazioni che l'ente è tenuto ad effettuare nel proprio interesse, per assicurare una

buona e ragionevole amministrazione delle risorse economiche e a tutela del proprio

decoro e della propria immagine.

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Ciò risulta inequivocabilmente dalla formulazione letterale della norma, secondo cui “

l’ente…….assumerà a proprio carico … ogni onere di difesa sin dall’apertura del

procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento”.

Ed invero, non può revocarsi in dubbio che la locuzione “facendo assistere il

dipendente da un legale di comune gradimento” implichi necessariamente una valutazione

ed un ruolo preventivi da parte dell’Amministrazione ( Cfr., ex plurimis, TAR Lombardia n.

799 del 1999; Cons. Stato n. 72 del 2006 e n. 552 del 2007; Corte conti, Sezione Giur.

Abruzzo n. 749 del 2004, n. 129 del 2005).

La necessità di un’assistenza legale concordata e, comunque, di una preventiva

valutazione degli oneri di difesa, trova inoltre conferma e giustificazione nel fatto che,

mentre la disposizione in argomento si prende cura di disciplinare l’eventuale recupero

degli oneri sostenuti in caso di successiva condanna per fatti commessi con dolo o colpa

grave, la stessa non prevede alcun controllo sulla congruità del rimborso richiesto “ex

post”, come disposto, invece, dall’articolo 18 della legge 12.5.1997, n. 135, secondo cui

per i dipendenti statali l’analogo rimborso è accordato “ nei limiti riconosciuti congrui

dall’Avvocatura dello Stato” ( Sezione Liguria 13 ottobre 2008 n. 580 confermata in appello

dalla sezione Terza centrale 3 novembre 2010 n. 759;Sez. Lazio 1 febbraio 2011, n. 141).

Nel delineato contesto prima di procedere alla assunzione degli oneri in parola, deve

essere accertata la compresenza delle seguenti condizioni:

a. necessità di tutelare i propri diritti, interessi e immagine;

b. diretta connessione del contenzioso alla carica o all'ufficio rivestito dal pubblico

funzionario;

c. inesistenza di conflitto di interessi tra gli atti compiuti dal funzionario e l'ente.

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Le elencate valutazioni devono essere effettuate dall’ente per assicurare la gestione

delle risorse con modalità efficaci, efficienti ed economiche e a tutela del proprio decoro e

della propria immagine.

L’assunzione delle spese dei procedimenti penali in cui siano implicati i propri

dipendenti, infatti, è strettamente legata all’ accertamento che tali

procedimenti riguardino fatti ed atti in concreto imputabili non ai singoli soggetti, ma

direttamente alla pubblica amministrazione in cui sono incardinati in forza del rapporto di

immedesimazione organica.

Si tratta, quindi, di una valutazione rigorosa e complessa anche a salvaguardia del

corretto utilizzo delle risorse dell’ente.

In tale orbita si deve inquadrare la previsione della scelta di “..un legale di comune

gradimento” (art 67 dPR n. 268 del 1987).

In estrema sintesi l’articolo 67 del d.P.R. n. 268 del 1987, secondo un modello

procedimentale analogo a quello regolamentato dall’art. 44 del r.d. n. 1611/33, relativo

all’assunzione a carico dello Stato della difesa dei pubblici dipendenti per fatti e cause di

servizio, rimette alla valutazione discrezionale “ex ante” dell’ente locale, con specifico

riferimento all’assenza di conflitto di interessi, la scelta di far assistere il dipendente da un

legale di comune gradimento, per cui non è in alcun modo riconducibile al contenuto

precettivo della richiamata disciplina la pretesa di ottenere il rimborso delle spese di

patrocinio legale a seguito di una scelta del tutto autonoma e personale nella nomina del

proprio difensore.

“ Del resto, l’onere della scelta di un “ legale di comune gradimento” appare del tutto

coerente con le finalità della norma perché, se il dipendente vuole che l’amministrazione lo

tenga indenne dalle spese legali sostenute per ragioni di servizio, appare logico che il

legale chiamato a tutelare tali interessi, che non sono esclusivi del dipendente ma

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coinvolgono anche quelli dell’ente di appartenenza, debba essere scelto preventivamente

e concordemente tra le parti”.

( Cons. Stato, Sez. V, 12 febbraio 2007, n. 552).

