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Michele Minolli
Ricerca Psicoanalitica, 1992, Anno III, n. 2, pp. 119-140.
Setting e autoreferenzialità
SOMMARIO
Le problematiche riguardanti il concetto di setting sono in parte comprensibili perché il setting, in
quanto simbolo semplice, viene a costituire “segno di riconoscimento”, secondo l'interpretazione di
Habermas. Tuttavia esse hanno portato ad un irrigidimento sull'ortodossia e a definire affrettatamente
come psicoterapia psicoanalitica qualsiasi intervento che adotti setting diversi.
Le controversie sui cambiamenti del setting, le difficoltà della psicoanalisi ad inserirsi nelle Istituzioni
pubbliche e la constatazione di autoreferenzialità del modello spingono a chiedersi quale sia la funzionalità
teorica e metodologica del setting, poiché Freud non ha definito il setting e la psicoanalisi ne ha fatto solo
una funzione della teoria.
Ritenendo irrinunciabile l'esplicitazione di una metateoria quale teoria generale, l'Autore propone la
rivisitazione della teoria psicoanalitica alla luce dei dati sperimentali dell’”Infant Research”. Solo in
riferimento ad una teoria psicoanalitica rinnovata, centrata su un soggetto unitario, il problema del setting
acquista una chiara delimitazione metodologica quale “strutturazione di campo”, risultato di contenuti
definiti, stabili e condivisi, a garanzia della tecnica interpretativa e a controllo del pericolo di soggettivismo
e inquinamento inconscio.
SUMMARY
Setting and Psychoanalysis as self-referring pattern
The problems concerning the concept of setting are partly understandable because the setting, as
simple symbol, is an identification mark, according to Habermas. Nevertheless those problems gave rise to
the hardening of the classic psychoanalytic positions. Furthermore any intervention adopting a different
setting was hastily defined as psychoanalytical psychotherapy.
Public institutions make difficulties to introduce psychoanalysis, furthermore it is thought to be based
on a self- referring pattern. As a result we should wonder what is then the theorical and methodological
function of the setting. Freud did not define the setting and psychoanalysis inferred it from the theory.
The Author suggests a review of the psychoanalytical theory in the light of the data tested by “Infant
Research”. With reference to a psychoanalytical theory focused on a single subject, the setting acquires the
function of methodological determination by structuring the field of observation. The setting, composed of
well-determined, stable and shared contents, is the guarantee of the interpretation.
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Per vincere al gioco degli scacchi non esistono regole codificate. Solo per la fase di apertura e di chiusura
esistono indicazioni pratiche.
Quando Freud paragonò le regole dell'intervento psicoanalitico alle regole del gioco degli scacchi (1913,
p.333), limitò logicamente la loro applicabilità all'apertura e alla chiusura dell'analisi, mentre per lo
svolgimento, le regole divennero “consigli” da non accettarsi “incondizionatamente”.
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Habermas in “Teoria dell'agire comunicativo” (1981, p. 567) afferma che “nel concetto di regola sono
uniti i due momenti che caratterizzano l'uso dei simboli semplici: significato identico e validità
intersoggettiva”.
L'applicazione di questa asserzione alle regole psicoanalitiche fatta da H. Thomä e H. Kächele (1985, p.
288) è sconcertante. “Nell'ambito della psicoanalisi ... le regole hanno assunto la funzione di mantenere
stabile la coesione di gruppo. In tale contesto il fatto che tutti gli psicoanalisti seguano le stesse regole
serve come segno di riconoscimento della professionalità. Questo spiega, ad esempio, perché l'uso del
lettino e la frequenza delle sedute siano diventati criteri essenziali per stabilire se un dato trattamento
possa essere definito “psicoanalisi”.
La “validità” intersoggettiva rende invece possibile la “standardizzazione del processo psicoanalitico”
cioè “confrontare dati clinici e generalizzare osservazioni; altrimenti l'analista si limiterà ad osservare e
descrivere fenomeni da un punto di vista casuale. Così, ad esempio,pazienti possono reagire in modi diversi
al lettino o al fatto di doversi sdraiare, ma l'analista ha a sua disposizione un'ampia gamma di esperienze di
tali reazioni e può quindi trarre conclusioni diagnostiche e terapeutiche”.
I simboli semplici, quali sono le regole psicoanalitiche, hanno certamente nel loro stesso esistere questo
potere di segno di riconoscimento e di standardizzazione. Lo sconcertante non è in questo, ma nella
nazionalizzante e quindi deviante giustificazione della fissità delle regole operata dalla istituzione
psicoanalitica e forse ancor prima dal singolo psicoanalista a scapito del sottostante problema teorico e
metodologico.
Lo sconcertante non sta nell'esigenza, comprensibile, di un segno di riconoscimento da parte della
psicoanalisi, ma nell'avere legato l'ortodossia alle regole e avere così allontanato la possibilità di sviluppo
della ricerca psicoanalitica e in generale psicoterapeutica.
1. I dati del problema
Per introdurci alla dimensione teorico-metodologica del setting ritengo utile: 1) ripercorrere
rapidamente le tensioni che, all'interno della istituzione psicoanalitica, il setting ha suscitato; 2)
sottolineare le difficoltà dell'inserimento della psicoanalisi nelle istituzioni pubbliche; infine, spostando
nettamente il livello del discorso, 3) accostare i problemi relativi al setting all'autoreferenzialità.
1.1. Setting e istituzione psicoanalitica.
Da qualche anno a questa parte, specialmente all'interno dell'arca delle lingue romanze, è stato
comunemente adottato il termine inglese di “setting”. Esso tuttavia non gode di uno statuto definito:
mentre letteralmente dovrebbe ricoprire lo spazio concettuale dell' “encuadre” argentino e del “cadre
analytique” francese, il suo uso, nella letteratura, si estende e dilata fino a comprendere, allo stesso tempo,
la situazione analitica nel suo insieme.
Al XX congresso internazionale dell'Associazione psicoanalitica tenutosi a Parigi nel 1957 il panel
“Variations in classical Psychoanalytique technique” fu espressione del gran discutere attorno agli anni
sessanta sulla legittimità o meno di modificare l'ortodossia del setting.
