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Storiacostituzionale
eum
Giornale di
PERIODICO DEL LABORATORIO DI STORIA COSTITUZIONALE “ANTOINE BARNAVE” n. 15 / I semestre 2008
Francesco Bertolini, Paolo Caretti, Carlo Chimenti, Leopoldo Elia,Romano Ferrari Zumbini, Piero Gambale, Eduardo Gianfrancesco,
Luigi Lacchè, Vincenzo Lippolis, Nicola Lupo, Andrea Manzella,Damiano Nocilla, Giovanni Orsina, Alessandro Palanza,
Cesare Pinelli, Guido Rivosecchi
Giornale di Storia costituzionale n. 15 /
Isemestre
2008eum
edizioni università di macerata
ISBN 978-88-6056-033-9
ISS
N 1
59
3-0
79
3
Euro 22,00
eum edizioni università di macerata
I regolamenti parlamentari nei momenti
di “svolta” della storia costituzionale italiana
eum > edizioni università di macerata
i regolamenti parlamentari nei momenti di “svolta” della storia costituzionale italiana
A cura di Eduardo Gianfrancesco e Nicola Lupo
Storiacostituzionale
n. 15 / I semestre 2008
Giornale di
Giornale di Storia costituzionale
Periodico del “Laboratorio Antoine Barnave”
n. 15 / I semestre 2008
Direzione
Luigi Lacchè, Roberto Martucci, Luca Scuccimarra
Comitato scientificoVida Azimi (Parigi), Bronislaw Baczko (Ginevra), Giovanni Busino
(Losanna), Francis Delperée (Lovanio), Alfred Dufour (Ginevra),Lucien Jaume (Parigi), Heinz Mohnhaupt (Francoforte), MichelPertué (Orléans), Michael Stolleis (Francoforte), Joaquín VarelaSuanzes (Oviedo)
Comitato di redazione
Paolo Colombo, Federico Lucarini, Giovanni Ruocco
Segreteria di redazione
Mauro Antonini, Marco Bruni, Ronald Car, Luca Cobbe, Roberta
Ciaralli, Gerri Ferrara, Simona Gregori, Paola Persano, Gianluca
Piergiacomi, Monica Stronati
Direzione e redazione
Laboratorio di storia costituzionale “A. Barnave”
Università di Macerata
piazza Strambi, 1 – 62100 Macerata,
tel. +39 0733 258724; 258775; 258365
fax. +39 0733 258777
e-mail: [email protected]
I libri per recensione, possibilmente in duplice copia, vannoinviati alla Segreteria di redazione.La redazione si rammarica di non potersi impegnare a restituire idattiloscritti inviati.
Direttore responsabile
Angelo Ventrone
Registrazione al Tribunale di Macerata
n. 463 dell’11.07.2001
Edizione ⁄Publisher
Edizioni Università di Macerata
Distribuzione ⁄Distributed by
Quodlibet edizioni
via Santa Maria della Porta, 43 - 62100 Macerata
tel.+39 0733 264965 - fax +39 0733 267358
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6056-033-9ISSN 1593-0793
Tipografia
Litografica Com, Capodarco di Fermo, Fermo
Questo numero della rivista è pubblicato con un finanziamentodell’Università degli Studi di Macerata, del Dipartimento di dirittopubblico e di teoria del governo dell’Università di Macerata, dell’Università di Teramo e del Ministero dei Beni Culturali.
In copertina: Scranno della Presidenza a Montecitorio – Cameradei Deputati.
Finito di stampare nel mese di ottobre 2008
Prezzo di un fascicoloeuro 22;arretrati, euro 26;Abbonamento annuo (due fascicoli)/ Subscription rates (two iusses)Italia, euro 35; Unione europea, euro 40; U.S.A. e altri Stati, euro60;
Pagamento:A mezzo conto corrente postale n. 14574628 intestato a Tempi provinciali soc. coop. a.r.l., via p. Matteo Ricci, 108 - 62100 Macerata;Con assegno bancario, con la stessa intestazione;Tramite bonifico bancario: Banca delle Marche cc. 13004ABI 6055 CAB 13401con Carta Visa, inviando, tramite fax o e-mail, i propri dati,numero della Carta e le ultime quattro cifre della data di scadenza.
Payments:By bank transfer: Banca delle Marche cc. 13004 ABI 6055 CAB 13401 Swift BAMA IT 3A001By Credit Card (Visa): please send by fax or e-mail the Credit Cardnumber and the last four digits of expiration date.
Gli abbonamenti non disdetti entro il 31 dicembre si intendono rin-novati per l’anno successivo.
Errata corrige: nel numero 14/II semestre 2007 è comparso un sag-gio di Egle Betti Schiavone e non, come erroneamente indicato, diEgle Betti-Schiavoni.
5 Introduzione
Eduardo Gianfrancesco e Nicola Lupo
Fondamenti
13 Continuità e svolta nella storia dei Rego-
lamenti parlamentari
Cesare Pinelli
17 Il mosaico regolamentare nelle Camere
subalpine del 1848
Romano Ferrari Zumbini
25 La verifica dei poteri nel periodo statuta-
rio: l’istituzione della Giunta delle elezioni
nel 1868
Piero Gambale
33 La lotta per il regolamento: libertà politi-
che, forma di governo e ostruzionismo
parlamentare. Dalle riforme Bonghi al
regolamento Villa del 1900
Luigi Lacchè
53 Il “luogo” storico della riforma regola-
mentare del 1920 nella vicenda politica
italiana
Giovanni Orsina
69 Parlamento e regolamenti parlamentari
in epoca fascista
Eduardo Gianfrancesco
Itinerari
101 Il recupero del regolamento prefascista in
Assemblea Costituente
Paolo Caretti
105 Il regolamento della Camera liberale come
regolamento dell’Assemblea Costituente
Francesco Bertolini
117 I regolamenti parlamentari nella I legi-
slatura repubblicana (1948-1953)
Nicola Lupo
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
Sommario
135 I regolamenti del 1971
Carlo Chimenti
143 Regolamenti parlamentari del 1971, indi-
rizzo politico e questione di fiducia:
un’opinione dissenziente
Guido Rivosecchi
157 Consuetudini costituzionali e Regola-
menti parlamentari
Leopoldo Elia
161 Le riforme degli anni ’80 alla Camera
Vincenzo Lippolis
173 La riforma del regolamento nel Senato nel
1988
Damiano Nocilla
191 Le riforme del Regolamento della Came-
ra dei Deputati del 1997-1999
Alessandro Palanza
Approdi
201 Qualche considerazione finale
Andrea Manzella
205 Riforma dei partiti mediante le norme dei
Regolamenti parlamentari
Leopoldo Elia
Librido
211 Primo piano
Vincenzo Lavenia legge Il governo del-
l’emergenza. Poteri straordinari e di guerra
in Europa tra XVI e XX secolo, a cura di Fran-
cesco Benigno e Luca Scuccimarra
217 Ventuno proposte di lettura
Sommario
Tutto lo sviluppo della storia del diritto pubblico
dalla fine del secolo XVIII sino a questi nostri tem-
pestosi giorni, è avvenuto attorno alla specificazione
delle funzioni e alla moltiplicazione dell’importan-
za dell’istituto parlamentare in generale e delle
assemblee in cui esso consiste ed opera.
Basterebbero forse queste parole del Mae-
stro del diritto pubblico italiano, Vittorio
Emanuele Orlando – inserite in uno scrit-
to dal titolo esemplare: “Il Diritto parlamen-
tare nel Diritto costituzionale”, datato 11 apri-
le 1950 e posto quale introduzione al noto
lavoro di Federico Morhoff Giurisprudenza
parlamentare – a dare un senso a questa rac-
colta di contributi, dedicati al ruolo eseci-
tato dai regolamenti parlamentari nei prin-
cipali momenti di svolta della storia costi-
tuzionale italiana.
Se la storia del diritto costituzionale ita-
liano è storia innanzi tutto dell’istituzione
parlamentare, allora l’analisi dei regola-
menti parlamentari è punto privilegiato di
osservazione della trasformazione, ora evo-
lutiva ora involutiva, del diritto costituzio-
nale del nostro Paese.
Della forma di governo, innanzitutto:
giocandosi in primo luogo nel complesso
delle regole di disciplina dell’organizzazio-
ne e del funzionamento delle assemblee
parlamentari la partita decisiva dei rappor-
ti tra governo e parlamento e di quelli tra
maggioranza ed opposizione.
Ma, come evidenziano alcune delle rela-
zioni di seguito pubblicate, la modifica delle
regole del gioco parlamentare incide diret-
tamente altresì sul fondamentale principio
di struttura del nostro ordinamento, ovve-
ro il principio democratico: l’ambizione –
che caratterizza “la storia del diritto pubbli-
co dalla fine del secolo XVIII sino a questi
nostri tempestosi giorni” (e la tempesta non
sembra essersi diradata del tutto da quando
V.E. Orlando scriveva...) – di rendere il Par-
lamento lo “specchio” della società deter-
mina un intuibile strettissimo collegamen-
to tra le regole fondamentali di organizza-
zione e funzionamento del Parlamento stes-
so ed il principio primo di identificazione di
una collettività che si fa popolo.
È il diritto parlamentare a registrare
5
Introduzione
eduardo gianfrancesco e nicola lupo
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
linee di continuità e di frattura del legametra “popolo” e “parlamento”: come dimo-strano esemplarmente l’esperienza fasci-sta di trasformazione della nozione di rap-presentanza politica e – l’accostamento nonscandalizzi – la crisi di legittimazione rap-presentativa dell’istituzione parlamentareregistratasi, in Italia, negli ultimi anni.
Il riferimento non è soltanto a quelloche, a stare alle croncache, è sotto gli occhidi tutti, ovvero la crisi di riconoscimentoda parte dei rappresentati-società civile neiconfronti dei rappresentanti selezionati dalsistema politico-partitico (e dalla leggeelettorale da questo sistema prodotta). Diuna crisi di legittimazione è possibile ancheparlare con riferimento al diverso – macomplementare al primo – tema del legamedella rappresentanza con il “territorio” eall’esigenza di individuare una diversa qua-lità della rappresentanza parlamentare inuna delle due camere. Anche questo costi-tuisce, come è evidente, un aspetto deldiritto parlamentare che incide in modoimmediato e diretto sulla forma di stato.
Ma quale è, allora, il posto del “Dirittoparlamentare nel Diritto costituzionale” ?
Dai contributi raccolti in questo volu-me, emerge, secondo noi, la conferma dellaposizione di assoluta avanguardia che ildiritto parlamentare ha assunto nella sto-ria del diritto costituzionale italiano, dalleorigini sino ad oggi.
La peculiare natura delle sue regole, col-locate all’intersezione tra politica e diritto,conferisce ad esse una sensibilità straordi-naria a registrare le tensioni che si svilup-pano nel diritto costituzionale “generale”.Viene a questo proposito in gioco la “strut-tura” delle regole di diritto parlamentare,nel loro intreccio di diritto scritto, conven-zioni, suscettibili o meno di generalizzazio-
ne, consuetudini, precedenti “selezionati”dal Presidente di assemblea (o meglio, daquesto in collaborazione con l’apparatoservente): un corpus normativo di grandearticolazione e ricchezza, che consente aldiritto parlamentare di cogliere in anticipoi segnali del cambiamento, del passaggio diquesto dal piano meramente politico aquello giuridico.
I contributi del presente volume sem-brano confermare questa estrema “sensibi-lità” delle regole di organizzazione e fun-zionamento delle assemblee parlamentarialle trasformazioni delle istituzioni e delledinamiche costituzionali: dalle fibrillazio-ni della forma di governo parlamentareproprie dell’esperienza statutaria di fineOttocento, alle conseguenze dell’introdu-zione del suffragio universale e della leggeelettorale proporzionale del 1920, al casomacroscopicamente rilevante dell’avventodel regime fascista al potere ed allo stravol-gimento da esso operato dei tradizionaliistituti di diritto parlamentare; e così via,fino ad arrivare alle modifiche regolamen-tari degli ultimi decenni che rispecchianol’ansia, per così dire, di razionalizzazione erafforzamento della posizione costituzio-nale del governo e le trasformazioni delsistema indotte dalle riforme elettorali del1993 e del 2005.
Se, del resto, il parlamento è l’organorappresentativo della società per eccellen-za, è naturale che al suo interno si manife-stino, prima che altrove, le tensioni al cam-biamento dell’ordine costituzionale com-plessivo e che il diritto parlamentare “regi-stri” tali tensioni.
Allo stesso tempo – ed è il rovescio dellamedaglia del fenomeno appena considera-to – sono proprio le regole del diritto par-lamentare a focalizzare per prime il muta-
Introduzione
6
mento costituzionale, contribuendo al suoprodursi, prima ancora che esso trovi unasua formalizzazione in previsioni di rangocostituzionale.
Anche in questo caso, nelle pagine cheseguono, il lettore potrà trovare una plura-lità di applicazioni di tale principio: dallanascita della forma di governo parlamen-tare, alla sua evoluzione in epoca statutaria,alla sua crisi, sino alle diverse periodizza-zioni costituzionali dell’esperienza repub-blicana, che spesso corrispondono a pro-cessi riformatori dei regolamenti parla-mentari.
Talvolta, come esemplarmente spiegatoda Silvano Tosi, è la stessa Costituzionerigida ad essere integrata, se non modifica-ta, attraverso il diritto parlamentare: inquesto caso, ragionare di quale sia il postodel diritto parlamentare nel diritto costi-tuzionale finisce per essere leggermenteriduttivo.
Si tratta, nel complesso, di un processocircolare evidente e, tutto sommato, natu-rale nella vita dell’istituzione parlamenta-re: nell’esperienza italiana forse maggior-mente visibile che in altri ordinamenti,caratterizzati, invece, da un maggiore gradodi dettaglio delle disposizioni costituziona-li in tema di forma di governo e rapporti traparlamento e governo (e qui il pensiero va,per antitesi, all’ ”ingabbiamento” del dirit-to parlamentare operato dalla Costituzionefrancese del 1958).
Ciò che occorre, invece, mettere anco-ra in evidenza, ad integrazione di quantosin qui detto, è che l’esperienza italiana sicaratterizza per un ulteriore elemento, que-sta volta di debolezza, del diritto parlamen-tare, che emerge da più di una delle relazio-ni che seguono.
La specificità indubbia del diritto par-
lamentare, come diritto di assemblee legi-slative, si è infatti troppo spesso tradotta inun isolamento dello stesso rispetto al dirit-to costituzionale generale.
Vi è in ciò qualcosa di paradossale chenon può sfuggire: la branca del diritto pub-blico caratterizzata dalla massima capacitàrecettiva, quando non anticipatoria, delletendenze evolutive dell’ordinamento hascontato e sconta, nell’esperienza italiana,una situazione di separatezza che inevita-bilmente si traduce in un distacco di essadalla strumentazione garantistica che il“diritto costituzionale generale” ha pro-gressivamente sviluppato a protezione degliistituti fondamentali della forma di stato edella forma di governo.
Sono evidenti e note le “nobili” ragionidi questo “splendido isolamento”, in dife-sa dei parlamenti avverso gli esecutivi regied i giudiziari ad essi legati. Forse non èancora sufficientemente diffusa, però, laconsapevolezza di come la dottrina (untempo gloriosa) degli interna corporis, giun-ta al termine l’era del parlamentarismoromantico, abbia indebolito la capacità diresistenza del parlamento italiano di fron-te ai colpi del fascismo.
Venendo ai giorni nostri, questo distac-co ed isolamento manifesta una serie dievidenti criticità rispetto alla “grande rego-la dello stato di diritto”, per usare l’espres-sione della decisione della Corte costitu-zionale che con la maggiore eleganza argo-mentativa ha confermato in epoca recentequesta separatezza: il tema “classico” masempre dolente dell’autodichia; il giudiziosui titoli di ammissione; la tutela dei “terzi”che vengano in contatto con potestà delParlamento, come nel caso del potere diinchiesta; la sottrazione sostanziale ad ognipossibilità di verifica esterna del procedi-
Gianfrancesco e Lupo
7
mento decisionale parlamentare e, conse-guentemente, la nascita di prassi quantomai discutibili nella loro conformità aCostituzione, come quella dei maxi-emen-damenti e della compressione estrema deitempi di esame dei provvedimenti in Com-missione; la rincorsa al “peggior preceden-te” e, quindi, il problema di una gestionepiù trasparente e oggettiva delle fonti nonscritte del diritto parlamentare.
Quelli appena ricordati sono soltantoalcuni esempi in cui l’autonomia del dirit-to parlamentare si traduce in una separa-tezza immotivata da principi costituzionalidi portata generale e rischia di minare lebasi della stessa legittimazione democrati-ca del Parlamento nella società italianacontemporanea.
Ci sembra opportuno aggiungere – inprospettiva – che un riflesso di questoatteggiamento “isolazionista” lo si puòcogliere anche nell’idea, di tanto in tantoemergente nel dibattito politico italiano,che le modifiche dei regolamenti parla-mentari possano da sole risolvere i proble-mi di funzionalità della forma di governo.Anche in questo caso, dietro una pretesaautosufficienza del diritto parlamentare sinasconde una propensione all’isolamentodello stesso dal diritto costituzionale gene-rale. Un più maturo approccio al tema delleriforme istituzionali non può infatti, anostro giudizio, prescindere da riformecostituzionali ed elettorali connesse edaccompagnate a conseguenti riforme rego-lamentari.
L’indagine di tipo storico che in questasede si è operata dovrebbe aiutare – cosìalmeno noi curatori speriamo – a coglierei rischi che l’approccio “isolazionista”,nelle sue diverse declinazioni, determinaper il radicamento del diritto parlamenta-
re nel diritto costituzionale e per la idonei-tà del primo ad operare in relazione circo-lare con il secondo.
Da questa circolarità è scaturito – nelbene e nel male, ma nel complesso ci sem-bra che il bene prevalga sul male – un seco-lo e mezzo di storia costituzionale del nostropaese. Al valore tutelato da questa circola-rità dobbiamo restare legati, se vogliamoche il parlamento resti lo “specchio” rap-presentativo nel quale la società può in ognimomento riflettersi per interrogarsi, rico-noscersi, migliorarsi.
Il volume raccoglie gli atti di un seminarioorganizzato dal Centro Studi sul Parlamentodell’Università LUISS Guido Carli di Roma edal Dottorato di ricerca in Diritto costituzio-nale e Diritto costituzionale europeo dell’Uni-versità di Teramo e svoltosi il 30 novembre2007. L’organizzazione del seminario nonsarebbe stata possibile senza la disponibilitàdella prestigiosa sala Igea dell’Enciclopediaitaliana, gentilmente concessa dal suo Presi-dente, il professor Francesco Paolo Casavola, esenza la preziosa collaborazione dei dottoriGiovanni Piccirilli, Giovanna Perniciaro, Cri-stina Fasone e Gabriella Angiulli.
Un ringraziamento particolare a StelioMangiameli per l’aiuto finanziario nella pub-blicazione.
Proprio nel momento in cui questo volumestava per andare in stampa è venuto a manca-re il professor Leopoldo Elia, che ad esso avevacontribuito con due acuti interventi e, primaancora, presiedendo la terza sessione del semi-nario del 30 novembre 2007.
I curatori non dimenticheranno mai ilsostegno e la disponbilità che il professor Elia– nella Sua profonda sensibilità di storico delleistituzioni parlamentari e di finissimo inter-
Introduzione
8
prete del diritto costituzionale e parlamentare– ha manifestato, sin da subito, nei confrontidell’iniziativa della quale ora pubblichiamo irisultati (come di quella che l’ha preceduta,svoltasi a Roma il 17 marzo 2006, e i cui attisono in Le regole del diritto parlamentarenella dialettica tra maggioranza e opposi-zione, a cura di E. Gianfrancesco e L. Lupo,Luiss University Press, Roma, 2007).
Con l’amarezza e il rimpianto che la lettu-ra delle ultime righe dell’intervento finale delprofessor Elia suscitano in noi, dedichiamoquesta raccolta di contributi scientifici alla Suamemoria di studioso appassionato e di uomomite e allo stesso momento coraggioso, in untempo che richiede tutte queste virtù riunite.
Gianfrancesco e Lupo
9
Fondamenti
13
Se non sbaglio, il nostro è il primo incontro
di studi in cui storici e costituzionalisti
affrontano insieme in modo così completo il
tema dei regolamenti parlamentari. Ricordo
moltissimi incontri e saggi che inquadrano il
tema nell’ambito dell’evoluzione del sistema
politico in età repubblicana. L’approccio,
sicuramente utile a cogliere le ragioni delle
riforme come delle mancate o parziali rifor-
me dei regolamenti delle Camere, diventa
solo in parte soddisfacente ove si vada alla
ricerca di una comprensione più ampia della
natura e del senso del diritto parlamentare,
nella misura in cui sacrifica l’esame di rego-
le risalenti e della formazione e del consoli-
damento di consuetudini di lungo periodo,
per il quale non si può prescindere dagli
apporti di storia costituzionale.
Se poi guardiamo a come i colleghi
Eduardo Gianfrancesco e Nicola Lupo,
attenti organizzatori del nostro incontro,
hanno articolato le sessioni, ci accorgiamo
che la periodizzazione prescelta corrispon-
de tendenzialmente a quella proposta da
Massimo Severo Giannini nel saggio Parla-
mento e amministrazione (in “Amministra-
zione civile”, 1961, p. 145 s.) per distingue-
re le fasi della storia costituzionale del Paese,
da lui intese come costituzioni in senso
materiale o sostanziale. Risalendo all’indie-
tro, Giannini ne indicava quattro: fase
repubblicana, fascista e, nell’ambito della
fase prefascista, liberale-oligarchica e libe-
rale-democratica, dall’introduzione del suf-
fragio universale maschile fino al fascismo.
Quest’ultima, che al contrario della giuspub-
blicistica di allora Giannini distingueva dalla
precedente, copre il decennio 1913-1922, nel
quale passa la proporzionale e subito dopo si
riformano i regolamenti parlamentari in
modo da organizzare le Camere per gruppi,
il che giustifica il giudizio di «una vera e pro-
pria rivoluzione costituzionale, come il
nostro paese non ne aveva più viste dopo il
1848», dato a caldo da Francesco Ruffini sul
“Corriere della sera” del 14 agosto 1920.
In quel vecchio saggio di Giannini, c’è
un’altra considerazione che torna utile
ricordare. A voler ripercorrere gli eventi
politico-istituzionali fino al fascismo, dice,
Continuità e svolta nella storia dei Regolamenti parlamentari
cesare pinelli
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
«si sarebbe tentati di concludere in sensomolto amaro che l’organo fondamentaledelle nostre due prime costituzioni in real-tà non ha mai funzionato secondo le rego-le. E che la vita costituzionale si è svolta nonin modo ordinato, ma secondo rapporti diforze politiche più o meno mal contenuteda istituti costituzionali. È la conclusioneche a suo tempo trasse Oriani, che riappa-re in Gobetti e in Gramsci, ritorna ancoradopo la Seconda guerra, e che serpeggia tut-tora nella critica marxista dello Stato mistoconvenzionale in cui viviamo. Se essa fossevera, ci potremmo senz’altro fermare qui».
Ma quella conclusione non circola forsetuttora? A me pare proprio di sì, e conti-nua, aggiungo, a dare man forte ai consi-glieri dei principi di tutte le stagioni pos-sibili, tanto convinti anch’essi che le istitu-zioni siano puro rispecchiamento di rap-porti di forza, quanto irreprensibili nei loroabiti di tecnici. Anche l’obiezione di Gian-nini appare però ancor oggi pertinente,ovviamente sul piano scientifico che ciinteressa in questa sede: se la vita costitu-zionale si fosse svolta solo sulla base deirapporti di forza, sarebbe «inutile per ilgiurista soffermarsi a contemplare il passa-to, perché esso si è svolto al di fuori dellenorme: è un fatto per cui è data solo facol-tà di assistere, non facoltà di formulare giu-dizi giuridici, è come contemplare l’accadi-mento dell’imperatore Giustiniano chemangia un pollo». Subito dopo, spiega chel’approccio sottovaluta le incertezze dimolti giudizi su eventi costituzionali, acominciare dal carattere parlamentare oextraparlamentare di tante crisi di governoin epoca statutaria, e dagli ambigui anda-menti della stessa forma di governo, chenon corrispondeva al modello della monar-chia costituzionale sancita dallo Statuto
senza però uniformarsi alla tipologia delregime parlamentare. E invita a non con-fondere il giudizio negativo sulla storia civi-le e politica degli italiani con quello sul fun-zionamento degli istituti costituzionali eamministrativi, pur senza negare le ovvieconnessioni. Evitando quella confusione, ilgiudizio resterà magari negativo pure sottoil secondo profilo, ma sarà frutto di unostudio non appiattito sugli accadimentipolitici, ma rivolto all’approfondimento dicause anche endogene al funzionamentodelle istituzioni.
Queste avvertenze, non solo metodolo-giche, vanno a mio avviso tenute particolar-mente presenti quando si studia l’evoluzio-ne dei regolamenti parlamentari, dove leinnovazioni in grado di accompagnare tem-pestivamente i processi di trasformazionepolitico-istituzionale si alternano con laforza inerziale di certi istituti. Non a caso, ilfilo conduttore del nostro incontro è costi-tuito dal rapporto tra “continuità” e “svol-te” nella vicenda dei regolamenti parlamen-tari del Regno d’Italia e poi della Repubbli-ca italiana. E una volta ripartito in sessionisecondo un criterio che obbedisce abba-stanza fedelmente alla quadripartizionegianniniana, l’incontro odierno dà spazio aRelazioni che danno conto di continuità e disvolte che non corrispondono a quelle quat-tro fasi. Ciò presuppone una almeno relati-va impermeabilità del diritto parlamentareai mutamenti costituzionali, che rimanda alprincipio di autoorganizzazione delle Came-re. Il recupero del regolamento prefascistain Assemblea costituente inaugurò una fasedi grande continuità fino alla svolta del 1971,eppure incorporava innovazioni crucialiintervenute strada facendo dopo il 1901,dall’organizzazione per gruppi parlamenta-ri (1920) alla istituzione delle Commissio-
Fondamenti
14
ni in sede deliberante, che l’art. 72 Cost.riprende dalla disciplina della Camera deifasci e delle corporazioni.
Del resto, la relativa impermeabilità deldiritto parlamentare va riferita alle rifor-me elettorali non meno che ai mutamenticostituzionali. Ce ne dà una dimostrazioneeloquente il principio della necessaria ade-sione di ogni parlamentare a un gruppo, cuicorrisponde la regola non scritta della pos-sibilità di aderire a gruppi e formarli indi-pendentemente dalle liste in cui i parla-mentari siano eletti, e che trova per altroverso il suo complemento nella fissazionedi un tetto minimo di parlamentari per ognigruppo, derogabile fino a un tetto più bassoove si tratti di rappresentare un partito oun movimento organizzato nel Paese, einfine nella istituzione del gruppo misto.
Il principio della necessaria adesione diogni parlamentare a un gruppo non trovariscontro in ordinamenti costituzionaliaffini come quelli francese e tedesco, cheammettono la figura di parlamentari noniscritti ad alcun gruppo, la Fraktion, chesecondo una sentenza del secondo Senatodel Tribunale Costituzionale Federale del13 giugno 1989 riflette una libera scelta deideputati fondata sull’art. 38 della LeggeFondamentale. Né dalla giurisprudenzadella nostra Corte può desumersi che taleprincipio rientri fra i requisiti costituzio-nalmente indisponibili dello status di par-lamentare, vista la definizione fornita deigruppi, sia pure dei Consigli regionali(sent.n. 1130 del 1988), e soprattutto laconfigurazione del divieto di mandatoimperativo (sent.n. 14 del 1964).
Eppure il principio è radicato nei rego-lamenti parlamentari a partire dalla rifor-ma del 1920, approvata con la quasi solita-ria eccezione di Salvemini e con qualche
riserva di Orlando, che non aveva digeritola proporzionale. Il nesso con la nuova leggeelettorale fu in effetti cruciale, come hadimostrato G. Orsina nel saggio su L’orga-nizzazione politica nelle Camere della propor-zionale (1920-1924) (in F. Grassi Orsini, G.Quagliariello (a cura di), Il partito politicodalla grande guerra al fascismo. Crisi dellarappresentanza e riforma dello stato nell’etàdei partiti di massa (1918-1925), Il Mulino,1996, p. 397 s.). Ma dai dati raccolti daOrsina relativamente al periodo 1920-1922,risulta pure che la corrispondenza fra grup-po parlamentare e lista elettorale riguardòsolo i socialisti, i comunisti e i popolari,mentre tutte le altre liste si distribuironoin vari gruppi parlamentari.
Questo principio, non fondato sullaCostituzione ma al più da essa consentito,ha avuto una straordinaria capacità di resi-stenza ai mutamenti delle leggi elettorali.Nel periodo 1993-2005, vigente il sistemamaggioritario, si è solo verificato che la for-mazione dei gruppi obbedisse alla regoladel criterio numerico dei venti deputati edei dieci senatori, senza che venisse appli-cata l’eccezione del criterio politico previ-sta per la formazione di gruppi numerica-mente più esigui (cfr. L. Gianniti, Gruppi ecomponenti politiche tra un sistema elettoralee l’altro, in E. Gianfrancesco e N. Lupo (acura di), Le regole del diritto parlamentarenella dialettica tra maggioranza e opposizione,Luiss University Press, Roma, 2007, p. 32).Non hanno invece avuto fortuna le propo-ste, presentate dal Presidente della Came-ra nella seduta della Giunta per il Regola-mento dell’11 gennaio 2000, volte a diffe-renziare i gruppi, composti da non meno ditrenta deputati, dalle “componenti parla-mentari”, costituite da non meno di diecideputati e titolari di poteri, facoltà e dota-
Pinelli
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zioni più ridotte, nonché a consentire a cia-scun deputato, all’inizio della legislatura,di aderire a un gruppo o a una componen-te, oppure di non aderire ad alcuna aggre-gazione, con la conseguenza di fruire in talcaso di diritti e facoltà da determinarsi invia regolamentare.
Fu quello, probabilmente, il tentativopiù ambizioso di far corrispondere la strut-turazione interna della Camera all’assettobipolare del sistema politico, che peraltro,in ordine al procedimento legislativo, lariforma regolamentare del 1997 aveva assi-curato solo entro certi limiti (C. Pinelli,Considerazioni sul rapporto tra maggioranza eopposizioni nelle procedure legislative, in E.Rossi (a cura di), Maggioranza e opposizioninelle procedure parlamentari, Cedam, 2004,p. 90). Allora, il principio di necessaria ade-sione di un parlamentare a un gruppo veni-va visto come un incentivo al trasformismo;e il risvolto del principio, la regola di nonnecessaria corrispondenza della costituzio-ne di un gruppo a una lista elettorale cheabbia ottenuto seggi in Parlamento, venivaa sua volta additata fra le cause della forma-zione di gruppi aventi il solo fine di ottene-re una quota-parte del finanziamento rela-tivo ai rimborsi per spese elettorali.
Oggi che il sistema elettorale è nuova-mente mutato, ma perdura l’esigenza distrutturare il Parlamento in modo da faremergere l’indirizzo maggioritario in unquadro di adeguate garanzie procedurali perl’opposizione, si potrebbe avere un ulterio-re effetto perverso. L’antica regola nonscritta che ammette la mancata corrispon-denza fra liste e gruppi potrebbe legittima-re una prassi di aggiramento della leggeelettorale, fondata su un sistema proporzio-nale di traduzione dei voti in seggi con asse-gnazione di un premio in seggi alla lista o
alla coalizione di liste che abbia ottenuto lamaggioranza relativa dei voti, tanto più ovepassasse il referendum volto ad abrogare leparole “coalizione di liste”. In tal caso l’ef-fetto della regola non scritta sarebbe ampli-ficato, poiché più partiti presentatisi sottoun’unica lista, dunque con la promessa aglielettori di mantenere un’identità politica-mente omogenea, potrebbero tranquilla-mente costituire altrettanti gruppi parla-mentari all’indomani delle elezioni, conbuona pace della coerenza e della respon-sabilità davanti al corpo elettorale.
La fluidità del diritto parlamentareviene spesso considerata un bene da pre-servare, nella misura in cui consente alleCamere di adeguarsi ai mutamenti politicie istituzionali, quando non di anticiparlicon un certo grado di creatività. Ma la flui-dità non è un bene naturale, deriva comesappiamo dal principio costituzionale diautoorganizzazione. E da tale principio puòderivare del pari un’impermeabilità aimutamenti e ai conseguenti adeguamentidelle regole e delle prassi parlamentari,anche quando richiesti dal principio diresponsabilità per l’esercizio del pubblicopotere. Se il principio di autoorganizzazio-ne si può raffigurare, in questo senso, comeuna specie di Giano bifronte, la ricostru-zione delle continuità e delle svolte con-sente di cogliere la portata dei problemi etalvolta dei dilemmi con cui dobbiamo con-frontarci, perlomeno fino a che nello stu-dio del diritto parlamentare non perdiamodi vista i princìpi di convivenza costituzio-nale. La consapevolezza che le istituzionicontano permette, infatti, di superare levelleità dei raccontini politologici, ma haessa stessa bisogno di una bussola di prin-cìpi capace di orientare le interpretazioni,le posizioni e le scelte conseguenti.
Fondamenti
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17
Per rispettare il tempo a mia disposizione
premetto di aver ritenuto opportuno non
affrontare, in questa sede, la trattazione di
taluni specifici argomenti.
In particolare, non mi occuperò della
Genesi dei regolamenti parlamentari delle
Camere subalpine, che, tuttavia, non sono a
mio avviso riconducibili in maniera sem-
plicistica ad un’ingannevole impronta
franco-belga.
Non mi soffermerò, inoltre, sul Conte-
nuto analitico dei due testi originari (gli 83
articoli del regolamento del Senato e gli 89
di quello della Camera dei deputati) e ciò al
fine di evitarne la banale parafrasi.
La presente relazione, inoltre, non ver-
terà sulla Discrasia testuale fra i due regola-
menti, che pure emerge e non si concretiz-
za nel mero divario numerico degli artico-
li, ma anche e soprattutto nella difformità
di contenuto. Basti pensare, quale esempio
concreto, alla Commissione per le petizio-
ni, non contemplata nel regolamento del
Senato, ma da esso ugualmente istituita il 5
giugno 1848.
Non approfondirò, peraltro, la questio-
ne relativa alle Modifiche formali introdotte in
quei testi e non perché non ve ne siano state.
A titolo meramente esemplificativo, in
questa sede ci si limita a sottolineare che
alla Camera dei deputati, durante la legi-
slatura di quell’anno 1848, furono varate
ben quattro modifiche al relativo regola-
mento parlamentare (a fronte delle dieci
presentate) e furono altresì votate dall’Au-
la tre significative delibere interpretative
del medesimo testo.
Non affronterò infine il tema della pras-
si, ancorché l’esperienza parlamentare di
quell’anno mostri come, ad esempio, alla
Camera dei deputati si oscillò fra l’applica-
zione di due diverse metodologie per il
computo degli astenuti1.
La presente relazione sarà, invece,
incentrata sull’analisi dello spirito che
informava di sé quello che si potrebbe, in
modo icastico, definire ‘il mosaico rego-
lamentare’ nel Parlamento subalpino. A
tal fine, si citerà una norma comune ai
Il mosaico regolamentare nelle Camere subalpine del 1848
romano ferrari zumbini
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
regolamenti di entrambi i rami di quel
Parlamento.
Ma per comprendere appieno lo spirito
di entrambi (tanto del ‘mosaico’, quanto
della norma) appare preventivamente
necessario collocare sia quei regolamenti
parlamentari, sia la singola disposizione,
all’interno dello specifico contesto costitu-
zionale di riferimento. Quest’ultimo si con-
notava non tanto per una capacità di espan-
sione verticale – propria di una costituzio-
ne rigida all’interno di uno Stufenbau –,
quanto per la sua propensione a dilatarsi in
modo orizzontale, appunto a Mosaico, del
quale – occorre rilevarlo – lo statuto non
rappresentava neppure la tessera centrale.
A tal riguardo, è appena il caso di accenna-
re che la carta albertina recava, nell’ambi-
to della Raccolta degli atti normativi del Regno
di Sardegna di quell’anno, il numero d’or-
dine 674: si inseriva, cioè, a pieno titolo –
e in modo lineare e progressivo – nel tes-
suto normativo di brevetti, patenti ed edit-
ti sino a quel momento emanati.
L’intero mosaico costituzionale supera-
va, dunque, la tendenziale fissità tipica
delle costituzioni rigide, e si caratterizzava
per un accentuato dinamismo.
Nel dettaglio, lo statuto si connotava per
il carattere della mobilità, termine con il
quale si intende evidenziare la ricerca di
attualità da parte del testo stesso, l’espres-
sione della disponibilità di esso verso il
costante mutamento. Mobilità intesa quale
vocazione a non imbrigliare nel mero dato
testuale le dinamiche istituzionali e socia-
li in emersione. La mobilità constava di tre
elementi/profili essenziali, ovvero:
1. l’elasticità, riconducibile alla suscettibilità del
testo ad essere modificato nei fatti (in via inter-
pretativa ed applicativa) dai soggetti costituzio-
nali senza il bisogno di modifiche formali;
2. la flessibilità, inerente all’idoneità del testo ad
essere innovato con semplice legge ordinaria
(principio della revisione implicita);
3. la duttilità, con cui ci si intende riferire all’at-
titudine del testo statutario a non porsi quale dato
fisso e immodificabile; indicando, al contrario,
la capacità dello stesso favorire l’emergere di un
modello generativo di processi e attivando
costantemente processi mutativi.
I regolamenti, a loro volta, si caratteriz-
zavano per un’intrinseca malleabilità, pecu-
liarità, queste, in forza della quale si pone-
vano nel panorama costituzionale coevo
quale orientativa “convenzione della casa”,
e come tali venivano percepiti dai diversi
soggetti istituzionali operanti in quel siste-
ma. In particolare, al Senato il regolamen-
to si connotava per una tendenziale som-
marietà (ossia per un intrinseco carattere
allusivo, quasi accennato del testo), mentre
alla Camera dei deputati esso presentava –
quale specificità – una potenziale creativi-
tà, ovvero una costante propensione
all’espansibilità in sede attuativa.
La convergenza tra la mobilità statutaria
e la malleabilità regolamentare determinò
Fondamenti
18
Interno dell’Aula del Senato a Palazzo Madama a Torino.
come conseguenza la nascita del fenomenodella cosiddetta spontaneità, concepibilecome la capacità del testo normativo dideterminare il sorgere di nuove dimensio-ni giuridiche, indipendentemente da rigi-de previsioni normative o, comunque, inpresenza di disposizioni molto lontane.
Mentre la prassi si connota(va) per l’at-titudine alla definizione di comportamen-ti all’interno o intorno a un corpo normati-vo, la spontaneità indica(va) invece la per-meabilità dell’ordinamento a cogliere lamolteplicità di stimoli provenienti dallasensibilità dei soggetti agenti.
Sul piano degli effetti, dunque, occorrerilevare come la spontaneità accentui laricerca di una tavola di valori condivisiall’interno della comunità di riferimento eincentri, altresì, il suo limite nella condi-visione delle scelte dei soggetti coinvolti.In altre parole, la spontaneità non si con-cretizza in comportamenti posti in essereunilateralmente e l’accesso ad essa liberaenergie vitali inespresse, delineando unadimensione del diritto inteso quale uma-nità-collettività piuttosto che come rigoro-sa applicazione di rigide griglie dispositive.
Se un ampio settore dalla Lezione diPaolo Grossi si potesse condensare in unafrase, si potrebbe sinteticamente afferma-re che “il diritto non si racchiude nellanorma scritta”. Un concetto, questo, alta-mente emblematico e che l’attenta analisidello sviluppo dell’ordinamento subalpinodel 1848, induce senz’altro a confermare.Del resto, la comprensione dello spirito delmosaico normativo caratterizzante quelsistema sembra inevitabilmente passareanche attraverso la percezione e la disami-na dell’insieme di emozioni e sensazioniruotanti attorno all’asse delle disposizioniscritte statuarie, regolamentari e non solo.
***
Per comprendere appieno i suesposti con-cetti e il modo in cui essi forgiarono ilpanorama costituzionale subalpino, appa-re ora opportuno passare ad illustrare alcu-ni concreti esempi di spontaneità, conside-rata nell’effettivo dispiegarsi della triplicetipologia cui diede luogo: costituzionale,costituzionale-parlamentare e parlamentare.
Una specifica fattispecie di spontaneitàcostituzionale si palesò nell’azione dell’av-vocato Filippo Bettini, la cui iniziativa dipubblicare – proprio al partire dal maggio1848 – la “Giurisprudenza degli Stati sardi”,ebbe come conseguenza quella di innovarela costituzione giudiziaria del Regno di Sar-degna2 in modo ben più incisivo di quantonon avessero fatto – in quegli stessi mesi –tanto le norme statutarie, quanto quellelegislative che innovarono l’ordine giudi-ziario, che istituirono le corti d’appello, cheriscrissero i codici penali militari e ledisposizioni sulla revisione delle sentenze.
La decisione del Bettini di entrare inpossesso delle sentenze, di raccoglierle inmodo sistematico e di editarle nella sud-detta rivista, suscitò l’effetto di introdurreun penetrante controllo diffuso sulla vitadella magistratura, dal momento che l’in-novativo prodotto editoriale fu da subitodestinato a diffondersi tra un sempre piùcongruo numero di lettori interessati adacquisire informazioni giudiziarie sino adallora difficilmente conoscibili. Ebbene,quel controllo orizzontale – ovvero policen-trico – innovò la vita giudiziaria del regnosubalpino ben più profondamente di quan-to fecero le norme scritte dello statuto,rispetto alle quali i giudici poterono inve-ce mostrare, in quei primi anni, la propriasostanziale “indifferenza”3.
Ferrari Zumbini
19
Un esempio di spontaneità costituziona-
le-parlamentare scaturì invece dalla gene-
ricità della legge sui pieni poteri del 2 ago-
sto 18484. Ebbene, travalicando ampia-
mente la previsione di quel testo normati-
vo sorse una figura giuridica riconducibile
al decreto legislativo5, e, per taluni aspetti,
vi si è intravisto addirittura l’istituto del
decreto-legge.
Un esempio di spontaneità parlamenta-
re, infine, è da ricondurre alla nascita dello
strumento del sindacato ispettivo, in assen-
za di precise previsioni normative in tal
senso, tanto statutarie quanto regolamen-
tari. Basti pensare, al riguardo, che al ter-
mine della sessione parlamentare, ovvero il
30 dicembre 1848, risultò che la Camera dei
deputati aveva esaminato ben 71 interpel-
lanze, ma aveva anche conosciuto 2 propo-
ste di inchiesta parlamentare e votato 1
ordine del giorno di sfiducia a ministro, a
fronte di un totale di ‘sole’ 24 leggi sanzio-
nate e promulgate.
***
La norma – evocata in apertura – sulla qualesi intende richiamare l’attenzione, si rin-viene all’articolo 17 del regolamento delSenato e all’articolo 18 del regolamentodella Camera dei deputati, che – in identi-ca formulazione nei due testi – recita comesegue: “Nella sala vi saranno posti esclusi-vamente riservati pei Ministri e pei Com-missari del Re”.
Ebbene, la comprensione della “vita”assunta da tale norma nel suo concretodispiegarsi presuppone l’accurata analisi diuno specifico elemento architettonico,ovvero la forma delle aule parlamentari, allequali allude la locuzione ‘sala’.
Quella del Senato era rettangolare e gliscranni erano posizionati l’uno di fronteall’altro. Pertanto i membri della compagi-ne governativa – riprendendo l’ancient usagedel Parlamento di Londra – si accomodaro-no, rispettando l’antico uso medievale checonsiderava la destra quale lato nobile, alladestra dal presidente d’assemblea, in primafila fra gli stalli di quel lato dell’aula.
Ne discendeva che i parlamentari filo-governativi si sedevano dietro oppure vicinoai ministri, le cui spalle si trovarono quin-di anche stricto sensu a ‘coprire’.
Da tale situazione discendeva comeulteriore conseguenza che la scelta didisporsi a destra piuttosto che a sinistravariava, o meglio, poteva variare in ragionedel mutare delle maggioranze governative.In estrema sintesi, la permanenza di unsenatore al suo seggio era esposta a costan-te variabilità, per cui le specifiche catego-rie ‘destra’-‘sinistra’ non erano portatricidi valori ideologicamente preconcetti, ma,al contrario, erano semplicemente idoneead indicare – di volta in volta – il solo per-
Fondamenti
20
Palazzo Carignano, Torino, sede della Camera dei Depu-
tati.
sonale sostegno, piuttosto che la sua auto-noma disapprovazione nei confronti delgoverno pro-tempore.
Viceversa, l’aula di palazzo Carignanoera semicircolare, ovvero esemplata su unmodello architettonico definibile “allafrancese”, giacché – diversamente da quel-la di palazzo Madama – non conoscevainterruzioni al centro. In occasione dellaprima seduta pubblica tenutasi in quell’au-la il 9 maggio 1848, il governo tenne unatteggiamento analogo a quello assunto alSenato, e quindi, alla stregua di quantoaveva fatto presso quel ramo del Parlamen-to, si sistemò fra i banchi di destra6.
Tuttavia il carattere arcuato della salaavrebbe permesso ai deputati di graduare,seduta per seduta, l’intensità del sostegnoriconosciuto all’esecutivo, a seconda del-l’ordine del giorno dei lavori e della condi-visione o meno delle scelte che di volta involta il governo avrebbe adottato.
A conferma di ciò, il presidente delConsiglio Balbo l’anno successivo7 avrebbelasciato testimonianza scritta di quantorisultasse difficile, alla Camera bassa, com-prendere le sfumature di posizioni fra chisi sedeva “a centro-destra; a centro-sini-stra; a centro-un quarto a destra; a centro-un quarto a sinistra [...]”.
Entrando in aula, dunque, non dovevarisultare del tutto agevole intuire se ilgoverno avrebbe potuto fare affidamentosull’appoggio dei deputati formanti la pro-pria maggioranza.
Fu anche per questo che, probabilmen-te fra il giugno e il luglio 1848, i ministripresero l’abitudine di sedersi al tavolo col-locato al centro dell’emiciclo, sino a quelmomento utilizzato dagli stenografi, qualepostazione per la redazione dei resocontiparlamentari.
E tutto ciò avvenne anche per evitare
che, facendo ingresso in aula, si potesse ictu
oculi percepire se il governo, sostenuto da
una coalizione di liberali piemontesi e
democratici genovesi, godesse o meno del-
l’appoggio parlamentare.
Ma è possibile affermare che, anziché
semplificare la vita a quel primo governo
subalpino, la decisione di assumere quella
specifica collocazione fisica probabilmente
ne accelerò la fine, perché svincolò i depu-
tati della maggioranza dal dover prendere
posizione, già solo materialmente, alle spal-
le del governo o comunque nei suoi paraggi.
La decisione di adottare quel tavolo al
centro dell’emiciclo come «sede del gover-
no» favorì, dunque, la nascita dei concetti
politici di «destra» e «sinistra». Da ciò
discese altresì che i deputati si sarebbero
collocati a destra e a sinistra (ovvero al cen-
tro) in modo assolutamente aprioristico,
quando i colleghi senatori continuarono, di
volta in volta, a sedersi negli uni o negli altri
scranni in ragione del governo in carica, al
quale volevano o meno garantivare il pro-
prio sostegno.
Ne discende che, nella Camera bassa
subalpina la collocazione ‘a destra’ ovvero ‘a
Ferrari Zumbini
21
Palazzo Madama, Torino sede del Senato del Regno.
Fondamenti
22
sinistra’ dei membri che ne facevano parte,assunse un contenuto ideologizzato, men-tre ciò non avvenne nell’aula di PalazzoMadama.
***
In sintesi, si può rilevare come la sponta-neità descriva la capacità del tessuto nor-mativo scritto di assorbire ogni innovazio-ne nel mosaico, evitando al contempo l’in-sorgere della problematica sulle violazioniformali della costituzione, del regolamen-to, ovvero della legge.
L’azione creatrice della spontaneitàconosceva comunque un limite insupera-bile nel requisito indifferibile della condi-visione.
Un esempio contrario, cioè di sponta-neità ricusata, si rinviene nel ruolo cheavrebbero voluto assumere (soprattutto allaCamera, ma anche al Senato) le gallerie peril pubblico.
Ispirate soprattutto dal Brofferio e dalGioberti, esse tentarono di interagire con iparlamentari, nel senso di condizionarnele decisioni politiche al fine di ostacolarele scelte del settore liberale e favorire, inve-ce, quelle di matrice democratica.
Non è, peraltro, dettaglio indifferentenotare come l’accesso ad esse fosse total-mente libero. Ebbene, sul finire di quel-l’anno, per la precisione il 20 dicembre1848, la maggioranza liberale votò una spe-cifica modifica al regolamento che ebbel’effetto di subordinarne significativamen-te l’accesso al possesso di un apposito invi-to sottoscritto da uno dei due deputati que-stori. La nascita spontanea del nuovo ‘sog-getto politico-galleria’ non era, dunque,
stata accolta dal Parlamento subalpino, cheritenne di incardinarlo nelle disposizionidi regolazione della propria attività.
Appare opportuno rilevare come il rap-porto orizzontale fra fonti, che si pone allabase della categoria-spontaneità, sia inveroin grado di mostrare inattesi aspetti dimodernità, a fronte del rischio – sempreincombente – della rapida obsolescenzadella norma scritta nell’odierna rigiditàdella gerarchia delle fonti.
La categoria-spontaneità supera l’illusioneilluministica di credere di poter controllareil libero dispiegarsi della società attraversol’assolutismo della norma scritta. In altre paro-le, la spontaneità dischiude alla dimensionegiuridica la prateria della anormatività, ossiaquello spazio giuridico che non si identificasolo ed esclusivamente con la norma codifi-cata e la gradualistica kelseniana.
In conclusione, mi sia consentito di ter-minare la presente relazione ricorrendo aduna battuta paradossale. Ammesso che inItalia si intenda effettivamente introdurrequel bipolarismo che tanto informa di sé ildibattito politico più recente, lo si potreb-be effettivamente realizzare ricorrendoall’ausilio di un accorto architetto che prov-veda a mutare la forma attuale delle auleparlamentari. Queste ultime, da semicir-colari potrebbero essere trasformate in ret-tangolari e nel relativo centro si potrebbeprevedere la netta separazione fra gli scran-ni, in modo da imporre ai componenti leassemblee parlamentari una precisa assun-zione di responsabilità nel sostenere, ovve-ro nel negare il proprio appoggio, all’esecu-tivo in carica.
Ferrari Zumbini
23
1 Sia lecito, per un approfondi-
mento di questi aspetti, rinviare
a R. Ferrari Zumbini, Tra ideali-
tà e ideologia, Torino, 2008.2 Per un approfondimento sulla
pubblicistica dell’epoca, risulta-
no utili gli Atti del convegno
«Giuristi Liguri dell’800»
(Genova, 8 aprile 2000) e in
particolare i contributi di V.
Piergiovanni, G. S. Pene Vidari
e L. Sinisi, che illustrano il
nascere delle riviste giurispru-
denziali fra Genova e Torino
nella prima metà del XIX secolo.3 Il concetto di “indifferenza”
dello statuto rispetto alla vita
giudiziaria di quegli anni è di
scuola torinese: cfr., per tutti, C.
Bonzo in “Rivista di Storia del
Diritto Italiano” del 2003, pp.
189 e ss.4 Per una visione di insieme della
cornice giuridica al fenomeno
emergenziale in epoca statutaria,
risulta utile il contributo di C.
Latini, Governare l’emergenza.
Delega legislativa e pieni poteri in
Italia tra ’800 e ’900, Milano 2005.5 Infatti, di alcuni disegni di legge
approvati in prima lettura alla
Camera dei deputati – come ad
esempio quello “sull’espulsione
della Compagnia di Gesù” – il
governo dispose il ‘recepimento’
(con qualche ritocco), assumen-
do quasi il testo parlamentare a
mo’ di atto delegante. Invero, le
fattispecie furono diverse: si
passò dal ‘recepimento’ con
modifiche di disegni di legge
approvati pure in seconda lettu-
ra, al ‘recepimento’ con modifi-
che di disegni di legge fermi in
commissione, ossia prima del-
l’esame in aula in prima lettura.6 Come conferma la litografia, fir-
mata da Chiappori, apparsa su Il
Mondo illustrato del 20 maggio
1848. Ad un attento esame di
quell’immagine emerge che al
centro dell’emiciclo, nel punto
maggiormente arcuato, era posi-
zionato sì, un tavolo connotato
da un vistoso calamaio, ma esso
era occupato da tre stenografi,
uno dei quali nell’atto di redige-
re un testo, mentre gli altri due
seguivano il dibattito, pronti a
subentrare al collega nei turni
successivi di stenografia. Non si
dimentichi che non raro il ricor-
so degli oratori alla lingua fran-
cese, circostanza che imponeva
la presenza di un maggior nume-
ro di stenografi durante lo svol-
gimento dei dibattiti. Vari ele-
menti concorrono ad escludere
che quel tavolo fosse riservato al
governo: in primo luogo, perché
si ha formale notizia di un tavo-
lo solo dal resoconto del 27 luglio
1848, nel quale si distingueva fra
“banco dei ministri” e “banco
dei deputati” (pag. 479). In
secondo luogo, perché le perso-
ne raffigurate in quell’immagi-
ne, in basso a sinistra, erano con
ogni probabilità giornalisti che,
privi di una collocazione pre-
ventivata, si arrangiavano, nel
suguire i lavori, stando in piedi,
e collocandosi precariamente
dietro l’ultima fila dei posti
riservati ai deputati. In terzo
luogo, perché le due persone
sedute alle spalle del presidente
non potevano essere stenografi,
posto che il loro continuo andi-
rivieni per i cambi di turno
avrebbe disturbato non poco chi
presiedeva. Un ultimo elemento
scaturisce da una raffigurazione
dell’aula in epoca cavouriana
apparsa su Il Mondo illustrato del
20 ottobre 1860: da essa si rica-
va che gli stenografi erano appo-
stati proprio a quel tavolo, di
fronte alla presidenza e in pros-
simità agli scranni dei deputati,
mentre il governo si era colloca-
to su un apposito tavolo davanti
al presidente e porgendo a lui le
spalle. Ma ciò fu possibile per-
ché era stata contestualmente
abolita la tribunetta per gli ora-
tori, presente invece nel ’48.7 L’articolo sarebbe apparso solo
nel 1850 sulla «Rivista italia-
na», pp. 5 e ss.
25
1. Il presente contributo prova a tracciare
un quadro ricostruttivo, necessariamente
non esaustivo, delle modifiche dei regola-
menti parlamentari intervenute agli albori
dello Stato unitario e, più precisamente, di
quelle innovazioni regolamentari in mate-
ria di “verifica dei poteri” introdotte nel
1868 presso la Camera dei deputati.
Esse – sia detto da subito – possono a
tutta prima apparire, se poste a confronto
con le modifiche dei regolamenti parla-
mentari che accompagnarono, talora anche
drammaticamente, la “crisi” dello Stato
liberale, un argomento low profile, caratte-
rizzate, allora come ai tempi d’oggi, da un
arido tecnicismo.
Al contrario, – è opportuno precisare
sin d’ora – le vicende attraverso le quali si
riconobbe in capo alle assemblee parla-
mentari, a partire dal XVI secolo in Inghil-
terra, la titolarità del potere di giudicare
della propria regolare composizione rap-
presentano parte integrante, come si dirà
avanti, della storia dei moderni parlamen-
ti e che, ad esempio nel caso italiano, esse
passano anche attraverso il giudizio sulle
elezioni contestate di personaggi storici del
Risorgimento italiano, quali Giuseppe Maz-
zini e Giuseppe Garibaldi.
Di più: il dibattito intorno al chi doves-
se compiere tale controllo/giudizio si
nutriva già più di cento anni fa del contri-
buto di autorevoli studiosi. Esso finiva per
investire, infatti, oltre al profilo che si
potrebbe definire di carattere “processua-
le” costituito dagli istituti e dalle procedu-
re atte a definire il giudizio sulla composi-
zione delle assemblee rappresentative,
anche quello, in qualche modo al primo
sottostante, di diritto “sostanziale” rappre-
sentato dalla disciplina relativa alle limi-
tazioni del diritto ad essere soggetto passi-
vo del rapporto elettorale (si pensi alla
definizione degli istituti della ineleggibi-
lità e della incompatibilità).
Prima però di addentrarsi nell’analisi
del dato più proprio del diritto parlamenta-
re, occorre svolgere un preliminare ordine
di riflessioni, anche al fine di definire al
meglio le coordinate entro le quali “calare”
La verifica dei poteri nel periodo statutario:l’istituzione della Giunta delle elezioni nel 1868
piero gambale
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
le soluzioni procedurali individuate per dareattuazione al giudizio sulla regolare compo-sizione delle assemblee rappresentative.
In primo luogo, occorre richiamare undato che si potrebbe dire conventionalwisdom della storia costituzionale europea:la definizione dei moderni parlamenti qualiistituzioni autenticamente rappresentative,e per tali ragioni distinte dai cosiddetti“preparlamenti” cetuali del periodomoderno si lega indissolubilmente ad unprocesso di progressiva acquisizione daparte di questi di alcune prerogative: traqueste ultime, particolare importanza rive-ste quella dell’autocrinia in tema di verifi-ca dei poteri, vale a dire la potestà di giudi-care, da parte delle stesse assemblee, i tito-li dei propri componenti.
Tale processo, che evoca gli avvenimentiattraverso i quali si sono tradizionalmenteaffermati i parlamenti nazionali nel XVII eXVIII secolo (dapprima in Inghilterra, quin-di in Francia), si consolida nell’Ottocento.
Nel corso di tale secolo, i parlamentirappresenteranno infatti l’istituzione piùimportante del moderno sistema costitu-zional-rappresentativo: come opportuna-mente è stato detto, però, il processo dicostituzionalizzazione formale degli ordi-namenti europei ottocenteschi non proce-dette di pari passo con quello di “parla-mentarizzazione materiale” degli stessi.
Tale “asimmetria” dipese dal ruolo chenel processo che si è sommariamentedescritto fu svolto dall’insieme di prassi eregole scritte che andarono strutturando i“progenitori” dei moderni regolamentiparlamentari: a tali fonti toccò, infatti, ilcompito di realizzare uno dei tratti essen-ziali del costituzionalismo europeo del-l’epoca, vale a dire quello di definire insenso parlamentare la tensione permanen-
te esistente tra i due principi di legittima-zione – quello monarchico e quello rappre-sentativo – che convivevano problematica-mente all’interno della forma di governopiù diffusa dell’epoca, vale a dire quellamonarchico-costituzionale.
Un compito, quello di sviluppare attra-verso la sede naturale dei regolamenti par-lamentari, la concezione della rappresen-tanza politica propria di ciascun ordina-mento, che fu svolto con esiti assai diversi,in considerazione del contesto costituzio-nale nel quale si inserivano prassi e regoledel diritto e della procedura parlamentari.
In Inghilterra, in ragione del carattereno written della Costituzione, le regole deldiritto parlamentare forgiarono i principa-li istituti della forma di governo parlamen-tare, a partire dal rapporto fiduciario fraGoverno e Parlamento; in Francia, prassi eregole del diritto parlamentare volte adintrodurre una qualche forma di contrôleparlementaire sur le gouvernement si affer-marono, nel periodo intercorrente tra laRestaurazione e la Monarchia di Luglio, inmodo empirique e in un quadro contra con-stitutionem, in ragione del prestigio dellastessa istituzione parlamentare.
Anche in Italia, i regolamenti parla-mentari furono, sin dalla loro prima “prov-visoria codificazione” nel 1848, la sedenella quale si tentò, senza riuscirvi piena-mente, un’interpretazione “estensiva” delprincipio della rappresentanza politica edelle prerogative delle assemblee rappre-sentative, secondo quello schema che èstato richiamato anche di recente per indi-care che talvolta i regolamenti parlamen-tari “giocano d’anticipo” rispetto allemodifiche di carattere legislativo o costitu-zionale, talaltra tendono a rimanere nelle“retrovie”. Nonostante le felici intuizioni
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del Cavour, che già in alcuni suoi articolipubblicati sul “Risorgimento”, indicava lanecessità di introdurre regole del dirittoparlamentare che avrebbero favorito, sulpiano della forma di governo, l’implemen-tazione del “modello Westminster”, il rego-lamento “provvisorio” del 1848 si limitò,anche in ragione del fatto che esso prove-niva da un Governo di derivazione regia, adare attuazione al principio rappresentati-vo essenzialmente rispetto all’ordinamen-to “interno” del Parlamento.
L’insieme delle disposizioni regola-mentari disciplinavano le tradizionali fun-zioni delle assemblee parlamentari, in par-ticolare quella rappresentativa, non svilup-pando un modello di rappresentanza fon-dato sulla valorizzazione della dialetticamaggioranza-opposizione, bensì sagoman-do le procedure e gli istituti del diritto par-lamentare sulla base di una concezione“atomistica” della rappresentanza.
2. In questo contesto fu affrontato anche iltema della definizione degli istituti parla-mentari attraverso i quali si attuava ladisposizione dello Statuto che prevedeva,risolvendo quello che la dottrina dell’epo-ca descriveva, come si è visto, alla stregua diuno dei problemi più vivi ed importanti deldiritto costituzionale, “l’esclusiva compe-tenza di ciascuna Camera a giudicare dellavalidità delle elezioni e de’ titoli di ammis-sione dei propri membri”, secondo quantorecitava l’articolo 60 dello Statuto albertino.
Nell’ambito del processo di riformadelle procedure parlamentari che, a parti-re dal 1868, mirava a dotare le assembleerappresentative di un corpus omogeneo diregole, il profilo delle soluzioni regolamen-
tari riguardanti la “verificazione dei pote-
ri” apparve da subito particolarmente com-
plesso; all’atto stesso di dotarsi di un rego-
lamento, l’Assemblea subalpina respinse
una serie di proposte volte ad introdurre
una sorta di regolamento speciale per la
sola verifica delle elezioni.
Occorre poi tenere conto del fatto che
esisteva un forte nesso tra la ratio che ispi-
rava la disciplina dei limiti all’elettorato
passivo e il sistema di verifica dei poteri: la
prima era infatti fortemente connessa alla
concezione della rappresentanza parla-
mentare propria dell’età liberale, secondo
la quale la formazione delle leggi era attivi-
tà da affidarsi ad una “nobiltà di spirito”.
Passando in rassegna la normativa in
materia di limiti all’elettorato passivo, si
coglie allora quella concezione “elitaria”
della rappresentanza tipica dello Stato libe-
rale, cui faceva necessariamente da corol-
lario l’opzione di affidare alle Camere il
Gambale
27
Il Senato riunito in Alta Corte di Giustizia.
sindacato sul contenzioso elettorale. Si
riscontra quasi una sorta di nesso funziona-
le, fra un sistema di limiti all’elettorato
passivo (ineleggibilità e incompatibilità)
disegnato per affermare e preservare il
ruolo dell’assemblea rappresentativa
rispetto al Monarca.
In questa ottica, le procedure parlamen-
tari di “verificazione dei poteri” divennero
sia al Senato che alla Camera uno strumen-
to, assai labile per la verità, per limitare le
ingerenze del principio monarchico rispet-
to alla composizione delle assemblee rap-
presentative: al Senato, in ragione della sua
composizione su base vitalizia, la procedu-
ra di verifica dei poteri finiva per tradursi
spesso in un sindacato sui titoli di nomina
che il Senato estendeva, talvolta, al merito
stesso della proposta avanzata dal Sovrano.
In tal modo, essa attenuava il carattere del
Senato quale istituzione di raccordo con lamonarchia; carattere che derivava a que-st’ultima anche in ragione della presenza diun gran numero di burocrati. In tal senso,anche la stessa questione, cui si fa mera-mente cenno, della presenza alla Camera dinumerosi deputati-impiegati, per i qualiera prevista sino all’introduzione dellaGiunta delle elezioni, un diverso procedi-mento di “verificazione dei poteri” incen-trato in un’apposita Commissione, assumeun particolare significato, dal momento chetali vicende possono aiutare a comprende-re l’evoluzione in senso parlamentare dellaforma di governo statutaria.
A tali aspetti occorre affiancare anche ilimiti legati alle soluzioni procedurali chestrutturavano il giudizio parlamentare sulleelezioni contestate: la eccessiva lentezza delsistema degli uffici, tra i quali era ripartitoil procedimento di convalida delle elezionie la notevole incertezza delle regole proce-durali che ne disciplinavano l’andamento.In tal senso, le vicende relative alla conva-lida delle elezioni nelle IX (1865) e X (1867)legislature del Regno d’Italia paiono para-digmatiche. In esse, infatti, si coglie comela convalida delle elezioni rappresentassein definitiva uno strumento nelle mani deipartiti politici per modificare le scelte deivotanti e come ciò rendesse in definitivaarbitrario il comportamento del Parlamen-to in materia.
Per tale ragione, emerse ben prestol’esigenza di differenziare, sotto il profilostrutturale e funzionale, il procedimentovolto a giudicare dei titoli di ammissione edella capacità dei deputati rispetto all’or-dinario procedimento legislativo, articola-to intorno al sistema dei cosiddetti “uffi-ci”; anche perché, le vicende di tutti i par-lamenti mostravano agevolmente quali
Fondamenti
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Il re Umberto I inaugura la 3ª sessione della XX Legislatu-
ra nel palazzo del Senato.
guasti potessero derivare laddove, attraver-so “l’accertamento dei poteri”, si fosse fal-sata o abbuiata l’espressione genuina dellavolontà degli elettori. Si pensò così di indi-viduare una sede strutturale permanente,la Giunta delle elezioni, alla quale furonoattribuite caratteristiche – una composi-zione sottratta, per via del riconoscimentoin capo al Presidente d’Assemblea di pote-ri di nomina dei componenti della Giuntastessa (che per altro favorirono la progres-siva definizione super partes della figura delPresidente e non più, come sino ad alloraera stato, primus inter pares) alle ordinarieregole di formazione degli organismi inter-ni all’Assemblea parlamentare – e profilifunzionali destinati a differenziare forte-mente il procedimento di verifica dei pote-ri rispetto a quello ordinario.
Il dibattito che portò all’istituzione dellaGiunta delle elezioni nel 1868 merita tutta-via di essere ricordato anche per due ragio-ni: in primo luogo, perché esso si richia-mava al modello inglese, proprio, ironiadella sorte, quando quest’ultimo decidevadi affidare alla magistratura il giudizio suititoli di ammissione dei componenti le auleparlamentari; in seconda battuta, perché inesso si discusse di una soluzione ben piùradicale in partenza – quella contenutanella relazione Massari – rappresentatadall’ipotesi di affidare, in via esclusiva, allaGiunta il giudizio definitivo sulle elezionicontestate.
3. Nel concludere queste poche note con lequali si è cercato di descrivere la “svolta”in tema di verifica dei poteri intervenutanel diritto parlamentare statutario, consa-pevoli che, al pari di altri argomenti del
diritto parlamentare, tale ricostruzione puòrappresentare un utile case law per tentaredi effettuare un’analisi che si sposti anchesul piano della storia e del diritto costitu-zionale, non possono non effettuarsi alcu-ni richiami alla situazione attuale in mate-ria, suggeriti dalle divaricazioni di giudiziche emergono dal raffronto: si parlò, almomento di introdurre tale innovazione,di una “felice intuizione”, mentre ad oggipuò essere utile richiamare le parole diLeopoldo Elia, che nel chiudere, con la con-sueta lucidità, i lavori di un seminario dedi-cato alle “regole del diritto parlamentare tramaggioranza e opposizione” evidenziava, interalia, come, tra i profili problematici cheoccorreva affrontare per “migliorare eripristinare, in alcuni aspetti, l’immaginedel Parlamento” vi fosse, addirittura prio-ritario rispetto alla stessa definizione delleregole procedurali che investono la dialet-tica Governo-maggioranza parlamentare –opposizione, quello relativo all’individua-zione di un modello di “verifica dei poteri”in grado, ad avviso dello stesso Elia, di sot-trarre all’attuazione del principio di mag-gioranza un’area, quella del controllo suilimiti all’elettorato passivo, che attiene allastessa composizione dell’assemblea rap-presentativa.
In recenti contributi incentrati sul-l’analisi di un insieme di proposte di rifor-ma dei regolamenti parlamentari, si èopportunamente evidenziato inoltre come“il recupero di una nuova vitalità dell’isti-tuzione parlamentare deve cominciare dal-l’adeguamento degli istituti del diritto par-lamentare classico al nuovo modello di rap-presentanza politica introdotto a partiredalle riforme elettorali del 1993”.
Si potrebbe dire che ciò rappresenta daun lato una sorta di “ritorno alle origini”
Gambale
29
Fondamenti
30
del diritto parlamentare, se si richiamanole parole del Miceli, il quale nel pieno della“crisi di fine secolo”, ricordava come pro-prio “il poco sviluppo e l’ignoranza deldiritto parlamentare” rappresentasse unadelle principali cause della decadenza deiregimi rappresentativi; d’altro canto, il rin-novato interesse per il diritto e le procedu-re parlamentari sembra porsi come unindispensabile sequel di quel processo diriforma del corpus di norme del diritto par-lamentare che, concretizzatosi essenzial-mente nel biennio 1997-1999, è stato rite-nuto come il “luogo” privilegiato nel qualesi sono quasi integralmente tradotte le esi-genze di riforma politico-istituzionale, dalmomento che è rimasta sostanzialmenteinevasa quella di livello costituzionale.
Occorre anche aggiungere che, se peruna parte di tali riforme – in particolarequelle attinenti ai profili funzionali dell’at-tività parlamentare, in primis quella legisla-tiva – l’esigenza agevolmente individuabi-le è stata quella, ovvia in un Parlamentomaggioritario, di contemperare un surplusdi potere di “decisione” in capo al conti-nuum Governo-maggioranza parlamenta-re, attraverso una maggiore certezza deitempi di approvazione dei disegni di legge,con un eguale “maggiorazione” del poteredi scrutiny dell’opposizione, attribuendole“certezza di spazi e di tempi”, per un altrocomplesso di funzioni, eminentemente“tecniche”, quali – e siamo all’oggetto dellepresenti note – i procedimenti che condu-cono al giudizio sulla convalida degli elettie sui requisiti di capacità di questi ultimi, ilprocesso riformatore, che pure ha investi-to tale versante nel 1998, è stato essenzial-mente incentrato sulla necessità di indivi-duare una no-partisan area tra maggioran-za e opposizione, nella consapevolezza che
l’interesse ad una composizione dell’as-semblea parlamentare che scaturisca dallosvolgimento regolare di entrambi i giudizisuddetti rappresenti una decisione dicarattere istituzionale.
Le ultime due legislature hanno funzio-nato dunque alla stregua di “laboratori” alfine di verificare se i correttivi introdottiabbiano infine prodotto risultati soddisfa-centi; correttivi che hanno proseguito ladirezione di quella differenziazione strut-turale e funzionale che il procedimento di“verifica dei poteri” ha da sempre avutorispetto agli ordinari procedimenti di for-mazione delle deliberazioni parlamentari eche ha progressivamente assunto i tratti diuna “giurisdizionalizzazione” della proce-dura, quanto meno nella parte del proce-dimento che si svolge in seno alle appositeGiunte delle assemblee parlamentari.
Sembra difficilmente contestabile, allaluce della prassi intervenuta nel corso delledue ultime legislature, l’affermazione chePasquale Stanislao Mancini faceva descri-vendo, durante il periodo statutario, il siste-ma delle immunità e delle prerogative par-lamentari: “esse – diceva il famoso giurista– hanno vita travagliata” e come sia agevo-le riscontrare che, venuti meno quei fatto-ri che attutivano la conflittualità di un siste-ma di verifica dei poteri affidato alle stesseassemblee rappresentative – 1) le dinami-che di funzionamento del sistema elettora-le di tipo proporzionale; 2) la “genuinità”della legislazione di contorno, compresaquella in materia di ineleggibilità/incom-patibilità –, il domain dell’articolo 66 Cost.non possa ricomprendere attualmente ogniprofilo del contenzioso elettorale, finendoper ignorare il fatto che la governance delprocesso elettorale – vale a dire l’insiemedei soggetti coinvolti, delle posizioni giuri-
Gambale
31
diche e delle regole in esso operanti –richiede forse, anche nel momento del giu-dizio sulle possibili controversie, la presen-za di una pluralità di soggetti con funzionilato sensu “giurisdizionali”.
1 Sul punto, cfr. S. Curreri, La proce-
dura di revisione dei regolamenti par-
lamentari, Padova 1995, p. 121, il
quale opportunamente ricorda
come “la portata e la ratio delle
modifiche, che riguardarono soprat-
tutto i poteri del Presidente, l’ordine
delle sedute e la disciplina della
discussione, non possono com-
prendersi senza fare riferimento
alla profonda crisi economica e
sociale che attraversò il Paese in
quegli anni e che fu all’origine del
clima politico dal quale scaturiro-
no i tumulti divampati a Milano nel
1898 e sanguinosamente repressi
dal generale Bava-Beccaris”.2 Lo ricorda J. Luther, La giurisdi-
zione costituzionale sul contenzio-
so elettorale politico, in Quad. cost.,
n.3/1990, p. 533, citando le solu-
zioni avanzate, più di un secolo
fa, da giuristi quali Jellinek e
Seydel che proponevano già allo-
ra di affidare il sindacato delle
elezioni per i corpi legislativi alla
giurisdizione di un tribunale
elettorale indipendente. 3 Cfr., per una prima sistemazione
e definizione organica di tali isti-
tuti, P. S. Mancini, Interpretazio-
ne dell’art. 45 dello Statuto del
Regno. Relazione alla Camera dei
Deputati. 30 luglio 1870, in Discor-
si parlamentari di Pasquale Stani-
slao Mancini, Camera dei Depu-
tati, Roma 1894, vol. III, pp. 217
e ss, pp. 224 e 281.4 Così, A. G. Manca, Introduzione
pp. 26-27, in L’istituzione parla-
mentare nel XIX secolo. Una pro-
spettiva comparata. Die parlamen-
tarische Institution im 19.
Jahrhundert. Eine Perspektive im
Vergleich, a cura di A. G. Manca,
W. Brauneder, Bologna 2000. 5 Così S. Merlini, Il Parlamento e la
forma di governo parlamentare nel
periodo statutario, in L’istituzione
parlamentare nel XIX secolo. Una
prospettiva comparata (a cura di A.
G. Manca-W. Brauneder), Bologna
2000, p. 84, il quale sottolinea la
“naturalezza” degli Standing orders
nello sviluppare la forma di gover-
no parlamentare. 6 Come ricorda, S. Merlini, op. cit.,
p. 84; cfr. sul punto, A. Laquize,
Le Parlement, organe de contrôle du
gouvernement dans la France de la
Restauration et de la Monarchie de
Juillet, in L’istituzione parlamenta-
re nel XIX secolo. Una prospettiva
comparata. Die parlamentarische
Institution im 19. Jahrhundert. Eine
Perspektive im Vergleich, a cura di
A. G. Manca, W. Brauneder, Bolo-
gna 2000, pp. 179 e ss.7 Cfr. sul punto, Racioppi, Bunelli,
Commento allo Statuto del Regno, pp.
225 e ss., i quali ricordano l’assen-
za di ogni regola per realizzare un
regolamento; v. altresì S. Curreru,
La procedura di revisione dei regola-
menti parlamentari, Padova 1995, p.
62, il quale ricorda che, in conse-
guenza delle vicende belliche che
vedevano l’esercito sabaudo impe-
gnato nella prima guerra d’indi-
pendenza, la Camera subalpina si
limitò ad adottare un regolamento
predisposto dall’esecutivo, a par-
ziale deroga dell’autonomia regola-
mentare delle due camere sancita
dall’art. 61 dello Statuto albertino.8 Secondo quanto ricorda N. Lupo,
in Premessa al volume Studi pisa-
ni sul Parlamento, in Amministra-
zione in cammino.9 Così. S. Merlini, op. cit. pp. 90-
91.10 Così L. Luzzati, Il giudizio sulle
elezioni politiche contestate in
Inghilterra e in Italia, in Nuova
Antologia, vol. VI, serie II, 1877,
p. 354.11 Cfr. S. Curreri, La procedura di
revisione dei regolamenti parla-
mentari, op. cit., p. 63, nota 7.12 Così, G. Leibholz, Stato dei parti-
ti e democrazia rappresentativa.