In fattispecie dette valutazioni sono del tutto mancate, rendendo possibile il rimborso

delle spese legali nella misura indicata nella parcella esibita dall’interessato.

Viene in rilievo, quindi, non solo una illegittimità di un provvedimento per violazione

della procedura prescritta da una fonte pattizia, ma anche un danno per l’erario ove il

rimborso sia stato integrale e, cioè, pari alla parcella rilasciata dal legale.

A tal riguardo il Ministero dell’interno con la circolare in data 30 maggio 2003, n.

16.59, ha precisato che “ ……in assenza della preventiva intesa, ( l’ente) possa ridurre il

rimborso alla parte della spesa che la stessa avrebbe assunto ove la scelta fosse stata

concordata".

3.2.4. Intimamente correlata alla prospettazione attorea riportata al precedente

paragrafo, è quella che radica la responsabilità dei convenuti in ragione dell’omesso

rigoroso esame della parcella del legale da parte delle strutture dell’ente e del consiglio

comunale.

Al riguardo è necessario premettere che l’atto introduttivo del giudizio alle pagine 11 e

12 ha censurato il rimborso delle spese legali di cui è controversia sotto diversi punti.

Dopo aver precisato che la tariffa forense applicabile era quella di cui al d.m.

5/10/1994, n. 585, la Procura regionale ha evidenziato, oltre la mancanza di qualsiasi

documentazione agli atti del Comune, quanto segue:

a. gli onorari applicati dal legale che aveva rilasciato la parcella sulla cui base

venne disposto il rimborso, “sono quelli massimi, in parte raddoppiati, in parte triplicati, in

parte quadruplicati, senza fornire alcuna motivazione in merito alla complessità del caso”;

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b. la voce “archivio” indicata nella notula del legale “figura solo nella tabella

civile e non in quella penale, per cui non spetta il relativo importo richiesto”;

c. La voce “esame documentazione”, indicata sia nella fase preliminare che in

quella dibattimentale, “costituisce una duplicazione di quella “studio documentazione”, per

cui non spetta il relativo importo richiesto”;

d. la voce “studio atti e documenti processuali” appare generica ed il “relativo

importo di € 1.032,91 va ridotto ad € 258,25 (€ 51,65 x 5, quante sono le udienze

preliminari a cui è stato presente l’avvocato…)”;

e. dalla documentazione acquisita presso gli uffici giudiziari competenti “è

risultato che l’avvocato….. ha partecipato ad una sola udienza di discussione nella fase

preliminare (udienza del 02/06/2000), per cui l’importo spettante non è di € 1.933,64, bensì

di € 619,75”;

f. lo stesso avvocato “ha partecipato ad una sola udienza dibattimentale di

discussione (udienza del 14/05/2003), per cui l’importo spettante non è di € 2.417,05,

bensì di € 619,75”.

Osserva il Collegio che dalla documentazione in atti si evince che il Comune di

XXCCXXCCXX ha corrisposto, a titolo di rimborso per spese legali quanto richiesto, senza

alcuna verifica, in particolare in relazione alla veridicità ed adeguatezza di quanto

affermato dal professionista e alla conformità della parcella alla tariffa professionale.

Neppure si potrebbe sostenere la superfluità degli indicati accertamenti tenuto conto

che la parcella del legale risultava munita del parere del Consiglio dell’Ordine degli

Avvocati.

La giurisprudenza, infatti, ha elaborato da tempo il principio di non vincolatività del

parere espresso sulla parcella dall’organo professionale, costituendo tale strumento un

mero controllo di corrispondenza delle voci indicate nella parcella stessa a quelle previste

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nella tariffa forense, che non avvalora in alcun modo i criteri adottati dal professionista per

individuare valore e complessità della controversia ( Cassazione Sezione II, 30 gennaio

1997 n. 932, 27 settembre 2011, n. 19750).

Come già accennato l’ente pubblico, prima di farsi carico dell’onere delle spese legali,

è chiamato a procedere ad attente e rigorose valutazioni delle istanze di rimborso, al fine

di assicurare una buona, ragionevole ed imparziale amministrazione delle risorse

pubbliche.

In fattispecie tutto ciò è mancato.