Il problema si era posto, per esempio, con acuità alla pubblicazione del libro “Principi di psicoterapia”
della F Fromm-Reichmann, nel 1950. Winnicott in tutta la sua opera e in particolare nell'articolo “On
Transference” del 1956, suscitò anch'egli reazioni animate, ma meno violente, forse perché distinse
nettamente una fase preanalitica, propedeutica all'intervento classico, nel suo propugnare l'atteggiamento
dello psicoanalista come “madre buona”. Kohut nel teorizzare esplicitamente l'empatia come regola
sostitutiva della neutralità dell'analista si attirò critiche e disappunti non ancora del tutto sopiti. La diatriba
tra ortodossia, legata alla fissità intoccabile della regola, e cambiamento, iniziata con Ferenczi e continuata
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in particolare con i sostenitori delle teorie della Relazione oggettuale, non escluse neppure la figlia stessa di
Freud, Anna.
Non è mia intenzione riscrivere la storia della psicoanalisi adottando come criterio l'ortodossia delle
regole, ma ipotizzare il motivo sottostante la sua significatività storica.
Freud, già nel 1903 in “Il metodo psicoanalitico freudiano”, puntualizzò che l'applicabilità della
psicoanalisi era legittima solo a determinate condizioni. Come poi dirà in “Analisi terminabile e
interminabile” solo l'intervento su un “Io sano o non alterato” è premessa di lavoro psicoanalitico serio ed
efficace.
Di fatto l'intervento psicoanalitico, così come teoricamente e metodologicamente Freud lo ha
strutturato, si è dimostrato inapplicabile alla psicosi, se non addirittura controproducente. È mia
convinzione che l'assurdità logica implicita nel fatto di una teoria e un metodo che si vogliono generali, ma
escludono la loro applicabilità alla psicosi, (Scano, 1985) ha rappresentato e continua a rappresentare la più
profonda e stimolante sollecitazione alla rilettura dell'opera freudiana.
L'applicazione dell'intervento psicoanalitico ai bambini, specialmente ad opera di Anna Freud, e la
disponibilità pionieristica di alcuni psicoanalisti ad inoltrarsi nel mondo della follia conclamata, hanno
rappresentato e continuano a rappresentare la possibilità concreta di approfondimento e di revisione della
teoria e del metodo psicoanalitici. Istituzionalmente invece questo stimolo proveniente dall'allargamento
del campo l'intervento, forse anche perché minaccioso del bisogno dinamico d'identità, da una parte si è
irretito in sterili discussioni sull'ortodossia della tecnica, comprensibili sul versante del “segno di
riconoscimento”, ma deleterie su quello dell'evoluzione della scienza psicoterapeutica; dall'altra si è
creduto di scioglierlo isolando il bronzo della psicoterapia psicoanalitica dall'oro puro dcll'analisi, dando
luogo a filoni di ricerca tra loro scissi e reciprocamente carichi di disprezzo.
Se le discussioni sul setting sono sotto gli occhi di tutti, anche grazie all'utile libro di C. Genovese (1988),
merita soffermarsi sulla psicoterapia psicoanalitica.
Nel 1979 la Turillazzi-Manfredi affermava l'impraticabilità della psicoterapia psicoanalitica per lo
psicoanalista, a sottolinearne la diversità. Nel 1992 O.F. Kemberg scrive: “La psicoterapia psicoanalitica era
abitualmente ritenuta un trattamento di second'ordine. La stima di sé dell'analista che praticava un tale
trattamento piuttosto che un'analisi veniva a soffrirne.” (1992, pp. 501-502).
In sintesi, quando il confronto con obiettivi non previsti (bambini e psicosi) avrebbe dovuto tradursi in
rivisitazione della teoria e del metodo, vista l'aspirazione della psicoanalisi a porsi come teoria generale,
essa si è difesa irrigidendo le regole quale segno di riconoscimento e operando la scissione della
psicoterapia psicoanalitica.
Tuttavia, anche se in modo surrettizio, cambiamento ci fu con la teoria della Relazione oggettuale.
Leggere la patologia come deficit o mancanza invece di risultato della rimozione e intervenire, di
conseguenza, con cure materne, holding e riparazione invece che con l'interpretare è certamente
impostazione metodologica diversa.
Purtroppo questo “cambiamento” confluì fondamentalmente nella psicoterapia psicoanalitica, per il suo
non rispetto delle regole classiche, facendole così perdere il treno di un suo possibile sviluppo scientifico
autonomo.
1.2.Setting e psicoanalisi nelle Istituzioni pubbliche
Parlare di setting e intervento psicoanalitico nell'istituzione pubblica è doveroso per il semplice motivo
che nell'istituzione la psicoanalisi o più precisamente il singolo psicoanalista o lo psicologo o lo psichiatra
con formazione psicoanalitica accetta la sfida del confronto con una realtà patologica non selezionata a
priori dalla teoria e dal metodo.
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Due meritevoli numeri del 1991/92 di “Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale” dal
significativo titolo “Il setting nel lavoro istituzionale” ci facilitano il compito.
Accettando la definizione del setting che M. Ardizzone e L. Carbone danno nell'introduzione, come
“l'insieme delle condizioni formali che nel trattamento assumono carattere di costanti”, tre mi sembrano
essere le direttrici più significative e comuni ai diversi articoli.
Allargamento del concetto di setting.
Nell'istituzione, oltre alle “psicoterapia individuali e di gruppo, le supervisioni e alcune consulenze”,
esistono interventi come “le visite domiciliari, gli interventi in regime di detenzione o di ricovero, le
consulenze alle istituzioni educative, l'erogazione di un sussidio e, più in generale, tutte le risposte
immediate e agite a qualunque manifestazione di bisogno ... cui manca chiarezza nel momento istitutivo, e
che di conseguenza risulta carente proprio sul piano della contrattazione dei limiti e di obiettivi, cioè sul
piano del setting.”
Allora interrogarsi sul setting può essere uno strumento per restituire dignità di pensiero e di progetto a
ciascuno di tali interventi, superando gli splitting istituzionali e recuperando proprio nella dimensione
istitutiva del setting uno degli aspetti fondanti da cui ciascuno di essi dovrebbe essere sotteso” (M.
Ardizzone, L. Carbone, 1991,9, 3, p. 260).
Secondo questi autori, attuazioni di una accezione allargata di setting sono: “Il luogo di Giano”, il
“setting come orizzonte” e il “setting di gruppo”.
La “funzione di Giano”, portiere dell'istituzione e garante della continuità e del collegamento fra dentro
e fuori, è possibile se i “cardini” sono solidi e stabili.
