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SERVIZI EDITORIALIdinia/Pasolini e Dante.pdf(Giuseppe Limone) - Richard Strauss, un mistico senza religione e senza divinità (Aldo Nicastro) SERVIZI : EDITORIALI ; RICORDANDO PASOLINI

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    SERVIZI EDITORIALI Via dell'Argingrosso n. 131/17 - 50142 Firenze

    Te!. +39055784221 - Fax +390557333196 E-mail: [email protected]

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    Prezzi per l'anno 2006

    ITALIA ESTERO

    Abbonamento annuo € 31,00 € 52,00

    Fascicolo singolo € 16,00 € 31,00

    Fascicolo singolo arretrato € 26,00 € 37,00

    L'abbonamento si intende rinnovato se non disdetto entro il31 dicembre di ogni anno

    MODALITÀ DI PAGAMENTO

    • Bollettino c.c.p. n. 23206501 intestato a SERVIZI EDITORIALI

    • Assegno o assegno internazionale intestato a SERVIZI EDITORIALI e accompagnato da causale di pagamento.

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    • Carta di credito: CARTASÌ, vrSA, MASTERCARD

    Direttore responsabile: MINA GREGORI

    Autorizzazione Tribunale di Firenze decreto n. 4477 del 25-5-1995

    PARAGONE Rivista mensile di arte figurativa e letteratura

    fondata da Roberto Longhi

    LETTERATURA

    Anno LV - Terza serie - Numero 60-61-62 (666-668-670) Agosto-Dicembre 2005

    SOMMARIO

    INFERNI

    VITTORIO SERMONTI: Gesualdo considered as a murder - MICHEL JEANNERET: La tragedia gioca col fuoco - ROSETTA Loy: Il paese del cioccolato - GIACOMO TRINCI: Stanze del matricida - GIORGIO PRESSBURGER: Nel regno oscuro - MARCO MARCHI: Baldacci. Perché Tozzi - GIOVANNA ANGELI: Malebolge. La nuova letteratura francese nell'occhio di Pierre Jourde - ELENA SALIBRA: Postille per un diario - MARCO ROMANELLI: Febbraio '63 - ROBERT FAJEN: Gli idilli terribili. Su

    La paura del cielo di Fleur Jaeggy - MARIO FRESA: Nodo parlato

    RICORDANDO PASOLINI ALDO F. COLONNA: Ricordando Pasolim; e Moravia, e le cose che non ci sono più

    ANDREA DINI: Una commedia di borgata

    GIORNALE ROSANNA BETTARINI: I:Inferno di Garboli

    APPUNTI Un libro assente: li più lungo giorno (Laura Gatti) - In margine a L'altra metà di Luciano Erba (Giuseppe Limone) - Richard Strauss, un mistico senza religione

    e senza divinità (Aldo Nicastro)

    SERVIZI EDITORIALI

    mailto:[email protected]

  • RICORDANDO PASOLINI

    ANDREADINI

    UNA COMMEDIA DI BORGATA PASOLINI, DANTE E LA MORTACCIA

    Il nodo Pasolini-Dante

    LA PRESENZA INVADENTE DI DANTE IN PASOLINI, SUA 'spina dorsale' (secondo la felice definizione di Walter Siti), è oggi un fatto accertato e indubitabile. Una presenza che s'accresce nel tempo, dagli anni Cinquanta alla fase che immediata ne precede la morte, in cui, a ritroso, questo dantismo fa capolino in celluloide e a stampa tra i gironi di Salò (1975), La divina mimesis (concepita tra il '63 e il '65, ma uscita nel 1975 a ridosso dell'assassinio dello scrittore), e Petrolio (che copre come cronologia interna gli ultimi anni di vita). Il magistero letterario e di cinema pasoliniani, connessi a una prassi politica intesa come alta coscienza civile, impegno diretto dello scrittore nella società e opera intransigente di moralizzazione, richiamano apposta l'Alighieri, identificato senza preamboli dallo scrittore friulano come intellettuale militante e poeta necessario dell'inferno di una civiltà borghese 'capitalista', votata alla fine della Storia. Un Dante recuperato nell'accezione risorgimentale di 'poeta di una poesia forte, virile, profetica, politica, civile' (come già la scelta

    1~: della terzina - e degli argomenti - delle Ceneri di Gramsci aveva fatto intuire), 'Dante poeta esule, mai incline al compromesso', da leggere 'in chiave tutta ideologica'!. Va sgombrata dunque la strada dai fraintendimenti che hanno relegato questo

    IIII!I dantismo ontologico di Pasolini nell'angolo dell'ecolalia poetica l' (a causa dei lemmi riconoscibilmente danteschi usati in poesia, Il considerati a lungo spie lessicali disordinate e prive di sistema

    ticità strutturale), o che hanno valutato la riscrittura incompiu-

    UNA COMMEDIA DI BORGATA 141

    ta della Commedia come indice di un fallimento, per cui l'abortita Divina mimesis diventerebbe l'esempio dell'impraticabilità di una 'imitazione' del modello. Pieno apprezzamento critico reclamano oggi anche gli scritti del 1965-66, La volontà di Dante a essere poeta e La mala mimesi (nonché Intervento sul discorso libero indiretto)2, i quali assumono Dante al centro della riflessione sul rapporto tra letteratura e società, lingua e stile, a lungo tempo negletti perché non si esaurivano ortodossamente all'interno del commento testuale o dell'esegesi.

    L'immagine rabdomantica e asistematica del Pasolini lettore (e fruitore) di Dante era nata da un singolare ingessamento critico che solo in anni recenti è venuto a sgretolarsi con sondaggi di più ampio respiro sui testi pasoliniani (cui ha giovato l'edizione delle opere diretta da Siti) e con la proposta di una più allargata concezione di cosa costituisca 'dantismo' letterario3, per tacere della recente disamina del ruolo di Dante (con, e contro, Petrarca) all'interno delle canonizzazioni delle patrie lettere4. La riedizione Einaudi del 1993 della Divina mimesis ha avuto poi il merito di riaccendere l'interesse per la variabileDante in Pasolini, e i dieci volumi mondadoriani finora usciti ne hanno stabilita e storicizzata l'importante presenza, tracciandone la storia interna in un percorso, nel nome di Dante, alquanto accidentato, fatto di provocazioni, musi e 'ego' acciaccati.