Considerazioni intorno all’art. 21 e
all’art. 38 della Legge Fondamen-
tale di Bonn, in Id. La rappresen-
tanza nella democrazia13 Cfr. sul punto, A. Meniconi, I
burocrati nel Senato Regio, in
L’istituzione parlamentare nel XIX
secolo. Una prospettiva comparata.
Die parlamentarische Institution
im 19. Jahrhundert. Eine Perspek-
tive im Vergleich, a cura di A. G.
Manca, W. Brauneder, cit., p. 361
ss.14 Cfr. A. G. Manca, I funzionari-
deputati tra Parlamento e ammini-
strazione in una prospettiva com-
parata, in L’istituzione parlamen-
tare nel XIX secolo. Una prospettiva
comparata. Die parlamentarische
Institution im 19. Jahrhundert.
Eine Perspektive im Vergleich, a
cura di A. G. Manca, W. Braune-
der, cit., pp. 412 ss.15 Sul punto, cfr. M. G. Missaggia,
La manipolazione dei risultati elet-
torali: la convalida nella 9 e nella
10 legislatura del Regno d’Italia, in
Rivista storica italiana, n. 1/2000,
p. 194.
Fondamenti
32
16 Sempre L. Luzzati, Il giudizio
sulle elezioni politiche contestate in
Inghilterra e in Italia, op. cit., che
ricorda in particolare le vicende
francesi, p. 354.17 Cfr. sul punto, L. Luzzati, Il giu-
dizio sulle elezioni politiche conte-
state in Inghilterra e in Italia, op.
cit. in Nuova Antologia, vol. VI,
serie II, 1877; 18 Così L. Elia, in Le regole della
dialettica parlamentare, nonché
40 proposte di riforma dei regola-
menti parlamentari, in particola-
re i contributi di Gianfrancesco
e Clementi e, da ultimo, V. Lip-
polis, in Il Parlamento del bipola-
rismo. Un decennio di riforme dei
regolamenti parlamentari. Qua-
derno 2007 Il Filangieri. 19 Così V. Miceli, La verificazione dei
poteri, in Rivista politica parla-
mentare, XXV, 1897, p. 69020 Il richiamo alle recenti vicende in
tema di ammissibilità delle liste
elettorali pare paradigmatico: si
cfr. sul punto L. Trucco, Ammissi-
bilità delle liste elettorali: un chiari-
mento “una volta per tutte”?, in
www.giurcost.org e G. Buonomo, I
subentri nelle assemblee parlamen-
tari in corso di legislatura, in Quad.
cost., n. 4/2007, pp. 911 e ss.
33
1. Premessa
Il lungo periodo preso in esame consiglia
una selezione degli aspetti e dei temi da
analizzare e valutare alla luce della prospet-
tiva dei «regolamenti parlamentari nei
momenti di “svolta” della storia costituzio-
nale italiana». Si possono subito indicare
tre temi che emergono con una certa evi-
denza nel periodo considerato e che pos-
siedono una portata più generale.
Il primo avvalora il rilievo del regola-
mento parlamentare e più in generale del
diritto parlamentare quale laboratorio
significativo di “elaborazione” e di “conso-
lidamento” di cambiamenti costituzionali
che esaltano la intrinseca dimensione
“politica” del tessuto materiale delle rego-
le di autorganizzazione (prassi, consuetudi-
ni, convenzioni) e pongono però al tempo
stesso il problema della loro “codificazio-
ne” e della loro possibile “sclerotizzazio-
ne”. Il fatto e la regola formano così un
insieme problematico (Caretti 2001), un
intreccio complesso e non privo di tensio-
ni segnato da un robusto “protagonismo”
del “momento” regolamentare. Ne conse-
gue, se solo si volesse ricordarlo, la confer-
ma della rilevanza delle regole del diritto
parlamentare (cfr. Negri 1968, pp. 9-10) –
direi dell’ordine parlamentare (su cui, attra-
verso Santi Romano, v. Beaud 2001) – per
un approccio fecondo e complesso alla sto-
ria costituzionale che in esse trova alimen-
to per una sua parte non trascurabile.
Il periodo esaminato enfatizza, in
secondo luogo, in un modo che sino alla
“crisi di fine secolo” non era emerso con
pari virulenza, la capacità o meno delle
regole di assicurare, in una dialettica anche
accesissima, un equilibrio “accettabile” –
tanto per gli attori che per il sistema ogget-
tivamente inteso – tra due esigenze egual-
mente legittime sia sul piano teorico che su
quello del funzionamento concreto di un
genuino sistema parlamentare: da un lato
un’adeguata funzionalità dei lavori parla-
mentari secondo le volontà espresse dalla
maggioranza governativa, dall’altro il dirit-
to delle minoranze ad esprimere in manie-
La lotta per il regolamento: libertà politiche, forma di governo e ostruzionismo parlamentare. Dalle riforme Bonghi al regolamento Villa del 1900
luigi lacchè
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
ra congrua le proprie ragioni. Due dirittientrano così in collisione in maniera legit-tima e altrettanto legittimamente si devericercare una soluzione dialettica.
Il terzo tema che si può subito segnala-re, e che caratterizza in maniera specifica lavicenda che porterà al regolamento del1900, è la posta in gioco del conflitto par-lamentare: il terreno regolamentare fini-sce, come vedremo, per diventare spazioprivilegiato per un conflitto sui diritti fon-damentali. La lotta per il regolamento è parteintegrante di un progetto costituzionale cheha come obiettivo ultimo la “registrazione”di un determinato assetto della forma digoverno e che insiste sul terreno dei dirittipubblici soggettivi (Lacchè 2004, pp. 127,132), ovvero di un sistema di libertà politi-che fragili, da rassodare per un verso, daconquistare per un altro.
2. Una duttile “provvisorietà”
Tra i caratteri “permanenti” e i tratti origi-nari (cfr. Sbriccoli 1998) della storia italia-na, operante a vari livelli e con diversa fun-zionalità, è da annoverare senz’altro il carat-tere della provvisorietà: di norme, di istituti,di pratiche. Per i primi cinquant’anni dellastoria parlamentare statutaria si potrebbeparlare di una naturale provvisorietà del tes-suto regolamentare. Tale carattere è statosegnalato come un momento necessario diflessibilità in grado di accompagnare l’evo-luzione della forma di governo e i relativiequilibri raggiunti nel tempo (Manzella1977, p. 50; Caretti 2001, p. 585) in una cor-nice costituzionale che l’originario impian-to statutario non determinava certo inmaniera “assoluta”. Due questioni cruciali
e controverse si addensarono attorno allaverifica dei poteri e alle tecniche della pro-cedura legislativa. Non di rado le propostevolte a intervenire in maniera organica eradicale sul corpus regolamentare finironoper rafforzare il registro della provvisorietà.Tra il regolamento del 1868 e le legislaturesuccessive si susseguono Commissioni, pro-getti, relazioni e talune modifiche che dannovita ad un notevole accumulo di materiali edi proposte – come testimoniato ampia-mente dall’opera pioneristica di MarioMancini e Ugo Galeotti, Norme ed usi del Par-lamento italiano (1887) – senza però chel’esito voluto possa essere raggiunto. Lequattro sessioni della XIV Legislatura (10giugno 1886-3 agosto 1890) appaiono par-ticolarmente produttive proprio perchéviene adottato un criterio differente. La Commissione – composta da nove mem-bri scelti dal presidente della Camera: Bon-ghi, Boselli, Crispi, Cuccia, Di Rudinì,Ercole, Lazzaro, Marcora, Spaventa – inve-stita a partire dal 21 giugno 1886 del com-pito di portare a termine i lavori già predi-sposti nelle precedenti legislature, muoveproprio dal fallimento del metodo “massi-malista”, della “grande riforma”, collarinuncia quindi a perseguire la strada del,sino ad allora, impossibile regolamentodefinitivo per fare invece del canone dellaprovvisorietà la regola reputando migliormetodo quello delle «modificazioni eaggiunte al regolamento che l’esperienzamostrerà necessarie» (Astraldi 1932, p.48). Lo strumento per intraprendere que-sta via fu la costituzione, a partire dal 1887,di una Commissione permanente formata,in questo caso, dagli stessi membri dellaCommissione del giugno 1886.
Tra il maggio 1887 e il maggio 1888numerose furono le proposte di modifica
Fondamenti
34
elaborate dalla Giunta che ebbe come rela-tore Ruggero Bonghi, autore di saggi celebricome I partiti politici nel Parlamento italiano(1868) o Una questione grossa. La decadenzadel regime parlamentare (1884) e il cui nomesarà poi accostato, non a caso, al corpus rego-lamentare della Camera. L’ordine delladiscussione, la disciplina delle questionisospensive e pregiudiziali, il metodo di vota-zione, la discussione delle mozioni, gliemendamenti e gli articoli aggiuntivi pro-posti da singoli deputati furono oggetto direvisione e la Camera nella maggior partedei casi approvò le proposte della Commis-sione. Di particolare importanza risulta ladisciplina (artt. 70-73), più organica, deldiritto di interrogazione e di interpellanza esoprattutto l’introduzione del sistema delletre letture per la discussione delle leggi.
Come si è osservato, il procedimento didiscussione e approvazione delle leggi fusenza dubbio uno dei grandi temi del dibat-tito parlamentare a partire dalle originidella storia parlamentare italiana (Manzel-la 1977, pp. 50-51; Merlini 1995, pp. 34-35).Le tre letture, pur avendo dalla loro il mitiz-zato paradigma britannico, avevano suscita-to in passato dubbi e difficoltà di vario segnoe sostituirle al macchinoso sistema degliUffici non appariva un’operazione indolo-re. La proposta del 28 febbraio 1888 invecerientrava a pieno titolo nella logica “speri-mentale” che accompagna la XIV Legislatu-ra: se i due sistemi, infatti, avevano dimo-strato pregi e difetti, si lasciava adesso allaCamera la libertà di scegliere, di volta involta, quale dei due metodi apparisse il piùopportuno. Il dibattito che seguì in aula(Astraldi 1932, p. 53) fece vedere ancora unavolta il carattere fortemente controversodella scelta operata, anche se alla fine le treletture poterono riacquistare, dopo la sfavo-
revole parentesi del 1868-1872, cittadinan-za nella Camera dei deputati, pur in alterna-tiva agli Uffici e senza trovare nel prosieguoil successo sperato.
Le importanti modifiche introdotte trail 1887 e il 1888 posero il problema delcoordinamento con il testo in vigore risa-lente al 1868. Fu l’on. Di Rudinì nella tor-nata del 19 maggio 1888 a presentare inaula, a nome della Giunta permanente, ilnuovo regolamento coordinato. Il regola-mento fu di nuovo modificato nel 1891all’inizio della XVII Legislatura per megliospecificare gli istituti dell’interrogazione,dell’interpellanza e della mozione (Ibid., p.56): così il regolamento Bonghi, con i suoiinterventi mirati, alcuni dei quali di note-vole significato, era destinato a disciplina-re la vita parlamentare nel tumultuoso ulti-mo decennio del secolo. Non si può dire chenel corso degli anni Novanta non vi fosse-ro state proposte di modifica, da parte disingoli deputati e della stessa Commissio-ne (cfr. la raccolta di fonti in Tanda 1996),ma l’esito fu quasi sempre negativo.
3. Il canone della complessità del sistemaregolamentare nella “crisi di fine secolo”
La crisi di fine secolo mise a durissimaprova le riforme Bonghi e più in generalel’assetto regolamentare frutto del primocinquantennio di storia parlamentare. Larottura degli equilibri politico-costituzio-nali, faticosamente raggiunti, non potevanon investire appieno quel canone dellaprovvisorietà (e conseguente duttilità) cheaveva accompagnato l’evoluzione del dirit-to parlamentare della Camera dei deputati.Ciò che aveva consentito un relativo prima-
Lacchè
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to della dimensione fattuale nella configu-razione delle norme e degli usi regolamen-tari apparve inadeguato a governare le fortispinte provenienti dalla società, spintedestinate ad incidere profondamente sullavita politico-parlamentare e sulle stessedinamiche costituzionali. Ha così inizio lafase della complessità regolamentare, che siapre con forza nel 1898 e si concluderà nel1922, una fase nella quale la vita dei rego-lamenti parlamentari non ha più una esclu-siva legittimità endogena (dialettica parla-mento/governo/Corona), in quanto è ilrapporto con la complessità del sociale –nelle sue più diverse manifestazioni – aincidere sul modo di essere e di agire dellaregola parlamentare, potenziandone lastessa rilevanza costituzionale.
In questa sede non è possibile affronta-re, neanche per sommi capi, il grande temadella storia nazionale che la storiografia hacodificato con l’espressione “crisi di finesecolo”1. Crisi senza dubbio a più dimen-sioni che testimonia la debolezza di ognitentativo “semplicistico” (come osservòbene Croce 1927, pp. 272 ss.) – sia di ordi-ne socio-economico che di ordine politi-co-costituzionale – volto ad offrire risposteunivoche a questioni complesse. La visio-ne “semplice” che discende dal paradigmaborghese costitutivo della cultura giuridicae del sapere politico liberale del XIX seco-lo, fondato sul tranquillizzante binomioStato/individuo, deve fare i conti con ladimensione spuria, ambigua, ma vitale del“collettivo” (cfr. Marchetti 2006), unadimensione che complica profondamentelo scenario e modifica gli stessi punti diosservazione.
Il Parlamento, sul finire del secolo, èstretto tra vari fuochi (per alcune esempli-ficazioni v. Levra 2001; Rebuffa 2001) e non
gode, da tempo, di buona salute. L’antipar-lamentarismo non è sorto invano: mori-bondo, degradato, corrotto, in preda ad unatomismo particolaristico che indeboliscela parte nobile e stabile della costituzione(Corona, esecutivo ‘monarchico’, preroga-tiva militare), la crisi del Parlamento, inte-so come luogo inadeguato a determinare uncoerente indirizzo politico, rischia di fardeflagrare l’intero sistema istituzionale. Ilcelebre Torniamo allo Statuto di Sidney Son-nino – il principale protagonista della bat-taglia parlamentare di fine secolo vista dairanghi della maggioranza “conservatrice” –è un efficace grido di dolore che condensaumori, sentimenti e ragioni di una partecospicua della classe liberale che cerca ditrovare soluzioni alla crisi del regime rap-presentativo insistendo sulla naturale cen-tralità dell’istituto monarchico, sullanecessità di una autentica separazione deipoteri e sull’esperimento rischioso, maindispensabile, del suffragio universaleinteso come meccanismo di reale socializ-zazione governata dello Stato e delle sue isti-tuzioni (Nieri 2000; Haywood 1999, pp. 219ss.; Ballini 2000).
D’altra parte l’immagine scolorita delParlamento non affascina certo quelle forzepolitiche e sociali che vi scorgono un meromeccanismo funzionale alla montée de ladémocratie. Nel 1897 i socialisti rappresen-tano il 10% dei voti validi (Ballini 1988;Piretti 1996) e la Sinistra nel suo insiemedispone di un’ottantina di seggi. Minoran-za, certo, e tuttavia la sua presenza ha anzi-tutto un valore qualitativo (Cambria 1989, I,p. 69) perché destinata ad incidere forte-mente sulle dinamiche parlamentari. Para-dossalmente dallo scontro di queste duevisioni, poco inclini a cogliere la dimensio-ne costitutiva del fenomeno parlamentare
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per un autentico sistema “rappresentati-vo”, il Parlamento, almeno per alcuni pro-fili, ne uscirà rafforzato (Isastia 1977, pp.424-425).
Il corto circuito tra i diversi livelli dellacrisi e la più lontana (almeno in apparenza)dimensione regolamentare scoppia nel1899. Nel febbraio il tenente generale esenatore del Regno Luigi Pelloux2, liberaleproveniente dai ranghi della Sinistra costi-tuzionale, vicino alla Corte ma non privo diuna sua visione politica (Manacorda 1967, p.LXVI; Doglio 1977), presenta un disegno dilegge contenente quelli che Umberto Levraha chiamato i «provvedimenti cosacchi»(1975, p. 299; 2001, p.181), ovvero un corpusdi interventi repressivi (sui quali v. le sinte-si recentissime di Colao 2007 e Latini 2007)che “codificano”, rendendole “permanen-ti”, le misure emergenziali che negli anniprecedenti, in maniera più o meno “tempo-ranea”, erano state adottate, sin dal 1894, daCrispi, Di Rudinì (Belardinelli 1976) e dallostesso Pelloux (con validità sino al 30 giugno1899) per contrastare le gravi “emergenze”dell’ordine pubblico: le proteste sociali, lospettro del sovversivismo, l’anarchia, l’anta-gonismo politico-sindacale.
Le più importanti libertà pubbliche(stampa, riunione, associazione) e i dirittidei lavoratori in alcuni settori strategici(ferrovie, poste, telegrafi) venivano forte-mente limitati e ricondotti prevalentemen-te alla discrezionalità dell’esecutivo. Conquesto intervento Pelloux modificava ulte-riormente le basi programmatiche del suogoverno e ritornava sulla strada più marca-tamente “repressiva”3. Il tentativo di ordi-nare la società complessa di fine secolo, dineutralizzare il conflitto socio-economico,di giuridicizzare (per mezzo di strumentiperlopiù repressivi) la politica parlamenta-
re, in realtà svelavano, come apparve agliosservatori più lucidi, la sostanziale debo-lezza (tema, come noto, ampiamente svi-luppato da Maranini 1967 nella prospetti-va sistemica del “regime pseudoparlamen-tare”) di una parte della classe dirigenteche, sulla scia del Novantotto, intendevaperseguire confuse suggestioni autoritarieindotte da paure e da progetti di “nuovi”equilibri politici incentrati su esecutivimonarchici.
Sostenuto ancora da ampi settori dellaSinistra costituzionale, Pelloux ricorse allatecnica delle tre letture confidando in unampio consenso della maggioranza (Perti-cone 1960, p. 153). Il progetto di legge fupresentato il 16 febbraio 1899 e l’esameebbe termine il 4 marzo quando venneapprovato ad ampia maggioranza il passag-gio alla seconda lettura. Il governo mostròinvece segni di indebolimento a seguitodell’ennesima improvvida avventura colo-niale in Cina che aveva immediate ricadu-te sulle linee di politica economica del-l’esecutivo. Le dimissioni del primo gabi-netto Pelloux, il 3 maggio, aprivano unanuova esperienza di governo, segnata inprofondità dall’incisiva influenza sonni-niana (Carusi 2003, pp. 420 ss.), che radi-calizzava l’azione dell’esecutivo su posizio-ni di destra-centro (celebre il giudizio diDomenico Farini: «…dal 1876 in poi, nonvi fu mai l’uguale di tendenze, origini, pro-positi conservatori!», 1962, pp. 1499-1500) e con la rinuncia al sostegno organi-co della galassia della Sinistra liberale(Levra 1975, pp. 324 ss.). A partire dal 1giugno il disegno di legge, redatto da Son-nino secondo l’orientamento più restrit-tivo della Commissione parlamentare egiunto alla seconda lettura, teneva a batte-simo l’ostruzionismo.
Lacchè
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3. Il tempo dell’ostruzionismo
Le vicende sono note: l’estrema Sinistra perimpedire l’approvazione della legge utilizzòle norme regolamentari vigenti per prolun-gare in maniera artificiosa la discussionesollecitando defatiganti appelli nominali,proponendo una selva di questioni pregiudi-ziali e sospensive, i rinvii alla commissione,un numero enorme di emendamenti suiquali chiedere la verifica del numero legale,sostenendo infine memorabili tour de forceoratori (Isastia 1977). Il 7 giugno, il princi-pale ispiratore dell’azione di governo, SidneySonnino, presentò una modifica al regola-mento. L’art. 89bis (Tanda 1996, p. 328)attribuiva al Presidente, qualora la discus-sione generale di un progetto o di un artico-lo di legge si prolungasse «in modo da tur-bare il regolare andamento dei lavori parla-mentari», la possibilità di chiedere all’aulauna deliberazione sul tempo massimo daassegnare ai singoli oratori, nonché di fissa-re il giorno e l’ora in cui la discussioneavrebbe dovuto terminare con la votazione. Le proposte del Presidente avrebbero dovu-
to essere votate subito dalla Camera peralzata e seduta, senza alcuna discussione odichiarazione di voto. Inoltre, giunto il ter-mine prestabilito, ogni discussione sareb-be terminata con la votazione. Il 10 giugnoAttilio Brunialti presentò una diversa pro-posta che avrebbe comunque dovuto limita-re gli atteggiamenti ostruzionistici: larichiesta di venti deputati per la verifica delnumero legale (art. 33), il divieto, per cia-scun deputato, di parlare più di venti minu-ti in seconda lettura (art. 59) e di presenta-re più di un ordine del giorno (art. 82), lavotazione per alzata e seduta in ordineall’interdizione inflitta all’oratore indiscipi-nato (art. 77) (Ibid., pp. 329-332).
Il dibattito che ebbe luogo in seno allaGiunta per il regolamento, dopo il 10 giugno1899, fissa con precisione i termini dellaquestione. In particolare la prima seduta,quando si comincia a discutere la propostaSonnino, mostra come il lavoro in Commis-sione “raffreddi” il calor bianco della lottaparlamentare e come le posizioni della mag-gioranza e della minoranza non siano anco-ra così irrimediabilmente divaricate. L’on.Simeoni «dichiara che il quesito è un solo:quello di sapere se l’ostruzionismo possaelevarsi ad istituto parlamentare, ammessoe rispettato. Egli è per la negativa. Accette-rà ogni proposta, che valga ad impedirlo eche si concili col maggior rispetto alla liber-tà della tribuna» (Ibid., p. 71).
Per la minoranza l’on. Sacchi solleva laquestione «se durante una discussione siapossibile ammettere che si muti la forma ele disposizioni del Regolamento» e l’on.Rampoldi ritiene che così si creerebbe unpericoloso precedente «mettendo semprela minoranza in balìa della maggioranza chepotrebbe di volta in volta riformare lenorme parlamentari» (Ibid., pp. 71-72). Di
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La Camera dei Deputati durante l’ostruzionismo del 1898-
99.
fronte alla necessità di intervenire su unasituazione eccezionale che rischiava,secondo i membri della maggioranza, dialterare la normale dialettica parlamenta-re, l’on Ferraris, della minoranza, non esitaa riconoscere «che l’istituto dell’ostruzio-nismo non possa essere in alcun modo con-sentito perchè sconvolgerebbe tutto ilsistema parlamentare» e d’altra parte ilrelatore di maggioranza, Cambray-Digny,non ha difficoltà a riconoscere che i dirittidella maggioranza devono incontrare«limiti ragionevoli» e che le propostehanno un carattere politico che «imbaraz-zerà anche la discussione in seno alla Com-missione del regolamento». La minoranzanon vuole impedire l’esame delle proposte,purché le soluzioni adottate non si appli-chino alla discussione in corso. Nella sedu-ta del 16 giugno l’on. Sacchi specifica ulte-riormente la posizione della minoranza e
aggiunge che quando pure si dovesse considerare
specialmente la discussione in corso non si può
dire che l’ostruzionismo sia introdotto nei costu-
mi parlamentari, dacché mai vi si ricorse per
importanti che fossero le leggi; riconosce i diritti
della maggioranza ma osserva che questa può ecce-
dere nell’uso di quelli e che se oggi non è più pos-
sibile il dispotismo di un principe è ben possibi-
le quello della maggioranza; in concreto si fa ostru-
zionismo perché si tratta di diritti statutari; una
maggioranza potrebbe privare i cittadini del suf-
fragio come ora li vuol privare dell’associazione, e
allora la minoranza entra nel diritto di opporre
resistenza anche con metodi eccezionali. Preve-
dendo poi di non poter riuscire ad impedire che
qualche deliberazione di genere abbreviativo si
prenda propone questa declaratoria pregiudizia-
le, sebbene riconosca che la forma odierna del-
l’onorevole Simeoni sia attenuata di fronte alle
proposte sue e dell’onorevole Sonnino: “Le forme
abbreviative della discussione non sono applica-
bili allorché si tratta di disegni di legge che riguar-
dino l’esercizio dei diritti statutari”.
[Ibid., pp. 78-79]
Alla fine l’art. 89bis proposto da Son-nino con le integrazioni “migliorative” diSimeoni e la relazione di maggioranza ven-gono approvati dalla Giunta per il regola-mento senza però che l’aula di Montecito-rio possa trarne vantaggio. L’on. Sacchiaveva però còlto nel segno ricollegando inmaniera esplicita il divieto di “ghigliotti-ne” alla difesa dei diritti statutari e attri-buendo quindi all’ostruzionismo una legit-timità di cui la stessa minoranza dubitava.Già contro Crispi l’Estrema Sinistra avevacominciato ad utilizzare la tattica parla-mentare per rallentare i lavori e per criti-care la politica del governo. E sin dalla XVIILegislatura si può scorgere l’impegno dellaGiunta per il regolamento a predisporresoluzioni antiostruzionistiche. Nella XVIIILegislatura Bonghi e altri deputati avevanopresentato una modifica delle misure disci-plinari contro i deputati “perturbatori” esoprattutto agli inizi della Legislaturaseguente la proposta Cibrario e quella “pro-vocatoria” di Cavallotti (che estendeva lesanzioni ai membri del governo e ai depu-tati sotto inchiesta) (Astraldi 1932, pp. 58-59; Tanda 1996, pp. 21 ss.) rivelavano l’av-vio di nuove strategie che dalla primaveradel 1899 avrebbero trovato massima realiz-zazione. La lettera di Andrea Costa aEdoardo Pantano, datata 17 aprile 1899,conferma il carattere concertato e sistema-tico dell’ostruzionismo:
Per l’ostruzionismo, di cui parlammo, mi sem-
bra che potremmo fare così. Voi invitate tutti i
Vostri, per mezzo dell’Italia, a trovarsi in Roma
il giorno della riapertura della Camera. Noi fac-
ciamo altrettanto. E nel giorno stesso della ria-
pertura teniamo – tutti – un’adunanza e fissiamo
le norme dell’ostruzionismo e diamo ai singoli il
mandato preciso di trovarsi in Roma in questi o
in quei giorni, affinché siano presenti sempre in
Lacchè
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numero sufficiente per chiedere l’appello nomi-
nale o per constatare il numero legale. – Va bene?
Rispondimi a Imola – Aff.mo A. Costa. P.S. Scri-
vo altrettanto al Barzilai. Comunica al Socci!
[cit. da Tanda 1996, p. 24].
Legittimo o meno, manifesto o occulto,proprio o improprio (Longi, Stramacci1968, pp. 112-113), che inneschi o meno unprocesso di accelerazione delle riformeregolamentari (Tanda 2001, p. 701),l’ostruzionismo appare nell’esperienza ita-liana di fine secolo anche un possibilesegnale di trasformazione del modo stessodi concepire il lavoro parlamentare: è, se sivuole, anche un indizio di un rafforzato spi-rito di organizzazione e forse della defini-tiva crisi dell’atomismo parlamentare.
Gli ultimi dieci giorni del giugno 1899segnarono la prima grande fase della batta-glia parlamentare. Il 20 giugno Pelloux pro-pose e ottenne, nonostante la forte opposi-zione, che la discussione delle modificazio-ni al regolamento fosse messa all’ordine delgiorno. L’indomani ebbe inizio ma già il 22la sessione venne prorogata e il 28 l’aula fuinvestita delle due questioni ormai indisso-lubilmente legate: i provvedimenti politicipresentati con decreto da convertire inlegge e la proposta di Sonnino e di altriquattordici deputati per formare una Com-missione ad hoc allo scopo di introdurre nelregolamento le modifiche dimostrate dal-l’esperienza opportune per il buon anda-mento dei lavori parlamentari e per predi-sporre un testo che avrebbe dovuto entra-re in vigore provvisoriamente senza discus-sione e votazione due giorni dopo la pre-sentazione alla Camera (Atti Parlamentari,Legislatura XX, seconda sessione, Docu-menti n. VII-quinquies).
Nella relazione al Re che accompagnavail famigerato decreto-legge 22 giugno 1899
n. 227, con efficacia esecutiva dal 20 luglio1899 (registrato con riserva dalla Corte deiConti), l’ostruzionismo è richiamato comemotivo dello stato di necessità. «La situa-zione creata da queste condizioni imponeal Governo il dovere di procurare che lavolontà ed il diritto della maggioranza pos-sano, secondo lo spirito degli ordini costi-tuzionali, ottenere la loro legittima preva-lenza. Non si può lasciare che una esiguaminoranza impedisca alla Camera deideputati l’esercizio delle sue funzioni» (AttiParlamentari, Legislatura XX, seconda ses-sione, Documenti n. 143-C; Di Muccio1987, p. 34). Nel suo scritto del 16 novem-bre 1899, «I decreti-legge e il regolamen-to della Camera», pubblicato nella NuovaAntologia, Sonnino subordinerà l’elimina-zione del discusso strumento “consuetudi-nario” della decretazione del governo (Isa-stia 1977, pp. 442 ss.; Latini 2006) – cheaffermava essere contrario al corretto fun-zionamento degli istituti rappresentativi(come ricorderà Ferracciù 1900, p. 486) –ad una riforma del regolamento che assi-curasse la soluzione del problema nei casidi necessità e urgenza «nonostante qua-lunque più fiera opposizione delle mino-ranze, e pur rispettando in queste ogni usoragionevole della libera discussione»(Sonnino 1972, I, p. 667).
L’ostruzionismo sempre più deciso del-l’Estrema depotenziò sia la proposta Fran-chetti di modifica regolamentare del 29giugno (Tanda 1996, pp. 86-90) sia la suaiscrizione all’ordine del giorno nella tor-nata del 30. Il decreto-legge liberticida del22 giugno – che entrerà in vigore il 20 luglio– aveva spinto i moderati ad abbandonaredefinitivamente l’atteggiamento di equidi-stanza. La seduta pomeridiana del 30 giu-gno fu tra le più drammatiche nell’aula sof-
Fondamenti
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focante di Montecitorio. Gli scontri tra isocialisti e i sonniniani non furono soloverbali, come potè provare lo stesso Sonni-no colpito da Bissolati (Levra 2001, p. 189).Il presidente Chinaglia fu aspramente con-testato. La sola soluzione possibile era met-tere fine alla seconda sessione della XXLegislatura.
Il 14 novembre 1899, con l’inizio dellaterza sessione, cominciava l’ultimo e deci-sivo atto della battaglia parlamentare. Son-nino aveva suggerito di andare a nuove ele-zioni prima di affrontare il nodo del decre-to legge e del regolamento (Sonnino, Diario,28 dicembre 1899, 4 gennaio 1900, I, 1972,pp. 414 e 428). Ma, indebolito sul piano poli-tico (Levra 2001, pp. 190-191), il gabinettoPelloux dovrà fronteggiare anche le conse-guenze della sentenza della prima sezionedella Corte di cassazione emessa il 20 feb-braio 1900. Era una sentenza che “declassa-va” il decreto del 22 giugno scorso a merodisegno di legge non discusso né approvatodal Parlamento, decaduto inesorabilmentedopo la chiusura anticipata della sessione,privo pertanto di efficacia giuridica e illegit-timo nella sua applicazione dopo il 20 luglio1899 (cfr. Meccarelli 2005). Studi recentihanno confermato l’importanza di questasentenza per l’esito della crisi: risultato nonimprovvisato (Lacchè 2004, pp. 113-116),nato da una comunanza di intenti tra alcunialti magistrati di Cassazione legati a Giolittie Zanardelli e la politica, non certo esente daerrori e contraddizioni, della Sinistra costi-tuzionale per una difesa dei principi libera-li legati alle libertà pubbliche e alle garanziegiuridiche. Il presidente Tancredi Canonico(Themelly 1975, pp. 171-175) e il consigliereLuigi Lucchini (anche dalla sua autorevoletribuna scientifica: Sbriccoli 1987) offrironoalla Sinistra moderata un’occasione – di per
sé non risolutiva – per uscire da una crisi il
cui esito restava incerto (Cambria 1989, I,
pp. 79-80; III, 1990, pp. 95-100; Malatesta
2001).
Ancora una volta Sonnino, eletto presi-
dente della Giunta per il regolamento, cercò
di dettare i tempi della politica parlamen-
tare. La discussione del “nuovo” disegno di
legge sui provvedimenti politici – dopo
l’esito infausto della sentenza della Cassa-
zione – fu però l’occasione per rinvigorire
l’ostruzionismo, riproponendo lo stesso
copione del giugno 1899. Il 21 marzo fa
capolino, sotto forma di mozione presenta-
ta da Tommaso Cambray-Digny, il mecca-
nismo della modifica provvisoria del rego-
lamento con esecuzione dal secondo gior-
no dopo la presentazione e il 29 marzo, tra
le proteste accesissime della Sinistra, il
progetto è approvato per alzata e seduta. «Si
fa colpo alla Camera», scrive Sonnino nel
suo Diario, mentre di Rudinì, già molto cri-
tico verso la riproposizione dei provvedi-
menti politici, e i suoi si mostrano perples-
si sull’azione “sonniniana” del governo,
incapace di trovare un compromesso con la
sinistra liberale.
Lacchè
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Il rovesciamento delle urne nell’Aula della Camera dei
Deputati il 30 giugno 1899.
Il Presidente dell’assemblea, GiuseppeColombo, il giorno seguente fu contestatocon epiteti di ogni genere e fu costretto apur brevissime dimissioni. Lo stesso Gio-litti aveva qualificato la manovra del gover-no una violazione aperta e diretta dello Sta-tuto, tanto più che si affidavano i pienipoteri ad una Commissione nella quale laminoranza non veniva adeguatamente rap-presentata. Il deputato di destra GabrieleD’Annunzio intanto lodava il “vitalismo”degli ostruzionisti della Estrema Sinistra(Levra 2001, p. 163). Il 3 aprile, dopo i vee-menti discorsi di Giuseppe Zanardelli e delrepubblicano Edoardo Pantano, che nonriconoscevano validità alla deliberazionedel 29 marzo e annunciavano l’abbandonodell’aula (inaugurando un “modello” dilotta politica destinato a proseguire, Mar-tucci 2001, pp. 80-81, 132) di tutti i depu-tati della Sinistra per protestare contro il«premeditato e preparato colpo di maggio-ranza, inteso a far votare senza discussionequelle norme regolamentari che sopprimo-no la libertà della tribuna parlamentare»(Tanda 1996, p. 31), iniziava l’ultima fasedi un confronto sempre più aspro nel qualealeggiava anche lo spettro della convocazio-ne di un’assemblea costituente… (cfr. laricostruzione in Levra 2001, pp. 191 ss.). Lareplica formale di Sonnino, che si trincera-va dietro il rispetto dell’ordine dellediscussioni parlamentari e del ruolo delPresidente dell’assemblea visto comedifensore delle libertà di tutti e delle stes-se istituzioni rappresentative, non sortivaalcun effetto (Di Muccio, I, 1987, p. 37). Il5 aprile il governo ritirava il decreto legge22 giugno 1899, a ulteriore conferma dellegame a doppio filo con la vicenda delregolamento parlamentare.
L’epilogo si compì il 15 maggio, alla
ripresa dei lavori. Fu allora che Giolitti,superata definitivamente la sua posizione di“attesa” e di “equidistanza”4, sottolineò lagravità della situazione (una modifica rego-lamentare ritenuta illegale dai due quinti deideputati) e formulò un’ultima proposta con-ciliativa: da un canto sospendere l’approva-zione del verbale della seduta del 3 aprile edall’altro nominare una commissione dinove membri eletti con voto limitato performulare, entro due giorni, soluzioni ade-guate mentre i lavori dell’aula restavanosospesi. «Evidentemente nessuna personaragionevole può volere un regolamento checonsenta l’ostruzionismo, ma nessuna per-sona ragionevole può pretendere che siabbia un regolamento il quale permetta allametà più uno dell’Assemblea di far tacere agiorno ed ora fissa l’altra metà meno unodell’Assemblea stessa».
La mozione non venne accolta e Giolit-ti la ritirò accollando al governo tutto il pesodelle proprie responsabilità. La votazionedel verbale fu l’ultimo atto del secondogoverno Pelloux e ben presto la vittoria diSonnino si palesò, come sappiamo, per ilsuo vero significato: una vittoria di Pirroche produsse invero l’effetto contrario.
Le elezioni del giugno 1900, l’appello alpopolo, furono fatali a Pelloux che, purconservando la maggioranza numerica,dovette constatare l’avanzata delle Sinistree dei moderati. «Ed allora – osserveràOrlando – il Gabinetto Pelloux fu costrettoa dimettersi… Egli è che bisogna liberarsidal pregiudizio di considerare le forme par-lamentari nel precetto semplicista che ilGabinetto può sussistere in quanto ha lamaggioranza nella Camera, la verità che unGabinetto può sussistere senza maggioran-za; e può non sussistere con la maggioran-za» (Orlando 1912, p. 66).
Fondamenti
42
La relazione Chimirri che accompagnò
le modifiche regolamentari ricorse a due
argomenti che già erano stati ampiamente
utilizzati (direi teorizzati da Sonnino 1899
(1972)): la libertà della discussione parla-
mentare era la ragion d’essere delle assem-
blee ma non poteva impedire l’esercizio di
una potestà fondamentale ovvero il diritto
della maggioranza a deliberare; i regola-
menti parlamentari in vigore in altre nazio-
ni prevedevano misure coercitive contro i
perturbatori dell’ordine delle discussioni.
Questo argomenti, per la verità, non erano
mai stati respinti a priori dalla minoranza:
il problema era l’uso strumentale delle
modifiche proposte per approvare i provve-
dimenti politici che incidevano fortemen-
te sull’assetto delle libertà costituzionali.
Mai, nella storia italiana, il regolamento
parlamentare aveva assunto una così piena
valenza costituzionale. Per Enrico Ferri
(1899 e 1900) il regolamento diventava la
legge delle leggi:
Il regolamento adunque ha valore fondamentale
e costituzionale per l’Assemblea stessa ed esso è
l’unico strumento per cui il lavoro dell’Assem-
blea legislativa può essere legale nella forma,
fecondo nella sostanza, coercibile al Paese cui si
ponga una determinata norma legislativa; per-
ché è col regolamento che si tutelano i diritti
imprescrittibili delle minoranze. Se questi dirit-
ti non avessero nel regolamento la loro sanzione,
il regime parlamentare sarebbe inesistente nella
sostanza ed alla prevalenza della maggioranza si
sostituirebbe la sua onnipotenza assoluta senza
confini.
Non la sostanza delle disposizioni ma il
metodo autoritario spaventava dunque
Ferri e la Sinistra, possibile prodromo di
una completa involuzione costituzionale
che muoveva da azioni contrarie a qualsia-
si legalità di forma. L’on. Sacchi, che già
aveva mostrato in modo chiaro nel 1899 laposta in gioco e il fondamento di legittimi-tà dell’ostruzionismo, ribadì in coda allarelazione di maggioranza che il diritto dilimitare l’opposizione era giusta «solquando la maggioranza non miri a restrin-gere i diritti fondamentali di libertà e disuffragio che formano il contenuto essen-ziale della costituzione politica del Paese.Questo caso avverandosi, la minoranza, chela costituzione vuol difendere, non può piùessere giudicata a stregua del regolamentointerno dell’Assemblea, ma il diritto dichiedere che il Paese sia chiamato a giudi-care in supremo appello se la sua volontàsovrana sia rappresentata dalla maggioran-za o dalla minoranza» (cit. da Di Muccio, I,1987, pp. 41-42).
Il “pacchetto” Sonnino, nato morto,interveniva su una buona parte degli istitu-ti e dei congegni procedurali che erano statimotivo di ostruzionismo: la votazione delprocesso verbale, la verifica del numerolegale, la presentazione di articoli aggiun-tivi o emendamenti, lo svolgimento degliordini del giorno, la votazione per alzata eseduta sulle deliberazioni della Camerarelative all’interdizione della parola esoprattutto, come nel modello inglese(Bertolini 1981, pp. 476 ss.; Ghisalberti1986, p. 256) la cd. “ghigliottina” (artt. 87-bis, 88-bis, 89-bis), ovvero l’insieme dellemisure volte a negare l’accettazione e losvolgimento di ordini del giorno o emenda-menti estranei alla discussione e a limita-re ad un massimo di dieci minuti il tempoper ciascun oratore per arrivare sino allafissazione del giorno e dell’ora in cui ladiscussione avrebbe dovuto terminare conil voto immediato (Astraldi 1932, pp. 64-66; Di Muccio, I, 1987, pp. 38 ss.).
Lacchè
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4. Il regolamento del 1900 come “svolta” dellastoria costituzionale italiana?
La XXI Legislatura, iniziata con la crisiextraparlamentare del governo Pelloux econ l’incarico al vecchio senatore sabaudoGiuseppe Saracco, riprese il discorso dadove, il 15 maggio, era stato interrotto conil rifiuto della mediazione Giolitti. Uno deiprotagonisti della vicenda fu TommasoVilla, grande avvocato d’affari, già guarda-sigilli, sodale di Crispi, ed eletto il 28 giu-gno 1900 a grandissima maggioranza presi-dente della Camera che già aveva guidato trail 1895 e il 1897 (v. la bella biografia intel-lettuale di Montaldo 1999; Montaldo 2001,p. 203). Divenne così presidente il “trasfor-mista” Villa che nel 1899 aveva dato ampiadisponibilità a Sonnino e Pelloux ad assu-mere quella stessa funzione nel periodo piùcaldo della lotta parlamentare. Chiusa la XXLegislatura con lo strappo sul regolamento,la nuova non poteva non affrontare in viapreliminare questa delicata questione. Ildiscorso di insediamento del nuovo Presi-dente, equilibrato e lucido, sancisce l’armi-stizio tra le parti in lotta: se il regolamentoaveva diviso la Camera sino ai tumulti e allaviolenza, ora esso doveva unire per ridarevigore e legittimità ad un Parlamento feri-to e incerto. Villa (legato a Sonnino) muoveda un principio di forte discontinuitàrispetto al recente passato. Ogni legislatu-ra, si afferma, ha il diritto di stabilire il pro-prio regolamento garantendo la liberamanifestazione delle idee e del voto5. Se inpassato era prevalso il principio della con-tinuità ciò era avvenuto per tacito consen-so non trovando consacrazione in unadisposizione legislativa. Il Presidente sotto-linea la complessità del lavoro parlamenta-re di fronte ad una società che cresce e che
pretende risposte. Il progresso sociale eeconomico non può essere raggiunto sel’autonomia del Parlamento non viene pie-namente assicurata. «Ogni convinzione,ogni idea onestamente professata èun’energia. Ogni energia ha un valore,morale od economico, poco importa, ma unvalore che non deve essere trascurato mai»(cit. da Di Muccio, I, 1987, p. 52). Il regola-mento avrebbe dovuto essere lo strumentoper valorizzare queste energie e per consen-tire lo svolgimento di un leale e libero con-fronto tra tutte le parti. Per questo Villa pro-pose di istituire una Commissione che entrodue giorni avrebbe dovuto presentare unoschema di regolamento. L’on. Pantano, anome dell’Estrema Sinistra, accolse confavore le parole di Villa che aprivano unanuova stagione, pur manifestando dubbi suldiritto della Camera a darsi ad ogni legisla-tura il suo regolamento. Tale principio eradettato da circostanze eccezionali e nondoveva costituire un precedente.
La Commissione, presieduta dallo stes-so Villa e formata da molti dei protagonistidei dibattiti e delle lotte parlamentari difine secolo (da Ferri a Giolitti, da Di Rudi-nì a Pantano, da Chinaglia a Sacchi, daBiancheri a Zanardelli), assolse senza pro-blemi il suo compito. Il valore dei commis-sari, la loro rappresentatività politica e ilconsenso diffuso portarono, il 1 luglio1900, ad una rapidissima discussione eapprovazione, dopo che il Presidente-rela-tore aveva di nuovo, con particolare enfasi,richiamato il principio della tabula rasa. Siera insomma lavorato guardando al futuroe non più al passato, ai dissidi recenti e aimotivi di discordia, anche se era evidente lapresenza di norme generali che non pote-vano non figurare in un qualsiasi regola-mento parlamentare.
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Per questa ragione la Commissione man-tenne tutte quelle disposizioni, e non eranopoche, che avevano dato buona prova nelpassato. Il nuovo regolamento, mediante ilricorso al voto limitato, offriva alla minoran-za maggiori garanzie di rappresentativitànelle Commissioni e nelle Giunte, a comin-ciare dalla Giunta per le elezioni e dall’Uffi-cio di Presidenza. Si istituzionalizzava inol-tre la presenza del Presidente dell’assembleaalla guida della Commissione per il regola-mento. Inoltre le Commissioni dovevanoriferire entro un termine stabilito, trascor-so il quale ogni deputato poteva reclamaredalla Camera il rispetto dei tempi e diversa-mente si poteva discutere il provvedimentosenza l’avviso della Commissione.
Il tema più dibattito fu ovviamentequello che riguardava l’ordine dei lavoriparlamentari. Non v’è dubbio che la figuradi Villa, che aveva molto tenuto a presentar-si come Presidente super partes – tanto piùdopo gli esempi discutibili dei suoi imme-diati predecessori e lungo una tradizioneche aveva molto stentato a depoliticizzarnela funzione (Ungari 1968, pp. 70 ss.) –,rimise al centro della discussione, conatteggiamento “pretorio”, la funzione pre-sidenziale (cfr. Di Muccio 1979; Torre2000; Iacometti 2001; la recente sintesi inGianfrancesco 2007) come chiave di voltaper il buon andamento dei lavori parla-mentari6. La tesi che alla fine prevalse,condivisa dallo stesso Villa, individuavanelle attribuzioni “generali” del Presiden-te una barriera sufficiente a contenerecomportamenti e azioni contrari allo spi-rito dell’ordine parlamentare. Tuttavia, laCommissione aveva ritenuto di dover eli-minare «quei mezzucci ai quali si potevaricorrere per sottrarsi in qualche modo allesue attribuzioni».
Non era più permesso di ricorrere avotazioni nominali per qualunque questio-ne, ma solo quando fosse necessario il votodi proposte complete; il Presidente avevafacoltà di negare l’accettazione e lo svolgi-mento di ordini del giorno, emendamen-ti o articoli aggiuntivi redatti in modosconveniente, relativi ad argomenti affat-to estranei all’oggetto della discussione; intal senso gli oratori non potevano usaremezzi dilatori e il Presidente aveva lafacoltà, dopo due richiami, di vietare laparola per il resto della seduta, salvo ildiritto di appello alla Camera che decide-va per alzata e seduta e senza che si potes-se invocare la verifica del numero legale;inoltre il Presidente poteva, in caso di tur-bamento dell’ordine, dopo i richiami dirito, proporre all’aula l’esclusione per ilresto della seduta e nei casi più gravi lacensura con l’interdizione sino a otto gior-ni. Non venne invece accolta dalla Com-missione la proposta ulteriore di deferireal potere discrezionale del Presidente, sudomanda firmata da cinquanta deputati econ votazione a scrutinio segreto a mag-gioranza di due terzi, il modo di discipli-nare il prosieguo della discussione nei casidi grave turbamento dei lavori. Il Presi-dente Villa giustificò tale diniego osser-vando come nel caso di tumulti si abban-donasse lo spazio di un’assembea funzio-nante per entrare in una diversa situazio-ne. «Ma, lo ripeto: come potete voi con unarticolo regolare l’ostruzionismo violen-to?». Il Presidente non aveva bisogno diulteriori poteri discrezionali7. Come diràGiolitti durante la discussione, «A mioavviso l’ostruzionismo è impossibilequando il Governo adopera la prudenzanecessaria e non crea situazioni violente,e quando il Presidente ha sufficiente auto-
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rità e sa valersi dei mezzi che il regolamen-to mette a sua disposizione».
Il regolamento del 1 luglio 1900 pacifi-cava gli animi, ristabiliva condizioni nor-mali nell’attività parlamentare, sanciva lafine della crisi di fine secolo e apriva unanuova stagione. Il sentimento della “svol-ta” è ben presente ai protagonisti di questavicenda e trova riscontro nella memoriali-stica. Era un regolamento, approvato inmaniera regolare e definitivo8, che chiude-va la lunga fase della duttile provvisorietà eindividuava nuovi equilibri, irrigidendoforse il diritto parlamentare e la sua stessaevoluzione (Manzella 1977, pp. 50-51). Nonbisogna però dimenticare che per la primavolta il regolamento parlamentare – come“strumento di decisione” – aveva dovutofronteggiare una crisi acutissima aventecome posta in gioco quelle libertà costitu-zionali, quei diritti di libertà politica (Fer-racciù 1900, p. 492), che in Italia avevanofragili radici. La forte “costituzionalizzazio-ne” del regolamento Villa nasceva da que-sta profonda preoccupazione.
Una certa “retorica” della centralità delParlamento aleggia nel dibattito che portòal nuovo regolamento e alcuni “segnali”, inesso iscritti, lasciano solo intuire quel per-corso di “democratizzazione regolata” chesarà la grande sfida dell’età giolittiana.Saranno piuttosto il decreto del 14 novem-bre 1901 n. 466 sulle attribuzioni del Con-siglio dei ministri (Rotelli 1972; Merlini1995); un uso non più “monarchico-ese-cutivo” della proroga e della chiusura dellesessioni, l’affermarsi, dal 1906, della con-venzione della fiducia preventiva (Rossi2001), l’introduzione del suffragio univer-sale maschile a stabilire, assieme ad altrifattori, le condizioni istituzionali per unosviluppo (pur provvisorio) del continuum
corpo elettorale/rappresentanza parlamen-tare/governo/indirizzo politico (Montaldo2001, pp. 204 ss.).
Il regolamento del 1900 fu dunque ilregolamento dell’età giolittiana e dell’ulti-ma fase della crisi dello Stato liberale sinoalle sostanziali modifiche del 1920-22, marappresenterà anche il “blocco regolamen-tare” destinato a funzionare da paradigmanella successiva “nuovissima” vicendarepubblicana. Ci si è ben interrogati sulleragioni di questa continuità (Manzella 1977,p. 51; Caretti 2001, pp. 587-588) e a me pareche la si possa considerare solo avendo benpresente l’assetto complessivo della costi-tuzione materiale italiana nel primo ven-tennio del secolo. E non v’è dubbio chequesta longue durée del regolamento del1900/1922 abbia potenziato ex post il cano-ne della “svolta” costituzionale.
Nel 1900 non tutte le voci però cantaro-no nello stesso coro. Agli opposti estremitroviamo Sidney Sonnino e Arturo Labrio-la. L’uomo politico toscano colse l’occasio-ne della breve discussione sul testo delnuovo progetto per manifestare la sua pre-occupazione: il regolamento, oltre ad asse-gnare alle minoranze una rappresentanzafuori misura negli Uffici di Presidenza enelle Giunte, faceva un passo indietro nelladisciplina dell’ostruzionismo che era unfenomeno ben diverso dalle singole, spora-diche, azioni dilatorie. «Prevedo – osser-vava – che purtroppo saremo presto dacapo… ». Ben diverso, come si può intui-re, il giudizio di Labriola. A suo dire ilnuovo regolamento rafforzando comunqueil potere discrezionale del presidente e ingenerale le misure antiostruzionisticheponeva le basi per un rinvigorimento dellalinea conservatrice assicurata da Saracco eprobabilmente dallo stesso Villa (Montal-
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do 2001, p. 203). «Così, dopo due anni dilotte e di proteste, l’Estrema accettava, con-tenta o rassegnata, la situazione contro laquale si era tanto fortemente ribellata»(Labriola 1975, p. 40).
5. La scienza giuridica di fronte ai “nuovi”fenomeni
La crisi di fine secolo vista attraverso lavicenda regolamentare offre, per la primavolta, alla scienza giuridica lo spunto perinterrogarsi sul fenomeno ostruzionismo epiù in generale sul problema dei regola-menti parlamentari. Un’originale figura distudioso del diritto costituzionale, diorientamento sociologico-giuridico [Cian-ferotti 1980, p. 200; Lanchester 2004],Antonio Ferracciù, professore a Sassari,Perugia e Siena, autore, a fine secolo, disaggi significativi sulle libertà di riunionee di associazione e su vari istituti parlamen-tari (regolamenti del Senato, inchiesta,incompatibilità, nomina dei senatori ecc.)pubblica nel 1901 la prima organica rifles-sione scientifica sulla dimensione giuridi-ca e politico-costituzionale dell’ostruzio-nismo9. Si trattava, per l’Italia, di un feno-meno nuovo, ancor privo di una base scien-tifica e per questo «in balia completa alleinconsulte e parziali esagerazioni della let-teratura giornalistica, le quali andaronodeterminando ognor più intorno ad essouna serie di giudizi oltremodo unilaterali,punto scientifici, utili solo in quanto le pas-sioni della politica militante fossero meglioe nella più varia maniera riusciti a solleci-tare» (Ferracciù 1901, p. 321; Levra 1975,pp. 332-333, sulla battaglia giornalisticacontro l’ostruzionismo).
L’autore, assai critico verso i “provve-dimenti politici”, riconduce l’analisi giu-ridica dell’ostruzionismo proprio alla natu-ra del governo parlamentare come governodi gabinetto. Ci può essere il caso di unamaggioranza legale che non è però maggio-ranza reale. In questo caso il dissidio puòessere pericoloso e il capo dello Stato puòsciogliere la Camera per interrogare diret-tamente il paese. Ma qual è il fondamentoper l’esercizio dell’ostruzione? Ebbene,quando la Corona non intende avvalersidelle sue prerogative (nomina dei ministrie scioglimento della Camera), «laddoved’altro canto risulti chiaramente che ilGabinetto più non rispecchi le tendenze delpaese, dal quale la maggioranza parlamen-tare, incerta o provvisoria o meccanica,siasi allontanata in guisa da non potere piùoltre rappresentare l’organo principaledella sua volontà politica, trova in tali con-dizioni giuridico fondamento l’eserciziodell’ostruzione da parte delle minoranze diopposizione, mercè il ricorso legale a tuttiquei diritti regolamentari, onde possanoprocrastinarsi le risoluzioni della materiain discussione, per guisa da lasciar tempoalla volontà del paese di manifestarsi deci-sa ed energica ed imporsi nello Stato»(Ferracciù 1901, p. 326). Fedele ad unavisione antiformalistica del fenomenocostituzionale Ferracciù scorge nell’ostru-zionismo legittimo una «zona grigia» (Fer-racciù 1905; Lanchester 1998) ma non anti-giuridica (contra Santangelo Spoto 1908, p.1113; Miceli 1913, p. 772; Nigro 1918, cheparlerà di “teoria di anarchia”). Quando ilSovrano
senza una vera necessità di Stato, si rifiuti di
accogliere le manifestazioni legittime della volon-
tà popolare, che in seno al Parlamento si concre-
tino nelle aspirazioni di una minoranza organi-
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camente compatta ed omogenea, ma soverchia-
ta e schiacciata dalla brutalità di una maggioran-
za numerica, che non sia alimentata da virtù
organica di principi e di tendenze… In tale eve-
nienza, la ostruzione altro non rappresenta che la
sostituzione legittima, diremmo della coscienza
della vera rappresentanza nazionale alla coscienza
non vera che, nella nuova posizione intervenuta
nel funzionamento del Governo parlamentare,
di essa siasi fatta il Sovrano per rapporto
all’eventuale esercizio della prerogativa accen-
nata di sopra.
[Ferracciù 1901, p. 327]
La coscienza popolare diventa in questo
caso la fonte dell’ostruzionismo che assurge
pertanto a diritto, proprio perché la base giu-
ridica della forma di Governo rappresenta-
tivo risiede nel consenso popolare. È dunque
un fenomeno eccezionale10 ma non antigiu-
ridico. Se il governo rappresentativo è una
forza autonoma tra lo Stato e la società, il Par-
lamento deve sentire l’influenza costituzio-
nalmente decisiva dell’opinione pubblica;
deve essere in armonia col corpo sociale «e
le crisi nel Governo di Gabinetto sono
appunto preordinate a conservare inaltera-
ta tale armonia». Se dunque è la minoranza
a meglio corrispondervi, essa ha il diritto di
procrastinare le deliberazioni della maggio-
ranza. L’ostruzionismo “giuridico” – nono-
stante alcuni dei pericoli segnalati da Sonni-
no – non è un fenomeno violento a cui ricor-
rono forze estremiste. Nel 1893, per esem-
pio, l’ostruzione è esercitata dai conservato-
ri britannici contro Gladstone favorevole alla
Home Rule irlandese. Ferracciù riprende le
categorie orlandiane di resistenza e di rivo-
luzione (Lacchè 2003; Buratti 2006, pp. 166
ss.) e inquadra l’ostruzionismo, a metà tra le
due, come forma speciale di resistenza collet-
tiva legale. Le preoccupazioni e le obiezioni di
Sonnino non lo convincono: si possono
introdurre freni e limitazioni ma ciò che
conta davvero sono le condizioni politichegenerali, il potere più o meno forte dell’opi-nione pubblica, la diversa configurazionedelle parti politiche.
Per Sonnino la comparazione – a comin-ciare dall’autorevole esperienza britannica eamericana – mostra la piena legittimità efunzionalità di interventi volti a limitare,soprattutto in virtù del riconoscimento alPresidente d’assemblea di poteri incisivi,azioni ostruzionistiche e dilatorie, specie sulpunto della riforma regolamentare (Sonni-no 1972, I, pp. 667 ss.). Per Ferracciù, inve-ce, la comparazione rivela come una mino-ranza ostruzionistica finirà sempre per averela meglio, nonostante i freni regolamentari,quando essa è volta a contrastare o ritardarel’approvazione di leggi o provvedimenti chenon siano l’espressione della coscienzanazionale. È il caso degli Home rulers irlan-desi (1881, contro il Coercion bill di Gladsto-ne); nel 1890 dei socialisti, liberali e demo-cratici belgi contro il tentativo dei cattoliciconservatori di approvare una legge eletto-rale restrittiva e illiberale (l’opinione pub-blica si dimostrò dalla parte della minoran-za e il governo dovette dimettersi); nel 1897dei parlamentari austriaci e tedeschi (San-tangelo Spoto 1908, p. 1111); degli spagnolinel 1899. Se dunque si rivelano inopportu-ni e illiberali i freni regolamentari perma-nenti (d’indole politica o giuridica) perchépossono ostacolare ogni legittima opposi-zione, sono da ritenersi comunque preferi-bili i freni preventivi d’indole morale, a quel-li repressivi d’indole politica o giuridica. Lacorrettezza costituzionale è quindi indispen-sabile. «Non v’ha ormai chi non si mostriconvinto che il buon andamento del Gover-no parlamentare si fonda essenzialmente suuna serie di concessioni, di transazioni e ditemperamenti reciprocamente riconosciu-
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ti, nell’esercizio di lor proprie funzioni, frai diversi organi principali di cui si componel’intero organismo statuale e tra le partidiverse eziandio di codesti organi» (Ferrac-ciù 1901, p. 410). Governi e maggioranze,minoranza e opinione pubblica devono a talfine cooperare moralmente e preventivamenteper impedire forme estreme di resistenza. Eciò è possibile quando la maggioranza ha unavera base d’idee, è veramente rappresentativae non è invece onnipotenza del numero.Questa analisi critica porta Ferracciù a “spie-gare” la crisi di fine secolo attraverso unduplice fenomeno: un Parlamento troppogiovane perché potesse sviluppare gradata-mente e con misura le proprie facoltà e chesi sentì spesso nel diritto di usurpare le fun-zioni degli altri organi dello Stato. Ma ciòavrebbe finito paradossalmente col raffor-zare oltremodo il Gabinetto.
Continua invero e assai funesta è l’invasione che
il Gabinetto esercita da un pezzo, in Italia, in
quelle attribuzioni e prerogative, specialmente
col sistema dei decreti-legge, appoggiandosi
all’autorità della Corona, cui giunge talora a sco-
prire... Così stando le cose, è naturale che il
Gabinetto, in questa marcia progressivamente
illiberale, di conquista in conquista, siasi spin-
to fino al punto di presentare un progetto di
riforme statutarie che, ben lungi dallo apparire
sufficientemente giustificate da ragioni di poli-
tica necessità, significavano invece una evolu-
zione giuridica in senso inverso, in quanto appa-
lesavano una forte tendenza reazionaria, con-
traddistinta specialmente dal carattere perma-
nente che la rivestiva.
[Ferracciù 1901, p. 413]
L’autore conclude sul grande male ita-liano: il distacco tra le istituzioni e lacoscienza popolare che si esplica nell’opi-nione pubblica (cfr. Lacchè 2003); ed è unmale che coinvolge tanto la maggioranzache la minoranza, perché un’opinione viva,
vigorosa, imperiosa, è il frutto della educa-zione e dei costumi politici del paese.
Di certo, la crisi di fine secolo coincisecon un impegno significativo della dottrinaitaliana nell’esame e nella ricostruzione cri-tica dei diversi aspetti del diritto parlamen-tare, andando oltre i modelli, inglese, fran-cese e belga, che più avevano influenzatol’elaborazione del sistema nazionale. Nel1906 Santi Romano affrontando la questio-ne della natura dei regolamenti delle assem-blee parlamentari osservava come il temafosse stato poco trattato e per lo più superfi-cialmente. Muovendo dalla negazione dellaqualità di norme giuridiche (concetto che poisupererà ampiamente, Cheli 1967, p. 13; Tra-versa 1968, p. 20), anche Romano scorgevanei regolamenti un “luogo” di sperimenta-zione, consolidazione e oggettivazione diregole «in modo da renderle adatte … adessere assunte nel sistema delle vere normegiuridiche, sia pure consuetudinarie… Oraciò che le leggi non fanno, ed è bene che nonfacciano, può anche darsi che, talvolta, siasuscettibile di formare oggetto di regola-menti parlamentari» (1906, p. 257). Si puòdire che questa conclusione è l’“anteprima”di quella prolusione pisana del 1909 cheRomano dedicherà al tema “diceyano”,intonso o giù di lì nella riflessione italiana,del rapporto tra Diritto e correttezza costituzio-nale. I principi e le regole della constitutionalmorality offrono quella duttilità di cui uncomplesso sistema costituzionale parlamen-tare non può fare a meno. Tramite e filtro trala morale e il diritto, la correttezza gli appari-va quel fluido «senza che la lotta assume-rebbe un carattere troppo aspro e non si evi-terebbe la frode e l’insidia». Solo dopo lanecessaria “sperimentazione” quei principie quelle regole potevano aspirare a diventa-re consuetudini apportando elementi di
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nuova giovinezza alle istituzioni politiche e in
particolare salvaguardando la “purezza” e
l’autonomia del giuridico (sub specie iuris
constitutionis) dalla spinta impetuosa e
disordinata del sociale (cfr. Fioravanti 1981
(2001, I), pp. 318 ss.).
Privata della sua impetuosità e impulsività occa-
sionale e dei suoi fermenti non durevoli, essa può
tradursi in norma di correttezza, consolidata mag-
giormente e, sopra tutto, saggiata dalla lunga pra-
tica, può in seguito divenire consuetudine, ovve-
ro ispirare l’attività del legislatore, ed entrare con
l’una o l’altra veste nel tempio del diritto. Severo
e solenne tempio, le cui porte invitatrici non ven-
gono mai chiuse, e che attende sempre nuove pie-
tre e nuove colonne, per ingrandirsi e rafforzarsi,
ma che non sarà mai difeso abbastanza rigorosa-
mente da tutto ciò che è eccessivamente caduco, o
fragile, o volgare. Solo in tal modo il diritto potrà
costituire il centro di gravità, intorno al quale,
dando e ricevendo vita, potranno equilibrarsi le
altre norme sociali in un armonico sistema.
[Romano 1909, p. 285]
Forse Romano pensava anche all’esito
della crisi di fine secolo e ai primi anni del-
l’età giolittiana. Ma il solenne tempio del
grande giurista siciliano non era il Parla-
mento, bensì il diritto. La complessità del
giuridico tuttavia doveva fare i conti, dopo
la crisi di fine secolo, con un tempio meno
severo e solenne segnato da disarmonie e
questioni aperte: una politica costituziona-
le inquieta dinanzi ai dilemmi della demo-
cratizzazione del paese.
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Fondamenti
52
1 Sulle diverse interpretazioni e
sulla più recente discussione
storiografica più recente rinvio
a Guazzaloca 2004, pp. 94 ss.2 Sulla figura di Pelloux e sulla sua
ascesa al potere v. Levra 1975,
pp. 233 ss.3 Levra 1975, pp. 237 ss., insiste
piuttosto sulla assoluta continui-
tà dei due governi del “bifronte”
Pelloux, ma per una analisi più
convincente del “mutamento” di
indirizzo v. Doglio 1977, pp. 327
ss.4 Giolitti, nelle Memorie, 1922,
traccia le linee direttrici di quel-
la che sarebbe stata la sua visione
politica nella crisi di fine secolo:
dall’iniziale posizione di attesa
verso la svolta autoritaria di Pel-
loux all’equidistanza dall’ostru-
zionismo sino alla piena afferma-
zione del “progetto liberale”. 5 Questa tesi avrà nel 1906 l’avallo
autorevole di Santi Romano: ad
ogni legislatura il regolamento
«cessa allora di aver vita giuridi-
ca e, se, come di fatto suole avve-
nire, la nuova camera si sottopo-
ne al regolamento medesimo, ciò
dipende da un suo atto di volon-
tà, per lo più tacito, col quale essa
si dà delle disposizioni perfetta-
mente identiche nel loro conte-
nuto alle antiche, ma che debbo-
no considerarsi come emanate
nel momento in cui essa comin-
cia a funzionare uniformandosi di
fatto a quelle disposizioni dimo-
stra di volerle adottare» (p. 246). 6 Per un’analisi particolarmente
approfondita del ruolo “poten-
ziato” del presidente d’assem-
blea visto come perno istituzio-
nale per la risoluzione di conflit-
ti “ostruzionistici” insorti tra
maggioranza e minoranza, anche
in prospettiva comparatistica, v.
Chimienti 1920, II, pp. 282-298. 7 Sonnino nel 1899 affermò la con-
vinzione che il combinato dispo-
sto degli artt. 13 e 77 del regola-
mento vigente potesse essere
interpretato nel senso di attribui-
re al presidente «tutta quella
superiore autorità discrezionale
che è manifestamente indispen-
sabile al disimpegno dell’arduo
suo ufficio…» (Sonnino 1972, I,
p. 672).
8 Ugo Galeotti (1902, p. 6) osser-
va che «per la sua composizione,
in parte frammentaria ed in
parte improvvisata, presenta
dove lacune, dove ripetizioni,
dove spostamenti…». 9 Ippolito Santangelo Spoto nel
1908 continua ad affermare che
«Sull’ostruzionismo una biblio-
grafia non esiste» (p. 1107). 10 L’autore lo definisce così: «quel-
la forma speciale ed eccezionale
di opposizione, che una mino-
ranza parlamentare, entro i limi-
ti assegnati dalle leggi e dai rego-
lamenti costituzionali, esercita
contro il gabinetto e la maggio-
ranza, allorché per le condizioni
speciali di composizione di que-
st’ultima e per la riluttanza del
Sovrano a valersi delle prerogati-
ve più specialmente dirette alla
eliminazione del conflitto, a
quella riesca impossibile provo-
care una crisi che sarebbe invece
resa necessaria dalla mancata
armonizzazione reale ed effettiva
della volontà dell’Assemblea con
la volontà nazionale» [p. 328].
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53
Nella sua breve vita infelice, la profonda
riforma del regolamento della Camera dei
deputati approvata nell’estate del 1920 e
rimasta in vigore fino alla primavera del
1924 non poté dare buona prova di sé. La
logica proporzionalistica e partitica alla
quale essa s’ispirava, infatti, mancò di
affermarsi in quegli anni, tanto dentro l’as-
semblea elettiva quanto, più in generale,
nel sistema politico: si sovrappose e scon-
trò con la logica individualistica e a modo
suo maggioritaria che proveniva dai prece-
denti sessant’anni di vita unitaria, e insie-
me alla sua contendente fu infine sconfitta
da una terza logica, quella partitica e una-
nimistica al contempo – ossia autoritaria –
imposta dal fascismo. Ripercorrere la
vicenda della riforma regolamentare del
1920 significa dunque scrivere la storia di
una sconfitta. Una sconfitta quanto mai
interessante, però. Perché in quella rifor-
ma non soltanto troviamo un passaggio cru-
ciale del percorso ormai quasi centocin-
quantenale che l’Italia ha attraversato nel
tentativo – vano, finora – di risolvere i pro-
blemi congiunti della rappresentanza poli-
tica e della stabilità di governo. Ma trovia-
mo anche il passaggio nel quale, per la
prima e unica volta, si sono scontrate l’una
con l’altra le tre diverse soluzioni che a quei
problemi il paese ha successivamente ten-
tato di dare: appunto, quella liberale, quel-
la autoritaria, e quella democratico-parti-
tica. Il regolamento del 1920 diventa così
un punto di osservazione privilegiato dal
quale diventa possibile considerare per
intero la tormentata vicenda della ricerca
italiana della modernità politica.
1. La riforma regolamentare del 1920 nel suo
passato
La storiografia ha ormai da qualche tempo
ricostruito in maniera sufficientemente
compiuta e nel complesso soddisfacente
tanto il funzionamento concreto del siste-
ma politico e istituzionale prefascista quan-
to la teorizzazione giuspubblicistica che a
Il “luogo” storico della riforma regolamentare del 1920 nella vicenda politica italiana
giovanni orsina
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
quel funzionamento era sottesa. Così sulpiano teorico come su quello pratico, lapreoccupazione principale della classe diri-gente liberale era quella di difendere unostato risorgimentale che essa considerava,non necessariamente a torto, moderno eprogressivo, da una società civile reputataancora in larga misura arretrata, ostile eperniciosa. Quest’operazione di isolamen-to dello stato dalla società – isolamentorelativo, del resto, trattandosi pur sempredi un regime liberale – si fondava su uninsieme di meccanismi politici e istituzio-nali che in dottrina fu soprattutto VittorioEmanuele Orlando a razionalizzare. In ter-mini istituzionali, la “difesa” dello stato eragarantita da una concezione non democra-tica ma – per così dire – “aristocratica”della rappresentanza, dal suffragio ristret-to, dal ruolo sostanziale e non meramenteformale che soprattutto al momento di for-mare il governo giocava il sovrano, dallalibertà di cui godeva il presidente del con-siglio incaricato nel comporre il gabinettoe quindi nel rapportarsi con l’assembleaelettiva. In termini politici pesava la posi-zione di solida ed egemonica centralità chela classe dirigente liberale deteneva all’in-terno del sistema politico italiano. In dot-trina, infine, gli elementi che abbiamoappena presentato ricevevano una sanzio-ne nella teorizzazione dell’elezione come“designazione di capacità”, e della forma digoverno italiana come forma “dualistica”,nella quale l’esecutivo doveva ricevere unasanzione politica dalle camere, e una giuri-dica dal monarca.
Che la ristrettezza del suffragio italiano,anche dopo la riforma del 1882, fosse unostrumento di “difesa dello stato” è una con-statazione a tal punto banale da non richie-dere particolari dimostrazioni. In termini
comparatistici, è evidente come i confininumericamente e socialmente circoscrittidell’elettorato italiano ponessero ancoraalla fine del diciannovesimo secolo il pro-blema del controllo delle dinamiche poli-tiche in una forma molto diversa nel nostropaese rispetto a quel che accadeva in Fran-cia, Germania e Regno Unito – ossia là doveil raggiungimento di una dimensione poli-tica compiutamente “moderna” richiedevaal ceto dirigente un uso ben più massiccioe raffinato degli strumenti organizzativi eideologici adatti a una vita pubblica dimassa. Proprio il suffragio ristretto con-sentiva alla classe politica liberale, com’èdel resto noto, di stabilire col proprio elet-torato un rapporto di rappresentanza nontanto ideologica, quanto piuttosto partico-laristica, localistica e personalistica – inuna parola, notabilare. Questa constatazio-ne non va ovviamente intesa in terminiassoluti. Gli studi sull’Italia liberale sonoandati sufficientemente avanti da mostra-re quanto variegato fosse il panorama poli-tico nazionale in termini sia spaziali siatemporali – da collegio a collegio e daperiodo a periodo. Di candidati che siappellassero in termini ideologici, o per lomeno ideali, al proprio elettorato non è chene mancassero, insomma, così come nonmancavano le strutture organizzative inca-ricate di raccogliere il consenso e mediarefra il collegio e il parlamentare. Questimeccanismi rimanevano tuttavia geografi-camente circoscritti e relativamente pocodiffusi. Latitavano insomma i processi dinazionalizzazione delle vita pubblica chealtrove in Europa si erano avviati fin daglianni Settanta dell’Ottocento. Mentre leforme di rappresentanza lato sensu notabi-lari restavano in definitiva largamentemaggioritarie, o comunque a tal punto dif-
Fondamenti
54
fuse da informare il funzionamento dell’in-tero sistema politico1. Proprio di legittima-re e in definitiva “nobilitare” la rappresen-tanza notabilare s’incaricava del resto lateorizzazione dell’elezione quale designa-zione di capacità: ossia quale meccanismonon finalizzato a costruire un rapportoideologico fra elettori ed eletto, rappresen-tando la società civile entro le istituzioni,ma a selezionare i migliori, rifornendo lostato di legislatori competenti2.
Fondato su una rappresentanza dal pre-dominante carattere localistico e persona-listico, il “partito” liberale acquisì deicaratteri ideologici e organizzativi tutt’af-fatto peculiari. L’entità politica di base, alsuo interno, rimase senz’altro il singoloindividuo: eletti per virtù propria, i depu-tati potevano permettersi di tenere in nes-suna o tutt’al più in scarsissima considera-zione qualsiasi disciplina di gruppo, e tira-re ciascuno nella direzione che più gradis-se o gli convenisse. Nonostante l’estremaframmentazione, un elemento unificantenella galassia liberale era tuttavia presente.Solo che lo si doveva cercare non sul terre-no strettamente politico, ma su quellocostituzionale: nell’adesione convinta alregime monarchico statutario che accomu-nava senz’altro tutti i liberali – anche se neimomenti di crisi, come alla svolta del seco-lo, pure quell’elemento comune fu messoin discussione dalle diverse interpretazio-ni che del regime venivano date, oltre chedalle differenti opinioni rispetto a come losi dovesse difendere. Al di sopra di questoelemento unificante di fondo le frattureideologiche, localistiche, particolaristiche epersonali che attraversavano il magmapolitico liberale restavano invece quantomai vive. Nessuno poteva e neppure volevasuperarle. E certamente a rappresentarle
ben più che a ricomporle si prestavanotanto il sistema elettorale uninominalequanto il regolamento della Camera deideputati, che rifiutava qualsiasi principiopolitico di strutturazione interna dell’as-semblea, suddividendola in uffici tramitesorteggio.
La particolare configurazione assuntadal “partito” liberale – che finiva in sostan-za per presentarsi come l’insieme politica-mente frammentato e amorfo degli “amicidella costituzione” – interagiva da pressosia col rapporto che i liberali avevano con leopposizioni estranee al sistema, i “rossi” ei “neri”, sia con le relazioni che la cameraelettiva intratteneva col potere esecutivo.Grazie alla loro rigidità costituzionale iliberali potevano conservare indiscussa lapropria egemonia tanto sui cattolici quan-to sui radicali e poi socialisti; e in virtù dellaloro flessibilità politica potevano invecepromuoverne l’integrazione in posizionesubordinata, e là dove l’avessero ritenutoopportuno sfruttarne le risorse elettorali epolitiche. Perché l’operazione riuscisse,però, era indispensabile che l’equilibrio fraseverità costituzionale e indeterminatezzapolitica fosse salvaguardato con cura.Ammettere all’interno della classe dirigen-te liberale delle divisioni ideologiche nonnegoziabili – come ad esempio quella fraclerico-moderati e anticlericali – avrebbeinfatti spaccato il “partito”, mettendone inpericolo l’egemonia e restituendo l’inizia-tiva politica ai “rossi” o ai “neri”. Non percaso sia Giolitti sia Sonnino agironoall’unisono quando si trattò di rifiutarel’anticlericalismo quale terreno di divisio-ne politica – come ben dimostrano i dibat-titi parlamentari sull’insegnamento dellareligione nelle scuole che si svolsero nel1908. Organizzare su base ideologica unita-
Orsina
55
ria la classe politica liberale invece, ossiafarne un vero e proprio partito secondoquanto auspicava Sonnino e Giolitti invecerifiutava, avrebbe significato aggravarnel’isolamento, arrestare i processi di inte-grazione delle forze antisistema, diminui-re pericolosamente il tasso di flessibilità eadattabilità del quadro istituzionale. È perquesto che, come ho accennato qualche rigaaddietro, ricomporre politicamente lagalassia liberale era non solo impossibile,ma anche inopportuno. Perché il tentativodi strutturarla in termini organizzativi eideologici l’avrebbe certamente spezzata; eanche se non l’avesse spezzata, avrebbeirrigidito e ufficializzato la contrapposizio-ne fra essa e i socialisti e i cattolici, fra l’al-tro legittimando gli schieramenti estraneial Risorgimento3.