La presenza di un assetto istituzionale esplicito e condiviso dal gruppo di lavoro fornisce all'operatore la
garanzia di costituire un setting dell'incontro, anche in quelle situazioni in cui la gravità clinica richiede
un'azione immediata.” (M. Bacigalupi, P. Bucci, P. Zuppi, 1992, 10, 1, p. 35).
Il “setting come orizzonte”: “Nel trattamento istituzionale di psicotici la funzione di accoglimento
dell'arca simbiotica, cioè il setting, è affidata prevalentemente all'istituzione, mentre al rapporto duale è
affidato il compito di promuovere gli aspetti trasformativi della terapia.” (F. Lupacchioli, O. Filograna, F.
Lombardi, 1991, 9, 3, p. 352).
Il “setting di gruppo” per i pazienti psicotici cronici: “Ci siamo chiesti se non fosse insufficiente attivare
un'area di trattamento che funzionasse solo come apparato di supporto ... e ci è sembrato che fosse
necessario costituire un luogo mentale, il setting di gruppo, che consentisse di tenere insieme la presenza
di aspetti concreti e bisognosi del paziente con quelli simbolici.” (F.M. Candidi, C. Levato, 1992, 10, 1, p. 60).
Il setting come fattore terapeutico.
Che la concreta strutturazione di una situazione abbia un'incidenza e un'incidenza specifica relativa alla
strutturazione data, non può essere oggetto di dubbio. Altra cosa è però sostenere che questa incidenza
abbia, in quanto tale, valore di strumento, che abbia cioè potere terapeutico.
Alcune affermazioni in questo senso sono a se stanti, autonome.
Il dispositivo pratico del setting si caratterizza costituzionalmente per il fatto di mantenere una proficua
ambiguità tra vecchio e nuovo, tra familiare e “uneimlich”. Il setting deve fornire stimolo costante e
riconoscibile a questa ambiguità per funzionare da motore e da dipanatore del “transfert” (A. Seganti,
1992, 10, 1, p. 12).
“Le caratteristiche spaziali e temporali del setting consultoriale si configurano nella nostra ipotesi, non
soltanto come le condizioni formali di un processo che vi avrà successivamente luogo, bensì anche come
una Gestalt significativa che interagisce con la specifica problematica” (F. Ferraro, D. Petrelli, 1991, 9, 3, p.
286).
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La maggior parte invece esprime chiaramente una dipendenza dalla concezione winnicottiana del
setting . “L'importanza del setting non viene meno: ciò che cambia è la funzione che gli si attribuisce; da
semplice cornice della relazione a funzione attiva del processo. È con Winnicott che questo processo di
rinnovamento teorico-clinico raggiunge un decisivo sviluppo” (F. Lupacchioli, O. Filograna, F. Lombardi,
1991, 9, 3, p. 341).
“La somministrazione delle cure da parte della madre assume un valore maturativo per lo sviluppo
psichico del bambino solo a condizione che esse siano espressione di quello che Winnicott (1958) definisce
preoccupazione materna primaria e che consiste essenzialmente nell'avvertire, di volta in volta, la
necessità, e nel condividere emotivamente l'urgenza di quelle pratiche che pure sono già previste nelle loro
modalità e nel loro ritmo... L'alternativa a ciò è l'uso ritualistico delle regole attraverso l'adesione estrinseca
ad un cerimoniale stereotipato.” (C. Genovese, 1991, 9, 3, p. 278).
Modificabilità del setting.
“Inalterabilità del setting” e “preoccupazione materna primaria” non si presentano come facilmente
conciliabili. Per questo ci si sarebbe potuto aspettare un'affermazione più esplicita della modificabilità del
setting di quanto in realtà non avvenga, specialmente da parte di operatori che, lavorando in istituzioni
pubbliche, hanno certamente a che fare con patologie e condizioni di intervento difficili.
L'unico articolo che invece esplicitamente afferma la modificabilità del setting è l’”introduzione” ai due
numeri della rivista.
“Pensare come fa Codignola, alla variabilità del setting anche come funzione del progressivo sviluppo
dell'Io significa dotarsi di un sano e utile imperativo euristico, in base al quale adattare, nel senso più
pregnante del termine, le condizioni materiali del lavoro istituzionale ai continui mutamenti e al processo
evolutivo che tale lavoro innesca, senza mai perdere di vista questo nesso, ed evitando pertanto rigidità e
schematismi “buoni per sempre”, e dunque poveri di senso.” (M. Ardizzone, L. Carbone, 1991, 9, 3, p. 262).
Se “variabilità del setting”, nonostante l'evidenza della frase in cui è inserita, può non essere
univocamente interpretabile, potendosi trattare di una “variabilità” riferita ai diversi modelli teorici,
l'affermazione seguente non lascia alcun dubbio. “In quanto frutto di una contrattazione significativa il
setting è rivedibile e ricontrattabile, l'aver condiviso il momento istitutivo permette a qualsiasi
cambiamento in itinere di diventare significativo.” (M. Ardizzone, L. Carbone, 1991, 9, 3, p. 262).
Dobbiamo riconoscenza ai volonterosi che si propongono, in Italia, di confrontare la psicoanalisi con la
variegata realtà delle istituzioni pubbliche, anche se questa meritevole ed utile operazione non è retta da
interna libertà di ricerca e da sufficiente riflessione teorico-metodologica.
Se così non fosse non assisteremmo alla paradossale fusione tra le figure dello psicologo clinico e dello
psicoterapeuta facendo passare la professionalità di entrambi attraverso il setting. Certo lo psicologo clinico
non ha, ancora oggi, specialmente a livello sociale, uno statuto professionale, riconosciuto e definito e, se è
giusto che lo abbia, non può essere la psicoterapia a fornirgliene uno.
Capisco l'adozione sistematica e generalizzata, nelle istituzioni, dell'approccio winnicottiano alla psicosi,
se non altro per la significatività che dà al ruolo dell'operatore, ma la consuetudine dell'adesione a questo
modello non esprime un deficit istituzionale, forse più che personale nei confronti del prendersi cura
seriamente della malattia mentale?
In effetti, dare potere terapeutico al setting e modificarlo in funzione dell'evolvere dell'Io viene a
codificare più un seguire e dipendere dalla patologia che un porsi attivi nei suoi confronti per “curarla”.