    Il caso Dante-Pasolini era scoppiato improvviso dalle colonne di 'Paragone' a chiusura del giubileo dantesco, nel dicembre 1965, proprio col saggio La volontà di Dante a essere poeta che espandeva l'Intervento sul discorso libero indiretto, uscito sulla stessa rivista in giugno, in cui Pasolini aveva iniziato a analizzare la storia della letteratura italiana in termini di realismo linguistico. Lo scrittore puntava il dito sulla potenzialità, che vedeva in Dante, di un particolare uso del discorso libero indiretto come espressione di una 'coscienza sociologica' del poeta (concesso, come postulato altrove, che 'la scelta linguistica è il primo sintomo di una coscienza sociale'5). L'adeguamento tra 'stile' e 'soggetto' rappresentato in Dante veniva dunque letto come imprescindibile e necessario segnale di coscienza politica. Secondo Pasolini, Dante per primo aveva mostrato agli scrittori italiani cosa effettivamente volesse dir 'scrivere',

    ~

  • 143 142 ANDREADINI

    cioè oggettivarsi in un discorso: in quanto, appunto, sarebbe 'inconcepibile rivivere un discorso altrui, linguisticamente, senza averne oggettivato, oltre che la psicologia, anche la particolare condizione sociale: quella che produce le diversità linguistiche'6. Per estensione, anche nel discorso diretto, nelle parole dei personaggi della Commedia, si sarebbe verificato in nuce un discorso rivissuto, in quanto Dante 'citava' da un altro mondo linguistico che non era il SUOi. Chiaro, allora, di come Dante si fosse 'valso di materiali linguistici propri di una società, di una élite: gergali. Che certamente egli stesso non usava, né nella sua cerchia poetica, né in quanto poeta. L'uso è dunque mimetico, e se non si tratta di una vera e propria mimesis vissuta grammaticalmente, è certo una sorta di emblematico Libero Indiretto, di cui c'è la condizione stilistica, non quella grammaticale poi divenuta comune: esso è piuttosto lessicale, e sacrifica l'espressività tipica del Libero Indiretto all'espressività derivante dall'omologazione nel tessuto linguistico di chi narra col tessuto linguistico dei personaggi ... '8.

    L'interpretazione s'inseriva provocatoria in una lettura politica del poeta fiorentino volta allo scompiglio dell'acque autocelebrative e sostanzialmente immobili del centenario (come aveva del resto fiutato Anna Banti, pronta ad accogliere come direttrice di 'Paragone' il contraltare delle diverse prospettive critiche9); tuttavia la vis polemica pasoliniana non rimaneva localmente strumentale, e il suo cipiglio invettiva si scagliava contro il linguaggio di scrittori che si servivano di una lingua 'nazionale', disdegnante l'apporto dei gerghi e dei diversi registri, che per lui finiva col cancellare proprio quel multiforme sostrato sociale (ergo, di determinazione economica) che condiziona gli esiti di una lingua. A promozione di un paradigma ideologico, Dante veniva ripescato da Pasolini come modello di un successo politico, come figura d'intellettuale che nella Commedia, nell'Inferno, non aveva esitato a sporcarsi le mani con i linguaggi (e l'immaginario) delle diverse classi (specie le subalteme), portandole alla ribalta. Un Dante, allora, da usare, strumentalizzare, abitare, contemporaneizzare, rimettere insomma in circolazione contro letture stantie o conservatrici lO•

    Nonostante un preambolo cautelativo di Pasolini sulle accezioni terminologiche usate nel saggio - che da solo rileva la

    UNA COMMEDIA DI BORGATA

    preoccupazione e lo sforzo concettuale dello scrittore di fronte alla sua audience accademica ('non si tratta, si capisce, di un vero e proprio Libero Indiretto, in senso grammaticale. Si può parlare di un Libero Indiretto simbolico o metaforico: tale da essere assunto a livello linguistico') -, l'intervento suscitò forti reazioni proprio per quest'uso disinvolto del concetto di 'discorso rivissuto', cui Pasolini replicò con la solita ruvidità, in forma d'attacco all'establishment critico-letterario italiano: 'mi dispiace di aver turbato con questo i sonni terminologici della critica universitaria che si dichiara tale. [ ... ] Insisto a dire che il libero indiretto non può che avere un fondo sociologico, perchè è impossibile rivivere il discorso particolare di un parlante se non se ne sia individuata l'estrazione sociale con le sue caratteristiche linguistiche'!!. Queste polemiche pubbliche e al contempo private (come ci testimoniano gli epistolari sopravvissuti), si compendiarono alla comparsa stessa del saggio su 'Paragone' in una replica ufficiale della redazione, alla firma di Garbali e Segre. La diatriba al vitriolo finì però per farsi primariamente terminologica, e oscurò il nodo Dante-Pasolini stesso, che invece non meritava affatto di essere preso sottogamba.

    Quindi, a causa della querelle critica sui saggi e, principalmente, per la mancanza diretta di prove 'dantesche' maggiori prima della morte (a parte Salò, la Mimesis è tecnicamente postuma, e, ovviamente, lo è Petrolio), gli auspici per una valutazione effettiva del Pasolini studioso o fruitore di Dante non erano favorevoli, anche all'indomani della pubblicazione della Mimesis stessa. 'Dal punto di vista critico Pasolini non fu un dantista': così uno dei primi giudizi complessivi post-mortem, del 1977, che subito rimuoveva l'importanza dell'apporto pasoliniano alla 'fortuna' di Dante, scartando i saggi del 1965-66 in cui Dante era esaminato perché 'legati agli interessi prevalentemente linguistici della critica pasoliniana', e non 'studi specifici su Dante, quanto ricerca di una conferma, anche in Dante, dei principi fondamentali della poetica pasoliniana'!2. Un giudizio che avrebbe fatto scuola.

    Negato ogni apporto teorico degli interventi danteschi pasoliniani (incentrati sull'ideologia linguistica dietro la Commedia), i corollari critico-interpretativi erano chiari (ma rischiosi): portavano alla ricerca, nel corpus pasoliniano, non di una 'spina'

  • 145UNA COMMEDIA DI BORGATAANDREADINI144

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    !

    ideologica e linguistica di matrice dantesca (come fruttuosamente avrebbe fatto un ventennio più tardi Siti, sincronicamente e diacronicamente, sui testi ), ma alla tassonomia immediata di corrispondenze lessicali, ritmico-sintattiche, di citazioni e luoghi comuni tra testo in esame e archetipo dantesco, rapportandosi insomma a un bagaglio primariamente (anche se non esclusivamente) di fonti intese nell'accezione più positivista del termine. L'accezione di legittimo 'dantismo'- che avrebbe costituito la traditio critica nella valutazione delle opere di Pasolini - si riportava nel campo della lettura dotta, nel campo applicativo dell"influenza' come esclusiva rilevazione (e censimento numerico) di 'prestiti', senza considerare alcun aspetto della ricezione (e sfruttamento 'in chiave') di Dante, alcuna messa a sistema.

    Di un'interessante preistoria dantesca di Pasolini testimonia un complesso 'frammento' narrativo intitolato La mortaccia (del 1959, pubblicato in Alt' dagli occhi azzurri nel 1965 13 ), incarnazione embrionale ma sistemica di un' attualizzazione della Commedia, dove lo scopo attribuito a Dante d"immersione e [... ] mimesis totale nella psicologia e nelle abitudini sociali dei suoi personaggi' già veniva esplorato con decisione. Liquidata spesso dalle ricognizioni critiche che hanno indugiato sulla prova più muscolosa della Divina Mimesis, La mortaccia resta invece la prova del nove più cospicua per capire la forza attrattiva del modello originario e i suoi modi d'impiego. Testo anch'esso incompleto, cartone indiretto dell'opera 'maggiore', La mortaccia si pùo contare come esempio precoce di lettura e fiction reinterpretativa del testo dantesco, visto in quanto 'grande affabulazione' applicabile ancora oggi al paesaggio contemporaneo.