Del resto le difese dei convenuti non hanno contraddetto quanto sostenuto dall’attore,

ma, soltanto, precisato che il rimborso liquidato appariva congruo alla stregua della gravità

delle accuse mosse all’amministratore, della complessità del lavoro compiuto dal legale,

della determinazione n. 113 del 14 dicembre 2004 con la quale il competente Dirigente

aveva già provveduto alla liquidazione di un acconto del rimborso per le spese legali.

Si tratta di argomenti di evidente fragilità rispetto alla prospettazione accusatoria la

quale ha nitidamente dimostrato la inadeguata istruttoria e il superficiale approccio del

consiglio comunale, avuto riguardo alla inidonea e non corretta valutazione circa la

sussistenza dei presupposti necessari per il legittimo riconoscimento del debito fuori

bilancio e per il conseguente pagamento della prestazione professionale.

3.2.5. L’atto introduttivo del giudizio censura, infine, la condotta dei convenuti per

aver corrisposto il rimborso delle spese legali omettendo di verificare la insussistenza di un

conflitto di interessi tra assessore ed ente locale.

In particolare precisa la parte attrice che l’assessore destinatario del rimborso delle

spese legali, era stato imputato, unitamente ad altri, dei reati di abuso di ufficio e falso, nel

procedimento penale R.G. n. 985//00 del Tribunale di Matera, conclusosi con sentenza n.

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241 del 14/05/2003 di assoluzione dal reato di falso “perché il fatto non sussiste” e dal

reato di abuso “perché il fatto non costituisce reato”.

Sostiene, inoltre, che tra i presupposti richiesti per la corresponsione del rimborso

delle spese legali vi sono quelli di una sentenza di assoluzione ampia e l’assenza di

conflitto d’interesse.

L’assoluzione del citato assessore dall’imputazione del reato di abuso di ufficio con la

formula “il fatto non costituisce reato”, non rappresenterebbe un proscioglimento pieno per

l’imputato e lascerebbe ampi margini di dubbio sull’effettiva assenza di situazioni di

conflitto di interesse, sotto il profilo della violazione dell’interesse dell’ente ad una gestione

conforme al principio di buon andamento ed imparzialità di cui all’articolo 97 della

Costituzione.

3.2.5.1. Anche tale profilo della domanda è fondato.

La giurisprudenza della Corte dei conti, al riguardo, ha enunciato il principio secondo

cui “ la liquidazione delle spese legali ai convenuti prosciolti in un procedimento penale

possa disporsi quando i medesimi sono stati assolti con la formula più ampia e liberatoria

e cioè con una sentenza che abbia riconosciuto la non sussistenza del fatto criminoso o la

non attribuibilità ai medesimi ( ex multis Sezione giurisdizionale Lazio 12 ottobre 2009,

1908).

Invero l’assoluzione dell’imputato con la formula “perché il fatto non costituisce reato”,

è riferita alla inconfigurabilità del reato, ma non attesta la insussistenza di condotte

censurabili ad altro titolo.

In fattispecie la sentenza n. 241 del 25 giugno 2003, pronunciata dal Tribunale di

Matera, ha escluso la consumazione del reato di abuso d’ufficio, contestato, tra gli altri,

all’assessore destinatario del rimborso delle spese legali liquidato dal comune di

XXCCXXCCXX, nella considerazione che gli atti di causa avevano “….evidenziato

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elementi sufficienti a far dubitare della sussistenza da parte degli agenti dell’elemento

psicologico del reato, nella forma del dolo intenzionale volto a procurare all’impresa un

ingiusto vantaggio patrimoniale” (pagine 12 e 13).

Lo stesso Giudice ha, peraltro, accertato l’esistenza dell’elemento oggettivo del reato

e, cioè, l’adozione di provvedimenti illegittimi che, tuttavia, non appariva esaustiva ai fini

della configurabilità del delitto di abuso di ufficio, stante la carenza del dolo.

L’illegittimità dei provvedimenti adottati con riferimento all’accordo bonario raggiunto

dalla giunta comunale di XXCCXXCCXX e l’impresa aggiudicataria dei lavori di

completamento della strada provinciale XXCCXXCCXX – Tinchi, deve essere valutata dal

Collegio al fine di verificare la sussistenza o meno di una posizione di conflitto tra

l’assessore più volte citato e l’ente locale di cui il medesimo era amministratore.