1.3. Setting e autoreferenzialità.
Nella relazione finale della Commissione Ministeriale istituita il 20/2/1990 e presieduta da M. Bertini per
“approfondire i problemi connessi al riconoscimento giuridico degli istituti privati operanti nel settore della
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formazione e all'addestramento in psicoterapia” viene giustamente messo in luce il problema
dell'autoreferenzialità. Dopo aver precisato, nella premessa teorica, che per psicoterapia si può anche
intendere in senso generico “terapia con procedure psicologiche” (ma non sarebbe meglio allora trovare un
altro nome?), viene precisato che “in senso specifico” psicoterapia è “terapia caratterizzata dall'uso di
procedure psicologiche, scientificamente valide e acquisite attraverso un iter formativo specifico”.
Questa formazione specialistica viene attualmente, in Italia, demandata da parte dello Stato alle scuole
private e alle scuole universitarie.
Ora, mentre nell'ambito pubblico “l'esperienza con i problemi posti dall'utenza ha fatto più chiaramente
emergere un orientamento eclettico-integrativo” dando luogo a “interventi che è possibile ricondurre,sia
pure in senso lato, all'ambito psicoterapeutico”, “nell'ambito della cultura delle scuole private si sono
affermate una serie di tecniche fondate su modelli teorici differenti, di varia consistenza scientifica,
caratterizzati peraltro dalla tendenza all'autoreferenzialità, nel senso di porsi sostanzialmente o
prevalentemente come autoconclusi, con scarsa propensione all'interazione o al confronto con modelli e
tecniche terapeutiche differenti.”
Invece di addentrarsi nel sotteso, evidente significato epistemico dell'autoreferenzialità, la Commissione
ha preferito sottolinearne le conseguenze pratiche: non finalizzazione “al trattamento di problemi,
socialmente condivisi nella loro definizione”, non apertura “alle esigenze particolari della domanda
pubblica”, non “interazione, confronto con modelli differenti.” Per questo, forse, la soluzione che la
Commissione propone per il superamento dell'autoreferenzialità va nella linea dell'eclettico-integrativo.
“La ricerca scientifica a livello internazionale è andata proponendo possibili integrazioni tra i modelli,
non solo nel senso di un eclettismo terapeutico, ma anche nel senso dell'individuazione di fondamenti
comuni.”
Per il raggiungimento di questo obiettivo la Commissione confida nell'adozione da parte delle scuole
private di due strumenti concreti, anche se imposti: il tirocinio presso un Ente pubblico e l'insegnamento di
conoscenze di base.
“La Commissione ritiene fondamentale la presenza, nei progetti di formazione delle Scuole private, di un
congruo numero di ore dedicato ad esperienze di tirocinio, con supervisione, da effettuarsi presso strutture
idonee dell'Ente pubblico. Al di là della sua evidente utilità pratica, l'effettuazione del tirocinio con
supervisione, nel contesto dell'iter formativo, appare particolarmente idonea a favorire lo sviluppo del
singolo modello, dalle sue prerogative - per così dire autoreferenti - verso una capacità di risposta alle
esigenze particolari della domanda pubblica.”
“La Commissione ritiene inoltre essenziale proporre l'introduzione, nel curricolo formativo, di
conoscenze generali di base che facilitino il confronto con modelli diversi e la valutazione critica dei
medesimi.”
Anche se l'eclettico-integrativo va oggi molto di moda, l'osservazione, estremamente pertinente, da
parte della Commissione di autoreferenzialità nei riguardi delle Scuole private, compresa quindi la
psicoanalisi, credo meriti ed esiga un approfondimento diverso. L'autoreferenzialità, a mio parere, almeno
per quanto riguarda la psicoanalisi, trova la vera spiegazione nel “legame inscindibile” freudiano.
Scrive Freud: “Nella psicoanalisi è esistito fin dall'inizio un legame molto stretto (nell'originale tedesco
“inscindibile”) tra terapia e ricerca; dalla conoscenza è nato il successo terapeutico e, d'altra parte, ogni
trattamento ci ha insegnato qualcosa di nuovo; parimenti ogni nuovo elemento conoscitivo è stato
accompagnato dall'esperienza dei benefici effetti che da esso potevano derivare. Il nostro procedimento
analitico è l'unico a conservare gelosamente questa preziosa coincidenza.
Soltanto se esercitiamo nella pratica la nostra cura d'anime analitica, riusciamo ad approfondire le
conoscenze sulla vita psichica umana balenateci appena. Tale prospettiva di un tomaconto scientifico è
stato il tratto più eminente e più lieto del lavoro analitico.” (S. Freud, 1926, p. 422).
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Freud afferma, cioè, un legame inscindibile tra terapia e ricerca, dando così luogo al circolo vizioso di
una pratica che partorisce direttamente teoria e di una teoria che trova convalida esclusiva nella stessa
pratica.
Questa visione epistemica, comune a tutta la psicoanalisi, è stata ancora recentemente ribadita da
Kohut: “Nella maggior parte delle scienze c'è una separazione più o meno chiara tra l'area dell'applicazione
pratica, empirica, e quella della costruzione dei concetti e della teoria. Nell'analisi, tuttavia queste due
aree... si fondono in unità funzionale singolare.”
La conseguenza è la tendenza ad associare in modo unico la ricerca della cura e quella della conoscenza,
l'efficacia con la verità.
Inevitabilmente questo modello ha mantenuto e mantiene tutt'ora la psicoanalisi in una prospettiva
teorica di giustificazione reciproca della propria teoria e della propria pratica, chiudendola in una spirale
autoconclusa in cui, per esempio, le domande senza risposta alla psicosi non possono entrare. Tirocinio e
informazione possono essere occasioni di “stimolo critico” e di “confronto”, ma tanto più potranno
diventarlo se a monte saranno esplicitati e approfonditi i criteri epistemici fondanti i vari modelli.
La considerazione di autoreferenzialità nei riguardi della psicoanalisi solleva in pratica il problema del
rapporto tra teoria e metodo. Con questo non voglio dire che le scuole universitarie con la separazione tra
formazione e informazione e l'estensione dell'informazione ai differenti modelli esistenti abbiano risolto il
problema della psicoterapia.
Nessuna teoria psicoterapeutica, nella misura in cui non può non tentare di essere una teoria generale,
può chiudersi nel ghetto dell'autoreferenzialità, perché questo dà luogo al circolo vizioso dell'autoconvalida
ed elimina il confronto empirico con il reale in quanto potenzialmente disconfermante.