    2. Una Commedia borgatara

    I 'frammenti' che inquadrano questa Mortaccia, divisa in due canti, ritengono i luoghi topici del canto I dell'Inferno, comprese le immagini delle allegorie dantesche (la via smarrita, la selva, il colle, le tre fiere, etc.) e dei suoi personaggi (l'homo viator, la guida); si concludono a piè di un 'carcere', quello di

    Rebibbia, corrispondente all'incipit del III (con l'iscrizione sulla porta infernale, l'entrata). Due le novità fondamentali del recit pasoliniano. Questo palinsesto dantesco è in prosa (un tentativo di romanzo); inoltre, con efficacia, Pasolini attua un rovesciamento straniante e parodico del testo di base col mutare l'artificialità del segno allegorico che lo pervadeva in corrispondenza diretta e naturale, arrestando cioè alla 'lettera' (che prevede l'identità di significante e significato) le allegorie di partenza. Tuttavia, il rapporto eventuale che il lettore stabilisce con la memoria del testo di Dante, e col suo confronto, necessariamente ricaricano i frammenti pasoliniani di sovrassensi allegorici, in una satira al quadrato.

    Lo smarrimento nella selva, scontata allegoria del traviamento morale dell'agens ('Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / che la diritta via era smarrita" In.! I 1_3 14), viene allora sostituito dal disorientamento notturno di una peripatetica, Teresa, in una periferia romana oscura, fatta di 'baracche' e 'tuguri' dai 'tetti di bandone', contrassegno di borgate senza luce né speranza. Un luogo riconoscibile allettare, altrettanto identificabile come il paesaggio archetipico o forse simbolicamente stereotipo di Dante del primo canto, ma che a differenza di quello possiede in più coordinate geografiche precise, marcate da tratti realistici e indirizzi alla mano ('La catapecchia di Teresa era una dell'ultime, quasi laggiù in fondo, poco prima dell'arco, verso i depositi della Coca Cola', p. 592; '[Teresa] imboccò il Mandrione [... ] sotto la muraglia dell'Acquedotto Felice', p. 591), che lo svincolano dall'universalità per accentuarne la necessaria identificazione urbana, nel riconoscimento topografico del possibile inferno (neocapitalistico) della vita di borgata (frutto degli sventramenti mussoliniani prima e delle speculazioni edilizie degli anni '50 poi), nella cui cornice si riconoscono i segni danteschi, quel possibile sovrassenso 'allegorico' appunto sempre leggibile nel paesaggio fortemente degradato contemporaneo. In questo adattamento alla modernità dei segnali danteschi, il paesaggio scelto diviene tacitamente allusivo di una condizione sociale, che laicamente corrisponde a quella etica di Dante. L'amara perdizione delle borgate, la miseria nera, l'abbrutimento, la prostituzione per sopravvivenza, sono gli elementi che l'uomo

    -L

  • 147 146 ANDREADINI

    di oggi - il cittadino degli anni '50, dantescamente 'cive' - può riconoscere, e interpretare, con la stessa rapida associazione mentale che l'uomo del Medioevo poteva fare nei riguardi di

    " I, simboli come 'selva', 'colle' etc. Un paesaggio da leggere in tra

    sparenza: e la borgata, dall'impossibile redenzione, viene associata con un inferno urbano o semi-urbano, popolato da una fauna umana privata e priva di riscatto, ritagliata viva sulla pagina da un linguaggio sensoriale, sugoso di cose e di oggetti.

    L'allegoria delle immagini della Commedia rifluisce dunque vitale nei groppi di carne del testo pasoliniano, portata a nuova vita: mutata nella storia di Teresa, si mescola con il significato letterale dei riferimenti danteschi stessi, in una scrittura generosamente temperata in bilico tra fiction e esegesi, scivolante verso la parodia in presenza di un testo noto, di riferimento, ma riversata in una narrazione che vale di per sé, ha un significato 'letterale', vero, convincente, dimostrativo (la vicenda di una prostituta che tornando a casa di notte si smarrisce, arranca su di un monte, è spaventata da tre cani-lupo, incontra qualcuno che l'aiuta a trarsi d'impaccio, e finisce per andarsene verso Rebibbia, su cui sorge il carcere omonimo, e non direttamente a casa).

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    i Se, per l'uomo Dante, perdere la strada (ancorché narrati

    va) significa alludere allegoricamente al traviamento morale (e

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    Illi cioè l'avere smarrito la via della Giustizia, con Ugo da San Vit

    ·'l':,il"1'1 I

    tore e San Bernardo) a causa di una condizione di 'sonno' (sonno mentale, o dell'anima, comunque a causa di un ottenebramento della coscienza indotto dal peccato), Pasolini dispone qui di una classica 'traviata' che, sopraffatta dal sonno (fisiologico, corporeo), alla lettera perde l'orientamento, i punti di riferimento fisico-spaziali (di una geografia terrestre opposta perciò a una morale, interiore), e che dalla via di casa si trova proiettata (sogno o realtà?) in uno spazio inquietante, pauroso, da cui non sa come uscire.

    L'intento ironico, di un registro da sublime 'en bas', avanza all'ennesima potenza con la scelta del personaggio di una peripatetica, camminatrice di professione, perché, al pari dell'homo viator del testo dantesco, anch'essa si trova in 'viaggio'. Un viaggio diverso, s'intende, da quello annunciato dalla tradizione cristiana, eppure questo con tutte le regole; e un camminare,

    ~~-

    UNA COMMEDIA DI BORGATA

    qui, che la porta sulle orme del peccato senza battere ciglio. Ritrovare l'ipotetica via (della Giustizia), significherà per questo personaggio finire dawero nel luogo deputato alla sua amministrazione (penale), il carcere di Rebibbia. E con questo escamotage Pasolini ha di nuovo riportato alla lettera il sovrassenso allegorico del testo dantesco.