In un contesto pienamente parlamenta-re, un’entità politicamente indefinita eframmentata come il “partito” liberale nonsarebbe mai riuscita a fondare un potereesecutivo solido e stabile. L’Italia liberale,perciò, sopravvisse sessant’anni proprioperché il suo assetto politico non era piena-mente parlamentare. Perché un governorobustamente appoggiato al monarca pote-va andarsi a cercare ex post una maggioran-za in parlamento, forzandolo in misuranotevole – anche se non tanto da configura-re un sistema di cancellierato alla tedesca –sul piano morale nel nome della lealtà alsovrano, e sul piano materiale in virtù deglistrumenti di condizionamento elettoraleche l’esecutivo aveva a propria disposizione.Come scrisse il ministro della Real CasaUrbano Rattazzi il 31 ottobre del 1903 a unGiolitti deluso dal comportamento dei radi-cali e propenso a rinunciare al mandato affi-datogli dal re: «Per tutti gli altri ministeri[oltre a qualche esponente di spicco nei
posti-chiave] scegli giovani nei vari gruppiliberali purché abbiano ingegno, senzatenere conto di anzianità di legislature e diconsigli di capi – e va alla Camera. Di mag-gioranze ne avrai anche troppe, e di provedell’umana viltà anche maggiori. Piuttostodi rinunciare al mandato prendi al tuoseguito nove o dieci sottosegretari di Stato,e vedrai che appena giunto a Montecitorio,tutti ti faranno ressa per essere accolti qualituoi colleghi e dipendenti»4. L’operazione,poi, riusciva particolarmente bene quandoin parlamento sedeva un “dittatore” nellafase crescente del suo potere: un uomo chegià aveva dato prova di saper gestire le ele-zioni, e di sapersi abilmente costruire unastrada nel magma individualistico dellaCamera dei deputati. Era questo modelloquello che Vittorio Emanuele Orlandointendeva descrivere, e al tempo stessolegittimare, quando teorizzò il caratteredualistico del governo di gabinetto: inter-vento non meramente formale del re; auto-nomia del presidente del consiglio nel com-porre il governo e quindi nel rapportarsi alparlamento. Un potere esecutivo che sape-va rapportarsi con il pluralismo socialeattraverso la rappresentanza parlamentare,ma che non permetteva a quel pluralismo dimettere in pericolo la natura unitaria dellasovranità. Uno stato, quindi, che nonammetteva il partito politico come struttu-ra organizzata, come nesso istituzionale frai corpi sociali e il potere pubblico, ma sol-tanto come insieme libero di individui con-cordi sui fondamenti dell’ordine politico.L’insieme insomma – come già s’è detto –degli “amici della costituzione”5.
È evidente – e lo abbiamo già accenna-to – che il modello appena descritto nonpoteva funzionare altro che in un regime disuffragio ristretto. La presenza di un elet-
Fondamenti
56
torato di massa, infatti, avrebbe già di persé messo in crisi la strumentazione libera-le di raccolta del consenso – localistica,personalistica, anti-ideologica. Avrebbereso infinitamente più complessa, visibilee onerosa la “gestione” delle elezioni daparte del potere esecutivo. E avrebbe ine-vitabilmente contribuito a innalzare la tem-peratura dello scontro pubblico, rendendoimpossibile o per lo meno assai più diffici-le l’opera di “mediazione impolitica” concui la classe dirigente liberale era riuscita,nei suoi momenti più felici, a stabilizzare ilsistema. È a partire da queste premesse, amio avviso, che va letto il fallimento delgiolittismo – preludio, già prima che scop-piasse la Grande Guerra, alla crisi dell’Ita-lia liberale. L’ampliamento “naturale” delsuffragio dovuto al progredire della socie-tà italiana già aveva costretto Giolitti a uti-lizzare in maniera ancor più spregiudicatadei suoi predecessori gli strumenti di pres-sione sull’elettorato. La riforma del 1912,in questa prospettiva, aggravò ulteriormen-te la situazione, obbligando una parte con-sistente dei liberali a ricorrere al sostegnodell’elettorato cattolico. Soprattutto, la sta-bilità del sistema giolittiano esigeva che latemperatura complessiva dello scontropolitico-ideologico rimasse la più bassapossibile, in una sorta di “utopia tecnocra-tica” che non per caso alcuni liberali aveva-no esplicitamente teorizzato, nella speran-za di sterilizzare così l’opposizione di siste-ma alle istituzioni risorgimentali. Verso lafine dell’età giolittiana quella temperaturaschizzò tuttavia verso l’alto, in parte perragioni politiche e culturali complessive, inparte proprio in conseguenza delle scelte diGiovanni Giolitti: la guerra di Libia, l’allar-gamento del suffragio. Decisione, questaseconda, che lo statista aveva per altro preso
proprio perché riteneva che lo spirito pub-blico fosse sufficientemente tranquillo dapermettere di compiere un coraggiosopasso in avanti. E invece, come avrebbescritto Gramsci, la vigilia delle elezioni del1913 fu caratterizzata dalla «convinzionemistica che tutto sarebbe cambiato dopo ilvoto, di una vera e propria palingenesisociale; così almeno in Sardegna»6.
2. La riforma regolamentare del 1920 nel suopresente
Nella sua forma “classica” il sistema politi-co liberale era dunque saltato già prima dellaGrande Guerra. Il che non vuol dire ovvia-mente che fosse fatalmente destinato ascomparire, né che il peso storico del con-flitto mondiale debba essere minimizzato.Vuole però dire che, per sopravvivere, essosi sarebbe comunque dovuto trasformare inprofondità. Proprio l’opportunità di com-piere questa metamorfosi gli fu negata dalleconseguenze politiche della prima guerramondiale.
Abbiamo notato nelle pagine preceden-ti come i liberali riuscissero a svolgere lapropria funzione in maniera ottimalequando potevano, tanto al proprio internoquanto nei confronti dei “rossi” e dei“neri”, mediare microfratture negoziabili,e si trovassero invece in difficoltà quandola temperatura politico-ideologica si innal-zava e le divisioni diventavano di princi-pio. Ora, la guerra non solo rese la tempe-ratura politico-ideologica complessivaincandescente, ma spaccò pure profonda-mente i liberali fra neutralisti e interven-tisti. E anche se questa scissione col tempofu almeno in parte riassorbita, certamente
Orsina
57
un ruolo destabilizzante non mancò diaverlo. Abbiamo notato come i meccani-smi liberali di gestione delle dinamichepolitiche avessero bisogno del suffragioristretto. Questa condizione, che già lariforma del 1912 aveva fatto venire meno,fu definitivamente spazzata via nel 1919.Abbiamo notato come il sistema politicodell’Italia liberale presupponesse che laclasse dirigente liberale fosse saldamenteegemone – ossia, in termini parlamentari,che avesse una maggioranza tanto ampia daconsentirle non solo di governare in auto-nomia, ma anche di scomporre e ricom-porre le proprie fratture interne secondo lenecessità. Con le prime elezioni postbelli-che, anche questo presupposto venne amancare. Abbiamo notato come le modali-tà liberali di organizzazione della rappre-sentanza si coniugassero col collegio uni-nominale meglio che con quello plurino-minale, e pretendessero l’attenta gestionedelle elezioni da parte del governo. Nel1919 fu com’è noto introdotta la rappre-sentanza proporzionale, e alle elezioni diquell’anno il governo Nitti si astenne dal-l’intervenire. Abbiamo notato, infine,come tanto l’organizzazione pratica delpotere quanto la riflessione giuspubblici-stica che vi si era accompagnata presuppo-nessero l’assenza di partiti politici istitu-zionalizzati. Alle prime elezioni postbelli-che ebbe centocinquanta deputati un Par-tito socialista egemonizzato dai rivoluzio-nari, e – quel che forse per la stabilità delleistituzioni fu ancora più esiziale – centodeputati un Partito popolare il cui appog-gio era indispensabile per la sopravviven-za di qualsiasi governo7.
È all’interno di queste circostanze com-plessive che la Camera dei deputati, nellesedute del 24 e 26 luglio e 6 agosto del 1920,
decise di cambiare il proprio regolamen-to8. Riassumendone i termini nella formapiù breve possibile, per quel che ci interes-sa in questa sede il nuovo regolamento pre-vedeva che l’assemblea si strutturasse ingruppi politici di almeno venti membri cia-scuno, con un gruppo promiscuo nel qualesarebbero confluiti i gruppi con meno diventi iscritti e i deputati che intendevanorestar liberi; che in deroga alla norma pre-cedente gruppi politici con meno di ventiiscritti, ma almeno dieci, si sarebberopotuti costituire a condizione che rappre-sentassero «un partito organizzato nelpaese»; che i gruppi, dopo aver eletto cia-scuno i propri presidente, vicepresidente,segretario e vicesegretario, designasseroogni anno i propri delegati nelle nove com-missioni legislative permanenti in ragionedi un delegato ogni venti iscritti – o dieci seera scattata l’eccezione di cui sopra –; chealmeno cinque commissioni, votando amaggioranza assoluta degli iscritti, potesse-ro chiedere l’autoconvocazione della Came-ra9. Il mutamento di direzione rispetto allenorme precedenti non avrebbe potutoessere più radicale, e giustamente France-sco Ruffini nel nuovo regolamento vedevail segnale di una «vera e propria rivoluzio-ne costituzionale, come il nostro paese nonne aveva più viste dopo il 1848»10. Non tuttii liberali, però, erano chiaroveggenti comeRuffini. E soprattutto, quasi nessun libe-rale era disposto ad accompagnare la “rivo-luzione costituzionale” fino alle sue estre-me conseguenze.
Con la logica che sottendeva la riformaregolamentare i socialisti erano ovviamen-te del tutto concordi. La stesura della rifor-ma, del resto, la si doveva quasi per interoal socialista Giuseppe Modigliani, che lagiunta per il regolamento designò anche
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relatore. E soprattutto socialiste furono leproposte avanzate in aula – e per lo piùrespinte – che andavano nella direzionedell’ancor più marcata “partitizzazione” deilavori parlamentari. Il problema posto dalPsi, semmai, era più generale: i socialistivolevano che il sistema politico italiano siristrutturasse intorno ai partiti, ma nellaloro maggioranza non volevano poi che, allavita di quel sistema, partecipasse il loro par-tito. Non per caso commentando il nuovoregolamento i massimalisti ne diedero ungiudizio positivo, ma soprattutto perchéavrebbe meglio tutelato le minoranze, «nonperché con esso si miri a migliorare il fun-zionamento dell’istituto parlamentare, ilche non ci riguarda anzi ci troverebbe osti-li»11. Ugualmente favorevoli alla riformafurono i popolari, soddisfatti del passaggiodall’«atomismo cabalistico» all’«ordinar-si dell’assemblea in nuclei collettivi, poli-ticamente significativi e vitali»12. LuigiSturzo, del resto, aveva un disegno assaichiaro e coerente di ricostruzione del siste-ma politico italiano. Disegno che, esatta-mente all’opposto rispetto a quel che pen-savano i liberali “classici”, prevedeva chepartiti istituzionalizzati, programmatici,organizzati, saldamente radicati nelle frat-ture che attraversavano la società italiana,fornissero la struttura portante della vitatanto parlamentare quanto governativa13.
Proprio il tentativo di importare le divi-sioni sociali, attraverso i partiti, nel sanctasanctorum della sovranità, ossia all’internodel potere esecutivo, condusse al naufragiodefinitivo della transizione istituzionaleavviatasi nel primo dopoguerra. Non che iliberali i gruppi parlamentari in generale liavessero accolti con particolare entusiasmo.Vittorio Emanuele Orlando – certamente ilpiù rappresentativo dei liberali “classici” di
cui sopra – di fronte alla riforma, che peraltro aveva lui stesso contribuito a scrivere,aveva tenuto un atteggiamento assai indica-tivo: aveva dichiarato di essere personal-mente sempre stato avverso alla rappresen-tanza proporzionale, della quale il nuovoregolamento era a suo avviso una direttaconseguenza; aggiungendo tuttavia che, poi-ché alla proporzionale si era infine arrivati,bisognava lasciare che questa producesse isuoi effetti, «non fosse altro perché l’espe-rimento lealmente si compi[sse]». La tra-sformazione istituzionale restava dunquesub iudice: dai suoi frutti la si sarebbe giudi-cata. Né il grande giurista siciliano, peraltro, intendeva affrettarsi nel precorreregli effetti delle riforme elettorale e regola-mentare. Per il momento i gruppi politicierano strumentali alle commissioni perma-nenti. Se poi fossero destinati ad acquisirequalche altra funzione, lo si sarebbe visto –e valutato – nel prosieguo14. Altri liberalistabilirono fin da subito un rapporto di vivaantipatia con la riforma. Non ne capirono lalogica. O finsero di non capirla. O anche lacapirono fin troppo, e la respinsero senz’al-tro. Col passare dei mesi – e delle crisi poli-tiche – questo rapporto sarebbe ulterior-mente peggiorato15.
Anche a prescindere dalle loro convin-zioni teoriche, del resto, i liberali erano benlontani dall’essersi strutturati in partito – opartiti – così come le riforme elettorale eregolamentare avrebbero richiesto quandofossero state sviluppate nelle loro conse-guenze logiche. Mentre il Ppi e il Psi pre-sentavano in ogni collegio un’unica lista cia-scuno, con una sola denominazione e unsolo simbolo per l’intero territorio nazio-nale, e tutti i deputati eletti in quelle listeconfluivano poi nel gruppo relativo, che eraanch’esso uno solo per ciascun partito, la
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geografia elettorale dei liberali era quantomai eterogenea, e altrettanto variegati i rap-porti fra le liste e i gruppi parlamentari:simboli e denominazioni le più varie; plu-ralità di liste liberali l’un contro l’altraarmate all’interno d’ogni singolo collegio;pluralità di gruppi liberali che in corso dilegislatura si fondevano e scindevano; depu-tati eletti nella stessa lista e nello stesso col-legio che si separavano in parlamento, ade-rendo a gruppi diversi; deputati eletti nellostesso collegio ma in liste differenti che inparlamento si ricongiungevano, aderendoallo stesso gruppo. Al di sopra di tutto, unalogica esattamente identica a quella cheaveva guidato il mondo liberale nel secoloprecedente: quella di una “confederazione”approssimativa e discontinua di individuiuniti nelle scelte costituzionali di fondo, madivisi da un reticolo assai intricato di frat-ture politiche, geografiche, personalisti-che16. Un “partito” adatto a un parlamentooligarchico governato da un “dittatore”, alquale era richiesto di sostenere ex post unesecutivo saldamente appoggiato al monar-ca. Ma del tutto inadatto a un parlamentodemocratico al quale era richiesto di orga-nizzarsi politicamente tanto per il lavorolegislativo, quanto – e soprattutto – al finedi esprimere un governo stabile. Con i bloc-chi nazionali del 1921, in verità, Giolittitentò di ricostruire nelle mutate condizionila logica politica e istituzionale dell’Italialiberale: accorpando gran parte del “parti-to” liberale nelle liste del blocco, e chieden-do poi al corpo elettorale di sostenere ex postil suo governo attraverso quelle liste. Unavolta di più, però, si vide come il “partito”liberale avesse perduto la maggioranza nelpaese, e di conseguenza alla Camera.
Antipatie culturali e inadeguatezza poli-tica a parte, seppure con le riserve menta-
li espresse da Orlando i liberali si eranotuttavia mostrati disponibili a permettereche la Camera si strutturasse in gruppi.Quel che non poterono sopportare fu che igruppi – ossia i partiti – pretendessero diinsinuarsi anche nel potere esecutivo. Loscontro con il Ppi su questo terreno fudurissimo. Cercando di imporre all’esecu-tivo degli impegni programmatici, poi vin-colando il capo del governo nella scelta deiministri, e infine segnalando preventiva-mente al sovrano quali presidenti del con-siglio non sarebbero stati disposti ad accet-tare, i popolari smontarono completamen-te il modello dualistico a suo tempo teoriz-zato da Orlando, proponendo senz’altroche si passasse al governo di partito. I libe-rali non intendevano concederlo né in ter-mini istituzionale né in termini politici –né, del resto, quel modello avrebberosaputo reggerlo sul piano organizzativo. Ilconflitto visse la sua fase più acuta nel feb-braio del 1922, nella lunga crisi che portòda Bonomi a Facta, quando i popolari primachiesero al presidente incaricato Orlandodi essere loro a indicare i ministri cattoli-ci, e poi posero il famoso “veto” a Giolitti.Proprio il grande giurista siciliano com-mentò questa convulsa fase politica in unaserie di articoli pubblicati su «La Nación»di Buenos Aires, nei quali significativa-mente giudicava il peso che i partiti politi-ci stavano acquisendo nella vita pubblicaitaliana come un segno del prevalere del“sindacalismo”. “Partito”, per Orlando, eraquello liberale, caratterizzato da un con-senso politico-costituzionale di fondo maper il resto disgiunto da interessi socialispecifici. I partiti istituzionalizzati e radi-cati nelle fratture che attraversavano lasocietà gli apparivano invece – appunto –dei “gruppi sindacali”17.
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Non è ovviamente il caso di esagerare ilpeso che gli elementi di modellistica istitu-zionale hanno avuto nella profonda crisi diregime che l’Italia ha attraversato nei primianni Venti – una crisi com’è noto maturatain larga misura sul terreno più strettamen-te politico, oltre che su quello sociale. E tut-tavia, non può esservi dubbio che in quellacrisi anche le questioni di modellistica isti-tuzionale un ruolo l’abbiano svolto. La tra-dizione liberale di organizzazione politicadel parlamento, e di strutturazione di unamaggioranza in grado di sostenere il gover-no, era ormai stata irrimediabilmente tra-volta dal suffragio universale maschile,dalla rappresentanza proporzionale, dal-l’essere gli eredi del Risorgimento rimastiin minoranza. Il Parteienstaat era peròancora ben lungi dall’essere nato: i libera-li non lo volevano in teoria né erano ingrado di sostenerlo in pratica; i socialisti lochiedevano con la mano destra mentre lorespingevano sdegnosamente con la sini-stra; i popolari lo pretendevano con suffi-ciente coerenza, ma da soli non avevanocerto la forza di imporlo né tanto menogarantirne la stabilità; una grammatica delcompromesso e della convivenza fra parti-ti era ancora molto di là da venire. Non puòsorprendere, in queste condizioni, chenello scontro fra i due litiganti abbia godu-to il terzo, ossia il fascismo. Né che il fasci-smo abbia prodotto un modello istituzio-nale per tanti versi “intermedio” fra i dueche aveva travolto: un modello insomma nelquale da un lato il governo si costruiva lasua maggioranza entro i confini di unoschieramento unificato dall’idem de repu-blica sentire; dall’altro quello schieramentoera anche raccolto in un partito strutturatoin forma “moderna”. Un’operazione, ça vasans dire, che era resa possibile soltanto dal
reciso rifiuto del circuito liberaldemocra-tico della rappresentanza e da un’opzionecompiutamente autoritaria. E tuttavia,un’operazione che nella sua prima parte ifascisti, negli anni della transizione, pote-rono ben vendersi ai liberali, presentan-dosi come i restauratori del modello duali-stico orlandiano di governo di gabinetto, edi un parlamento in cui le divisioni fosse-ro non di natura partitica, ma qualificatedalla scelta di sostenere o non sostenere ilgoverno del re.
3. La riforma regolamentare del 1920 nel suofuturo
I liberali – per quel che abbiamo detto nellepagine precedenti – sbagliavano dunquequando, ancora dopo il primo conflittomondiale, continuavano a sostenere unmodello istituzionale che gli eventi storiciavevano ormai travolto. Il secondo dopo-guerra si sarebbe tuttavia incaricato didimostrare come al contempo non avesserodel tutto ragione neppure i sostenitori di unpieno approdo al Parteienstaat. In un conte-sto polarizzato infatti, e in presenza di unoscontro politico e ideologico particolarmen-te ruvido, i partiti non si sarebbero dimo-strati in grado di ricomporre appieno il plu-ralismo sociale entro un quadro costituzio-nale unitario, così da dare al potere esecuti-vo unità, coerenza, stabilità e legittimità. Laparabola di Luigi Sturzo – da avvocato deipartiti a loro acerrimo nemico – fu in que-sta prospettiva assolutamente emblematica.Non è soltanto perché essa fu “ripescata”senza modifiche sostanziali dalla prima legi-slatura repubblicana18, perciò, che la sven-turata riforma regolamentare del 1920 non
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può essere data per definitivamente mortanel 1924. Ma anche perché i problemi poli-tico-istituzionali che con essa si evidenzia-rono, la nascita della Repubblica non riuscìa risolverli; ed essa può dunque essere usatasia per comprendere meglio il sistema poli-tico democratico e i suoi limiti, sia per ten-tare una comparazione fra la storia dell’Ita-lia politica prefascista e quella dell’epocapostfascista. In queste pagine conclusivecercheremo di considerare nella prospetti-va della riforma del 1920 – ossia dei proble-mi che in quel frangente storico si poseroapertamente per la prima volta – quattrosnodi storici cruciali: il 1946, il 1953, l’affer-marsi col centro sinistra di un sistema poli-tico compiutamente “partitocratico”, e il fal-limento di quel sistema.
Il voto del 2 giugno 1946 tolse definiti-vamente di mezzo l’elemento istituzionaleche nel sistema politico liberale aveva fattoda contraltare al parlamento, ossia avevacontribuito ad amministrarne il processodi ricomposizione politica in funzione dellaformazione del potere esecutivo. Nellaburocrazia, nella magistratura, nell’eserci-to, la “vecchia” Italia restava senz’altro benviva, e lo sarebbe rimasta ancora a lungo.Con la fine della monarchia, però, quel-l’Italia aveva perduto il suo punto di riferi-mento istituzionale. E i partiti politici ave-vano dunque campo libero davanti a sé –anche se ci sarebbe voluto qualche annoperché cominciassero seriamente adapprofittarne. Lo capì bene il vecchio Vit-torio Emanuele Orlando, che il referendumistituzionale aveva lasciato un vuoto al ver-tice dello stato, e che la carta del 1948 avevascelto di non riempirlo19. Non lo capironoaltrettanto bene invece i leader del Partitoliberale, a cominciare da Benedetto Croce.Nella crisi di governo dell’autunno del
1945, che segnò il passaggio da Parri a DeGasperi, approfittando anche del montaredella protesta qualunquista il Pli mosse unadura battaglia contro il Cln e in favore della“vecchia” Italia, chiedendo un governocomposto almeno in una certa misura dipersonaggi estranei ai partiti: nel presiden-te del consiglio se possibile, e comunque inalcuni ministeri-chiave. Questa battaglia iliberali la persero malamente. Però aveva-no voluto combatterla, e l’avevano combat-tuta contro i partiti e per conto di quell’am-pio settore dell’opinione pubblica che conil ciellenismo non amava avere a che fare,e del quale loro speravano di raccogliere ivoti. Non aveva perciò molto senso che ladirigenza del partito, nel successivo con-gresso liberale svoltosi nella primavera del1946, proponesse all’assemblea una mozio-ne agnostica sulla questione istituzionale. El’assemblea fu più coerente dei suoi diri-genti quando quella mozione la respinse, ene approvò una monarchica. I liberali s’il-ludevano che il paese fosse con loro in virtùdi una sorta di sintonia ideologica natura-le, che ci fosse un’Italia liberale che era nataliberale così come la Germania era natamilitarista, la Francia radicale, l’Americademocratica20. Non avevano capito, o ave-vano voluto dimenticare, quanto robustofosse stato in epoca prefascista il legame fral’egemonia liberale e l’assetto complessivodelle istituzioni, a partire dalla monarchia.Fino a che punto insomma il potere deiliberali dipendesse dal fatto che i liberalierano al potere, secondo un meccanismoche in astratto era tautologico, ma nellapratica aveva funzionato a perfezione21.
L’aver aperto la crisi di governo dell’au-tunno del 1945 non aiutò dunque i liberalia recuperare il bandolo della matassa poli-tica e istituzionale, né a raccogliere, se non
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in piccola parte, i consensi dell’opinionepubblica moderata e anticiellenista. Sortìinvece l’effetto di portare De Gasperi allapresidenza del consiglio, ponendo le con-dizioni perché la Democrazia cristiana –recuperando essa i consensi dell’opinionepubblica moderata e anticiellenista – con-quistasse il 18 aprile del 1948 proprio quel-la posizione di egemonica centralità politi-ca che fino al 1919 avevano avuto i liberali.Graecia capta, però, ferum victorem cepit:nella prima legislatura repubblicana DeGasperi (che per altro tutto era tranne cheferoce) riprodusse un modello di governonon troppo dissimile da quello prefascistadi gabinetto. Lo condusse verso quest’esi-to la sua cultura istituzionale personale,retaggio dell’apprendistato politico fattonell’Impero asburgico. E soprattutto glieloconsentirono le condizioni storiche. Laposizione di leadership carismatica cheaveva acquisito sia nel suo partito sia nellospazio pubblico nazionale gli diede, inquanto presidente del consiglio, quellaforza e quell’autonomia relativa dalla basepartitica e parlamentare che nel periodoprefascista erano state garantite dal sovra-no22. La Guerra Fredda, allora nella sua fasepiù acuta, separò poi con una cesura pro-fonda i partiti di governo da quelli all’oppo-sizione, compattando il centrismo in unamissione di ancoraggio dell’Italia all’Occi-dente e di “difesa della civiltà” considera-ta a tal punto importante da far passare insecondo piano, almeno per il momento, leconsistenti differenze interne al quadripar-tito. La Democrazia cristiana, infine, avevaconquistato la maggioranza assoluta deiseggi in entrambe le camere, ed era tutta-via un partito ancora incerto della propriaorganizzazione e identità. Seppure quasimai di buon grado, accettò quindi che De
Gasperi la guidasse dalla Presidenza delconsiglio23.
Tutti gli elementi che avevano fattodella prima legislatura repubblicana pertanti versi un’“appendice” dell’Italia libe-rale restavano però congiunturali. Il cari-sma dello statista trentino, oltre ad esseretutt’altro che indiscusso, era legato alla suaparabola personale, là dove in epoca pre-fascista la monarchia aveva rappresentatoun elemento istituzionale robusto e soprat-tutto permanente. Il “partito” liberale delprefascismo, come abbiamo notato in pre-cedenza, era compattato sul terreno stori-co e istituzionale dal comune riferimento,in positivo, al Risorgimento e all’ordinepolitico che ne era sortito – riferimento deltutto esclusivo rispetto ai cattolici, edesclusivo in parte rispetto ai radicali. Poientro questo spazio comune si frammenta-va nelle maniere più varie, cercando sem-pre però di non dividersi su questioni poli-tiche di principio, ma su questioni partico-lari e negoziabili. Lo schieramento centri-sta del secondo dopoguerra mancava inve-ce, a ben vedere, di riferimenti storici eistituzionali comuni ed esclusivi. L’antifa-scismo, la Resistenza e la Costituzionerepubblicana erano terreni ferocementecontesi dai socialcomunisti, e i partiti digoverno ci si muovevano con grandissimacautela, o anche cercavano di non muover-cisi affatto, per timore di legittimare leforze antisistema. La scelta occidentale,certamente, era in grado di riunificare ilquadripartito. Lo riunificava in negativo,però, non in positivo. E poi dipendeva dalcontesto internazionale, e dopo la morte diStalin, se pure ancora per decenni avreb-be funzionato come fondamento della con-ventio ad excludendum nei confronti deicomunisti, non sarebbe stata mai più così
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cogente quale strumento di omogeneizza-zione delle forze di governo come lo erastata nei tardi anni Quaranta e primissimianni Cinquanta. Non per caso a partiredalla seconda legislatura si riacutizzaronole divisioni che attraversavano tanto l’alle-anza centrista, quanto i partiti che ne face-vano parte. E non si trattava di microfrat-ture negoziabili pragmaticamente, ma diautentiche differenze politiche di princi-pio: soprattutto quella fra laici e cattolici equella fra progressisti e conservatori. Eraimpensabile in queste condizioni che ilmodello di governo di gabinetto dellaprima legislatura potesse continuare astrutturare lo spazio pubblico italiano. Perlo meno, non lo poteva in assenza di robu-sti incentivi istituzionali24.
Era proprio questo tipo di incentivi,com’è noto, quel che De Gasperi aveva cer-cato nella riforma elettorale del 1953. Lalegge Scelba – all’epoca e dopo – è stataspesso polemicamente assimilata alla leggeAcerbo. Per tanti versi, però, più che aquella compiuta da Mussolini nel 1924l’operazione tentata da De Gasperi nel 1953assomiglia a quella giolittiana del 1921. Al dilà del fatto che siano entrambe fallite, leaccomuna la medesima logica: non quelladella trasformazione di una minoranza inmaggioranza, come invece intendeva farela legge Acerbo; quanto piuttosto quella delconsolidamento di una maggioranza esi-stente attorno a un governo anch’esso giàesistente. Consolidamento, ovviamente,tentato nei due casi con strumenti diversi:politico-elettorali quelli del Giolitti deiblocchi nazionali; istituzionali quelli del DeGasperi del premio di maggioranza. Comepare ormai assodato, poi, grazie al premiolo statista trentino avrebbe voluto mettereanche mano alla Costituzione, così da raf-
forzare ulteriormente la posizione del pote-re esecutivo25. La storiografia ha moltoragionato sugli obiettivi politici che DeGasperi intendeva raggiungere con la rifor-ma elettorale, chiedendosi in particolare seessa fosse rivolta più contro l’opposizionedi destra o contro quella di sinistra. Oltreall’innegabile diffidenza nei confronti deisocialcomunisti e dei missini, però, pesa-va su quella decisione anche la sfiducia neiconfronti della possibilità che, in quellecircostanze, i partiti politici riuscissero agenerare governi stabili, solidi ed effica-ci26. Sfiducia che la seconda metà degli anniCinquanta, con la crisi del centrismo e l’at-tivismo non casuale del Presidente dellaRepubblica Giovanni Gronchi, avrebbedimostrato tutt’altro che ingiustificata.
L’egemonia dei partiti politici nel siste-ma politico italiano si consolidò definitiva-mente, sconfiggendo qualsiasi alternativa,presidenzialista o di cancellierato, con l’av-vento del centro sinistra. Anche da unpunto di vista istituzionale dunque, comein una più generale prospettiva culturale epolitica27, la svolta dei primi anni Sessan-ta recise i nessi residui che ancora legava-no la Repubblica al prefascismo. Sono per-ciò largamente impropri i parallelismi, chetanto circolarono allora e in seguito, fra ilcentro sinistra e la stagione giolittiana. Lostatista piemontese non solo conservòunita la classe dirigente liberale, ma la con-servò unita sul suo terreno tradizionale,quello che come abbiamo detto la distin-gueva in tutto o in parte così dai “rossi”come dai “neri”: Risorgimento, Statuto,monarchia. E aprì ai socialisti sul terreno“tecnocratico” dei problemi concreti,guardandosi bene dall’attivare dei proces-si ideologici – incentrati sull’anticlericali-smo, ad esempio – che, per favorire l’inte-
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grazione dei nuovi arrivati, rischiasseroperò di spaccare la classe dirigente libera-le. La genesi del centro sinistra al contra-rio, cui pure non mancò una robusta com-ponente tecnocratica28, si accompagnò auna profonda mutazione ideologica dellavita pubblica nazionale, che ne innalzò inmisura notevole la temperatura e ne spostòvisibilmente il baricentro verso sinistra. Intermini di cultura politica, fra i tardi anniCinquanta e i primi anni Sessanta demo-cristiani, socialdemocratici e repubblicaniandarono incontro al Psi, sposando in tuttoo in parte un antifascismo di marca pro-gressista che, pur essendo implicito nellagenesi della Repubblica, fino a quelmomento le forze di governo si erano benguardate dall’accettare o legittimare29.Soprattutto all’interno della Dc, però, con-tinuò a pesare una robusta componentemoderata che – pur confluendo nel centrosinistra insieme al resto del partito – quel-la mutazione ideologica non volle accettar-la. In epoca liberale, così, l’ideologia eraservita a compattare il ceto di governo, el’integrazione delle forze antisistema eraavvenuta su un terreno a-ideologico. Men-tre nella fase genetica del centro sinistraessa fu usata per integrare il Psi, ma scisseal loro interno il ceto di governo in gene-rale e la Democrazia cristiana in particola-re. Costringendoli in misura non irrilevan-te a ricompattarsi su un terreno a-ideolo-gico e, più in generale, contribuendo adestabilizzare il potere esecutivo.
Di conseguenza, se pure Giolitti ebbecontro il mondo della cultura – per altro inmisura inferiore rispetto a quanto non sicreda – i suoi governi non furono tuttaviaschizofrenici. Non ebbero, per dirla conuna battuta, il Superego a sinistra e l’Id adestra. Furono dei solidi gabinetti liberali,
progressisti e moderati al contempo – qualepiù progressista, quale più moderato –,fondati sulla convinzione che il liberalismoe lo stato liberale rappresentassero degliagenti di modernizzazione, e che la storiaeuropea più in generale procedesse gra-dualmente verso sempre più alte mete diciviltà. E si comportarono di conseguenza,pretendendo di portare i socialisti, maanche i cattolici, sul proprio terreno. Igoverni italiani dei primi anni Sessanta,invece, non solo ebbero contro una partealmeno del mondo della cultura, e sempredi più man mano che si palesava il loro “fal-limento”. Ma furono pure schizofrenici:perché erano ideologicamente disomoge-nei, e si accompagnarono a un desiderio dirinnovamento, alla promessa di recupera-re certe aspirazioni palingenetiche del1945, che non potevano e in realtà neppu-re volevano mantenere.
Né, d’altra parte, le trasformazioni poli-tiche e culturali dei primi anni Sessantariuscirono a risolvere il problema della“normalizzazione” della repubblica deipartiti. Certo, esse contribuirono a gettareun ponte verso il Pci, attraverso il rilanciodell’antifascismo progressista, l’insediar-si dei partiti – piuttosto che del governo –al centro del sistema politico, l’affermarsidella nozione di “arco costituzionale”. Peròil contesto internazionale continuava a farvalere la conventio ad excludendum. E se il“vincolo esterno” era stato in positivo peril quadripartito di epoca centrista una forzaunificante meno efficace di quanto il “vin-colo interno” risorgimentale lo fosse statoper la classe dirigente liberale, in negativoinvece, come strumento di “esclusione dal-l’esterno”, esso si dimostrò forse ancorapiù efficace di quanto il Risorgimento e lasua eredità non lo fossero stati nell’opera di
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“esclusione dall’interno” di cattolici e
socialisti. I processi ideologici avviatisi in
concomitanza col centro sinistra serviro-
no insomma a portare i socialisti al gover-
no e ad attenuare l’estraneità comunista,
ma non bastarono a sospingere il sistema
politico italiano sui binari di una piena
fisiologia democratica, la struttura bipola-
re del contesto internazionale continuan-
do ad ostare.
Negli anni Settanta del Novecento Vit-
torio Emanuele Orlando era scomparso
ormai da un ventennio. Se fosse stato anco-
ra vivo, però, di fronte alla palese incapa-
cità dei partiti – ma lui li avrebbe chiamati
“sindacati” – di ricomporre la frammenta-
zione della società italiana in un progetto
di governo coerente e ragionevolmente sta-
bile, avrebbe ben potuto esclamare con un
sorriso ironico: «ve l’avevo detto io!».
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zione del regolamento prefascista nella Camera dei depu-
tati, in De Siervo U., Guerrieri S., Varsori A., La prima
legislatura repubblicana. Continuità e discontinuità nel-
l’azione delle istituzioni, vol. II, Roma, Carocci, 2004,
pp. 37-52;
Mazzacane Aldo (a cura di), I giuristi nella crisi dello Stato
liberale in Italia fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori,
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Orsina Giovanni, L’organizzazione politica nelle Camere della
proporzionale (1920-1924), in Grassi Orsini F., Quaglia-
riello G. (a cura di), Il partito politico dalla grande guer-
ra al fascismo: crisi della rappresentanza e riforma dello
Stato nell’età dei sistemi politici di massa, 1918-1925,
Bologna, il Mulino, 1996, pp. 397-489;
– Senza Chiesa né classe. Il partito radicale nell’età giolittiana,
Roma, Carocci, 1998;
– Anticlericalismo e democrazia. Storia del partito radicale in
Italia e a Roma, 1901-1914, Soveria Mannelli, Rubbet-
tino, 2002;
– Quando l’Antifascismo sconfisse l’antifascismo. Interpretazio-
ni della Resistenza nell’alta cultura antifascista italiana
(1955-65), «Ventunesimo secolo», aprile 2005, pp. 9-
43;
– Il sistema politico italiano. Lineamenti di un’interpretazione
revisionistica, in Ballini P., Guerrieri S., Varsori A. (a
cura di), Dal centrismo al centrosinistra, Roma, Carocci,
2006, pp. 309-33;
– Translatio Imperii: la crisi del governo Parri e i liberali, in
Monina G. (a cura di), 1945-1946: le origini della Repub-
blica. Vol. II, Questione istituzionale e costruzione del siste-
ma politico democratico, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2007, pp. 201-56;
Pombeni Paolo, I partiti e la politica dal 1948 al 1963, in Sab-
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– L’eredità degli anni Sessanta, in Lussana F., Marramano G.
(a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Set-
Fondamenti
66
Orsina
67
tanta, vol. II, Culture, nuovi soggetti, identità, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 23-52.
– Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea (1830-
1968), Bologna, il Mulino, 2004;
– Il primo De Gasperi. La formazione di un leader politico, Bolo-
gna, il Mulino, 2007;
Quagliariello Gaetano, I liberali e l’idea di partito nella stagio-
ne costituente, in Franceschini C., Guerrieri S., Moni-
na G. (a cura di), Le idee costituzionali della Resistenza,
Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri, 1997, pp.
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Schiavone Aldo (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia
dall’unità alla repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1990;
Veneruso Danilo, La vigilia del fascismo. Il primo ministero
Facta nella crisi dello stato liberale in Italia, Bologna, il
Mulino, 1968.
1 La letteratura sui meccanismi
della rappresentanza nell’Italia
liberale è notoriamente assai
ricca. In generale sulla natura
parcellizzata del sistema politico
prefascista si vedano: Gherardi
1993; Cammarano 1993 e 1999;
Orsina 2002, pp. 5-49.2 Sull’elezione come designazione
di capacità cfr. ad esempio Cian-
ferotti 1980, pp. 143-145; Gozzi
1986; Fioravanti 1990.3 Sul rapporto fra i liberali e il par-
tito cfr. Pombeni 2004; sull’an-
ticlericalismo, Orsina 2002, pp.
5-49. 4 La lettera è riprodotta in Caroc-
ci 1962, p. 337.5 Cfr. ancora Cianferotti 1980, Maz-
zacane 1986 e Schiavone 1990 per
il modello dualistico orlandiano;
Pombeni 2004 sulla concezione
liberale del partito politico.6 Per la citazione, Gramsci 1949,
p. 113. Più in generale, sulla crisi
del sistema giolittiano, Orsina
1998, pp. 237-76.7 Sulla situazione politica postbelli-
ca in generale, fra le tante opere, si
vedano i saggi pubblicati in Gras-
si Orsini e Quagliariello 1996.8 Sulla riforma regolamentare del
1920 cfr. Orsina 1996.9 Il testo del nuovo regolamento si
trova in appendice ad Ambrosi-
ni 1921, pp. 139-144.
10 F. Ruffini, Gli sviluppi della “pro-
porzionale”, «Corriere della
Sera», 14-8-1920, pp. 1-2.11 Intervento di Pio Donati, Atti
Parlamentari, Camera dei Depu-
tati, Discussioni, prima tornata
del 24-7-1920, p. 3866.12 L. Degli Occhi, Per il referendum,
«Rassegna Nazionale», 1/16-8-
1920, pp. 172-83.13 Si vedano i saggi pubblicati in
Antonetti 1988.14 Quel che dice l’on. Orlando, «Gior-
nale d’Italia», 1-8-1920, p. 1.15 Per il dibattito sulla riforma, in
generale, cfr. Orsina 1996.16 Per l’organizzazione parlamen-
tare dei liberali nell’immediato
dopoguerra, e per la corrispon-
denza fra gruppi alla Camera e
liste elettorali, cfr. ivi.17 Sulla crisi politica del febbraio
1922 si veda in generale Veneru-
so 1968. Su come questa crisi
interagì col dibattito sul ruolo
costituzionale di gruppi parla-
mentari e partiti, e sugli scritti
orlandiani di questi mesi, si veda
ancora Orsina 1996.8 Cfr. Lupo 2004.
19 Cfr. Quagliariello 1997.20 S. De Feo, L’Italia liberale, «Risor-
gimento Liberale», 12-12-1945.21 Sul comportamento dei liberali
nella crisi di governo dell’autun-
no 1945 si veda Orsina 2007.
22 Sulla formazione giovanile di De
Gasperi si veda ora Pombeni
2007. Sul modello di governo
perseguito da De Gasperi: Crave-
ri 2006, soprattutto le pp. 340-1
e 356-8; Pombeni 1997.23 Sulla leadership degasperiana
nei suoi rapporti con la Dc si veda
Baget Bozzo 1974.24 Sulla debolezza del centrismo cfr.
Orsina 2006; sull’antifascismo
come terreno contestato, Orsina
2005.25 Craveri 2006, p. 598.26 Cfr. Pombeni 1997, pp. 157-61.27 Secondo Augusto Del Noce
(1978, pp. 9 e 14) è con il 1960
che si rompe il legame fra Italia
liberale e Italia repubblicana.28 Sulla cultura tecnocratica del
centro sinistra, e degli anni Ses-
santa in generale, insiste molto
Paolo Pombeni (2003).29 Sulle mutazioni dell’antifascismo
fra la fine degli anni Cinquanta e
l’inizio dei Sessanta cfr. ancora
Orsina 2005.
69
Il parlamento è organo d’integrazione del Governo,
non è organo che condiziona l’esistenza del Gover-
no... Non si possono, difatti, intendere i caratteri e i
limiti della funzione legislativa secondo il nuovo
sistema se non si parte dal presupposto costituzio-
nale che l’indirizzo o la funzione di governo sono
superiori e prima della funzione legislativa.
C.A. Biggini, La Camera dei Fasci e delle Corpora-
zioni nel nuovo ordinamento costituzionale, in Scrit-
ti giuridici in onore di Santi Romano, vol. I, Pado-
va, 1940, 558 ss.
1. L’epilogo come proemio
È inevitabile inserire la vicenda specificadei regolamenti parlamentari all’internodel più ampio tema dell’istituzione parla-mentare nel periodo fascista ed a questoproposito mi sembra utile partire dalmomento sostanzialmente terminale dellaparabola di tale istituzione, se si intende iltermine “parlamentare” in un’accezionemaggiormente affine alla nostra sensibili-tà costituzionale.
Si tratta di un momento ben colto e ricor-
dato da Calamandrei in un suo noto ed appas-
sionato studio del 1948 (Calamandrei, 294):
il pomeriggio del 14 dicembre 1938 – dopo
che nella mattinata si era proceduto alla con-
versione di ventiquattro decreti-legge ed
all’approvazione di tre leggi, tutti del più sva-
riato contenuto, e sempre dopo che in aper-
tura della tornata pomeridiana, all’unanimi-
tà dei presenti e per acclamazione, si erano
convertiti in legge i cinque decreti-legge sulla
difesa della razza italiana e di discriminazio-
ne nei confronti dei cittadini di razza ebrai-
ca – la camera dei deputati italiana cessava di
esistere, in conseguenza dell’approvazione
(naturalmente per acclamazione) del dise-
gno di legge istitutivo della camera dei fasci e
della corporazioni.
Parlamento e regolamenti parlamentari in epoca fascista*
eduardo gianfrancesco
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
* Questo scritto è destinato agli Studi in onore di Pier-
francesco Grossi.
L’autore desidera ringraziare il dr. Paolo Massa,
sovrintendente all’archivio storico della camera dei depu-
tati, per il prezioso aiuto offerto nel reperimento dei docu-
menti parlamentari utilizzati per questo studio.
Appare ancora oggi impressionante lalettura del discorso commemorativo tenu-to dal deputato (ma sicuramente avrebbegradito maggiormente la qualifica di “ono-revole camerata”) Orano e concluso dalpresidente della Camera Ciano (Atti parla-mentari – camera dei Deputati, legislaturaXXIX, 1a sessione – 2a tornata del 14 dicembre1938, 5609 ss.): in un’atmosfera euforica,nella quale a stento il presidente dellacamera riesce ad imporre, per l’ultimavolta, la votazione finale a scrutinio segre-to del disegno di legge richiesta dall’art. 63dello statuto albertino e tra lazzi e motti dispirito che evocano alla mente “il bivacco dimanipoli” citato 17 anni prima dal prota-gonista assoluto di quella come di questaseduta parlamentare, viene suggellato ilcertificato di morte dell’istituzione parla-mentare nata novanta anni prima.
Di essa viene ricordata con rispetto sol-tanto «la missione di portare lo Statonazionale sino ai suoi estremi giusti confi-ni etnici» (Atti parl., 5622). Per il resto èl’evocazione sprezzante della «libertàchiacchieroide dei partiti che abusavanodella critica e della censura in qualsiasioccasione», del «caos dei partiti e dellecombutte ministerialistiche» (Atti parl.,5623); un «mondo gramo ed irresponsa-bile di uomini fatti per la caricatura giorna-listica» (Atti parl., 5624. Sui caratteri dellaretorica fascista e sul parlamento quale suoobiettivo privilegiato, cfr. Giuliani, 869 enota 43) al quale si contrappone un futuro,quello dei consiglieri della camera dei fasci,visti, con un’immagine vagamente (maprobabilmente in modo inconsapevole)jüngeriana, come «lavoratori dalle funzio-ni specializzate e militi della causa naziona-le fascista», «operai del buon lavoro legi-slativo» (Atti parl., 5625).
2. Nemici mortali: fascismo e parlamento
È evidente che il 14 dicembre 1938, in occa-sione della seduta della camera dei deputa-ti appena ricordata, si era celebrato l’irri-dente funerale di un morto defunto damolti anni, anche se è sempre stato diffici-le stabilire con precisione quando il deces-so si fosse verificato.
Fuor di metafora, è nota la difficoltà deicostituzionalisti nell’individuare il momen-to dello snaturamento decisivo dell’istitu-zione parlamentare in Italia sotto il fasci-smo. Ciò in perfetto parallelo con la diffi-coltà di definire il momento dell’abbando-no del modello di forma di governo rappre-sentativa delineata dallo statuto (per tutti,cfr. Crisafulli, 115 ss. e Paladin, 887 ss. Con-tra, per la fuoriuscita dalla continuità statu-taria «fin dal primo intervento massiccio,per vie di fatto, cioè con atti esecutivi chenon risalivano al potere pubblico», Pertico-ne, 259) e l’ingresso in un territorio costitu-zionale inesplorato.
La tesi del gradualismo fascista nellaorganizzazione dello stato totalitario valeperò, a mio parere, in termini molto limi-tati per il parlamento, o meglio per la came-ra dei deputati: se i rapporti del fascismocon la corona saranno improntati per tuttoil ventennio ad un delicatissimo gioco discacchi (di cui è pedina lo stesso senatoregio) e sarà la corona, alla fine, a dare scac-co a Mussolini; se i rapporti con le istituzio-ni dello stato non sono certo riconducibiliad una fagocitazione degli apparati ammi-nistrativi e della magistratura nel partito(Aquarone, 240 ss., Paladin, 900, Lombar-di) – ed anzi spesso Mussolini si appogge-rà agli apparati amministrativi, soprattut-to prefettizi, contro il partito (De Felice,1968, 297 ss. Per un quadro maggiormen-
Fondamenti
70
te articolato dei rapporti tra fascismo e pre-fetti, cfr., però, Gentile, 1995, 173) – tuttociò non vale per i rapporti tra fascismo eparlamento (dovendosi comunque osser-vare un condizionamento relativamentemoderato operato dal regime nei confron-ti della burocrazia professionale dellecamere. Per la trattazione di questi aspetti,cfr. Ferrari Zumbini, Traversa e Pacelli).
Antiparlamentare per natura, in quantoantidemocratico (si veda, programmatica-mente, la voce Fascismo, in questa parteredatta da Mussolini, 1932, 849. Sull’incom-patibilità strutturale tra sistema a partitounico fascista e funzione parlamentare, cfr.,per tutti, Rebuffa, 498), il fascismo vede nelparlamento, nell’istituzione di democraziarappresentativa – massimamente la cameradei deputati, quindi – il “nemico” naturale,primigenio, da piegare ed abbattere.
Non sfuggiva però al senso politico diMussolini che la via maestra per compri-mere le libertà civili e spazzare via quellepolitiche doveva passare, se non partire,dal controllo e dal successivo esautora-mento dell’istituzione parlamentare. Nellaparte più avanzata dell’Europa del ventesi-mo secolo, preclusa la via di antistoricicoups d’état o pronunciamientos, peraltroimpraticabili in concreto per il movimen-to fascista delle origini, la realizzazione delregime non poteva prescindere dallosmantellamento del principio democrati-co dall’interno, tramite applicazione delprincipio stesso.
Si trattava, quindi, di spezzare il fonda-mentale fulcro delle democrazie, indivi-duato da Kelsen nel “principio maggiorita-rio-minoritario”, ovvero nella necessariapossibile alternanza ed interscambiabilitàtra posizione di governo e di opposizioneper ogni forza politica (Kelsen, 105. Nella
letteratura costituzionalistica italiana, perla sottolineatura della fondamentalità ditale assunto, D’Atena 48 s.).
Ma non si trattava soltanto di questo.L’antiteticità tra fascismo e parlamentari-smo non si limita a snaturare la dialetticamaggioranza-minoranza tipica di ogni isti-tuzione parlamentare. A questo proposito,si possono avanzare dubbi sulla fondatezzadella posizione di Calamandrei, espressanello scritto in precedenza già ricordato,per il quale il vero obiettivo del fascismoerano, più che il parlamento, le opposizio-ni e che «l’ideale del fascismo non è unoStato senza Parlamento, ma è un Parlamen-to di servi sciocchi», sempre pronti arispondere a richiesta con un voto di accla-mazione (Calamandrei, 272).
Si tratta, infatti, di un’osservazionefinanche riduttiva: essa può fotografare conuna certa efficacia la fase iniziale dell’espe-rienza italiana del ventennio, in cui l’azio-ne fascista sconta il carattere coalizionaledel gabinetto Mussolini nella XXVI legisla-tura statutaria(1921-1924) ove, come ènoto, i deputati fascisti erano ben lungi dalraggiungere la maggioranza ed è in grado diattagliarsi ancora all’azione fascista nellaXXVII legislatura (1924-1929), volta alloschiacciamento delle opposizioni. Ci sitrova di fronte, in altri termini, ad un’ana-lisi applicabile ad un primo stadio evoluti-vo del fascismo, di tipo principalmenteautoritario; tuttavia essa risulta insufficien-te per lo stadio successivo, sperimentatosolo parzialmente, del “fascismo-totalita-rio”, come dimostra in modo evidente lasoppressione della camera dei deputati,ormai ridotta ad aula di acclamazione, senzaopposizioni, a favore di un’entità tutta dasperimentare come la camera dei fasci edelle corporazioni (si aderisce, in questo
Gianfrancesco
71
modo, per quanto riguarda l’istituzioneparlamentare, alla linea interpretativa cheravvisa nell’ordinamento fascista “maturo”i caratteri del totalitarismo. Sul punto, cfr.,per tutti, Gentile, 1995. Diverso – e piùcomplesso – discorso deve farsi per l’ordi-namento complessivo della stato italiano:cfr., infatti, De Felice, 1981, pp. 44 ss.e 66ss.).
3. L’attacco al parlamento: dall’esterno e dal-l’interno
Molteplici appaiono le direttrici di attaccoalle istituzioni parlamentari: alcune brutal-mente violente ed illegali, altre abilmentein grado di sfruttare i punti di debolezzaofferti dalla legalità statutaria (sul “doppiogioco” del fascismo nei confronti del par-lamentarismo, cfr., ancora, Calamandrei,265, ma, in precedenza, Trentin, 147).
Non è il caso di soffermarsi sul versan-
te per così dire “esterno” dell’azione anti-parlamentare del fascismo: il ricorso alleminacce, alle violenze fisiche, allo squadri-smo, in una parola all’illegalismo comemezzo di competizione politica e di com-pressione, se non di eliminazione, degliavversari politici non necessitano di parti-colari approfondimenti in questa sede,tranne che per un particolare aspetto.
Il ricorso alla violenza, infatti, non silimita a caratterizzare l’azione politica al difuori delle aule parlamentari, anche se, nelcaso più eclatante – il delitto Matteotti – ildestinatario delle violenze è un parlamen-tare. Ciò che è dato rilevare e che merita diessere segnalato è la proiezione, in più di unepisodio, della violenza (o della immedia-ta minaccia di essa, il ché è equivalente)all’interno della stessa aula parlamentare(il discorso vale, ovviamente, soprattutto,per la camera dei deputati).
Si assiste così alla crisi più drammati-ca di uno dei presupposti essenziali di esi-stenza e funzionalità delle assemblee par-lamentari e, cioè, il carattere pacifico deilavori di esse; la capacità della dialetticaparlamentare di neutralizzare, nel recipro-co riconoscimento e legittimazione deicontendenti politici, le più aspre contrap-posizioni determinate dalla logica del-l’amico/nemico (sul ruolo del diritto par-lamentare a questo proposito, cfr. Manet-ti, 1991).
Si tratta di un presupposto che non erastato seriamente messo in discussione (inmodo duraturo e premeditatamente rivol-to alla soppressione di una parte politica,cioè) neanche nella crisi parlamentare difine secolo XIX (su tale crisi, cfr. Lacchè)ed alla luce del quale possono trovare ancheoggi giustificazione istituti quali l’immuni-tà della sede delle camere e la potestà di
Fondamenti
72
Giacomo Matteotti.
ogni assemblea parlamentare di essere giu-dice esclusivo nell’applicazione delle san-zioni disciplinari ai propri membri.
Il “nuovo ordine” si manifesta, invece,palpabile nella tesa seduta inaugurale dellaXXVII legislatura, nella quale il deputatoModigliani lamenta una sorta di accerchia-mento fisico dei banchi della opposizioneda parte dei deputati della maggioranza (Attiparlamentari – Camera dei Deputati, legisla-tura XXVII, 1a sessione – tornata del 28 mag-gio 1924). Di questo clima di sopraffazionee violenza costituisce la migliore testimo-nianza la tragica seduta in cui il deputatoMatteotti firma la sua condanna a morte(ancorché eseguita fuori della camera deideputati) (Atti parlamentari – Camera deiDeputati, legislatura XXVII, 1a sessione – tor-nata del 30 maggio 1924).
Allo stesso modo, ed ancora più signifi-cativamente, il rientro in aula dei deputatiaventiniani viene fisicamente impedito inoccasione della seduta commemorativadella regina madre (per questo episodio,cfr. Aquarone, 1995, 95, nota 1 e De Felice,1968, 155 che bolla tale tentativo come«una manovra così ingenua da risultare, allimite, quasi provocatoria»).
Ma, come si accennava in precedenza,l’oggetto principale di questo contributo èil profilo, per così dire, interno di de-costruzione del parlamentarismo posto inopera dal fascismo, attraverso modifichelegislative e regolamentari che si inserisco-no nel tronco dell’ordinamento vigente espezzano, operando dall’interno dell’ordina-mento stesso, la dialettica del principio mag-gioritario-minoritario.
Va peraltro riconosciuto che si tratta dioperazioni “riformatrici” spesso guidate edassistite dalla consulenza di intelletti digrande spessore culturale, tra i quali pri-
meggia sicuramente Alfredo Rocco (sulquale, cfr. ora la riflessione di Vassalli,2002, 13 ss., preziosa per il suo equilibrio).
Un punto che va sin da ora assolutamen-te sottolineato, in questa analisi, è che moltedelle modificazioni involutive del quadronormativo incidono su punti drammatica-mente deboli del parlamentarismo tradizio-nale. Al di là del rispetto o meno della legit-timità statutaria (con tutti i limiti pratici dioperatività della nozione di “legittimità sta-tutaria”, della quale lo stesso Mussolini eraperfettamente e lucidamente consapevole,come dimostra il suo discorso al senato inoccasione dell’approvazione della riformaelettorale del 1928 [riportato in De Felice,1968, 326]), sicuramente notevolissima èstata la capacità del fascismo di insinuarsinelle fessure e nelle vistose crepe di un par-lamentarismo quanto mai bisognoso dirazionalizzazione e quindi in condizione, percosì dire, di minorata difesa.
È il caso della separatezza dell’ordina-mento delle camere del parlamento dall’or-dinamento generale, magistralmente siste-matizzata ad inizio secolo (Romano, 1905)e classicamente posta a salvaguardia dellalibertà ed autonomia delle camere stesse,che si rovescia, in una sorta di contrappas-so storico ed istituzionale, in un fattore diisolamento: né la corona né le magistratu-re del regno potranno impedire le riformefinalizzate a trasformare profondamenteorganizzazione e funzionamento del parla-mento (sugli esiti di tale processo, cfr. nellaletteratura costituzionalistica di ispirazio-ne fascista, Chimienti, 1933, 304 ss.; Costa-magna, 1934, 259 ss.) Ciò mentre nel Paeseil parlamento verrà reso, ad opera dei fasci-sti, il bersaglio dell’avversione e della cri-tica più delegittimante (cfr. infatti Volpe,1932, 862 per la irridente descrizione della
Gianfrancesco
73
frammentazione e dell’inconcludenza del
parlamento degli anni 1919 – 1922).
Al medesimo fine conduce la denuncia
della debolezza della posizione istituziona-
le del governo in parlamento, ciclicamen-
te riemergente nell’esperienza statutaria –
talvolta a fini tattico-politici – ma indub-
biamente acutizzatasi negli anni immedia-
tamente successivi alla fine della prima
guerra mondiale. Ciò consentirà al fasci-
smo di presentare le proprie riforme costi-
tuzionali della metà degli anni venti come
una variante, stavolta realizzata, di un “tor-
niamo allo statuto” di restaurazione dei
caratteri “autentici” della monarchia rap-
presentativa, a fronte della brutalizzazione
della pratica del regime parlamentare ope-
rata dalle «sabbie mobili delle maggioran-
ze parlamentari mosse e sconvolte dal vento
delle passioni e degli interessi elettorali dei
partiti e fazioni senza programmi» (Chi-
mienti, 1940, 435).
Non è da trascurare, infine, il peso gio-
cato dalle rivalità tra i due rami del parla-
mento italiano; rivalità su cui Mussolini
farà leva abilmente, soprattutto blandendo
e lusingando il senato (a partire dal discor-
so di presentazione del suo gabinetto nelnovembre del 1922), mentre procedevamediante successive “infornate” di nuovisenatori a stravolgerne la composizione(ma su questo aspetto, cfr. infra).
4. L’inabissamento del parlamento: periodiz-zazione
Consapevole dei limiti insiti in ogni tenta-tivo di periodizzazione, tanto più con rife-rimento ad un’esperienza, come quellafascista, della quale si è già ricordato l’im-patto graduale ed evolutivo sulla forma distato, mi pare comunque utile, se non altroa fini pratici, individuare tre fasi maggior-mente rilevanti e significative del proces-so di trasformazione della funzione parla-mentare nel costituendo regime fascista.
La trattazione che segue cercherà di evi-denziare i termini più rilevanti di ciascunadi queste fasi.
4.1 La fase della transizione. Conquistato ilgoverno, o meglio la presidenza del consi-glio dei ministri, atteso il carattere coalizio-nale del gabinetto Mussolini, si pone per ilfascismo il problema di conquistare il par-lamento, nel quale, come si è già detto, ifascisti erano ben lungi dal raggiungere lamaggioranza, anche relativa.
È inevitabile, quindi, che in questa fasel’azione dall’interno di scardinamento delparlamentarismo debba avvenire nelrispetto dei canoni fondamentali del dirit-to parlamentare classico. Del resto, Mus-solini si era reso conto dell’impossibilità diforzare oltre misura il dettato costituziona-
Fondamenti
74
La presentazione del governo Mussolini alla Camera dei
Deputati il 16 novembre 1922.
le nel momento in cui aveva dovuto incas-sare il diniego regio alla firma di un decre-to di scioglimento “in bianco” della came-ra dei deputati, da utilizzare per convince-re i più titubanti al momento del voto sullafiducia nel novembre del 1922.
Non è questa la sede per soffermarsi suiprovvedimenti adottati in questi primi mesidal governo Mussolini destinati a modifica-re l’ordinamento amministrativo dellostato italiano e cioè l’amplissima delega diriordino del sistema tributario e dei pub-blici uffici (ivi compresa la dispensa dalservizio dei funzionari pubblici e la riformadell’ordinamento giudiziario) nonchél’istituzione della milizia volontaria per lasicurezza nazionale (su questi provvedi-menti, cfr. Aquarone, 7 ss. L’importanzadella milizia nell’edificazione dello statofascista è evidenziata da Chabod, 80 s., chegiunge a definirla «l’aspetto più caratteri-stico della dittatura»), nè sui progetti diriforma costituzionale di questa fase,ancorché indicativi dell’intenzione di ridi-mensionare drasticamente il ruolo dellecamere del parlamento (in particolare, sulprogetto elaborato dal quadrumviro Miche-le Bianchi, cfr. Quaglia).
4.1.1 La legge Acerbo. Con riferimento a ciòche più da vicino ci interessa, e cioè il par-lamento, non deve stupire che al fiuto poli-tico di Mussolini sia stato ben presente chela camera dei deputati della XXVI legislatu-ra non poteva assolutamente considerarsiaffidabile al fine del consolidamento delfascismo al potere. Di qui la naturale indi-viduazione della modifica della legge elet-torale come obiettivo prioritario (e suffi-ciente) della legislatura in corso.
Ed è proprio la modifica della legge elet-torale proporzionale il primo vero snodofondamentale dell’inabissamento dellafunzione parlamentare durante il fascismo.
Si tratta, come è evidente, di un proble-ma di diritto costituzionale generale primaancora che di diritto parlamentare. Restaancora non pienamente razionalizzabilecome sia stato possibile, per una cultura poli-tica come quella italiana del 1922 che – per lesue componenti ancora prevalenti – nonpoteva comunque definirsi primitiva e sel-vaggia – accogliere un sistema elettorale ingrado di consegnare due terzi dei seggi dellacamera alla lista che raggiungesse il venticin-que per cento dei voti (si badi che questasoglia minima venne introdotta in aula, risul-tando assente nel disegno di legge governa-tivo, quale punto di compromesso rispetto adun emendamento dell’on. Gronchi tendentea fissare una soglia minima del 40 per centoper l’attribuzione del premio, che recepivaun tentativo già svolto da De Gasperi. Sulpunto, cfr. De Felice, 1966, 531). Nondovrebbe sembrare un argomento da arcanaimperii, infatti, quello per cui l’attribuzione diun premio di maggioranza in grado di faredella forza di maggioranza relativa (che puòessere tranquillamente di minoranza) unaforza super-maggioritaria in modo schiac-ciante contraddice in modo evidente il kelse-niano principio maggioritario-minoritarioposto alla base delle democrazie contempo-ranee, poiché rende maggioranza chi puòessere ben lungi dall’esserlo (per questoordine di preoccupazioni, cfr. anche, conriferimento a vicende a noi ben più vicine, lesentt. n. 15 e 16 del 2008 sull’ammissibilitàdei referendum elettorali presentati nel 2007sulla disciplina elettorale italiana, senza però,a parere di chi scrive, che la Corte ne abbiatratto le dovute conseguenze...).
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Ma ciò che può restare un mistero perl’osservatore avulso dal corso degli eventima attento ai principi, trova una giustifica-zione, come sempre, del resto, se ci si inse-risce nel fluire della storia: la presunzionedella classe politica tradizionale italianadell’epoca, di derivazione liberale, conser-vatrice e moderata (con la drammatica lace-razione in seno ai popolari, culminata nelledimissioni da segretario politico del parti-to popolare di Luigi Sturzo, oppositore dellariforma elettorale) di assorbire e metabo-lizzare il fascismo, utilizzandolo a fini dinormalizzazione di una situazione politicae sociale profondamente lacerata, spiegal’approvazione della “legge Acerbo” (legge18 novembre 1923, n. 2444), con 223 votifavorevoli e 123 contrari alla Camera e 165a favore e 41 contro al Senato (sull’utilizza-zione strumentale del fascismo da partedell’establishment politico dell’epoca: Cha-bod, 66 ss, De Felice, 1969, 190, anchenella variante di chi lo intendeva come una“scopa” in grado di eliminare dalla scenapolitica la vecchia classe politica giolittia-na). Ma il fascismo tutto era meno che nor-malizzabile ed assoggettabile ai canoni dellatradizionale politica italiana...
Dal punto di vista procedurale, si segna-la la decisione di ricorrere alla tecnica dellacommissione speciale per l’approvazionedella legge di riforma elettorale. Come èstato osservato in un ampio ed accurato stu-dio sui regolamenti parlamentari in epocafascista, il ricorso alla commissione spe-ciale aveva soprattutto l’obiettivo di atte-nuare il vincolo della proporzionalitàrispetto alle commissioni permanenti giàcostituite (Scotti, 105 ss.).
A suggello di questa vicenda, resta intat-ta, comunque, la lucidità dell’analisi di Gio-vanni Amendola che nel suo intervento alla
camera (Atti parlamentari – Camera deiDeputati, legislatura XXVI, 1a sessione – tor-nata del 12 luglio 1923, 10659 s.) individua-va il principio ispiratore della legge in ciò:che “la minoranza più forte ha diritto didare il Governo a tutto il Paese”, con ciòconsumandosi una profonda cesura con ilsistema rappresentativo presupposto nellostatuto.
Ed è un giudizio da condividere, purrisultando imbarazzante che a tale cesuraabbiano contribuito in modo determinan-te forze politiche e parlamentari che fasci-ste non erano.
4.1.2. La mozione Grandi di riforma del rego-lamento della camera. Il secondo momentoemblematico della transizione costituzio-nale è rappresentato dalle vicende di aper-tura della XXVII legislatura. Se al già ricor-dato “versante esterno” di attacco al parla-mentarismo appartiene la reazione aldiscorso del deputato Matteotti del 30 apri-le 1924, alla trasformazione “dall’interno”del parlamento, grazie ad un spregiudicatouso degli strumenti legislativi e regolamen-tari, appartengono altri episodi sui qualideve appuntarsi la nostra attenzione.
Il primo di questi si compie proprio inapertura dei lavori della nuova legislatura,al grido di “I partiti sono morti” e sulla basedell’argomento per cui “più di due terzi dideputati della maggioranza... non intendo-no essere ascritti ad alcun ufficio politico enon intendono, soprattutto, assumere qua-lifica diversa di quella di sostenitori tenacie di collaboratori fedeli dell’opera delGoverno” (Atti parlamentari – Camera deiDeputati, legislatura XXVII, 1a sessione – tor-nata del 29 maggio 1924, 28 s.).
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Di queste asserzioni che risuonano nel-l’aula di Montecitorio, trae le conseguenzela mozione a prima firma Grandi (e secon-da firma Salandra...) di modificazione delregolamento della camera dei deputati e cheprevede l’abbandono del sistema dellecommissioni permanenti ed il ritorno aquello degli uffici (Atti parlamentari –Camera dei Deputati, legislatura XXVII, 1a ses-sione – tornata del 28 maggio 1924, 10).
Molto si è discusso, dal punto di vistadella legittimità, sul ricorso allo strumen-to della mozione per modificare normeregolamentari (in senso decisamente nega-tivo, Mazzoni Honorati, 18 ss.; Scotti, 1961.Maggiormente problematico sul punto,Curreri, 154).
Alcune di queste obiezioni non appaio-no insuperabili: sussistevano, infatti, nonpochi precedenti di modificazioni regola-mentari mediante mozione (ricordati daCurreri, 154, nota 255), alcuni dei qualivennero puntualmente richiamati dall’on.Grandi nel dibattito (sul precedente del1900, cfr. Lacché).
Vero è anche che l’anomalia di una deli-berazione su mozione venne almeno inparte corretta dal rinvio in giunta del rego-lamento disposto dal presidente dellacamera Rocco (anche se con un terminemolto breve, di ventiquattro ore, che perònon impedì alla giunta di presentare unapropria relazione).
Anche la soluzione di ricorrere ad ununico articolo per abrogarne dieci e la con-seguente possibile violazione dell’art. 55dello statuto sull’approvazione articolo perarticolo delle leggi (la procedura legislativaera stata seguita in occasione delle prece-denti modifiche regolamentari a mezzo dimozioni, come ricorda Curreri, 154, nota255) rinvia al problema, di non facile né uni-
voca soluzione, della delimitabilità sostan-ziale – e non meramente formale – degliarticoli (tant’è che, come è noto, è ancoraoggi ampiamente in discussione in relazio-ne alla tematica dei maxi-emendamenti suiquali viene posta la questione di fiducia: cfr.sul tema Lupo, 2007 e, da ultimo, in uno stu-dio specificamente dedicato al tema del-l’emendamento, Piccirilli, cap. 6).
L’obiezione più stringente alla mozioneGrandi resta, a mio parere, quella (solleva-ta nel dibattito da Matteotti: atti parlamen-tari – Camera dei Deputati, legislatura XXVII,1a sessione – tornata del 29 maggio 1924, 44)fondata sul carattere meramente abrogati-vo della riforma proposta, atta a produrreun “vuoto” normativo, senza alcuna auto-matica reviviscenza degli articoli del vec-chio regolamento del 1900 che prevedeva-no il sistema degli uffici.
Anche in questo caso, tuttavia, va con-siderato, in un ordinamento sezionalecome quello parlamentare, il peso dell’in-terpretazione che la giunta del regolamen-
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Giovanni Amendola
to aveva dato alla proposta di modifica, nelsenso della reviviscenza, appunto, dellenorme regolamentari anteriori al 1920,formalizzando tale interpretazione in unemendamento della giunta stessa, ancor-ché ritirato per consentire l’immediataapprovazione della mozione (Atti parla-mentari – Camera dei Deputati, legislaturaXXVII, 1a sessione – tornata del 29 maggio1924, 46). Cosicché, non ci si può sbaraz-zare troppo sbrigativamente dell’interpre-tazione del presidente della Camera Rocco,il quale afferma che «a me pare evidenteche, quando si dice che le modificazioni –bisogna notare questo termine – approva-te al regolamento vengono abrogate, è logi-camente implicito il ritorno in vigore delledisposizioni precedenti» (Atti parl. 47).
Passando a considerare alcuni elemen-ti sostanziali della riforma, mi preme,innanzitutto, ricordare l’utilizzazione neldibattito parlamentare, da parte dell’on.Grandi, ed a favore, ovviamente, dellariforma stessa, dell’argomento classico delparlamentarismo liberale in base al quale“ogni camera ha diritto di darsi il proprioregolamento” e che, quindi, nulla impedi-sce alla camera della XXVII legislatura – «lalegislatura che conduce sulle vie maestredella grandezza il popolo italiano» (Atti par-lamentari – Camera dei Deputati. LegislaturaXXVII, 1a sessione – tornata del 29 maggio1924, 30) di darsi nuove regole, adeguate almutato sistema politico. Ecco un evidenteesempio di quella “legge del contrappasso”che colpisce gli istituti del parlamentari-smo liberale che tendevano ad isolare l’or-dinamento del parlamento dall’ordina-mento giuridico generale dello stato, cui siè accennato in precedenza.
Non possono sfuggire le ragioni delritorno al passato insito nella decisione di
riesumare una soluzione (quella degli uffi-ci) ormai evidentemente inadeguata rispet-to alle esigenze di specializzazione e pro-duttività di un parlamento moderno: in unacamera caratterizzata dalla sovra-rappre-sentazione della maggioranza, come quellaprodotta dalla legge Acerbo, è evidente chel’estrazione a sorte dei componenti degliuffici avrebbe ridotto la possibilità di rap-presentanza dei deputati della minoranza(come subito evidenziato nel dibattito par-lamentare dall’on. Del Bello: Atti parlamen-tari – Camera dei Deputati, legislatura XXVII,1a sessione – tornata del 29 maggio 1924, 38)ed in ultima analisi, anche in conseguenzadella “casualità” e mutevolezza nel tempodella composizione degli uffici, un minorecontrollo politico sui progetti di legge.
Deve essere adeguatamente considera-ta, inoltre, la strumentalità dell’”innova-zione” del ritorno al passato: poco tempodopo, la cosiddetta “commissione dei solo-ni” per la riforma delle istituzioni stataliproporrà l’introduzione di commissionispeciali, per rendere più adeguato l’iterlegislativo (testo in Aquarone, 352 s.). Inquesto senso si consideri anche il manteni-mento nel regolamento del 1925 di alcunecommissioni permanenti “per tutta la Ses-sione” per talune materie, evidentementeconsiderate di particolare delicatezza(esame di bilanci e rendiconti, di petizio-ni, dei decreti registrati con riserva dallacorte dei conti, dei trattati di commercio)(art. 13). Nella medesima linea si muoveanche l’introduzione, nel 1927, dell’art. 54-bis del regolamento, che attribuisce ad unacommissione permanente l’esame deidecreti-legge, salva comunque l’attivazionedella ordinaria procedura degli uffici arichiesta del governo o di dodici deputati.Bisognerà attendere, infine, l’istituzione
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della camera dei fasci e delle corporazioniper assistere, come si vedrà tra breve, aduna rilevantissima valorizzazione dellecommissioni permanenti, in grado, comeè noto, di procedere anche all’approvazio-ne definitiva del testo legislativo.
Un aspetto meno evidenziato (cfr.,comunque, Scotti, 112 s.) ma non seconda-rio della riforma regolamentare in esame ècostituito dal venir meno del potere diauto-convocazione della camera (ad inizia-tiva della maggioranza dell’assemblea odelle commissioni, per la precisione alme-no cinque). Non sfugge al relatore di mino-ranza, on. Del Bello, in occasione del dibat-tito sull’approvazione della mozione Gran-di, come questa scelta si ponga in contro-tendenza rispetto alle risultanze del dirittoparlamentare comparato e, fondamental-mente, con il principio di democrazia rap-presentativa (prima ancora che di tuteladella minoranza o della maggioranza) (Attiparlamentari – Camera dei Deputati, legisla-tura XXVII, 1a sessione – tornata del 29 mag-gio 1924, 38).
4.1.3 Le modifiche regolamentari del giugno1925. L’esame delle modifiche regolamen-tari approvate nel giugno del 1925 (e rece-pite nel testo unico del 31 ottobre dellostesso anno) dimostrano che, dal punto divista della trasformazione del diritto par-lamentare, ci si trova ancora in una fase ditransizione (e ciò nonostante il discorsomussoliniano del 3 gennaio si sia già datempo tenuto, a dimostrazione dell’insuf-ficienza della ricostruzione secondo cui ildiscorso in questione rappresenterebbe ilmomento di rottura del regime fascista conla precedente esperienza statutaria, come
giustamente evidenziato da Paladin, 889.Per l’affermazione dell’importanza princi-palmente sul piano politico della data del 3gennaio, cfr. oltre a Paladin, loc. ult. cit., DeFelice, 1969, 163. Per un esame dettagliatodelle modifiche regolamentari del 1925, cfr.Scotti 128 ss.).