2. Setting. teoria e metodo.
La storia psicoanalitica, riferita al setting, il rapporto tra psicoanalisi e istituzioni, il dato
dell'autoreferenzialità, rendono necessaria una riflessione sui legami tra teoria e metodo in generale e tra
teoria e metodo psicoanalitici in particolare, per poter poi inquadrare il problema del setting.
Nei cento anni di storia della psicoanalisi si può dire che ci siano stati cambiamenti: da Ferenczi a
Winnicott, da Fairbaim a Kohut, teoria e tecnica hanno subito modifiche anche radicali.
“Tuttavia - scrivono Thomä e Kächele (1985, p. 455) - gli sviluppi reciprocamente dipendenti non devono
essere intesi nel senso che tecnica e teoria si promuovono a vicenda in modo tale che il progresso comune
renda la teoria più vera e la tecnica più efficace.”
Questo equivale a dire che una teoria generale costruita con il”metodo clinico” non può non cadere
nella trappola della autoconvalida.
“Dobbiamo riconoscere che in psicoanalisi la differenziazione tra il contesto della scoperta e il contesto
della giustificazione costituisce un problema che non è mai stato affrontato.” (Thomä e Kächele, 1985, p.
456).
Staccare le regole del setting dalla loro storica dipendenza dalla teoria è intervenire sulla portata del
“metodo clinico” nella costruzione della teoria e nello stesso tempo slegare la giustificazione della teoria
dal”clinico”. Questa impostazione ha aperto e apre però un problema profondo: su quali basi allora fondare
la teoria? Ha ancora senso parlare di metapsicologia? Non sono forse più gli inconvenienti che i vantaggi del
mantenimento di una teoria generale?
Vediamo la soluzione che Thomä e Kächele propongono nel capitolo finale “La relazione tra teoria e
pratica” del loro Trattato di terapia psicoanalitica.
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Esiste un sapere descrittivo e classificatorio, un sapere causale e un sapere terapeutico relativo al
cambiamento. La domanda è in che relazione stanno, in particolare, il sapere causale con il sapere
terapeutico.
Dopo aver preso le distanze dal “presupposto della continuità” in base al quale “la comprensione
corretta di qualcosa va di pari passo con la capacità di produrlo”, essi adottano la teoria di Bunge (1967)
che, negando la possibilità di dedurre il sapere terapeutico dal sapere causale, fonda la conoscenza
terapeutica tramite le teorie tecnologiche o tecnologie.
Le teorie tecnologiche sostanziali e le teorie tecnologiche operative devono e possono assicurare:
- l'utilità pratica. “Il tratto caratteristico della tecnologia psicoanalitica è senza dubbio l'interpretazione”
che non è fatta “per i testi, ma per i pazienti con aspettative di guarigione”. “Per questo gli psicoanalisti
dovrebbero tenere un piede nel circolo ermeneutico confrontandolo con la domanda sulla prova empirica
del cambiamento”;,
- l'esattezza della spiegazione tecnologica. “Il fattore che deve essere spiegato e motivato è la
connessione tra la condizione stabilita dall'analista (per esempio tramite l'interpretazione), e l'effetto che
ha sul paziente (reazione). In questo modo “le tecnologie psicoanalitiche possono avere due aspetti. Da un
lato (quello della spiegazione) possono essere trattate come scienze pure, e dall'altro (quello della
generalizzazione) continuano ad essere teorie di scienze applicate, che si spera possano avere un'utilità ed
un'efficacia pratica. La realizzazione dei requisiti delle scienze pure non è una condizione necessaria né
sufficiente per soddisfare le esigenze delle scienze applicate e viceversa”.
La posizione di Thomä e Kächele, essendo molto articolata, presenta una certa difficoltà ad essere
sintetizzata, tuttavia mi sembra di poter accostare la loro soluzione alla riduzione della teoria psicoanalitica
alla teoria clinica operata da M. Gill, G. Klein e altri.
Quando, a seguito dell'opera di formalizzazione della teoria psicoanalitica operata da D. Rapaport e del
Convegno sui rapporti tra psicoanalisi ed epistemologia tenutosi a New York nel 1958, venne decretata la
“morte della metapsicologia”, alcuni autori decisero che non c'era bisogno di perdere tempo a cercare di
resuscitarla, ma di doveme fare a meno ritenendo la “teoria clinica” sufficientemente equipaggiata.
È vero che, sia il Convegno di New York sia gli approfondimenti di Rapaport hanno fatto esplodere le
incongruenze e le aporie della metapsicologia, ma questo non è motivo sufficiente per eliminare l'esigenza
e la necessità di una teoria generale. (D. De Robertis, 1990)
Anche se questo viene a rappresentare una rottura con l'impostazione classica dell'unitarietà freudiana
tra teoria e metodo clinico, credo che la soluzione non possa essere cercata nella mortificazione della teoria
generale, rassegnandosi poi, di fatto, alla sola teoria tecnologica o teoria clinica, ma nella ricerca di basi
sperimentali, staccate dal “clinico”, per fondare la teoria generale.
Nella direzione dello straordinario lavoro di approfondimento di Rapaport, diversamente dai sostenitori
della sufficienza della teoria clinica e della teoria tecnologica, sostengo quindi che:
- teoria, metodo e tecnica sono tutti e tre requisiti indispensabili per la psicoanalisi, se essa si vuole
teoria psicologica generale e metodo di cura;
- teoria e metodo sono tra loro strettamente collegati, indicando la teoria il legame che, unendo le varie
tecniche, forma il metodo;
- la costruzione e la giustificazione della teoria va operata sui dati della ricerca sperimentale e non sui
dati clinici;
- la tecnica è direttamente dipendente da teoria e metodo nella sua specificità di strumento operativo;
- la tecnica va verificata non sulle semplice utilità o efficacia , ma sulla qualità teorica dei risultati.
Rapaport, mettendo in luce (M. Minolli, 1990) quanto il metodo relazione interpersonale portato alle
sue estreme conseguenze” fosse strettamente dipendente e coerente con la teoria “rimozione del ricordo
pulsionale”, apri la strada alla crisi non solo della teoria, ma anche del metodo freudiani.
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Purtroppo non è esistito un Rapaport che facesse esplodere il metodo del “maternage” strettamente
dipendente dalla teoria del “deficit” delle teorie della Relazione oggettuale, ma ce ne sarebbe stato
bisogno.