Al momento della consegna dei lavori, avvenuta in data 20 marzo 1996, l’impresa

appaltatrice formalizzava sei riserve senza iniziare l’intervento, situazione che si protraeva

anche dopo l’ordine di servizio della direzione lavori del 22 giugno 1996 con il quale si

intimava l’avvio dei lavori stessi.

Anzi, in quella sede, l’appaltatore avanzava ulteriori riserve, preannunciando una

successiva quantificazione dei danni subiti.

Come osservato dalla sentenza del Tribunale di Matera n. 241 del 2003, l’impresa

appaltatrice, ancor prima di iniziare i lavori aveva ufficializzato riserve riconducibili ad una

sostenuta maggiore onerosità dell’intervento “ addirittura apponendo sul verbale di

consegna una riserva mediante la quale affermava unilateralmente di non accettare la

consegna totale dei lavori a causa delle asserite maggiori difficoltà derivanti dal dover

lavorare con la strada aperta al traffico veicolare e pedonale” (pagina 9 e 10).

La dedotte pretese, quindi, si atteggiavano alla stregua di una vera e propria “

rinegoziazione del prezzo dell’appalto (sicuramente in tali termini inammissibile) piuttosto

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che una pretesa per lavori o costi aggiuntivi effettivamente da compiersi o sopportarsi da

parte dell’impresa nell’esecuzione dei lavori” ( pagina 10 della sentenza n. 241 del 2003).

Del resto la richiesta dell’impresa non solo appariva palesemente ingiustificata, tenuto

conto delle prescrizioni del capitolato speciale d’appalto secondo cui l’appaltatore

assumeva a proprio carico “il mantenimento a propria cura e spese dell’apertura al transito

della strada in corso di sistemazione” (articolo 138, comma 11), ma anche contraria

all’ordinamento, non essendo consentita una consegna parziale.

L’intervenuto proscioglimento degli imputati perché il fatto non costituisce reato non

avrebbe potuto far venir meno l’esistenza di un conflitto di interesse con l’ente locale ed

avrebbe dovuto indurre gli odierni convenuti a soprassedere dal rimborso delle spese

legali proprio per la sussistenza di una condotta oggettivamente contraria ai fini perseguiti

dall’ente.

Invero “ a seguito dell’inadempimento dell’impresa nel ricevere la consegna dei lavori,

all’Amministrazione è conferita facoltà di scelta tra la rescissione del contratto e

l’esecuzione d’ufficio sicchè probabilmente ben altra procedura che quella dettata dall’art.

31 bis l.n. 216/95 avrebbe l’Amministrazione Comunale potuto intraprendere nei confronti

dell’impresa” ( pagina 10 della sentenza n. 241 del 2003).

Il procedimento previsto dall’articolo 31 bis della legge 11 febbraio 1994, n. 109,

introdotto dal decreto legge 3 aprile 1995, n. 101, convertito dalla legge 2 giugno 1995, n.

216, quindi, era palesemente illegittimo e ha esposto ad un ingiusto esborso

l’amministrazione comunale che, invece, avrebbe dovuto attivare le iniziative contemplate

dall’articolo del 9 r.d. 25 maggio 1895, n. 350, e, cioè, come indicato nella sentenza del

Tribunale di Matera più volte citata, la rescissione del contratto e l’esecuzione in dei lavori

in danno dell’appaltatore inadempiente.

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I provvedimenti con i quali sono stati riconosciuti i maggiori oneri all’appaltatore,

quindi, hanno configurato atti contrari ai principi di correttezza, imparzialità e buon

andamento della Pubblica Amministrazione, e, conseguentemente, l’attività degli

amministratori dell’ente locale ha evidenziato un palese conflitto di interessi con i fini e

con gli interessi dell’ente stesso.

Alla stregua delle suddette considerazioni la liquidazione delle spese legali non

avrebbe dovuto essere oggetto di delibera ammissiva del Consiglio comunale.

4. Appurata la consumazione del nocumento erariale, il Collegio deve accertare, ai

fini della configurazione della responsabilità amministrativa, la sussistenza del nesso di

causalità tra le condotte poste in essere dai convenuti e l’evento dannoso nonché

dell’elemento psicologico della colpa grave nelle condotte stesse.