La dimostrazione del mantenimento inquesta fase di legami con la tradizione par-lamentare classica è significativamenterappresentata, a mio parere, dalla circo-stanza per cui la (pure debordante) mag-gioranza ed il governo sono costretti a cede-re su alcuni punti, rispetto alla proposta dimodifica regolamentare dell’on. Grandi, etale cedimento avviene nel senso del man-tenimento di talune soluzioni tradizionalidi stampo garantista.
È il caso della formulazione dell’art. 8 delregolamento: si mantiene l’estrazione a sortedegli uffici rigettando la proposta di asse-gnarlo alla presidenza, nonostante l’insof-ferente reazione di Mussolini (Atti parlamen-tari – Camera dei Deputati, legislatura XXVII, 1a
sessione – tornata del 2 giugno 1925, 4123). È, ancora, il caso del rinvio della rifor-
ma della disciplina del sindacato ispettivo,in attesa di una “sistemazione organica”dello stesso che conduce, quindi, al man-tenimento dello strumentario ispettivo neiconfronti del governo di epoca pre-fascistae ciò nonostante il relatore della propostadi riforma riconosca che «nella legislatu-ra precedente le interrogazioni e le inter-pellanze erano addirittura un guaio» (Attiparl. 4136).
Ancor più significativo del manteni-mento di alcuni istituti di chiara derivazio-ne garantista e liberale appare la conserva-zione del voto limitato per la composizionedell’ufficio di presidenza (art. 5) e delle giàricordate commissioni previste dall’art. 13.
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Ma non vi è dubbio che la riforma inesame mira complessivamente a realizzareed in effetti mette a segno significativi risul-tati a favore del rafforzamento della maggio-ranza e del governo. Si pensi, a questo pro-posito, alla previsione della facoltà, per ilgoverno di presentazione di disegni di leggenell’intervallo tra una riunione e l’altra dellacamera, con la possibilità per la presidenzadi una convocazione straordinaria degli uffi-ci per il loro esame (art. 51) ovvero al rinviodelle deliberazioni finali (a scrutinio segre-to) sui disegni di legge fino a quattro giorni,su richiesta governativa, al fine di evitarepossibili colpi di mano in aula (art. 96).
Soprattutto si segnalano le finalitàantiostruzionistiche di talune innovazioniregolamentari che si inseriscono in un tes-suto parlamentare non poco logorato dalricorso a tali pratiche dilatorie (per la men-zione di precedenti che, al di là dell’episo-dio contingente, avevano contribuito adaccrescere nel Paese la sfiducia nel proce-dimento decisionale parlamentare cfr. ledichiarazioni del relatore Tumedei: Attiparl., 4131).
In particolare, l’art. 74 pone una disci-plina restrittiva degli ordini del giorno,consentendone a ciascun deputato la sot-toscrizione di uno soltanto durante ladiscussione generale dei disegni di legge,vietando lo svolgimento di quelli presen-tati dopo la chiusura della discussione, maammettendone la votazione se sottoscrittida almeno 15 deputati.
In un crescendo di efficacia anti-ostru-zionistica (ma non solo, incidendosi in que-sto caso in modo diretto sulla forma digoverno), va ricordata l’elevazione del quo-rum per la richiesta del numero legale (dadieci a trenta deputati) e la limitazione deicasi in cui ciò poteva avvenire (art. 36) ma
va menzionata, soprattutto, la rilevantissi-ma previsione dell’art. 78, terzo comma, cherichiede il consenso del governo per porrein votazione emendamenti di spesa, a menoche (e qui torna un’attenuazione in sensoopposto all’ispirazione generale della pro-posta Grandi) tale emendamento non siapresentato dalla commissione. Nel dibatti-to relativo alla approvazione di tale innova-zione regolamentare, il relatore Tumedei hafacile gioco (come lo avrebbe avuto, di lì apoco il guardasigilli Rocco nel dibattito par-lamentare sulla legge n. 2263 del 1925) nelrichiamare l’esperienza inglese, nel qualenon solo la facoltà di emendamento, ma lastessa iniziativa parlamentare è preclusa inmateria finanziaria (Atti parl. 4135).
Ma, senza dubbio, la disposizione piùrilevante a fini anti-ostruzionistici è l’in-troduzione di un meccanismo di “ghigliot-tina” (Tumedei lo chiama “freno automati-co”: Atti parl., 4132) della discussione adopera dell’art. 77, il quale prevede, in casodi discussione sugli articoli di un disegno dilegge protratta “con evidente artificio” peroltre cinque sedute (il termine propostodalla Commissione era di dieci sedute. Lerimostranze del guardasigilli Rocco – cfr.Atti parl.: 4133 s. – portano alla riduzione acinque; termine sicuramente draconianoed eccessivo secondo una “normale” sensi-bilità democratica) la facoltà per il governoo trenta deputati di chiedere una procedu-ra abbreviata che, se approvata a votazionesegreta dall’assemblea, impone la votazio-ne finale sul provvedimento “nello stato incui trovasi” entro una data certa, comun-que non inferiore a dieci sedute (su taleistituto, si sofferma anche l’attenzione diMortati, 1931, 170, che sottolinea comearbitro della sua applicazione resti la came-ra e non il governo).
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Queste le modificazioni più rilevantiintervenute nel 1925. A conclusione di que-sta rapida rassegna non si può sottacerel’imbarazzante sensazione che molte dellequestioni affrontate dalla riforma regola-mentare sono ancora oggi non completa-mente risolte, continuando a rappresenta-re vere e proprie spine nel fianco del par-lamentarismo contemporaneo: si pensi, trale altre, al problema dell’ostruzionismo edalla limitazione della potestà di emenda-mento in materia di spesa. A dimostrazio-ne, poi, che, dal punto di vista del dirittoparlamentare, il periodo appena considera-to deve essere considerato di transizione,non ancora avulso dai principi tradiziona-li di funzionamento delle assemblee legi-slative “classiche”, sta la considerazioneche taluni dei rimedi alle distorsioni delprocedimento decisionale parlamentareintrodotti con la riforma del 1925 – e spe-cialmente la “ghigliottina” anti ostruzioni-smo – opportunamente mitigati in modo darenderli pienamente compatibili con iprincipi del parlamentarismo liberal-democratico, non solo persistono nel dirit-to parlamentare italiano contemporaneoma mantengono una loro centralità neldibattito sulla razionalizzazione del proce-dimento legislativo (sul condizionamentoche lo stravolgimento degli istituti parla-mentari da parte del fascismo ha prodottosull’esperienza successiva, favorendo, adesempio, l’identificazione dell’ “antifasci-smo costituzionale” con la “centralità par-lamentare”, e rendendo molto più difficol-tosa, quindi, l’adozione di discipline orga-nizzative e funzionali in linea con le espe-rienze costituzionali liberaldemocratichepiù mature, cfr. Sicardi, 272 e nota 64).
5. La fase di trasformazione dell’ordinamentocostituzionale
Se si può dire che la modifica della legge elet-torale del 1923 segni già una discontinuitàdella forma di stato italiana, sancendo che “laminoranza più forte ha diritto di dare ilGoverno a tutto il Paese”, per usare le giàricordate parole di Amendola, le conseguen-ze di tale trapasso, per ciò che concerne laforma di governo (con una ricaduta ulterioreinnegabile sulla forma di stato), si hanno conl’approvazione delle leggi 24 dicembre 1925,n. 2263 e 31 gennaio 1926, n. 100, che pla-smano in modo totalmente nuovo la posizio-ne ed i poteri dell’esecutivo nell’ordinamen-to italiano. Si apre così un breve periodo diconsolidamento di un regime politico ecostituzionale ormai in rotta con il parla-mentarismo che trova il suo passaggio inter-medio nella espulsione dalla camera dellecomponenti di opposizione, grazie allamozione Turati del 9 novembre 1926, ed ilsuggello finale nella legge elettorale del 1928,la quale segna il passaggio ad un modello ple-biscitario di designazione della camera ecostringe ad interrogarsi sulla permanenza omeno del carattere rappresentativo in senoal parlamento italiano.
Tutto ciò mentre l’approvazione delledisposizioni che consentivano ai prefetti loscioglimento di tutte quelle associazioniche svolgessero attività contraria all’ordi-namento nazionale (e cioè i partiti politicidiversi da quello fascista) e la soppressio-ne dei quotidiani e periodici di opposizio-ne (r.d. 6 novembre 1926, emanato utiliz-zato la delega al Governo per l’integrazionedel testo unico di pubblica sicurezza appro-vata con legge 31 dicembre 1925 nonché lalegge 31 dicembre 1925, n. 2307 sulla stam-pa periodica) eliminavano i presupposti
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stessi del parlamentarismo. È appena il
caso di ricordare come la legge 25 novem-
bre 1926 n. 2008 «Provvedimenti per la
difesa dello stato», approvata in un giorno
alla camera ed in otto al senato, attraverso
la reintroduzione della pena di morte e
l’istituzione del tribunale speciale per la
sicurezza dello stato, poneva il coronamen-
to sanzionatorio della svolta autoritaria (è
interessante osservare, comunque, come le
preoccupazioni di Mussolini in ordine alla
reazione di taluni deputati maggiormente
legati alla tradizione garantista e soprattut-
to dei senatori indussero a non inserire una
clausola di retroattività della disposizione
sulla pena di morte a fatti commessi ante-
riormente all’entrata in vigore della legge:
cfr. De Felice, 1968, 212, nota 2).
5.1 Le leggi del dicembre del 1925 e del genna-
io 1926. La coppia di leggi approvate a caval-
lo tra la fine del 1925 e l’inizio del 1926
costituisce la più travolgente delle rivinci-
te per il potere esecutivo, inteso quale pote-
re “negletto” della esperienza statutaria
pre-fascista.
Esula dalla nostra trattazione soffer-marsi sulle questioni pur rilevantissimeattinenti alla trasformazione del sistemadelle fonti del diritto italiano in generale,ad opera della riforma, dovendoci limitarea quegli aspetti che investono il parlamen-to, il suo funzionamento ed, oltre ciò, la suafunzionalità.
La disposizione centrale a questo pro-posito è ovviamente l’art. 6 della legge n.2263 del 1925, che stabilisce il principiosecondo cui «nessun oggetto può esseremesso all’ordine del giorno di una delle dueCamere, senza l’adesione del Capo delGoverno».
Non vi sono molte parole da spendereper dimostrare come non si tratti soltanto diuna disposizione incidente sulla forma digoverno, ovvero di una più o meno direttaconseguenza della nuova e rafforzata posi-zione dell’organo di vertice del potere ese-cutivo (sull’ardito accostamento della posi-zione del capo del governo, primo ministro,segretario di stato al primo ministro del-l’esperienza britannica, cfr. Rocco neldibattito al senato, tornata del 19 dicembre1925, ora in Rocco, 295 s., anche se in quel-la stessa occasione il guardasigilli, provoca-to sul punto dall’intervento del sen. Gaeta-no Mosca [in Mosca 359 ss.], conclude perl’irriducibilità della disciplina in approva-zione a modelli già noti come quello parla-mentare o costituzionale puro [298 s.]).
La subordinazione della possibilità peruna camera del parlamento di prendere inconsiderazione un argomento senza l’as-senso governativo costituisce un vulnusmortale all’autonomia della camera stessa,in evidente contraddizione e superamentonon solo dell’art. 61 dello statuto.
Nonostante il coraggioso tentativo diCostantino Mortati di fornire una ricostru-
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La proclamzione dell’Impero il 16 maggio 1936 in Senato.
zione «armonizzata con il complesso deiprincipi dominanti nel nostro diritto pub-blico» (Mortati, 1931, 164), e, quindi, inchiave restrittiva, intendendo il potere inquestione non esercitabile per determina-te materie più propriamente parlamentari,non estensibile agli emendamenti e,soprattutto, non rientrante tra gli internacorporis (e, quindi, sindacabile dagli orga-ni giurisdizionali), la pari ordinazionecostituzionale del parlamento rispetto alpotere esecutivo sembra ormai compro-messa. Come si è puntualmente osservato(Rebuffa, 499), grazie alla costruzione giu-ridica di Rocco, il fascismo realizza nel 1925uno dei propri obiettivi fondamentali,ovvero la “deparlamentarizzazione dellavita politica” italiana, che sposta versol’esecutivo ed il partito la realizzazione deifini dello stato (anche se la relazione tragoverno e partito resterà sempre dialetticae problematica nell’esperienza concreta,avendo il regime in Mussolini il punto disnodo centrale, in grado di privilegiare,secondo le esigenze del momento, ora l’unoora l’altro).
Viene così colta e piegata a precisi fini distabilizzazione del regime una tendenzagenerale di crisi del parlamentarismo del-l’epoca, che nella ricostruzione di Roccoviene “sistematizzato” ad organo potremmodire ausiliario del Governo, il quale rappre-senta, invece, il vero potere continuativodello stato, in grado, quindi, di estenderecon piena naturalezza il proprio interventodall’amministrazione alla normazione, siasecondaria che primaria, come appuntoavverrà con la legge n. 100 del 1926. In que-sto quadro, lo stesso principio di divisionedei poteri – che pure non viene da Roccoripudiato – viene trasfigurato da principio digaranzia a principio «di sviluppo dello
Stato», funzionalmente inteso ed accettatoin quanto mirante alla «specificazione diorgani e funzioni, in sostanza di divisionedel lavoro ma...anche, per ciò stesso, prin-cipio di coordinazione, perché superioreancora al principio della specificazione èquello dell’unità e della organicità delloStato» (Atti parlamentari, camera dei deputa-ti, 2a tornata del 20 giugno 1925, ora in Rocco,224. Nella dottrina costituzionalistica del-l’epoca cfr. Chimienti, 1933, 304).
Nell’intervento legislativo in materiatradizionalmente coperta dall’autonomiaregolamentare e nel concreto contenuto ditale intervento si può vedere anche qualco-sa di specificamente attinente la concretacondizione del diritto parlamentare italia-no, oltre che del parlamentarismo nel suocomplesso. Si tratta della precisa volontà diporre, una volta per tutte, fine a quella fun-zione evolutiva che i regolamenti parla-mentari, nella loro sfera di autonomadeterminazione e nella capacità di recepi-re, filtrandole, le suggestioni della prassi edelle convenzioni (Caretti, 588), avevanoavuto all’interno della forma di governodelineata dallo statuto, conducendola attra-verso non facili prove ad esiti maturi. La“normalizzazione” dei regolamenti parla-mentari– tanto più emblematica proprioperché realizzata mediante un interventolegislativo – esclude, da questo momentoin poi, che si possa parlare «di una qualchefunzione del diritto parlamentare diversada quella strettamente letterale di strumen-to di regolazione dei lavori interni delleassemblee, in gran parte peraltro subordi-natamente alle disposizioni di una fontenormativa diversa, ossia la legge» (Caret-ti, loc. ult. cit.).
Ancora una volta, solo all’apparenzaparadossalmente, ma in realtà a dimostra-
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zione del labile radicamento costituziona-le dell’autonomia delle assemblee legisla-tive, la tradizionale separatezza dell’ordi-namento interno delle camere dall’ordina-mento generale, che pure avrebbe dovutorendere inconcepibile un intervento legi-slativo in materia prettamente regolamen-tare (aspetto sottolineato da MazzoniHonorati, 19), si ritorce contro le camerestesse, come se l’art. 6 della legge n. 2263incidesse su di uno spazio giuridico vuoto eliberamente disponibile.
Il condizionamento della vita parlamen-tare perseguito dalla legge in esame, è com-pletato da due ulteriori previsioni, semprecontenute nell’art. 6.
In primo luogo, va evidenziata la possi-bilità per il capo del governo di ottenere unanuova deliberazione di una proposta dilegge precedentemente non approvata, unavolta che siano trascorsi tre mesi, senzadiscussione ed a scrutinio segreto, se laproposta non viene modificata, ovvero condiscussione e votazione limitata ai soliemendamenti proposti dal governo, inderoga, o meglio, in parziale abrogazionedell’art. 56 statuto e con conseguente rile-vante differenza di trattamento giuridicotra proposte di legge provenienti o, comun-que, sostenute dal governo e le altre (peruna lettura “minimalista” della disposizio-ne, cfr. comunque Mortati, 1931, 166 ss.).
In secondo luogo, la previsione per cui,in caso di rigetto di una proposta di legge,il capo del governo possa comunque chie-dere comunque la trasmissione alla secon-da camera per l’esame e la votazione, abro-gandosi e sostituendosi così parzialmentel’art. 55 dello statuto, crea un regime giuri-dico differenziato tra proposte di legge, nelloro iter parlamentare, esclusivamente inragione di determinazioni governative e
con facoltà per il solo governo di attivaretale procedura (anche su questo punto, intermini tendenti a sminuire il peso dell’in-novazione, Mortati, 1931, 167 s.).
Per ciò che concerne l’approvazionedella legge n. 100 del 1926, ci si può limi-tare a ricordare come in sede di discussio-ne parlamentare il guardasigilli Rocco abbiaavuto facile gioco nell’attribuire all’ineffi-cienza del parlamento pre-fascista l’abnor-me proliferazione dei decreti-legge cheaveva trasformato le due assemblee legisla-tive in “camere di registrazione” dei decre-ti governativi (Senato del Regno, tornata del14 dicembre 1925, ora in Rocco, 249). Anzi,in quell’occasione il guardasigilli sottoli-nea il carattere razionalizzatore e di incre-mento delle garanzie della nuova discipli-na in tema di potestà normativa del potereesecutivo, specie per quanto concerne l’as-soggettamento a sindacato giurisdizionaledella potestà regolamentare (ampiamente)concessa al governo (in termini analoghiSaltelli, 173 s. Sull’ «inosservanza dello spi-rito e della lettera della legge» n. 100, nel-l’esperienza successiva del regime, cfr.comunque Aquarone, 80 s. ed Ungari, 118s. che richiama l’ulteriore intervento legi-slativo di delegificazione resosi necessariocon la legge 4 settembre 1940, n. 1547).
In realtà, si tratta di una disciplina che,da un lato, prevedendo, come è noto, dueanni di tempo per la conversione deidecreti-legge e la perdita di efficacia exnunc in caso di denegata conversione,costruisce tali atti come leggi temporaneeo provvisorie (Paladin, 890) e fa del gover-no un centro di produzione di normazioneprimaria parallelo al parlamento. Dall’al-tro lato, grazie alla introduzione di unariserva di regolamento (ma che si tratti diuna vera riserva è nella dottrina dell’epo-
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ca contestato: cfr. Saltelli, 162 s.), concapacità delegificante in materia di orga-nizzazione dei pubblici uffici, esautoraulteriormente le camere e marginalizza laposizione di queste nel sistema degli orga-ni costituzionali, precludendo ad esse l’in-tervento sull’apparato amministrativo chesi vuole in esclusività di rapporti con ilgoverno (tranne che, per le forze armate,l’ingombrante e difficilmente eliminabilepresenza della corona).
5.2 La decadenza dei deputati aventiniani. Laconsapevolezza che il parlamento delaXXVII legislatura statutaria ha ormai bru-ciato i ponti con la liberal-democraziagiunge dalla dichiarazione di decadenza deideputati delle opposizioni conseguenteall’approvazione della mozione presentatadall’on. Augusto Turati il 9 novembre 1926,con 332 voti favorevoli e 10 contrari.
Come si è già anticipato, il provvedi-mento fa seguito ad episodi di vera e pro-pria violenza fisica da parte dei deputatifascisti nei confronti di taluni parlamenta-ri aventiniani che nel gennaio di quell’an-no avevano tentato il rientro in aula. Ed èappena il caso di sottolineare il non breve(gennaio – novembre 1926, anche se lacamera aveva aggiornato i propri lavori dal5 giugno) lasso di tempo in cui l’estromis-sione dei deputati di opposizione dai lavo-ri della camera resta priva di base legale esi basa sulla mera violenza fisica.
È unanimemente evidenziato, peraltro,come l’approvazione della mozione Turatiabbia costituito un provvedimento di rottu-ra della legalità regolamentare e statutaria,che non prevedeva in alcun modo l’espul-sione come possibile sanzione disciplina-
re (Ghisalberti, 360, Scotti, 150, Sicardi 274e nota 69) e che essa trovasse fondamentosu di un piano essenzialmente politico,come esito terminale della lotta del fasci-smo alle istituzioni parlamentari (cfr. Attiparlamentari, Camera dei Deputati, XXVIIlegislatura, I sessione, tornata del 9 novembre1926, 6393 s. Per un tentativo di giustifica-zione sul piano giuridico, cfr. Chimienti,1933, 325).
Ne costituisce una riprova la sempliceconsiderazione per cui anche nei regola-menti della camera successivi (1929-30)non è prevista la sanzione dell’espulsione(cfr. art. 32). Al più, l’art. 29 del regolamen-to, come modificato nel 1930, introduce pergli iscritti al P.N.F. una interdizione a par-tecipare ai lavori parlamentari, in presenzadi una sanzione disciplinare del partito, pertutta la durata temporale di questa (su taledisposizione, cfr. comunque infra).
5.3 La nuova legge elettorale del 1928. La rifor-ma elettorale del 1928 segna il suggellofinale di questa seconda fase di costruzio-ne dell’edificio costituzionale del regime.Si consuma con essa l’abbandono di ogniparvenza di elezione, intesa come scelta daparte del corpo elettorale tra una pluralitàdi liste concorrenti, a favore di un vero eproprio plebiscito (Scotti, 157). Nonostan-te i tentativi, a mio parere disperati, diMortati di mantenere nel corpo elettorale latitolarità della funzione elettiva ed attribui-re alla designazione dei candidati da partedel gran consiglio del fascismo il caratteredi proposta «identica a quella delle desi-gnazioni fatte, negli altri sistemi, dai par-titi» (Mortati, 1931, 158), coglie decisa-mente meglio nel segno la qualificazionedell’intervento del corpo elettorale in ter-
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mini di “ratifica” della precedente “desi-gnazione” operata dal gran consiglio (sullabase delle mere proposte non vincolantidelle organizzazioni di categoria) e la rico-sctruzione del voto del singolo elettore nongià come esercizio di un diritto politico macome adempimento di una funzione pub-blica (Costamagna, 269 s., ma in questi ter-mini già la relazione governativa al disegnodi legge).
Solo nel caso (ovviamente mai verifica-tosi) che la lista di 400 designati non venis-se ratificata dal corpo elettorale, la previ-sione di una rinnovazione delle elezioni conliste concorrenti permetteva, dal punto divista tecnico, di attribuire un ruolo deciso-rio all’elettore e rappresentativo, secondo icanoni del parlamentarismo tradizionale,alla camera.
Ma negare il carattere di organo dellarappresentanza politica, alla stregua deiprincipi del costituzionalismo liberal-democratico e parlamentare, alla cameradei deputati eletta secondo il testo unicoapprovato con r.d. 2 settembre 1928, n.1993 non può equivalere tout court a nega-re ad essa qualunque carattere rappresen-tativo. La lontananza di tale modello dallanostra sensibilità costituzionale non puòimpedire la considerazione che un diversosistema rappresentativo può comunquedarsi, attesa la ampiezza estrema che lanozione di rappresentanza politica puòassumere.
Sotto questo punto di vista, il sistemaelettorale del 1928 introduceva innegabilideroghe a (rectius: abrogava) più di unadisposizione statutaria in tema: se, alla lucedella considerazione appena svolta, potevacontinuarsi ad affermare, anche se su nuovee non poco incerte basi, il carattere rappre-sentativo del governo monarchico che regge-
va lo stato italiano (art. 2), estremamenteardua poteva considerarsi la sopravvivenzadell’art. 39, che si riferiva ad una cameraelettiva, composta da deputati scelti in col-legi elettorali e non poco problematica lapermanenza della qualità di rappresentanzadella nazione in generale in capo a deputaticosì eletti, secondo quanto richiesto dall’art.41, primo comma (tra gli altri, sul punto, cfr.Trentin, 266 che sottolinea opportunamen-te il carattere ulteriormente autoritario delledisposizioni del t.u. elettorale in tema direquisiti di eleggibilità – art. 102 e 107 –facilmente utilizzabili per stroncare sulnascere ogni possibile dissenso politico),mentre, a rigore, non sembra direttamentepregiudicata dalla legge di riforma la previ-sione del secondo comma dell’art. 41, rela-tiva al divieto di mandato imperativo.
Si può porre nell’approvazione dellariforma elettorale del 1928 – che a sua voltacostituisce il punto finale, come si è visto,della trasformazione dell’ordinamentocostituzionale – il punto di inizio del movi-mento di scivolamento verso una formatotalmente “altra” di rappresentanza poli-tica e organo legislativo, quale sarà la came-ra dei fasci e delle corporazioni che trove-rà la sua realizzazione soltanto nel 1939.
Non può sfuggire la lunghezza del perio-do impiegato per giungere all’esito di que-sto percorso. Si tratta, peraltro, di una len-tezza che, da un lato, testimonia la pruden-za ed il tatticismo di Mussolini nell’abban-dono di istituti tradizionali ed “addomesti-cati”, che comunque permettevano diimputare ad un soggetto istituzionale diver-so dal duce e dal partito la funzione di rap-presentanza politica ed eventuali forme diresponsabilità dalla rappresentanza maicompletamente dissociabili, almeno infatto (questa difesa all’interno del fascismo
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del ruolo di una camera elettiva, anchesenza rappresentanza delle opposizioni èevidenziata da De Felice, 1968, 318. Lo stes-so De Felice, 1974, 282, nota 1, richiama ladifesa del “parlamento politico” e non cor-porativo da parte di un “intransigente” delfascismo del calibro di Farinacci). Dall’al-tro lato, però, il raggiungimento del risul-tato finale, nonostante un percorso di undi-ci anni, evidenzia la volontà di procederecomunque nella trasformazione complessi-va del sistema costituzionale italiano, insenso totalitario (sul carattere di processocontinuo che caratterizza il passaggio dal“fascismo-autoritario” al “fascismo-tota-litario”, cfr. Gentile, 1995, 148 ss.).
5.4 La stabilizzazione del regime nei regola-menti parlamentari. I regolamenti parla-mentari non possono che registrare e sta-bilizzare tale mutamento.
Ne costituiscono una testimonianza evi-dente le modifiche apportate negli anni1929 – 1930 al regolamento della camera,che recepiscono l’assetto autoritario delsistema, pur non portandolo alle estremeconseguenze.
Si tratta, in primo luogo, delle disposi-zioni che richiamano nel regolamento l’ar-ticolo 6 della legge n. 2263 del 1925 sull’as-senso del capo del governo all’inserimentodi questioni all’ordine del giorno o dell’art.44 sulla facoltà governativa di ripresenta-zione all’interno della medesima sessionedi disegni di legge respinti. Qui è interes-sante osservare come entrambe le disposi-zioni preferiscano operare un rinvio espli-cito alla legge n. 2263 del 1925, finendo cosìper rimarcare l’interferenza legislativa inmateria regolamentare, rispetto alla possi-
bile tecnica alternativa – maggiormenterispettosa dell’autonomia regolamentare,almeno all’apparenza – di una riproduzio-ne integrale della norma nel regolamento.
Al di là di ciò, va segnalata la riduzionedel numero dei vice-presidenti, dei que-stori e dei segretari (art. 4), ma soprattut-to scompare la tecnica del voto limitato perla composizione dell’ufficio di presidenza(art. 5: «ciascun deputato scrive sulla pro-pria scheda tanti nomi quanti sono i postivacanti»). Analoga soluzione viene adotta-ta per le commissioni d’inchiesta, salvacomunque la possibilità di delega da partedell’assemblea al presidente (art. 120) enonostante l’on. Zingali proponga di ban-dire ogni residuo di “elettoralismo” dalregolamento e di attribuire la competenzapuramente e semplicemente al presidente(Atti parlamentari, Camera dei Deputati,XXVIII legislatura, 1a sessione, tornata del 1°maggio 1929, 21). Giunte e commissionivengono invece integralmente rimessenella loro composizione a decisioni presi-denziali (art. 12).
Sintomatica appare anche la previsionesecondo cui, in caso di richiamo per l’ordi-ne del giorno o per il regolamento (art. 63)o di richiesta che la discussione generalesulla proposta di legge avvenga per parte oper titolo (art. 64), l’assemblea deliberadopo aver ascoltato due deputati, non spe-cificandosi più, come ancora negli articoli72 e 73 del regolamento del 1925, che i dueoratori devono essere uno a favore ed uncontrario alla proposta.
L’aurea regola del diritto parlamentareclassico che impone maggioranze qualifi-cate per discutere e deliberare su materienon comprese nell’ordine del giorno dellaseduta è sì mantenuta, ma derogata per leipotesi nelle quali la proposta provenga dal
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capo del governo: in tal caso l’assemblea èchiamata ad approvare o meno la propostaper alzata e seduta (art. 21).
Sostanzialmente svalutatrice del ruolodel dibattito parlamentare ed ai limiti (maforse non oltre) di quanto consentito dal-l’art. 55 dello statuto, appare la previsionedell’art. 84 del regolamento, che consentel’approvazione degli articoli delle propostedi legge mediante la semplice lettura, qua-lora non siano presentati emendamenti odosservazioni.
Particolarmente rilevante appare la giàricordata disposizione dell’art. 29 sullarilevanza nell’ordinamento della cameradelle sanzioni disciplinari previste dallostatuto del partito nazionale fascista neiconfronti degli iscritti. Si tratta, forse, delladisposizione maggiormente innovativa dalpunto di vista sistematico: creando unarilevanza diretta dell’ordinamento internodel partito fascista nell’ordinamento dellacamera, essa rappresenta il vero – ancorchémolto limitato – punto di apertura versouna configurazione “totalitaria” del parla-mento, in regime di compenetrazione conil partito unico (sull’assoluta mancanza diinteresse per il confronto con le esperien-ze di ordinamenti stranieri a regime demo-cratico a proposito di tale innovazioneregolamentare, cfr. la dichiarazione dell’onStarace: Atti parlamentari, Camera dei Depu-tati, XXVIII legislatura, 1a sessione, tornata del12 dicembre 1930, 3679).
Neanche la “designazione” dei candida-ti da parte del gran consiglio del fascismoprevisto dalla legge elettorale, come si èvisto, assumeva, da un punto di vista diprincipio, tale intensità, in considerazionedell’intervento, ancorché ratificatorio ed amezzo di plebiscito, del corpo elettorale.
Va peraltro aggiunto che in questo rego-
lamento restano, come piccoli scogli semi-sommersi di un continente ormai inabissa-to, alcune disposizioni che richiamano isti-tuti dell’età liberale: è il caso dell’art. 18sulla verificazione delle elezioni; il mante-nimento del capo XV delle interrogazioni,interpellanze e mozioni, con la previsioneche ancora consente che «dopo le spiega-zioni date dal Governo, l’interpellante puòdichiarare le ragioni per le quali egli sia ono soddisfatto (art. 108) e la possibilità perlo stesso, «qualora non sia soddisfatto eintenda promuovere una discussione sullespiegazioni date dal Governo», di presen-tare una mozione (ma sull’esito assoluta-mente deludente di tali strumenti nellaXXVIII legislatura, cfr. Scotti, 174).
Certo è che, alla luce degli interventilegislativi e regolamentari appena ricorda-ti, i tempi erano maturi per porsi unadomanda di fondo sul senso del manteni-mento di un organo di rappresentanza poli-tica quale la camera dei deputati.
In altri termini, una volta imboccata ladirezione di una simile palingenesi dellaconformazione degli istituti di rappresen-tanza politica, le contraddizioni insite nelmantenimento dello stesso istituto dellacamera dei deputati, inevitabilmente lega-ta al costituzionalismo del passato – a par-tire dal nome – dovevano farsi insostenibi-li, come dimostra la lucida presa di posi-zione del segretario del partito nazionalefascista Giovanni Giuriati nel promemoriainviato a Mussolini l’8 luglio 1933, nel qualesi prende decisamente posizione per laradicale sostituzione di camera – e conse-guentemente anche del senato del regno,sul quale Giuriati giustamente insiste molto– con una nuova assemblea legislativa, subase almeno parzialmente corporativa e confunzioni di collaborazione con il governo
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nell’attività legislativa (il testo del prome-moria Giuriati è riportato nei suoi passag-gi salienti in Perfetti, 145 ss.).
Come è noto, la risposta di Mussolinialle stringenti questioni poste dal segreta-rio del partito e che lui stesso aveva già inbuona parte anticipato nel “discorso del-l’Ascensione” del 26 maggio 1927 allacamera dei deputati rispecchiano fedel-mente il tatticismo e l’opportunismo delpersonaggio: già dall’espressione utilizzatanel messaggio di risposta «diagnosi per-fetta, conclusioni da meditare» traspareche la proposta Giuriati, troppo coerente econseguenziale, e quindi rigida rispetto alleconcrete esigenze del contingente sempreprivilegiate da Mussolini, non avrebbeavuto per lungo tempo alcun seguito.
6. La terza fase: la camera dei fasci e delle cor-porazioni
La soppressione nel 1939 della camera deideputati costringe l’interprete a porsi alcu-ni interrogativi di fondo sulla natura del-l’organo che viene a sostituirla e sui suoirapporti con la nozione di parlamentarismo.
Certo è che, nel momento in cui l’art. 2della legge 19 gennaio 1939, n. 129 sancisceil principio per cui «il Senato e la Cameradei Fasci e delle Corporazioni collaboranocol Governo per la formazione delle leggi»,sembra affermarsi uno iato incolmabile conla nozione liberal-democratica di parla-mento e con lo stesso principio di divisio-ne dei poteri (Mortati, 1940, tenta ancora,invece, di tenere ferma la validità del prin-cipio). Ci si trova di fronte, infatti, al ten-tativo – realizzato dopo innumerevoliincertezze e rinvii – di perfezionare la sal-
datura tra la dimensione corporativa e
quella statale, consentendo, anzi, alla prima
di penetrare nell’organizzazione costituzio-
nale dello stato in termini privi di riscon-
tro nel passato (sull’importanza della isti-
tuzione della camera dei fasci e delle corpo-
razioni nel processo di realizzazione del-
l’edificio totalitario fascista, cfr. Gentile,
1995, 203).
Certamente nel modello “totalitario”
della camera dei fasci e delle corporazioni
non vi è spazio per il dibattito tra idee dif-
ferenti né per il riconoscimento della diver-
sità politica, che per la nostra sensibilità
costituiscono elementi essenziali della
nozione di parlamento (per l’assenza di un
reale dibattito e confronto politico nella
esperienza della camera dei fasci e delle
corporazioni, a differenza di quanto verifi-
catosi sino ai primi anni della XXVIII legi-
slatura, cfr. Aquarone, 195, nota 1).
Da ciò non consegue, peraltro, che alla
camera dei fasci e delle corporazioni, ed al
sistema istituzionale in cui è inserita, debba
negarsi il carattere di organo (e sistema)
rappresentativo, attesa l’ineliminabilità
della nozione di rappresentanza («non
c’è... nessun Stato senza rappresentanza,
poiché non c’è nessun Stato senza forma di
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Seduta della Camera negli anni ’30.
Stato e alla forma spetta essenzialmente larappresentazione dell’unità politica»: C.Schmitt, 273). Da questo assunto trae lemosse l’intenso dibattito dottrinale suldiverso, anche se perdurante, carattererappresentativo dello stato italiano, che inquesta sede non può essere approfondito(cfr., comunque, soprattutto, Esposito,1932. I termini del dibattito anche con rife-rimento all’esperienza pre-fascista inSicardi nonché in Perfetti, con particolareriferimento al percorso che porta alla rifor-ma del 1939. Sul carattere rappresentativodella camera dei fasci e delle corporazioni,cfr. Panunzio, Biggini, 546 ss.).
Quello che più conta, ai nostri fini, è,comunque, che la camera dei fasci e dellecorporazioni, pur irriducibile al parlamen-tarismo liberal-democratico, è organo che,per il tipo del lavoro svolto, presenta unaserie di punti di contatto con un parlamen-to “tradizionale” ed adotta soluzioni orga-nizzative e funzionali che, almeno in alcu-ni casi, si ricollegano ai modelli di svolgi-mento delle funzioni proprie dei parla-menti “classici”. Di qui, una certa sensa-zione di straniamento dell’interprete con-temporaneo (specie del costituzionalista)che si trova ad analizzare un oggetto che nonriconosce come parlamento, ma nella cuistruttura interna scorge e riconosce solu-zioni ed istituti del diritto parlamentare.
La previsione di commissioni legislati-ve permanenti e speciali (art. 12 della leggen. 139) ne costituisce una riprova. Anzi, inquesto caso si giunge al paradosso che lasoluzione delle commissioni permanentideliberanti condiziona l’esperienza succes-siva, sopravvivendo, con gli opportuni tem-peramenti, nell’art. 72 della costituzionedel 1948 (sui punti di contatto tra la disci-plina delle assemblee legislative nel ven-
tennio fascista e le camere repubblicanerichiama l’attenzione Ungari, 114 s.).
Nella legge istitutiva e nel regolamentoresiduano, peraltro, altre norme che sipotrebbero definire vetero-parlamentari,ovvero legate alla nozione tradizionale delparlamento e della sua posizione nel siste-ma dei poteri dello stato: cfr. l’art. 7 dellalegge che conferma a favore dei consiglierinazionali le prerogative già previste dallostatuto albertino per i deputati; l’art. 10della legge sull’adozione del metodo della“legislatura”, per la divisione dei lavori;l’art. 2 del regolamento sul giuramento deiconsiglieri, a norma dell’art. 49 dello sta-tuto; l’ art. 21 del regolamento sul divietoper la forza pubblica di entrare nella sededella camera dei fasci e delle corporazionisenza ordine del presidente; l’art. 47 sullapossibilità di porre in votazione ordini delgiorno non accettati dal ministro, qualora“appoggiati” da cinquanta consiglierinazionali (ed analoga soluzione è stabilitadall’art. 50 per emendamenti e articoliaggiuntivi); l’art. 48 del regolamento sullemodalità di voto articolo per articolo, non-ché il capo X del regolamento sulla funzio-ne ispettiva.
Ma, nuovamente, la consapevolezza che lacamera dei fasci non è più un parlamentotorna esaminando le modalità di ripartizio-ne dei lavori tra assemblea e commissionipermanenti stabilite dagli articoli 15 e 16della legge, ove il fulcro dell’attività legisla-tiva è costituito dalle sedi decentrate. La con-sapevolezza si rafforza, infine, se si conside-rano l’art. 17, che rende ogni attribuzionedegli articoli precedenti derogabile dal ducedel fascismo, capo del governo per ragionidi urgenza, e l’articolo 18, secondo comma,della legge che consente l’intervento a mezzodi decreti reali qualora le commissioni non
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abbiano deliberato nel tempo stabilito (unmese, salva proroga del duce del fascismo,capo del governo, ex art. 16) (sul conseguen-te rilevante ampliamento della potestà nor-mativa del governo in tale ipotesi, cfr. Big-gini, 556 che pure poche pagine prima sot-tolinea come la riforma «avesse evitato disottrarre una serie di norme giuridiche allacompetenza degli organi legislativi, per attri-buirle ad altri organi, specie al Governo»,preferendo rendere più agile la produzionelegislativa medesima: cfr. 554).
Gli stessi testi legislativi approvati dallecommissioni sono peraltro trasmessi alduce del fascismo, capo del governo che“dispone” (e quindi decide) la trasmissio-ne (o meno) al sovrano per la sanzione epromulgazione (art. 16 della legge). A taleprevisioni fanno da coronamento l’art. 10– ed, in sede regolamentare, l’art. 15 – cherimette alla decisione del duce del fascismo,capo del governo il potere di convocazionee di disposizione dell’ordine del giorno del-l’assemblea plenaria e l’art. 61 del regola-mento che sottopone al potere di autorizza-zione sempre del duce del fascismo, capodel governo lo stesso potere di iniziativalegislativa dei consiglieri nazionali.
La pervasività dell’intervento del capodel governo nell’organizzazione e nel fun-zionamento della camera è, come è eviden-te, totale. L’incidenza, attraverso moltepli-ci varianti procedimentali, delle decisionigovernative sull’iter legis, nonché la richia-mata surrogabilità della decisione parla-mentare con la decisione governativa –ancorché sottoposta alla conversione inlegge nei termini procedurali dell’art. 3,secondo comma, della legge n. 100 del 1926– è tale da svuotare l’organo camerale di unpeso costituzionale sostanziale (e ciò nono-stante, ancora una volta, i disperati sforzi
in senso contrario di Mortati, 1940, 320 ss.,volti a dimostrare che i poteri di condizio-namento dell’attività legislativa appenaricordati non comportano condivisionedella potestà legislativa tra camera e capodel governo e non sopprimono l’autonomiacostituzionale della camera stessa. Per ilmantenimento in capo alla camera dei fascie delle corporazioni del carattere di organocostituzionale, cfr. anche Crosa, 46. Si trat-ta, peraltro, di un riconoscimento non par-ticolarmente significativo, se esso è pre-sente anche nella ricostruzione di Biggini,546, particolarmente svalutativa del ruolodelle due camere del parlamento italiano).
L’art. 19 della legge apre, infine, ulte-riori prospettive evolutive del sistema dellefonti in materia economica (norme corpo-rative ed accordi economici collettivi chepongano contributi a carico degli apparte-nenti alle categorie cui si riferiscono),escludendo nel procedimento in essodescritto ogni intervento del senato e dellacorona (cfr. Biggini, 557).
A questo punto, costituiscono quasinotazioni di colore le previsioni regola-mentari dell’art. 56 sulla soppressione diogni scrutinio segreto nelle votazioni e del-l’articolo 60 sulla possibilità di approvazio-ne per acclamazione di disegni di legge pro-posti dalla presidenza.
Emblematica, infine, dell’annichili-mento costituzionale dell’organo, appare lacircostanza della nomina a suo presidentedel ministro guardasigilli Dino Grandi,stigmatizzata, sul piano costituzionale, dallostesso Mortati (Mortati, 1940, 325, nota50), contrastando la contraria opinione diun pur insigne costituzionalista come LuigiRossi (Rossi, 1940).
L’esame della produzione legislativa dellacamera dei fasci e delle corporazioni, nella
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sua pur effimera esistenza nel corso dellaXXX legislatura (1939-1943), costituisceun’ulteriore riprova che ci troviamo di fron-te ad un (micidiale) congegno di produzionenormativa. Nel corso degli anni della XXXlegislatura statutaria e tenendo conto dell’in-cidenza degli eventi bellici, risultano appro-vati ben 2446 disegni di legge, di cui soltan-to il venti per cento subisce emendamenti.
Il rapporto tra disegni di legge approvatiin assemblea plenaria ed in commissione ènon meno indicativo: cinquantuno a 2395.Ciò che appare maggiormente impressio-nante – ed incompatibile con una nozione diparlamento come sede di esame e discussio-ne dei provvedimenti legislativi, oltre che diloro approvazione – sono i tempi di questolavorìo legislativo, minuto ma quanto maialacre: il trentuno per cento dei disegni dilegge è approvato entro cinque giorni dallapresentazione, il cinquantuno per cento trasei e dieci giorni (per questi preziosi dati,cfr. Di Bartolomei, citato in Perfetti).
È evidente la mutazione genetica dellafunzione parlamentare e della stessa quali-tà di membro del parlamento. Giustamen-te e non senza efficacia, a questo proposi-to, in occasione dell’ultima seduta dellacamera dei deputati, prima della sua tra-sformazione, si evocava per il futuro l’im-magine dell’ “operaio legislativo” comequella del protagonista del nuovo lavorolegislativo: una figura quasi tecnica e spe-cialistica, destinata ad operare sulla quan-tità delle norme e sulla loro fattura tecnica,restando ad esso preclusa qualsiasi opera-zione di approfondimento critico o di sin-tesi politica.
7. Il fascismo ed il senato
L’analisi fin qui condotta ha avuto a termi-ne essenziale di riferimento i rapporti tra ilfascismo e la camera dei deputati, poiché ècon riferimento soprattutto a questa chel’azione di accerchiamento (dall’interno edall’esterno) del parlamentarismo si mani-festa in modo netto, evidente e rapido. Delresto era nella camera che si annidavano iveri ed irriducibili avversari politici delfascismo, dai popolari ai comunisti.
A confronto della lotta per l’addomesti-camento della camera, i rapporti tra fasci-smo e senato appaiono improntati ad unanotevole ambiguità e proiettati in un arcotemporale molto ampio, ma non per questola linea di tendenza che emerge è diversada quella di un sempre maggiore ridimen-sionamento dell’autonomia politica e costi-tuzionale dell’organo.
Come al solito, al centro del campo sistaglia la figura di Mussolini,c he scandirài tempi della progressiva (ma che non riu-scirà ad essere completa) “fascistizzazione”del senato e l’uso di essa nei confronti dialtri soggetti protagonisti della scena poli-tica ed istituzionale: la corona, l’altra came-ra del parlamento, il partito nazionalefascista.
In questo lungo periodo è dato assiste-re ad un andamento quasi ciclico della “for-tuna” dell’istituto senatoriale. Si parte,infatti, dalle affermazioni del fascismo“rivoluzionario” delle origini, evidente-mente eversive nei confronti della cameraalta (cfr. il programma dei fasci italiani dicombattimento, riportato in De Felice,1965, 742), per arrivare alle blandizie diMussolini ai senatori (ed indirettamente alre) in occasione del discorso per la conces-sione della fiducia nel novembre del 1922,
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anche per riequilibrare in senso moderatol’esposizione politica determinata dalledurissime parole pronunciate alla camera(sul punto, cfr. De Felice, 1966, 484 ss.).
L’approvazione nell’ottobre del 1925 daparte del gran consiglio della relazione Ginisulla riforma del senato in senso parzial-mente elettivo e corporativo, disattenden-do la posizione maggioritaria emersa inseno alla commissione dei diciotto (cfr.Aquarone, 377), segna il riemergere dellatensione tra il fascismo (più precisamenteil partito) ed il senato, ma in occasione delladiscussione parlamentare sulla legge n. 100del 1926 il guardasigilli Rocco torna a farleva sulla comunanza di visione politica trala maggioranza del senato ed il governo (cfr.Rocco, 247).
Si è già detto della proposta di riformadel parlamento di Giuriati che avrebbeinvestito frontalmente il senato ed anchein questo caso Mussolini annulla, con la suabeffarda risposta al promemoria Giuriati,il rilievo pratico della proposta di riforma(cfr. De Felice, 1974, 279, anche per i con-trasti tra fascismo e corona sul punto).
Nello scorcio finale dell’esperienzafascista, infine, sempre più frequenti sifanno nuovamente i segnali di una riformadella camera alta, ormai chiaramente disal-lineata rispetto ai caratteri del regime. Necostituisce una riprova evidente la relazio-ne riservata del presidente del senato Suar-do a Mussolini del 2 ottobre 1942 (ampia-mente riportata da Gentile, 2002, 119 ss.).
È stato opportunamente evidenziato(Gentile, 2002, 4 ss.) come i percorsi di“fascistizzazione” progressiva del senatosiano stati essenzialmente tre. Tra essi,senza dubbio il più efficace, dal punto divista pratico, è stato rappresentato dallemassicce nomine di senatori di fede poli-
tica fascista. Le “infornate” di senatorifascisti assicurano una sempre più saldamaggioranza al governo Mussolini nellacamera alta. Si tratta, peraltro, di un feno-meno imponente: nel periodo fascista siassiste alla nomina di 596 senatori (men-tre erano stati soltanto 398 nell’arco tem-porale che andava dal 1901 al 1914), con unpicco di 138 senatori nel 1928-1929 e di ben212 nel 1939 (Gentile, 2002, 40 e 106). Nonvi è dubbio di ritenere che, se non fossesopraggiunto il crollo del regime, la “fasci-stizzazione” del senato si sarebbe presto otardi completata in modo per così direfisiologico, con la scomparsa dovuta allamorte degli ultimi senatori di opposizione.
In secondo luogo, la presenza, ancorchésempre più limitata, di senatori non fasci-sti, imponeva il mantenimento in seno allacamera alta di un soggetto associativo cheriunisse i senatori vicini al regime. Taleassociazione è l’unione nazionale del sena-to, poi unione nazionale dei senatori fasci-sti, che vede crescere i suoi componenti daiquaranta dell’autunno del 1925 ai 430,rispetto ai 29 non iscritti del 1943.
Testimonianza dell’anomala natura del-l’unione nazionale, da considerare mag-giormente come proiezione diretta del par-tito nel senato piuttosto che come un grup-po parlamentare nel senso tradizionale deltermine, è rappresentata dalla circostanzadella nomina dell’organo direttivo (il diret-torio) direttamente da parte del capo delgoverno, a partire dal 1930, e ad opera delsegretario del partito dal 1932, ai sensi del-l’allegato 5 dello statuto del partito.
La considerazione dell’unione naziona-le quale soggetto alle dipendenze del parti-to non può essere assolutamente sottova-lutata: la soluzione è infatti coerente con laprospettiva di un sempre più stretto assog-
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gettamento del senato al partito, in unaprospettiva di tipo totalitario dei rapportipartito-parlamento (Gentile, 2002).
Le modifiche del regolamento del sena-to rappresentano la terza via di adeguamen-to dell’istituzione al regime. Si tratta dimodifiche che registrano, non senza qual-che ritardo e difficoltà, la trasformazionedel ruolo della seconda camera, adeguan-dosi, nei limiti della specificità di essa, asoluzioni già sperimentate nelle riformeregolamentari della camera e nelle leggi deldicembre 1925 e gennaio 1926.
Talora traspare, anzi, una certa ritrosiaad un cambiamento che sradica il senatodalle sue radici e lo proietta nell’incertez-za. Non mancano, addirittura, nel momen-to in cui si approvano le modificazioni, irichiami alla tradizione dell’istituzione edei suoi regolamenti (ad es., cfr., tra leapprovazioni dell’aula, il tributo dello stes-so presidente Federzoni a «quel documen-to grande di sapienza e di esperienza poli-tica che a suo tempo fu il Regolamento delSenato», in occasione della riforma del1929, in Atti parlamentari, Senato del Regno,XXVIII legislatura – 1a sessione 1929, tornatadel 12 dicembre 1929, 1628) ovvero le sotto-lineature delle differenze di ruolo e posi-zione tra camera e senato (cfr. ad es. ledichiarazioni del relatore Felici in occasio-ne della riforma del 1938, in Atti parlamen-tari, Senato del Regno, XXIX legislatura – 1a
sessione 1934-1938, tornata del 21 dicembre1938, 4602).
La riforma regolamentare del dicembre1929 mantiene talune soluzioni legate ad unimpianto garantista, in grado di offriredelle chances alla pattuglia, via via più esi-gua, di oppositori al fascismo presente inassemblea (e che nel 1940 si ridurrà a dodi-ci irriducibili su quarantasei non iscritti
all’unione nazionale [Gentile, 2002, 115], adimostrazione che l’omologazione delsenato alla camera era ormai vicina) attra-verso il mantenimento del voto limitato perl’elezione dei vice-presidenti, dei questo-ri e dei segretari.
Il voto limitato scompare, invece, per lacomposizione delle commissioni perma-nenti di cui all’art. 21 (compresa quella perla verifica dei titoli dei nuovi senatori). Laproposta di introduzione del “voto totalita-rio”, in luogo di quello limitato nell’art. 22è operata con esplicito riferimento da partedel relatore sen. Berio «all’attuale situazio-ne politica» (Atti parlamentari, Senato delRegno, XXVIII legislatura – 1a sessione 1929,tornata dell’ 11 dicembre 1929, 1604).
Particolare attenzione nel dibattito èdedicata al tema della convalida dei senato-ri di nuova nomina, per la quale si mantie-ne la soluzione garantista dello scrutiniosegreto e si giunge a sopprimere una pro-posta che consentiva al governo di chiede-re entro un anno una nuova deliberazionedi convalida della nomina, qualora la primafosse stata respinta (per il dibattito sulpunto, cfr. Atti parlamentari, Senato delRegno, XXVIII legislatura – 1a sessione 1929,tornata del 12 dicembre 1929, 1633 ss.).
La possibile presenza della minoranzanegli organi della presidenza costituiva,però, un’intollerabile sopravvivenza delparlamentarismo classico anche in unacamera di nomina regia. Di qui la rapidaeliminazione, con la riforma del marzo1933, del voto limitato e la sua sostituzionecon il voto totalitario (sulla proposta DeVecchi, cfr. Gentile, 2002, 65 s.).
Ogni residuo di elettoralismo scompa-re, poi, in occasione del medesimo inter-vento riformatore, con l’attribuzione alpresidente della nomina dei componenti
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della commissione per la verifica dei titolidei nominati e, soprattutto, operando unapalese e clamorosa negazione dell’autono-mia (e della dignità) costituzionale delsenato, con l’attribuzione alla corona delpotere sostanziale, e non solo formale(come l’istituto della designazione consen-tiva) di nomina del presidente. È evidenteche dietro un facile richiamo all’ortodossiastatutaria, meramente lusingatorio neiconfronti del re, si celava, neanche tantonascostamente, l’intento di consentire algoverno il controllo della nomina.
Il nuovo regolamento del dicembre 1938registra un’ulteriore e più avanzata tappanell’adeguamento del regolamento delsenato alle soluzioni organizzative e funzio-nali dell’altro ramo del parlamento, tantopiù che in questa occasione si rende neces-sario operare i necessari adeguamenti allalegge n. 129 del 1939. Di qui l’abbandonodefinitivo del sistema degli uffici e l’accogli-mento ad opera dell’art. 32 delle commis-sioni, secondo la ripartizione funzionaledegli articoli 15 e 16 della legge n. 129.
L’appiattimento sul modello di assem-blea “totalitaria” rappresentata dalla came-ra dei fasci e delle corporazioni è ancora piùevidente, anche perché tutto sommato nonnecessario per ragioni di funzionalità, inuna serie di disposizioni che accentuanofortemente i poteri del presidente dell’as-semblea, vero “fulcro del funzionamentodel senato” (così il sen. Giannini, Atti par-lamentari, Senato del Regno, XXIX legislatura– 1a sessione 1934-38, seduta del 21 dicembre1938, 4606): è il caso del potere di nominadei questori e dei segretari (mentre i vice-presidenti, così come il presidente sononominati dal re imperatore), nonché deipresidenti e dei componenti delle commis-sioni legislative (artt. 1 e 3).
Nella stessa linea è da segnalare ildiscrezionale potere presidenziale di modi-fica dell’ordine della discussione degli argo-menti iscritti all’ordine del giorno (art. 9).
In alcune ipotesi, infine, vengono trala-ticiamente accolte dal regolamento dell’al-tro ramo del parlamento le soluzioni chemaggiormente esplicitano lo scadimentoprofondo della funzione parlamentare inItalia: si consideri l’art. 20, che stabiliscequale regola di approvazione delle leggi la“semplice lettura”, salvi i casi di proposteod emendamenti, ma soprattutto la possi-bilità di approvazione per acclamazione, suproposta del presidente (art. 21) e l’affis-sione di discorsi pronunciati in assemblea,sempre su proposta del presidente e peracclamazione.
Tutto ciò rappresenta, si badi, qualcosadi più di uno mero “scimmiottamento”della camera fascista: l’adeguamento aimetodi ed anche ai modi della “camerarivoluzionaria” creata dal fascismo (quelladei fasci e delle corporazioni) costituiva, aben vedere, la premessa, accettata dallostesso senato, per la propria liquidazioneistituzionale. Se, infatti, il “nuovo” mododi intendere il procedimento legislativopoteva trovare una giustificazione con rife-rimento ad un organo che con il vecchioparlamento poteva vantare al più l’identitàdi sede e, come si è visto, alcune estrinse-che e limitate sopravvivenze di norme rego-lamentari, lo stravolgimento dei classiciprincipi di organizzazione e funzionamen-to dell’assemblea parlamentare – in primisquello di autonomia verso gli altri poteridello stato e di salvaguardia della dialetticainterna tra le sue componenti – arrecava unvulnus mortale all’istituzione senatoriale,che finiva in questo modo per perdere ogniratio giustificativa, rendendo insufficienti e
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prive di fondamento sistematico le stessedisposizioni statutarie che la fondavano.
Solo il tracollo del fascismo dovuto allafibrillazione del gran consiglio (e, quindi,del partito) nei confronti del suo capo ed alrisveglio della corona dal suo ventennaleletargo istituzionale (due linee di crisi sem-pre latenti nella storia istituzionale delfascismo, mentre nulla di simile sarebbepotuto venire dal parlamento) risparmieràal senato regio la sua trasformazione in unacamera pienamente totalitaria.
8. Conclusione: contro la concezione parente-tica del fascismo in ambito parlamentare
Talvolta proprio con riferimento al parla-mento ed al diritto parlamentare la conce-zione “parentetica” del fascismo, ormaidecisamente declinante nella letteraturastoriografica generale (sulle interpretazio-ni del fascismo e sul limitato ruolo che inessa gioca la concezione parentetica di ispi-razione crociana, cfr. De Felice, 1969),sembra mantenere un’inaspettata vitalità.
Contribuiscono a tale risultato sicura-mente le scelte delle assemblee parlamen-tari successive alla caduta del fascismo diricollegarsi alla tradizione pre-fascista, nelmomento dell’adozione dei propri regola-menti (cfr. Bertolini e Lupo, 2008), confi-nando in uno spazio circoscritto ed appun-to parentetico il periodo fascista.
Oltre a ciò, la radicale avversione delfascismo per il parlamento e lo snatura-mento del parlamentarismo possonoindurre soprattutto gli studiosi di dirittoparlamentare a distogliere lo sguardo daun’esperienza così radicalmente negativa.
Lo sforzo che è sotteso alle pagine di
questo studio è quello di evidenziare comela vicenda dei regolamenti parlamentari –e più in generale del parlamento – duranteil fascismo non vada isolata e “sradicata”rispetto al contesto più generale.
Il fascismo si inserisce ed utilizza, tal-volta in modo magistrale, la polemica anti-parlamentare diffusa nella cultura politicae popolare italiana dalla fine dell’ottocen-to in poi (per la messa in evidenza di alcu-ni di questi filoni dell’antiparlamentarismoitaliano cfr. Cuomo, Mastropaolo, 781).
Ciò che più conta, ai nostri fini, e che inquesto lavoro si è più volte sottolineato, èche il fascismo utilizzerà strumentalmentea questo scopo i molteplici punti di debo-lezza e le insufficienze del funzionamentodel parlamento italiano di epoca statutaria,dall’incapacità decisionale che si traduce inuna proliferazione di decreti-legge, all’as-senza di certezze in ordine ai tempi didiscussione e votazione dei provvedimen-ti, dalla posizione del tutto periferica delgoverno in parlamento alla separatezza deldiritto parlamentare rispetto al dirittocostituzionale generale (su tutti questiaspetti, cfr. Lacché e Orsina).
Lascio in conclusione al lettore la rifles-sione su quanti dei punti deboli del parla-mentarismo pre-fascista in queste paginericordati siano ancora oggi tali (anche inconseguenza della “rimozione” dell’espe-rienza fascista, conseguente alla concezio-ne parentetica) ed in che misura – pur nellaconsapevolezza che la storia non si ripetemai nelle stesse forme – il parlamento ita-liano di questo scorcio di inizio di XXI seco-lo non sia immune dal rischio di vedereminate le proprie basi di legittimazionepresso la società civile.
Gianfrancesco
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Itinerari
101
Questa seconda sessione ci avvicina ai pro-
blemi dell’oggi. Abbiamo visto quale sia
stata l’evoluzione dei regolamenti parla-
mentari nel corso delle prime due fasi della
storia costituzionale. Le relazioni di questa
sessione ci introducono al periodo repub-
blicano.
Ringraziando dell’invito che mi è stato
rivolto a presiedere questa sessione e prima
di dare la parola ai relatori, vorrei svolgere
qualche breve considerazione introduttiva.
In primo luogo, vorrei sottolineare come
quello dei regolamenti parlamentari sia un
tema che non da molto tempo interessa i
costituzionalisti. Anzi, direi che si tratta di
un fenomeno relativamente recente. Ci si è
occupati di questo tema solo per alcuni pro-
fili: da quello della collocazione dei regola-
menti parlamentari nel sistema delle fonti
a quello della loro sottoponibilità o meno (e
in che limiti) al controllo di costituzionali-
tà da parte della Corte. Ma si è sempre guar-
dato ai regolamenti parlamentari come ad
un elemento collaterale, se non di scarso
rilievo, del diritto costituzionale. Oggi le
cose sono molto cambiate: l’attenzione dei
costituzionalisti nei confronti del diritto
parlamentare è assai più intensa e, direi a
ragione, assai cresciuta.
Se guardiamo, infatti, alla complessi-
va evoluzione del diritto parlamentare,
così come ce l’hanno descritta i relatori
che abbiamo appena ascoltato e come
verrà completata da quelli che ora ascolte-
remo, mi pare che risultino con evidenza
tre dati. Il primo riguarda la natura pecu-
liare di questa fonte, che produce regole
formali solo dopo il consolidamento di
prassi sperimentate e condivise. L’impor-
tanza della prassi nell’evoluzione dei rego-
lamenti parlamentari, e come chiave di
lettura del significato delle regole forma-
li, ha un peso straordinario. Il modo con
cui si arriva ai regolamenti parlamentari,
alla grande riforma del 1971, ma anche alle
novelle più recenti, non si capirebbe se
non si andassero a studiare le prassi che
hanno preceduto queste riforme. Si tratta
di una tecnica di normazione che in qual-
che modo richiama l’andamento dell’evo-
Il recupero del regolamento prefascista in Assemblea Costituente
paolo caretti
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
luzione del diritto comunitario: anche inquel contesto è lo sviluppo di prassi con-divise che spesso determina la codifica-zione di regole nuove.
Questo primo dato, si lega direttamen-te al secondo relativo alla funzione che iregolamenti parlamentari hanno svolto sindal periodo prefascista e, ancora di più, inepoca repubblicana: e precisamente la fun-zione volta non solo a definire delle regoledi funzionamento interne all’organo par-lamentare e a defirne, nel tempo, il ruolocomplessivo, ma anche, se non soprattut-to, quella di sperimentare e poi adottareregole che fossero funzionali all’assettoche, nel periodo storico considerato, haassunto la nostra forma di governo, conparticolare riferimento ai rapporti Gover-no-Parlamento. Non credo sia un caso seabbiamo sin qui ascoltato delle relazioni
nelle quali la parte predominante è statarappresentata dalla descrizione degli svi-luppi della forma di governo: da quella dua-lista del periodo statutario a quella altret-tanto dualista (almeno formalmente) delperiodo fascista.
Questa stretta connessione ci spiegaanche perché i regolamenti parlamentariche escono dall’unico grande processo diriforma del periodo repubblicano, quellodel 1971, difficilmente potrebbero essereintesi nel loro significato generale se nonposti in relazione a quello che era alloral’assetto del tutto particolare che era venu-ta assumendo la nostra forma di governo. Èben noto che al riguardo il modello dise-gnato dal costituente si caratterizzava, e nona caso, per un grado di accentuata flessibi-lità: nel quadro di un sistema certamentedefinibile come parlamentare, non si com-pie alcuna scelta decisiva in ordine al ruoloche in esso avrebbero dovuto giocare,rispettivamente, Governo e Parlamento,essendosi preferito lasciare agli sviluppisuccessivi della dialettica democratica ladefinizione di un più preciso assetto deiloro rapporti. Ed è grazie a questa flessibi-lità del modello costituzionale che i regola-menti parlamentari hanno potuto svolgerela funzione cui prima alludevo. Sappiamoche l’interpretazione dei regolamenti del1971 è stata, almeno per certi aspetti, anchecontroversa. Ma non è tanto questo che quimi interessa sottolineare, quanto piuttostola funzione che quella riforma ha svolto.Inutile che ricordi i tratti essenziali dellasituazione di allora, di un sistema che èstato definito sinteticamente di “democra-zia bloccata”, in cui la dialettica democra-tica poteva svilupparsi solo entro ben defi-niti confini, che tagliavano fuori le aliestreme dello schieramento parlamentare.
Itinerari
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Sala della Costituzione – Palazzo Giustiniani.
Caretti
103
Non solo, ma siamo in un periodo in cuimolto forti sono i condizionamenti di ordi-ne internazionale che si riflettono diretta-mente sugli sviluppi della nostra forma digoverno, tanto che oltre che di “democra-zia bloccata” si è parlato di “democraziaprotetta”. Ma, al di là di questo, il nodo cen-trale da risolvere appare quello della legit-timazione reciproca di tutte le forze politi-che presenti in Parlamento. I regolamentidel 1971, a fronte di una dinamica politicachiusa entro il c.d. “arco costituzionale”,puntano a mettere in campo strumenti ingrado di avviare a soluzione questo proble-ma. Avviarlo a soluzione in vista di unaripresa piena della dialettica democratica,e cioè della realizzazione compiuta di unsistema parlamentare.
Il terzo dato che questa vicenda deiregolamenti parlamentari mi sembra mettain luce è che in tanto essi riescono a svol-gere questa funzione di “snodo flessibile”tra assetto formale della forma di governoe dialettica democratica, in quanto i trattiessenziali della forma di governo, con rife-rimento soprattutto ai i rapporti Governo-Parlamento, abbiano un carattere di sia purrelativa stabilità. Nei momenti in cui que-sta relativa stabilità viene meno, anche iregolamenti parlamentari non riescono piùad assolvere – o lo assolvono in manieramolto ridotta – questa funzione che è loropropria. Basti riflettere, a questo riguardo,a quello che è successo dopo la riforma elet-torale del 1993 che ha trasformato in sensomaggioritario il Parlamento. È evidente cheuna riforma di questo genere non potevanon avere un riflesso sui regolamenti par-lamentari, e un riflesso molto consistente,se si tiene conto del contesto del tuttodiverso in cui era maturata la riforma del1971. Le novelle regolamentari che si suc-
cedono prima negli anni ’80 e poi neglianni ’90, ma soprattutto quella ultima del1997 alla Camera, sono novelle regolamen-tari che prendono sul serio il cambiamen-to con i suoi presumibili effetti sulla formadi governo e puntano ad assecondare il pro-cesso in corso. Si spiegano così, ad esem-pio, la valorizzazione del ruolo del Presi-dente d’Assemblea, il rafforzamento deipoteri del Governo in Parlamento, l’intro-duzione del contingentamento dei tempidella discussione parlamentare, ma insie-me anche i poteri dell’opposizione, in unalogica competitiva e non più consociativa.Non solo, ma proprio in vista del nuovoassetto che vanno assumendo i rapportiGoverno-Parlamento, questa novella rego-lamentare punta anche a rafforzare certipoteri del Parlamento, visti non tanto nelladialettica maggioranza-opposizione, macome poteri dell’istituzione parlamentarein sé. Tutte le regole sulla istruttoria legi-slativa, tutti i nuovi strumenti di controllosul Governo (si pensi, ad esempio, al que-stion time) sfuggono alla logica di regole chedisciplinano il rapporto maggioranza-opposizione, ma sono soprattutto regoleche puntano a rafforzare, appunto, il Parla-mento in quanto istituzione, nei confrontidel Governo. Il che, del resto, appare per-fettamente coerente con un assetto dei rap-porti tra Parlamento e Governo che tendeprogressivamente a rafforzare il ruolo diquest’ultimo.
Perché queste nuove regole non hannoprodotto i risultati sperati? Perché chi hastudiato la resa resa effettiva di questi isti-tuti ne offre una valutazione in gran partedeludente? Io credo che la ragione princi-pale stia nel fatto che, in questa perduran-te transizione costituzionale, anche i linea-menti di fondo della nostra forma di gover-
Itinerari
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no hanno acquisito un grado di instabilitàeccessiva, come dimostra abbondantemen-te tutto il dibattito recente in tema di legi-slazione elettorale e riforme costituziona-li, che apre continuamente ad ipotesi diver-se e tra loro niente affatto fungibili. In que-sto quadro, anche i regolamenti parlamen-tari si trovano in difficoltà: hanno fatto unosforzo significativo per adeguarsi e render-si funzionali ad un certo assetto dei rappor-ti Governo-Parlamento, che tuttavia sap-piamo è tornato in discussione. Da questopunto di vista, non è forse un caso che oggisi parli, congiuntamente, di riforma elet-torale, riforma costituzionale e riforma deiregolamenti parlamentari: il che confermaquesto nesso strettissimo tra regolamentoparlamentare e assetto della forma digoverno.
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1. La questione del regolamento dell’As-
semblea Costituente in quanto assemblea
parlamentare è in primo luogo non una
questione dell’assemblea costituente, ma
una questione del Governo.
E difatti, dato il percorso con il quale si
arriva alla convocazione dell’Assemblea,
vale a dire per il tramite di un accordo fra
Corona, potenze occupanti e partiti del
Comitato di Liberazione, ne deriva, come è
risaputo, che le decisioni sui tempi, le
forme ed i modi della Costituente devono
passare per la via del potere legislativo
riservato, sino alla convocazione del nuovo
parlamento, al Governo in via transitoria1.
Da qui la conseguenza che la disciplina
dei lavori dell’Assemblea Costituente è un
punto che deve essere risolto in primo
luogo dal potere esecutivo.
Avviene così che nell’ambito della rego-
lazione con la quale si indicono i comizi per
la sua elezione, il Governo prevede espres-
samente che “finchè non avrà deliberato il
proprio regolamento interno l’Assemblea
Costituente applicherà il regolamento
interno della Camera dei deputati in data
1° luglio 1900 e successive modificazioni
fino al 1922”2.
Avvalendosi della previsione, l’Assem-
blea, una volta eletta, costituisce nelle pri-
missime sedute la Presidenza, l’Ufficio di
presidenza, le Giunte per l’elezioni e per il
regolamento, nonché i gruppi parlamenta-
ri, ancora denominati, secondo quel rego-
lamento, “uffici”. Elegge, infine, il Capo
provvisorio dello Stato3.
Nella seduta del 15 luglio è all’ordine del
giorno il punto relativo alle “proposte della
Giunta del regolamento”. Come il Presi-
dente spiega all’Assemblea, la Giunta “pro-
pone l’approvazione di tre articoli aggiun-
tivi all’attuale Regolamento, diretti a stabi-
lire la nomina di due Commissioni, una per
la Costituzione e l’altra per i trattati inter-
nazionali, composte rispettivamente di set-
tantacinque e di trentasei membri”4.
La seduta segna quindi la data in cui il
regolamento della Camera prefascista cessa
di costituire una disciplina sussidiaria stabi-
lita dall’esterno ed utilizzata per forza delle
Il regolamento della Camera liberale come regolamento dell’Assemblea Costituente
francesco bertolini
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
cose, essendo ormai l’Assemblea nella con-dizione materiale di dotarsi di un regolamen-to proprio. La Giunta infatti si è riunita ed èin grado di formulare le proprie proposte.
La Giunta si limita però a proporre l’ap-provazione di tre articoli aggiuntivi al Rego-lamento del 1922, lasciando quindi inten-dere, implicitamente, di volerlo per il restoadottare. È da questo momento che si puòdire che detto regolamento diventi ideal-mente una disciplina che l’Assemblea nonriceve più dall’esterno, ma si attribuisce dase stessa, e che si sente in diritto di modi-ficare ed integrare all’occorrenza.
Ne derivano quindi due temi di esame,rispetto ai quali la seduta del 15 luglio segnauna sorta di spartiacque.
L’esame dei motivi e dei modi con iquali l’opera del Governo e la tacita presa diposizione dell’Assemblea cooperano nel-l’adozione del regolamento della Cameradel 1922.
L’esame dei motivi e dei modi con iquali l’Assemblea determina di darsi rego-le integrative rispetto a quel regolamento.
2. Nello stabilire il ricorso al regolamentodel 1922, il Governo si trova innanzi il pre-cedente costituito dalla Consulta Nazionale,per la quale il decreto legislativo n. 539 del1946, intitolato “Norme regolamentari perla costituzione ed il funzionamento dellaConsulta Nazionale”, mentre da un lato det-tava esso stesso regole anche analitiche perla costituzione ed il funzionamento deidiversi organi, dall’altro lato stabiliva, perquanto non previsto, che fino a che la Con-sulta Nazionale non avesse deliberato il pro-prio regolamento interno “si osservano, inquanto applicabili, le disposizioni contenu-
te nel regolamento della Camera dei depu-tati in vigore prima del 28 ottobre 1922”.
Per la Consulta Nazionale, quindi, lostesso Governo aveva disciplinato, conregolazione inderogabile, gli aspetti salien-ti dell’organizzazione e dell’attività e soloper la restante regolazione stabilito chesarebbero subentrate, in quanto applicabi-li, le norme interne della Camera liberale,salva la potestà della Consulta Nazionale didarsi un proprio regolamento, da appro-varsi, peraltro, da parte del Governo5.
Comprensibilmente diverse le corri-spondenti previsioni per l’Assemblea Costi-tuente. Il Governo non detta alcuna discipli-na del funzionamento dell’organo ma silimita a stabilire l’efficacia in via sussidiariadel previgente regolamento della Camerafino a quando l’Assemblea non si doti di unapropria regolazione. Regolazione di certonon sottoponibile, in quanto tale, ad alcunaattività tutoria da parte dell’esecutivo.
Il d. lgs. n. 98 del 1946, che contiene,come detto, la previsione, è peraltro lo stes-so atto con il quale viene stabilito di devol-versi la questione istituzionale alla decisio-ne del popolo6. Oggetto di discussione viva-ce fra i partiti che sostengono il governo, ilpunto finisce per assorbire integralmenteogni interesse. Nulla, quindi, nei verbalidelle riunioni del Consiglio dei ministri dovesi prepara il decreto, risulta detto riguardoalla questione del regolamento interno del-l’Assemblea Costituente, e neppure il sus-seguente procedimento del parere reso dallaConsulta Nazionale sullo schema del decre-to offre spunti realmente significativi.
La relazione governativa che accompa-gna la trasmissione del decreto si limita, sulpunto, a dire che “l’art. 4 … costituisce unaintegrazione del provvedimento di Saler-no, determinando la data ed il luogo della
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prima convocazione dell’Assemblea, ladurata di questa e la disciplina del suo fun-zionamento, prima che l’Assemblea stessane stabilisca direttamente le norme”7.
Anche l’esame della Consulta risulta poidel tutto assorbito dalla questione istitu-zionale, cosicché al punto del regolamentointerno della Costituente non viene dedica-ta alcuna attenzione espressa.
La Consulta rende il suo parere al Gover-no sulla base della relazione di una propriaCommissione speciale, presieduta da Vitto-rio Emanuele Orlando, i cui verbali nonrisultano pervenuti sino a noi. È rimasta peròagli atti la proposta di modifica al decretogovernativo formulata dalla Commissione edaccettata dalla Consulta, grazie a cui sappia-mo che lo schema del decreto prevedeval’applicazione del Regolamento della Came-ra “in data 1 luglio 1900 e successive modi-ficazioni”, mentre la Commissione propo-ne, e la Consulta approva la formulazionesecondo cui il Regolamento della Camera siaquello deliberato “in data 1 luglio 1900 e suc-cessive modificazioni fino al 1922”8.
Non sembra peraltro corretto interpreta-re l’originaria formulazione governativa nelsenso che, fra le “successive modificazioni”al Regolamento del 1900 si intendesserocomprendere anche quelle apportate dellaCamera già dominata dai deputati della “listanazionale” eletti con la legge Acerbo9. Lamodifica della Consulta Nazionale avrebbeavuto, quindi, solo il senso di una maggioreprecisione formale, come del resto depongo-no i modi del recepimento da parte delGoverno stesso, il verbale del Consiglio deiministri del 12 marzo 1946 riportando solola scarna notazione che “De Gasperi propo-ne una variante all’art. 4, che è accettata”10.3. Per quanto attiene poi ai modi con cuil’Assemblea costituente, dal canto suo,
decide di avvalersi di quel previgente rego-lamento, sappiamo solo, non essendocipervenuti i verbali delle riunioni dellaGiunta, che questa, nella seduta del 15 luglio1946, propone all’Assemblea, come si èdetto, la deliberazione di tre articoli inte-grativi del regolamento del 1922. Non soloquindi non viene proposto un diverso rego-lamento, ma neanche si sottopone espres-samente all’Assemblea la questione relati-va all’opportunità di adottare o meno ilregolamento pregresso della Camera deideputati. L’Assemblea, da parte sua, silimita a prendere in considerazione la pro-posta integrativa della Giunta, avvenendocosì che l’adozione o il “recupero” del rego-lamento della Camera liberale viene com-piuto, da parte dell’Assemblea Costituente,in forme implicite, attraverso la facoltà dinon avvalersi del potere di darsi un proprioregolamento sostitutivo di quello indicatoin via sussidiaria dal Governo.