Per la costruzione e la giustificazione di una diversa “metateoria”, oggi siamo nella situazione favorevole
di avere a disposizione e potere utilizzare la massa non indifferente di dati ottenuti dall’”Infant Research”
col metodo sperimentale.
Utilizzando questi dati, possiamo sostenere che dato centrale di una nuova teoria possa essere il
tendere dell'organismo umano a costituirsi attivamente in unità sistemica, attraverso la fase della
Soggettualità basata su coscienza diretta e, dopo i diciotto mesi, la fase dcll'identità basata su coscienza
riflessa. (M. Minolli, 1992)
In campo psicologico, ambito di costituzione dell'unità sistemica è l'interazione organismo-ambiente per
la Soggettualità e Soggetto-ambiente per l'Identità.
La patologia fondamentalmente riguarda l'unità d'identità e quindi la coscienza riflessa.
Il metodo, di conseguenza, dovrà finalizzare la tecnica alla riattivazione della coscienza riflessa, bloccata
dal rifugiarsi difensivo in un'identità inconscia alternativa al possibile risultato interazionale.
La tecnica nella sua strumentazione dovrà quindi essere validata per la sua utilità ed efficienza nel
riattivare la qualità della coscienza riflessa e non per il raggiungimento di risultati non stabiliti dalla teoria
generale.
Il discorso sui rapporti tra teoria, metodo e tecnica dovrebbe essere sempre tenuto presente quando si
riflette sul setting. La teoria e il metodo sono in realtà il vero problema. Solo una teoria generale sganciata
dalla giustificazione “clinica” permette un setting rapportato al metodo invece che alla teoria, con la
significativa conseguenza di spezzare il cerchio vizioso dell'autoreferenzialità.
Occuparsi del setting senza inquadrarlo precedentemente nell'ampio discorso della scientificità della
psicoanalisi o in generale della psicoterapia, è come asciugare l'acqua sul pavimento senza chiudere il
rubinetto.
3. Per un setting come strutturazione di campo.
Il gioco degli scacchi, come qualsiasi gioco, presenta due tipi di regole: quelle del gioco, che per gli
scacchi sono i movimenti particolari che ogni pezzo può compiere sulla scacchiera e quelle del giocare che,
come abbiamo visto, più che regole sono indicazioni riguardanti soprattutto l'inizio e la fine.
Anche per il “gioco” psicoanalitico esistono due tipi di regole: quelle del gioco e quelle del trattamento.
La tecnica psicoanalitica, ma probabilmente qualsiasi tecnica psicoterapeutica fondata scientificamente,
presenta due aspetti tra loro collegati da un rapporto preciso e puntuale: quello dell'intervento, dell'azione
terapeutica, del fare terapia e quello del quadro, dello scenario, come suggeriva C. Musatti, o della cornice
all'interno del quale l'intervento ha luogo.
A scioglimento dell'ambiguità che il termine setting ha di fatto assunto nella letteratura, visto che viene
usato confusamente sia per le regole del “gioco” sia per le regole del trattamento, propongo di denominare
“strutturazione di campo” le regole del “gioco” e semplicemente “tecnica d'intervento” le regole del
trattamento.
È possibile formulare un criterio di demarcazione netto tra strutturazione di campo e tecnica
l'intervento: tutto ciò che viene utilizzato come strumento per incidere sul processo terapeutico fa parte
della tecnica d'intervento, mentre la strutturazione di campo è solo una funzione del metodo, di per sé
priva di qualsiasi portata terapeutica.
Non possiamo qui approfondire e inquadrare il discorso sulla tecnica d'intervento, ma solo affermare, in
corrispondenza con una precisa impostazione teorica e metodologica che, sia per la nevrosi sia per la
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psicosi, strumento privilegiato del trattamento psicoanalitico è l'interpretazione processuale delle modalità
relazionali, delle strategie inconsce e dell'identità inconscia in contrappunto con l'interpretazione della
resistenza.
Soffermiamoci invece sulla strutturazione di campo considerandone i contenuti, le caratteristiche e il
suo essere funzione del metodo.
3.1. I contenuti della strutturazione di campo
Un gruppo di studio dell'Istituto Sigmund Freud di Francoforte ha elencato 249 indicazioni tecniche
presenti nell'opera freudiana. (Thomä e Kächele, 1985, p. 288)
A parte il fatto che Freud non si è occupato della funzione metodologica della strutturazione di campo,
certamente esse non sono tutte indicazioni di contenuti per la costituzione di un campo strutturato.
Solo Glover ha avuto l'idea di far circolare un questionario per scoprire le pratiche ed abitudini dei
colleghi inglesi, sfociato poi nel suo decalogo, comprendente: numero di sedute settimanali, durata della
seduta, questione dell'ora fissa o variabile dell'appuntamento, numero e durata delle interruzioni festive,
onorario, metodo e tempo di pagamento, problema delle sedute cancellate, metodo preferito per le
comunicazioni di emergenza fra analista e paziente. (Glover, 1940)
I problemi legati alla strutturazione di campo sono di due tipi: l'identificazione dei contenuti della
strutturazione e la loro generalizzabilità.
Il problema della generalizzazione nasce solo nel caso si ritenga utile adattare i contenuti della
strutturazione di campo alle diverse patologie o alle differenti situazioni. Solo allora nascerebbe un
problema di standardizzazione e un problema di “segno di riconoscimento”.
Qualora si mantenga invariata la stessa strutturazione di campo per tutte le patologie e per tutte le
situazioni non ci sono problemi per la standardizzazione.
Per quanto riguarda i contenuti operiamo una distinzione tra contenuti generali e contenuti specifici,
entrambi comunque necessari alla strutturazione di campo.
I contenuti generali, che ipotizzo comuni ai vari modelli di intervento psicoterapeutico, riguardano il
dove, il quando, per quanto tempo dura la seduta, il chi, il quanto costa e le modalità di pagamento per chi
lavora privatamente. Il pericolo nei confronti dei contenuti generali è che vengano ritenuti, per la maggior
parte, ovvi.
La significatività dei contenuti non è data dal loro contenuto, bensì dall'essere inseriti nella
strutturazione di campo. Il paziente che chiede, in estate, di fare la seduta sul lungomare, non chiede una
cosa assurda. E magari farebbe piacere anche all'analista che non ha l'aria condizionata. Se però il “dove”,
studio dell'analista, è stato inserito nella strutturazione di campo la richiesta del paziente può diventare
oggetto doveroso e giustificato di approfondimento e quindi d'interpretazione. Altrimenti la decisione sarà
inevitabilmente risultato dell'inconscio del paziente e dell'analista a scapito del lavoro interpretativo.