4.1. Il nesso di causalità tra l’esborso, configurante il danno erariale, e l’attività dei

convenuti viene ravvisato dalla parte attrice nell’istruttoria espletata dal responsabile

dell’area tecnica del Comune di XXCCXXCCXX, il cui esito è costituito dal parere di

regolarità dal medesimo rilasciato e nella votazione della delibera di riconoscimento di

debito.

La riportata impostazione viene censurata dal convenuto XX, nella parte che lo

interessa, nella considerazione che il parere da lui rilasciato, quale Dirigente dell’Ufficio

legale dell’ente locale, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 49 del decreto legislativo 18

agosto 2000, n. 267, non riguarderebbe la legittimità dell’atto, ma soltanto la verifica della

sussistenza dei presupposti che ne consentirebbero l’adozione.

Ai sensi dell’articolo 49 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267:

“1. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta ed al consiglio che non

sia mero atto, di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine alla sola regolarita'

tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti impegno di spesa o

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diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarita' contabile. I

pareri sono inseriti nella deliberazione.

2. Nel caso in cui l'ente non abbia i responsabili dei servizi, il parere e' espresso dal

Segretario dell'ente, in relazione alle sue competenze.

3. I soggetti di cui al comma 1 rispondono in via amministrativa e contabile dei pareri

espressi”.

Al riguardo la giurisprudenza evidenzia i seguenti approdi:

- “Non è possibile ravvisare una condizione di ignoranza scusabile, laddove vengano

in questione norme che il pubblico funzionario - soprattutto se appartenente alla qualifica

dirigenziale - è tenuto a conoscere, in quanto strumentali allo svolgimento della propria

attività; e, pertanto, nell'ipotesi di procedura di gara svolta mediante l'istituto della finanza

di progetto (art. 37-bis della L. n. 109/1994 e succ. modif.), nessuna scriminante, in termini

di errore scusabile, può configurarsi in favore del dirigente del settore tecnico del comune,

nonché responsabile unico del procedimento, per la violazione delle norme che

disciplinano la pubblicità degli avvisi di gara, nonché per l'ulteriore avallo dato alla

prosecuzione della procedura stessa - disposta con delibera dell'amministrazione

comunale - tramite l'adozione del parere favorevole di regolarità tecnica, ex art. 49 del

D.L.vo n. 267/2000”. ( Sezione Campania 6 luglio 2009, n. 750);

- il parere di regolarità tecnica ex art. 49 d. lgs. n. 267/2000 è da considerarsi

determinante ai fini dell’adozione della deliberazione. Circa il concreto significato del

predetto “parere” - che, è bene evidenziare, è tutt’altra cosa rispetto al “visto” di cui all’art.

151 della suddetta norma – si ritiene che esso non possa essere limitato all’aspetto

formale, anche in relazione alla circostanza che l’estensore ne risponde, ai sensi del 3°

comma del citato art. 49, “in via contabile”. Un diverso orientamento non darebbe concreto

contenuto all’attività posta in essere, dal funzionario, nella formazione di un provvedimento

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( Sezione giurisdizionale Toscana 1 dicembre 2010, n. 472; 20 febbraio 2012, n. 85; 3

febbraio 2012, n. 46; 3 settembre 2012, n. 415).

Osserva il Collegio che il citato articolo 49 ha introdotto una sostanziale

responsabilizzazione dei soggetti che esprimono i pareri ivi previsti, coerente con lo spirito

della riforma della disciplina delle autonomie locali incentrato sulla separazione dell’attività

di gestione (incardinata nell’apparato tecno-burocratico) da quella di direzione politica (

intestata agli organi rappresentativi della collettività locale), e delle correlate

responsabilità.

In tale prospettiva al parere di regolarità tecnica fanno riscontro eventuali profili di

responsabilità amministrativo-contabile del soggetto che lo ha rilasciato.

La finalità della riforma, peraltro, non consiste nell’accentramento della responsabilità

in capo al soggetto che ha espresso il parere di cui si tratta, con conseguente

deresponsabilizzazione dell’organo titolare del potere decisionale, e, quindi, nel

ribaltamento delle responsabilità stesse, ma è ravvisabile nel rafforzamento degli strumenti

di tutela apprestati dall’ordinamento.

In estrema sintesi il parere di regolarità, ancorché obbligatorio nei casi previsti dalla

legge per il perfezionamento delle procedure amministrative e contabili preordinate alla

fattibilità della deliberazione stessa, non è mai vincolante e non è equiparabile alla scelta

discrezionale di competenza dell’organo competente ( nella specie quello consiliare che

l’ha concretamente esercitata).