Per un primo verso, quindi, questi modidi adozione del regolamento del 1922 sem-brano presupporre la volontà di sancire unarelazione di stretta continuità fra l’Assem-blea Costituente e l’ultima Camera deideputi dell’era liberale, essendo possibile
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Seduta della Consulta Nazionale.
vedere in essi il ricorso alla consuetudineper cui, essendo ogni nuova Camera dotatadel potere di darsi un proprio regolamen-to, il concreto ricorso al regolamento dellaCamera precedente vale come implicitaadozione11. L’opera della Giunta per il rego-lamento, che si limita a proporre alcuneintegrazioni al regolamento del 1922, e laposizione assunta dall’Assemblea, che ledelibera senz’altro aggiungere, possonoquindi essere ricostruiti come volontà dimuoversi nel solco di quella risalente tra-dizione, e di affermare che l’AssembleaCostituente è destinata ad operare qualenaturale successore dell’ultima Cameraliberale.
A favore di questa ricostruzione militain primo luogo il confronto fra la norma-tiva stabilita dal Governo per la ConsultaNazionale e quella per l’Assemblea Costi-tuente. Per la prima il Governo aveva rin-viato al “regolamento della Camera deideputati in vigore prima del 28 ottobre 1922”,ponendo quindi quale momento discrimi-nante il giorno della marcia su Roma: l’usosimbolico della data lascerebbe appuntointendere la volontà di una restaurazionedella situazione preesistente al fascismo,l’intento di un immediato ritorno allo sta-tus quo ante. È vero che per l’assembleaCostituente, invece, si stabilisce, come siè detto, l’applicazione del regolamentodella Camera “in data 1° luglio 1900 e suc-cessive modificazioni fino al 1922”, ma se siritengono, come sembra corretto, le dueformulazioni come equivalenti, la secondaessendo solo tecnicamente più precisa,allora la conclusione sarebbe appunto cheil richiamo a quel regolamento valeva pro-priamente a riallacciare in senso ideale lanuova esperienza parlamentare nel puntoin cui quella antica era stata interrotta, o,
per meglio dire a questo punto, era stataquasi “sospesa”.
Questa interpretazione sarebbe inoltreconfermata dalle precisazioni rese da Terra-cini, come Presidente dell’Assemblea, nelprosieguo dei lavori, sul punto che leaggiunte al Regolamento “sono valide, evi-dentemente, soltanto per l’AssembleaCostituente, così che la nuova Assemblealegislativa si troverà, al momento in cui saràeletta ed insediata, di fronte al Regolamen-to della Camera dei Deputati, escluse lemodificazioni che l’Assemblea Costituenteabbia creduto di introdurvi per scopi speci-fici del proprio lavoro”12. Precisazioni il cuiimplicito presupposto non può che essereche l’esperienza dell’Assemblea Costituen-te viene vista come perfettamente interpo-sta, a tutti gli effetti, fra l’operato dell’ulti-ma Camera liberale e la prima dell’ordina-mento repubblicano, cosicché ne derivi, afavore dell’Assemblea stessa, lo stesso tito-lo all’uso del regolamento della Camera del1922 che è proprio di ogni nuova Camerarispetto alla Camera precedente13.
Ne verrebbe chiarito anche il valoredella previsione legislativa contenuta nel-l’art. 4 del d. lgs. n. 98 del 1946, il qualeavrebbe avuto un valore non costitutivo, mapuramente dichiarativo del “diritto” del-l’Assemblea all’utilizzo di quel regolamen-to, in ragione della sua posizione rispettoall’ultima Camera dell’era liberale. Il valo-re prescrittivo del decreto, in quest’otticaintepretativa, sarebbe semmai solamenteconsistito nell’identificazione del momen-to, oltre il quale considerare le modifiche alregolamento non più definibili come pro-prie dell’era liberale. Ed in questo sensoassume un significato pregnante anche lamodifica testuale suggerita all’esecutivo, sulpunto, da parte della Consulta Nazionale.
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Per altro verso, riallacciandosi idealmen-te alla pregressa esperienza parlamentareliberale, l’Assemblea costituente si trova adapplicare un regolamento introdotto dallaCamera del 1900, ma modificato nel 192214,al fine di adattare il funzionamento dell’or-gano rappresentativo alla nuova realtà deipartiti organizzati il cui ingresso nell’agonepolitico era seguito alla elezione del 1919,tenutesi con il sistema proporzionale ed unsuffragio tendenzialmente allargato a tutti icittadini maschi maggiorenni.
La scelta parimenti proporzionalisticaper l’elezione della Costituente, l’adozionedel suffragio universale, la prosecuzione nelGoverno dell’esperimento del C.L.N. fini-scono così per porre la questione del distac-co che si era oramai consumato in modoapparentemente irrimediabile proprio fra ilparlamentarismo elitario ed individualisti-co dell’era liberale ed il nuovo sistema deter-minato dall’influenza decisiva dei partitipolitici, che l’Assemblea Costituente, qualecamera rappresentativa, si trova a sperimen-tare pressoché per prima.
Il Regolamento della Camera del 1922,che essa adotta, finirà per essere investitodelle relative tensioni, che la Camera libe-rale aveva invece fatto appena in tempo aconoscere a causa dell’avvento del fascismo.
4. Una prima tornata di proposte emenda-tive, si registra, come si è detto, in apertu-ra dei lavori dell’Assemblea.
Nella seduta del 15 luglio 1946 la Giuntapropone di modificare il regolamento peristituire la Commissione dei settantacinque,nonché, in connessione con la competenzalegislativa ordinaria dell’Assemblea, unacommissione per i trattati internazionali.
Secondo la proposta della Giunta, laCommissione veniva incarica “di elabora-re, redigere e presentare il testo del proget-to di Costituzione”. La disposizione verràemendata dall’Assemblea nel senso di inca-ricarla di “elaborare e proporre il progettodi Costituzione”, temendosi un esautora-mento dei poteri dell’Assemblea e inten-dendosi la necessità della Commissionelegata al difetto di un titolare dell’iniziativanel procedimento di approvazione dellaCostituzione15. Poiché, come è noto, laCommissione dei settantacinque non silimiterà affatto a proporre un testo di Costi-tuzione, ma sarà presente nel corso di tuttele fasi della sua discussione ed approvazio-ne, la formulazione della Giunta si rivelavapiù aderente alla realtà del suo compito, nonsolo di redigere un testo, ma di elaborarlo intermini sensatamente sottoponibili all’As-semblea, nonché di seguire attivamente poi,di fronte a questa, il procedimento della suaapprovazione. Vista questa prospettiva, l’in-sufficienza del Regolamento del 1922 con-sisteva nel presupporre come naturale ilcarattere settoriale dell’attività legislativaordinaria, e nel commisurare ad esso lecommissioni parlamentari previste. Dondela loro naturale inadeguatezza per l’esamedi un testo di costituzione.
Al momento però di deliberare la com-posizione della Commissione speciale perla Costituzione, vengono alla luce i nodi daaffrontare sul significato del mandato par-lamentare, nonché, in prospettiva, sul con-seguente valore del rapporto di fiducia fral’Assemblea ed il Governo. Si tratta di ele-menti di fondo del sistema che si sta andan-do a formare, idonei a determinarne lanatura, e, quindi, a chiarire i rapporti esi-stenti con il sistema precedente.
I termini della contrapposizione che
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subito affiora sembrano ben compresi, da un
lato nella proposta della Giunta di nomina-
re la Commissione con votazione dell’as-
semblea “a scrutinio segreto per due terzi dei
nomi dei componenti”16, e, dall’altro lato,
nella posizione di chi propone invece, al fine
di “elaborare, redigere e presentare il testo
del progetto di Costituzione”, che l’assem-
blea si divida “in diverse sezioni od uffici,
per una discussione preliminare”. “Da tali
sezioni, da tali uffici verrebbero scelti i dele-
gati a costituire la Commissione”17. Una
posizione, quindi, in altre parole, che propu-
gna un ritorno ai regolamenti non del 1922,
ma del 1900, quando il sistema degli uffici
quale luogo dell’esame preliminare dei dise-
gni di legge sottintendeva la posizione egua-
le ed indistinta di tutti i deputati.
L’esito del confronto fra queste due
concezioni è tutto a favore della prima, che
nel deputato vede l’appartenente alla
Camera in quanto appartenente ad un
gruppo determinato. Non solo, infatti, l’As-
semblea accoglie la proposta della Giunta,
ma anche la emenda nel senso che la scel-
ta dei suoi componenti venga fatta per desi-
gnazione del Presidente, cosa che implica,come viene espressamente chiarito, “cheegli vi provvederà con quel senso di pro-porzione che è insito nell’assemblea stessadi cui facciamo parte”18. Ogni conseguen-za relativa alla designazione da parte deigruppi parlamentari ed alla composizionedella Commissione come “specchio” dellacomposizione partitica dell’assemblea nonnecessita di venire esplicitata.
5. Nella seduta del successivo 11 settembre,la Giunta propone un’ulteriore modifica delregolamento relativa non alla potestà costi-tuente ma alla potestà legislativa ordinariadell’Assemblea. La proposta riguarda lacostituzione di quattro commissioni perma-nenti per l’esame degli schemi dei decretilegislativi trasmessi dal Governo, per stabi-lire quale fra di essi siano da sottoporreall’approvazione della Costituente.
Sulla sfondo, vi è la questione dell’As-semblea nella sua duplice veste di Costi-tuente e costituita, questione insorta sindall’inizio, ad opera di Calamandrei e dellasua contestazione sui limiti alla potestàlegislativa ordinaria dell’Assemblea19. Laproposta di modifica del regolamento cor-risponde alla disponibilità dimostrata dalGoverno di dar seguito all’impegno giàassunto da De Gasperi, di sottoporre all’As-semblea tutti i disegni di legge che essariterrà opportuno di deliberare20.
La discussione tocca tutta una serie ditemi centrali per il diritto parlamentare,quali il ruolo del regolamento come fonte didisciplina dei rapporti con gli altri organi21,il nesso con la figura delle convenzionicostituzionali22, la relazione con la legge23.Ritorna infine anche la questione della
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Proclamazione degli esiti del referendum del 2 giugno 1946
– Sala delle Lupa, Palazzo Montecitorio.
composizione proporzionale delle Com-missioni24, che opererebbe come “stru-mento di collegamento” fra l’assembleatutta ed il potere esecutivo.
Nella discussione vengono di nuovoesposte in una sorta di scala ideale le diver-se concezioni del mandato e della forma digoverno che l’esperienza parlamentarerepubblicana avrebbe poi, nel prosieguo,mostrato come possibili pur se all’internodello stesso regime politico.
Da un lato avviene così che la criticaradicale a quella che viene considerata unaforma di usurpazione dei poteri dell’assem-blea da parte dei lavori segreti delle Com-missioni25, si accompagni alla posizionecorrispondente, sul piano della forma digoverno, che le concessioni del Governoindicherebbero un potere esecutivo aventeuna posizione superiore, ed una “assem-blea in un certo senso serva del potere ese-cutivo”26; mentre si affaccia, dall’altro lato,la tesi radicalmente contrapposta secondocui, avendo l’Assemblea Costituente la pos-sibilità di revocare il Governo, la correlati-va responsabilità del potere esecutivo“toglie ed elimina ogni pericolo di abuso”:e difatti, la conclusione, in questo contestoricostruttivo, consiste in ciò, che l’attivitàlegislativa “la esercitiamo direttamente colcontrollo diretto del Governo”27. Tutto que-sto passando per l’opinione intermedia erealistica secondo cui il fatto che il gover-no sia espressione dell’assemblea e l’as-semblea espressione del Paese, non evitaperò che la delega al Governo di poterinaturalmente propri dell’assemblea stessa– quale quello legislativo – offenderebbe “ildiritto della minoranze”: più che dell’as-semblea infatti il Governo è espressione “diuna parte, di una gran parte, della maggio-ranza dell’assemblea”28. Arrivandosi, infi-
ne, a prefigurare, in via di compromesso,un rapporto fra commissioni della Costi-tuente e Governo non dissimile a quello chesolo nell’evoluzione di molto successivadell’esperienza repubblicana diventerà unelemento stabilmente caratteristico dellaforma di governo, per la via della propostache le commissioni non si limitino ad indi-care i progetti da devolversi all’Assemblea,ma, anche per gli altri rimandati al Gover-no, li facciano “accompagnare … con rac-comandazioni o addirittura con proposte dimodificazioni”29.
6. L’approvazione a larga maggioranza diqueste proposte della Giunta indica la preva-lenza, in seno alla Costituente, della conce-zione del mandato parlamentare come man-dato di partito politico, ed il carattere oramairecessivo dell’opposta ricostruzione cheenfatizza il valore individuale del deputato.
Nel corso dei lavori dell’Assemblea,però, la coesistenza fra le due concezioni èdestinata a restare ineliminabile, comesembra dimostrato da ulteriori vicende sul-l’applicazione del regolamento.
All’atto della votazione delle disposizio-ni sulla famiglia, rispetto alla previsione delriconoscimento dei diritti di questa comesocietà naturale “fondata sul matrimonioindissolubile”, si propone la soppressionedell’ultima parola. Viene fatta richiesta divotazione sia per appello nominale che perscrutinio segreto, ciò che da adito ad unvivace dibattito in Assemblea, introdottodal Presidente con il riepilogo dei casi spe-cifici in cui il Regolamento prevede il ricor-so al voto segreto, con il riferimento allaprevisione generale che lo consente arichiesta con prevalenza su ogni altra forma
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di votazione, ed infine con l’osservazioneche, secondo “la storia parlamentare italia-na”, “una votazione segreta su una parte diun disegno di legge, dal 1881 non è mai stataeffettuata”30.
La decisione di procedere al voto segre-to in conformità alla formulazione testualedel regolamento e contro “questa antica tra-dizione”, non può non segnare – in uno congli altri fattori determinanti la decisioneaventi carattere contingente – la permanen-za della convinzione del valore individualedel deputato come libero rappresentantedella Nazione, la cui autonomia decisionalepuò giungere sino al punto di richiedereforme di voto che lo sottraggano al control-lo non solo del partito di appartenenza, mafinanche dei suoi elettori31.
Questa ricostruzione, recessiva maniente affatto integralmente assorbita daquella concorrente del mandato di partepolitica, trova espressione ancora, nel suc-cessivo corso dei lavori della Costituente,sempre in relazione alla regolazione deisuoi lavori.
Avendo ricevuto dalla stessa Assembleamandato per alcune proposte di snellimen-to della discussione e per una più rapidaapprovazione del testo della Costituzione,la Giunta per il regolamento propone un’ul-tima tornata di modifiche regolamentari,ora di contingentamento dei tempi; ora dilimitazione del numero degli oratori perogni gruppo; ora di innalzamento del quo-rum dei richiedenti modalità di voto deter-minate. Nel loro insieme le misure prefigu-rano non i deputati singoli, ma i loro grup-pi di appartenenza come i veri soggetti ope-ranti all’interno dell’Assemblea32.
La votazione, con cui le proposte ven-gono respinte di strettissima misura, vienepreceduta da una discussione nella quale
vengono fatti valere, contro le innovazioni,tutte le tradizionali ragioni del libero man-dato parlamentare.
All’invito dello stesso Terracini, qualePresidente anche della Giunta per il rego-lamento, a non ignorare il fatto “che l’as-semblea è divisa in gruppi” che ne costitui-scono anzi il “fondamento organizzativo”,essendo i gruppi “un’esigenza di tutte leassemblee elette in base alla proporziona-le”33, viene opposto tutto il bagaglio idealedel parlamentarismo fondato sul deputatorappresentante della nazione, e non di unpartito; del deputato “responsabile di fron-te alla sua coscienza, di fronte al parlamen-to, di fronte al Paese sostituito da un grup-po anonimo, irresponsabile di fronte a sé,di fronte al Paese”34.
Viene rinfacciato ai gruppi della mag-gioranza di “essere orgogliosi del loronumero”35, si concede che “questi gruppipotranno anche essere il diritto costituzio-nale dell’avvenire”, ma “per ora e per moltotempo ancora il deputato è il rappresentan-te della Nazione e non del gruppo”36.
Nonostante questi toni enfatici, il dibat-tito consente di prefigurare alcune modifi-che regolamentari future che si baserannoproprio sull’incontro fra queste oppostetendenze.
È il caso dell’obiezione che far parlare unnumero prefissato di deputati per gruppopone in una posizione impossibile il dissen-ziente37; è il caso dell’osservazione che, avoler partire dalla logica propria delle pro-poste di emendamento, dovrebbe dirsi suf-ficiente l’intervento di un solo deputato perogni gruppo, in luogo di un numero variabi-le in corrispondenza dell’entità del gruppostesso38; è infine il caso della proposta, cherisulta sostanzialmente derisa39, per la qualevorrebbe precludersi ai parlamentari di
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uscire dall’aula prima della fine dell’appel-lo che verifica il numero legale, e che sem-bra sostanzialmente precorrere, invece, laregola, che si imporrà nel prosieguo, per cuisono comunque computati come presenticoloro che hanno chiesto la verifica.
Affiora, peraltro, anche la consapevo-lezza che la nuova logica, che si sta cercan-do di combattere, oramai si è imposta informa irresistibile, e che di essa costitui-sce un elemento definitivo proprio la com-posizione proporzionale della Commissio-ne per la Costituzione. La conclusione,infatti, è che ciò che le proposte di regola-mento che sono in discussione vorrebbero“attuare è già stato attuato, in quanto il pro-getto che noi discutiamo è il punto d’incon-tro e di scontro dei vari partiti”40.
7. I modi dell’adozione del Regolamento, leforme della sua applicazione, le integrazio-ni deliberate rispetto ad esso sembranoquindi dimostrare l’esistenza di un dupli-ce significato proprio del “recupero”, daparte dell’Assemblea Costituente, delRegolamento della Camera dei deputati del1922. In uno con la volontà di riallacciarsiidealmente e materialmente all’esperienzaliberale, vi era anche, al contempo, unatensione verso il superamento dello stessoparlamentarismo liberale, superamentoche, del resto, era prefigurato dalle ultimemodifiche del 1922 all’impianto regola-mentare del 1900, che l’avvento del fasci-smo, però, aveva impedito di sperimenta-re nella Camera statutaria.
Vero è che l’Assemblea costituente nonpuò avvalersi sino in fondo di quelle modi-fiche, la divisione in gruppi essendo pen-sata principalmente per la designazione dei
deputati nelle commissioni parlamentari,designazione a sua volta finalizzata adun’attività, quella legislativa ordinaria, chenon è quella principale della Costituente.
Al riguardo l’Assemblea deve quindiprevedere per i suoi lavori una serie dinorme speciali, che disciplinano sia laredazione del progetto di Costituzione, sial’esame degli schemi dei decreti legislatividel Governo.
Anche se molto, in queste regole specia-li, presuppone una Assemblea divisa ingruppi organizzati, ed operante in base airapporti di forza che conseguono dal nume-ro degli iscritti ed dalla disciplina di partito,l’Assemblea si rifiuta di far proprie, fino infondo, ulteriori conseguenze organizzativesul piano delle facoltà dei suoi componenti.
L’esperienza dell’Assemblea Costituen-te sembra così dimostrare la verità del fattoche il regolamento parlamentare operacome una delle fonti principali dell’equili-brio, che il sistema è chiamato necessaria-mente ad istituire, fra il significato delmandato parlamentare come mandato dipartito, ed il significato del mandato parla-mentare come espressione di libera rap-presentanza. Adottando ed applicando ilregolamento del 1922, l’Assembla Costi-tuente avrebbe quindi dimostrato di saperguardare contemporaneamente alla pre-gressa esperienza liberale, così come allanuova realtà del governo di partito politico.
Sappiamo oggi che non è del tutto veroquanto sintetizzato da Terracini in Assem-blea, sul carattere determinante del siste-ma elettorale proporzionale per la divisio-ne in gruppi dei deputati, essendo pacifical’acquisizione che la medesima divisionepuò convivere, ed anzi finanche veniraccentuata da un’elezione di tipo maggiori-tario, pur se compiuta in collegi uninomina-
Bertolini
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Itinerari
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1 Il contenuto dell’accordo viene
trasfuso nel d.l.lgt. n. 151 del
1944, che prevede l’elezione del-
l’Assemblea Costituente per la
scelta delle “forme istituzionali”
dello Stato, l’abrogazione delle
disposizione sull’elezione di una
nuova Camera dei Deputati entro
quattro mesi dalla cessazione
dello stato di guerra, l’impegno
dei componenti del governo a
non compiere atti in pregiudizio
della soluzione della questione
istituzionale fino alla convocazio-
ne della Costituente, la potestà
legislativa del governo nella
forma del decreto legislativo fino
all’entrata in funzione del nuovo
Parlamento. Sul complesso delle
vicende che conducono all’ema-
nazione del decreto n. 151 del
1944, cfr., fra gli altri, C. MORTA-
TI, La Costituente, Roma 1945, 136
ss; PIERO CALAMANDREI, Cenni
introduttivi sulla costituente e sui
suoi lavori, in Commentario siste-
matico alla Costituzione italiana,
Firenze 1950; C GHISALBERTI, Sto-
ria costituzionale d’Italia, 1848-
1948, Bari 1977, II. 389 ss, non-
ché, più di recente, M. FIORILLO,
La nascita della Repubblica italia-
na e i problemi giuridici della con-
tinuità, Milano 2000, specie 199
ss.2 D. lgs. Lgt. 16 marzo 1946, n. 98,
art. 4, terzo comma.3 Sedute del 25, 26 e 28 giugno
1946. Atti dell’Assemblea Costi-
tuente, Tipografia della Camera
dei Deputati, 1-20.4 La Costituzione della Repubbli-
ca nei lavori preparatori dell’As-
semblea Costituente, Roma
1970, pp. 18-19.5 Art. 29, ult. comma, del d. lgs. n.
539 del 1946. A seguito di una
discussione che impegna le
sedute del 9, 10 e 11 gennaio
1946, la Consulta Nazionale, su
proposta della sua Giunta,
approva un regolamento interno
che in più di un punto diverge in
modo sostanziale da quello pre-
vigente della Camera. Cfr., fra le
altre, la previsione dell’art. 52
sulla prevalenza della richiesta
dell’appello nominale su tutte le
altre, la domanda di scrutinio
segreto restando invece a preva-
lere sulla richiesta di votazione
per divisione (per i relativi reso-
conti, cfr. gli Atti della Consulta
Nazionale, Discussioni dal 25 set-
tembre 1945 al 9 marzo 1946, 208
ss.)6 Il d. lgs. Lgt. 16 marzo 1946, n.
98 stabilisce la devoluzione al
corpo elettorale, mediante refe-
rendum, della decisione sulla
forma istituzionale, e disciplina
le funzioni del Governo, del capo
dello Stato e dell’Assemblea
Costituente durante i lavori di
quest’ultima. Il successivo d. lgs.
Lgt. 16 marzo 1999, n. 99 indice
i comizi per il referendum e per
l’elezione della Costituente, ele-
li, ciò che pareva a Terracini un “assurdo”41. Neppure il venir meno della stratifica-
zione sociale capace di dar luogo a partipolitiche corrispondenti ha fatto venirmeno la necessità della disciplina di grup-po dei deputati, per quanto il fenomeno orasi manifesti sotto la forma nuova dellanecessaria efficienza del sistema politico.
La capacità dell’Assemblea Costituentedi darsi regole di funzionamento capaci disalvaguardare le due componenti del man-dato parlamentare può valere come model-lo di particolare valore per il mantenimen-to del relativo equilibrio.
In un momento in cui la tensione versouna razionalizzazione estrema della forma
di governo parlamentare tende a scaricarsiproprio sulle fonti dell’autonomia organiz-zativa delle Camere, sembra auspicabile ilrispetto delle categorie non solo storiche,ma anche logiche e dogmatiche del gover-no parlamentare, considerandosi la realtàdel fatto che il libero mandato parlamenta-re ha operato come primo fattore costituti-vo del governo di partito politico, cosicchéelidere la relativa componente dal sistema,anche al fine apparente di funzionalizzarlaalla disciplina di gruppo, significa in realtàminare le fondamenta stesse del regime chesi vorrebbe in quel modo realizzare.
Bertolini
115
zione da compiersi secondo il
procedimento stabilito dal d. lgs.
Lgt. n. 71 del 1946.7 Cfr. i Verbali del Consiglio dei
Ministri, luglio 1943-maggio 1948,
a cura di A. G. RICCI, Presidenza
del Consiglio dei Ministri,
Dipartimento per l’informazio-
ne e l’editoria, Roma, 1994, vol.
VI, 1, p. 492. 8 Cfr. lo schema delle proposte di
modifica formulate dalla Com-
missione, riportato in Consulta
Nazionale, Documenti, Roma
1946, Doc. n. 141-A, 8.9 Per dette modificazioni al rego-
lamento del 1922, cfr. E. GIAN-
FRANCESCO Parlamento e regola-
menti parlamentari in epoca fasci-
sta in questa Rivista p. 69 ss.10 Verbali del Consiglio dei Ministri
… cit., vol. VI, 1, p. 563.11 Il punto, secondo M. MANETTI,
Regolamenti parlamentari, Enc.
dir., XXXIX, Milano, 1988, sub
voce, 643, rifletterebbe “una
concezione contrattualistica del
regolamento parlamentare” e
sarebbe sintetizzato nei due
paralleli principi della disconti-
nuità del regolamento parlamen-
tare e della continuità del diritto
parlamentare. Secondo il primo,
“il regolamento parlamentare
perde ogni efficacia nel momen-
to in cui si scioglie l’assemblea
che lo ha adottato”; per il secon-
do, la libertà di scelta della neo-
costituita assemblea “le consen-
te tuttavia di recepire il regola-
mento previgente” (ivi, nt).12 Atti dell’Assemblea Costituente,
Seduta del 5 maggio 1947, 3562.13 E per l’implicita adozione, da
parte della prima Camera repub-
blicana, del regolamento della
Camera del 1922, vedi, in questa
Rivista p. 117 ss., N. LUPO I regola-
menti parlamentari nella I legisla-
tura repubblicana (1948-1953). Per
quanto attiene al Senato, invece,
non potendosi il primo Senato
della Repubblica considerare
continuatore del Senato regio –
avente natura vitalizia – ne derivò
l’adozione di un nuovo regola-
mento fin dalla prima legislatura.
Indicazioni in F. MOHRHOFF, Prin-
cipii costituzionali e procedurali del
regolamento del Senato, Roma,
1949, 9 ss. 14 Cfr. G. ORSINA Il “luogo” storico
della riforma parlamentare del
1920 nella vicenda politica italia-
na, in questa Rivista, p. 53 ss.15 Atti dell’Assemblea Costituente,
seduta del 15 luglio 1946, 25 ss.16 Atti dell’Assemblea Costituente,
Seduta del 15 luglio 1946, 48.17 Cfr. l’intervento di Zuccarini,
Atti dell’Assemblea Costituente,
Seduta del 15 luglio 1946, 44.18 Cfr. l’illustrazione dell’emenda-
mento proposto da Tupini, Atti
dell’Assemblea Costituente, Sedu-
ta del 15 luglio 1946, 48.19 Atti dell’Assemblea Costituente,
Seduta del 15 luglio 1946, 43 ss.20 Atti dell’Assemblea Costituente,
Seduta del 25 luglio 1946, 353,
354.21 Calamandrei, Atti dell’Assemblea
Costituente, Seduta del 12 set-
tembre 1946, 42622 Bozzi, Atti dell’Assemblea Costi-
tuente, Seduta del 12 settembre
1946, 432.23 Crispo, Atti dell’Assemblea Costi-
tuente, Seduta del 12 settembre
1946, 436.24 Cfr. al riguardo l’emendamento
presentato da Taviani alla pro-
posta della Giunta, Atti dell’As-
semblea Costituente, Seduta del 17
settembree 1946, 559.25 Cfr. l’intervento di Badini Gon-
falonieri, Atti dell’Assemblea
Costituente, Seduta del 13 set-
tembre 1946, 526 ss.26 Cosi l’intervento di Zuccarini,
Atti dell’Assemblea Costituente,
Seduta del 13 settembre 1946,
529.27 In questi termini Assennato, Atti
dell’Assemblea Costituente, Sedu-
ta del 12 settembre 1946, 444.28 Cfr l’intervento di Gullo Rocco
nella seduta del 13 settembre
1946 (Atti dell’Assemblea Costi-
tuente, 537).
29 Questo il senso della proposta di
Calamandrei nella seduta del 12
settembre 1946, svolta ricor-
dando gli analoghi poteri propri
delle Commissioni della Con-
sulta Nazionale (Atti dell’Assem-
blea Costituente, 528).30 Atti dell’Assemblea Costituente,
Seduta del 23 aprile 1947, 1201 ss.31 Nel corso dell’accesa discussio-
ne che seguirà alla richiesta di
voto segreto, sarà opposto il
carattere anacronistico della
richiesta, confermato dalla
diversa regola che si era data la
Consulta Nazionale, approvando
la previsione che la richiesta del
voto per appello nominale
avrebbe prevalso su qualsiasi
altra. Cfr., al riguardo la nt. 5.
Nella seduta del 26 settembre
1947 (Atti dell’Assemblea Costi-
tuente, 551) sarà presentata
un’analoga proposta – che peral-
tro non risulta essere stata presa
in considerazione dall’aula – di
modifica dell’art. 97 del regola-
mento dell’Assemblea, mirante
ad ottenere che, “nel concorso di
diverse domande, quella del-
l’appello nominale prevale su
tutte le altre, quella dello scruti-
nio segreto prevale sulla doman-
da di votazione per divisione
nell’Aula”. 32 Questo il testo delle proposte pre-
sentate dalla Giunta (Assemblea
costituente, Atti parlamentari, Doc
II, n. 7). 1. – I deputati iscritti a
parlare, che non rispondono alla
chiamata del Presidente decado-
no dalla iscrizione. Non è consen-
tita dopo tale decadenza una
nuova iscrizione per la discussio-
ne in corso. 2. – Qualora i presen-
tatori di emendamenti prendano
la parola nella discussione gene-
rale, s’intende sempre che essi
svolgono in tale sede i loro emen-
damenti. 3. – Nessuno può parla-
re più di dieci minuti per lo svol-
gimento di emendamenti o per
dichiarazione di voto. 4. – Le
domande di votazione per appel-
lo nominale o per scrutinio segre-
Itinerari
116
to debbono recare le firme di
trenta deputati. Concorrendo
diverse domande, quella dello
scrutinio segreto prevale su tutte
le altre. 5. – In caso di richiesta di
accertamento del numero legale,
dopo l’inizio dell’appello i depu-
tati presenti non possono più
abbandonare l’aula fino a che
l’appello stesso non sia termina-
to. 6.– Per i due titoli … della
parte I del progetto di Costituzio-
ne, la discussione generale sarà
limitata al numero massimo di tre
oratori per i Gruppi che contino
un numero superiore a cento
iscritti e di due oratori per quelli
con un numero inferiore. 7. – Per
la parte II del progetto … si farà
una sola discussione generale con
il limite di cinque oratori per i
Gruppi che contino un numero
superiore a cento iscritti e di tre
oratori per quelli con un numero
inferiore … [8. – ] Per gli inter-
venti … il tempo a disposizione
degli oratori è di mezz’ora.33 Atti dell’Assemblea Costituente
Seduta del 5 maggio 1947, 3564.34 Intervento di Lucifero, Atti del-
l’Assemblea Costituente, Seduta
del 5 maggio 1947, 3570.35 Intervento di Molè, Atti dell’As-
semblea Costituente, Seduta del 5
maggio 1947, 3565.36 Intervento di Condorelli, Atti
dell’Assemblea Costituente, Sedu-
ta del 5 maggio 1947, 3580, 3581.37 Poiché il fatto “che ci siano cin-
que oratori ufficiali del gruppo
non può escludere affatto il
diritto di un singolo deputato di
quel gruppo di esprimere la pro-
pria opinione, che può essere
anche diversa da quella dei col-
leghi del gruppo”: così l’inter-
vento di Lucifero, Atti dell’As-
semblea Costituente, Seduta del 5
maggio 1947, 3570.38 “Ai partiti … che hanno il pregio
o il difetto … di essere confor-
misti, tre o cinque oratori pos-
sono essere anche soverchi,
giacché ne basta uno solo”: così
Condorelli, Atti dell’Assemblea
Costituente, Seduta del 5 maggio
1947, 3580. 39 Intervento di Corbino, Atti del-
l’Assemblea Costituente, Seduta
del 5 maggio 1947, 3569.40 Intervento di Longhena, Atti del-
l’Assemblea Costituente, Seduta del
5 maggio 1947, 3582, vivendo il
deputato la circostanza come una
contraddizione del fatto che “la
maggior parte di noi è venuta qua
con un desiderio immenso di
bene, di offrire tutto il tributo di
pensiero e di conoscenza”. Desi-
derio “fermato” una volta stabili-
tosi “che la commissione che
doveva preparare il progetto di
Costituzione fosse composta pro-
porzionalmente dai rappresen-
tanti dei vari partiti”.41 Cfr. l’intervento di Terracini, in
sede di illustrazione delle pro-
poste di modifica al regolamen-
to avanzate dalla Giunta per il
Regolamento per la seduta del 5
maggio 1947 (Assemblea Costi-
tuente, Atti, 3564).
117
1. Sull’interpretazione della I legislatura repub-
blicana: non esattamente una forma di gover-
no “all’inglese”
La I legislatura repubblicana è stata spesso
interpretata come un periodo di “parla-
mentarismo all’inglese”: nell’arco tempo-
rale che va tra il 18 aprile 1948 e il 7 giugno
1953 “il sistema costituzionale di fatto in
Italia si sarebbe singolarmente avvicinato
(non per imitazione, ma per spontanea
evoluzione di cose) al sistema di gabinetto
inglese. Il governo dipendeva, sì, dalla
fiducia del parlamento; il parlamento era,
sì, più o meno controllato dalle direzioni
dei partiti; ma l’autorità di De Gasperi sul
partito che deteneva la maggioranza assolu-
ta alla camera e la maggioranza quasi asso-
luta al senato, condizionava e in parte
invertiva il rapporto” (G. Maranini, 1967, p.
490 ss.). L’osservazione è spesso utilizzata
anche allo scopo di contrapporre tale legi-
slatura al periodo immediatamente succes-
sivo, nel quale invece “il funzionamento
delle istituzioni politiche si sarebbe avvi-
cinato sempre di più ai moduli della Quar-
ta Repubblica francese” (L. Elia, 1970, p.
634 ss.).
Il successo di questo modello interpre-
tativo (S. Bartole, 2004, p. 412 ss.; L. Lan-
zalaco, 2005, p. 103 ss.) si deve probabil-
mente altresì alla circostanza che pure da
sinistra è stata a lungo diffusa una lettura
assai critica degli anni che vanno dal 1948
al 1953, nei quali si assisterebbe “in Italia
ad un irrigidimento dei rapporti politici che
ha tutte le caratteristiche di una svolta di
regime” (P. Petta, 1975, p. 125 ss.).
Restando alla valutazione del funziona-
mento della forma di governo, va però con-
siderato che, accanto ad una spinta in senso
maggioritario – che in questo arco tempo-
rale sicuramente si registra nel sistema poli-
tico, soprattutto per effetto dell’azione di De
Gasperi – coesistono spinte che vanno in
direzione esattamente opposta (A. Manni-
no, 1999, p. 122 ss.; U. De Siervo, 200, p. 8
ss.). E che operano sia nello stesso sistema
politico, vale a dire nei rapporti tra i partiti
della maggioranza e anche in seno al princi-
I regolamenti parlamentari nella I legislatura repubblicana (1948-1953)
nicola lupo
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
pale di tali partiti, all’interno del quale puresi verificano dissensi e scontri a volte assaiaspri (P.A. Capotosti, 1975, p. 51 ss.); sia,soprattutto, nel sistema istituzionale, cheattraversa una fase di “giuntura critica”, unperiodo cioè in cui è possibile perseguirediversi e alternativi corsi d’azione istituzio-nale (S. Fabbrini, 2008, p. 53 ss.).
Di queste spinte anti-maggioritariepresenti sul terreno istituzionale, la sceltarelativa all’adozione del regolamento dellaCamera prefascista – su cui si incentra que-sto contributo – costituisce una, benchénon certo l’unica, manifestazione (M.Cotta, 1991, p. 208 ss.; C. De Micheli-L.Verzichelli, 2004, p. 101). Basti pensareall’utilizzo piuttosto scarso degli strumen-ti di produzione normativa propri delgoverno (A. Simoncini-V. Boncinelli,2004, p. 154 ss.), a cui corrisponde un assaiintenso uso della legislazione in commis-sione (M. Morisi, 1992, p. 39 ss. e 53 ss.);o alla stessa instabilità governativa, che giànel corso della I legislatura ha ampiamen-te modo di manifestarsi, dando luogo –nonostante il frequente ricorso al cosiddet-to “rimpasto” – a tre distinti esecutivi, sup-portati da diverse maggioranze, tuttecomunque costituite da coalizioni di parti-ti1, e formatisi sulla base di percorsi tutt’al-tro che agevoli (P. Milazzo, 2004, p. 70 ss.).
Peraltro, sembra innegabile che glieffetti perversi in genere originati da taleinstabilità – in questa fase, diversamenteda quel che accadrà nelle legislature suc-cessive – vengono ad essere attenuati dallapermanenza nella carica di presidente delconsiglio, durante tutta la legislatura, dellafigura di De Gasperi: autentico leader sia delgoverno, sia del partito che nel ramo delparlamento interamente elettivo disponedella maggioranza assoluta, e che spinge,
spesso efficacemente, per far giocare algoverno un ruolo direttivo della maggio-ranza parlamentare (P. Craveri, 1977, p. 420ss.; E. Rotelli, 1981, p. 99 ss.). Ma è sinto-matico che neppure nel corso della I legi-slatura De Gasperi giunga a ricoprire con-temporaneamente la carica di presidentedel consiglio dei ministri e quella di segre-tario politico della DC2.
Il quadro appare dunque più articolatodi quanto emerge dalla lettura proposta daMaranini. Si può forse affermare che l’as-senza di un terreno comune tra le diverseforze politiche – che pure insieme avevanosottoscritto, poco tempo prima, il pattocostituzionale – impedisce che presso leCamere si realizzino dinamiche autentica-mente maggioritarie, secondo il modellodefinito come “modello Westminster” ocome opposition mode (P. Calamandrei,1948, p. 633 ss. e ora S. Merlini, 1995, p. 61ss. e C. De Micheli-L. Verzichelli, 2004, p.98 ss.). Per dirla con le parole, come sem-pre assai penetranti, del compianto PietroScoppola, nella I legislatura si verifica per-ciò una situazione paradossale, nella quale“un sistema per sua natura consociativofunzionerà per un certo tratto in manierasimile a un sistema di alternanza, ma senzala possibilità dell’alternanza stessa” (P.Scoppola, 1991, p. 207 ss.).
Evidentemente, in una situazione cosìanomala, in cui le estreme, pur quantitati-vamente molto rilevanti, non risultanolegittimate a governare (sul netto scarto traarea della rappresentanza e area della legit-timità cfr. G. Sabbatucci, 2003, p. 10 ss. e77 ss.), appare difficilmente proponibilel’idea di fissare regole e procedure ispira-te ad un funzionamento maggioritario delsistema parlamentare. Tale funzionamentorimane invece “quanto mai fluido”, essen-
Itinerari
118
do lasciato esclusivamente ai rapporti diforza fra i partiti politici e al peso persona-le di De Gasperi, mentre “le sole formaliz-zazioni giuridiche appaiono proprio queiregolamenti parlamentari della Camera edel Senato molto debitori delle esperienzeistituzionali del prefascismo” (U. De Sier-vo, 2002, p. 9).
In altri termini, l’esistenza della conven-tio ad excludendum, in coincidenza con laformazione, sul piano dei rapporti interna-zionali, dei due blocchi facenti capo allesuperpotenze statunitense e sovietica (Elia,1970, p. 658 ss.), spinge a lasciare in largaparte indeterminate le regole di funziona-mento del gioco parlamentare, in modo daconsentire al parlamento italiano di svolge-re (almeno) un duplice ruolo: per un verso,un ruolo di tribuna, o di “cassa di risonan-za”, di luogo in cui emergono cioè con chia-rezza e con nettezza, talvolta persino informe drammatiche, le contrapposizioni trale diverse forze politiche sulle scelte difondo (E. Cheli, 1973, p. 101 ss.); e, per altroverso, un ruolo di integrazione, ossia disede del processo decisionale nella qualeconfrontare le diverse posizioni, ricercan-do, ogni volta che sia possibile, elementi diconvergenza tra il maggior numero di grup-pi, a prescindere dalla loro collocazione allamaggioranza o all’opposizione, sulle scelteconcrete (P. Caretti, 2001, p. 591 ss.; A.Manzella, 2003, p. 22 ss.).
In un quadro siffatto, si fa comprensi-bilmente fatica altresì a fissare le regolerelative al funzionamento dell’organocostituzionale governo, come mostra conparticolare chiarezza la vicenda dell’inat-tuazione dello stesso art. 95 della Costitu-zione, che aveva rimesso alla legge l’ordina-mento della presidenza del consiglio deiministri; inattuazione che trova la sua ori-
gine sin nella I legislatura, permanendo,come è noto, fino al 1988.
Dal punto di vista qui adottato, la con-trastatissima approvazione della legge elet-torale maggioritaria per la Camera (la c.d.“legge truffa”), a conclusione della I legisla-tura, si può spiegare appunto come tenta-tivo di rafforzare, agendo sul piano istitu-zionale, un’alleanza di governo che sulpiano politico andava mostrando, in quel-la fase, non poche crepe.
De Gasperi, in effetti, era diventato “coltempo sempre più consapevole della fragi-lità di un equilibrio che non poteva fondar-si solo sul prestigio personale e su unarisposta eccezionale dell’elettorato” (L.Musella, 2003, p. 137 ss.). La via per uscireda questo impasse, individuata da De Gaspe-ri (insieme a Scelba) prima all’interno dellaDC, poi d’accordo con i leader delle altreforze centriste, consisteva perciò nellamodifica delle regole istituzionali di mag-giore e più immediata efficacia sui caratte-ri del sistema politico, e cioè sui meccani-smi della legge elettorale (G. Quagliariello,2003, p. 39 ss.; M.S. Piretti, 2003, p. 51 ss.;P.L. Ballini, 2004, p. 159 ss.).
Attraverso un rafforzamento, in uno deidue rami del Parlamento, dei numeri delleforze della coalizione centrista, unitamenteall’effetto centripeto derivante dalla forma-zione della stessa coalizione in una faseanteriore rispetto all’apertura delle urne (G.Quagliariello, 2004, p. 71 ss.), si pensava disuperare tali difficoltà e, al tempo stesso, simirava ad evitare il rischio di una “paralisidello Stato” (G. Andreotti, 1977, p. 118):ossia di scenari di instabilità governativa ditipo weimariano – simili a quelli già speri-mentati in Italia nella prima metà degli anni’20 –, che avrebbero potuto realizzarsi ove leforze collocate all’opposizione, alla sinistra
Lupo
119
o alla destra dello schieramento politico e,come si è visto, non legittimate a governa-re, avessero raccolto, nel loro insieme, lamaggioranza dei seggi anche in uno solo deidue rami del parlamento.
Appunto in questa chiave, nei più recen-ti ed approfonditi studi monografici dedi-cati al tema, a cinquant’anni di distanza daquegli eventi, la “legge truffa” è corretta-mente considerata come il tentativo di DeGasperi, esperito in esito ad una legislaturain cui più di una volta aveva sperimentato“le difficoltà di governare con una maggio-ranza tanto disomogenea e inquieta”, di“sottrarre il governo di coalizione al conti-nuo ricatto dei partiti che la componevano eche pretendevano di mostrare con chiarez-za il loro peso” (M.S. Piretti, 2003, p. 8 ss.).Ovvero come un “correttore istituzionale”idoneo a “soddisfare tre diverse esigenze:risolvere il problema ‘pratico’ del consensoalla coalizione di governo; conservare l’uni-tà del partito; salvaguardare, per il possibi-le, le esigenze degli alleati minori”, reagen-do così al “rischio di instabilità governativache si stagliava all’orizzonte” (G. Quaglia-riello, 2003, p. 32 ss. e 134 ss.).
Rispetto al peso dei meccanismi eletto-rali, è invece sottovalutata, almeno in que-sta fase, l’importanza degli strumenti dirazionalizzazione della forma di governoparlamentare: in coerenza, del resto, conuna sottostima del rilievo esterno delledisposizioni contenute nei regolamentiparlamentari, prevalente nella dottrina deltempo (sulla scorta delle teorizzazioni di S.Romano, 1906, p. 213 ss.) e che trovava unasua eco anche nel vertice dell’esecutivo (G.Quagliariello, 2003, p. 69 ss.).
Tuttavia, proprio la mancata codificazio-ne degli strumenti del governo “in” parla-mento e, più in generale, la scelta della con-
tinuità con i regolamenti prefascisti finisceper ostacolare il percorso nelle due Cameredi una legge siffatta e per indurre il gover-no ad operare una serie di “forzature parla-mentari” allo scopo di superare questi osta-coli; e tali “forzature”, con la notevole ecoche le battaglie da esse originate produco-no nei mezzi di stampa e nell’opinione pub-blica (F. Orlando, 1989, p. 54 ss.; C. Rodo-tà, 1992, p. 63 ss.), contribuiscono a rende-re ancor più evidente la rottura degli equi-libri postbellici, intrinsecamente fondati suun sistema elettorale proporzionale, chequella legge comportava. Del resto, è lo stes-so De Gasperi, nel suo discorso-testamen-to politico al congresso DC nel giugno 1954(P. Craveri, 2006, p. 627 ss.), a sottolinea-re con forza, e in base a elementi di fatto(quali il numero di sedute e la quantità didisegni di legge, entrambi sensibilmenteaumentati rispetto al 1900) e ad una compa-razione con la vicenda francese (in cui l’As-semblea nazionale si era data un nuovoregolamento a seguito della riforma eletto-rale del 1951), la necessità di una profondarevisione dei regolamenti parlamentari diinizio secolo, idonea a tutelare i diritti dellamaggioranza e a limitare le forme di ostru-zionismo; riconoscendo, infine, che è que-sta situazione ad essere “una delle cause cheha spinto alla riforma elettorale del 1953” e,al tempo stesso, ad aver contribuito allaeccessiva lunghezza e al carattere accidenta-to del suo iter parlamentare3.
2. Il fascino della continuità regolamentare,in particolare alla Camera
Il fascino della “continuità regolamentare”,che già aveva operato con riguardo alla Con-
Itinerari
120
sulta nazionale e all’Assemblea costituente(F. Bertolini, 2008), non si esaurì all’indo-mani dell’entrata in vigore della nuova cartacostituzionale, permeando di sé anche la Ilegislatura repubblicana. Alle consueteragioni legate alla maggiore legittimazioneche il nuovo Stato avrebbe avuto appoggian-dosi sulle strutture di quello liberale e allacontinuità del personale politico e ammini-strativo, si sommarono motivazioni di ordi-ne politico-istituzionale, che sconsigliaro-no, almeno all’inizio, alle forze politiche diintraprendere un percorso di adeguamen-to dei regolamenti parlamentari alla nuovacarta costituzionale.
Dunque, la Camera dei deputati repub-blicana, pur in assenza di ogni esplicitaindicazione in tal senso – prevista invececon riferimento alla Consulta nazionale eall’Assemblea costituente – nella sua primaseduta, l’8 maggio 1948, diede implicita-mente applicazione al regolamento vigen-te presso la Camera statutaria fino al 1922 enon si pose neanche il problema di qualedovesse essere il regolamento da applicar-si, seppur in modo provvisorio, non pro-cedendo ad alcuna deliberazione relativa-mente alle proprie regole interne: di fattoperciò prescindendo completamente – inquesta fase, ma, come si vedrà, non solo inquesta – dalla norma di cui all’art. 64,primo comma, della Costituzione, ai sensidella quale «ciascuna Camera adotta il pro-prio regolamento a maggioranza assolutadei suoi componenti».
L’atteggiamento della Camera della Ilegislatura repubblicana non risultòcomunque essere molto diverso allorquan-do, nella quarta seduta della legislatura, il 1°giugno 1948, il problema del regolamentosi pose in modo espresso: si registrò, infat-ti, una continuità esplicita e pressoché
assoluta rispetto all’epoca prefascista,discutendosi ed approvandosi “modifica-zioni alle aggiunte al Regolamento delibe-rate nel 1920-22, relative alla istituzione diCommissioni permanenti”.
Le principali modificazioni approvatedalla Camera nelle sedute del 1° e del 4 giu-gno 1948 riguardarono, similmente aquanto già avvenuto in Assemblea Costi-tuente, l’articolazione organizzativa. L’im-pianto della disciplina dei gruppi parla-mentari restò sostanzialmente inalterato,essendosi confermato il limite di 20 depu-tati e la possibilità di derogarvi, «eccezio-nalmente», ove si trattasse di almeno 10deputati e l’Ufficio di Presidenza dellaCamera «riconosca che il Gruppo rappre-senta un partito organizzato nel Paese». Lostesso può dirsi della disciplina delle com-missioni permanenti competenti per mate-ria, essendo rimasto immutato il loronumero complessivo rispetto al 1920 (paria 11), pur con la modifica di alcune denomi-nazioni materiali.
Del resto, non va dimenticato che l’ul-timo presidente della Camera prefascista, euno dei principali ispiratori delle riformeallora deliberate (cfr. N. Valentino, 1989,p. 34 ss.; G. Orsina, 1996, p. 403 ss.; P. Cra-veri, 2002, p. 96 ss.), era colui che avevaappena cessato di essere il primo capo(provvisorio) del nuovo Stato, ossia EnricoDe Nicola; e che il relatore di tali modificheal regolamento della Camera repubblicanafu Gaspare Ambrosini, ossia colui che delle“aggiunte” regolamentari del 1920-22 erastato forse, a suo tempo, il principale stu-dioso (G. Ambrosini, 1921 e 1922).
Bisognò attendere il 1949 per l’appro-vazione, nel febbraio, di un nutrito e signi-ficativo «pacchetto» di modifiche al rego-lamento della Camera e per la predisposi-
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zione, nel novembre, di un intervento di«coordinamento» del vecchio regolamen-to con la nuova carta costituzionale.
In particolare, il 2 febbraio 1949 laGiunta per il regolamento, dopo essersi riu-nita quattro volte (in un’occasione con lapartecipazione dei presidenti delle com-missioni e in un’altra con quella dei presi-denti dei gruppi parlamentari), presentò unnutrito «pacchetto» di modifiche, origina-te – secondo quanto affermava la relazione,sottoscritta ancora da Ambrosini –dall’«esperienza di questo primo periododi attività della nostra Assemblea»4. Quel-lo proposto dalla Giunta per il regolamentocostituiva un «pacchetto» di modifiche dinotevole respiro, originate sì prevalente-mente dalle prime esperienze applicative,nella Camera repubblicana, del regolamen-to prefascista (oltre che da un’esigenza diun migliore coordinamento con l’altro ramodel Parlamento, che nel frattempo si eradotato di un proprio “nuovo” regolamento),ma, forse proprio per questo – le “vere”riforme regolamentari essendo spesso quel-le frutto dell’esperienza –, dirette ad opera-re una razionalizzazione di snodi procedu-rali importanti e delicati, attraverso l’intro-duzione di istituti del diritto parlamentareche qui fecero la loro prima comparsa:destinati a rimanere in vigore, in qualchecaso inalterati, in altri casi con alcuni asse-stamenti, fino ai giorni nostri (si pensiall’abbinamento, alla limitazione dell’esa-me in terza lettura alle sole parti modifica-te, al termine per la presentazione degliemendamenti o anche all’assegnazione insede legislativa dei progetti di legge).
Non può perciò sorprendere che inAssemblea alcune delle proposte avanzatedalla Giunta per il regolamento suscitaronopiù di una perplessità, specie nei deputati
delle sinistre. Ma, soprattutto, l’Assemblearespinse, accogliendo una proposta deldeputato socialista Ferdinando Targetti, laprevisione obbligatoria di un termine (di 24ore rispetto alla votazione dell’articolo cuisono riferiti) per la presentazione degliemendamenti, nonostante che tanto il rela-tore Ambrosini quanto il presidente dellaCamera Gronchi – quest’ultimo sia primache immediatamente dopo la votazione –avessero sottolineato l’utilità di tale previ-sione, diretta a migliorare «la ‘tecnica’ legi-slativa nella elaborazione della legge, per evi-tare la presentazione tumultuosa ed improv-visa di emendamenti che né la Commissio-ne e, direi, neppure la Camera hanno iltempo di valutare convenientemente»5. Sidimostrò così una ritrosia dell’Assemblea adoperare razionalizzazioni di un certo spes-sore che incidessero sul procedimento legi-slativo: ai voti delle opposizioni si sommaro-no, evidentemente, anche quelli di alcunideputati di maggioranza, desiderosi di man-tenere elevati margini di manovra rispettoalle posizioni del Governo e fors’ancherispetto a quelle espresse dal gruppo diappartenenza6.
L’unico intervento di riforma regola-mentare caratterizzato da un approcciocomplessivo fu presentato come «di coor-dinamento» e venne prospettato dallaGiunta per il regolamento in una relazionepresentata il 24 ottobre 19497, in attuazio-ne di un mandato conferitole sei mesiprima, diretto a compiere quattro opera-zioni, ossia: 1) «materiale soppressionedegli articoli concernenti gli aboliti proce-dimenti delle tre letture e degli uffici»,rimasti nel corpus del regolamento del 1900per effetto della mancata novellazione diquest’ultimo nel 1920-22; 2) «modifica-zioni di forma inerenti alla necessità di
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adeguare la dizione di alcuni articoli allenuove istituzioni»; 3) «taluni aggiorna-menti di carattere formale», non meglioindividuati nella delibera di autorizzazio-ne; 4) «inserzione nel Regolamento ditalune disposizioni della Costituzione chesi riferiscono direttamente al funziona-mento delle Camere»8.
La Giunta predispose perciò un testocoordinato del regolamento, ciascun arti-colo del quale era corredato dal riferimen-to ai precedenti articoli o alle aggiunte, conle modifiche derivanti dal coordinamentoopportunamente evidenziate. Le modificheproposte riguardarono 20 articoli (su 146),più due articoli di nuova introduzione (suipoteri dei vicepresidenti di Assemblea e sulbollettino delle commissioni). Come ènaturale, nell’adeguare il testo del regola-mento al dettato costituzionale furonocompiute scelte anche piuttosto rilevanti,delle quali peraltro si ebbe consapevolezzasoprattutto in seguito. Se alcuni coordina-menti furono quasi del tutto «automatici»(si pensi, ad esempio, alla sostituzione deiriferimenti al Re con quelli al Presidentedella Repubblica), altri, invece, erano inrealtà «aperti» a soluzioni diverse: bastifar riferimento alle conseguenze della sop-pressione della sessione; o al computo deitre mesi di intervallo tra le due delibera-zioni ex art. 138 della Costituzione.
Sempre nella relazione si precisò chenel corso del dibattito in Assemblea «è beninteso che si potrà chiedere la parola [...]solo per suggerire – nelle parti che hannoformato oggetto di coordinamento – corre-zioni di forma ovvero per rilevare eventua-li contraddizioni».
Del resto, il passaggio di queste modi-fiche in Aula fu ritenuto, ad avviso dellastessa Giunta –trascurando del tutto il
disposto dell’art. 64 Cost. –, non obbliga-to, ma solamente opportuno: la Giunta, «inbase alla delega esplicita avuta dalla Came-ra», avrebbe potuto considerare definitivoil testo coordinato, ma «per scrupolo didelicatezza» ha ritenuto di sottoporlocomunque in Assemblea9. In effetti, ildibattito che si svolse in Aula fu molto limi-tato e le due modifiche apportate, in acco-glimento di altrettanti emendamenti Tar-getti, furono di carattere esclusivamenteformale, tant’è che neppure si diede luogoe alla loro votazione (procedendosi secon-do la formula «se non vi sono obiezioni [...]così rimane stabilito»); così come non sivotò sul testo coordinato del regolamento(criticamente, A. Manzella, 2003, p. 65).
La discussione in Assemblea si soffermòinvece, e anche piuttosto a lungo, sulle«proposte nuove» presentate dalla Giuntaper il regolamento in calce al testo coordi-nato. Evidentemente, nel corso della com-plessiva «rilettura» del regolamento,erano emerse una serie di questioni, «sug-gerite dall’esperienza e qualcuna da prassigià seguite, nel quadro e nello spirito dellaCostituzione, dai due rami del Parlamen-to»10, ma non risolvibili attraverso lemodifiche consentite in sede di coordina-mento, e perciò sottoposte all’Assembleaper l’esame e l’approvazione11.
In verità, la prima delle proposte formu-late discendeva anch’essa dalla scomparsadella «sessione», ma appariva, evidente-mente, piuttosto delicata, in quanto riguar-dava la durata in carica dell’intero Ufficio dipresidenza (e quindi anche del Presidente):considerato che nel regolamento dellaCamera prefascista la chiusura della sessio-ne comportava la decadenza dell’Ufficio dipresidenza e la necessità di procedere allasua nuova elezione, si pose il problema di
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stabilire quale fosse la durata di questoorgano. La questione fu affrontata con molto«galateo istituzionale»: la Giunta per ilregolamento prese atto della «proposta delsuo presidente di fissare in un biennio» lapermanenza in carica dei membri dell’Uffi-cio di Presidenza, con possibilità di confer-ma, e la formulò all’Assemblea, specifican-do tuttavia che i componenti della Giuntaavevano «tenuto a dichiarare che a ciò addi-venivano unicamente perché l’iniziativa erastata presa dal Presidente»12. In Assemblea,poi, fu il democristiano Dominedò, semprepiuttosto vicino alle posizioni del presiden-te Gronchi nei dibattiti sulle tematicheregolamentari, a formulare una questionesospensiva, in modo da consentire, «in unamateria che tocca, con caratteri di parità oalmeno di analogia, il funzionamento diambedue i rami del Parlamento», di «stu-diare preliminarmente un coordinamentocon il Senato della Repubblica» (ove il rego-lamento del 1948 aveva previsto, seppureimplicitamente, che il Presidente di Assem-blea rimanesse in carica per l’intera legisla-tura). Dopo che l’onorevole Ambrosini, anome della Giunta, si era rimesso sul puntoall’Assemblea, questa approvò la sospensi-va13, in tal modo superando i «pudori» delPresidente Gronchi e ponendo così le pre-messe di quella equiparazione, in fattoprima che in diritto, della durata dell’Uffi-cio di Presidenza della Camera a quella dellalegislatura, che costituisce, da allora in poi,una assai significativa costante – sancita solonel 1971 attraverso una esplicita normaregolamentare – dell’esperienza parlamen-tare repubblicana.
Una questione sospensiva di analogotenore fu approvata dall’Assemblea, subitodopo, pure relativamente ad un altro temadi grande delicatezza, come la disciplina
della Conferenza dei presidenti (poi Con-ferenza dei presidenti dei gruppi o, più sin-teticamente, Conferenza dei capigruppo)14,organo che la Giunta per il regolamentoaveva ugualmente proposto di inserire nelregolamento. In questo caso, la sospensivanon si tradusse in un rinvio sine die, e latematica ritornò all’attenzione dell’Assem-blea quattro mesi dopo, con il consensoanche del gruppo socialista.
Furono invece approvate dall’Assem-blea già nel novembre del 1949 una serie dialtre modifiche, tra cui l’introduzione –come si è visto già tentata, ma senza suc-cesso – dell’obbligo di presentare gli emen-damenti almeno 24 ore prima della discus-sione degli articoli cui si riferiscono; ocomunque, ove sottoscritti da almeno 10deputati, almeno un’ora prima dell’iniziodella seduta (S. Curreri, 1995, p. 215 ss.). Alcontrario, fu esplicitamente respinta unaproposta volta a fissare un limite massimodi durata delle dichiarazioni di voto (laGiunta per il regolamento aveva ipotizzatoun termine di 10 minuti).
Rimase così, nel regolamento vigentefino al 1971, l’assenza di qualsivoglia deli-mitazione temporale per la durata degliinterventi, con la sola eccezione dei dibat-titi espressamente qualificati come “limi-tati” (questioni procedurali; interrogazio-ni e interpellanze). Assenza peraltro alme-no in parte controbilanciata dall’istitutodella chiusura della discussione, “al quale lamaggioranza della Camera poteva fare facil-mente ricorso non appena fosse emersocon chiarezza l’intendimento di una partedi voler prolungare artatamente i tempidella discussione, al fine di impedire digiungere alla deliberazione del provvedi-mento” (S. Traversa, 1983, p. 413 ss.).
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3. La limitata discontinuità nel nuovo regola-mento del Senato
La novità dell’organo “Senato della Repub-blica” impose invece di affrontare diretta-mente ed esplicitamente, sin dalla primaseduta, la questione del suo regolamento,mediante l’adozione – in via provvisoria ecomunque “per quanto possibile” – delregolamento della Camera prefascista.
Ma l’Assemblea passò ben presto ad unampio esame, che si sviluppò nell’arco diben dieci sedute, dal 3 al 18 giugno 1948,della proposta di un nuovo regolamento delSenato elaborata dalla Giunta per il regola-mento (peraltro traendo ispirazione dalregolamento della Camera prefascista), chefu approvata con un voto pressoché plebi-scitario: dei 212 senatori presenti ben 211votarono a favore e uno solo contro, oltre-passandosi così con facilità la maggioranzadella metà più uno dei componenti delSenato (maggioranza pari a 173). Segno evi-dente, questo, della stesura di un regola-mento compiuta, sin dall’inizio, in pienospirito collaborativo e il cui testo risultòidoneo a raccogliere il consenso sostanzial-mente di tutte le forze politiche e di quasitutti i senatori (dei quali, si ricorda, circaun terzo non erano elettivi) presenti nelprimo Senato repubblicano.
Ciò nonostante, il giudizio della dottrinasu tale regolamento tende ad essere piutto-sto svalutativo delle novità in esso introdot-te, tant’è che in genere lo si ritiene sostan-zialmente corrispondente a quello dellaCamera prefascista, che, come si è appenavisto, fu riadottato, con le opportune modi-fiche di coordinamento, nell’altro ramo delParlamento. In questa ottica, si è perciòosservato che il regolamento del Senato«ripeteva con qualche variante talora anche
di rilievo la normativa regolamentare del-l’altro ramo del parlamento» (S. Tosi, 1974,p. 90 ss.); o che «non molte sono le varian-ti, al di là dell’architettura, rispetto alle pro-cedure cui si era già rimodellata la Cameradei deputati» (A. Manzella, 2003, p. 65 ss.).
La stessa architettura dei due regola-menti, del resto, ad un’analisi accurata,appare differenziarsi in modo tutto somma-to piuttosto lieve: “le poche differenzedipendono per lo più dal fatto che, nel testodella camera, le norme imposte dal nuovoassetto costituzionale o mancano del tutto[…] o sono state introdotte col metodo dellanovellazione, mentre nel testo senatoriohanno avuto una propria collocazione […];oppure, più raramente, dal fatto che il sena-to ha posto in essere regolamenti ‘minori’che assorbono completamente la disciplinadettata dalla camera nel regolamento gene-rale e in norme attuative (è il caso della veri-fica dei poteri e della biblioteca); o infinedal fatto di aver collocato al suo posto unadisciplina” che nel regolamento dellaCamera si trovava fuori dall’ordine sistema-tico (come la disciplina del processo verba-le) (G.G. Floridia, 1986, p. 167).
Tale giudizio svalutativo si spiega con lacircostanza che la Giunta per il regolamen-to del Senato, secondo quanto riconobbe lostesso relatore (il social-liberale GiovanniPersico), nel predisporre la propria propo-sta, abbia tratto dichiaratamente ispirazio-ne soprattutto dal regolamento della Came-ra prefascista; del resto, non era neppureimmaginabile che in meno di un mese laGiunta potesse elaborare un testo regola-mentare del tutto originale ed idoneo a svi-luppare appieno il valore innovativo delladisciplina costituzionale.
Tuttavia, non sembra che queste consi-derazioni possano condurre ad una svalu-
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tazione così netta dell’opera di elaborazio-ne e di revisione del regolamento che sisvolse in Senato nel corso della I legislatu-ra repubblicana.
Va anzitutto considerato che il regola-mento del Senato prestò maggiore attenzio-ne allo sviluppo della carta costituzionale,dedicando specifiche discipline al versanteparlamentare di procedimenti “speciali”previsti in Costituzione, quali il riesame dileggi rinviate dal Presidente della Repub-blica, l’esame della questione di merito sulleleggi regionali e il seguito delle sentenze diaccoglimento della Corte costituzionale (sivedano rispettivamente gli artt. 88, 89 e 90del regolamento del Senato).
Inoltre, per effetto delle numerosemodifiche alle proposte presentate dallaGiunta, la disciplina regolamentare delSenato, pur risalente alla medesima matri-ce, si differenziò sin da subito, per alcuniimportanti profili, rispetto a quella tradi-zionalmente propria dell’altro ramo delParlamento: si pensi anzitutto alla diversadisciplina del voto segreto e delle stessemodalità di revisione del regolamento par-lamentare; ma anche all’articolazioneinterna in Giunte e Commissioni e alla pos-sibilità di costituire gruppi “autorizzati”,prevista alla Camera ma negata al Senato(fino al 1977).
Oltre a ciò, nei due regolamenti si rin-vengono alcune differenze nominalistichetrasmessesi poi fino ai giorni nostri: adesempio, il procedimento legislativodecentrato in Commissione assunse ilnome di “sede deliberante” al Senato e di“sede legislativa” alla Camera (si vedanol’art. 40 del regolamento della Camera el’art. 26 del regolamento del Senato); oppu-re, l’esito negativo di una votazione vieneproclamato più bruscamente alla Camera,
la quale “respinge”, ma con maggiore tattoal Senato, il quale “non approva” (cfr. l’art.106 del regolamento della Camera e l’art.84 del regolamento del Senato).
Il punto sicuramente più dibattuto inoccasione dell’approvazione del nuovoregolamento del Senato fu quello relativoalle modalità di votazione. Nell’affrontaretale disciplina si ruppe, infatti, quel climaconsensuale che si è già osservato informa-re tutta l’elaborazione del nuovo regola-mento: si registrò, in proposito, una nettacontrapposizione, sia tra i gruppi di mag-gioranza e i gruppi di opposizione, sia,soprattutto, tra i senatori democristiani, daun lato, e pressoché tutti i restanti, dall’al-tro. E ciò anche per effetto dell’eco dellevicende politicamente più significative diquelle stesse settimane: vale a dire, per unverso, la mancata compattezza del gruppodemocristiano nel supportare il candidatoalla Presidenza della Repubblica originaria-mente indicato da De Gasperi, Carlo Sforza,che condusse lo stesso De Gasperi a punta-re poi, pur senza richiedere l’accordo dellesinistre, su Luigi Einaudi (G. Baget Bozzo,1954, p. 229 ss.; A. Baldassarre-C. Mezza-notte, 1985, p. 39 ss.); per altro verso, lalunga gestazione del quinto governo DeGasperi (maggio 1948-gennaio 1950), che,benché la democrazia cristiana disponessedella maggioranza assoluta alla Camera,vedeva una composizione quasi paritaria delGabinetto, con undici ministri democristia-ni e nove laici (P. Calandra, 1996, p. 63 ss.).
Nel silenzio serbato sul tema dalla nuovacarta costituzionale, la Giunta per il regola-mento, seppure dopo una (come si è accen-nato, assai rara) votazione a maggioranza,aveva infatti proposto di ribadire nel rego-lamento del Senato quanto stabilito dall’art.63 dello statuto albertino: e cioè che doves-
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sero avere obbligatoriamente luogo a scru-tinio segreto le votazioni finali di ogni pro-getto di legge (conformemente a quantodisponeva l’art. 97 del regolamento dellaCamera prefascista), così come tutte levotazioni riguardanti persone15; per il resto,nel testo trasmesso all’Assemblea nonveniva neppure ipotizzata la possibilità divotazioni segrete ‘a richiesta’, stabilendosiche «le altre votazioni si fanno per alzata eseduta, a meno che quindici senatori chie-dano la votazione per divisione o venti lavotazione per appello nominale. Nel con-corso di diverse domande, prevale quellaper l’appello nominale»16.
L’Assemblea, dopo una vivace discus-sione sul punto, in un primo momento –con votazione svoltasi a scrutinio segreto econclusasi con uno scarto di appena undi-ci voti17 – approvò un emendamento aprima firma del senatore democristianoAntonio Boggiano Pico, con il quale si sop-presse l’obbligatorietà del voto segretonella votazione finale dei progetti di legge,ma che era diretto, in sostanza, a sancire ilpressoché completo abbandono dello scru-tinio segreto (salvo che per le sole votazio-ni riguardanti persone).
Quella compiuta dall’Assemblea delSenato fu, evidentemente, una scelta cheandava a tutela della compattezza dellamaggioranza di governo e che vide schie-rati – per quanto è possibile ricostruire –,da una parte, i senatori democristiani e,dall’altra, i senatori delle opposizioni, cui sisommarono una cospicua parte dei senato-ri appartenenti a partiti alleati alla DC.
Il giorno successivo, a seguito di unarimeditazione della questione, la Giuntaper il regolamento giunse ad una riformu-lazione dei restanti commi dell’art. 73 delprogetto, alla luce dei quali il voto segreto
restava possibile su richiesta, ma, in casodi concorso con una richiesta di voto perappello nominale, doveva essere quest’ul-tima a prevalere. Tuttavia, la proposta dellaGiunta non passò, in quanto fu approvato,a scrutinio segreto e con uno scarto di appe-na dodici voti, un emendamento, a primafirma del comunista Mario Palermo, diret-to invece ad affermare la prevalenza dellarichiesta dello scrutinio segreto18.
Che una spaccatura siffatta – solo par-zialmente ricomposta, a posteriori, attraver-so una soluzione in qualche modo compro-missoria, emersa però in esito a due vota-zioni a scrutinio segreto risoltesi a vantag-gio di schieramenti opposti, in entrambi icasi per margini piuttosto stretti – si siaregistrata in Senato sul tema del voto segre-to non può sorprendere più di tanto: già inseno alla Consulta nazionale (a parti inver-tite: A. Mannino, 1999, p. 99 ss.) e nellastessa Assemblea Costituente, in sede dielaborazione del testo costituzionale (A.Casu, 1986, p. 562 ss.), si era avvertita ladelicatezza della questione ai fini della con-figurazione dei rapporti tra maggioranza eopposizione e tra parlamento e governo,nonché ai fini dell’assetto delle relazionitra singoli parlamentari e gruppi di appar-tenzenza e di quelle tra questi ultimi e i par-titi di riferimento, oltre che tra gli stessiparlamentari e gli elettori. La scelta, com-piuta a maggioranza dall’Assemblea Costi-tuente, di sopprimere nell’art. 72 dellaCostituzione il riferimento alla votazionefinale «a scrutinio segreto» – presenteinvece nel testo dell’art. 69 del progetto diCostituzione – e di rimettere perciò inte-gralmente la questione ai regolamenti par-lamentari, lasciava in qualche modo a talifonti una ‘patata bollente’: ossia l’arduocompito di disciplinare, anche a seconda
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dei rapporti di forza derivanti dalle elezio-ni politiche del 1948, una questione che nelprecedente ordinamento era invece ogget-to di un preciso vincolo costituzionale, risa-lente alla tradizione costituzionale france-se ed italiana degli ultimi anni del Sette-cento e espressamente violato dal regimefascista, in occasione dell’istituzione dellaCamera dei fasci e delle corporazioni19.
Piuttosto, quello che va segnalato è ilfatto che i gruppi parlamentari alleati con lademocrazia cristiana, sin dal giorno suc-cessivo alla prima votazione della mozionedi fiducia al governo De Gasperi, avesseropiena consapevolezza della necessità delvoto segreto per poter rendere più incisivala propria collocazione nella maggioranzagovernativa e per accrescere così la propriavisibilità di forze politiche: in nome di que-sto obiettivo, non ebbero pressoché alcunaesitazione a sacrificare quel deciso raffor-zamento della tenuta del governo in parla-mento che la limitazione del voto segretonaturalmente avrebbe originato. Del votosegreto, poi, come è noto, finiranno pergiovarsi intensamente anche le correntidella democrazia cristiana, “consentendoad una o più di esse di unirsi occultamentenel voto all’opposizione e di rovesciaregoverni cui si assicurava in sede ufficiale ilsostegno” (L. Elia, 1984, p. 267). Nonoccorre invece soffermarsi oltre per com-prendere il revirement compiuto dalle oppo-sizioni nel senso di difendere tale strumen-to: come è stato osservato, “il funziona-mento del sistema di governo in Italia,‘bloccato’ dal difetto di alternanza tra diver-si schieramenti di partiti (o tra i maggioripartito di massa), sembra fatto apposta per-ché l’opposizione sia portata a dare signi-ficato più positivo che negativo alla segre-tezza del voto” (L. Elia, 1984, p. 268 ss.).
Alla luce di ciò, non sorprende che allaCamera, come si è rilevato, la questionedelle modalità di votazione non fu maiaffrontata, né che la disciplina provvisoria-mente mutuata dal regolamento prefascista,contenente – in conformità con l’ormaisuperato disposto statutario, ma non con lascelta dell’Assemblea Costituente, cheavrebbe richiesto almeno un’esplicita solu-zione della questione, in un senso o nell’al-tro – l’obbligo dello scrutinio segreto nellavotazione finale dei progetti di legge, siarimasta in vigore, insieme alla prevalenza ditale forma di scrutinio sulle altre, fino al1988, e in qualche misura abbia costituito ilsimbolo dell’equilibrio precario su cui sisono retti tutti i governi succedutisi fino adallora. E anche al Senato, benché non obbli-gatorio (salvo che per le votazioni riguar-danti persone), il voto segreto verrà comun-que richiesto, nella prassi, con una certafrequenza: ovviamente soprattutto in queicasi in cui le opposizioni, avvalendosi dialleanze (più o meno occulte) con frangedella maggioranza di governo, intenderan-no mettere in difficoltà l’esecutivo; oppureladdove allo scontro ideologico si sovrap-porranno cleavages diversi, e più occulti, indipendenza della tutela di interessi setto-riali o territoriali.
Sta di fatto che proprio quanto accadu-to al Senato dimostra che la scelta di man-tenere, nell’altro ramo del parlamento, laregola del voto finale a scrutinio segreto,lungi dal rappresentare “un residuo trala-ticio della tradizione statutaria” o il “fruttodi una scelta irriflessiva da parte delle forzepolitiche”, costituì l’esito di una consape-vole, seppure implicita, decisione, di gran-de importanza al fine di delineare il puntodi equilibrio tra singoli parlamentari egruppi di appartenenza, tra maggioranza e
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opposizione, tra parlamento e governo,nonché, infine, tra rappresentanti e rap-presentati (S. Curreri, 2001, p. 527 ss.).
4. I successivi tentativi di modifica regolamen-tare e i loro diversi esiti, determinati dall’op-posta interpretazione dell’art. 64 Cost.
Ulteriori differenziazioni derivarono poidalle modifiche successivamente apporta-te ai due regolamenti, sempre nel corsodella I legislatura. Benché una parte di essefosse stata – correttamente– preceduta daun lavoro istruttorio svolto insieme dalledue Giunte per il regolamento, il loro desti-no si diversificò in modo sensibile: allaCamera, come si è accennato, si mise manoa riforme regolamentari anche piuttostoincisive, relativamente a momenti-chiavequali la programmazione dei lavori (conl’istituzione della Conferenza dei presiden-ti, presto trasformatasi, di fatto, in Confe-renza dei capigruppo), il procedimentolegislativo (con la disciplina della sederedigente), la procedura di revisione costi-tuzionale e le prerogative parlamentari (conl’istituzione della Giunta per le autorizza-zioni a procedere); al Senato, invece, simantenne sostanzialmente inalterato iltesto adottato nel 1948.