I contenuti specifici riguardano l'aspetto peculiare del tipo d'intervento terapeutico che viene proposto
ed accettato.
Esempi di comportamenti specifici sono: la regola fondamentale; la regola dell'astenersi dall'agire; la
regola della restituzione dei contenuti interseduta riguardanti l'analisi; la regola della verifica esplicita delle
decisioni con importanti ripercussioni reali.
Caratteristica dei contenuti specifici è che non hanno margine di contrattazione. Essi, infatti, sono
specifici dell'intervento richiesto e proposto. Se, paradossalmente, un paziente non accettasse e
condividesse in partenza di inserire il libero associare nella strutturazione di campo, non sarebbe possibile,
in quel momento, fare un intervento psicoanalitico. Per l'inserimento dei contenuti specifici nella
strutturazione di campo è sufficiente, ma necessaria, l'accettazione, anche se accompagnata da paura o
pretesa incapacità.
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3.2. Le Caratteristiche della strutturazione di campo.
Se la strutturazione di campo è funzione del metodo, per poter raggiungere il suo obiettivo, i suoi
contenuti, siano essi generali o specifici, devono essere definiti, condivisi e stabili.
Indipendentemente da quali contenuti generali l'esperienza consiglierà e da quali contenuti specifici la
teoria e il metodo indicheranno, per strutturare il campo i contenuti devono essere definiti. Definito non si
riferisce al contenuto in quanto tale, ma al suo essere quello e non altro, al suo essere enunciato ed
esplicitato con chiarezza e non ipoteticamente o possibilisticamente: “Il lunedì e il giovedì alle 17, nel mio
studio”.
Quale funzione di strutturazione può avere un appuntamento preso sull'aleatorio? Il contenuto
utilizzato per la strutturazione di campo va presentato in modo non equivoco né possibilistico, ma univoco
e definito.
Oltre che definiti, i contenuti della strutturazione di campo, dovranno essere condivisi. Condiviso
significa semplicemente che il paziente lo deve conoscere e accettare quale condizione sine qua non per
iniziare il trattamento strutturato in quel modo. Anche J. Bleger (1967) in un ottimo articolo, se pur con una
impostazione diversa dalla nostra, accenna al fatto che il setting debba essere “accettato coscientemente
dal paziente”. L'accettazione o la condivisione del paziente è certamente limitata al significato manifesto e
reale dei contenuti, ma questo è sufficiente per avere un criterio comune e oggettivo cui fare riferimento.
Se i contenuti non fossero condivisi, ma rimanessero di esclusiva conoscenza dello psicoanalista, quale
criterio interno di riferimento, nascerebbe il problema di sapere chi ha ragione. Solo una strutturazione di
campo condivisa e comune ai due poli relazionali tiene sotto controllo l'introduzione del soggettivismo,
altrimenti inevitabile nella relazione.
Nei confronti del campo strutturato, paziente e analista devono essere uguali. Certo è vero che
l'analista, essendosi sottoposto ad analisi didattica e supervisione, si situa ad un livello di funzionamento
soggettuale e d'identità diverso, ma, metodologicamente, questo non è pertinente. Solo una strutturazione
di campo, logico risultato di contenuti definiti e condivisi, funziona da garante.
Trovo molto rischioso oltre che ingiusto eticamente e scorretto metodologicamente, concettualizzare il
“setting interno”, “la struttura interiore” e “il setting dcll'analista” allo stesso livello di riferimento della
strutturazione di campo.
La stabilità è forse la caratteristica più necessaria, ma anche, nel clima di confusione teorica attuale,
quella più trascurata, criticata e concettualmente combattuta. Stabilità significa che i contenuti generali e
specifici inseriti in una strutturazione di campo non possono essere cambiati nel corso del suo svolgimento.
Se, infatti, il campo non è mantenuto stabile, non solo l'osservazione non ha garanzie oggettive, ma il
patologico diventa invisibile perché assecondato.
Thomä e Kächele (1985, p. 333) affermano che l'esempio della preparazione del vetrino al microscopio”,
a esprimere la strutturazione di campo, “denota un equivoco fondamentale”, perché trascurare i “significati
individuali che assumono le procedure esterne è fuorviante”.
Ma non si può confondere i virus scoperti proprio grazie alla preparazione del vetrino con le “procedure
esterne”. Sono proprio i significati individuali, come i virus, che ci interessano e non potranno essere
scoperti senza un campo strutturato stabile, condizione indispensabile per coglierli e seguirne l'evoluzione.
A esemplificare la necessità metodologica di una strutturazione di campo con contenuti definiti,
condivisi e stabili, mi permetto di rileggere un esempio di Bleger (1967): “In una supervisione, un collega
presentò l'analisi di un paziente al quale da vari anni interpreta la nevrosi di traslazione; ciononostante
permanevano una cronicizzazione e un'inefficacia terapeutica, per cui egli decise di portarlo al controllo. Il
paziente “rispettava” il setting e in questo senso “non aveva problemi”, associava bene, non aveva acting e
l'analista interpretava bene (sulla parte che interpretava). Ma paziente e terapeuta si davano del tu perché
così aveva proposto il paziente all'inizio dell'analisi (ed era stato accettato dal terapeuta). L'analisi della
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controtraslazione durò parecchi mesi, finché il terapeuta non fu indotto a rettificare l'uso del tu, dando al
paziente l'interpretazione di quello che accadeva e di quello che si nascondeva dietro l'uso del tu.
L'abbandono del tu, con la sua analisi sistematica, rese evidente la relazione narcisistica, il controllo
onnipotente e l'annullamento della persona e del ruolo del terapeuta, immobilizzati nell'uso del tu”.
È possibile, quanto afferma Bleger: “Nel proporre il tu, il paziente aveva imposto il “proprio” setting
sovrapponendolo a quello dell'analista, ma in realtà eliminando quest'ultimo”. Solo che questa
affermazione di Bleger si riferisce al setting interno dell'analista o del supervisore, infatti aggiunge: “Io so
che l'analista non deve accettare di dare del tu al paziente”.
Non possiamo essere sicuri che sia stato l'abbandono del tu, sia pure analizzato sistematicamente, a
rendere evidente “la relazione narcisistica, il controllo onnipotente e l'annullamento della persona e del
ruolo del terapeuta”. Potremmo dire il contrario con altrettanta plausibilità, e cioè che l'abbandono del tu
sia stata una massiccia operazione difensiva, da parte dello psicoanalista, dei propri desideri inconsci di
annullamento in una relazione narcisistica.