    La nozione di 'selva oscura' - quest'immagine tipica dell'esperienza esistenziale dell'uomo medievale, soggetto al peccato - si compendia nella borgata (visivamente fitto ammasso di lamiere, catapecchie e casupole, tuguri, e quindi 'selvatica', vero bosco degradato), che è d'altronde dimora e luogo tipico delle frequentazioni di lavoro della prostituta Teresa, sua condizione antologica e spazio di ritrovo della sua clientela. Un luogo 'oscuro', senza luce di per sé, a causa della sua marginalità rispetto alla città, a causa della buia condizione esistenziale dei suoi abitanti, e anche, a rigore, oscuro loco per l'ambientazione semplicemente notturna dell'episodio ('era notte alta'). Un' 'amara silva' coincidente con uno spazio reale di questo mondo ('amara silva mundus hic fuit', secondo l'interpretazione letterale della lezione agostiniana - In Joannem v, Tr. XVI, 6); e colta in un'ora d'oscurità in quanto riflette, con la notte, l'ora topica delle puttane. La tenebra perpetua non è il risvolto di un qualche ottenebramento dell'anima; rimanda soltanto a se stessa: si è immersi nel buio per una 'interruzione alla centrale elettrica' forse a causa di un guasto. L'ora tarda giustifica peraltro il 'sonno' che prende la protagonista, sonno vero, da fine giornata, da spossatezza lavorativa, che fa da incipit al racconto, apritosi in medias res: 'Il sonno! Mamma mia! Un sonno che proprio se la stava a fa' sotto, para Teresa: capirai, co' quella giornata ch'aveva passato, n'aveva fatti pochi d'impicci!' (p. 591). Sonno che causa lo sbandamento di Teresa, la sua confusione mentale, il suo supposto errore geografico, e su cui dovremo tornare.

    La scrittura pasoliniana ritiene anche nella topografia del testo quella contrapposizione dantesca degli elementi naturali dati nel I canto dell'Inferno come esemplari di condizioni esistenziali contrastanti, tra 'selva' (del peccato) e 'colle' (della salvezza), manipolandone gli esiti. Nella scena borgatara di tenebre che fa smarrire Teresa sorge infatti, come dal nulla, il

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  • ANDREADINI148

    'colle' per antonomasia, possibile via salvifica, trasformato però in un familiare, romanesco 'montarozzo', la cui mappatura precisa ne svuota il valore simbolico: 'Era quel montarozzo che sta sulla Tiburtina, dopo il Forte, prima di Tiburtino III, dove stava a abitare Peppe il Folle. Era un montarozzo che sotto i ragazzi ci giocavano al pallone, [... J e, arrivati in pizzo, laggiù si vede l'Aniene, tra i canneti, e dall'altra parte Pietralata' (p. 592). Un colle isolato e oscuro, non certo vestito dai 'raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogni calle' (I 17-18), simmetricamente opposto all'omologo dantesco anche per 'l'ora del tempo' (143) che non è 'cagione' di 'bene sperar' (141):

    ... era notte alta: non soffiava un fiato di vento: non c'era neanche una luce, si vede c'era una interruzione alla centrale elettrica, non una luce, nè sulla Tiburtina, nè dietro la borgata [... l Tutto scuro, morto. E neanche una voce. [.. .J E il montarozzo, detto il monte del Pecorara, lì davanti, era alto che pareva una montagna, [...J nell'oscurità, senza un filo di vita. "Ma indò me trovo, qua, vaff. .. !" pensava Teresa, che già parlava da sola, con uno spagheggio che tremava. Camminò lì nello spiazzio giallo, verso la gobba del monte: e si sarebbe messa a strillare, se non avesse avuto paura che fosse peggio. (p. 592)

    Un colle intimidatorio ('era alto che pareva una montagna') che tradisce subito le poche speranze di salvezza di Teresa spaesata ('Camminava camminava, tutta col culo stretto, pora creatura, senza sapere dove andare', p. 592) e spaventata da tre cagnacci (' ... quand'ecco che, daje!, da dietro una gobba del monte si pararono, colla bava alla bocca, tre canacci lupi, abbaiando da torcersi i polmoni, secchi allampanati, con le code dritte sulle cosce spelate e piene di rogna', p. 592), numericamente e domesticamente corrispondenti alle tre fiere dantesche, spogliate di ogni esoticità, con l'appiattimento referenziale sulla realtà di borgata dove i randagi pullulano impuniti: 'Chissà, erano forse scappati da qualche casale, alle Messi d'Oro, dietro il monte, lungo l'Aniene: o avevano sentito qualche ladro morto di fame' (p. 593). A questa situazione, Teresa reagisce come il pellegrino Dante all'ingresso della selva, perdendo la voce, facendosi dominare da un'esplicita 'paura' qui rovesciata in paura fisica, carnale, che dal'culo stretto' si emana a tutta la sua persona: 'Adesso ce l'avevano con Teresa: e queste se ne

    UNA COMMEDIA DI BORGATA 149

    stette lì ferma; coi capelli dritti in testa, e il sangue che gli s'era gelato. Strillare non poteva, tanta era la paura. Le usciva come una lagna dalla strozza, nemmeno quella' (p. 593). Lo schema affabulatorio dantesco viene mantenuto nelle coordinate più immediate, e così ne è il linguaggio, quotidiano, rivissuto dal romanesco di Pasolini (quel'culo stretto', 'pora creatura', il 'daje', il 'cioccare', la 'lagna' e la 'strozza', secondo la teorizzazione del 'libero indiretto' visto in Dante).

    La scelta dei protagonisti gioca coi nomi o con i significati dei nomi: l'idea basilare del poema dantesco, dell'homo vz'ator, genera una passeggiatrice, con tutte le conseguenze letterali che calzano sull'interpretazione allegorica del traviamento dantesco. Una prostituta che si perde: un personaggio, cioè, che non solo si è allontanato dalla diritta via a principio, che si è smarrita, in quanto peccatrice, rispetto alla società a causa del suo mestiere; qui si smarrisce sul serio, in un gioco linguistico che si fa struttura del testo. Il canto I s'interrompe, infatti, con una linea che attraversa lo spazio bianco della pagina, tra il tentativo di ritorno a casa di Teresa e l'inizio della sua avventura dantesca. Una situazione d'apparente impasse critica, specie se ripercorriamo le coordinate del testo, il quale improvvisamente diventa inconseguente: come si è persa, difatti, Teresa? Come si trova, d'un tratto, così lontana da casa? Il testo l'aveva in precedenza lasciata quasi alla porta di casa, nel vicolo buio dei tuguri che le reclama il domicilio. Come può trovarsi ora davanti a un monterozzo d'indubbia identità, in un luogo che pare e non pare conoscere, e come, in ultimo, può decidere la salita del monte, quando attorno a lei appaiono fermate dei bus ('Lì c'era la fermata degli autobus, il 109 che voltava giù verso il centro di Tiburtino, il 211 , il 213 che seguitavano verso Ponte Mammolo e San Basilio, e pure i pulman che andavano a Tivoli ... ', p. 593), piazzali, luoghi noti e (presumibilmente) meno minacciosi?