Ciò fu dovuto, in realtà, al fatto che alSenato, per effetto di una lettura assai piùrigorosa del quorum richiesto dall’art. 64Cost., le modifiche regolamentari poteva-no avere luogo solo con un consenso assaivasto. Il Senato decise, infatti, sin dall’ini-zio di dare un’attuazione rigorosa al dispo-sto costituzionale, richiedendo la maggio-ranza assoluta sia sulla votazione finale delnuovo regolamento, sia sulle sue singole
modifiche. Alcune di queste, in effetti, purlicenziate con ampio consenso dalla Giun-ta per il regolamento, risultarono poi a sor-presa bocciate dall’Assemblea: per esem-pio, il 1° febbraio 1950 fu bocciata, con 131voti a favore (ben al di sotto della maggio-ranza dei componenti, pari a 170), una pro-posta della Giunta per il regolamento diret-ta a disciplinare l’abbinamento dei proget-ti di legge e ad assicurare forme di coordi-namento tra i due rami del Parlamento incaso di presentazione progetti di legge rela-tivi alla stessa materia20; nel novembre del1950 fu invece accantonata la propostadiretta ad istituire una Giunta per le auto-rizzazioni a procedere21.
Tale rigore fu attenuato soltanto nel 1971,richiedendosi la verifica automatica dellamaggioranza assoluta unicamente per l’ap-provazione finale di un complesso organicodi modifiche al regolamento (suscettibile distralcio a richiesta di otto senatori: in talcaso, la maggioranza assoluta è richiesta “perl’approvazione di ciascuna parte stralciata”,secondo quel che dispone l’art. 167, comma6, del regolamento del Senato).
Alla Camera si è seguito invece il per-corso esattamente opposto, per giungereperaltro, a partire dal 1990, ad un punto diapprodo simile a quello del Senato. Pereffetto della già ricordata riadozione delregolamento prefascista, infatti, la Cameranon si era nemmeno posta il problema del-l’attuazione da dare all’art. 64, primocomma, Cost.: tutte le delibere relative alregolamento, sia quelle rivolte ad appor-tarvi singole modifiche, sia quelle direttead autorizzare la Giunta per il regolamentoa predisporre un testo coordinato, eranoperciò state assunte con modalità tali danon far risultare né la sussistenza delnumero legale, né tanto meno il supera-
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mento del quorum aggravato richiesto dal-l’art. 64 Cost. Anzi, nell’unica occasione incui si era avuta una votazione a scrutiniosegreto per l’approvazione di una dellemodifiche regolamentari del febbraio1949, dall’esito di questa si evince in modochiaro il mancato rispetto del requisito sta-bilito dalla carta costituzionale22.
Quando la questione fu sollevata, per laprima volta, da Palmiro Togliatti nellaseduta del 17 marzo 1950, in occasione dellavotazione di una modifica diretta ad aggra-vare le sanzioni nei confronti dei deputati,il presidente della Camera Gronchi dovet-te “arrampicarsi sugli specchi”: in un primomomento provò a sostenere che tale quo-rum fosse richiesto solo per l’adozione diun nuovo regolamento, e non anche per lesue modifiche; poi, sulla base delle criticherivoltegli anche dai democristiani Dosset-ti e Ambrosini, concorse all’individuazio-ne di una soluzione di compromesso, con-sistente nell’inserimeno nel regolamento(all’art. 15) di una disposizione ai sensidella quale le modifiche regolamentariavrebbero dovuto “essere adottate a mag-gioranza assoluta dei componenti qualora,prima dell’inizio della discussione, lorichiedano il presidente di un gruppo par-lamentare o dieci deputati”23. Si estendevacosì, in pratica, alla sussistenza del quorumdella maggioranza assoluta il criterio, giàprevisto da quel regolamento, della presun-zione, salvo richiesta di verifica, della sus-sistenza del numero legale di cui all’art. 64,terzo comma, Cost.
Questa soluzione, su cui si registrò ilconsenso di tutte le forze politiche (R.Astraldi-F. Cosentino, 1950, p. 2 dell’ad-dendum), fu oggetto di dure critiche in dot-trina (avanzate con particolare efficacia daS. Tosi, 1959 e 1974), ma fu comunque con-
fermata nello stesso regolamento del 1971.Essa è stata superata soltanto con la revi-sione dell’art. 16 r.C. avvenuta il 28 febbra-io 1990, la quale – non molto diversamen-te da quanto si è visto disporre il vigenteregolamento del Senato – ha stabilito chela maggioranza assoluta occorra per il votofinale del testo della Giunta per il regola-mento (e non quindi per gli emendamentiad essa riferiti) e che la sussistenza di talequorum sia in questa ipotesi accertata auto-maticamente attraverso votazione nomina-le, anche quando non sia stata richiesta unavotazione qualificata.
5. Il contrasto interpretativo tra Ungari e Man-zella: la continuità regolamentare come ragio-ne di forza del parlamento repubblicano o come“scelta catastrofica”?
Sulle ragioni e sugli effetti della scelta insenso continuista, compiuta dalla Camera e,seppure con minore nettezza, anche dalSenato, le opinioni di due tra i maggiori stu-diosi dell’esperienza parlamentare repub-blicana risultano tra loro non poco diversi-ficate, se non radicalmente contrapposte.
Una valutazione in senso decisamentefavorevole al percorso seguito dalle primeCamere repubblicane è proposta, nel suoProfilo storico del diritto parlamentare in Ita-lia, elaborato proprio sul finire degli anni’60, in coincidenza con la fase di prepara-zione dei nuovi regolamenti parlamentari,da Paolo Ungari: egli ritiene che «il meto-do dei cauti e progressivi innesti sul tron-co del regolamento del 1900» abbia pro-dotto «fertili frutti consentendo speri-mentazioni e flessibili innovazioni» e abbiacosì dato origine ad una “ricca e autorevo-
Itinerari
130
le tradizione parlamentare” (P. Ungari,1968, p. 94 ss.; Id., 1971, p. 136 ss.).
Sulla stessa lunghezza d’onda sembracollocarsi un’altra dottrina, ad avviso dellaquale “l’adozione del regolamento prefasci-sta fu comunque per la camera una decisio-ne, se non quasi obbligata, almeno natura-le e spontanea”: sarebbe, perciò, statoeccessivo pretendere che, già all’indomanidell’entrata in vigore della carta costituzio-nale, potesse realizzarsi una riflessioneapprofondita sulle divergenze esistenti conlo statuto albertino e, in particolare, “sul-l’influenza che tali divergenze avrebberodovuto esercitare sulla disciplina organiz-zativa e funzionale dei nuovi organi rappre-sentativi” (A. Mannino, 1999, p. 115 ss.). E,sempre con valutazione a posteriori, si è rile-vato che le norme del regolamento prefa-scista “ben si prestavano ad assicurare aipartiti esclusi dall’area di governo una posi-zione in Parlamento che li mettesse al ripa-ro da un’ulteriore emarginazione”; consen-tendo, anzi, “l’utilizzazione di quelle regoledi garanzia non tanto o soltanto in funzionedi contrasto della maggioranza, ma soprat-tutto in funzione di compartecipazione alledecisioni sui diversi versanti dell’attivitàparlamentare” (P. Caretti, 2001, p. 593 ss.).
All’opposto, Andrea Manzella ha giudi-cato molto severamente la scelta di riadot-tare, nel 1948, “come se nel frattempo nonfosse successo quasi niente”, i vecchi rego-lamenti parlamentari del 1922, ispirati aduna “concezione atomistica del Parlamen-to”, che sottovaluta la rilevanza dei gruppie delle dinamiche tra maggioranza e oppo-sizione (A. Manzella, 1969, p. 43 ss.). Taleautore ha qualificato come “catastrofica”quella decisione (A. Manzella, 1981, p. 143),ricordando, tra l’altro, che proprio l’asset-to normativo parlamentare «era stato fra le
cause di quella debolezza istituzionale deigoverni, a cui era anche dovuto l’avventodel fascismo»; e rilevando come tale scel-ta abbia fatto sì che nel periodo che va dal1948 al 1971, per la prima volta nella storiad’Italia, il diritto parlamentare si sia trova-to ad essere, contrariamente a quel cheaccadeva in epoca statutaria, «alla retro-guardia del diritto costituzionale» (A.Manzella, 2003, p. 64 ss.).
Peraltro, Manzella, nel farsi carico diricercare le ragioni di una tale scelta, leindividua sia in fattori di tipo storico-cul-turali (la prevalenza dell’interpretazioneparentetica del fascismo, diretta a consoli-dare la democrazia italiana), sia in fattoridi ordine politico (la necessità di assicura-re la funzione compromissoria del parla-mento, in un contesto di «democraziabloccata»). Secondo tale autore, infatti, perun verso, “l’idea della continuità del regi-me parlamentare liberale che ‘vince’ sullarottura, sulla ‘parentesi’ del fascismo, comedoveva teorizzare Benedetto Croce, è unaidea-forza di quegli anni che vedevano laripresa e l’inizio del consolidamento dellademocrazia in Italia” (A. Manzella, 2003,p. 65; G. Amato, 1973, p. 93 ss.; sugli effet-ti perversi dell’interpretazione parenteti-ca, cfr. E. Gianfrancesco, 2008); per altroverso, “l’insediamento parlamentare diun’opposizione senza vicine speranze d’al-ternativa doveva essere gelosamente custo-dito con tutti gli istituti del vecchio parla-mento ottocentesco, compresa la suprema‘garanzia ostruzionistica’” (A. Manzella,2003, p. 69).
Si tratta, in definitiva, di fattori in largaparte analoghi a quelli che ostacolavano, suun piano più generale, una tempestivaattuazione della seconda parte del testocostituzionale, relativamente ad altri aspet-
Lupo
131
Itinerari
132
ti non poco innovativi sul piano istituziona-le (M. D’Antonio, 1978, p. 107; A. Pizzorus-so, 1995, p. 119 ss.; G. Rolla, 2000, p. 597),e che condussero, durante la prima legisla-tura repubblicana, a porre in essere quellache è stata provocatoriamente qualificatacome «la restaurazione dello stato di tipogiolittiano» (A. Predieri, 1975, p. 25 ss.);o, come con maggior precisione si è rileva-to, del quadro istituzionale dello Stato ita-liano del primo dopoguerra (E. Rotelli,1981, p. 100).
La questione, in definitiva e per dirla inuna sola necessariamente semplificantebattuta, è se possa estendersi anche ai rego-lamenti parlamentari il ripensamento cri-tico che Giulio Andreotti, negli anni ’70, hamosso nei confronti dell’azione degaspe-riana di quel periodo: secondo tale valuta-zione, operata ovviamente “con il senno dipoi”, il limite dell’azione di De Gaspericonsisterebbe nel “non avere spinto perl’attuazione piena della Costituzionedurante la prima legislatura repubblicana”,perché, se così fosse avvenuto, “il corsodella nostra storia nazionale avrebbe avutouna minore fragilità” (G. Andreotti, 1977, p.167). Quel che pare certo, alla luce dell’ana-lisi fin qui condotta, è che molte dellecaratteristiche che sono state proprie del-l’esperienza parlamentare repubblicana,almeno fino alla fine degli anni ’80, trova-no la loro origine in scelte (o in “non scel-te”) che furono compiute non solo dall’As-semblea costituente in occasione della ste-sura della carta costituzionale, ma anche daCamera e Senato negli anni immediata-mente successivi, quando si trattò di anda-re a definire le norme e le prassi destinatea regolamentare l’attività parlamentare.
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Lupo
133
Itinerari
134
1 Nella I legislatura si succedono
infatti tre governi De Gasperi, sup-
portati da diverse coalizioni: il
primo (quinto governo De Gaspe-
ri: 23 maggio 1948-12 gennaio
1950) è un quadripartito; il secon-
do, dopo l’uscita dei liberali, è un
tripartito (sesto governo De Gaspe-
ri: 27 gennaio 1950-16 luglio 1951);
il terzo, dopo l’uscita anche dei
socialdemocratici, è un bipartito
(settimo governo De Gasperi: 26
luglio 1951-29 giugno 1953). 2 La segreteria della democrazia cri-
stiana, nel corso della I legislatura,
non è mai affidata a De Gasperi: la
carica è infatti ricoperta prima da
Attilio Piccioni, poi da Giuseppe
Cappi, quindi da Paolo Emilio
Taviani e infine da Guido Gonella
(G. Galli, 1993, spec. p. 65 ss.; cfr.
A. Pizzorusso, 1995, p. 133).3 Cfr. l’intrervento di De Gasperi
letto al congresso nazionale della
DC a Napoli, il 27 giugno 1954 (in
www.degasperi.net). 4 A.C., I legislatura, doc. I, n. 3, pre-
sentata il 2 febbraio 1949. 5 Cfr. il presidente della Camera
Gronchi in A.C., I legislatura, res.
sten., 11 febbraio 1949, p. 6255 ss.
e 6259 ss.6 Va infatti segnalato che per l’appro-
vazione delle modifiche regola-
mentari in questione era conside-
rata sufficiente, nonostante il
disposto dell’art. 64, primo
comma, Cost. la sussistenza della
maggioranza semplice: cfr. infra, il
par. 4.7 A.C., I legislatura, doc. I, n. 5, pre-
sentata il 24 ottobre 1949. Si noti
che, trattandosi di mero coordina-
mento, in questo caso non compa-
re neanche la figura del relatore: è,
comunque, l’onorevole Ambrosini
ad assumersi, di fatto, sia l’onere di
esporre i criteri informatori del
coordinamento, sia quello di espri-
mere l’opinione della Giunta per il
regolamento nel corso dei lavori
dell’Assemblea (A.C., I legislatura,
res. sten., 14 novembre 1947, p.
13361 ss.).8 Le espressioni virgolettate sono
tratte da A.C., I legislatura, res.
sten., 27 aprile 1949, p. 8174.9 Le espressioni virgolettate sono
tratte dall’intervento dell’onorevo-
le Ambrosini in A.C., I legislatura,
res. sten., 14 novembre 1947, p.
13361 ss.10 Cfr. A.C., I legislatura, doc. I, n. 5,
p. 1.11 Del resto, già nella seduta del 27
aprile 1947, subito dopo l’approva-
zione dell’autorizzazione al coordi-
namento, il presidente Gronchi
precisò che tale autorizzazione
«non preclude la possibilità di
altre modifiche che man mano si
potranno rendere necessarie e che
saranno sottoposte, previo esame
della Giunta del regolamento,
all’Assemblea»: cfr. A.C., I legisla-
tura, res. sten., 27 aprile 1949, p.
8174 ss.12 Cfr. A.C., I legislatura, doc. I, n. 5,
presentata il 24 ottobre 1949, p. 29.
Analoga soluzione, del rinnovo
biennale con possibilità di confer-
ma, è stata poi adottata, con revi-
sione regolamentare approvata il 3
dicembre 1965 (e poi confermata
dal regolamento del 1971), con rife-
rimento ai componenti delle Com-
missioni permanenti, e ai loro
Uffici di presidenza, in preceden-
za vigendo invece la regola del rin-
novo annuale (V. Longi-M. Stra-
macci, 1968, p. 79 ss.).13 Cfr. A.C., I legislatura, res. sten., 14
novembre 1949, p. 13364.14 In realtà, la denominazione di
«Conferenza dei presidenti dei
gruppi» non compare in tale disci-
plina, nella quale si configurò inve-
ce una «Conferenza dei presiden-
ti»: ossia una riunione, convocata
dal Presidente di Assemblea spon-
taneamente o dietro delibera del-
l’Assemblea, dei Vicepresidenti,
dei Presidenti delle Commissioni
e dei Presidenti dei gruppi dell’As-
semblea, diretta ad «esaminare
l’ordine dei lavori dell’Assemblea»
o ad «organizzare la discussione»,
stabilendo «l’ordine degli inter-
venti nonché il numero e la data
delle sedute necessarie». Tuttavia,
a tale denominazione (o a quella,
più sintetica, di «Conferenza dei
capigruppo») si fece ricorso sin da
subito nella prassi, prima che essa
fosse codificata nei regolamenti di
Camera e Senato, nel 1971 (cfr. E.
Zampetti, 1969, p. 664).15 A.S., I legislatura, doc. I, n. 1, p. 3.
Nella relazione, si riferì che la
Giunta per il regolamento aveva
respinto, appunto, a maggioranza,
la proposta volta a consentire che
venticinque senatori potessero
chiedere l’appello nominale per la
votazione finale dei progetti di
legge.16 A.S., I legislatura, doc. I, n. 1, p. 25
ss. Al contrario, il regolamento
della Camera prefascista, pur
aprendosi anch’esso con l’afferma-
zione per cui «il voto finale sulle
proposte di legge si dà a scrutinio
segreto», riconosceva poi anche la
possibilità di voti segreti ‘a richie-
sta’, su iniziativa di venti deputati,
stabilendo che «nel concorso di
diverse domande, quella dello
scrutinio segreto prevale su tutte le
altre; quella dell’appello nominale
[su iniziativa di quindici deputati]
prevale sulla domanda di votazione
per divisione dell’Aula [su inizia-
tiva di dieci deputati]».17 E cioè: 225 senatori votanti (mag-
gioranza 113); 124 voti favorevoli e
101 contrari (A.S., I legislatura, res.
sten., 15 giugno 1948, p. 248).18 253 senatori votanti (maggioranza
127); 139 voti favorevoli e 114 con-
trari (A.S., I legislatura, res. sten.,
17 giugno 1948, p. 312): cfr. A. Casu,
1986, p. 567 ss. 19 Si veda, infatti, l’art. 15, ultimo
comma, della legge 19 gennaio
1939, n. 129 (su cui cfr. P. Ungari,
1971, p. 122 ss. e E. Gianfrancesco,
2008).20 A.S., I legislatura, res. sten., 1° feb-
braio 1950, p. 13233 ss.21 Cfr. A.S., I legislatura, res. sten., 17
novembre 1950, p. 20863 ss.22 Cfr. A.C., I legislatura, res. sten., 10
febbraio 1949, p. 6230 ss.23 A.C., I legislatura, res. sten., 24
marzo 1950, p. 16513 ss.
135
Parecchi anni fa, studiando la nostra formadi governo, giungevo alla conclusione che laCostituzione del ’48, dopo aver optato per un“parlamentarismo di tipo nuovo” e fissatouna sorta di “doppio comando” del sistema,suddividendolo fra Parlamento e Governo,aveva lasciato al gioco delle maggioranze par-lamentari, e quindi dei partiti, il compito dipuntualizzare i termini della suddivisione,utilizzando all’uopo la modifica della nor-mativa elettorale e dei Regolamenti parla-mentari. Il che d’altronde ha consentito, aCostituzione invariata, ossia restando fermoil regime parlamentare, una significativaevoluzione di questo attraverso varie fasi,collegate all’andamento dei rapporti fra ipartiti conseguente ai risultati elettorali. Ecertamente quella provocata dai Regolamen-ti del 1971 è stata una svolta nel modello diparlamentarismo fino ad allora realizzatosida noi in base per l’appunto, ad ormai supe-rati equilibri partitici.
In effetti, a partire dalla terza legislatura(1958) si apre una fase politica nuova, duran-te la quale la maggioranza centrista, fino adallora al potere, entra in crisi assieme alla
c.d. “democrazia bloccata” (da superare –come ha testé ricordato P. Caretti – median-te la legittimazione reciproca di tutte le forzepolitiche); crisi dovuta non solo all’aumentodei voti delle sinistre, ma soprattutto all’at-tenuarsi della compattezza democristiana fragli eredi di De Gasperi. Accade così che ilrapporto Parlamento/Governo comincia amodificarsi sia nel senso dell’acquisto dimaggiori spazi di decisione da parte del Par-lamento, sia dell’affievolirsi della capacitàdirettiva del Governo; al quale adesso, perl’accennato mutamento del quadro politico,nuoce anche la mancata attuazione del rior-dinamento della Presidenza del Consiglio edei Ministeri di cui all’art.95, u. c., dellaCostituzione, col conseguente perdurare diun’obsoleta normativa sull’attività governa-tiva: per cui le premesse di un Governo “eva-nescente” che quella mancata attuazionecomporta vengono progressivamente a con-cretizzarsi. Ciò peraltro accontenta in qual-che misura le sinistre, escluse in linea diprincipio dal Governo – per via della c.d. con-ventio ad excludendum – sebbene in crescitaelettorale, le quali riescono così a partecipa-
I regolamenti del 1971
carlo chimenti
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
re alle decisioni che il Parlamento è chiama-to a prendere assieme al Governo; ma facomodo anche alla maggioranza parlamenta-re, che può cominciare ad articolare il pro-prio appoggio al Governo, differenziandoloda caso a caso, ed allo stesso Governo che dalsia pure occasionale sostegno della sinistra inParlamento guadagna consenso sociale.
Il fenomeno si accentua nelle legislaturedel centro sinistra (IV,V,VI, dal ’63 al ’76),caratterizzate dal ritorno dei socialisti alGoverno che, se certo allarga numericamen-te la maggioranza parlamentare, tuttavia larende ancor meno compatta di prima, men-tre il PCI – di cui la perdurante esclusione dalGoverno (nonostante che i vecchi connotatiantisistema vadano impallidendo) non arre-sta la crescita – aumenta la propria capacitàdi condizionare l’attuazione dei progettigovernativi attraverso il negoziato parlamen-tare. Ed è un fenomeno che appare partico-larmente visibile in materia di spesa pubbli-ca, la quale dalla metà degli anni ’60 comin-cia a crescere più delle entrate proprio inconseguenza del simultaneo aumento delladomanda di interventi pubblici (per dare ai
cittadini nuovi servizi e per fronteggiare larecessione economica) e della disomogenei-tà della maggioranza governativa (Meschino1991). Ad un certo punto, nel ’71, l’assettofluido del rapporto Parlamento/Governosbocca in una riforma dei Regolamenti par-lamentari – caldeggiata soprattutto dal PCI,ma che vede ampiamente d’accordo anche lamaggioranza governativa, ormai riluttante ariconoscersi pienamente nel Governo (comeinvece era accaduto nelle prime legislature,grazie alla soverchiante paura del comuni-smo) –; riforma che avrebbe dovuto sanzio-nare il riequilibrio dei poteri fra Parlamen-to e Governo nei termini di un Parlamento“decisionale” e di un Governo “esecutivo”,ossia nei termini allora in voga della “centra-lità” (effettiva e non meramente topografi-ca) delle Camere. Si tratta in pratica delprimo tentativo di puntualizzare, in ossequioalla Costituzione, il doppio comando delsistema (anche se col difetto di dire quasinulla riguardo al Governo) favorendo altempo stesso il processo di legittimazionereciproca delle forze politiche nella sedeparlamentare, in cui le discriminazioni sonoin via di principio inammissibili.
Conviene pertanto precisare che prima-ria finalità di tale riforma fu quella di far pas-sare il Parlamento da un ruolo debole e ten-denzialmente “ratificatorio” nelle istituzio-ni, quale aveva rivestito soprattutto nelleprime due legislature, ad un ruolo forte, ocentrale: e la programmazione dei lavori,l’apertura delle Camere ad acquisizioni diconoscenze all’infuori dei canali governati-vi, il raccordo di esse con altri apparati isti-tuzionali interni, a cominciare dalle Regioni,e internazionali come la Comunità europeasono i punti in cui meglio si manifesta l’an-zidetta finalità. E che d’altra parte, il mezzoprincipale per ottenere quella finalità fu la
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Discorso inaugurale della V Legislatura repubblicana del
Presidente della Camera Sandro Pertini.
valorizzazione delle Commissioni come cen-tri idonei a sviluppare, attraverso appositeprocedure, le funzioni parlamentari nonlegislative, fino ad allora colpevolmenteneglette. Fu cioè il passaggio dal Parlamentoin Assemblea al Parlamento in Commissio-ne. Ed ecco perciò introdotto nei Regola-menti parlamentari l’istituto della “risolu-zione” che, affiancandosi ai poteri legislati-vi già intestati dalla Costituzione alle Com-missioni, riconosce a queste la capacità dideliberare direttamente indirizzi politici emisure di controllo, anche se naturalmentecon accorgimenti (e cioè la possibilità della“rimessione” all’Assemblea delle delibereadottate in Commissione) capaci di salva-guardare la titolarità assembleare di questefunzioni (Mazzoni Honorati 2001). Se si con-sidera che in questo modo le sedi abilitate adesprimere la volontà delle Camere in camponon legislativo da due che erano aumentanoa ventisei (per parlare delle sole Commissio-ni permanenti, che salgono a quattordici allaCamera e a dodici al Senato), si ha la misuradi quel che significa il passaggio dal Parla-mento in Assemblea al Parlamento in Com-missione. E non è tutto, perché oltre a diven-tare i centri naturali di svolgimento dellamassima parte dell’attività di indirizzo e con-trollo, le Commissioni divengono altresì lesedi principali dell’intera attività conosciti-va. Ed è attraverso di esse che le Camere pos-sono stabilire altresì un collegamento conti-nuativo con alcuni dei più rilevanti organismiistituzionali esterni al raccordo Parlamen-to/Governo (come le Regioni, la Corte Costi-tuzionale, la Corte dei Conti), con centri ope-rativi rilevanti come la RAI e le partecipazio-ni statali, e con la Comunità europea.
Bisogna quindi convenire, pur non sot-tovalutando affatto la portata delle altreinnovazioni contemporaneamente introdot-
te nell’ordinamento parlamentare (comequelle relative allo svolgimento delle discus-sioni), che la chiave di volta della riformaregolamentare del ’71 sta nella valorizzazio-ne delle Commissioni e nella rottura dellaversione tradizionale che ne faceva, all’in-fuori della funzione legislativa, sedi esclusi-vamente preparatorie per l’eventuale (esempre più problematico, visto il carico cre-scente dell’attività legislativa) esercizio dellealtre funzioni parlamentari da parte delleAssemblee. Rottura che viene compiutaanche nei confronti della concezione “bigot-ta” del bicameralismo strutturale – quellache, considerando il Parlamento essenzial-mente una macchina per fare le leggi, vedenel procedimento legislativo (in cui è pre-scritta la “separazione” delle Camere) ilmodello di tutte le sue deliberazioni –mediante la previsione della possibilità diistituire Commissioni bicamerali (o inter-camerali), dove deputati e senatori lavoranoinsieme. Il cui trasparente scopo è di con-sentire alle due Camere di coordinarsi for-mando organismi unitari non solo a livelloistruttorio, ma anche deliberativo (eccettua-te, naturalmente le deliberazioni legislative)per la trattazione di materie di particolarerilievo; organismi peraltro collegabili conciascuna Camera, al fine di lasciare aperta, asalvaguardia del bicameralismo strutturale,l’eventualità di deliberazioni separate. Unastrada dunque – quella della valorizzazionedelle Commissioni – al termine della qualepareva profilarsi abbastanza chiaro un Par-lamento prevalentemente decisionale, inluogo di quello prevalentemente ratificato-rio realizzatosi nelle prime legislature. Maciò, si badi, non già mediante la riduzionedei poteri del Governo in Parlamento, bensìattraverso la concretizzazione delle poten-zialità di quest’ultimo.
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Deve aggiungersi che i Regolamenti del’71, elaborati parallelamente alla Camera e alSenato e poi confrontati fra loro al fine diappianare quelle divergenze che avrebberopotuto pregiudicare l’unitarietà del lavoroparlamentare, avevano molte somiglianzenel comune intento di realizzare un Parla-mento centrale nelle istituzioni, ma presen-tavano anche qualche notevole diversità (dalcomputo degli astenuti alla disciplina dellaquestione di fiducia, dai limiti delle discus-sioni all’ambito del voto segreto). Ma la dif-ferenza di fondo che quei Regolamenti deno-tavano a prima lettura consisteva nell’impo-stazione “presidenzialistica” del Regolamen-to del Senato (nel quale cioè i poteri di dire-zione del Presidente d’Assemblea eranoaccentuati), che non trovava riscontro nelRegolamento della Camera. Comunque, lasomma di queste differenze col passare deltempo si è rivelata in grado di produrre uneffetto di vasta portata, cioè di incrinare ilprincipio del bicameralismo paritario sanci-to dalla Costituzione: nel senso che al Sena-to hanno potuto prendere piede tendenzeevolutive di segno ratificatorio le quali hannofatto di tale ramo del Parlamento, e nonanche dell’altro, una “solida sponda istitu-zionale” del Governo (De Caro Bonella 1991).Al di là di ciò, non c’è dubbio che i lavori delSenato sono stati sempre assai meno trava-gliati di quelli della Camera: la relativa pro-grammazione, regolarmente compiuta dalSenato, alla Camera è riuscita solo tre voltefra il ’71 e l’81; mentre l’ostruzionismo, chesporadicamente ha colpito anche il Senato,alla Camera è parso endemico. C’è senz’altroda tener conto, a tale proposito, della piùarticolata composizione politica della Came-ra, che di per sé la rendeva meno facilmen-te “governabile”, ma sarebbe miope nonvedere quanto abbiano significato, nel senso
indicato, le diversità normative. A comin-ciare, appunto, dai poteri del Presidente delSenato in sede di programmazione dei lavo-ri (pur nell’oscillare fra decisioni all’unani-mità o a maggioranza in seno alla Conferen-za dei capigruppo) e dalla possibilità di con-tingentamento dei tempi dei dibattiti, sem-pre ad opera del Presidente, qualora la Con-ferenza non raggiunga l’accordo.
Quella a cui i nuovi Regolamenti miranoa porre termine può, insomma, riassumersicome una lunga fase in cui il rapporto Parla-mento/Governo era divenuto pressochéindecifrabile. Cosa che risulta efficacemen-te dalla delusione dei socialisti i quali, dopoessere riusciti a tornare nella “stanza deibottoni”, cioè nel Governo, scoprono che icomandi che possono essere impartiti da lìsono ben più modesti di quanto pensavanostandone fuori: sia per l’evanescenza di esso,sia perché quei comandi devono il più dellevolte passare attraverso aule parlamentaridove non di rado la maggioranza non è piùallineata e coperta sulle posizioni del Gover-no. Senza contare, poi, che all’interno stes-so del Governo convivono non di rado orien-tamenti alquanto contrastanti, che taloraappaiono conciliati solo nelle dichiarazioniprogrammatiche dei Presidenti del Consi-glio, tanto chilometriche quanto ripiene diacrobazie dialettiche, mentre in realtà l’uni-co vero collante delle coalizioni consistenella comune volontà di tenere fuori dalGoverno il PCI. Al riguardo basterà ricorda-re la vicenda della programmazione econo-mica, alla quale non tutta la DC è favorevo-le, sicchè mentre il Consiglio dei Ministriapprova il piano del Ministro socialista Gio-litti, il CICR presieduto dal democristianoMinistro del tesoro Colombo, che “governa”il sistema creditizio (essendone a sua voltagovernato) e che quindi ha in mano i cordo-
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ni della borsa (senza i quali, ovviamente,nulla si programma), la sabota più o menopalesemente, perseguendo una politica delcredito diversa da quella che la programma-zione avrebbe imposto. Questa schizofreniafra un Consiglio dei Ministri che vuole laprogrammazione e un Comitato intermini-steriale che non ne vuole sapere è davveroemblematica del tipo di Governo che si èaffermato da noi per tanti anni. D’altronde,le disfunzioni ed i guasti provocati da quelGoverno “evanescente” avrebbero forsepotuto essere in qualche misura compensa-ti dall’intensificarsi dell’attività del Parla-mento qualora, con i Regolamenti del ’71, sifosse potuto compiutamente realizzare l’as-setto Parlamento decisionale/Governo ese-cutivo, sottinteso ad una interpretazioneingenua – direbbe Calamandrei – della “cen-tralità” parlamentare. Viceversa quel che ilParlamento è riuscito concretamente a faredopo il ’71 è molto meno di quanto i nuoviRegolamenti prevedevano:per mancanza diconvinzione politica innanzi tutto; ma ancheperché gli mancavano i supporti e le attrez-zature necessarie. È da allora che comincia aprofilarsi accanto al Governo evanescente ilParlamento “velleitario”.
Una forte spinta alla realizzazione dellacentralità parlamentare e delle sue implica-zioni viene soltanto dalle elezioni del ’76, chesegnano la punta massima dei consensi al PCIe producono un quadro politico in cui senzal’appoggio del PCI nessuna maggioranzagovernativa può reggersi. Siamo nella VIIlegislatura (’76/79), quella in cui si formanoi Governi di solidarietà nazionale (monoco-lori DC guidati da Andreotti), la quale va con-siderata una ulteriore fase del nostro parla-mentarismo, ed è di solito indicata come“consociativa” anche se il PCI non vieneincluso nel Governo, ma si limita a sostener-
lo dall’esterno, ossia nelle Camere: fase cheperciò della consociazione presenta gliinconvenienti, ma non i vantaggi. Molti reci-tano il mea culpa per l’emarginazione subitadalle Camere in precedenza. Tutti scopronola “centralità” del Parlamento quale mezzoper dare attuazione al disegno costituzionaledei vertici dello Stato, anche se c’è che obiet-ta (Crisafulli 1977) che si tratta di cosa ovvia(e, con riferimento alla centralità “topogra-fica”, ha anche ragione). Ma c’è pure qualco-sa di nuovo e niente affatto ovvio: a comin-ciare dalle leggi riscritte per intero in Parla-mento, sulla base di progetti governativi“aperti” nel senso che il Governo si disponepragmaticamente a non impuntarsi sullapropria proposta e ad accettare i suggerimen-ti parlamentari che lo convinceranno. Il chesi traduce, rispetto al passato, in un maggiornumero di iniziative legislative del Governoche vanno in porto, delle quali un quarto ècostituito da decreti legge (Cotta 1991).
Pochi se ne accorgono – anche per difet-ti di informazione sui lavori parlamentari, acausa dei quali sfugge all’esterno che dentrole Commissioni esistono comitati ristretti egruppi di lavoro, organi cioè informali, neiquali avviene gran parte dell’attività parla-mentare più incisiva –, ma il Parlamento rie-sce a rielaborare rispetto all’originaria for-mulazione governativa testi importanti, fra iquali il D.P.R. 616/’77, che comporta unamassiccia redistribuzione delle competenzefra Stato centrale e Regioni, la riforma sani-taria, la disciplina delle locazioni, la nuovanormativa sul bilancio ecc. Ma poi non vannodimenticate, per quanto riguarda l’indirizzopolitico e il controllo, le mozioni program-matiche del ’77, in politica interna e in poli-tica estera nate ed elaborate in Parlamento;la istituzione di organi bicamerali per l’in-dirizzo e la vigilanza sulla radiotelevisione,
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sulle Partecipazioni statali, sui Servizi segre-ti; l’incidenza dei Gruppi parlamentaridurante le crisi di Governo e in occasionedelle principali leggi. Dunque, una spinta allarealizzazione della centralità parlamentare èinnegabile nella breve legislatura ’76-’78.
Ma se, certamente, i risultati pratici dellariforma del ’71 sono stati inferiori alle atte-se provocate dagli intenti dichiarati di essa,bisogna tuttavia riconoscere che un assaiminore divario c’è, invece, fra questi risul-tati e i testi regolamentari di per sé. A distan-za di tanti anni, infatti, l’enfasi di allora circala “centralità” del Parlamento finalmenterecuperata o conquistata in virtù delle nuovenorme appare, ad un esame obiettivo di esse,se non gratuita, esagerata. Se centralità vole-va dire capacità decisionale delle Camere,allora si deve perlomeno ammettere neinuovi Regolamenti una grave lacuna:l’”assenza di garanzie (procedurali) per ladecisione politica” (Manzella 1991) entrotempi ragionevoli, ossia quella scarsezza diregole anti ostruzionistiche che ha messo adura prova, nel tentativo di rimediarvi, la“creatività” della maggioranza (Armaroli1990). Ed ammettere altresì una contraddi-zione di fondo: quella di parificare i poteriprocedurali dei Gruppi parlamentari, indi-pendentemente dalla loro dimensione(aggravata poi dalla possibilità di consenti-re la formazione di Gruppi in deroga alnumero minimo di componenti). Se centra-lità voleva dire ruolo forte del Parlamentonelle istituzioni, allora bisogna incomincia-re col notare che questo ruolo forte si arre-stava dinnanzi alla tradizionale dislocazionedel potere estero, perchè mentre nessunaspecifica disposizione i nuovi Regolamentirecavano, relativamente all’esame dei Trat-tati, che consentisse di argomentare la pos-sibilità di abbandonare la prassi della loro
inemendabilità parlamentare, d’altra partein materia di politica comunitaria (dunqueun grosso settore della politica non solo este-ra, ma anche interna) veniva stabilitaun’esplicita esclusione del potere di risolu-zione delle Commissioni. E se l’attivitàconoscitiva, nelle sue nuove procedure, vole-va essere il “vero segno del nuovo Parlamen-to”, la finestra parlamentare sul mondoesterno e sulle più significative articolazio-ni della società, bisogna riconoscere che sitrattava di una finestra non molto agevole daaprire e piuttosto stretta. Perché da un latole “indagini conoscitive” risultavano disci-plinate in termini eccessivamente macchi-nosi per poter soddisfare, con l’immedia-tezza che il più delle volte caratterizza le esi-genze del lavoro parlamentare, il fabbisognoinformativo delle Camere; dall’altro, lemolto più agili “udienze” risultavano insod-disfacenti, al Senato, a causa della loro uti-lizzabilità troppo limitata (afferendo soltan-to all’esame di disegni di legge) e della trop-po esigua gamma di persone ascoltabili(pubblici funzionari e amministratori).D’altronde, anche le disposizioni in materiadi controllo – altro punto chiave negli inten-ti dichiarati della riforma regolamentare –si rivelavano deboli, a ben guardare, disper-dendo le nuove procedure di controllo, conriferimento alla materia, fra tutte le Com-missioni, anziché concentrarle in un unicoorgano con competenza esclusiva.
Ma poi, se non c’è dubbio che i Regola-menti del ’71 hanno abbandonato il Parla-mento in Assemblea, è molto meno certo, aben vedere, che essi abbiano decisamenteimboccato la strada del Parlamento in Com-missione. Tale incertezza si misura nel modopiù chiaro sullo strumento, inventato appo-sta dai nuovi Regolamenti, di cui le Commis-sioni parlamentari avrebbero dovuto servir-
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si per rendere concreta la estensione dellecapacità decisionali delle Camere in ambitidiversi da quello legislativo, come l’indiriz-zo e il controllo: quello della risoluzione.Orbene, ragguagliato appunto a tale finalità,l’istituto della risoluzione come delineato daiRegolamenti del ’71 appare in effetti qualco-sa di simile ad un fucile scarico, dal momen-to che a Montecitorio è previsto che l’appro-vazione delle risoluzioni in Commissione siasospesa, a richiesta del Governo, e rimessaall’Assemblea quando il progetto su cui laCommissione è chiamata a pronunciarsirisulti sgradito al Governo stesso: sospen-sione e rimessione che, pertanto, oltre acontenere il rischio di un rinvio sine die delladeliberazione parlamentare (giacché nellasempre sovraccarica agenda dell’Assembleadifficilmente si troverà spazio per nuoviimpegni), implicano che nel frattempo nonsi abbia neppure una pronuncia provvisoriacapace di orientare l’azione del Governoriguardo all’argomento che è oggetto dellarisoluzione. E dal momento che in Senato,pur essendo consentito al Governo di poter-si soltanto appellare in Assemblea nei con-fronti di una risoluzione già approvata inCommissione (e quindi non essendogli per-messo di impedire la pronuncia, così da evi-tare sotto questo aspetto gli inconvenientidella disciplina della Camera), è tuttavia sta-bilita a monte una grossa limitazione all’im-piego dello strumento in discorso, poiché èprevisto che sia il Presidente del Senato adautorizzare di volta in volta le Commissioniad avvalersene. Procedure quindi scarsa-mente capaci di incentivare davvero le Com-missioni ad esercitare quelle funzioni.
Come si spiega, allora, il revival parla-mentare del ’76-’78? Non lo si spiega certo,in via principale, col fatto che nel 1971 eranostati approvati i nuovi Regolamenti delle
Camere che ad esse avevano aperto, rispet-to al passato, maggiori spazi di azione epotenzialità decisionali. Senza sottovalutarel’importanza delle innovazioni regolamenta-ri, bisogna però riconoscere che la causaprevalente di quel breve revival è stata lamodificazione del quadro politico, ossia deirapporti fra i partiti, le cui avvisaglie eranogia comparse in sede regionale nella impo-stazione “assemblearistica” degli Statutiordinari. Dinanzi alla clamorosa avanzata delPCI, per un verso la DC fa propria (almenoufficialmente) la strategia moroteadell’”attenzione” verso il PCI; e per un altroverso il PSI e gli altri alleati della DC vedononell’ascesa del PCI il risvolto vantaggioso perlui della conventio ad excludendum, e ritengo-no opportuno farlo cessare, coinvolgendo ilPCI nelle talvolta impopolari scelte gover-native. Il revival, in altri termini, non consi-ste in una scelta di politica istituzionale inte-sa a dare un assetto stabile al rapporto Par-lamento/Governo nei termini appunto di unParlamento decisionale e di un Governo ese-cutivo, ma in una scelta di politica contin-gente (e dunque precaria) intesa a risolverecol minor danno possibile per la maggioran-za – cioè senza portare i comunisti al Gover-no, ma consentendo loro di influire persinosulla sua composizione (v. La Stampa24/1/92) – il problema creato dal fatto chesenza il PCI non si sarebbe potuto governa-re: e la soluzione era offerta per l’appuntodal potenziamento del Parlamento rispettoal Governo, previsto dai Regolamenti del ’71,che avrebbe consentito al PCI di “cogoverna-re” dal Parlamento senza entrare nell’ese-cutivo. Se dignità di prospettiva non con-giunturale poteva essere riconosciuta a talesoluzione, non era tanto sul piano degli equi-libri istituzionali, ma su quello della evolu-zione dei rapporti fra i partiti, nel senso che
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veniva giocata ancora una volta la carta tra-dizionale nel nostro sistema politico, quellacioè dell’aggregazione progressiva al centrodelle ali dello schieramento politico, in luogodella formazione di schieramenti alternati-vi, aggregazioni da vedere magari come pre-messa alla nascita di questi schieramenti.
Le prove che possono addursi al riguar-do sono svariate. Anzitutto il fatto che nelleCamere non intervengono, durante la VIIlegislatura, quelle integrazioni regolamen-tari e quel potenziamento delle attrezzatureserventi che sarebbero occorsi per farle usci-re dal velleitarismo, mentre l’innovazionepiù vistosa nel Parlamento della VII legisla-tura è l’accordo politico che porta alla Presi-denza della Camera e di numerose Commis-sioni camerali, senatoriali e bicamerali,esponenti del PCI: cosa che nulla ha da vede-re con la riforma dei Regolamenti. In secon-do luogo, la circostanza che il PSI e le forzepolitiche minori, non appena si rendonoconto che il reinserimento del PCI nel giocopolitico può portare ad un’intesa DC-PCI eche questa contiene il pericolo di renderlesuperflue e quindi di emarginarle dal Gover-no, reagiscono assecondando, fra l’altro,l’azione di sabotaggio condotta dalla pattu-glia radicale al funzionamento tecnico del-l’organo in cui tale intesa si andava svilup-pando, ossia il Parlamento; azione facilitatadalla mancanza nei Regolamenti di suffi-cienti accorgimenti antiostruzionistici. Nellostesso tempo, d’altronde, la speranza dipoter andare presto al Governo annebbia nelPCI l’interesse al potenziamento delleCamere ed anzi lo spinge a favorire il raffor-zamento in seno al Governo della Presiden-za del Consiglio, che diviene il centro dellatrattativa politica col PCI, rafforzamento chegetta le basi di un possibile futuro rafforza-mento del Governo rispetto al Parlamento.
Ma la terza e decisiva prova è data dal fattoche, dopo le elezioni del ’79 che segnano unarilevante flessione del PCI e provocano l’al-lentamento (se non la scomparsa) degli sti-moli al coinvolgimento di esso a supportodel Governo, assieme ad una ripresa dellatendenza all’emarginazione politica di que-sto partito, cade l’interesse all’utilizzazionedel Parlamento in funzione di quel coinvol-gimento: e la parola d’ordine non è più,adesso, l’attuazione della Costituzione, ma lasua riforma (Floridia – Sicardi 1991).
Le elezioni del ’79 aprono in effetti unanuova fase politica, caratterizzata dalla for-mazione di maggioranze pentapartitiche(DC, PSI, PSDI, PRI, PLI) mirate a rinverdi-re l’esclusione del PCI dal Governo. Sulfronte parlamentare vanno registrati, anzi-tutto, la falcidia degli incarichi parlamenta-ri ai comunisti a partire dalla VIII legislatu-ra (’79/’83); poi la marea di critiche e auto-critiche nei confronti dell’”assemblearismo”della legislatura precedente ed il proposito dievitare il ripetersi delle “aberrazioni” com-messe in quella breve stagione, attribuiteperlopiù all’asserita subordinazione delleCamere ai partiti; e infine l’abbandono diqualsiasi intenzione di attuare davvero leinnovazioni previste o implicate dai Regola-menti del ’71, accompagnato da una serie dimodifiche di essi che, nel decennio degli ’80,denotano anzi una progressiva inversione ditendenza all’insegna della “governabilità”(in particolare con la rinuncia al voto segre-to generalizzato). Sic transit gloria Parlamen-ti, potrebbero asserire quanti ritengono che– se non proprio gloria – almeno qualchepregio le Camere operanti sotto l’egida deiRegolamenti del ’71 l’abbiano avuto; ma nonvorrei apparire, così dicendo, un pateticolaudator temporis acti, anziché l’obiettivotestimone di vecchie vicende.
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1. Premessa su una tesi fuorviante: i regola-
menti parlamentari del 1971 come anticipazio-
ne della “stagione consociativa”
Vi è un’interpretazione tanto diffusa quan-
to fuorviante dei regolamenti parlamenta-
ri del 1971, che tende a considerarli, sia
pure con diverse sfumature, come una sorta
di anticipazione della futura stagione con-
sociativa (tra i tanti, G. Cuomo 1987, p. 268;
S. Curreri 1995, p. 269; G. Rebuffa 2001,
pp. 510 s.), o, comunque, individua nella
“maggioranza regolamentare” che si formò
attorno a quell’opzione riformatrice –
soprattutto per effetto dell’inclusione del
principale partito di opposizione (PCI) –
una prima forma di sperimentazione delle
maggioranze dei successivi governi di soli-
darietà nazionale (S. Traversa 1991, p. 154;
V. Lippolis 2007, p. 120). Di qui, le note
polemiche sulla vocazione assembleare
della riforma regolamentare in commento.
È una lettura che accomuna gran parte
della dottrina, anche da posizioni, per altri
versi, diametralmente opposte (S. D’Alber-
go 1979, pp. 368 s.; A. Baldassarre 1998, pp.
102 e s.), ma che coglie soltanto parzial-
mente la portata e il significato più profon-
do dei regolamenti parlamentari del 1971.
Nella prospettiva richiamata, nel merito
si lamenta il predominio del principio una-
nimistico nella programmazione dei lavori,
la matrice eccessivamente gruppocratica
(specie alla luce dei poteri procedurali attri-
buiti ai presidenti di gruppo) – che verreb-
be sostanzialmente a svilire la tradizione
individualistica e quella naturale fluidità che
caratterizzerebbe il Parlamento italiano sin
dal periodo statutario – e, soprattutto, la
mancanza di procedure decisionali “mag-
gioritarie”. Sarebbe quindi, assolutamente
assente il momento della “decisione” a tutto
vantaggio di una (peraltro, secondo i più)
male intesa “partecipazione”.
Mi pare, invece, che la riforma del 1971
esprima il tentativo di coniugare il primo
aspetto con il secondo: la razionalizzazione
dei procedimenti di decisione parlamen-
tare viene contemperata con la costruzione
di processi di rappresentanza maggior-
Regolamenti parlamentari del 1971, indirizzo politico e questione di fiducia: un’opinione dissenziente
guido rivosecchi
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
mente aderenti alle istanze pluralistichepolitiche e sociali espresse dalla Costitu-zione repubblicana.
Tale prospettiva sembra sostenibilemediante un’interpretazione, in sensostretto, della norma regolamentare comenorma di esecuzione del disposto costitu-zionale, su cui, al di là delle diverse sfuma-ture proposte in dottrina, viene in sostan-za a poggiare il disegno riformatore del 1971(Relazione della Giunta per il regolamentodella Camera dei Deputati, 1971). Quest’ul-timo, infatti, costituisce diretto riflesso deiprincipi e valori costituzionali sulla rappre-sentanza politica, nel senso che tende agarantire la funzione “inclusiva” del Parla-mento, inteso non soltanto come espres-sione più alta del sistema politico-istitu-zionale, ma anche come luogo geometricodi raccordo con gli altri canali di partecipa-zione pluralistica territoriale e sociale.
Ancora prima, quindi, di risponderealle specifiche esigenze di democratizzazio-ne del contesto storico, frutto dei movi-menti sociali della fine degli anni Sessan-ta, la riforma del 1971 – nell’ottica dellapiena attuazione costituzionale – da un latosegna l’apertura del Parlamento alle varie-gate istanze sociali del Paese e la conse-guente valorizzazione degli strumenti cono-scitivi e partecipativi; dall’altro, per laprima volta, persegue una razionalizzazio-ne del processo decisionale maggiormenteaderente alla configurazione del rapportotra Governo e Parlamento delineato dallaCarta repubblicana.
In questa prospettiva, è in quella granderiforma che il regolamento parlamentareassurge al rango di «atto normativo primi-genio dell’indirizzo politico» (G. Ferrara1968, pp. 346 ss.), non soltanto come stru-mento attraverso cui si delineano i presup-
posti per l’elaborazione dell’indirizzo politi-co di maggioranza – da questo punto di vista,non sembra, quindi, assente il momentodella “decisione” –, ma anche come stru-mento che, in quella fase storica, riflette, nelduplice versante sopra richiamato (“parteci-pazione” e “decisione”), la questione cen-trale dell’attuazione costituzionale. È, quin-di, la cesura rappresentata dall’entrata invigore della Costituzione repubblicana cheimpone una ridefinizione dei regolamentiparlamentari non soltanto in riferimentoall’ordinamento della Repubblica e allacostituzione dei poteri (A. Manzella 2003,pp. 66 ss.), ma anche alla costituzione deidiritti e alle istanze di democrazia politica esociale espresse dalla Carta.
Peraltro, su un piano più strettamenteattinente al sistema delle fonti del diritto, gliartt. 64 e 72 Cost. esprimono, in manieraspecifica, la misura con cui il regolamentoparlamentare disciplina la strutturazionesoggettiva, il funzionamento dell’organo e iprocedimenti decisionali sulla base dellariserva di competenza delineata dalla normacostituzionale, consentendo ai gruppi parla-mentari di contribuire alla definizione deipresupposti per la determinazione dell’indi-rizzo (G. Ferrara 1968, pp. 345 ss.).Muoven-do dal quorum qualificato richiesto per l’ap-provazione del regolamento parlamentare, sipotrebbe anzi aggiungere che tale previsionesembra andare oltre l’indirizzo politico dimaggioranza e postulare, specie nel contestodi una legge elettorale politica proporziona-le in cui ragionava il Costituente, una con-vergenza tra maggioranza e opposizione nellescelte attinenti agli aspetti procedurali attra-verso cui si forma l’indirizzo stesso.
Alla luce di questi presupposti, tenteròdi dimostrare come risulti decisamenteingeneroso (oltre che, per certi aspetti,
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errato) bocciare la riforma regolamentaredel 1971 come espressione più compiuta diun disegno consociativo e come essa espri-ma piuttosto il tentativo di migliorare lafunzionalità delle procedure parlamentaririspetto alle caratteristiche strutturali delParlamento italiano in quello specificocontesto storico e nel quadro delle concre-te dinamiche della forma di governo. Inaltre parole, ammesso (e non concesso) chefu pagato un prezzo in termini di “rendi-mento” delle procedure decisionali, lo sipagò in virtù della superiore garanzia della“democratizzazione” dei procedimenti edella conseguente apertura del Parlamentoalle forze sociali del Paese. Quest’ultima,infatti, avrebbe creato i presupposti perl’assorbimento nei processi di rappresen-tanza parlamentare delle più radicali evariegate istanze degli anni Settanta – nelperiodo, tra l’altro, più buio del terrorismo–, fornendo, oltre tutto, la base regolamen-tare per la legittimazione, in casi limite,della forma più estrema di partecipazione alprocesso decisionale parlamentare: l’ostru-zionismo radicale della seconda metà deglianni Settanta (G. Zagrebelsky 1979, pp. 391ss.; A. P. Tanda 2001, pp. 713 s.).
In altre parole, se il momento della“decisione” passò in secondo piano, nonmi sembra un prezzo così alto rispetto allaprioritaria necessità di garantire la tenutademocratica del sistema e l’attuazionecostituzionale. Anche perché – sia detto perinciso, senza possibilità di sviluppare inquesto scritto su un piano comparatistico ilragionamento – quegli ordinamenti cheapprestarono soluzioni diverse, come la c.d.“democrazia protetta” tedesca, non per-vennero affatto a soluzioni maggiormentesoddisfacenti, ed anzi finirono piuttostoper radicalizzare il conflitto sociale.
2. Il difficile equilibrio tra rappresentanza edecisione
La prova più evidente della tesi qui sostenu-ta si trova già nei lavori preparatori dellariforma, laddove si desume chiaramente ilcontributo fornito al disegno riformatore dalprincipale partito di opposizione. Il PCI, inuna prima fase, assunse una linea di opposi-zione strutturale al formale riconoscimentodi istituti volti a valorizzare il momento della“decisione”, spiegabile alla luce della conven-tio ad excludendum (F. Colonna 1969, pp. 201ss.). Ben presto, però, apparve più decisa-mente orientato a sostenere non soltanto ilpotenziamento delle procedure conoscitive,di indirizzo e di controllo – che rappresen-tano l’aspetto più noto e valorizzato dei rego-lamenti del 1971 –, ma anche di quelle che,sia pure in maniera ancora incompiuta – apartire dalla codificazione della disciplinadella c.d. questione di fiducia – intendevanoaffrontare il profilo della razionalizzazionedei procedimenti decisionali.
In questa chiave di lettura, non possonotrascurarsi le incisive modifiche regolamen-tari rappresentate, a tacere d’altro, dall’in-troduzione del metodo della programmazio-ne nelle modalità di organizzazione dei lavo-ri parlamentari, anche con espresso riferi-mento al ruolo del Governo e all’uso del fat-tore tempo nell’organizzazione della discus-sione (A. Manzella 1980, pp. 36 s.); dall’isti-tuzionalizzazione di una vasta gamma di pro-cedure conoscitive e di indirizzo (non solo inAssemblea, ma anche in commissione: cfr.C. Chimenti, 2008); dalla razionalizzazionedei procedimenti legislativi, con il potenzia-mento dei pareri parlamentari delle commis-sioni permanenti, e con la costruzione di unpiù proficuo raccordo tra assemblea e com-missioni (G. Boccaccini 1980, p. 309).
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La riforma, peraltro, affondava le sueradici in un intenso dibattito scientifico,politico ed istituzionale, promosso sia dalladottrina costituzionalistica (ISLE 1968), siadagli stessi partiti politici particolarmentesensibili alle tematiche sulla partecipazio-ne democratica e l’attuazione costituziona-le (L. Piccardi, N. Bobbio, F. Parri 1967).
L’intensa e articolata riflessione, svi-luppata in diverse sedi e da personalità dialto profilo del mondo politico, istituzio-nale e culturale, costituì il presupposto dacui mosse l’azione riformatrice intrapresaparallelamente dai due rami del Parlamen-to, sotto il forte impulso impresso dairispettivi Presidenti di Assemblea: SandroPertini alla Camera e Amintore Fanfani alSenato (A. Maccanico 1969, p. 455; L. Gian-niti-N. Lupo, 2008).
La procedura adottata per l’elaborazio-ne e la discussione dei progetti di riformadei regolamenti fu poi caratterizzata da unforte coordinamento tra i due rami del Par-lamento, che non impedì, tuttavia, di assor-bire le differenti matrici genetiche di talu-ni istituti, le quali richiesero successiva-mente, e per certi versi postulerebbero tut-t’ora – a partire proprio dalla disciplinadella questione di fiducia – una più organi-ca armonizzazione delle regole di Camera eSenato (N. Lupo 2007 a), pp. 53 ss.).
Si deve peraltro sottolineare, sia pure inrapida rassegna, la forte convergenza sullelinee riformatrici espressa da gran parte deigruppi parlamentari (DC, PCI, PSI, PSDI,PRI, PLI), con le uniche eccezioni delMovimento sociale e del Partito SocialistaItaliano di Unità proletaria (PSIUP), leminoranze di allora che si opposero stre-nuamente non tanto al disegno riformato-re in sé, quanto agli aspetti che avrebberopotuto garantire un maggiore rafforzamen-
to dei profili “maggioritari” dei processidecisionali (A. Manzella 1980, p. 36). Nellafase di elaborazione del progetto, quindi,furono i protagonisti di quell’ostruzioni-smo più sterile che si era ad esempioespresso sull’attuazione dell’ordinamentoregionale, a rivendicare il mantenimentodei profili più “garantistici” del regolamen-to della Camera del 1922.
Nel corso del dibattito, sembrano con-seguentemente scontrarsi due visionidistinte del Parlamento. Solo apparente-mente, però, si trattò di una dialettica trauna linea interpretativa maggiormentefinalizzata alla tutela delle minoranze, eduna più “maggioritaria”, orientata ad affer-mare un più netto continuum Governo –maggioranza parlamentare. Il dibattito sullariforma dei regolamenti del 1971 fu piutto-sto espressione del confronto tra una visio-ne ancora legata alle Camere statutarie,riflesso del libero dispiegarsi di una conce-zione individualistica e atomizzata del par-lamentare-notabile, che tanto peso avevaavuto nelle precedenti codificazioni regola-mentari, ed una visione maggiormentesensibile alla realtà dei gruppi parlamenta-ri, in quanto meglio idonea a riflettere l’av-vento dei partiti di massa e dello Stato plu-riclasse sotto la lente della Costituzionerepubblicana.
In ogni caso, il fatto stesso che si oppo-sero alla riforma quelle esigue minoranze (acui si aggiunsero, poi, i dissidenti del“Manifesto”), sembrerebbe già di per séindicare che essa veniva, in realtà, adaffrontare, tra l’altro, il tema della raziona-lizzazione dei processi decisionali, anche inchiave antiostruzionistica. Si pensi soltan-to alla istituzionalizzazione della program-mazione dei lavori – sia pure con il limitedell’estensione del principio unanimistico,
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specie, alla Camera, coniugato ai debolipoteri sostitutivi presidenziali nell’elabora-zione del calendario –, al riconoscimentoformale del ruolo del Governo nella pro-grammazione e all’uso del fattore tempo,che entra per la prima volta in Parlamento.
Ma la vera novità della riforma del 1971è senza dubbio rappresentata dal potenzia-mento dei poteri istruttori e conoscitivi,che costituì, per la prima volta, espressio-ne compiuta di valorizzazione dell’istitu-zione parlamentare, ben al di là del ruolosempre più preponderante dei partiti poli-tici (e, di riflesso, dei gruppi parlamenta-ri). Essa venne infatti a costruire una nuovadimensione relazionale del Parlamento euna rinnovata centralità dell’istituzioneparlamentare nella forma di governo, cherischiava invece di dissolversi nella costi-tuzione materiale per effetto della prevari-cazione del partito politico (A. Manzella1977, pp. 288 ss.). Da questo punto di vista,i regolamenti del 1971 colsero finalmentela necessità di superare la configurazioneatomistica del Parlamento statutario e diassicurare il costituzionalmente fisiologi-co rapporto tra rappresentanza politica,sistema dei partiti e gruppi parlamentari,ma non secondo una automatica e pocosignificativa concezione del gruppo comeproiezione in Parlamento del partito (cri-ticamente, R. Bin 2007), bensì alla luce diun più (costituzionalmente) attento equili-brio tra dimensione politica del gruppo,titolare di poteri procedurali e di impulsonei procedimenti parlamentari, e dimen-sione istituzionale del Parlamento, titolaredi poteri conoscitivi propri che gli consen-tirono di relazionarsi autonomamente conil Governo e gli altri soggetti esterni, comeespressione del pluralismo territoriale,economico e sociale.
Sotto questo profilo, il regolamento del1971 segnò l’avvio della stagione di “aper-tura” del Parlamento dapprima agli organiausiliari (Corte dei conti, CNEL) e, succes-sivamente, agli altri soggetti economico-sociali, attraverso la valorizzazione, al Sena-to, delle «relazioni alle Camere», finaliz-zate al rafforzamento della funzione di con-trollo parlamentare, e, alla Camera, delle«udienze legislative» delle commissionipermanenti, orientate a garantire il miglio-ramento dell’istruttoria nel procedimentolegislativo (C. Di Roberto, 1967, pp. 249 ss.;F. Pergolesi, 1974, pp. 1611 s.). Tale approc-cio sarebbe poi stato rafforzato dalla piùgenerale estensione del «contraddittoriocon gli interessi» nei procedimenti cono-scitivi, istruttori e di informazione (A. Pre-dieri 1975, pp. 54 ss.).
Cogliendo questa prospettiva, non sem-bra condivisibile la tesi maggioritaria,anche di recente autorevolmente sostenutain dottrina in riferimento ai regolamentiparlamentari del 1971 (C. Mezzanotte 2001,pp. 291 s.), secondo la quale, assumendo lacentralità dei partiti dietro la centralità del
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Il salone del Transatlantico a Palazzo Montecitorio.
Parlamento, quelle riforme regolamentarivenivano ad esprimere una funzione legit-timante, presumendo che democrazia eParlamento fossero un’endiadi, sulla cuibase misurare il «tasso di ortodossia costi-tuzionale dei diversi soggetti politici pre-senti sullo scenario». Sembrerebbe piut-tosto vero il contrario: i regolamenti parla-mentari del 1971 costituiscono diretto svol-gimento della Costituzione per garantirequel necessario distacco dalla previgenteimpostazione statutaria, venendo final-mente a recepire il ruolo costituzionale deipartiti politici nello Stato pluriclasse, masenza assumere aprioristicamente l’equa-zione tra centralità del Parlamento e cen-tralità del sistema dei partiti (che si sareb-be poi sviluppata sulla base di una maleintesa centralità del Parlamento), per affer-mare invece, per la prima volta, una dimen-sione relazionale autonoma dell’istituzioneparlamentare nella forma di governo e nelsistema delle autonomie territoriali e socia-li. Quest’ultima potrà poi, a seconda dellalegge elettorale e delle convenzioni costi-tuzionali, oscillare in senso più o menomaggioritario, ma nel quadro di una confi-gurazione dei rapporti tra Governo e Parla-mento dai tratti costituzionali bilaterali eparitari (G. Rivosecchi 2008, pp. 385 e ss.).
Vero è che nei regolamenti parlamen-tari del 1971 si riscontra ancora una certasproporzione tra la disponibilità di stru-menti istruttori e conoscitivi delle Cameree la valorizzazione delle procedure decisio-nali. Tuttavia, mi sembra che, sia pure conqualche semplificazione, quella riformarappresentò finalmente una cesura nettarispetto alla “situazione parlamentare” sta-tutaria e soprattutto coerente con l’impian-to costituzionale.
L’ancoraggio ai caratteri portanti delle
democrazie pluralistiche viene infatti riba-dito grazie alla costituzionalizzazione dellateoria del libero mandato, ma l’art. 67 Cost.non costituisce tanto un diaframma che siinterpone tra l’eletto e il partito, quantopiuttosto uno strumento di liberazione dellafunzione parlamentare da vincoli precosti-tuiti nei confronti di gruppi di interessiristretti, al fine di ricollocarla in una piùampia prospettiva politico-programmaticadi ricomposizione degli interessi che si rea-lizza attraverso lo stesso partito politico (D.Nocilla 2001, pp. 71 s.). Da questo punto divista, appare quindi riduttiva l’interpreta-zione che individua nei regolamenti del1971 il riflesso di una concezione, in sensostretto, “gruppocratica”, che finirebbe perschiacciare maggioranza e opposizione inuna prospettiva consociativa sotto il pesosempre più preponderante dei partiti.Quella riforma regolamentare si riproponepiuttosto il più ampio obbiettivo di coglie-re appieno il rapporto tra rappresentanzapolitica, partiti e gruppi parlamentari sot-teso alla complessa e articolata trama deisoggetti del pluralismo economico e socia-le della Carta costituzionale. Alla naturalefluidità della matrice individualistica delParlamento statutario si sostituisce coeren-temente – sul piano dei poteri proceduraliriconosciuti dal regolamento – la dimen-sione politica organizzata dei gruppi parla-mentari come diretto riflesso dello Stato deipartiti del Novecento. Sotto questo profilo,i regolamenti del 1971 non sembrano tantosegnare la prevalenza dell’indirizzo politi-co (artt. 1, 49, 94 Cost.) e della responsabi-lità politica come responsabilità per rap-presentanza (artt. 1, 48, 49 Cost.) sullavisione individualistica e liberale della rap-presentanza parlamentare (artt. 67 e 68Cost.), come pure è stato osservato in rife-
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rimento all’auspicata riforma del votosegreto (S. Curreri 2001, p. 532), quantopiuttosto rendere funzionale le prerogativee lo status del singolo parlamentare allamatrice costituzionale della rappresentan-za politica nel quadro pluralistico delinea-to dalla Costituzione repubblicana.
Il tentativo di coniugare questo proces-so con una razionalizzazione dei procedi-menti decisionali che guardasse anche almomento della “decisione”, riuscì solo inparte, ma giunse comunque al massimorendimento possibile, in un momento incui era prioritaria la necessità di garantirequella dimensione “inclusiva” del Parla-mento connaturata alla forma di governodelineata dalla Costituzione che, invece, sisarebbe troppo spesso smarrita negli anniseguenti, contribuendo così a determinarela mancanza di proficui raccordi con gli altricanali di partecipazione pluralistica territo-riale, economica e sociale, in cui si sareb-be collocata la crisi del Parlamento deglianni Novanta (M. Luciani 2001, pp. 114 ss.).
3. La disciplina della questione di fiducia e lanecessità di successive razionalizzazioni
Prendo l’esempio più controverso e conte-stato della riforma del 1971: la disciplinadella questione di fiducia, su cui la dottri-na, in maniera pressoché unanime, hacostantemente confermato nel corso deglianni le conclusioni critiche espresse, già “acaldo”, persino dall’allora Segretario Gene-rale della Camera (F. Cosentino 1973, p. 58ss.) nel convegno di Cagliari del 1971, in cuilargo spazio fu dedicato a commentare laprima codificazione regolamentare del-l’istituto, ipotizzando addirittura il ricorso
al conflitto di attribuzione tra poteri delloStato al fine di farne valere un’interpreta-zione estensiva e maggiormente garantistadelle prerogative del Governo in Parlamen-to (G. Amato 1973, p. 85).
La verità è che fu già un risultato consi-derevole giungere, nella riforma in com-mento, a un formale riconoscimento dellaquestione di fiducia nel regolamento dellaCamera. La procedura, infatti, sino ad allo-ra era assolutamente lasciata alle prassi sucui, sin dalla prima legislatura repubblica-na, in occasione delle “forzature” riscon-tratesi nell’iter dei disegni di legge dipotenziamento della difesa del Paese e dellac.d. “legge truffa”, si formarono conven-zioni di dubbia legittimità costituzionale,con particolare riferimento all’uso combi-nato della questione di fiducia con maxi-emendamenti di origine governativa (N.Lupo 2007, b) pp. 87 ss.), che avrebbero poicaratterizzato costantemente l’istituto, spe-cie nella decisione di bilancio (G. Rivosec-chi 2007, pp. 289 s. e 322).
È superfluo, in questa sede, richiamarele origini della questione di fiducia, comeprincipale strumento nella disponibilità delGoverno per l’attuazione dell’indirizzopolitico e come strumento di verifica delrapporto di responsabilità di fronte al Par-lamento in merito a specifiche articolazio-ni del programma di governo (M. Olivetti1996, pp. 169 ss.).
L’istituto, infatti, che peraltro riflette unaconsolidata prassi del periodo statutario,non è espressamente previsto dalla Costitu-zione, ma, nonostante talune critiche piùrisalenti ne abbiano posto in dubbio la legit-timità costituzionale (R. Astraldi 1953, pp.71 s.; A. De Valles 1954, p. 615), è statocostantemente utilizzato anche in periodorepubblicano. La conformità a Costituzione
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della procedura è comunque desumibile,oltre che da argomenti testuali, dalle carat-teristiche della relazione fiduciaria, al finedi consentire quella necessaria rimodulazio-ne dell’indirizzo politico, che, nel presup-posto che il Parlamento debba fornire il pro-prio apporto, può anche passare per larichiesta di conferma della fiducia su speci-fici provvedimenti che riflettano punti qua-lificanti del programma di governo (G. Rivo-secchi 2008, pp. 396 e ss.).
Ciononostante, alla codificazione del-l’istituto si giunse soltanto con la riformadel regolamento della Camera dei deputatidel 1971 (art. 116 reg. Cam.), mentre alSenato si dovette addirittura attendere lanovella regolamentare del 1988, che, peral-tro, intervenne soltanto su un profilo limi-tato della materia, introducendo il divietodi porre la questione di fiducia sugli internacorporis acta (art. 161, comma 4, reg. Sen.).
Duplici le conseguenze che discendonodalla posizione della questione di fiducia.Sul piano del diritto costituzionale, essacomporta l’obbligo del Governo di dimet-tersi in caso di voto sfavorevole, anche diuna sola Camera, sul provvedimento su cuiè stata posta, procedura in esito alla qualesi sono peraltro registrati gli unici due casidi crisi parlamentare della storia repubbli-cana (Governi Prodi I, 1998, e II, 2008).Sul piano della procedura parlamentare, laposizione della questione di fiducia – chepuò verificarsi tendenzialmente su qualsia-si oggetto di discussione in Parlamento –implica rilevanti conseguenze: votazionepalese per appello nominale; priorità del-l’oggetto posto in votazione; indivisibilitàe conseguente inemendabilità dell’oggettostesso (A. Manzella 1970, pp. 297 ss.). Neconsegue un potenziale utilizzo dell’istitu-to sia a fini di garanzia della disciplina di
maggioranza, sia a fini antiostruzionistici:si tratta della c.d. fiducia tecnica (S. Sicar-di 1989, p. 118).
L’assimilazione del regime procedura-le e delle modalità di votazione previste pergli altri istituti della relazione fiduciaria dicui all’art. 94 Cost. (voto palese per appel-lo nominale; maggioranza relativa; indivi-sibilità ed inemendabilità dell’oggetto;mentre più discussa è l’estensione dell’ob-bligo di motivazione), operata dai regola-menti e dalle prassi parlamentari, mira aribadire le garanzie circa l’assunzione diresponsabilità del singolo parlamentare ela trasparenza del processo decisionale diattuazione dell’indirizzo politico, che legit-timamente il Governo può trasporre – arelazione fiduciaria già avviata – su unprovvedimento che ritenga particolarmen-te significativo ai fini dello svolgimento delproprio programma.
Per il resto, i regolamenti dei due ramidel Parlamento mantengono una disciplinafortemente differenziata.
In particolare, alla Camera, con la rifor-ma del 1971, vennero superate le tradizio-nali avversioni del PCI nei confronti del-l’istituto (F. Colonna 1969, 206), ma la for-male introduzione della questione di fidu-cia fu compensata da una disciplina restrit-tiva quanto alle materie su cui è consenti-ta, e ampliativa quanto alle modalità e aitempi di discussione, limitando, in talmodo, l’utilizzo dell’istituto a fini antio-struzionistici.
Sotto il primo profilo, l’art. 116, comma4, reg. Cam., introdotto nel 1971, prevedeche la questione di fiducia non possa essereposta su: «proposte di inchieste parlamen-tari»; «modificazioni del regolamento» equestioni regolamentari; «autorizzazioni aprocedere e verifica delle elezioni»; nomi-
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ne di spettanza parlamentare e «fatti perso-nali»; nonché su tutto «quanto attenga allecondizioni di funzionamento interno dellaCamera e su tutti quegli argomenti per i qualiil regolamento prescrive votazioni per alza-ta di mano o per scrutinio segreto».
In primo luogo, viene così opportuna-mente escluso l’ambito degli interna corpo-ris acta dalle materie su cui è possibile porrela questione di fiducia, in quanto estraneoai rapporti tra Governo e Parlamento e,quindi, alla relazione fiduciaria.
In secondo luogo, però, la norma rego-lamentare viene a collegare il divieto diporre la questione di fiducia non già ad unomogeneo complesso di materie non ricon-ducibili alla relazione fiduciaria, bensì adun criterio come quello relativo alle moda-lità di votazione inidoneo a fornire un anco-raggio certo ai profili oggettivi dell’istituto.Due paiono le ragioni in grado di spiegarequesta scelta: circoscrivere il più possibilel’ambito in cui può operare la questione difiducia (non si dimentichi che, nel momen-to in cui viene introdotto l’art. 116 reg. Cam.,è ancora prevalente il voto segreto sul votopalese, e che, per molte materie cruciali ine-renti al rapporto tra Governo e Parlamento,come la programmazione dei lavori, è anco-ra prevista la votazione per alzata di mano);collegare la questione di fiducia non tanto airapporti tra Governo e Parlamento, con par-ticolare riferimento all’attuazione del pro-gramma, quanto piuttosto alle materie ine-renti ai diritti fondamentali, su cui puòessere richiesto il voto segreto (art. 49,comma 1, reg. Cam.).
Il progetto che ispira la riforma del 1971è quindi ben più complesso di quanto con-siderato, a prima vista, dalla dottrina mag-gioritaria (es. G. Boccaccini 1974, pp. 71ss.). Non è soltanto finalizzato a garantire
una disciplina restrittiva dell’oggetto dellaquestione di fiducia come “contropartita”dell’ingresso del PCI nella “maggioranzaregolamentare” (M. Caprara 1979, pp. 359ss.), ma intende collegare tale disciplinaalla tutela dei diritti di libertà della primaparte della Costituzione (in parte, espres-samente richiamati dall’art. 49, comma 1,reg. Cam.). Di qui, però, il vizio di fondo diuna normativa, che, anziché riconnettere,in senso stretto, i profili oggettivi dell’isti-tuto ai contenuti della relazione fiduciaria,a garanzia dello “svolgimento” dei punti piùqualificanti del programma di governo inParlamento, persegue un più ampio colle-gamento, mediante il richiamo al votosegreto, alle “materie di coscienza” e aidiritti fondamentali. Prospettiva, quest’ul-tima, discutibile, non soltanto perché indi-vidua un’area ingiustificatamente preclusaal rafforzamento in Parlamento dell’indi-rizzo governativo (A. D’Andrea 1991, pp.220 s.), ma soprattutto perché ultronearispetto alle finalità della questione di fidu-cia nell’ordinamento costituzionale italia-no, volta “soltanto” a garantire l’“emersio-ne” (e l’attuazione) in Parlamento dei puntipiù qualificanti del programma di governo.
In altre parole, la disciplina della que-stione di fiducia del 1971 perseguiva l’am-bizioso progetto di collegare il restringi-mento dell’ambito di operatività dell’isti-tuto alla tutela dei diritti fondamentali ealla prima parte della Costituzione. Ad unanobile finalità corrispondeva, però, lascelta di un rimedio errato, perché finivaper assumere sotto il prisma della relazio-ne fiduciaria garanzie estranee al rappor-to fra Governo e Parlamento e al circuitodell’indirizzo politico di maggioranza, ecreava piuttosto un improprio collegamen-to tra la tutela dei diritti fondamentali e un
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criterio casuale quale la modalità di vota-zione a scrutinio segreto, quando invece lesuddette garanzie si sarebbero dovutericercare nella piena valorizzazione deglielementi di correzione esterni alla forma digoverno parlamentare, a partire dalla Cortecostituzionale.
Anche per quanto concerne gli aspettiprocedurali, con particolare riferimentoalle modalità e ai tempi di discussione, ladisciplina del regolamento della Cameradel 1971 ha mostrato alcuni limiti. Essa si èinfatti paradossalmente prestata ad un usoostruzionistico, soprattutto nella parte incui forniva ampie garanzie circa la possibi-lità di intervento del singolo deputato neldibattito su questioni di fiducia poste sul-l’approvazione o reiezione di emendamen-ti ed articoli ai progetti di legge (art. 116,comma 1, reg. Cam.).