In effetti, o il tu era stato inserito nella strutturazione di campo e allora il suo “abbandono” ha
rappresentato un acting in dell'analista, o il tu era espressione del setting interno dell'analista o peggio del
supervisore e allora le due interpretazioni, quella di Bleger nei riguardi del paziente e la nostra nei riguardi
dell'analista potrebbero essere egualmente valide.
Solo un contenuto espressamente condiviso, definito e stabile come elemento della strutturazione di
campo può stabilire l'oggettività di una interpretazione.
3.3. La strutturazione di campo come funzione del metodo.
Nella letteratura psicoanalitica, a cominciare da Freud, i contenuti generali e specifici del setting sono
stati pensati e sono tuttora pensati come funzione della teoria. Alla teoria è stato demandato, prima o dopo
la loro codificazione, di pronunciarsi sul numero delle sedute, sul lettino, sulla neutralità dell'analista, ecc.
In dipendenza dalla giustificazione teorica, le “regole” sono poi diventate rigide ed intoccabili assumendo di
conseguenza anche un potere ideologico e dinamico di segno di riconoscimento. In altre parole il concetto
di setting come funzione del metodo non è presente nella psicoanalisi. Le storiche discussioni
sull'ortodossia o meno delle regole hanno sempre avuto come motivazione la loro corrispondenza con la
teoria o la necessità clinica di cambiamenti terapeutici, ma non la prospettiva metodologica.
La domanda che mi pongo, partendo da questa constatazione, è come mai Freud non si è mai
interessato al concetto di setting e la psicoanalisi non ha mai raccordato setting e metodo.
La risposta, a mio parere, va cercata in due direzioni: nella tematica del “legame inscindibile” e
“premesse ontologico-epistemiche” (N. Duruz, comunicazione personale).
Le premesse ontologiche ed epistemiche sono premesse che funzionano da opzioni di base o scelte a
monte di ogni razionalità cosciente. Rapaport (1944-1948) parlava di “formulazioni chiamate postulati,
assiomi, ipotesi da cui ogni scienza parte dandoli per scontati”.
È molto delicato introdursi in questo ambito perché di esso fanno parte evidenze teoriche e scelte
personali. Alcune di queste premesse o postulati dell'opera freudiana mi sembrano tuttavia facilmente
sintetizzabili: il funzionamento umano e di tipo quantitativo, idraulico, biologico; il desiderio sessuale, il
pulsionale, l'Es sono il determinante ultimo e unico del comportamento; curare è intervenire su un
“guasto” meccanico o su “un'ostruzione” idraulica.
Se queste sono le premesse o presupposti di Freud, diventa logico e coerente non porsi il problema della
strutturazione di campo. Fondamentalmente il quantitativo da una parte e il meccanico dall'altra
dispensano dal tenere conto della qualità del sistema e del rispetto delle sue soluzioni storiche, se pur
patologiche. Non può, per mancanza di spazio logico, emergere cioè l'esigenza di un “terzo” che garantisca
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e controlli l'intervento perché l'assolutizzazione dell'intervenire e la quantificazione del comportamento
comporta a priori ogni autorizzazione e giustificazione.
Il circolo vizioso del legame inscindibile ha chiuso a doppia mandata la ricerca psicoanalitica
nell'esclusivo rapporto tra teoria e clinica. Deducendo le regole del setting solo dalla teoria, inevitabilmente
il dato clinico viene ad essere inquadrato, tagliato e colto a priori sul versante della teoria acquistando un
automatico potere di conferma.
Così il dato clinico si trova ad essere depauperato della sua “oggettualità” e ad essere utilizzato, senza
rendersene conto, in funzione dell'obiettivo teorico. Tutti sanno ormai che la presentazione di un caso
clinico a dimostrazione della veridicità di un'asserzione teorica è molto poco probante, aleatoria e
pericolosa.
Immettere la strutturazione di campo, ossia un setting funzione del metodo e non della teoria, nel
legame inscindibile è munirsi di un referente esterno, oggettivo, diverso dal dato clinico e dalla teoria.
Certo la strutturazione di campo non scioglie da sola le aporie del legame inscindibile, ma l'accedere al
rispetto delle sue caratteristiche, cioè i contenuti definiti, condivisi e stabili, rappresenta certamente una
radicale spinta a quella revisione epistemica a monte paralizzata dal legame inscindibile.
In effetti, la strutturazione di campo non trasforma la seduta analitica in ricerca sperimentale. La teoria
dovrà seguire comunque la strada della verifica sui dati empirici per conto suo e in un certo senso a monte,
almeno nelle linee di fondo, dell'intervento clinico. Ma tenere conto della strutturazione di campo è già uno
sciogliere praticamente lo stretto legame tra teoria e mondo interno dell'analista ricercatore, perché essa,
se rispettata, funge da terzo nella relazione analitica.
4. Conclusioni.
Concludo riprendendo il titolo. Sciogliere il legame inscindibile porta ad utilizzare i dati sperimentali
dell’”Infant Research” nella necessaria opera di rivisitazione della teoria psicoanalitica. L'introduzione della
verifica sperimentale sgancia la giustificazione della teoria dai dati clinici e di conseguenza la libera, al livello
epistemico, dall'autoreferenzialità.
Si impone, di fatto, una teoria psicoanalitica rivisitata. Il metodo mirerà alla riattivazione della coscienza
riflessa di sé, bloccata dall'adozione di strategie e identità inconsce. La strutturazione di campo, risultato di
contenuti definiti, condivisi e stabili permetterà l'osservazione delle modalità relazionali manifesta e ne
garantirà la significazione inconscia, qualsiasi sia la patologia e la situazione dell'intervento (studio privato e
situazione dell'istituzione pubblica). La tecnica potrà allora proporre, con l'interpretazione, la funzionalità
inconscia delle modalità relazionali per l'unitarietà del Sistema suscitando il processo dell'autocoscienza.
(M. Minolli, 1992)
Le difficoltà storiche ed attuali della psicoanalisi, le problematiche non indifferenti dell'intervento nelle
istituzioni pubbliche, l'assurdità utopica dell'eclettismo-integrazionìsmo non sono strade senza via d'uscita,
sono stimoli a pensare.
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