    La struttura, o 'sintassi', della storia si fa per un momento singhiozzante o inconseguente. Questa apparente e misteriosa scoordinatezza, che perplessità può causare nel lettore, è però un colpo basso di Pasolini, che volge letteralmente in narrazione la spiegazione dantesca dello smarrimento nella selva: 'lo non so ben ridir com'i' v'intrai, / tant'era pien di sonno a quel

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    punto / che la verace via abbandonai' (I 10-12). La cesura grafica della pagina, tra Teresa che torna a casa e l'immagine del monte e dello smarrimento (corrispondente, nei fatti, a un lungo brano cassato dal dattiloscritto originale, di cui si discute più sotto), muta le carte in tavola; e la terzina dantesca si consustanzia nel dialogo mentale di Teresa ('Ma indò me trovo, qua, vaff... !', p. 592), la quale, più che perplessa dal luogo, è resa perplessa dalla situazione da incubo, da questa sua entrata in una peculiare twilight zone. E forse in quest'incubo vero o presunto è la risposta: se il viaggio dantesco è visione, è sogno, un 'itinerarium mentis in Deum', Pasolini accentua proprio il ruolo del sonno (letterale) col proposito di riflettere una dimensione onirica. Dimensione nella quale ogni tipo d'incontro è lecito e permesso, ogni tipo di sintassi logica deve re-inventare le proprie coordinate, e le immagini arrivano alla superficie portando le stigmate di timori e paure (il carcere per Teresa, spada di Damocle presente nella vita di una prostituta postMerlin).

    La parte espunta dall'originale dattiloscritto nel passaggio alla stampa15 include riferimenti espliciti alla Commedia e a Dante, che svelano l'origine dell'incubo (propriamente detto) di Teresa, la quale, tornata a casa, nell'approntarsi al talamo e al sonno ristoratore caccia dalla borsa

    .. , 'La Divina Commedia' illustrata, a fumetti, tutta ciancicata, che s'era fatta dare da un cliente suo [... J. Siccome Teresa era fin da ragazzina che sentiva parlare di questo libro, se l'era fatto prestare, per levarsi una curiosità, e durante la giornata, battendo sotto un sole che levava i sentimenti, s'era letto tutto l'Inferno. Era un libro gaiardo proprio, mica so lo credeva, li mortacci sua! (e. 3)

    Pasolini volutamente taglia i riferimenti troppo scoperti per lasciare l'episodio sul filo del sogno cassando la pericope che palesemente rivelerebbe al lettore la natura della storia di Teresa, l'incubo:

    Come si fu appennicata, cominciò d'acchito a sognare: mannaggia alla Divina Commedia, aòh, e a chi gliela aveva data, quel martufagno tubercoloso morto di fame zappaterra, lui e l'anima de li mortacci sua! Il sogno che fece, l'incubo! A trentacinqu'anni ancora non c'era arrivata, che non ne aveva manco trenta, ma era come se n'avesse sessanta: altro che

    151UNA COMMEDIA DI BORGATA

    mezza foja s'era magnata, ormai! E, insomma, dai questo dai quell'altro, in mezzo alla selva dei peccati ci stava, e ecchela là! Veramente non era nella selva: era quel montarozzo. (e. 4)

    Nel passaggio alla stampa i riferimenti diretti al testo dantesco spariscono, non più in 'citazione', ma mediati dalla narrazione: non importa che Teresa non abbia raggiunto 'il mezzo del cammin di nostra vita' - identificato coi trentacinque anni di Dante - se pure si stia 'in mezzo alla selva dei peccati', selva che diviene comunque subito il 'montarozzo', e da cui Pasolini farà essenzialmente partire la seconda parte del canto L Un'indicazione a penna rossa sul margine del dattiloscritto, relativa a questa pericope ('preparare il sogno chiaramente') viene dunque disattesa, o comunque la preparazione al sogno è resa implicita dall'incipit peculiare nella prima pagina del racconto, dedicato al sonno che, appunto, sogni suggerisce ma non determina. L'astuzia compositiva pasoliniana si scopre tutta nella riga di sospensione coincidente con l'espunzione, e maggiormente perché questa parte finale cassata, se lasciata intatta, ridurrebbe l'intero episodio al semplice incubo, privandolo di un effetto-sorpresa,

    In linea con l'archetipo dantesco, rimane conservato nel testo pasoliniano il riferimento al tentativo di salita del colle e al suo fallimento, allo scivolamento 'in basso loco' (161), al quale segue l'incontro come da manuale di una Teresa 'che piange e s'attrista' (I 57) con un peculiare salvatore:

    Poi piano piano, facendo finta di niente, sempre coi capelli dritti, fece qualche passo verso il monte, guardando i cani, e, come quelli pareva che ancora sbranarla e divorarsela viva non ci pensassero, cominciò a salire: ma non ce la faceva, perché la scesa del monte era tutta una melma, ci si poteva sciare, e come puntava il piede per arrembarsi, questo le scivolava e le tornava giù più in basso di prima. Stette lì un bel pezzo, a cercare di salire su per quello scivolo di fanga nera: e piangeva, piangeva, s'insozzava tutta. (p. 593)

    L'incontro di Teresa con un imprevisto coadiuvante - in cui scopriamo l'Alighieri stesso - è una piccola commedia degli equivoci che finemente gioca sulle attese del lettore e sulla sua memoria della situazione dantesca: 'Poi, verso sinistra, sentì

  • 153 Il

    Il 152 ANDREADINI

    una voce che la chiamava, che diceva: "Aòh". Si voltò, con le 1 Il...' .. 111. .Il mani a terra contro la fanga, a pecoroni come si trovava, e

    guardò da quella parte. C'era un'ombra, un'ombra che non siiii capiva bene chi era. Stava ferma, e guardava verso di lei. [... J

    ,i Ili: L'ombra stava proprio lì accanto alla fermata degli auti, contro il Bar Duemila' (p. 593). Teresa corruga la fronte, tenta di capiJ re chi 1'ombra sia, e, come l'archetipo Dante con Virgilio nel canto I, cerca la risposta d'identità all'interno del dominio del

    \ la sua conoscenza, cioè, qui, nel cerchio della propria esperieni,i za di prostituta. Per questa moderna traviata, quello che sco

    priremo a posteriori come l'integerrimo Poeta può diventare un il, cliente:

    \,i . 1

    Non riusciva a svagare s'era un cliente, di quelli che arrivano con la li:l macchina, a San Sebastiano, e non vogliono farsi riconoscere, o perchè so

    'III no sposati, o perché sono viziosi; qualcuno sadico, magari, che gli piace veil 'il dere il sangue, qualcuno che invece vuoI fare tutta una messinscena, con la

    "i I donna che deve far finta di non conoscerlo e farsi trovare ignuda col di '1,,1 ,. dietro di fuori in qualche posto della casa, e via dicendo. Oppure se si trat,i!1

    1, tava invece di qualcuna di quelle persone importanti che s'incontrano andando per gli uffici a fare le carte. Oppure un dottore di San Gallicano,

    1 o magara ... un commissario di polizia! (p. 594) 11

    Il.'1 .',i, Il rapporto di filiazione delle figure dal modello originale viene preservato: il metro della poesia detta l'incontro DanteIl:,

    Il,i' Virgilio, che si riconoscono attraverso le rispettive, e comuni, Il' professioni ('Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d'An

    chise'; 'Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore', I 73-74 e 85); il metro del meretricio l'incontro Teresa-Dante, qui, dapprima,

    " I giustamente ombra misteriosa, come ombra d'uomo era il Vir

    i gilio dantesco ("'Miserere di me" gridai a lui / "qual che tu sii, i, od ombra od amo certo!"', I 65-66). Quel Dante moralmente Il intransigente e descrittore di pene e contrappassi, diventa un ,i

    ipotetico cliente vizioso, sadico, a cui piace il sangue. La comIJl media dell'incontro preserva in filigrana il sospettato ricono

    scimento (dall'originale dantesco) di una persona importante, li cliente laureato, 'dottore' o più modernamente 'commissario', ,I

    comunque un'auctoritas, resa di nuovo elemento parodico per .1 li lo spostamento dei campi semantici.