L’atto introduttivo del giudizio, inoltre, ravvisa il nesso eziologico tra la condotta del

XX e l’evento dannoso non solo con riferimento al rilascio del parere di cui all’articolo 49

del d.lg.vo n. 267 del 2000, ma anche per avere il medesimo convenuto curato,altresì,

tutta l’attività istruttoria, finalizzata all’adozione della delibera in questione (in particolare, la

predisposizione delle schede per accertamento e riconoscimento di ogni singolo debito, ai

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sensi dell’art. 194, lettera e, con attestazione della utilità ed arricchimento per l’ente)

nonché provveduto ad adottare i relativi conseguenti atti di liquidazione.

Viene in rilievo, quindi, una attività complessa ( propositiva e consultiva) che si pone

in immediata e diretta correlazione con la consumazione del danno di cui è controversia.

4.2. In ordine all’indagine sulla colpa grave in capo ai convenuti, osserva il Collegio

che la parte attrice ha fornito ampia e convincente prova della sua sussistenza.

Le posizioni del convenuto XX e quelle dei restanti convenuti, componenti del

Consiglio comunale, devono essere distinte, avuto riguardo alla diversa condotta dagli

stessi posta in essere.

Come già accennato, l’assunzione di un atto di peculiare rilievo e delicatezza, sotto il

profilo finanziario e contabile, quale il riconoscimento di un debito fuori bilancio, esige

approfonditi accertamenti in ordine alla compresenza dei presupposti che ne legittimano

l’adozione nonché il loro rigoroso apprezzamento da parte dei soggetti coinvolti nel

procedimento.

4.2.1. La vicenda sottoposta al sindacato di questa Corte ha evidenziato, invece, una

marcata superficialità nell’espletamento della istruttoria e nella fase decisionale.

Con riferimento alla istruttoria, ha osservato l’attore come la stessa presentasse

vistose lacune in ordine alla corretta individuazione del contesto normativo di riferimento,

agli arresti della giurisprudenza, alla congruità della somma richiesta a titolo di rimborso

delle spese legali, alla omessa sottoposizione del gradimento del legale prescelto

dall’assessore imputato nel processo penale definito con la sentenza n. 241 del 2003 del

Tribunale di Matera, alla posizione di conflitto di detto amministratore con il comune di

XXCCXXCCXX.

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Viene ad emersione, quindi, una vistosa leggerezza nell’approccio di una vicenda

che, al contrario, avrebbe richiesto un rigoroso esame al fine di fornire una completa

informativa all’organo deliberativo e, soprattutto, a salvaguardia dell’interesse pubblico.

Nel delineato contesto la condotta del XX appare sicuramente censurabile.

Premesso, come ben puntualizzato dall’attore, che il convenuto vanta professionalità

specifica e particolare competenza in materia, in quanto preposto all’ufficio legale del

Comune di XXCCXXCCXX, si deve rilevare che il medesimo non ha minimamente tenuto

in considerazione la circostanza secondo cui nessuna disposizione dell’ordinamento

prevedesse l’assunzione a carico dell’ente locale delle spese legali sostenute da un

amministratore.

Neppure si è preoccupato di verificare gli arresti della giurisprudenza. Già la Corte

costituzionale con la sentenza 8 – 16 giugno 2000, n. 197, aveva dichiarato la conformità

alla Costituzione dell’articolo 39 della legge della Regione Sicilia 29 dicembre 1980, n. 145

che consentiva in favore dei soli dipendenti, e non anche degli amministratori degli enti

locali, l’assunzione a carico degli enti stessi delle spese di giudizio sopportate per fatti o

atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti di

ufficio.

E proprio per tale ragione il legislatore regionale era dovuto intervenire con apposita

disposizione ampliativa (l’articolo 24 della legge Regione Sicilia 23 dicembre 2000, n. 30),

circostanza comprovante che soltanto con l’interpositio legislatoris era possibile prevedere

in favore degli amministratori degli enti locali una disciplina omologa a quella riservata ai

dipendenti degli enti stessi.