Prova ne siano le successive vicendeparlamentari che hanno mostrato lacostante necessità di procedere a continuiaggiustamenti e razionalizzazioni delladisciplina della discussione sulla questio-ne di fiducia, soprattutto attraverso la “giu-risprudenza” parlamentare e i pareri dellaGiunta per il regolamento.
Anzitutto, il c.d. “lodo Iotti” del 1980,con il quale il Presidente della Cameraafferma il carattere di «discussione politi-ca» dell’illustrazione degli emendamential testo, «tendente ad influire sullo stessovoto di fiducia», cosicché essa va discipli-nata secondo il principio generale delladiscussione di cui all’art. 43 reg. Cam., checonsente un solo intervento a ciascundeputato.
In secondo luogo, il parere della Giun-ta per il regolamento dell’8 febbraio 1989(confermato dall’Assemblea nella sedutadel 28 febbraio 1990), che, recependo i
contenuti della riforma regolamentare del1988 sulla prevalenza del voto palese, affer-ma il principio per cui, in caso di questio-ne di fiducia posta su un disegno di leggecomposto da un unico articolo, la votazio-ne finale può (ma non deve) essere a scru-tinio segreto.
Pur mantenendo l’anomalia della dop-pia votazione finale e non sciogliendo ilnodo – ancora irrisolto – in merito allafacoltà del Governo di porre la questione difiducia sulla votazione finale di un proget-to di legge, viene così quantomeno supera-to il doppio scrutinio con modalità di vota-zione differenti (uno palese e uno segreto)in caso di progetti di legge composti da ununico articolo, che poteva, tra l’altro, mina-re alla radice la stabilità dei governi.
Si trattava infatti di uno degli aspetti piùcuriosi della prassi della Camera desumibi-le dalla riforma del 1971, in occasione dellaposizione della questione di fiducia, peruna consuetudine interpretativa errata, incaso di progetto di legge composto da ununico articolo, del corretto presuppostorappresentato dall’art. 72, primo comma,Cost., laddove è prescritta l’approvazionedi un progetto di legge articolo per artico-lo e con votazione finale. In effetti, il com-binato disposto tra gli artt. 49 e 91, comma1, reg. Cam. (nella versione previgente alleriforme del 1988-90) determinava l’auto-matica applicazione del voto segreto allavotazione finale dei progetti di legge, conl’assurda conseguenza di arrivare ad unadoppia votazione in caso di disegni di leggecomposti da un unico articolo (e, quindi, sututti i disegni di legge di conversione didecreti legge): la prima a scrutinio palese(per effetto della posizione della questionedi fiducia, in applicazione, tra l’altro, deldisposto costituzionale relativo alla vota-
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zione articolo per articolo di un progetto dilegge) e la seconda a scrutinio segreto (exart. 91, comma 1, reg. Cam., che prevedeval’obbligatorietà della votazione finale ascrutinio segreto). La conseguenza para-dossale era che, il Governo, battuto nellaseconda deliberazione per effetto dei fran-chi tiratori che eludevano la disciplina dimaggioranza, pur non essendo giuridica-mente obbligato era politicamente indottoalle dimissioni.
Si registrò, in effetti, qualche caso in cuiquesta prassi irrazionale dispiegò i suoieffetti negativi, anche se in misura quanti-tativamente minore rispetto a come a voltesi tende a sottolineare (S. Traversa 1991, pp.165 ss.). In particolare, il secondo GovernoCossiga (27 settembre 1980) e il primoGoverno Craxi (7 giugno 1986) furonoindotti alle dimissioni pur avendo appenaottenuto il rinnovo della fiducia (S. Traver-sa 1991, p. 166; M. Olivetti 1996, p. 257; S.Curreri 2001, p. 530).
Anche sotto questo profilo, tuttavia, vi èuna spiegazione “nobile” della scelta delriformatore del 1971, non necessariamen-te collegata soltanto ad un allargamento delconsenso al principale partito di opposi-zione. La doppia votazione prevista in casodi questione di fiducia posta su un disegnodi legge composto di un unico articolo veni-va infatti spiegata alla luce dell’art. 72,primo comma, Cost., che distingue travotazione articolo per articolo e votazionefinale del disegno di legge. Tuttavia, se lafinalità del disposto costituzionale è ravvi-sabile – come sembra corretto – nell’inten-to di sottoporre a ciascuna Camera unavalutazione del disegno di legge dapprimanelle sue singole parti e poi nel suo insie-me, la doppia votazione – per giunta conmodalità differenti – non troverebbe alcu-
na ragione giustificativa (M. Olivetti 1996,p. 258), ed anzi finirebbe per acuire i pro-fili di incostituzionalità della procedura,già, di per sé, viziata in caso di disegni dilegge (o di emendamenti) redatti in ununico articolo contenente una congerievasta e disomogenea di precetti normativi.
Va anche detto, però, che fu la prevalen-za dello scrutinio segreto a segnare gliinconvenienti sopra segnalati, che nonpaiono, in ultima analisi, direttamenteimputabili alla disciplina regolamentare del1971. Certo, se si fosse proceduto ad una piùorganica riforma che avesse segnato, già nel1971, l’inversione della prevalenza delloscrutinio segreto su quello palese, si sareb-be potuta garantire una disciplina dell’isti-tuto maggiormente conforme ai canoni delparlamentarismo razionalizzato.
Al Senato, invece, dal punto di vista del-l’oggetto, anche con la novella regolamenta-re del 1988, non si è giunti ad una discipli-na così restrittiva come quella prevista dalregolamento della Camera. Né, sul pianostrettamente procedurale, si pongono tutti iproblemi che caratterizzavano – e ancor oggi,in qualche misura, caratterizzano – la pras-si della Camera: è pacificamente riconosciu-ta la facoltà di porre la fiducia sulla votazio-ne finale di un disegno di legge; non si è maiprodotto un ostruzionismo radicale suitempi e sul numero di interventi in occasio-ne della posizione della questione di fiducia;non è mai stata prevista l’obbligatorietà delvoto finale a scrutinio segreto su un disegnodi legge, e, con essa, non si sono mai postitutti i conseguenti problemi connessi allaquestione del doppio scrutinio.
In conclusione, la riforma del 1971giunse al rilevante risultato rappresentatodalla codificazione regolamentare dell’isti-tuto prima lasciato soltanto alle convenzio-
Rivosecchi
153
Itinerari
154
ni, anche nel tentativo di arginare alcunestorture delle prassi previgenti (G. Boccac-cini 1974, p. 287). Tuttavia, se fosse stata –già allora – combinata alla riforma del votosegreto, essa avrebbe potuto dispiegare unmaggiore rendimento sul piano del raffor-zamento della posizione direttiva delGoverno in merito allo svolgimento dell’in-dirizzo, che non pare comunque inconci-liabile con una ricostruzione della relazio-ne fiduciaria in termini bilaterali, sinallag-matici e continuativi (G. Rivosecchi 2008,pp. 285 ss.), e che sembrerebbe pertantocomunque giustificare l’eventuale esclusio-ne di alcune materie dal perimetro riser-vato alla questione di fiducia.4. Considerazioni conclusive
Volendo esprimere qualche considerazioneconclusiva, mi pare di poter affermare – siapure con qualche semplificazione – che lagenesi, la codificazione e, per certi versi, lostesso rendimento della riforma regola-mentare del 1971 mostri quanto essa risul-ti lontana dall’interpretazione predomi-nante, che ne vede l’espressione più com-piuta del modello consociativo.
Il quadro brevemente tratteggiato sem-bra piuttosto indicare come i regolamentiparlamentari del 1971 si mostrassero atten-ti sia ai profili e agli istituti inerenti almomento della “partecipazione”, sia aquelli relativi alla razionalizzazione delmomento della “decisione”.
Se pure, sotto quest’ultimo profilo, ildisegno riformatore rivelò, nel corso deglianni, i limiti maggiori, non per questoquella grande riforma regolamentare puòessere ridimensionata. Essa fu infattiespressione più compiuta di un’intensadialettica democratica, nella quale il legi-slatore si pose in una prospettiva di prose-
cuzione e attuazione del dialogo Costituen-te, fornendo i presupposti per la ridefini-zione della funzione di indirizzo politico delParlamento.
In quella stagione, molto più che in altrefasi della storia del diritto parlamentare ita-liano, i regolamenti riuscirono a contempe-rare processi di rappresentanza maggior-mente aderenti all’impianto della Carta costi-tuzionale con una prima significativa razio-nalizzazione dei procedimenti decisionali.
Venne così compiuto un significativotentativo per garantire una dimensione“inclusiva” del Parlamento, che consentìall’istituzione di assicurare quella funzionelegittimante e quelle prestazioni di unitàindispensabili rispetto all’articolata tramadei soggetti del pluralismo costituzionale.
Cogliendo questa prospettiva di analisi,non si può non riconoscere il radicamentoprofondo, fornito da quella riforma, alregolamento parlamentare come fonte pri-migenia di definizione dell’indirizzo, chegli avrebbe consentito di svolgere appienoquella funzione di sintesi pluralistica dellearticolate istanze politiche, economiche esociali del Paese. Di qui, l’impronta bipar-tisan, ovvero, per meglio dire, l’attitudine aporsi come veicolo di omogeneità costitu-zionale, che accompagnerà costantemente– nelle successive fasi di razionalizzazionedella dialettica e del processo decisionale –il regolamento parlamentare come princi-pale fattore di riconoscimento reciprocodelle forze politiche rispetto alla garanziademocratica di prestazioni unificanti delParlamento. E ciò pare tanto più rilevantein una fase storica in cui tutte le altre fontidel diritto, inclusa la stessa Costituzione,rischiano di essere impropriamente e peri-colosamente assoggettate alla regola dimaggioranza, nonostante il vincolo costi-
Rivosecchi
155
tuito dalla pronuncia referendaria del 25-26 giugno del 2006.
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157
Vorrei anzitutto fare alcune precisazioni
sulla prima legislatura repubblicana, che è
stata definita “all’inglese” per una carat-
teristica predominante; e cioè per la dop-
pia titolarità da parte del premier De
Gasperi sia della Presidenza del Consiglio
che della leadership del suo partito. Lo sta-
tista trentino, pur non essendo più segre-
tario della Democrazia cristiana, ne era
però il leader indiscusso. In tutta la prima
legislatura non si riscontra mai quella
polemica contro il doppio incarico che si
rivolgerà più tardi contro Fanfani e contro
De Mita, per il fatto di cumulare la carica
di segretario del partito e di Presidente del
Consiglio. De Gasperi, pur non rivestendo
la carica di segretario del partito, tenuta
prima da Piccioni, poi da Taviani e da
Gonella, è sempre stato il leader, ricono-
sciuto da tutti come tale. Questo assimila-
va la forma di governo italiana alla situazio-
ne inglese.
Naturalmente De Gasperi si rendeva
conto, malgrado i rilievi critici di Leone
per una sua scarsa conoscenza delle prassi
seguite nelle due Camere, di una obsole-
scenza delle norme contenute nei regola-
menti prefascisti. De Gasperi era ben con-
sapevole, come testimonia il suo testamen-
to politico a Napoli nel 1954, dei limiti dei
regolamenti parlamentari. Ed è questo uno
dei motivi non ultimi del tentativo di legge
c.d. maggioritaria (vulgo truffa): De Gaspe-
ri affermava esplicitamente che, se con il
premio si fosse consolidata una maggio-
ranza ampia in Parlamento, dopo il pas-
saggio della legge in sede elettorale, sareb-
be stato possibile varare regolamenti più
moderni, adeguati ai tempi più veloci della
vita contemporanea.
Da ultimo vorrei notare che nella prima
legislatura vengono in essere tratti fonda-
mentali della nostra forma di governo. Non
c’è solo l’accordo con Einaudi per riserva-
re al Presidente della Repubblica la nomi-
na dei giudici costituzionali e dei senatori
a vita senza nessuna interferenza governa-
tiva, ma c’è anche un rafforzamento del
Governo nei confronti del Parlamento
mediante la innovazione della questione di
Consuetudini costituzionali e Regolamenti parlamentari
leopoldo elia
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
Itinerari
158
fiducia. La questione di fiducia non ha unfondamento esplicito nel testo costituzio-nale, tanto è vero che il Presidente dellaCamera Gronchi, per un periodo non bre-vissimo, ogni volta che era posta la que-stione di fiducia con effetti di abbreviazio-ne del lavoro parlamentare, in particolaresulla legge maggioritaria, affermava chequel caso non faceva precedente; ma inrealtà, siccome poi questi “non preceden-ti” si accumulavano, in pratica si formò unaconsuetudine costituzionale vera e propriaa favore della richiesta del voto di fiducia,che costituisce comunque un mezzoimportante a disposizione del Governo.
A questo proposito, c’è un problemache viene un poco trascurato, circa la natu-ra della fonte regolamentare. La fonteregolamentare è molto più articolata diquello che si potrebbe pensare: ci sonocioè norme regolamentari più resistenti,con una base più forte che non altre piùopzionali, di carattere strumentale. Qualisono queste norme più forti all’interno delregolamento parlamentare? Sono almenoquelle che codificano una consuetudineche si è già formata: quando le norme rego-lamentari riconoscono la questione difiducia (art. 116 reg. Cam.), questa è già invigore come regola di natura consuetudi-naria. Quindi, anche in sede di revisionedel regolamento, non sarebbe così facile,anzi, non dovrebbe essere addirittura pos-sibile cambiare quella norma, mentresarebbe sicuramente ammissibile cam-biarne molte altre. Analoga situazione sipresenta nel rapporto fiduciario Camere –singoli ministri: la sfiducia individuale neiconfronti dei ministri, che è codificata nelregolamento della Camera, non vieneesplicitata in quello del Senato, dove vige
in quanto consuetudine costituzionale. C’èuna diuturnitas ed una opinio juris che sonomeno forti forse di altre per la ripetizionedegli eventi che danno luogo alla consue-tudine, ma la ripetizione c’è, per il fattostesso che i Presidenti mettono ai voti lemozioni di sfiducia, sempre respinteprima del famoso caso Mancuso, perché ilPresidente del Consiglio solidarizza con ilministro che si tenta di sfiduciare. Quelloche è importante dal punto di vista dellafonte non è il risultato del voto, ma il fattoche il Presidente metta ai voti questemozioni di sfiducia, perché così si formaappunto una consuetudine costituzionale.
Corridoio di Palazzo Montecitorio.
Elia
159
È il rapporto tra diritto non scritto ediritto scritto che viene in considerazio-ne: pur presentandosi tutte come norme difonte regolamentare (e perciò di ugualeforza), in realtà alcune di esse si caratteriz-zano, a un livello più profondo, per ungrado maggiore di resistenza e di durezzanormativa essendo già fondate su una fonteconsuetudinaria.
161
1. Le cause del processo riformatore
Qual è la forza della procedura parlamenta-
re? Questa domanda non se la pone un giu-
rista, ma Curzio Malaparte in “Tecnica del
colpo di Stato”.
La risposta è lapidaria e a prima vista
sconcertante: la lentezza. Malaparte fa
questa affermazione esaminando il colpo
di Stato di Napoleone del 18 brumaio dell’
anno VIII (9 novembre 1799). Questo era
stato concepito come una rivoluzione par-
lamentare, un colpo di stato legale che
doveva condurre ad impadronirsi del pote-
re senza illegalità e senza violenze, seguen-
do le procedure costituzionali. La lentezza
delle procedure mette in pericolo la rea-
lizzazione del piano studiato da Sieyès e da
Luciano Bonaparte, ma il corpo legislativo
commette un errore: si precipita a votare il
decreto di proscrizione di Napoleone e
provoca l’uso della forza. La tesi di Mala-
parte è che se la seduta fosse stata rinviata
all’indomani il colpo di stato avrebbe potu-
to fallire.
Cosa hanno a che fare queste considera-
zioni su un colpo di stato con le democra-
tiche riforme regolamentari della Camera
degli anni Ottanta? Il fatto che esse furono
in primo luogo rivolte a superare la lentez-
za delle procedure del regolamento del
1971. Una lentezza che era stata funzionale
all’affermazione del modello di governo
consensuale o consociativo e alla conse-
guente centralità parlamentare.
In effetti, Malaparte, pur non essendo
un addetto ai lavori (o, forse, proprio per
questo) coglie con immediatezza e senza
fronzoli un punto essenziale: la lentezza
delle procedure favorisce la contrattazione
e la mediazione parlamentare, mentre la
rapidità è a vantaggio del Governo (ai nostri
fini, dobbiamo porre un governo democra-
tico al posto del golpista Napoleone,
entrambi accumunati però dal fatto di esse-
re un soggetto esterno al Parlamento che
cerca di far approvare dall’assemblea il
proprio orientamento).
Una Camera dei deputati che si lima le
unghie in un impeto autolesionistico?
Le riforme degli anni ’80 alla Camera
vincenzo lippolis
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
Non è così perché vi furono solideragioni per procedere in tal senso e il per-corso riformatore prese il tempo dell’inte-ro decennio e non fu sempre lineare.
Le cause di tale processo di riformafurono sostanzialmente due: a livello par-lamentare, il disfunzionamento e in alcunicasi la paralisi provocati dall’azione delgruppo radicale, il quale sfruttò metodica-mente tutte le opportunità ostruzionisticheofferte dal regolamento; a livello politicopiù generale, l’esaurirsi dell’esperienzadella “solidarietà nazionale”.
Quanto alla prima causa, va osservatoche il modello consociativo del regolamen-to del 1971 presupponeva una ricerca delcompromesso nel tacito accordo di non uti-lizzare, se non in casi estremi, le possibili-tà insite nel regolamento di impedire ladecisione. L’ingresso di una forza politicache era stata al di fuori dell’accordo rego-lamentare del 1971 e che rifiutava il com-promesso politico provocò l’impraticabili-tà di un sistema di procedure che potevaessere bloccato da un numero di deputatiirrisorio rispetto al plenum (all’incirca unadecina). Si sviluppò così un filone di modi-fiche volto a ridurre gli spazi dell’ostruzio-nismo, a limitare i poteri dei gruppi mino-ri, a ridimensionare, in definitiva, il prin-cipio unanimistico.
In altre parole, si trattava di fare opera dipulizia di tutte quelle norme regolamentariche, come l’esperienza provava, consentiva-no a pochissimi deputati organizzati di ritar-dare insopportabilmente, o addirittura diimpedire, qualsiasi decisione. Era un’esi-genza di sopravvivenza della stessa Camera.
La dimostrazione di ciò è nel fatto cheper giungere a modificare il regolamentonel 1981 si dovette modellare, sulla basedelle norme regolamentari esistenti, una
procedura del tutto nuova. Nell’impossibi-lità di votare le migliaia di emendamentipresentati, l’aula votò “principi emendati-vi” che la Giunta del regolamento trasfor-mò in compiute disposizioni che furono poisottoposte al voto dell’assemblea. Si formòuna “maggioranza regolamentare”, desti-nata a durare fino al 1988, e cioè fino allariforma del voto segreto, composta dai par-titi della maggioranza e dalla maggior forzadi opposizione, il PCI, e una “minoranzaregolamentare” costituita dai radicali(Manzella).
Veniamo ora alla seconda causa delleriforme. L’esaurirsi nel 1979 della “solida-rietà nazionale” aprì una nuova fase politi-ca che portò alla formazione del “pentapar-tito” e a ricollocare il PCI all’opposizione.All’interno della maggioranza governativa, ilPSI divenne il più fermo sostenitore dellasua compattezza e del patto su cui essa sibasava per evitare ogni dialogo alle sue spal-le tra DC e PCI ed essere l’elemento insosti-tuibile di ogni maggioranza di governo.
Poste queste premesse politiche la poli-tica istituzionale del pentapartito si incen-trò conseguentemente sul tentativo di raf-forzare, da un lato, all’interno dell’istitu-zione Governo, la figura del Presidente delConsiglio e, dall’altro, il ruolo del Governonei confronti del Parlamento (Fusaro). Siconiò la formula della “governabilità” allacui base era l’idea di svincolare il raccordoGoverno-maggioranza dalla necessità del-l’intesa con l’opposizione e quindi diapprestare quegli strumenti proceduraliidonei a consentire l’attuazione dell’indi-rizzo politico di maggioranza. Si è parlatoin proposito di tentativo di affermare unmaggioritarismo funzionale, da ricercarsicioè nelle procedure, in assenza di un mag-gioritarismo strutturale, cioè di norme che
Itinerari
162
a monte garantissero la formazione di mag-gioranze stabili e coese (Fusaro).
Sullo sfondo vi era l’idea, enunciatachiaramente dal Presidente del ConsiglioSpadolini, alla Camera il 2 settembre 1982,a chiusura del dibattito sulla fiducia al suosecondo Governo di “avviare lo sbloccodella democrazia bloccata anche con modi-ficazioni istituzionali che, favorendo ladecisione, favoriscano il ricambio e l’alter-nativa, facendoci uscire dai rischi dell’as-semblearismo”.
Sulla base di questa nuova visione delrapporto Governo-maggioranza-opposi-zione si sviluppò una serie di progetti rifor-matori, alcuni coronati da successo, altridestinati al fallimento. Nel 1985 fu costi-tuita la prima commissione bicamerale conil compito di elaborare un progetto di rifor-ma costituzionale, la commissione Bozziche non produsse alcun risultato concreto.Sul versante della legislazione ordinaria sipuò ricordare la legge sulla Presidenza delConsiglio del 1988. Venivano naturalmen-te in gioco anche i regolamenti parlamen-tari, in particolare nell’accennata prospet-tiva di un rafforzamento della posizione delGoverno in Parlamento.
Lo stesso Governo, a differenza di quelche accadeva in passato, giunse a prendereposizione in proposito. Spadolini enunciònel 1982 il “decalogo istituzionale”, cheinvestiva anche le procedure parlamentari(basti pensare all’idea di “corsie preferen-ziali” per i progetti di legge governativi sucui ci si affannò per l’intero decennio conrisultati modesti). De Mita nel 1988 poseuna questione di fiducia “extra-parlamen-tare” (Manzella) sul capovolgimento delprincipio del voto segreto, minacciando ledimissioni del Governo nel caso non fossestato accolto.
Nel processo riformatore degli anniOttanta si può cogliere un elemento disimilitudine con la vicenda delle riformadel regolamento della Camera del 1997. Inentrambi i casi le riforme regolamentariprocedono parallelamente ad un dibattitodi aggiornamento della Costituzione cheporta alla istituzione di due commissionibicamerali cui si affida questo compito: lagià citata commissione Bozzi nel 1985 e lacommissione D’Alema nel 1997. Inentrambe le occasioni le riforme costitu-zionali fallirono (nella commissione Bozzila spaccatura si ebbe proprio sulla questio-ne del voto segreto che poi trovò soluzionenella disciplina regolamentare) e le rifor-me dei regolamenti parlamentari furono leuniche parti di un più ambizioso disegnorimasto incompiuto.
Le riforme del periodo consideratohanno avuto un carattere novellistico: ripe-tuti, direi torrentizi, interventi parziali,contingenti e per taluni aspetti anche con-traddittori, di progressivo accostamentoalle linee generali del panorama politico-istituzionale a grandi tratti delineato. Essesono state più numerose alla Camera (1981,1983, 1986, 1987, 1988, 1989 e 1990), menoal Senato (1982, 1985 e 1988, quest’ultimacon carattere di maggiore organicità rispet-to a tutte le altre, anche della Camera) per-ché il regolamento del Senato non contene-va quegli aspetti estremi in senso unanimi-stico propri del regolamento Camera.
Una differenza delle parziali riforme deldecennio 1981-1990 rispetto a quella gene-rale del 1971 risiede nel fatto che, mentrequest’ultima, almeno per gli aspetti consi-derati in questo scritto, registrava e forma-lizzava prassi consolidate e costituiva unosviluppo dell’equilibrio del sistema che siera andato consolidando nel periodo prece-
Lippolis
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dente, le nuove tendenze degli anni Ottan-ta marcano un punto di discontinuità ehanno necessità per affermarsi del muta-mento del dato regolamentare.
Un’illustrazione cronologica richiede-rebbe una disamina analitica che è stata giàcompiuta in dottrina (Traversa). Ai fini diuna visione di sintesi, è preferibile inveceaccorpare i vari interventi secondo filonitematici. Questa impostazione, che purcomporta qualche salto cronologico conanticipazioni o ritorni, appare anche piùutile al fine di far comprendere il sensocomplessivo della tendenza riformatrice.
2. Le riforme dell’organizzazione dei lavori
Il primo filone da considerare è quello del-l’organizzazione dei lavori negli aspetti deitempi dei procedimenti deliberativi, deipoteri procedurali dei presidenti di gruppoe della programmazione, che costituisconole diverse facce di un unico problema: latempestività della decisione.
Si approvò una serie di modifiche (inbuona parte di adeguamento alla disciplina
del Senato) che stabilirono o ridussero itempi massimi degli interventi nelle variefasi procedurali e le razionalizzano impe-dendo la ripetitività degli interventi (casotipico fu la discussione degli articoli di unprogetto di legge – art. 85 r.C. – riguardoalla quale si stabilì che ciascun deputatopotesse intervenire una sola volta indipen-dentemente dal numero di emendamentipresentati). Si toccò per la prima volta ladisciplina degli emendamenti (per la qualedecisiva sarà poi la riforma del 1997) stabi-lendo termini per la loro presentazione eintroducendo il c.d. “canguro” (cioè la pos-sibilità per il Presidente di far votare alcu-ni emendamenti e non altri), esplicitamen-te riguardo al caso di presentazione di unapluralità di emendamenti differenziantisisolo per variazioni a scalare di cifre o dati,ma prevedendo anche più in generale (eriproducendo una norma già presente nelregolamento del Senato) che il Presidentepossa modificare l’ordine di votazione degliemendamenti quando lo reputi opportunoai fini dell’economia e della chiarezza dellevotazioni. Quest’ultima norma sarà pocoutilizzata all’inizio, ma diverrà la base diun’importante evoluzione dell’organizza-zione del voto degli emendamenti con laprassi delle votazioni riassuntive o perprincipi, poi codificate con la riforma del1997. Iniziò così il superamento dell’ideache alla presentazione di un emendamen-to corrisponda un diritto a vederlo posto invotazione, idea basata sul riconoscimentoalla potestà di presentare emendamenti diun fondamento costituzionale, più precisa-mente nell’ art. 71 Cost. (Cervati).
Venne poi rotto il principio dellaequiordinazione dei gruppi quanto all’eser-cizio di poteri procedurali attribuiti ai loropresidenti (richieste di votazioni qualifica-
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Montecitorio, banco della Presidenza e del Governo.
te, possibilità di presentare emendamentinel corso della discussione degli articoli,etc.). In relazione ad alcuni di tali poteri, sistabilì che la richiesta possa essere avanza-ta da un certo quorum di deputati ovvero dauno o più presidenti di gruppo se singolar-mente o insieme risultino di pari consi-stenza numerica (c.d. criterio ponderale). Èevidente che così ai gruppi minori, in par-ticolare quelli costituiti in deroga al nume-ro minimo di venti, veniva impedito di atti-vare strumenti procedurali idonei a ritar-dare i dibattiti o a influire sulla decisione dimerito minacciando tale attivazione.
A far sistema con queste modifiche nelsenso del superamento del criterio unani-mistico fu l’evoluzione che si sviluppò sulversante della programmazione dei lavori.Anche in questa materia fu la Camera a pro-cedere alle prime modifiche nel 1981 per-ché il sistema, in mancanza di accordo una-nime, non conosceva la valvola di salva-guardia vigente al Senato del calendariosettimanale predisposto dal Presidente eche può essere modificato dall’assemblea.
La modifica del regolamento dellaCamera si indirizzò su questo modello deci-sorio con delle varianti sia quanto all’og-getto (poiché, in mancanza di unanimità,si affidò al Presidente il compito di predi-sporre gli schemi di un programma bime-strale e di calendari bisettimanali, sullabase degli orientamenti prevalenti e tenu-to conto delle proposte di minoranza) siaquanto alla procedura di decisione (perchéle definitive proposte presidenziali, even-tualmente modificate rispetto allo schemainiziale sulla base di indicazioni emerse almomento della comunicazione di questoall’assemblea, erano in ogni caso sottopo-ste al voto dell’aula che poteva approvare orespingere in blocco, ma non modificare).
Al Presidente fu attribuito un potere diarbitraggio (Labriola) tra le esigenze deidiversi schieramenti con una tutela dellerichieste dell’opposizione, ma nel contem-po la decisione d’aula era una garanzia per-ché fossero comunque riservati adeguatispazi progammatori al raccordo Governo-maggioranza.
Già questa prima riforma della program-mazione dei lavori fu giudicata una nettainversione di tendenza rispetto al decennioprecedente nel quale si era affermato ilmodello della centralità parlamentare (Capo-tosti), anche se non mancò una visione diver-sa, in un certo senso riduttiva, rimasta piùisolata. Ritenendo che le norme del regola-mento del 1971 in materia di programmazio-ne e di disciplina delle discussioni costituis-sero più un monumento di insipienza eimprevidenza piuttosto che la espressionedegna di rispetto di una contestata ma signi-ficativa ideologia storicamente affermatasi,G. U. Rescigno ritenne che le modifiche rego-lamentari costituissero la fine ad una disfun-zione ridicola, prima ancora che grave piut-tosto che la dimostrazione della fine di unperiodo costituzionale.
Il sistema della programmazione deilavori trovò poi un nuovo equilibrio alla finedel decennio con la riforma del 1990.
Tratti essenziali di tale riforma, chemantenne il principio di base della ricercadell’accordo unanime, furono:
a) il riconoscimento, in contrasto con ladisciplina precedente, di un formale ruoloattivo del Governo quanto alle indicazionidelle priorità della programmazione, indi-cazioni di cui si doveva tener conto nellaformulazione di programmi e calendari;
b) il recepimento in tali atti delle pro-poste dei gruppi in rapporto alla loro con-sistenza numerica, con la tutela quindi
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anche delle indicazioni provenienti daigruppi di opposizione;
c) la conferma del ruolo decisivo del pre-sidente d’Assemblea in caso di mancatoaccordo unanime. Il ruolo arbitrale del pre-sidente venne significativamente rafforzato,anzi esaltato, poiché, non raggiungendosil’accordo, era lui a predisporre programmi ecalendari che divengono definitivi con lamera comunicazione all’assemblea cui fusottratta la potestà deliberativa finale cheaveva in base al testo del 1981;
d) la introduzione di norme volte a dareeffettività alla programmazione attraversol’individuazione di tempi certi della discus-sione complessiva di ciascun punto all’or-dine del giorno.
Il contingentamento dei tempi venneintrodotto nel 1983 solo in relazione allasessione di bilancio, di cui parlerò tra poco.Un tentativo di renderlo una regola genera-le e di configurare una “corsia preferenzia-le” per i progetti di legge urgenti fallì nel1986. Solo al termine del decennio consi-derato, la riforma del 1990 rese l’applica-zione del contingentamento generalizzata.Il sistema era piuttosto complesso e mac-chinoso, con una distinzione fra contin-gentamento della discussione generale edelle fasi successive. In sintesi, il princi-pio di fondo era che in mancanza di accor-do unanime il presidente potesse contin-gentare l’intero procedimento solo nelcalendario successivo a quello che ne pre-vedeva il completamento della trattazione ese questa ipotesi non si fosse verificata.Siamo ancora lontani dal più stringentecontingentamento che verrà realizzato conla riforma del 1997.
3. La sessione di bilancio
Quale forma speciale di programmazionedei lavori può essere considerata una dellenovità più importanti del periodo: la ses-sione di bilancio.
Con le riforme del regolamento dellaCamera nel 1983 veniva infatti modificata ladisciplina del procedimento annuale diapprovazione dei disegni di legge di bilan-cio e finanza pubblica coerentemente con leprevisioni della legge n. 468 del 1978 diriforma della disciplina di contabilità diStato. Obiettivo essenziale del nuovo qua-dro normativo era quello di definire proce-dure idonee a garantire l’approvazionedegli strumenti di finanza pubblica entro iltermine ordinario del 31 dicembre previstodalla Costituzione e di garantirsi un quadrodi riferimento certo sugli equilibri finan-ziari complessivi. A ciò si perveniva con larigida e precisa scansione di tempi e fasidel procedimento dettata dalle nuovenorme regolamentari, che introducevano,per la prima volta alla Camera, il sistemadel contingentamento dei tempi e assicura-vano il tempestivo e globale esame deidocumenti proposti dal Governo, nonchécon il blocco della legislazione di spesa pertutta la durata della sessione.
In questa fase l’obiettivo di elevare illivello di coerenza e tempestività delle deci-sioni in materia di finanza pubblica nonvenne perseguito mediante un rafforzamen-to diretto dei poteri del Governo nell’ambi-to della decisione di bilancio, quanto piut-tosto con la concentrazione dei tempi adisposizione del Parlamento per l’assunzio-ne delle proprie deliberazioni in materia,delle quali anzi, con l’istituzione della leggefinanziaria, viene dilatato l’ambito. Peral-tro, la prima esperienza applicativa del
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nuovo assetto legislativo e regolamentare sirivelò assai problematica, caratterizzata dalfenomeno delle cosiddette finanziarie omni-bus che rappresentano un grave fattore diingovernabilità della politica di bilancio.
L’esigenza di una più forte strutturazio-ne normativa del rapporto fra Governo emaggioranza parlamentare portò poi all’ap-provazione della legge n. 362 del 1988 diriforma della contabilità di Stato, che intro-dusse il Documento di programmazioneeconomico-finanziaria quale nuovo para-metro di riferimento per le decisioni difinanza pubblica. Infatti, lo strumento diindirizzo politico (risoluzione) che ciascunaCamera adotta sul Documento presentato dalGoverno indica le variabili macroeconomi-che programmatiche ed i valori di riferimen-to per il triennio successivo dei principalisaldi di bilancio, che costituiscono gli obiet-tivi minimi della manovra di finanza pub-blica per tale periodo. Le risoluzioni parla-mentari sul DPEF individuano inoltre ilnumero e le caratteristiche dei provvedi-menti c.d. collegati alla legge finanziaria. Adessi la legge n. 362 affidava il compito didefinire gli interventi di correzione dellalegislazione sostanziale necessari al conse-guimento degli obiettivi programmatici,mentre la finanziaria veniva ricondotta adun contenuto necessario e predeterminatotale da indicare soltanto le grandezze finan-ziarie e le macrocompatibilità di bilancio.
L’innovazione costituita dal Documen-to di programmazione economico-finan-ziaria ebbe un forte impatto perché, da unlato, consentiva di scindere temporalmen-te la definizione degli obiettivi macroeco-nomici connessi alla manovra di bilanciodalla individuazione puntuale degli inter-venti necessari per realizzare i medesimi,dall’altro – pur essendo approvato con riso-
luzioni parlamentari – costituiva un vinco-lo non solo per i conseguenti atti del Gover-no, ma anche per i successivi passaggi par-lamentari.
Di conseguenza, con parallele modificheai rispettivi regolamenti, la Camera e il Sena-to garantirono fortemente l’iniziativa gover-nativa sul quadro programmatico (la propo-sta di risoluzione sul DPEF accettata dalGoverno è votata per prima e preclude lealtre), limitarono l’ammissibilità degliemendamenti al disegno di legge finanziariae definirono una particolare disciplina perl’ordine delle votazioni sui documenti dibilancio e per i disegni di legge collegati, peri quali il Governo ha la facoltà di chiedereche il voto finale avvenga entro un determi-nato termine connesso alla manovra econo-mica complessiva. In questo modo l’interointervento correttivo di fine anno fu vinco-lato alle risoluzioni parlamentari preceden-temente adottate sul DPEF, e dunque ai con-tenuti del Documento stesso. In questomodo, peraltro, il rafforzamento del conti-nuum Governo-maggioranza parlamentarenei confronti dell’opposizione, veniva attua-to mediante l’introduzione di vincoli non disostanza ma interamente procedurali, ten-denti cioè ad imporre modalità di decisionepiù che contenuti di decisioni finanziarie.Restava infatti pienamente rimessa allavolontà del Parlamento la scelta finale sulmerito e sul tipo degli interventi da attuarecon la finanziaria ed i collegati per il conse-guimento degli obiettivi programmatici.
4. La disciplina dei decreti-legge
Un caso a parte nel panorama delle riformedel decennio è costituito dalla disciplina dei
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decreti-legge. L’opposizione comunista,che concordò con la maggioranza gli inter-venti razionalizzatori atti ad evitare la para-lisi dell’istituzione parlamentare, si preoc-cupò infatti di non creare per i disegni dilegge di conversione un percorso troppoagevole, tale cioè da consentire al Governodi padroneggiare l’attività legislativamediante un utilizzo della decretazioned’urgenza che avveniva ormai apertamenteal di fuori dei presupposti costituzionalidella straordinaria necessità ed urgenza.
Proprio con la finalità di una verificaparlamentare della esistenza di tali requi-siti nel 1981 venne prevista una specialeprocedura che, tramite il parere della com-missione affari costituzionali, si conclude-va con una pronuncia dell’assemblea; ildisconoscimento dell’esistenza dei requisi-ti costituzionali equivaleva ad una reiezio-ne del decreto.
Questa sorta di filtro di costituzionalità,che in teoria avrebbe dovuto scoraggiare ilGoverno dal ricorso ai decreti-legge troppofrequente e non rispettoso dei principicostituzionali, si dimostrò subito inutile atal fine perché abitualmente la maggioran-za parlamentare si schierava comunque asostegno dell’operato governativo. Il votosui presupposti di costituzionalità, dovendoavvenire necessariamente a scrutinio segre-to, costituì fino al 1988 solo un’ulteriore dif-ficoltà per la conversione in legge dei decre-ti ed un passaggio a rischio per il Governo acausa delle manovre dei franchi tiratori. Nel1982, il I Governo Spadolini fu costretto alledimissioni dopo che nella seduta del 4 ago-sto la Camera aveva respinto, negando l’esi-stenza della necessità ed urgenza, un decre-to in materia fiscale (il n. 430 di quell’an-no). Per altro verso, tale voto, se positivo,restituiva una legittimazione del Parlamen-
to alla reiterazione del decreto.La non funzionalità rispetto al fine
dichiarato di politica istituzionale e l’inu-tilità a fini tattici dopo la riforma del votosegreto che rese palese la deliberazione suipresupposti di costituzionalità, ha fatto sìche l’istituto sia stato abolito nel 1997.
Per quanto attiene più specificamentealla disciplina dei tempi dell’esame deidecreti-legge, alla Camera essi furono sot-tratti al contingentamento, di modo chel’opposizione potesse tenere sotto scaccoGoverno e maggioranza e condizionare ilcontenuto del disegno di legge di conversio-ne. Una scelta che non è stata esplicitamen-te mutata neanche con la riforma del 1997.
5. La sfiducia individuale ai ministri e la rifor-ma del voto segreto
Per definire il quadro delle innovazioni delperiodo relative alla posizione del Governoin Parlamento resta da dire di altre dueriforme: la sfiducia individuale ai ministrie il capovolgimento della prevalenza delvoto segreto.
La prima fu introdotta con una modifi-ca dell’art. 115 del regolamento della Came-ra nel 1986. La sfiducia individuale ha uncarattere ambivalente, se non ambiguo. Daun lato, infatti, può essere letta come unaderiva assemblearistica poiché consenti-rebbe alle assemblee parlamentari di inci-dere sulla composizione del Governo rom-pendone l’unità di indirizzo (e sotto questoaspetto ne fu sostenuta l’incostituzionalitàprima della sentenza della Corte costituzio-nale n. 7/96 che ne ha invece riconosciutola legittimità costituzionale). In questosenso, l’istituto può essere considerato
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come un rafforzamento del Parlamento neiconfronti del Governo. D’altro canto, però,va realisticamente tenuto conto che all’ori-gine dell’innovazione è anche l’obiettivo ditrasformare in fiduciarie, con il relativoregime dell’appello nominale, le tradizio-nali mozioni di censura (con le quali più omeno esplicitamente in precedenza si chie-devano le dimissioni di un ministro). Sievitava così lo scrutinio segreto possibile sudi esse, salvo che il Governo non intendes-se ingaggiare l’intera sua responsabilità conla questione di fiducia. Sotto questo aspet-to, quindi, l’innovazione tutelava il Gover-no posto al riparo da voti segreti traditori.
L’ambiguità dell’istituto è dimostratadal suo funzionamento.
In condizioni normali, la maggioranzagovernativa ha sempre fatto quadrato a dife-sa dei ministri contro cui è stata presentatala mozione di sfiducia perché nella realtàitaliana dei governi di coalizione toccare untassello significava far cadere l’intero edifi-cio governativo. D’altra parte, il voto palesenon consentiva dissensi nascosti.
L’unico caso in cui una mozione delgenere è stata approvata è stato quello delministro della giustizia Mancuso, che face-va parte di un Governo, quello Dini, noncomposto su base politica, e con caratteri-stiche fortemente anomale in quanto natoper compiere una serie di attività limitateprima di condurre il paese alle elezioni.
Ma la riforma che incise maggiormentein senso rafforzativo sul ruolo del Governoè quella, cui più volte si è fatto cenno, delleforme di votazione nel 1988.
Si capovolse il principio di preferenzaper il voto segreto a favore di quello palesee la forma segreta venne circoscritta allevotazioni riguardanti persone o attinenti aidiritti costituzionalmente garantiti o a
materie istituzionali. La riforma risultòdecisiva per il controllo del Governo sullasua maggioranza. Il voto segreto aveva infat-ti avuto effetti devastanti per la compattez-za della maggioranza, dando luogo al feno-meno dei c.d. franchi tiratori, cioè alla pos-sibilità per sue componenti (partiti o lorocorrenti) di dissociarsi dall’indirizzo politi-co comune e mettere in difficoltà il Gover-no, senza assumere una dichiarata respon-sabilità. Per altro verso, il voto segreto avevaconsentito il sostegno sotterraneo dell’op-posizione ad una maggioranza in difficoltà,aveva consentito cioè di compensare ledefezioni all’interno della maggioranza incaso di decisioni gradite all’opposizione,senza però costringere quest’ultima a veni-re allo scoperto. Il voto segreto aveva favo-rito agguati e compromessi sotterranei adanno della trasparenza e della distinzionedelle linee politiche di maggioranza e oppo-sizione, oltre che della stabilità dell’azionegovernativa. In definitiva, il voto segretoaveva garantito la dipendenza del Governodal Parlamento (Violante).
Dopo la riforma i dissensi si devonomanifestare apertamente e non sono piùpossibili imboscate tali da provocare unacrisi governativa al riparo della segretezzadel voto. L’effetto della riforma fu quindidi cambiare completamente il senso politi-co di votazioni che in passato avevano costi-tuito passaggi ad alto rischio o addiritturaletali per i governi. L’effetto del mutamen-to era particolarmente significativo alla finedegli anni Ottanta poiché si calava in unsistema politico caratterizzato da governi dicoalizione le cui componenti erano in com-petizione tra loro.
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6. Le riforme “minori”
In correlazione con il rafforzamento dellaposizione procedurale del binomio Gover-no-maggioranza non si registrano signifi-cativi rafforzamenti dei poteri dell’opposi-zione nel campo del controllo sull’attivitàgovernativa. È un dato che viene sottolinea-to da chi (Violante) si mostra sensibile aduno sviluppo equilibrato del rapporto mag-gioranza – opposizione nella prospettiva diun’alternanza al governo e inizia, quindi, aporre il tema dello statuto dell’opposizione,che tanta attenzione riceverà dopo il pas-saggio al maggioritario.
Si può solo ricordare la novità, intro-dotta da una modifica regolamentere del1983 sul modello inglese del question time,delle interrogazioni a risposta immediata,cioè con una procedura di presentazione edi risposta che si esaurisce nell’arco di qua-rantotto ore e con un dibattito concentratoin pochi minuti per interrogazione. Il livel-lo dell’interlocutore governativo salerispetto ad una normale interrogazionepoiché a rispondere sono chiamati o i mini-stri competenti o lo stesso Presidente delConsiglio. Del dibattito può essere dispo-sta la ripresa diretta televisiva. Ma l’inno-vazione ha sempre avuto una vita stentata adimostrazione dell’inutilità del trapianto diistituti parlamentari sorti in contesti deltutto diversi se non sono presenti le condi-zioni politiche per un loro attecchimento.
Vi furono poi altre riforme di impattominore.
Si riscrisse la procedura di esame deiprogetti di legge in sede redigente, masenza riuscire a rivitalizzare l’ istituto che èrimasto di rarissima applicazione.
Si intervenne sulla composizione del-l’Ufficio di Presidenza al fine di garantire,
attraverso eventuali elezioni suppletive, larappresentanza di tutti i gruppi, anche diquelli costituiti in deroga al numero mini-mo di venti.
Si ridisegnò il sistema delle commissio-ni permanenti, in particolare ridefinendo-ne le materie di competenza. Si abbandonòil tradizionale criterio della specularitàrispetto alle competenze dei ministeri, pri-vilegiando il criterio della unificazionedelle materie per settori organici e integra-ti, ancorché trasversali rispetto alle com-petenze ministeriali. Si introdusse unnuovo tipo di parere c. d. rinforzato, aven-te l’efficacia dei pareri delle commissionifiltro, al fine di evitare l’assegnazione acommissioni riunite dei progetti di leggeaventi un oggetto che tocca la competenza dipiù commissioni.
7. Un giudizio complessivo
L’opera di riforma del regolamento dellaCamera negli anni Ottanta è una vicendatormentata e apparentemente disorganicanella quale però è possibile cogliere l’affer-marsi di una tendenza nuova.
Le riforme infatti non si limitarono arazionalizzare le procedure in relazioneall’eclissi del consociativismo, ad eliminareregole che ormai costituivano solo parados-sali incongruenze, come la necessità del-l’unanimità per stabilire una qualsiasi formadi programmazione dei lavori o l’inesisten-za di un limite di durata agli interventi. Esserisposero complessivamente ad una logicapiù profonda, quella di distinguere i ruolidella maggioranza e dell’opposizione e a raf-forzare il ruolo del Governo.
Non fu però un processo lineare, né
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rapido e tale da modificare di slancio lasituazione precedente, tant’è che alcunedelle innovazioni più significative furonorealizzate solo alla fine del decennio.
La concentrazione delle procedure afavore di una decisione più rapida e tempe-stiva pagò dei prezzi a una logica politicaormai in via di superamento. Il principiodel contingentamento dei tempi fu realiz-zato in maniera stentata e, accanto a snel-limenti procedurali si aggiunse per i decre-ti-legge una nuova fase procedimentale,quella della deliberazione sui presuppostidi costituzionalità che era funzionale solo acreare un’occasione per mettere in diffi-coltà l’Esecutivo. Così come, il divieto diprevedere il contingentamento per i dise-gni di legge di conversione dei decreti.
Il dibattito sulla corsia preferenzialeper i disegni di legge governativi si risolsenella costruzione di un procedimento chein via generale, cioè per qualsiasi iniziati-va legislativa, salvo che per i disegni di leggedi conversione dei decreti-legge, offrivamargini maggiori rispetto al passato di con-clusione in tempi prevedibili.
Soprattutto non si giunse alla definizio-ne di un adeguato status del Governo inParlamento. Al Governo non furono attri-buiti autonomi poteri idonei a consentirglidi padroneggiare le procedure parlamen-tari al fine dell’attuazione del suo indirizzopolitico. Nella programmazione dei lavori,ad esempio, il Governo per far approvare lesue priorità si doveva affidare ai gruppi diuna maggioranza non sempre compatta eall’opera del Presidente. Significativo dellospirito del tempo è che, dopo la riforma del1990, la quale attribuiva al Presidente ilpotere programmatorio, vi fu chi (Marra)vide nella esaltazione del ruolo del Presi-dente una garanzia per lo stesso Governo
nei confronti di maggioranze di coalizionesempre meno compatte, sempre più risso-se al loro interno. Un’analisi che rispondead una logica che oggi stentiamo a com-prendere, ma che aveva un qualche fonda-mento nella realtà di quel periodo.
In definitiva, i tempi erano cambiati, manon tanto da superare completamente lelogiche del decennio precedente e far appro-dare il nostro parlamentarismo al modellodominante in altre grandi democrazie euro-pee come la Gran Bretagna e la Francia.
Una conferma di ciò è data dal nascereproprio negli anni Ottanta della prassi dicombinare la posizione di una questione difiducia su c.d. maxi emendamenti chesostituiscono gran parte, se non l’interotesto in discussione.
Vedendosi ristretti i tempi di parola, leopposizioni affinano altri strumenti ostru-zionistici: la presentazione abnorme diemendamenti e la mancanza del numerolegale. Il Governo allora escogita questo mar-chingegno che viene utilizzato in particolareper i disegni di legge di conversione deidecreti ponendo la fiducia su un nuovo testodell’articolo che dispone la conversione deldecreto con tutte le modifiche riferite agliarticoli di questo. Ma esso è usato anche pergli ordinari disegni di legge, accorpando ildisposto di interi e numerosi articoli riscrit-ti con le modifiche che il Governo intendeapportare o ha contrattato in sede parlamen-tare. Con la sola votazione fiduciaria il Gover-no ottiene così il risultato voluto, evitando lelungaggini dell’esame degli emendamenti, ilcui esito può anche riservare sorprese. È insostanza un surrogato italiano del vote bloquéprevisto dalla costituzione francese, con ilquale il governo può far approvare un interoprogetto di legge con le modifiche graditemediante un solo voto. La differenza è che il
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voto bloccato francese non ha il valore divotazione fiduciaria e può essere utilizzatosenza gli appesantimenti che a tale tipo divotazione sono connessi.
Ma forse non è il caso di essere tropposeveri con i riformatori degli anni Ottantaperché il problema di fondo dello status delGoverno in Parlamento non è stato risoltoneanche con la riforma del regolamentodella Camera del 1997.
Le riforme considerate, comunque,segnano complessivamente un crinale nellaevoluzione dei regolamenti parlamentariperché con esse si favorisce il principiodella decisione fino ad allora completa-mente sacrificato a quello della rappresen-tanza (Violante).
Per poter andare oltre mancavano i pre-supposti politici. Nel 1989 cade il muro diBerlino e il 17 febbraio 1992 viene arresta-to Mario Chiesa e inizia la vicenda di “tan-gentopoli”. Si apre una nuova fase della sto-ria costituzionale che poterà all’affermazio-ne del maggioritario e, poi, alla riforma delregolamento del 1997.
Bibliografia
Questo lavoro riprende, in buona parte anche testual-
mente, l’ analisi, che ritengo ancora valida, svolta sulle
riforme regolamentari degli anni Ottanta alla Camera
all’ interno di un saggio più ampio (Maggioranza, oppo-
sizione e Governo nei regolamenti e nelle prassi parlamen-
tari dell’ età repubblicana, in Il Parlamento. Storia d’ Ita-
lia. Annali 17, a cura di L. Violante, Einaudi, Torino,
2001, ora anche in V. Lippolis, Partiti. Maggioranza.
Opposizione, Jovene, Napoli, 2007, p. 105 ss.).
Per la citazione di Tecnica del colpo di Stato di C. Mala-
parte vedi l’ edizione Vallecchi, Firenze, 1994, p.120.
Per quanto riguarda le opere che trattano le riforme
regolamentari, ad alcune delle quali ho fatto riferimen-
to nel testo, mi limito a ricordare:
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Floridia, G.G., – Sorrentino, F., Regolamenti parlamentari
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Fusaro C., Guida alle riforme costituzionali, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 1991;
Gennusa, M.E., La posizione costituzionale dell’opposizione,
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1982, p.227 ss.;
Marra, D., La riforma del regolamento della Camera dei depu-
tati (dal 1981 ad oggi), in Associazione per gli studi e le
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1990, Giuffré, Milano, 1991, p. 139 ss.;
Manzella, A., Il Parlamento, il Mulino, Bologna, III ed., 2003;
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di bilancio: la terza fase dell’evoluzione in atto, in Traver-
sa e Casu, (a cura di), Il parlamento nella transizione,
Quaderni della rassegna parlamentare n. 2, Giuffrè, Mila-
no, 1998, p. 137 ss.
173
Novembre 1988. Dopo una lunga gestazio-
ne, durata all’incirca un anno1, un’ampia
riforma del Regolamento del 1971 viene in
discussione nell’Aula del Senato. Risulteran-
no modificati ben 46 articoli, dovendo com-
prendersi in questo numero l’introduzione
di 7 nuovi articoli. Il clima non è certamen-
te paragonabile a quello, di contestazione e
di scontro, che si è respirato alla Camera un
mese prima2, allorché fu discussa la c.d. abo-
lizione del voto segreto. E tuttavia motivi di
contrapposizione tra le forze politiche sul
merito delle questioni affrontate non sono
mancati3. Rileggendo le cronache dell’epo-
ca ci si accorge che la riforma dei regolamen-
ti parlamentari appare uno dei tanti tasselli
della dura battaglia craxiana nei confronti
del PCI e, per alcuni versi, della stessa DC:
ma questo è argomento che sarà compito
degli storici analizzare4.
Pochi si sono accorti, in quel momento,
che si era alla vigilia della caduta del Muro di
Berlino, evento che a sua volta avrebbe pre-
ceduto di pochi anni il terremoto politico di
Tangentopoli. Le forze politiche della c.d.
prima Repubblica si muovevano ancora nellalogica di un sistema pluripartitico, che vede-va – come amava dire G. Spadolini – nellaDC l’asse portante dell’intera vita politicaitaliana. L’azione di tutti gli altri partiti –grandi, medi e piccoli – si svolgeva in funzio-ne di contrapposizione o di alleanza con laDC: non a caso gli analisti politici qualifi-cheranno il sistema politico come “biparti-tismo zoppo” o “democrazia bloccata”.
Il testo, approvato il 28 novembre 1988ed entrato in vigore il successivo 1º dicem-bre, reca l’ultima, e forse sola, riforma orga-nica del Regolamento del 19715, la cui impor-tanza fu sul momento poco percepita – salvotalune eccezioni – non solo dai mezzi dicomunicazione di massa, tutti tesi ad infor-mare l’opinione pubblica sui suoi aspettipoliticamente più traumatici (la questionedel voto segreto)6, ma anche dal pubblicodegli specialisti, che poco si è soffermato sul
La riforma del Regolamento del Senato nel 1988*
damiano nocilla
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
* Questo scritto è destinato agli Studi in onore di A.A.
Cervati.
nuovo assetto complessivo del Regolamentodel Senato (anche se tra gli studiosi del dirit-to parlamentare si trovano, però, eccezionisignificative)7. Confesso che, pur avendovissuto dall’interno l’intera vicenda, ho sten-tato a rendermi conto allora della sua porta-ta e dei suoi effetti sui lavori del Senato e,quindi, sul complessivo sistema di governo.
Perché questa sottovalutazione del nuovotesto introdotto nel 1988?
Tenderei ad escludere che la ragionepossa rinvenirsi nel fatto che la riforma,varata dal Senato, era una riforma, per cosìdire, condivisa e per ciò stesso (per il fatto,cioè, di aver ricercato l’accordo di tutti)annacquata, scarsamente incisiva, con gliocchi rivolti al passato. Non escludo che inquesta o quella disposizione possa rinvenir-si qualcuno di questi difetti8, ma ho l’im-pressione che un giudizio di questo generederivi da una valutazione affrettata di queltesto e da un’inesatta percezione delle con-dizioni politiche in cui la riforma è stataapprovata.
Penso piuttosto che le ragioni di quellasottovalutazione vadano ricercate nel fattoche bene o male la riforma del 1988 si pone-va in una linea di ideale continuità con ilRegolamento del 1971, mantenendone inal-terato l’impianto sistematico e fermo il prin-cìpio ispiratore, per così dire, presidenzia-lista, che si contrapponeva all’ispirazioneassemblearista del Regolamento della Came-ra9. Detto altrimenti, il Regolamento delSenato approvato sotto la presidenza di Fan-fani nel 1971 fu disegnato secondo uno sche-ma armonico, che non dovette essere ritoc-cato, e si caratterizzò immediatamente perfare del Presidente il centro propulsore edordinatore di tutto il lavoro dell’Assemblea.Vi si legge lo spirito di A. Fanfani, la capaci-tà mediatrice di Gronchi, relatore, l’opera
intelligente di Ettore Terzi e di Carlo Chi-menti, che, come funzionari, svolsero il con-creto lavoro di redazione.
Spadolini comprese immediatamenteche non era il caso di distruggere quell’ope-ra paziente e che si doveva piuttosto operar-ne un perfezionamento ed un adattamentoalle mutate esigenze politiche10, concentran-dosi su una difficile opera di mediazione, chegiunse a raccogliere apprezzabili frutti,anche se nell’immediato fu scarsamentecompresa11.
Il nuovo testo, pertanto, mantiene pienafiducia nel Presidente dell’Assemblea –posto, per così dire, al di sopra delle parti12
– e gli attribuisce funzioni ora propulsive,ora di controllo, ora di mediazione, ora digaranzia di tutte le forze politiche: il tuttonell’interesse di assicurare una piena fun-zionalità del Senato e dei suoi organi. È unimpianto, questo, che, pur congeniale al plu-ripartitismo che ha caratterizzato il panora-ma politico italiano tra il 1971 ed il 1994, puòreggere (ed in fondo per quindici anni haretto) anche in presenza di un sistema piùmarcatamente maggioritario13, nel quale alPresidente d’Assemblea incombe l’onere direndere possibile l’attuazione del program-ma politico della maggioranza governativa edi consentire14, nello stesso tempo, il liberodispiegarsi della funzione di critica e con-trollo dell’opposizione. Poco importa, poi,se il Presidente appartenga alle file dell’unao dell’altra: quello che conta è come egliinterpreta la propria funzione.
Dire che la posizione del Presidente delSenato, delineata dal Regolamento del 1971e confermata dalle modifiche del 1988, eralegata al fatto della distribuzione delle pre-sidenze delle due Camere tra maggioranzaed opposizione, costituisce un’interpreta-zione tutta italiana di una funzione, per deli-
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neare la quale sarebbe opportuno si guar-dasse anche alle esperienze di altri paesi diconsolidata democrazia15.
Con ciò non si vuole negare che il Presi-dente di Assemblea sia anch’egli “un uomocon i suoi vizi e con le sue virtù, con le suepassioni e con i suoi inevitabili orientamen-ti, che... nell’esercizio delle sue funzioni saràanimato dal desiderio di attuare o conserva-re il proprio potere, di far valere e prevalere(sia pure nei limiti segnati dal diritto) il pro-prio potere, i propri orientamenti, le pro-prie idee sugli altri”16. Si vuole solo dire cheegli deve applicare il Regolamento con l’at-teggiamento del giudice, che applica la leggenel processo, pensoso dell’armonia del com-plessivo sistema normativo, che regola la vitainterna dell’intera Assemblea, e rispettosodelle ragioni che muovono le parti in conflit-to.
Anzi, estremizzando per così dire ilragionamento, si potrebbe sostenere chel’assemblea parlamentare di un sistemamaggioritario può cessare di essere luogo discontro (fisico?!?) fra le fazioni, per diveni-re, invece, luogo del confronto e del dialogocostruttivo, solo se affidata alla sapiente eferma guida di un Presidente, che interpre-ti le proprie funzioni in modo tale da riscuo-tere la fiducia di tutte le parti politiche17.
Che questa sia stata sinora l’interpreta-zione data dalle forze politiche delle funzio-ni presidenziali lo lascio a voi giudicare.Ricordo solo gli eventi. 1994: il centrodestraimpone due propri esponenti alla presiden-za delle due Camere (al Senato Scognami-glio, che passa per un solo voto contro la can-didatura del senatore a vita Spadolini; allaCamera Pivetti)18. 1996: il centrosinistraoffre al centrodestra la presidenza del Sena-to, riservandosi di esprimere soltanto il gra-dimento sul candidato, ed il centrodestra
propone il capogruppo di Forza Italia alSenato, rifiutando di accogliere la propostadi una rielezione di Scognamiglio, sicché ilcentrosinistra, ritenendo il candidato pro-posto troppo caratterizzato, ripiega in dire-zione di un proprio esponente. 2001: il cen-trodestra si riprende ambedue le presiden-ze delle Camere ed infine nel 2006 il centro-sinistra consolida la convenzione per cui iPresidenti dei due rami del Parlamento deb-bano essere esponenti della maggioranza cheha vinto le elezioni.
Ma la riforma del 1988 si è posta sotto ilsegno della continuità per altri due profili.Innanzitutto alcune delle nuove disposizio-ni introdotte apparivano una sorta di legit-timazione di prassi precedentementeinstauratesi o la soluzione di problemi inter-pretativi, che il testo del 1971 aveva lasciatiaperti. Si pensi alla norma dell’art. 78 sul-l’applicazione della ghigliottina agli emen-damenti ai decreti-legge, che aveva avuto giàun’applicazione puntuale nella X legislatu-ra19.
In secondo luogo, le nuove proposizioniintrodotte mantengono, nella buona sostan-za, una formulazione elastica, che lascia ampispazi di adattamento all’interpretazione esoprattutto alla successiva prassi applicativa,in modo da agevolarne l’adattamento alleesigenze che di volta in volta possono mani-festarsi – ora di tutela dell’attuazione delprogramma della maggioranza e del Gover-no, ora di garanzia degli spazi di critica e pre-sentazione di proposte alternative dell’op-posizione –, evitandosi quella sorta di fram-mentazione della normazione in tante ipote-si e sottoipotesi, che finisce poi per lasciareampi margini al determinarsi di situazioniparlamentari interstiziali e d’impasse, vistoche la realtà è sempre più fantasiosa dellacapacità di qualsiasi legislatore di prefigu-
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rare le diverse fattispecie concrete.Continuità, quindi, della riforma del
1988 rispetto all’impostazione del 1971, conconseguente difficoltà di coglierne ad unaprima lettura l’importanza e gli elementi dinovità. E tuttavia, pur in questo ideale conti-nuum, una valutazione un po’ più approfon-dita ci consente di affermare che la riformadel 1988 costituì un’importante tappa nellosvolgimento del diritto parlamentare italia-no e, quindi, della sua stessa forma di gover-no. Essa per alcuni versi anticipò i, e per altrisi adattò facilmente ai cambiamenti conse-guiti agli eventi degli anni tra il 1989 ed il199420. Si tratta, perciò, di analizzare lemodifiche introdotte, cercando di coglieregli sviluppi, cui esse hanno dato luogo, e leulteriori potenzialità, che esse recano più omeno nascoste.
L’argomento che più ha colpito l’opinio-ne pubblica è stata la riforma delle modalitàdi votazione, con conseguente riduzionedelle ipotesi, in cui sarebbe stato possibilevotare a scrutinio segreto. La strada per ilraggiungimento di un accordo e per la rea-lizzazione di questa riforma era già stataspianata dalla modificazione dell’art. 49 delRegolamento della Camera dei deputatiapprovata il 13 ottobre 1988, il cui testo dif-ferisce, però, da quello del nuovo art. 113Reg. Senato21.
Ambedue eliminano in linea di massimalo scrutinio segreto dai metodi di votazioneammessi, salve alcune limitate ipotesi, che siconfigurano come eccezioni al principiogenerale. Tali eccezioni sono le medesimeper ambedue i regolamenti (le materie di cuiagli artt. 6, da 13 a 22 e da 24 a 27 della Cost.,nonché quelle di cui agli artt. 29, 30, 31, 1ºcomma, 32, 2º comma, e le modifiche delRegolamento), ma al Senato è inclusa anchela materia di cui al primo comma dell’art. 31
(provvidenze in favore della famiglia), men-tre la Camera, che esclude tale materia dalleeccezioni, consente la votazione a scrutiniosegreto sull’istituzione delle Commissionid’inchiesta, sulle leggi ordinarie relative agliorgani costituzionali dello Stato e agli orga-ni delle Regioni, nonché sulle leggi elettora-li. Conseguentemente anche il principiogenerale, per il quale lo scrutinio segretoaveva prevalenza sugli altri modi di votazio-ne22, perde ogni ragione d’essere e riacqui-sta efficacia solo nelle ipotesi eccezionali incui è ancora ammissibile la votazione segre-ta. Resta ferma l’obbligatorietà dello scruti-nio segreto nelle votazioni riguardanti per-sone e nelle elezioni mediante schede; ed allaCamera nelle votazioni finali sui disegni ine-renti le materie costituenti eccezione.
In ambedue i regolamenti è fatto espres-so divieto di votare a scrutinio segreto lalegge finanziaria, i bilanci ed i consuntivi, leleggi in materia finanziaria e contributiva,singole disposizioni ed emendamenti cheabbiano effetti sul bilancio dello Stato. Laformulazione della relativa disposizione nelRegolamento della Camera diverge rispettoa quella del Senato: tuttavia la ratio e lasostanza sono identiche, così come identicaè la soluzione al problema dei disegni dilegge che rechino disposizioni, che investo-no più materie, essendo affidata al Presiden-te la decisione sui casi dubbi e l’applicazio-ne del criterio di prevalenza23.
La prassi successiva ha visto un’interpre-tazione abbastanza rigorosa delle fattispecie,in cui è stata consentita la votazione a scru-tinio segreto. Essa è stata ammessa su ognidisposizione contenente sanzioni penali,sulle mozioni in tema di emittenze radiote-levisive, nei limiti in cui se ne possa soste-nere l’attinenza alla libertà di manifestazio-ne del pensiero (donde l’esclusione, ad. es.,
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delle norme sui tetti pubblicitari e sugli spotpubblicitari), sulle mozioni in tema di abo-lizione della pena di morte. Nel complesso sipuò osservare, peraltro, come la prassidimostri una scarsa propensione del Sena-to, in confronto con la Camera, a ricorrereallo scrutinio segreto, sicché in questo ramodel Parlamento vi sono state meno occasio-ni per pronunce presidenziali24.
Due brevi considerazioni sul voto segre-to. Innanzi tutto appare poco significativa laconnessione tra questa forma di votazione eun’ipotetica conventio ad consociandum, sic-ché il nuovo articolo 113 andrebbe interpre-tato come un decisivo passo in direzione delsistema maggioritario25. Il caso di passaggionascosto di voti dalle opposizioni alla mag-gioranza appare piuttosto raro: l’esperienzamostra piuttosto come esso sia stato unostrumento usato nelle c.d. “congiure dipalazzo”, in cui una componente della mag-gioranza ha voluto manifestare, senza veni-re allo scoperto, il proprio dissenso dalGoverno in carica. La verità è che la votazio-ne a scrutinio segreto è, in sé e per sé, unmezzo che può essere utilizzato agli scopi piùvari, nobili e meno nobili: al fine di se cacherpour servir l’intérêt génèral26, per tendereagguati al governo, per compiacere interes-si di categoria o di potentati economici, persostenere in modo non manifesto questa oquella politica della maggioranza etc. Lariduzione delle possibilità di ricorso al votosegreto renderà più difficile il perseguimen-to di uno di quei fini, ma non per questodiminuirà nei singoli parlamentari l’inten-to, più o meno fermo, di perseguire lo scopoche concretamente si propongono e di ricor-rere all’uso del mezzo da loro ritenuto piùopportuno o idoneo27.
In secondo luogo, a quasi vent’anni daquella riforma, dobbiamo riconoscere come
sia stato buon profeta L. Elia28, allorché
auspicava che una futura riforma dei modi
di votazione puntasse ad ottenere una preci-
sa separazione tra materie strettamente lega-
te al programma di governo e materie in cui
si dovesse garantire al parlamentare libertà
di coscienza, ed indicava due possibilità per
il perseguimento di questo fine: una vera
democrazia interna ai partiti e il “ridimen-
sionamento” del voto segreto. La prima pos-
sibilità non è stata sperimentata, anche se se
ne percepisce sempre di più l’urgenza29. La
riforma del 1988 ha battuto, invece, la secon-
da strada e – almeno per ciò che riguarda la
successiva prassi del Senato – il voto segre-
to è stato richiesto più per sollecitare un voto
di coscienza dei parlamentari, che per deter-
minare spaccature in questo o quello schie-
ramento (si pensi al caso della legge sulla
fecondazione assistita)30.
Restando alla disciplina dei modi di vota-
zione ed agli istituti intesi ad accentuare il
controllo del Governo sulla propria maggio-
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Aula del Senato.
ranza, una particolare menzione meritanoper un verso, il complesso delle disposizio-ni dirette a garantire un certo rigore finan-ziario nell’esercizio dell’attività legislativa:l’art. 40, l’art. 41, u.c., l’art. 76 bis (che faobbligo al Governo di corredare i propridisegni di legge e le proprie proposte emen-dative con una relazione tecnica e facoltizzala Commissione bilancio a chiedere la rela-zione tecnica anche per emendamenti edisegni di legge di origine parlamentare),l’art. 102 bis, con il quale si stabilisce cheemendamenti, articoli o disegni di legge, cheimportano nuove e maggiori spese e sui qualila Commissione bilancio avesse espressoparere contrario per mancanza di coperturafinanziaria, devono essere sottoposti a vota-zione nominale con scrutinio simultaneo,tutte queste disposizioni – si diceva – sonomosse dall’intento di mettere un frenoall’incremento della spesa pubblica e farvenire allo scoperto le azioni lobbystiche31.
Ma nel modo di svolgersi della tatticaparlamentare alcune di quelle disposizioni,come, ad es., l’art. 102 bis, erano diventateuno strumento per provocare la verifica delnumero legale senza l’appoggio del prescrit-to numero dei senatori. Era ciò che Elia, cor-relatore sulle modifiche di regolamento,aveva paventato opponendosi ad un emen-damento Spadaccia estensivo delle ipotesi diobbligatorie votazioni nominali con scruti-nio simultaneo32. Questo inconveniente hareso necessaria la revisione dello stesso art.102 bis del 24 febbraio 1999, il cui testo èquello attualmente vigente: non più automa-tica votazione nominale con scrutinio simul-taneo per emendamenti, articoli o disegni dilegge “scoperti”, ma la improcedibilità, ameno che 15 senatori non ne chiedano lavotazione, che si effettuerà con scrutinionominale simultaneo.
Quanto, per altro verso, all’introduzionedel terzo comma dell’art. 120, che sottopo-ne a votazione nominale con scrutiniosimultaneo l’approvazione finale dei disegnidi legge in materia elettorale (ma questamateria viene nella prassi ritenuta sussisten-te solo quando si tratta di introdurre modi-ficazioni “a regime” nella legislazione elet-torale e non quando si possa ravvisare nelprogetto di legge una natura, per così dire,provvedimentale)33, a prevalente contenutodi delegazione legislativa (le mere proroghedelle deleghe sono escluse)34, di conversio-ne di decreti-legge recanti disposizioni inmateria di ordine pubblico35, ed ancora idisegni di legge di approvazione di bilanci econsuntivi, finanziaria e collegati alla mano-vra di finanza pubblica, occorre svolgere unduplice ordine di considerazioni.
La previsione di ipotesi nelle quali sidebba far luogo obbligatoriamente a forme divotazioni implicanti l’accertamento delnumero di coloro, che partecipano alla vota-zione, e quindi della sussistenza del nume-ro legale potrebbe apparire a prima vistaingiustificata e derogatoria del principiogenerale di presunzione di sussistenza delnumero legale stesso36. Tuttavia quelladisposizione trova una duplice giustificazio-ne. Essa si collega, infatti, all’art. 1, 2° c., cheimpone ai Senatori il dovere di parteciparealle sedute, ed all’art. 62, che, nella nuovaformulazione, facoltizza i Senatori a non par-tecipare alle sedute solo “dopo” aver chiestocongedo al Presidente37. Da queste norme sipotrebbe trarre spunto per introdurre san-zioni per i parlamentari assenteisti38. Inol-tre la riforma ha introdotto una nuova disci-plina della verifica del numero legale:aumento del numero dei richiedenti, conte-nimento dei congedi, più elastica disciplinadella riconvocazione39.
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Inoltre va considerato che i disegni dilegge o le proposte, nelle quali la votazionecon scrutinio nominale simultaneo è obbli-gatoria, sono per lo più strettamente colle-gati all’indirizzo politico della maggioranza edel Governo, onde appare logico che vi siaun’assunzione chiara di responsabilità daparte di ogni singolo parlamentare nelmomento stesso in cui è chiamato ad appro-varli o no. La prassi applicativa conferma unacerta prudenza, essendosi esclusa la ricor-renza della fattispecie nel caso della leggecomunitaria (poiché, quest’ultima, contie-ne anche l’automatico recepimento di diret-tive ed autorizzazioni a provvedere con rego-lamenti)40 o nel caso della conversione deldecreto-legge sull’impiego delle forze arma-te in Sicilia (malgrado la contiguità con lamateria dell’ordine pubblico)41.
Le disposizioni, cui si è da ultimo accen-nato, introducono ad un’altra parte notevol-mente importante della riforma del 1988: laquestione della sessione di bilancio42.
Come è noto la necessità di riformare lenorme del Capo XV del Regolamento nacquedal fatto che occorreva adattare la vecchianormativa alla l. 23 agosto 1988, n. 362,modificativa della l. 5 agosto 1978, n. 46843.
Le nuove norme del Regolamento hannointrodotto, innanzi tutto, il documento diprogrammazione economico-finanziaria, lacui discussione deve essere organizzata econtingentata, per esaurirsi entro trentagiorni dal deferimento del documento alla5^ Commissione permanente44. Da notareche l’approvazione del documento deveavvenire attraverso la votazione della risolu-zione accettata dal Governo con precedenzasulle altre45.
Già quest’ultima disposizione dà la misu-ra della particolare posizione fatta al Gover-no nel corso della discussione della manovra
finanziaria, posizione cui si collega, in qual-che modo dialetticamente, la 5^ Commis-sione permanente, alla quale sono attribui-ti particolari poteri in ordine all’acquisizio-ne delle informazioni che ritenesse necessa-rio ricevere. In altri termini, Governo e 5^Commissione permanente sono i soggetti,intorno ai quali ruota l’intera discussione edai quali dipenderà in larga misura il conte-nuto dell’intera manovra46.
Quali i punti, a mio avviso, qualificantidelle modifiche?
Innanzi tutto l’introduzione di un pote-re presidenziale di accertamento in ordine alcontenuto della legge finanziaria – se essarechi, cioè, disposizioni estranee al suooggetto o volte a modificare norme in mate-ria di contabilità generale dello Stato o con-trastanti con le regole di copertura vigenti –e di conseguente riconduzione del disegno dilegge al contenuto proprio della finanziariacon lo stralcio delle suddette disposizioni47.Un potere, questo del Presidente, che laGiunta per il Regolamento ha chiarito (27novembre 1990) essere un potere autono-mo (e quindi non vincolato) dallo svolgersidell’attività consultiva della 5^ Commissio-ne e del Governo e che la prassi ha confer-mato come inappellabile e definitivo48. Atale potere si connette il potere di dichiara-re inammissibili emendamenti di origineparlamentare o governativa aventi contenu-to analogo alle disposizioni stralciate49.
Un’ulteriore novità introdotta dalla rifor-ma del 1988 è costituita dall’inversione del-l’ordine di votazione sugli articoli della leggefinanziaria, nel senso che su tutti hanno laprecedenza le disposizioni, che recano illivello massimo del ricorso al mercato finan-ziario o del saldo netto da finanziare. L’in-troduzione di questo principio eccezionalecostringe a formulare tutti gli emendamen-
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ti alla finanziaria come emendamenti, percosì dire, compensativi, limitando così ilpotere emendativo dei singoli parlamentarie rafforzando la posizione del Governo nellarelativa discussione50.
Infine la previsione e l’esplicita discipli-na dei disegni di legge collegati alla manovrafinanziaria, così come precedentementeindicati nel documento di programmazioneeconomico-finanziaria, disegni di legge cuisi applicano le stesse disposizioni previsteper la legge finanziaria sull’organizzazionesecondo tempi certi della discussione, suipoteri presidenziali di stralcio del contenu-to51, sull’inammissibilità di questioni pre-giudiziali, sull’inammissibilità degli emen-damenti non compensativi52. Tuttavia non sipuò tranquillamente affermare che la dispo-sizione dell’art. 126 bis, introdotta dallariforma, abbia avuto un rendimento eccel-lente, nel senso di assicurare ai disegni dilegge collegati (ed in specie a quelli di natu-ra ordinamentale) tempi certi e speditezzadi esame pari a quelli, che invece sono statigarantiti per la legge finanziaria e per ilbilancio. Infatti, mentre per la legge finan-ziaria e per il bilancio si è riusciti a realizza-re l’approvazione entro un tempo certo,superando, anche attraverso il poco com-mendevole sistema dei maxiemendamenti,ogni tentativo di ritardarne ostruzionistica-mente il varo definitivo, un effetto similenon è stato ancora possibile raggiungere peri disegni di legge collegati, discutendoli edapprovandoli, come sarebbe logico, primadella legge finanziaria, in modo da scontar-ne gli effetti all’interno di quest’ultima.