    La 'vergognosa fronte' (I 81) del risultato dell'incontro III

    I

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    ;11

    'II

    UNA COMMEDIA DI BORGATA

    Dante-Virgilio è mantenuta nella soggezione di Teresa ('a Teresa venne una tremarella e una soggezione', p. 594) perché anche una prostituta, nella sua vera o presunta ignoranza, non può che riconoscere Dante Alighieri, nella severità di quell'uomo non tanto alto di statura, secco, con la fronte sporgente, un naso a becco, e le labbra strette, che, si capiva, non ridevano mai' (p. 594), giudice morale di vizi che si affaccia sulla scena secondo il ritratto canonico della vulgata popolare. Un fiorentino Dante ora personaggio che reclama l'attenzione con un tipico, romanesco 'Aòh'; un Dante sbrigativo che si erge a virgiliano soccorso come da palinsesto, aiutando Teresa non metaforicamente: ' ... come le fu vicino, quello là la prese per un braccio, e, aiutandola a sollevarsi, le fece: "Vieni!", allora a Teresa venne una tremarella e una soggezione che quasi si sturbava, perchè l'aveva riconosciuto' (p. 594). Secondo il dettato letterale che governa la riscrittura, Dante-Virgilio, con funzione di vero coadiuvante narrativo, trae la donna dagli impicci in cui s'è cacciata ('la prese per un braccio [ ... J aiutandola a sollevarsi', p. 594). Cui fa seguito una formula tipica dantesca, l"Allor si mosse e io li tenni dietro' (In! I 136), che in questa rivisitazione trova ancora la sua fonte in Dante che, silenzioso, timoroso, tiene dietro a Virgilio (così Teresa, 'muta come una cella, guardandolo quasi piangendo per la timidezza, gli andò appresso'), in un rapporto che viene a configurarsi come piena urgenza; un Dante che infatti qui incomincia subito 'a pedalare di buon passo, sempre con Teresa dietro come un cane', 'zitto [ ... J con Teresa alle tacche' (e si notino le espressioni colloquiali con cui si sottolinea lo stare dietro di Teresa, la sua assoluta dipendenza), i due 'lesti lesti' per la campagna romana in direzione di un luogo da rivelarsi in seguito Rebibbia.

    Auctoritas in quanto già visitatore dell'oltretomba, Dante diventa il personaggio-guida, sostituendosi a Virgilio. Il 'tema' della guida che tanta importanza avrà nella Divina Mimesis viene qui mostrato di sbilenco, con questa figura archetipa d'intellettuale tra le rovine delle borgate, che mostra la strada (punitiva, penitenziale ma anche di conoscenza) alla prostituta. Il testo si conclude appunto sulla soglia del carcere, per scelta o accidente; la strada che Dante indica non porta a nessun riscatto: nell'incubo di Teresa, il coadiuvante l'indirizza sulla via

    ..-..

  • 155 154 ANDREADINI

    di una Giustizia mondana, borghese e non redentrice, senza annunciare la possibilità di 'tenere altro Viaggio' (I 91). Ecco infatti lo scacco subitaneo che Pasolini prepara allettare allenato: se tutto congiura per una visione (e un viaggio) oltremondano, il viaggio si rovescia invece sulla terra (come sarà nella Divina Mimesis), si compie verso un Carcere forse altettanto terribile, il Carcere di Rebibbia. Un Carcere voluto dalla 'giustizia' (secondo il dantesco 'Giustiza mosse il mio alto fattore': qui borghesizzato). E, con il solito rovesciamento metalinguistico, se di prigione si deve parlare, ecco una prigione immersa nell'oscurità, 'cieca'. li che, per contiguità semantica, non puo' che farci tornare in mente l'appellativo della città di Dite fattone da Cavalcante laddove l'inferno intero è chiamato 'cieco / carcere' (X 58-59). Definizione applicata alla lettera nella Mortacez'a: un carcere è una prigione, e se è cieco, significa che è al buio, senza luce. L'oscurità, in questa narrazione, regna infatti sovrana, e a maggior ragione in questo canto II, che prepara l'equivalenza del canto III di Dante, l'entrata infernale.

    Pasolini cancella qui, col mancato rifacimento del canto II dantesco (il capitale 'lo non Enea, io non Paulo sono'), ogni elemento non solo escatologico, ma esplicitamente 'politico' (ideologico): Teresa non possiede nessuna 'coscienza' - specie di classe -, è Lumpen-Proletariat; e forse è questa mancanza di coscienza che avverte delle ragioni dell'interruzione della scrittura del rifacimento, il vicolo cieco della scelta di una protagonista troppo 'muta', verso invece la necessità di un dialogo (come avverrà nella Mimesis, e come ovviamente avveniva nella Commedia) tra protagonista del viaggio e la sua guida, entrambi accomunati dal medesimo retroterra letterario e, in parte, ideologico.

    La campagna, su cui i due viandanti passano, è 'nera', 'luci accese non ce n'erano', 'neanche la lucetta della Madonnina [... ] era accesa', le cose sono 'inghiottite dall'oscurità', 'non si vedeva una luce' (p. 595 passim). E assieme al buio, la mancanza di suoni, il 'deserto': 'tutto deserto, come disabitato da mille anni', una campagna, ancora cosi precisa nella sua topografia (Casal dei Pazzi, la borgata di Ponte Mammolo, l'angolo di Via Casal dei Pazzi e via Selmi) che, stranita, surrealmente dorme 'il sonno della morte', in cui 'non si sentiva una voce'. E ancora (te

    ~

    UNA COMMEDIA DI BORGATA

    ma introdotto dal canto precedente): 'Adesso era tutto deserto: non si vedeva un'anima: pareva che fossero tutti morti, e che fossero scomparsi da questa terra pure i cadaveri' (p. 595). L'insistenza pasoliniana sul deserto appare capitale, perché in Dante, di nuovo con Sant'Agostino (Enarratzònes in Psalmos, LII 35), il deserto può essere metafora del mondo attuale, deserto del bene, deserto dei valori, in cui abitano le bestie ('Desertum est mundus propter abundatiam mali et inopiam boni. Desertum est cor malum, quia cultum non est, et germinat noxia, et in eo bestiae habitant', Lib. I, tit., CX!). Un'immagine più tardi ricorrente nell'opera di Pasolini (deserto della modernità, segnale della scomparsa dei valori, come ad esempio in Teorema), e qui se ne vuole sottolineare il primo possibile segnale narrativo nonché una probabile fonte di ascendenza dantesca.