Del resto anche la giurisprudenza della Corte di cassazione, richiamata al paragrafo

3.2.2., militava nel senso di escludere la possibilità di far gravare sul bilancio dell’ente

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locale gli oneri di difesa di un suo amministratore coinvolto in un procedimento penale per

fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del suo ufficio.

Veniva in rilievo, quindi, un contesto ordinamentale e giurisprudenziale agevolmente

intellegibile.

Ma se anche fossero residuati dubbi, sarebbe stato ineludibile obbligo del convenuto,

nella sua posizione di Dirigente dell’ufficio legale del comune, segnalare la situazione,

anche al fine di effettuare ulteriori approfondimenti o acquisire pareri, ad esempio presso il

ministero dell’interno.

La colpa grave che ha caratterizzato la condotta del convenuto, è desumibile da

ulteriori profili caratterizzanti la vicenda.

Premesso che l’omessa sottoposizione al gradimento del Comune di XXCCXXCCXX

della scelta del legale, da parte dell’assessore, non è stata minimamente rilevata dal XX,

né segnalata al Consiglio comunale, va osservato che il convenuto non espletò alcuna

verifica in relazione alla veridicità e all’adeguatezza del compenso richiesto dal

professionista.

Orbene l’attore, con una semplice indagine, ha censurato, sotto numerosi profili, non

solo la misura degli onorari, addirittura “in parte raddoppiati, in parte triplicati e in parte

quadruplicati” in assenza di motivazione in merito alla complessità della controversia, ma

anche la spettanza di compensi in quanto duplicazione di altra voce o, ancora, di quelli,

evidenziati nella parcella, e riconoscibili solo nei giudizi civili.

Più che evidente, quindi, risulta la superficialità dell’istruttoria compiuta dal convenuto

il cui esito è costituito dal parere di regolarità tecnica.

Ancora deve rilevare il Collegio la lettura superficiale da parte del convenuto della

sentenza n. 241 del 2003, con la quale il Tribunale di Matera, in relazione al reato di abuso

di ufficio ascritto all’assessore destinatario del rimborso delle spese di giudizio,

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evidenziava l’illegittimità dei provvedimenti, alla cui adozione aveva partecipato

l’amministratore, e, quindi, il palese conflitto di interessi, venutosi a creare tra il medesimo

e l’ente locale.

Circostanza, quest’ultima, preclusiva dell’assunzione a carico dell’ente delle spese di

cui era stata chiesta la restituzione dal citato amministratore.

In conclusione il convenuto ha, con colpa gravissima, tenuto conto della sua

professionalità specifica e della sua preposizione all’Ufficio legale, abdicato ai suoi

fondamentali doveri di diligenza e alla cura degli interessi dell’ente locale ove è

incardinato.

4.2.2. Ad omologhe conclusioni, in punto di sussistenza della colpa grave, il Collegio

giunge in relazione alla posizione dei restanti convenuti, componenti del Consiglio

comunale di XXCCXXCCXX.

La vicenda di cui è controversia appare connotata, sotto molteplici aspetti, da

superficialità e negligenze particolarmente rilevanti, tenuto conto che la delibera di

riconoscimento del debito presuppone particolare cautela, penetranti accertamenti e rigore

valutativo, al fine di garantire il legittimo, efficiente, efficace ed economico impiego delle

pubbliche risorse in conformità al precetto del buon andamento e imparzialità contemplato

nell’articolo 97 della Costituzione.

In fattispecie la delibera di cui si tratta è stata votata senza una idonea e corretta

valutazione circa la sussistenza dei presupposti necessari per il legittimo riconoscimento

del debito fuori bilancio e per il conseguente pagamento della prestazione professionale.

In particolare la scarna documentazione sottoposta al vaglio del Consiglio comunale

e l’esistenza di una vicenda penale da cui scaturiva la richiesta di rimborso delle spese

legali e, verosimilmente, l’eco della vicenda stessa, avrebbero dovuto indurre i convenuti,

ratione muneris, a richiedere, oltre l’intero carteggio per verificare la sussistenza dei

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presupposti per poter procedere al suddetto rimborso, quanto meno mirati supplementi di

istruttoria in ordine alla fondatezza della richiesta dell’assessore, alla congruità della

parcella, e, soprattutto, all’assenza di conflitto di interessi tra l’amministratore e il comune

di XXCCXXCCXX.