    L'approssimazione al Carcere (indicato con la maiuscola, come moderna città di Dite, le cui torri sono 'la garitta delle sentinelle', p. 595), è effettuata come si indicava nel risvolto dantesco nell"aere sanza stelle' (III 23). E anche se priva di quei 'sospiri, pianti e alti guai' (III 22) che (dall'interno) accoglievano il pellegrino Dante, la vista (esterna) dell'entrata del carcere causa le subitanee lagrime di Teresa, in linea, ancora, col poema ('ne lagrimai', III 24); Teresa che anzi 'risponde' alla lettura dell'iscrizione sulla porta di Rebibbia ('Carcere Penitenziario') con la tipica fenomenologia descritta da Dante per le anime dannate nel momento dell' appressarsi al Flegetonte, che 'cangiar colore e dibattero i denti' (III 101) 'forte piangendo' (III 107). Ecco Teresa, allora, che 'si fermò, leggendo e rileggendo quelle parole: e subito la prese il mammatrone, tanto che cominciò a tremare tutta, a non tenersi più, finchè le vennero le convulsioni, si buttò per terra, strappandosi le vesti, piangendo come una ragazzina, perchè sentiva come nel cuore che, da quella prigione, non sarebbe risortita mai più' (p. 596). In questa breve, finale pericope dell'abbozzo pasoliniano è implicata l'eternità della prigionia, la mancanza di speranza causata dall'impossibilità di redenzione ('non sarebber risortita mai più'), tanto che diventa una summula indiretta dell'iscrizione sulla porta dell'Inferno dantesco: di una prigione che dice 'io etterna duro' (III 8) e 'Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'" (III 9).

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    157 156 ANDREADINI

    La mortaccia è capitale per il posto che occupa all'interno della cronologia delle opere dell'autore, come si diceva in apertura, per 1'anticipazione pratica delle teorie sul discorso rivissuto dei personaggi danteschi, sulla 'mala mimesi' o 'coscienza sociologica' in gioco nella narrazione (teorizzazione esplicita che prenderà ancora cinque, sei anni a venire alla luce, in parte forzata dalla polemica su 'Paragone'). Fin dal1'incipit, la narrazione si trova sul piano di Teresa, delle sue possibilità linguistiche, e ricalca fedelmente modi di dire e sintassi tipica del romanesco, con intenzioni parodiche.

    Tuttavia, esaurire il frammento all'interno della parodia sarebbe fuorviante: il testo pasoliniano, come abbiamo mostrato, è anche una lettura critico-interpretativa dei primi canti infernali, e sintomo della necessità di narrare (dantescamente) il mondo contemporaneo.

    Con gli anni '60 inizia a consumarsi in Pasolini una crisi, una progressiva sfiducia verso la storia, la letteratura, la società che in essa si riflette, e Dante, il 'reazionario' Dante, così moralmente intransigente, non può che diventare l'eroe con cui identificarsi in primo luogo ideologicamente, prima che semplice riferimento di sperimentalismo stilistico. Quattro anni soltanto separano i testi della Mortaccia e della Mimesis (1'esperimento di più largo respiro); ma, per la biografia pasoliniana e la storia italiana da essa riflessa, di fatto appartengono a due epoche tra loro non più conciliabili.

    L'agens dantesco, con la sua biografia di auctor e vz'ator, reinterpretato negli anni del boom economico, del consumismo neo-capitalista, non potrà che diventare il modello cui Pasolini tenderà naturaliter. E paradossalmente, non in quanto letterato ma in quanto politico, non per un discorso 'personale' ma per un discorso il più possibile oggettivo, dove 'lingua' e 'lingua letteraria' si confronteranno, smosse da Pasolini, con la drammatica Divina Mimesis, dall'interno della palude neocapitalista. Nella Mimesis, Pasolini si sbarazzerà di personaggi intermediari, come Teresa la prostituta, e si sostituirà al pellegrino Dante, e prenderà ancora se stesso, sdoppiandosi e raddoppiandosi, come novello Virgilio, a ruolo di guida tra le macerie delle speranze del dopoguerra, in una società italiana epitome della società industriale. La passeggiata dantesca l'assumerà

    UNA COMMEDIA DI BORGATA

    adesso in prima persona, come intellettuale italiano che affronta la corruzione del tempo, che sfida se stesso e i propri compromessi (col potere dell'establishment letterario, con la mercificazione della letteratura) e che deve purificarsi, almeno intellettualmente, per sferzare (ancora dantescamente) le coscienze: 'Questo tuo grido farà come vento, / che le più alte cime più percuote; / e ciò non fa d'onor poco argomento' (Par. XVII, 133-135).

    E che quest'epitaffio paradisiaco s'abbia a monito pasoliniano per un'immagine di ciò che la letteratura dovrebbe essere: coraggio e denuncia, con Dante il grande 'esiliato' come corrispettivo del poeta che ha il coraggio di porsi fuori dal 'sistema', che sceglie la via dolorosa della non-integrazione, quando 1'appartenenza al sistema significhi ipocrisia e compromesso, che dunque non possa essere accompagnata da eticità. Pasolini ritrovava se stesso in questa prima grande figura di intellettuale italiano: un Dante anche storicamente inteso e rivissuto come dissidente-modello nelle vicende storico-politiche italiane degli anni Sessanta, del trasformismo e corruzione del Potere e dell'Opposizione, da raccontare nella Divina Mimesis.

    NOTE

    l A. Quondam, A proposito d'idelit/tà nazionale, di Petrarca e di Dante, in Petrarca, l'italiano dimenticato, Milano, Rizzoli, 2004, p. 57.

    2 I tre saggi, raccolti da Pasolini in Empirismo eretico, nel 1972, si leggono adesso in P. P. Pasolini, Saggi sulla lettemtura e sull'arte, a cura di W Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, t. I, pp. 1345-1399. Indispensabili per comprendere il dibattito critico accompagnatosi alla pubblicazione dei saggi le note ai testi (in P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull'arte, cit., t. II, pp. 2946-2955).

    3 Si tengano presente, per questo ri-esame, il saggio seminale di Z. Baranski, The Power 0/ In/luence: Aspects 0/Dante's Presence in Twentieth-Ceutury Italian Culture in 'Strumenti critici' 3 (1986), pp. 343-376 e i contributi di L. Scorrano, Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, Ravenna, Longo, 1994; nel caso di Pasolini, un ritratto complessivo dell'impegno 'dantesco' è stato tracciato da S. Titone, Cantiche del Novecento. Dante nell'opera di Luzi e Pasolini, Firenze, Olschki, 2001.

    4 Cfr. per questa rivisitazione l'intero, notevole volume di A. Quondam, Petrarca, l'italiano dimenticato, cit.

    5 P. P. Pasolini, Intervento sul discorso libero indiretto, cit., p. 1352. l· P. P. Pasolini, La volontà di Dante a essere poeta, cit., t. I, p. 1376. 7 'Prima di tutto, i discorsi diretti di Dante, quelli chiusi tra virgolette, impli

    --l

  • 159

    li il:I

    158 ANDREADINI

    cano una soluzione lessicale d'indiretto rivissuto. Infatti i personaggi non parlano mai come Dante. [ ... J Se i personaggi appartengono alla stessa classe sociale, alla stessa élite intellettuale o cultura specializzata, alla stessa epoca o generazione di Dante, il loro linguaggio non si differenzia da quello dell' autore, come istituzione linguistica. La differenziazione è solo psicologica: e riguarda quindi più lo stile che la lingua. E' un fatto espressivo. Se invece i personaggi appartengono ad altra classe sociale, ad altro mondo culturale, ad altra epoca che quelli di Dante, allora ili',1 loro "parlato" è caratterizzato anche linguisticamente; dal caso estremo in cui un

    III poeta provenzale parla [... J nella sua lingua, ai mille casi in cui si colgono, tra le virgolette del diretto, dei segni specifici di lingue speciali' (P. P. Pasolini, La volontà di

    Ilr Dante a essere poeta, cit., pp. 1376-1377). 8 P. P. Pasolini, Intervento sul discorso libero indiretto, cit., p. 1351. 9 Parte della corrispondenza intercorsa tra Pasolini e Anna Banti, omessa dai

    Meridiani nei Saggi sulla letteratura e sull'arte, cit., si legge in P. P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1988, p. 595. l'I

    lO Pasolini insomma rivendicava la piena liceità di ogni intervento su Dante, quando esso fosse coscientemente vissuto come contributo della 'fortuna' dantesca

    1,Ii,'I,I (intesa come fruizione), e non volesse arrogarsi il diritto dell'assolutezza della let'l' tura unica, paradigmatica. Così veniva peraltro inteso l'impegno dantesco pro

    prio nel cappello introduttivo al suo controverso saggio La volontà di Dante a essere ','1:~ l poeta: 'L:interesse di queste mie note è solo contemporaneistico e italianistico: esse iii

    "

    non sono che un contributo molto particolare alla "fortuna" di Dante in Italia in Il'1 questi dieci, quindici anni (nella letteratura non accademica né specializzata)'. Co

    me ha annotato con pertinenza Guido Guglielmi discutendo le modalità di rice1

    zione di un'opera (dato l'assioma che 'i significati di un'opera si producono a livello

    1

    "1 ,

    I,''l'della ricezione'), 'l'oggetto storico' può sempre definirsi 'in base a due storicità, la"l,I

    'l' storicità dell'oggetto, del momento e del contesto in cui è nato, e la storicità del III contesto in cui il giudizio viene espresso'. 1;esempio fatto da Guglielmi con Dante ,I, può essere utilizzato per il problema del dantismo pasoliniano: 'C'è per es. una let

    tura di Dante fatta da De Sanctis e una lettura di Dante fatta, poniamo, da Eliot. Si potrebbe dire, forse non troppo paradossalmente, che la lettura di De Sanctis è l'attualizzazione di Dante in un certo contesto storico, che ne imponeva, come oggi concordemente si riconosce, una interpretazione realistico-romantica; la lettura di Eliot è una attualizzazione del testo di Dante in un altro contesto, quello delle avanguardie anglo-americane che evidentemente avevano un'altra configurazione storico-sociale e partivano da un'altra idea della realtà e dei correlativi oggettivi dell'esperienza. il senso quindi è prodotto proprio dalla storia. La Divina Commedia è un sistema di segni che si anima e produce un senso in rapporto a un lettore' (G. Guglielmi, Critica e semiologia, in Irollia e negazione, Torino, Einaudi, 1974, pp. 39). E da questo rapporto lettore-testo che sarà necessario partire per apprezzare l'utilizzazione di Dante nelle opere pasoliniane, recuperato sotto aspetti diversissimi e concorrenziali: modello di lingua (perciò, conversamente, di stile); esempio di moralità e profezia, visionarietà. La vitalità della lezione dantesca in Pasolini è lampante, per uso linguistico e adesione ideologica.

    Il P. P. Pasolini, La mala mimesz; in Saggi sulla letteratura e mll'arte, t. 1, cit., p.1390.

    12 S. Vazzana, Il dantismo di Fasolini, in S. Zennaro (a cura di), Dante nella letteratura italiana del Novecento, Atti del Convegno di Studi, Casa di Dante, Roma, 6

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    UNA COMMEDIADI BORGATA

    7 maggio 1977, Roma, Bonacci, 1979, pp. 279-289, passim. Lo studioso metteva altresì l'indice su punti capitali del rapporto tra i due autori, ma si ritraeva poi dall'esplorarli; poteva sì concedere che 'i simboli danteschi' come usati da Pasolini fossero 'perfettamente riferibili ai fenomeni socio-psicologici dell'uomo moderno', e affermare come 'il reale servizio che Pasolini rende a Dante' fosse di 'confermare l'eterna validità di Dante come interprete dell'uomo civile, prima ancora che dell'uomo cristiano' (il che non è affermazione da poco). Pur nel riconoscimento indubbio che 'la scoperta di Dante cresce nell'opera di Pasolini parallelemente col suo impegno di poeta nazional-popolare, con la sua vocazione polemica, col sentimento, che ebbe altissimo, di incarnare la coscienza letteraria e civile del nostro tempo' e che 'il suo accostamento a Dante non è un giuoco letterario, ma un reale bisogno di passione e di stile', la ricognizione critica di Vazzana, arrestatasi su questa soglia generalizzante, privava l'investigazione dei risvolti tematici e delle consonanze ideologiche più emblematiche: di come il messaggio dantesco, altamente politico, e da Pasolini iper-politicizzato, venisse fatto rivivere e risuonare riscritto, parodiato e satirico, nel mondo contemporaneo.

    1J Il testo de La mortaccia si legge adesso in P. P. Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1998, t. I, pp. 591-596. Le citazioni dal testo sono seguite direttamente dall'indicazione della pagina. Per una cronistoria e una parziale analisi filologica del dattiloscritto della Mortaccia, si cfr. le note di Silvia De Laude al tomo II, pp. 1964-1968.

    [4 Le citazioni del testo dantesco provengono da Dante, Commedia, a cura di G. Petrocchi, Milàno, Mondadori, 1966-1967.

    15 La citàzione è riportata parzialmente nell'appendice di note ai testi al tomo II dei Romanzi e racconti, cito p. 1966. Il testo integrale, di quattro cartelle dattiloscritte sul recto è conservato presso il Fondo Pasolini nell'Archivio Contempomneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieussieux di Firenze, nella cartellà siglata 'Alì dagli occhi azzurri'. Per la citazione dal dattiloscritto, si indicà il numero della carta. Si ringraziano Graziella Chiarcossi, erede delle carte di Pasolini, e la direzione del Gabinetto Vieusseux per il permesso di citare dagli scartafacci. Grazie anche a Fabio Desideri per l'attenzione e la gentilezza dimostratami durante la mia ricerca in archivio.