Tutto ciò nella considerazione che il riconoscimento del debito fuori bilancio, è di

pertinenza del Consiglio comunale ai sensi dell’articolo 194 del decreto legislativo 18

agosto 2000, n. 267.

Non viene in rilievo la ratifica o l’approvazione di un atto della struttura burocratica,

ma l’adozione di un provvedimento rientrante appieno nella propria sfera di competenza e

responsabilità del Consiglio comunale (Sezione terza centrale d’appello 27 dicembre

2011, n. 888).

In siffatto contesto, come evidenziato dalla giurisprudenza, la sussistenza della colpa

grave non viene meno per l’affidamento riposto dal Consiglio comunale nell’istruttoria

condotta dall’apparato burocratico dell’ente locale, stante la competenza e responsabilità

dell’organo consiliare nel deliberare il riconoscimento di un debito (Sezione Terza centrale

n. 888/2011 cit.; Sezione giurisdizionale Toscana 3 settembre 2012, n. 415).

5. Il Collegio, infine, deve quantificare il danno di cui è controversia alla stregua

dell’apporto nella sua produzione da parte di soggetti non evocati in giudizio.

Avuto riguardo ai fatti che hanno caratterizzato al vicenda, ritiene che il pregiudizio

patito dal Comune di XXCCXXCCXX debba essere determinato, in via equitativa, nella

somma di euro 4.000,00.

Attesa la marcata gravità delle condotte dei convenuti resta precluso l’esercizio del

potere riduttivo dell’addebito.

6. Conclusivamente i convenuti vanno condannati al pagamento della indicata

somma, maggiorata dell’importo per rivalutazione monetaria, da calcolare dalla data

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dell’avvenuto pagamento e sino alla pubblicazione della presente sentenza, e da quello

per interessi legali, da computare da tale ultima data e sino all’integrale soddisfo.

In ordine alla ripartizione del pregiudizio erariale, deve ritenersi supportata da

congrua motivazione la richiesta dell’attore di addebitarne un terzo a carico del XX, avuto

riguardo alla sua prevalente attività, rispetto agli altri convenuti, che rimangono onerati dei

restanti due terzi.

Il XX, infatti, nella sua posizione qualificata all’interno dell’ente locale, all’esito di una

istruttoria incompleta e superficiale, espresse il parere di regolarità tecnica, allegando la

scheda di accertamento del debito e attestando l’utilità e arricchimento dell’ente, e,

successivamente, sulla base della delibera di riconoscimento del debito, provvide ad

emettere i provvedimenti di liquidazione.

Evidente, quindi, si appalesa la maggiore responsabilità del citato convenuto rispetto

alle posizioni dei membri del Consiglio comunale evocati in giudizio.

Le spese di giustizia seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Basilicata, ogni

contraria domanda ed eccezione respinte:

a) condanna XX Anio al pagamento in favore del Comune di XXCCXXCCXX

della somma di euro 1.333,33, oltre rivalutazione monetaria - dalla data del pagamento

costituente danno erariale e sino alla pubblicazione della presente pronuncia - e interessi

legali - da quest’ultima data e sino al soddisfo;

b) condanna XX Rosa Maria Anna, XX Renato, XX Rosa, XX Giuseppe, XX

Leonardo, XX Massimo, XX Paolo, XX Leonardo Giuseppe, XX Mariano, XX Rosa, XX

Giovanni, XX Salvatore, XX Rocco Salvatore, al pagamento in favore del Comune di

XXCCXXCCXX della somma di euro 205,12 ciascuno, oltre rivalutazione monetaria - dalla

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data del pagamento costituente danno erariale e sino alla pubblicazione della presente

pronuncia - e interessi legali - da quest’ultima data e sino al soddisfo;

c) condanna, altresì, tutti i convenuti, in via solidale, al pagamento delle spese di giudizio

che, sino all’originale della presente sentenza, vengono liquidate in Euro 1.830,32=.

Euro milleottocentotrenta/32=.

Così deciso in Potenza, nella Camera di consiglio del 13 dicembre 2011 proseguita in

data 8 maggio 2012.

Il Presidente estensore

(dott. Luciano Calamaro)

F.to Luciano Calamaro

Depositata in Segreteria il 15 OTT. 2012

Il Preposto alla Segreteria della

Sezione Giurisdizionale Basilicata

(Maria Anna Catuogno)

F.to Maria Anna Catuogno