Ciò ha finito per incoraggiare le diversepubbliche amministrazioni ad approfittare,per così dire, “dell’ultimo treno che passa”ed a riempire, con una scusa o con l’altra, lafinanziaria di tutte le norme, che esse riten-
gono urgente far passare. In questo contestola finanziaria ha finito per diventare un dise-gno di legge monstre, in cui si può trovaretutto ed il contrario di tutto ed in cui si perdeil senso dell’unitarietà della manovra eco-nomica53.
Se, quindi, il fine della riforma della ses-sione di bilancio era quello di assicurare alGoverno specifiche prerogative in Parla-mento, in modo da ottenere che l’attivitàlegislativa si svolgesse in perfetta consonan-za con il suo indirizzo politico per il settoreeconomico-finanziario e da impedirel’espansione incontrollata della spesa pub-blica, si può con una certa approssimazioneaffermare che la riforma del 1988 ha rag-giunto lo scopo solo per la parte relativa allasessione di bilancio e non per quella riguar-dante i disegni di legge collegati, la cui fun-zione doveva essere quella di raccoglieretutta la normativa in diretta relazione con ilraggiungimento degli effetti economici pre-supposti dalla finanziaria. Tali disegni dilegge collegati hanno seguìto, nel bene e nelmale, un esito simile a quello di ogni altroprogetto inserito nella programmazioneordinaria dei lavori, senza che venisse coltolo specifico status che ad essi la riforma del1988 intendeva attribuire.
Ma la storia non si fa con i “se”54.La verità è che – malgrado in Senato il
rendimento della programmazione dei lavo-ri sia stato molto migliore rispetto alla Came-ra e possa dirsi parzialmente raggiuntol’obiettivo del “superamento del metodounanimistico-consensuale nella fissazionedell’agenda dei lavori parlamentari, per avvi-cinarsi il più possibile alle deliberazionimaggioritarie”55 – in tema di programma-zione la riforma del 1988 si muove sulla sciadella disciplina introdotta a suo tempo con ilRegolamento del 1971. Se si confronta il capo
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VII, nella formulazione di quest’ultimoRegolamento, con il corrispondente capo neltesto revisionato nel 1988, ci si accorge chele modifiche attengono a vari aspetti, anchese mantengono in piedi i tre pilastri dellaprogrammazione, e cioè il programma, ilcalendario e l’ordine del giorno. Vengonodisciplinati ex novo: la scansione dei tempiriservati all’Assemblea, all’attività delleCommissioni ed all’attività dei Gruppi e deisingoli senatori; lo spazio da dedicare inAssemblea alle proposte dei Gruppi e dei sin-goli Senatori; le formalità di approvazione ediscussione del programma dei lavori e lavincolatività dello schema dei lavori predi-sposto dal Presidente; l’introduzione espli-cita del principio per cui di norma il calen-dario dei lavori stabilisce anche la data in cuigli argomenti iscritti debbono essere posti invotazione; l’abbreviazione dei tempi di dura-ta degli interventi (art. 89), che in ogni casodevono essere armonizzati con le scadenzepreviste dal calendario dei lavori (art. 84).
Dall’osservazione della prassi successi-va può notarsi come abbia scarsamentefunzionato, spesso a ragione delle urgenzeinvocate dal Governo, il raccordo tra pro-grammazione in Commissione e program-mazione in Aula (salvo il divieto per leCommissioni di tener seduta durante ilavori dell’Assemblea, che invero è statoosservato con un certo qual rigore)56, cosìcome è stato difficile assicurare spazio ade-guato per i lavori delle Commissioni per-manenti e bicamerali, dei Gruppi e dei sin-goli Senatori ed ancor più per far discuterein Aula proposte dei Gruppi e dei singoliSenatori57. Invece le disposizioni sull’or-ganizzazione dei lavori e sul contingenta-mento dei tempi hanno avuto una frequen-tissima attuazione nella prassi e non hannodato luogo a soverchie discussioni.
È da notare come la riforma del 1988 – adifferenza di quanto tuttora dispone il rego-lamento della Camera – preveda che l’orga-nizzazione della discussione e soprattutto lavotazione entro un certo termine prefissato,con conseguente decadenza di tutti gliemendamenti residui, si applichino ancheai disegni di legge di conversione dei decre-ti-legge58, per i quali il nuovo art. 78 delRegolamento ha semplificato la procedura divalutazione della sussistenza dei presuppo-sti di necessità ed urgenza e dei requisitirichiesti dalla legge n. 400 del 198859. Men-tre in precedenza al voto della 1ˆ Commissio-ne sulla sussistenza dei presupposti seguivanecessariamente il passaggio in Assemblea,oggi l’Assemblea viene investita solo in casodi espressione di un parere contrario o, incaso di parere favorevole all’esistenza deipresupposti, su richiesta di un decimo deicomponenti del Senato.
Con la riforma del 1988 comincia adessere affermato esplicitamente nella giuri-sprudenza parlamentare il principio, impli-citamente ricavabile dal complesso dellenorme sulla programmazione, della preva-lenza del calendario dei lavori su tutti i ter-mini dilatori previsti dal Regolamento, nelsenso appunto che i diversi organi del Sena-to (Commissioni, Gruppi, singoli Senatorietc.) dovranno regolare i tempi del proprioagire sull’“ora legale” stabilita dal calenda-rio dei lavori e dalle modifiche ad esso viavia apportate dalla Conferenza dei Capigrup-po. L’“ora solare” delle disposizioni, cheregolano atti o sub-procedimenti, non contapiù, salvo che il distacco tra “ora legale” ed“ora solare” sia tale da rendere totalmenteirrazionale il calendario fissato60.
Ma il calendario è approvato dalla mag-gioranza, che incontra sulla propria stradasoltanto il potere regolatore del Presidente e
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la sua autorevolezza. Di qui il frequenteappello alla Presidenza perché faccia “rispet-tare le norme”: ma far rispettare le norme,in questo caso, significa solo “evitare scelteassolutamente prevaricanti della maggioran-za”61.
A questo punto diviene decisiva la sensi-bilità politica del Presidente, la sua autore-volezza verso le parti contendenti, la suacapacità di mediazione. Ecco perché le cri-tiche di carattere giuridico avanzate alla rapi-da calendarizzazione della c.d. legge Ceramisono apparse ed appaiono non pienamentegiustificate. La prevalenza della calendariz-zazione della proposta di legge sulla normarelativa ai due mesi concessi alla Commis-sione per riferire all’Assemblea è un princi-pio ormai acquisito, purchè la calendarizza-zione stessa non renda il passaggio in Com-missione stessa una pura fictio62.
Un punto sembra opportuno sottolinea-re ed è che nella prassi applicativa, malgra-do il Regolamento del Senato attribuisca for-malmente la responsabilità della calendariz-zazione alla volontà espressa o tacita dell’As-semblea (e quindi della sua maggioranza), èvenuto delineandosi un determinante ruolomediatorio del Presidente, come soggettoche costruisce la base per la discussione delprogramma e del calendario in Conferenzadei Capigruppo, formula lo schema dei lavo-ri in caso di disaccordo sul programmabimestrale, predispone una proposta di con-tingentamento dei tempi, propone modifi-che al Calendario mensile dei lavori, armo-nizza gli interventi con i tempi e gli impegnidel calendario dei lavori (art. 84), opera unopportuno bilanciamento tra esigenze delGoverno e della maggioranza di attuare ilproprio indirizzo di politica legislativa ediritto di tribuna dell’opposizione63.
Le disposizioni della riforma del 1988
hanno dato avvio ad un processo che ha assi-curato al Governo in Senato un adeguato spa-zio per la realizzazione del proprio indirizzopolitico, offrendo alla maggioranza la possi-bilità di determinare la programmazione deilavori e, soprattutto, di scadenzare con suf-ficiente precisione i tempi da dedicare all’at-tività legislativa, attraverso la fissazione delladata in cui i singoli provvedimenti calenda-rizzati debbono essere votati, sicché i tenta-tivi dell’opposizione di ritardare, attraversoil ricorso a forme più o meno striscianti diostruzionismo, la deliberazione sulle propo-ste governative hanno avuto sempre minorepossibilità di dispiegarsi. La negoziazione,fatta di reciproche concessioni tra maggio-ranza e opposizione sul contenuto dei sin-goli progetti di legge in discussione, ha avutominori spazi di manovra.
Certo è che gli esiti della riforma delleregole proprie della programmazione deilavori al Senato si inseriscono in una tradi-zione di miglior rendimento di questo isti-tuto in questo ramo del Parlamento rispettoa quanto avvenuto alla Camera64. Dire, comequalcuno ha voluto fare65, che “al Senato,anche a causa del minor numero dei com-ponenti e del carattere relativamente piùselettivo del sistema elettorale (la formuladel divisore, metodo di Hondt…) i proble-mi sono minori” in ordine alla programma-zione, equivale a spiegare il fenomeno delladiversa efficacia della programmazione deilavori con il fatto che alla buvette di Monte-citorio si serve un caffè più forte di quelloservito alla buvette di Palazzo Madama.
Già la riforma del 1988 lasciava intrave-dere che l’unico strumento ostruzionisticoin mano all’opposizione sarebbe stato esclu-sivamente l’abnorme uso da parte degliostruzionisti della facoltà di presentareemendamenti ed ordini del giorno. Ma
Itinerari
182
anche su questo tipo di manovra sarebbecalata, da un canto, la mannaia della tecnicaantiostruzionistica della maggioranza e delGoverno, che avrebbero fatto ricorso ai c.d.maxiemendamenti ed alla posizione dellaquestione di fiducia c.d. tecnica, e d’altrocanto, il potere dissuasivo del Presidente,che poteva garantire i diritti della maggio-ranza attraverso un uso più incisivo dell’isti-tuto del “canguro” o attraverso l’applicazio-ne della “ghigliottina” agli emendamenti aidisegni di legge di conversione dei decreti-legge. Si tratta di istituti, che erano giàpotenzialmente previsti nel Regolamento del1971 (art. 102, comma 4, e art. 78, 5ºcomma)66, ma che hanno trovato pieno svi-luppo solo dopo il 1988.
Se quindi le prerogative del Governo inParlamento trovano nelle norme del 1988 unfondamento abbastanza preciso e nella suc-cessiva prassi attuativa uno sviluppo in qual-che modo soddisfacente, ciò che, invece, nonriesce a delinearsi è il ruolo dell’opposizio-ne. In altre parole, quella corrispondenza trail ruolo del Governo (e della maggioranza) elo status dell’opposizione, cui aspirano isostenitori delle democrazie maggioritarie,non riesce a realizzarsi nella prassi succes-siva al 1988, non tanto per difetto della nor-mativa della riforma spadoliniana, quantopiuttosto per incapacità delle forze politichedi maggioranza e di opposizione di coglier-ne le potenzialità67.
Ciò è dovuto a tre ordini di fattori: a) unacerta qual vischiosità dei comportamentiparlamentari, ancora legati all’idea dellanecessaria negoziazione sui contenuti deidisegni di legge in discussione; b) le divisio-ni interne all’opposizione ed alla maggio-ranza, sicché dietro le coalizioni bipolari siè mantenuta la struttura pluripartitica delsistema. Ne è derivato che le norme, che
hanno ottenuto una più puntuale attuazio-
ne, sono state quelle, alla realizzazione delle
quali era interessato un soggetto propulsore
unico ed unitario nella sua struttura: il
Governo. Mentre, dove si doveva far affida-
mento sulla coesione ed omogeneità delle
alleanze politiche, il pieno sviluppo degli
istituti regolamentari fu molto più difficile;
c) quella che potrebbe dirsi l’“avidità” della
maggioranza, che non ha inteso lasciare spazi
adeguati all’esercizio del c.d. “diritto di tri-
buna” dell’opposizione, avidità cui si è asso-
ciata, per un verso, la timidezza dell’opposi-
zione, che si è indirizzata più ad impedire
che a criticare, controllare, introdurre nuove
tematiche nell’agenda politica, e, per altro
verso, una scarsa incisività nell’uso dei pote-
ri presidenziali a favore dell’opposizione,
anche perché in più di un’occasione i Presi-
denti si sono lasciati travolgere dagli even-
ti68.
La conseguenza è stata che tutte quelle
norme, che avrebbero legittimato la calen-
darizzazione e la discussione dei disegni di
legge dell’opposizione, hanno avuto – come
si è già accennato – un’attuazione assoluta-
mente insufficiente e dal punto di vista
Nocilla
183
Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica, in
un’incisione del 1699.
quantitativo e dal punto di vista qualitativo.Si può anzi sostenere che il modo qualitati-vamente insoddisfacente, con il quale sonostati discussi i disegni di legge dell’opposi-zione, si è riflesso sullo scarso interesse, chequest’ultima ha in definitiva mostrato, a chevenisse data applicazione puntuale degli artt.29, comma 2, 53, 3º comma, 55, 7º comma,79 e 80. Infatti, allorché l’argomento ogget-to di un disegno di legge o di una mozione diun Gruppo di opposizione era, anche agliocchi della maggioranza, meritevole didiscussione, si ricorreva all’escamotage diabbinarlo con disegni di legge o mozioni diesponenti della maggioranza o all’applica-zione dell’art. 51 in attesa di una proposta delGoverno69, e ciò al fine di attenuare pressol’opinione pubblica i meriti degli avversari;oppure si procedeva ad una stanca e forma-le discussione in Assemblea, nella quale lamaggioranza, talora senza addurre argomen-ti, approfittava di ogni occasione procedu-rale (anche di tipo preliminare) per liberar-si dell’onere della presenza in Aula dellaquestione70.
Non migliore sorte hanno avuto, taloraper colpa della stessa opposizione, le normeintese a potenziarne le funzioni ispettive edi controllo. Ciò è avvenuto per le c.d. inter-pellanze di Gruppo (art. 156 bis), per leinterrogazioni a risposta immediata (art. 151bis), per le interrogazioni orali con caratte-re d’urgenza (art. 151) e per le mozioni, dicui all’art. 157, 3º comma. Va tenuto conto, aproposito del sindacato ispettivo, che unvero e proprio statuto dell’opposizione malsi concilia con il mantenimento del tradizio-nale principio di cui al 3º comma dell’art.148, che dà facoltà al Governo di non rispon-dere alle interrogazioni.
Analogamente poca incisività hannomostrato nella prassi successiva i nuovi isti-
tuti previsti dal secondo comma dell’art. 162,cioè l’obbligo di discussione delle proposted’inchiesta parlamentare sottoscritte da undecimo dei componenti del Senato, e dal-l’art. 48 bis, disciplinante le richieste di pro-cedure informative (indagini conoscitive,udienze legislative etc.) introdotte da unterzo dei componenti di una Commissionepermanente71.
Un altro settore organico di riforme toc-cato nel 1988 è stato quello del collegamen-to tra Senato ed istituzioni europee. Fusoprattutto per impulso di Giovanni Malago-di, allora Presidente della Giunta per gliAffari delle Comunità europee, che l’argo-mento fu affrontato con decisione e si pro-cedette alla revisione degli artt. 23, 34, 3ºcomma, 142, 143 e 144 del Regolamento, conl’attribuzione alla Giunta di una competen-za generale sulle materie connesse ad attivi-tà ed affari comunitari e con la sua equipa-razione alle Commissioni permanenti, senzache ciò potesse significare tuttavia che laGiunta fosse abilitata ad esaminare disegnidi legge in sede referente, deliberante oredigente, essendo la sua competenza legi-slativa solo consultiva72.
Tuttavia in ordine all’attività legislativaed al controllo delle politiche seguite dalGoverno in sede comunitaria si registra unaparticolare estensione dei suoi poteri, chegiungono al punto di poter formulare osser-vazioni e proposte sugli atti di attuazione deitrattati e delle norme comunitarie, di potervotare risoluzioni, di dover obbligatoria-mente esaminare una serie di atti e di rela-zioni relative alla politica comunitaria, dipoter fare oggetto di autonomo esame larelazione, che accompagna il disegno di leggecomunitaria73.
C’è un tentativo, nelle nuove norme, diinserire nel modo più efficace il Senato nei
Itinerari
184
processi comunitari e di assicurare allaGiunta la possibilità di avere a disposizioneil quadro d’insieme dell’adattamento delnostro ordinamento a quello comunitario.Si voleva in altri termini colmare due deficit:il deficit democratico delle istituzioni euro-pee, puntando su più fitte ed intense relazio-ni di queste ultime con le Assemblee rap-presentative nazionali (nel nostro caso ilSenato), e lo specifico ritardo del nostroPaese nel recepimento delle direttive comu-nitarie. Le norme del Regolamento del 1988,in certo qual senso, guardano al futuro e sonostate varate nella precisa consapevolezza cheil futuro stesso ne avrebbe in qualche modoindicato il destino: modifica, rovesciamen-to, abolizione etc.
Vorrei soffermarmi infine su alcunemodifiche e disposizioni del Regolamentodel 1971, che possono apparire abbastanzasignificative.
La prima è quella all’art. 5 sulla compo-sizione dell’Ufficio di Presidenza, finalizza-ta a consentirvi l’ingresso di senatori appar-tenenti ai Gruppi minori, ed all’art. 19, nelsenso dell’elevazione del numero dei com-ponenti la Giunta delle elezioni e delleimmunità parlamentari. Esse si iscrivonoindubbiamente in un quadro di frammen-tazione dei Gruppi parlamentari, che invecenel testo del Regolamento del 1971 era guar-data con maggior sospetto. Sotto questo pro-filo la riforma del 1988 guarda all’indietrorispetto alla piena instaurazione di un siste-ma maggioritario.
La seconda modifica è l’introduzione deipareri obbligatori della Commissione giu-stizia, della Giunta degli Affari delle Comu-nità europee e della Commissione bicame-rale per le questioni regionali. La terzamodifica ha investito l’art. 74, nel tentativonon riuscito di superare l’inerzia parlamen-
tare sui disegni di legge d’iniziativa popola-re o delle singole Regioni.
Una scarsa applicazione ha avuto, poi, lanuova disposizione (art. 73 bis) diretta a rea-lizzare presso la Presidenza uno scadenzariodegli adempimenti, cui le Amministrazionisono tenute a norma di legge, in modo da darvita ad una collaborazione tra uffici del Sena-to e Presidenza del Consiglio attraversosegnalazioni reciproche74.
Al contrario la prassi ha visto un notevo-le incremento dei poteri presidenziali pre-visti dal comma 6 dell’art. 100 (in ordine allapresentazione fuori termini di emendamen-ti da parte delle Commissioni e del Governo)e di cui al comma 3 dell’art. 103 (che consen-te al Presidente di non tener conto del dif-ferimento, a fini di coordinamento, dellavotazione finale dei disegni di legge)75.
È giunto ormai il momento per alcuneconsiderazioni conclusive.
Si è detto da taluno76 che nel 1988, con lariforma dei regolamenti parlamentari, hainizio l’evoluzione in senso maggioritario delsistema politico-istituzionale italiano. Si hala sensazione che quest’affermazione, nellasua assolutezza, sia molto lontana dal vero. Ilregolamento del Senato del 1988 e le rifor-me di quello della Camera degli anni tra il1980 ed il 1990 sono poste in essere da unaclasse politica, che si muove ancora all’in-terno di un sistema pluripartitico77 ed è benlontana dall’immaginare un parlamentoall’inglese, nel quale maggioranza ed oppo-sizione si affrontino come due soggetti uni-tari e coesi: i nostri parlamentari avevano inmente sempre l’emiciclo e non il rettango-lo. Tutte le norme che privilegiano taluni attiin quanto riferiti ad un Gruppo o che favo-riscono i Gruppi minori si muovono esatta-mente in questa logica.
La verità è che la riforma dei regolamen-
Nocilla
185
ti parlamentari degli anni tra il 1980 ed il1990 nasce in una stagione politica caratte-rizzata da un complesso processo riforma-tore (legge sulla Presidenza del Consiglio,legge sulle procedure di bilancio, leggecomunitaria, normativa sulle autonomielocali) inteso a dare al Governo una precisaposizione fra le istituzioni ed un’autonomacapacità decisionale78, evitando che il siste-ma cada definitivamente in quella forma diassemblearismo, che il regolamento dellaCamera del 1971 aveva a larghi tratti dise-gnato79. Per il regolamento della Camera ini-zierà una lunga evoluzione, che sembra nonancora conclusa, mentre per il regolamentodel Senato sarà sufficiente un perfeziona-mento ed una razionalizzazione dei mecca-nismi già previsti dal regolamento del 1971,che mai aveva indulto alla c.d. “centralità delParlamento”. Certo, la modifica del 1988costituisce un passo importante per assicu-rare in Senato un’adeguata posizione delGoverno.
In altri termini, il testo del Regolamentodel Senato, così come risulta dalle modifi-che del 1988, si adatta sia ad un “parlamen-tarismo assoluto” (che potremmo qualifica-re anche come modello assembleare a pluri-partitismo spinto) che ad un “parlamentari-smo razionalizzato” (nel quale le “forme par-lamentari” sono “concepite in funzione dellagovernabilità”), che ad un “parlamentarismomaggioritario” (come potrebbe qualificarsila fase di transizione che stiamo vivendo).
L’adattabilità del Regolamento del Sena-to al funzionamento di questo ramo del Par-lamento in un contesto politico-istituziona-le anche radicalmente diverso confermaquanto sia erroneo ritenere80 che l’attualefunzionamento dei due rami del Parlamen-to abbia comportato la necessaria trasforma-zione – in connessione con l’introduzione di
un sistema elettorale maggioritario – delruolo del Presidente dell’Assemblea da arbi-tro neutrale ad organo di attuazione dell’in-dirizzo politico di maggioranza, a vero e pro-prio co-decisore politico.
Si tratta di una ricostruzione che presup-pone un’interdipendenza tra fenomeni nondirettamente connessi. Il Presidente, se perun verso gioca un ruolo di collegamento traindirizzo politico governativo e lavori del-l’Assemblea, da lui guidata, dall’altro, nonpuò abdicare al ruolo di garante dell’osser-vanza delle regole del gioco e dei diritti delleopposizioni.
Come ha ben mostrato a suo tempo G.Ferrara81, anche in un sistema proporziona-le puro a tendenza consociativa (come sidirebbe oggi) al Presidente di Assemblea variconosciuta la funzione di trait d’union tral’indirizzo politico governativo ed i lavoridell’Assemblea, così come la funzione neu-trale del Presidente ha modo di affermarsiproprio in quei sistemi in cui sembrerebbepiù consolidato il sistema maggioritario,come quello inglese.
Se, ad esempio, l’uso accorto e fermo deipoteri presidenziali costituisce il più effica-ce strumento per stroncare manovre ostru-zionistiche, va da sé che gli stessi poteri indirezione eguale e contraria vanno usati perconsentire all’opposizione di far giungere lapropria voce all’opinione pubblica, di usu-fruire del proprio “diritto di tribuna”, dipresentare all’elettorato proposte alternati-ve.
Ciò è tanto più vero, quando la maggio-ranza sia depositaria del potere ultimo dideterminare l’agenda dei lavori. In questocaso il contrasto ad un uso smodato dei pro-pri poteri da parte del Governo e della mag-gioranza non può che derivare da un’utiliz-zazione sapiente dei poteri presidenziali e
Itinerari
186
Nocilla
187
della sua capacità mediatoria e di convinci-mento. Un Presidente strumento passivodella maggioranza, nel momento stesso incui perde la fiducia dell’opposizione, rischiadi non aver più autorevolezza sufficiente adimpedire che l’ostruzionismo, da mera fili-bustering, si trasformi in vero e proprioostruzionismo fisico.
In questo senso, tuttavia, il compito dellaPresidenza di Assemblea parlamentare si fasempre più difficile, mano a mano che il Par-lamento nel suo complesso viene perdendola funzione di “cassa di risonanza” dell’opi-nione pubblica, essendo stato sostituito daimezzi di comunicazione di massa e dai dibat-titi che si svolgono in televisione, durante iquali la suggestione e la sollecitazione degli
istinti prende il posto della riflessione e dellarazionalità. Questo fenomeno rischia, in unsistema a forte vocazione maggioritaria, dimortificare anche il c.d. statuto dell’oppo-sizione e di rendere poco appetibile per que-st’ultima l’esercizio del diritto di tribuna,proponendo alla Presidenza di Assembleauna problematica di difficilissima soluzio-ne: quella di ridare al Parlamento quel ruolodi punto di riferimento dell’opinione pub-blica e di vera rappresentanza della societàcivile, che ne aveva legittimato la collocazio-ne al centro delle istituzioni rappresentati-ve, in un impari confronto con le nuove tec-niche comunicative.
1 Il testo del nuovo regolamento fu
approvato dall’Aula del Senato il
30 novembre del 1988. I lavori
presso la Giunta erano iniziati
nella primavera dello stesso
anno ed il testo fu trasmesso
all’Aula per l’inizio della discus-
sione il 10 novembre 1988. Tut-
tavia il dibattito tra le forze poli-
tiche risale ad epoca precedente:
cfr. Gatti, Senato della Repubbli-
ca: una rivoluzione parlamentare?,
in Quaderni costituzionali
n.1/1989, 159 e ss., ove si riper-
corre l’iter che portò all’appro-
vazione del nuovo regolamento
del Senato, ricordandosi che per
la prima volta i giornali dettero
notizia di un accordo tra i presi-
denti dei gruppi di maggioranza
per l’avvio di modifiche regola-
mentari in data 22 ottobre 1987
(Ruffini, Il Senato dice addio al
voto segreto?, in Il Messaggero, 22
ottobre 1987) e che dalla secon-
da metà di gennaio del 1988
furono numerosissime le propo-
ste di modifica firmate dai vari
capigruppo. Su tale ultimo
aspetto e per il dettaglio cfr.
Gatti, op. cit., 159.2 Ne dà notizia, tra gli altri gior-
nali, il quotidiano “Il Tempo”
dell’11/11/1988. In letteratura
ricostruisce il passaggio dal voto
segreto al voto palese, Curreri, Il
voto segreto: questioni applicative e
prospettive di riforma, in Rass.
Parl., 2000, 144; Casu, Voto segre-
to e voto palese nei regolamenti
parlamentari dal 1848 ai nostri
giorni, in Riv. trim. dir. pubbl.,
1986, 553.3 La stampa del periodo (ottobre-
dicembre 1988) è ricca ed elo-
quente al riguardo. I toni della
contrapposizione si percepisco-
no in modo netto dalla lettura
dei lavori preparatori del nuovo
regolamento.
4 Cocozza, Il Governo nel procedi-
mento legislativo, Milano, 1989,
247. Cfr. per la stampa, Enzo
Erra, I timori di Craxi, in Il Seco-
lo d’Italia, 29 settembre 1988.5 Buratti, Governo, maggioranza ed
opposizione nel procedimento legi-
slativo e nella programmazione dei
lavori parlamentari, in Diritto e
Società, 2002, 253, la definisce
“…la riforma più attesa e sen-
z’altro la più significativa”. Le
riforme successive furono, nella
gran parte, dettate per far fron-
te a contingenti difficoltà e tal-
volta furono mosse da piccole
furberie di maggioranza. Si
vedano per tutti le due riforme,
l’una nel senso contrario all’al-
tra, relative all’art. 5 del regola-
mento del Senato: quella del 25
ottobre 2001 e quella del 31 gen-
naio 2007.6 Sul punto amplissima è la rasse-
gna stampa. Per un quadro di
Itinerari
188
sintesi cfr. Rassegna stampa a
cura del Servizio Studi del Sena-
to della Repubblica, “La questio-
ne del voto segreto”, ottobre 1988.7 Buratti, op. loc. ult. cit.8 Si veda, ad esempio, l’art. 5
(sulla rappresentanza dei grup-
pi minori in ufficio di Presiden-
za) o l’art. 19 (sull’aumento dei
membri nella Giunta delle ele-
zioni).9 Se si vuole Nocilla, Intervento al
Convegno promosso dal gruppo
parlamentare Radicale, su “Il
Parlamento nella Costituzione e
nella realtà” – Roma, 20 –
22/10/1978, 4 e ss., estr.10 Quella, in particolare, di assicu-
rare la governabilità del paese ed
un ruolo efficace all’Esecutivo
nei confronti del Parlamento, in
modo che potesse assicurarsi
un’attuazione coerente dell’in-
dirizzo politico.11 Cfr. sul più ampio tema del ruolo
riservato ai Presidenti delle
Assemblee: F. Bilancia, L’impar-
zialità perduta, in Studi in onore
di Gianni Ferrara, vol. I, Torino,
2005, 311 e ss, in part. 326 e ss;
Ferrara, Il Presidente dell’Assem-
blea parlamentare, Milano, 1965;
Torre, Il magistrato dell’Assem-
blea. Saggio sui Presidenti parla-
mentari, Torino, 2000; Iacomet-
ti, I Presidenti di Assemblea parla-
mentare, Milano, 2001; Gian-
francesco, Il ruolo dei Presidenti
delle Camere tra soggetti politici e
arbitri imparziali, in Le regole del
diritto parlamentare nella dialetti-
ca tra maggioranza e opposizione
(a cura di Gianfrancesco e
Lupo), Roma 2007, 11 ss.12 Cfr. nota 11. In particolare sul
punto si veda la dottrina richia-
mata in Gianfrancesco, op. ult.
cit., 15, nota 7. Specificamente,
Lippolis, Il Parlamento del mag-
gioritario: le contraddizioni di
un’esperienza, in La transizione
repubblicana. Studi in onore di
Giuseppe Cuomo, a cura di S.
Labriola, Padova 2000, 31.13 Torre, op. cit., 140.
14 Ferrara, Il Presidente cit., 206 e
ss.15 Ed infatti, basta non dimentica-
re che i regolamenti del 1971
furono varati quando Presiden-
ti delle Camere erano due espo-
nenti di maggioranza (Pertini e
Fanfani). Sul punto cfr. Buratti,
op. cit., 254.16 Esposito, voce Capo dello Stato in
Enc. del diritto, Milano, 1970,
236, con riferimento alle teorie
relative all’imparzialità e alla
neutralità del Capo dello Stato.17 Torre, op. loc. ult. cit.18 Vedi Manzella, Il Parlamento,
Bologna, 141.19 Per la prassi successiva vedi
28/11/96, 4/12/96, 5 dicembre
1996, 7 maggio 1997, 15 ottobre
1997, 11 febbraio 1998, 2 dicem-
bre 1999, 28 febbraio 2001.20 I fatti del decennio possono in
certo senso riassumersi nei
seguenti eventi: la caduta del
muro di Berlino, tangentopoli e
conseguente crisi di molti partiti
agli occhi dell’opinione pubblica;
referendum sulle leggi elettorali
(preferenza unica e introduzione
del collegio uninominale a un
turno), evoluzione del sistema in
direzione del maggioritario.21 Si rinvia all’art. 113 del regola-
mento del Senato del 1971 che,
al terzo comma, prevedeva la
prevalenza della votazione a
scrutinio segreto nel caso in cui
vi fosse concorso di diverse
domande.22 De Cesare, L’applicazione delle
norme regolamentari sul voto
segreto nella XIV legislatura, in Le
regole del diritto parlamentare tra
maggioranza ed opposizione (a
cura di Gianfrancesco e Lupo),
Roma, 2007, 261; Curreri, Il voto
cit., 141; Pezzini, La questione del
voto segreto in Parlamento, in
Diritto e Società, 1985, 168 e ss;
Casu, Voto segreto cit., 553.23 Cfr. per il Senato il Regolamen-
to all’art. 113 – commi 6 e 7 – e
per la Camera il Regolamento
all’art. 49 – comma 1-bis.
24 Per la prassi cfr. Camera, 5 luglio
1990, 5 luglio 1989. Per la pras-
si del Senato cfr. 20 marzo 1990.25 Ceccanti, Regolamenti parlamen-
tari: un altro tassello di una rifor-
ma strisciante, in Quaderni costi-
tuzionali, aprile 1998, 157 e ss.26 Vedi l’osservazione citata in Cri-
safulli, Partiti, parlamento, gover-
no, estratto de “La funzionalità
dei partiti nello Stato democrati-
co”. Atti del primo Congresso
nazionale di Dottrina dello Stato,
Milano 1967, 11.27 Elia, A proposito di voto segreto, in
Scritti in onore di Egidio Tosato,
vol. III, Milano 1984, 263 e s. 28 Elia, A proposito di voto segreto cit.,
269.29 Sul punto non può sottacersi la
necessità sempre più sentita di
una rivisitazione della legislazio-
ne in tema di partiti politici: ne
sono prova i numerosi progetti
di legge sui partiti politici nella
XV legislatura.30 Cfr. per la prassi Camera
2/2/1999, 4/2/1999, 24/2/1999.
Al Senato 7/6/2000, 21/6/2000.31 De Ioanna, Il bilancio dello Stato.
La finanza pubblica tra Governo e
parlamento, Roma 2005; Forte,
La riforma del bilancio in Parla-
mento: strumenti e procedure,
Napoli 1992.32 Cfr. intervento Elia in Resoconto
stenografico Senato: seduta del
10/11/88 pag. 44 e ss.33 Per la prassi cfr. 13/2/92 (ddl
3236).34 Per la prassi 13/3/95 (ddl 1471).35 Per la prassi cfr. 23/9/92.36 Cfr. il regolamento del Senato
che all’art. 107 – secondo comma
– recita: “Si presume che l’As-
semblea sia sempre in numero
legale per deliberare: tuttavia se,
prima dell’indizione di una
votazione per alzata di mano,
dodici senatori presenti in Aula
lo richiedano, il Presidente
dispone la verificazione del
numero legale”.37 Il combinato disposto di queste
due prescrizioni potrebbe dare
Nocilla
189
fondamento ad un obbligo spe-
cifico dei Senatori di partecipa-
zione alle sedute, obbligo
nascente dal solo fatto della
diramazione dell’ordine del
giorno.38 Tali sanzioni attengono preva-
lentemente alla riduzione della
indennità di diaria, se non,
addirittura, all’applicazione di
una trattenuta sul complesso
degli emolumenti dati al parla-
mentare. In tal senso la compe-
tenza per stabilire i criteri per le
sanzioni e la determinazione
della loro entità è del Consiglio
di Presidenza. Un primo decisi-
vo passo in direzione della affer-
mazione del dovere di parteci-
pare alle sedute era stato in pre-
cedenza compiuto con la sostan-
ziale abolizione del potere dei
Gruppi di giustificare l’assenza
dei propri aderenti.39 Per la prassi: 4/6/84, 6/10/83. È
evidente che l’aumento del
numero necessario per la richie-
sta di verifica del numero legale
ha, per un verso, comportato una
riduzione del potere delle oppo-
sizioni di servirsi delle relative
richieste per manovre ostruzio-
nistiche e, per altro verso, raf-
forzato l’idea che anche i parla-
mentari di opposizione siano
tenuti ad essere presenti duran-
te le sedute. Per converso le
limitazioni del numero di con-
gedi richiedibili è intesa ad evi-
tare che lo strumento del conge-
do sia usato al fine di abbassare
il quorum dei presenti necessario
perché il numero legale sia rag-
giunto.40 Per la prassi: 5/7/90 (ddl
n.2148).41 Per la prassi: 23/9/92 (ddl 595).42 Cfr. le disposizioni del Regola-
mento agli artt. 125-134. In let-
teratura Olivetti, La sessione di
bilancio in S. Labriola (a cura di),
Il Parlamento repubblicano
(1948-1988), Milano 1991, 581.43 Ricostruisce la necessità di dare
nuovo assetto, dopo la legge n.
362/1988, alle competenze di
Governo e Parlamento in tema di
bilancio, Buratti, Governo cit.,
250 ss.Cfr. inoltre sul Resoconto
stenografico del 10/11/88, pag. 9 e
ss, quanto affermato dal relato-
re Lipari.44 Cfr. art. 125-bis del Regolamen-
to del Senato (articolo aggiunto
approvato dal Senato il
31/7/1985, modificato il
30/11/88 e, da ultimo, il
6/2/2003).45 Sul punto cfr. l’art. 125-bis,
comma quarto. Si tratta di una
disposizione che ha carattere
assolutamente innovativo, in
quanto fissa un ordine di vota-
zione delle proposte di risolu-
zione derogatorio della prassi
ormai invalsa sull’ordine di
votazione dei documenti di indi-
rizzo (mozioni, risoluzioni,
ordini del giorno). Tale prassi
prevede che questi ultimi siano
posti ai voti o in un ordine tale
che limiti al massimo il verifi-
carsi di preclusioni, oppure
secondo l’ordine di presentazio-
ne con l’avvertenza che non si
farà luogo a preclusioni. La
disposizione in esame, invece,
finisce per provocare una sola
votazione sulla proposta di riso-
luzione accettata dal Governo,
che, se approvata, precluderà
tutte le altre proposte.46 Buratti, Governo cit., 251, sotto-
linea che la procedura introdot-
ta dal regolamento del 1988 per
il DPEF “…complessa ed artico-
lata, ha costituito una direttrice
di rafforzamento del ruolo del
Governo ed è apparsa largamen-
te positiva”. Per una presa di
posizione critica cfr. Bertolissi,
La manovra di bilancio, in
Annuario 2000, 248 e ss.47 Il terzo comma dell’art. 126 del
Regolamento del Senato recita:
“Quando il disegno di legge
finanziaria è presentato dal
Governo al Senato, il Presidente
del Senato, sentito il parere della
quinta Commissione perma-
nente e del Governo, prima della
assegnazione, accerta se esso
rechi disposizioni estranee al
suo oggetto come definito dalla
legislazione vigente, ovvero volte
a modificare norme in vigore in
materia di contabilità generale
dello Stato. In tal caso il Presi-
dente comunica all’Assemblea lo
stralcio delle predette disposi-
zioni”.48 Per la prassi cfr. 21/11/1996.49 Cfr. art. 126-bis Regolamento
Senato.50 Cfr. l’art. 129, quarto comma.
Per la prassi cfr. 16/12/1988.51 Per la prassi cfr. 1/11/1999.52 Per la prassi cfr. 26/11/1992.53 Basti guardare il vertiginoso
aumento dell’articolato delle
ultime finanziarie. (Legge
311/2004-Finanziaria 2005: 1
articolo con 572 commi; Legge
266/2005-Finanziaria 2006: 1
articolo con 612 commi; Legge
296/2006-Finanziaria 2007: 1
articolo con 1364 commi).54 Anche in anni in cui c’era una
maggioranza sicura, solo una
percentuale ridotta di “collegati”
è pervenuta all’approvazione
finale.55 Magrini, La programmazione dei
lavori in Assemblea; una lettura
critica, in Quaderni costituziona-
li, 2005.56 Il divieto previsto dal comma
ottavo dell’art. 29 è stato reso più
stringente dalla soppressione
del comma sesto dello stesso
articolo, che nella formulazione
precedente prevedeva che le
Commissioni permanenti
dovessero riunirsi almeno due
volte nelle settimane in cui l’As-
semblea teneva seduta. Nella
prassi è invalso l’uso che il Pre-
sidente sconvochi le Commis-
sioni non appena gli pervenga la
segnalazione della contestualità
di lavori. 57 Tutti i tentativi, sinora svolti, di
Itinerari
190
riservare ai lavori degli organi
elencati nel testo una settimana
si sono scontrati con la difficol-
tà di reperire un adeguato
numero di senatori disposti a
sacrificare gli impegni di colle-
gio ai lavori parlamentari, sicchè
quella settimana finiva per esse-
re considerata come una setti-
mana di sospensione dai lavori
parlamentari.58 Una interpretazione più corag-
giosa potrebbe portare a esten-
dere ciò che si applica ai decreti
legge a tutti i disegni di legge.59 Sul punto è utile un confronto
tra l’art. 78 del regolamento del
Senato ante e post riforma.60 Per la prassi in ordine alla calen-
darizzazione dei decreti legge
vedi 4/6/84. Si veda ancora, per
quanto riguarda il termine con-
cesso alle Commissioni per rife-
rire all’Assemblea, la prassi per
cui un disegno di legge può esse-
re trattato da quest’ultima con-
formemente alle previsioni del
calendario, sebbene di esso non
si sia concluso l’esame in Com-
missione. La conferenza dei
capigruppo può determinare
autonomamente il termine ulti-
mo per la conclusione dell’esa-
me in Commissione per un dise-
gno di legge (3/10/89, 21/2/90,
29/3/90, 16/2/93, 12/1/94,
26/7/95).61 Lasorella, La programmazione dei
lavori parlamentari alla Camera,
la riforma del 1997 e la prassi
attuativa, in Maggioranza e oppo-
sizioni nelle procedure parlamen-
tari (a cura di E. Rossi) Padova
2004; Ferrara, Il Presidente cit.,
19 e ss; Ciaurro, voce Presidenti,
in Encicl. giur. Treccani; Men-
carelli, Il Presidente di assemblea
parlamentare: profili storici e posi-
zione dell’istituto nell’attuale con-
giuntura politico-costituzionale,
in Nomos 1994, 6; Iacometti, I
Presidenti cit., 17 ss.
62 Cfr. nota 60.63 R. Tosi, Lavori delle Camere e
mediazione dei Presidenti, in Dir.
Soc., 1973, 526 e ss.64 Rizzoni, La programmazione dei
lavori alla prova: l’esperienza della
XIV Legislatura, in Le regole del
diritto parlamentare nella dialetti-
ca tra maggioranza e opposizione
(a cura di Gianfrancesco e
Lupo), Roma 2007; Decaro, L’or-
ganizzazione dei lavori e dei tempi,
in AA.VV., Diritto parlamentare,
2005, 146; Magrini, La program-
mazione cit., 766; Buratti, Gover-
no cit., 263.65 Ceccanti, Regolamenti parlamen-
tari: un altro tassello di una rifor-
ma strisciante, in Quaderni costi-
tuzionali 1988, 159-160.66 Sul punto basta ricordare che il
regolamento del Senato del 1971
è stato approvato dopo il deva-
stante ostruzionismo dei libera-
li e della destra sulla legge elet-
torale regionale e sulla legge
finanziaria regionale.67 De Vergottini, Opposizione parla-
mentare, in Encicl. dir., vol. XXX,
Milano, 1980, 533; Buratti,
Governo cit., in part. 275.68 Buratti, op. loc. ult. cit.69 Per la XIV legislatura basta ricor-
dare la vicenda del disegno di
legge n. 9 (sul conflitto di inte-
ressi); del d.d.l. n. 193 ritirato in
Commissione per attendere
proposte della maggioranza sulla
stessa materia; del d.d.l. n. 340;
il d.d.l. n. 504; il d.d.l. n. 1732; il
d.d.l. n. 1480.70 Per la XIV legislatura v. il dise-
gno di legge n. 29 rinviato in
Commissione il 12 dicembre
2001; il d.d.l. n. 2875; il d.d.l. n.
512; il d.d.l. n. 1506; nonché la
mozione n. 287.71 v. per la prassi XIII legisl., quar-
ta Commissione, 23 novembre
1999; XIV legisl., 1^ C.p., 24
luglio e 1º agosto 2001.72 Cfr. le lettere del Presidente del
Senato pro tempore del 20 luglio
1993 e del 31 luglio 2000.73 Cfr. lettera del Presidente del
Senato del 16 marzo 1990.74 Non risulta a tutt’ora che questa
funzione sia mai stata attivata,
cosicché la segnalazione ha
riguardato solo pochissimi e
sporadici affari sui quali si era
preventivamente manifestato un
interesse politico.75 Per la prassi sub art. 100 cfr.
10/4/1990 e 8/9/1992; sub art.
103 cfr. 28/1/1965 e 3/2/1965.76 Buratti, Governo cit., 243 e ss.77 Non è un caso che l’art. 5 bis
parli di “opposizioni” al plurale.78 In questo senso Manzella, Il Par-
lamento loc. cit.79 Il Regolamento del 1971 della
Camera era di tipo assembleari-
stico. Cfr. anche Nocilla, Inter-
vento cit., 4 ss.80 Ceccanti, op. ult. cit., 162-163.81 Ferrara, Il Presidente cit.
191
Le relazioni che oggi si sono succedute
hanno coperto tutto l’arco della storia par-
lamentare italiana e hanno dimostrato
quanto essa sia densa, ricca e creativa,
anche se non priva di contraddizioni e di
chiaroscuri.
Il bilancio che ne risulta è confortante. La
ricognizione storica ci aiuta a mettere defi-
nitivamente da parte l’idea di un parlamen-
tarismo italiano non adeguato e ancora arre-
trato rispetto ai modelli dei maggiori paesi
europei. Per completare il lavoro servirebbe
un altro convegno di tipo storico-compara-
to. Un confronto con la storia parallela di altri
parlamenti europei metterebbe in luce la
forza del caso italiano, che si collega al ruolo
unificante svolto dal parlamento più che da
ogni altra istituzione, e potrebbe anche chia-
rire come il parlamento svolga in ciascun
paese ruoli diversi, non solo a causa della
forma di governo, ma anche a causa del con-
testo politico e dei modi in cui si articola la
rappresentanza della comunità nazionale.
Il titolo di questo convegno pone impli-
citamente una domanda – “svolta o conti-
nuità?” – che già riflette, quale che sia la
risposta, la consapevolezza di una realtà in
continua crescita e cambiamento.
La mia relazione è l’ultima della giorna-
ta e posso approfittarne per guardare indie-
tro, cominciando a dare una risposta alla
domanda posta nel titolo. La mia risposta –
senza negare le svolte – propende per la
continuità. Nella successione delle relazio-
ni di oggi si sono individuate molte svolte,
ma anche moltissima continuità. Per que-
sto non mi convince l’interpretazione –
emersa in molti interventi – che valorizza
maggiormente le svolte, associandole alle
trasformazioni della forma di governo.
Ad esempio, mi pare significativo che le
modifiche regolamentari del 1997 – che
cadono nel momento in cui cominciano a
manifestarsi coerentemente sulla forma di
governo gli effetti della riforma elettorale
del 1993 – presentino i maggiori caratteri di
continuità con le linee delle precedenti
riforme.
A dimostrazione di ciò, è utile il confron-
to tra le due Camere: le modifiche del 1997
Le riforme del Regolamento della Camera dei Deputati del 1997-1999
alessandro palanza
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
presso la Camera sono, per la parte più rile-vante, un adeguamento alle riforme già ope-rate dal Senato negli anni ‘80, in chiave dicontinuità e di progressiva razionalizzazionedei regolamenti del 1971, fin dai quali ilSenato partiva già avvantaggiato, come hamesso giustamente in rilievo DamianoNocilla. Tanto è vero che il Senato nel 1997non sente affatto il bisogno di aggiornare lesoluzioni già acquisite e resta all’internodegli schemi tracciati negli anni ottanta,mentre le modifiche del 1999 – che avven-gono parallelamente nelle due Camere –sono consequenziali al cambiamento di alcu-ne procedure legislative (procedura di bilan-cio, legge comunitaria e deleghe legislative).
Applicando la domanda “svolta o conti-nuità?” alle riforme del ‘97-‘99, la miarisposta è dunque tutta a favore della con-tinuità. Le svolte ci sono, ma sono il fruttodell’accumularsi di fattori striscianti, aconclusione di un percorso cominciatomolti anni prima. Le linee di continuità e diprogressivo approfondimento riguardanoinfatti tutti i filoni di questa riforma: a) ilprogressivo sviluppo della programmazio-ne/organizzazione dei lavori; b) la spintaverso la “decisione“ temperata dalla diffe-renziazione delle procedure sui temi digaranzia (organizzazione dello stesso parla-mento, diritti fondamentali, leggi elettora-li, etc); c) la valorizzazione dei gruppi par-lamentari, temperata dalla vocazione adoffrire una forma di riconoscimento allesoggettività politiche anche minori.
Queste linee di continuità partono dalontano, fin dalla Assemblea Costituente, eattraverso i regolamenti del 1971 giungonofino alle ultime modifiche, come ho cerca-to di dimostrare in un saggio di alcuni annifa nel volume della Storia d’Italia Einaudidedicato al parlamento.
Rispetto agli altri paesi le procedureparlamentari in Italia si distinguono peruna particolare forza espansiva, che va benoltre la regolazione dell’attività interna delParlamento. Questo fenomeno ha originenelle disposizioni costituzionali che rinvia-no ai regolamenti parlamentari la regola-zione e distinzione delle diverse procedu-re legislative e si manifesta attraverso lacombinazione di norme dei regolamentiparlamentari con le norme legislative delleleggi “sulle leggi”, come la legge n. 468 sulleprocedure di bilancio o la “legge La Pergo-la” in tema di legge comunitaria, ovvero ilnuovo tipo di grandi deleghe che fissanosolo obiettivi e procedure.
Le procedure parlamentari in Italia, daun certo punto in avanti, escono dalla vitainterna delle Camere, non regolano soltan-to il rapporto con il governo in parlamento(come fanno tutti i regolamenti parlamen-tari), ma condizionano anche il modo diessere del governo fuori del parlamento e irapporti con altre istituzioni.
Ad esempio, nella procedura di bilancioè il regolamento parlamentare a decidere laquota di potere che ciascuna istituzioneesercita e i requisiti di validità della inizia-tiva legislativa, nonostante che si tratti diiniziativa legislativa esclusiva. L’intrecciofra procedure legislative e procedure parla-mentari diviene con il tempo la maggiorevalvola di flessibilità del sistema politico-costituzionale, che ne consente il costanteadattamento al variare del contesto com-plessivo, con riferimento sia al mutare dellepolitiche pubbliche sia agli equilibri delsistema politico. Sono infatti piuttosto levariazioni del processo legislativo a contras-segnare le diverse fasi evolutive della proce-dura parlamentare, mentre le variazionidella legge elettorale segnano il mutamen-
Itinerari
192
to dei soggetti politici che agiscono in par-lamento e non corrispondono necessaria-mente con le precedenti (per esempio, neglianni novanta il cambiamento delle modali-tà del processo legislativo nel 1992 precedela riforma elettorale ed il passaggio al siste-ma maggioritario nel 1993-1994).
Negli altri paesi europei non si riscon-tra questo ruolo così ampio e dinamicodella procedura parlamentare. Anche inaltri paesi, ovviamente, il parlamento èl’istituzione più rappresentativa ed è quel-la che registra le variazioni del sistema poli-tico; ma rispetto ai governi è anche l’istitu-zione più stabile, molto più stabile quantoalla struttura e alle procedure. È invece l’as-setto degli esecutivi ad esprimere le tra-sformazioni del sistema economico socia-le, mentre al confronto le procedure parla-mentari mutano molto meno. Per contro inItalia, fin dall’inizio, il parlamento è l’isti-tuzione più flessibile, più sensibile ai mini-mi mutamenti del sistema politico e socia-le. Il parlamento è il luogo dove tutti i cam-biamenti si manifestano, ma è anche illuogo dove si manifesta la continuità delsistema: il parlamento è il principale “ter-mometro”, che misura la temperatura diogni situazione e che deve per primo ade-guarsi ai risultati della misurazione.
Alla radice di questa particolare feno-menologia parlamentare, vi è un fattoreancora più profondo. In tanto un parlamen-to può essere un “termometro”, in quantoè istituzione autonoma, che si autodeter-mina e che si determina costantemente inbase agli equilibri del sistema politico cheessa stessa esprime. Il parlamento è il luogoin cui le forze politiche definiscono le lororeciproche relazioni secondo equilibrisempre variabili da una legislatura all’altrae in base a quei principi di ampia intesa
nell’autogoverno della istituzione parla-mentare, che costituisce una forma di vero“statuto dell’opposizione” (attraverso laconvenzione che prevede ampio consensonella conduzione dell’ufficio di presidenzae quanto alle modifiche dei regolamentiparlamentari), la cui importanza vienespesso sottovalutata nella dinamica costitu-zionale italiana. Da qui il rilievo che nelparlamento italiano assume la configura-zione dei gruppi parlamentari e delle lororelazioni nella gestione della istituzioneparlamentare.
Questa relazione così forte e qualificatatra modo di essere dei partiti e organizza-zione parlamentare ha la sua origine nel-l’Assemblea costituente. La relazione diFrancesco Bertolini, questa mattina, hadimostrato come l’organizzazione dei grup-pi sia il tema centrale per spiegare il funzio-namento dell’Assemblea costituente. Daquel modo di essere dell’Assemblea costi-tuente nasce l’ordinamento della Repub-blica. Il nuovo ordinamento nasce dal par-lamento, così come il precedente era natodalla monarchia. La Costituzione è scrittain parlamento secondo un metodo forte-mente parlamentare, fatto di emendamen-ti, votazioni aperte e schieramenti variabi-li, conflitti e soprattutto vaste intese. Anchela differenziazione dei piani dell’azionepolitica e delle relative procedure – tra itemi rientranti nell’azione del governo edella maggioranza, da un lato, e i temi cheinvece richiedono maggiori garanzie o piùampie intese, dall’altro – si manifesta inmodo macroscopico nell’Assemblea costi-tuente, dove la Costituzione nasce da unmodo di procedere del tutto diverso daquello che si determina nel rapporto con ilgoverno all’indomani della grande rotturadel maggio 1947.
Palanza
193
Le tre grandi linee di continuità che hoprima ricordato (organizzazione dei proce-dimenti, valorizzazione dei gruppi e distin-zione delle procedure tra temi di governo etemi di garanzia) sono dati profondamenteradicati nell’esperienza dell’Assembleacostituente, anche se poi restano quasisospese fino alla loro ripresa in grande stilecon la elaborazione dei nuovi regolamentiparlamentari del 1971. La organizzazione deiprocedimenti progressivamente più forte,l’approfondimento del modo di essere deipartiti e dei gruppi in parlamento e ladistinzione dei piani dell’azione parlamen-tare tra politica e garanzia, costituiscono iltriplice nocciolo duro intorno a cui crescel’identità del parlamento repubblicano.
Questo forma di parlamento sopravviveattraversando il deserto delle prime legi-slature repubblicane, quando la Costituzio-ne resta bloccata o almeno fortemente ral-lentata in tutto il processo di attuazione.
Sono anni di durissima contrapposizio-ne. Il parlamento è il luogo della contrap-posizione, ma anche della condivisione divalori costituzionali e parlamentari, dicapacità di dialogo e convivenza, nell’ambi-to di un’istituzione che resta la “casa” ditutti, dalla destra alla sinistra.
I regolamenti del 1971 – mi sembra chesu questo stamattina siamo stati tutti d’ac-cordo – nascono dallo “scongelamento”della Costituzione e dalla riapertura ingrande stile di un piano di azione costitu-zionale e sub-costituzionale caratterizzatodalla intesa tra i partiti. Anche allora siriparte dal potenziamento del sistema deigruppi e della presidenza come fattore uni-ficante del sistema parlamentare.
Da questo punto di vista, i maggiori limi-ti della riforma del 1971 sono la incompiu-tezza delle procedure e dei principi che essa
stessa pone, che dovranno completarsi neidecenni successivi. Ad esempio, come dice-va poco fa Damiano Nocilla, è vero che ilregolamento della Camera – al contrario delregolamento del Senato – imposta, ma nonriesce a portare ad un livello di funzionali-tà, la programmazione dei lavori, in quantonon attribuisce al presidente un potere dichiusura. Ma la procedura di programma-zione dei lavori, definita nel regolamentodel 1971, resta la base virtuale e concettualeche è ancora oggi valida e sulla quale si inne-scano i successivi progressi della program-mazione dei lavori. Il maggiore di essi arri-va nel 1983, con la sessione di bilancio, cheapre la via ad una forma di organizzazioneintegrale del procedimento.
Anche la riforma della sessione dibilancio del 1983 – come i regolamenti del1971 – si rivela una riforma incompleta, cheavrà bisogno di un ciclo di successive“messe a punto” per arrivare a funzionare.La sessione di bilancio va avanti, attraver-so le riforme regolamentari del 1983 e del1989, e giunge a regime solo nel 1992, conle circolari interpretative del presidenteNapolitano, almeno per quanto riguarda laCamera. In quel momento, sulle procedu-re di bilancio si innestano grandi leggi didelega legislativa nella forma di “collegati”alla legge finanziaria. Parallelamente si svi-luppa la legge comunitaria, che è una gran-de “nave porta-deleghe”. Nel marasmapolitico che si apre nel 1992 funzionanosolo le procedure di bilancio e – a loromodo – i decreti-legge, mentre si avvicen-dano i decreti delegati, i decreti correttivie quelli rinnovati, generati dalla grande“delega Amato” e dalle altre grandi leggi didelega che la seguono.
Nel 1996 la reiterazione dei decreti-legge raggiunge il parossismo, le deleghe
Itinerari
194
hanno preso il volo, la procedura di bilan-cio fa il pieno di tutti i provvedimenti aven-ti rilevanza politica. Il procedimento legi-slativo ordinario è completamente paraliz-zato. Nel frattempo si esaurisce quasi com-pletamente la produzione delle commissio-ni in sede legislativa, se non per casi mini-mi e marginali. Esistono soltanto le proce-dure speciali e gli atti dovuti e tra questi idecreti legge reiterati che – almeno allaCamera – non hanno alcuna regola, conconseguente stato di caos nel procedimen-to legislativo.
Questa situazione di marasma è il verogrande motore della riforma del regola-mento della Camera del 1997.
Il lavoro della giunta per il regolamen-to si avvia contemporaneamente all’elabo-razione della legge costituzionale per la isti-tuzione della Commissione bicamerale peruna integrale riforma della seconda partedella Costituzione. Il tema di una riformaorganica dei regolamenti si pone solo alsecondo ed eventuale punto dell’ordine delgiorno: occorre infatti attendere la configu-razione del parlamento nel nuovo ordina-mento costituzionale.
Pertanto la riforma del 1997 viene gra-dualmente costruita, non come un riformaorganica, ma come la somma di una serie diinterventi diretti ad affrontare singoli pro-blemi urgenti, indifferibili ed insopporta-bili di funzionamento. Si vuole risolveresubito lo stato di grave handicap dellaCamera rispetto al Senato, che certamentedal 1988, ma anche da prima, ha procedu-re e garanzie di funzionamento molto supe-riori. Questo squilibrio fra le due Camere –troppo a lungo tollerato – è la ragione chespinge ad una riforma immediata, anche sedichiaratamente provvisoria e ne spiegaanche la principale direzione di marcia.
A questo fattore se ne aggiungono altri.La sentenza della Corte costituzionale n.360 del 1996, che pone fine alla reiterazio-ne dei decreti-legge, chiaramente segna unaltro punto di svolta, che impone un cam-biamento nel senso di uscire dalla paralisidel procedimento ordinario, dovuta esclu-sivamente al regolamento della Camera.
Un altro tema bollente si apre sul fron-te – sempre sensibilissimo – della confi-gurazione dei gruppi parlamentari a segui-to della decisione di non autorizzare lacostituzione in deroga di gruppi parlamen-tari inferiori a venti deputati nel quadro delnuovo sistema elettorale.
Nell’assestamento successivo all’appli-cazione della legge elettorale maggioritariasi sviluppa un processo di progressivo con-solidamento dei soggetti politici all’inter-no delle due coalizioni. Si aprono processidi trasmigrazione, mentre partiti e gruppiparlamentari presentano una minore soli-dità e consistenza, in quanto tendono adivenire formazioni interne e variabili,rispetto ai veri soggetti portanti sul pianoelettorale che sono le coalizioni. In questasituazione, il gruppo misto si gonfia adismisura e giunge ad una situazione esplo-siva con oltre 100 componenti, fino arichiedere una risposta necessaria e urgen-te, indifferibile quanto quella che riguardail procedimento legislativo.
Dunque, due stati di necessità si cumu-lano e aprono i due filoni principali dellariforma del 1997: quella relativa al procedi-mento legislativo e quella relativa alla disci-plina dei gruppi parlamentari.
Questo doppio stato di necessità è inter-pretato in via istituzionale dal presidentedella Camera, mentre si registra una certapassività dei vertici dei maggiori gruppiparlamentari, più impegnati sul tema della
Palanza
195
parallela riforma costituzionale. È il presi-dente che interpreta questa necessità, conil sostegno di alcuni componenti di buonavolontà della giunta del regolamento, chenon sempre agiscono in piena sintonia coni rispettivi gruppi parlamentari (Armaroliper AN, Calderisi per Forza italia, Guerraper i DS, Lembo per la Lega, Mattarella peri popolari, etc ).
I deputati raccolti nella giunta svolgonouna ricognizione del testo regolamentareper individuare i punti che richiedonointerventi di manutenzione urgente. Ciòconduce a censire tutte le situazioni chenon potevano attendere e che dovevanoessere risolte per garantire quella minimafunzionalità dell’istituzione, che era nel-l’interesse di tutte le parti.
Questa impostazione minimale e dicostante dialogo tra tutte le parti assume unaforza propria che si rivela alla fine inarre-stabile, nonostante i dubbi e le resistenze chefino all’ultimo mantengono i responsabilidei maggiori gruppi parlamentari.
La esigenza di mantenere un equilibriotra le ragioni (e le opposte richieste diriforma) dei due poli fa entrare in modoindiretto nella riforma concetti legati alcambiamento della forma di governo insenso maggioritario. In modo non moltodiverso rispetto a quanto era successo nel1971, si deve garantire un bilanciamentodegli interessi e la reciproca garanzia tramaggioranza e opposizione.
Per questa via si manifesta una chiaratendenza a stabilire una distinzione di ruolitra maggioranza e opposizione molto piùnetta e forte rispetto al passato. Affiora indiverse procedure il nuovo concetto di unaopposizione stabile e organizzata quanto lamaggioranza, ma, mentre affiora, vienemesso in crisi da elementi che non si con-
siderano parte delle due coalizioni (comenel caso della Lega e di Rifondazione comu-nista). Perciò gli accenni di riconoscimen-to al sistema delle coalizioni devono neces-sariamente unirsi al riconoscimento dellaloro composizione plurima e, almeno inparte, frammentata.
Tutto ciò si risolve in una conferma dellalinea di continuità diretta alla valorizzazio-ne dei gruppi parlamentari e della lorodisciplina come core business del parlamen-to italiano. Si giunge ad una differenziazio-ne tra i gruppi optimo iure, con il requisitominimo della consistenza di venti deputa-ti, che partecipano pienamente al governodella Camera, e le soggettività politicheminori, che vengono riconosciute, ma soloa condizione di graduare i loro diritti inrelazione alla loro effettiva consistenza. Lariforma del gruppo misto non solo rispec-chia la realtà quantitativa, ma anche, nelriflettere il peso delle diverse formazionipolitiche, introduce una nuova concezioneche segna un progresso qualitativo e con-cettuale, creando per la prima volta nellastoria italiana una precisa graduatoria dipoteri e posizioni.
Nella XV legislatura, con il cambiamen-to del sistema elettorale ed il ritorno alriconoscimento dei gruppi parlamentariminori di venti deputati, tutta questa logi-ca è venuta meno. Il riconoscimento indif-ferenziato di gruppi parlamentari, a pre-scindere dalla loro consistenza, è in com-pleto contrasto con la logica delle normeregolamentari sulle componenti del grup-po misto e dunque in futuro una delle duelogiche dovrà definitivamente recedere.
Per quanto riguarda il procedimentolegislativo, il modello che spiega tutte lescelte della riforma del 1997 è la sessione dibilancio. Non vi sono invenzioni o improv-
Itinerari
196
visazioni: le risposte vengono dalla espe-rienza della Camera stessa, così come è stataelaborata e rielaborata negli anni. Perfinol’istituto più originale, il comitato per lalegislazione, rappresenta la proiezione diun certo modo di operare delle commissio-ni bilancio che, in tema di regole contabi-li, operano con metodi di intesa tantoampia quanto è forte la contrapposizionesul merito delle politiche di bilancio.
In armonia con il modello della sessio-ne, si va verso la organizzazione integraledel procedimento. Il procedimento si arti-cola in fasi nettamente differenziate. Sidistingue chiaramente il compito della fasein commissione, caratterizzata dalla istrut-toria legislativa, dalla fase in assemblea,caratterizzata dal contingentamento deitempi e dalla tendenza a limitare il numerodegli emendamenti da votare. Inoltre sidistinguono profili di coerenza e di corret-to metodo legislativo, che vengono affidatial presidente e ad organi ausiliari del pre-sidente, come il comitato per la legislazio-ne e, per certi aspetti, la commissionebilancio e la commissione affari costituzio-nali. Si conferma la tendenza a distinguereil piano delle regole e dei metodi della legi-slazione – che comporta convergenza tra leparti e soluzioni di tipo istituzionale – dalpiano del merito delle politiche, ove vi ècontrapposizione e vi è tutela del diritto adecidere del governo e della maggioranza inun quadro di garanzie per le opposizioni.
Tutto ciò che non è merito viene ripor-tato, direttamente o indirettamente, al pre-sidente della Camera. Vi è dunque una ulte-riore, significativa espansione dei poteri delpresidente. Anche questa espansione è inlinea di piena continuità con le tendenzeprecedenti, nel solco della grande espan-sione progressivamente determinatasi a
partire dalla fine degli anni ’70 e prosegui-ta continuativamente negli anni ’80 e ’90,man mano che il presidente diviene il rego-latore delle grandi procedure legislativespeciali (bilancio, comunitaria, deleghe,decreti legge), che, a loro volta, costituisco-no i grandi strumenti di intermediazionedel potere fra parlamento e governo.
Anche la posizione del governo in par-lamento viene sensibilmente rafforzata, inlinea con tendenze progressivamente deli-neatasi dall’inizio degli anni ’80. La espan-sione delle procedure parlamentari di cuiparliamo non ha niente a che fare con l’as-semblearismo: non avviene ai danni delgoverno, ma a suo vantaggio. Lo sviluppodelle procedure di bilancio su iniziativaparlamentare diviene la via che consente iltrasferimento della guida del procedimen-to legislativo dal parlamento al governo. Edè assai significativo che questa “svolta”decolli nel 1992, prima del cambiamentoelettorale. Lo spostamento di potere avvie-ne all’interno del parlamento, grazie all’al-leanza ed alla cooperazione delle due istitu-zioni sul piano del metodo e della determi-nazione delle regole, che resta riservataall’ambito del dialogo parlamentare e nonad iniziative unilaterali del governo con lasua maggioranza.
Il presidente della Camera è il fattoretrainante e decisivo della riforma del 1997-1999. Ciò non implica alcun personalismo.La personalità del presidente Violante è unapersonalità forte, ma non avrebbe potutoimporsi se non avesse interpretato il biso-gno profondo dell’istituzione come insiemeunitario e non fosse riuscito a guidare gliorgani collegiali di presidenza in uno spi-rito di grande intesa.
Nella storia delle riforme dei regola-menti parlamentari, che abbiamo ripercor-
Palanza
197
Itinerari
198
so oggi, vi è dunque un processo di ammo-dernamento, che procede sulla base di unaesperienza di parlamentarismo così inten-sa da non avere eguali in Europa. Infattinon conosce modelli stranieri, tranne nelcaso del question time, citato prima da Vin-cenzo Lippolis.
La continuazione di questa esperienzarichiede anche per il futuro un parlamentocapace di essere uno specchio autenticodella politica nazionale e di assicurare unadialettica reale. Sulla capacità di “decidere”a seguito di una reale dialettica – non sullavelocità – si misura la vera efficienza delparlamento. Quando non c’è una dialetticareale, il parlamento muore e, se il parla-mento diventa un corpo sclerotizzato, anchei partiti diventano entità bloccate e chiuse.
Lasciar cadere il parlamento, indebo-lirlo, in un paese come l’Italia, significhe-rebbe aprire il varco a poteri che operano insedi meno chiare, meno evidenti e menoaperte. Anche in parlamento operano igruppi di pressione, ma dentro il parla-mento tutto si vede e tutto si può giudica-re. Quando il parlamento rallenta la suaattività, prevalgono invece altre strade esappiamo come in Italia i centri di poteresappiano percorrerle.
In un momento in cui il parlamentoviene così fortemente criticato, vale la penadi ricordare quanto sia necessario che nellefuture riforme costituzionali e parlamen-tari sia tutelata la sua funzione fondamen-tale ed essenziale di esprimere una auten-tica vita democratica.
Approdi
201
È assai difficile dar conto, in un intervento
che non vuole essere «ostruzionistico», del
senso complessivo di questa giornata: che ha
mescolato interpretazioni sui regolamenti
parlamentari e spunti sulla idea di parlamen-
to che ad essa è sottostante. Certo, il momen-
to è denso di criticità per il nostro parlamen-
to. Credo però che non ci sia stata una “età
d’oro” del parlamento italiano, e neppure
riforme «tutte d’oro». Questa stessa sala così
piena ed attenta, ricca di giovani, dice che il
parlamento e i problemi del parlamento sono
centrali nella riflessione dei costituzionalisti.
Oggi abbiamo sentito una lunga storia, ma
la storia delle costituzioni ci ha da tempo
avvertiti della relatività del termine “svolta”
che compare nel titolo del nostro seminario.
In ogni svolta c’è una densità maggiore di
continuità – di «perduranze» direbbe Fer-
nand Braudel – rispetto a quelle che siano le
novità. Quand’ero a Bruxelles per un perio-
do di lavoro parlamentare, mi è capitato qual-
che sera di andare a cena con Ilya Prigogine,
il teorico delle dissipanze, delle teorie del
caos, premio Nobel per la chimica. Per pro-
vocarlo, gli chiesi una volta se alla situazione
italiana potevano applicarsi quelle sue teo-
rie. Lui mi rispose, con un sorriso, che era
possibile: a patto, mi disse, di non fissarci sul
focus, ma prestando attenzione ai flussi col-
laterali e periferici che molte volte portano
più lontano e più spiegano la verità del feno-
meno allo studio.
La storia dei nostri regolamenti, l’abbia-
mo visto nei diversi interventi che si sono
succeduti, è una storia di perduranze: alcune
necessitate, altre provocate dalla pigrizia
conservatrice di apparati con l’alibi del
rispetto di tradizioni divenute insignificanti
e di sviluppi di prassi che, al loro apparire,
poterono sembrare secondarie. Le une e gli
altri veramente «leggibili» solo in un gene-
rale contesto costituzionale.
A questo proposito, una cosa che ho nota-
to nelle nostre cattedre universitarie è la dif-
fusione del titolo di “diritto assembleare” in
luogo di “diritto parlamentare”. Ora, il dirit-
to assembleare è un diritto di procedure
necessitate: dalle assemblee di condominio ai
consigli regionali, al parlamento europeo. C’è
Qualche considerazione finale
andrea manzella
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
una base procedurale necessitata in tutte leassemblee. Non per nulla un filosofo dellalogica come Geremia Bentham divieneun’autorità di riferimento per i primi rego-lamenti assembleari. Ma altra cosa è il dirit-to parlamentare, costola del diritto costitu-zionale: cosa diversa qualitativamente, e nonsolo quantitativamente, dal diritto assem-bleare. Al diritto parlamentare partecipaquell’intreccio inscindibile di norme chevanno dalla costituzione e dalle sue conven-zioni, alle leggi elettorali, alle leggi sui parti-ti e, se ci sono, alle grandi leggi di organizza-zione del governo.
Direi, anzi, che un metro per misurare la«vitalità della vita» di un parlamento è nellasua capacità di reagire, con il suo regolamen-to, a quello che avviene nel mondo delle leggicostituzionali ed ordinarie. Può accadere,infatti, più spesso di quanto si immagini, cheil parlamento del regolamento si dimentichidi quel che ha fatto il parlamento della legge.
Ora, siamo ben consci del bene pubblicodell’autonomia parlamentare, della riserva diregolamento. Ma questa autonomia sarebbesoltanto un’autonomia di privilegio se non simanifestasse anche nella reattività, cioè nellacapacità parlamentare di saper intrecciare lesue norme «interne» con l’ordinamentocostituzionale in senso lato.
Giustamente, perciò, è stato qui detto cheil periodo migliore della storia parlamenta-re repubblicana è stato quello in cui le Came-re hanno saputo «reagire»: recuperando neiloro ordinamenti regolamentari il risultatodi alcune grandi leggi di organizzazione. Cosìè avvenuto con la legge finanziaria: le attualiprocedure di bilancio si possono e di devonodiscutere per certe loro evidenti obsolescen-ze e distorsioni, resta tuttavia notevole il suc-cesso del vincolo temporale (quello che hapermesso nel 2007 almeno in prima lettura,
di rispettare, senza ricorso alla fiducia, i ter-mini della sessione di bilancio). Così è avve-nuto con la legge comunitaria: almeno perquanto riguarda l’articolazione in procedureche «seguono» sia la fase ascendente dellaformazione delle norme comunitarie sia lafase discendente, della loro «ricezione» nel-l’ordinamento nazionale.
Se guardiamo alla storia lunga dei nostriregolamenti parlamentari, e se ci attestiamosu questo criterio della reattività, noi possia-mo valutare con un certo grado di verità sec’è stata o no una «svolta», per usare il ter-mine di questa nostra giornata. Su questabase, svolta ci fu certamente nel 1920, quan-do a seguito della introduzione della leggeelettorale proporzionale, cambia l’organiz-zazione del parlamento, nascono i gruppiparlamentari (e il gruppo misto...) e si isti-tuiscono le commissioni che divengono lasede normale del lavoro parlamentare.
E certo ci fu anche svolta nel 1948-1949.Ma qui la svolta non è nei regolamenti parla-mentari. Questi, al contrario, non sono affat-to reattivi nel raccogliere le indicazioni chec’erano state in Assemblea Costituente con-tro i pericoli di degenerazione del parlamen-tarismo (penso, naturalmente, all’ordine delgiorno Perassi). E neppure sviluppano quel«parecchio» che si poteva «leggere» nellenorme costituzionali sul rapporto parlamen-to-governo (penso al quarto comma dell’art.64; agli articoli 94 e 95). Così che alla fin finele vere novità parlamentari sono novità ditipo costituzionale: come l’istituzione dellecommissioni legislative deliberanti, forse ilportato più brillante del costituzionalismofascista. Nulla di male in questo: la costituzio-nalizzazione di norme di procedura parla-mentare sarà, per notevole esempio, la stra-da che seguirà la costituzione della V Repub-blica francese. E anche l’attuale Comitato
Approdi
202
Balladur, istituito dal Presidente Sarkozy,sembra voler proseguire, in senso revisioni-stico, sulla stessa via. Ma, presi in sé e per sé,i regolamenti parlamentari del 1949 merita-no pienamente il giudizio severo oggi piùvolte espresso su di essi.
Poi, c’è il nodo del 1971, la prima e fino-ra l’unica regolamentazione organica delperiodo repubblicano. Fu veramente unasvolta premonitrice e preparatoria di eventiche si verificheranno cinque anni dopo (il«compromesso storico», il consociativi-smo...)? È l’opinione di gran parte della pub-blicistica corrente. La mia opinione (ancheun po’ come «persona informata dei fatti»)è nettamente contraria. La svolta ci fu per la«reattività» dei regolamenti parlamentari.Ma il 1971 è “reattivo” perché risponde al1968 e non perché precorre il 1976... È que-sto il senso vero dell’istruttoria legislativa,che acquista una sua indipendenza ed una suaautonomia: la acquista rispetto a quella chechiamiamo “società civile”. Il 1971 funzionaquindi sia come “nascita del tempo” in Par-lamento, sia come “scivolo” di ulteriori rifor-me: se si prescinde dell’organizzazione del1971 non si capiscono neppure le riformesuccessive.
Nel 1994 abbiamo un’altra svolta, ma èuna svolta elettorale e probabilmente è unasvolta della nostra costituzione reale, fino aquel momento improntata ad un proporzio-nalismo non detto. Non è però una svoltaparlamentare; anzi, il parlamento in quelmomento mostra tutta la sua tristezza, la suaincapacità di reagire. Mentre nel 1919 c’è unparlamento che abbandona l’organizzazionemolecolare di una assemblea di notabili e sitramuta nel parlamento dei gruppi parla-mentari e nel parlamento dei partiti, nel 1994il parlamento tace. Solo adesso ci si accorgedi come, da allora, la verità elettorale diven-
ta una bugia parlamentare: con le grandi coa-lizioni che si aprono come melograni almomento dell’ingresso in parlamento e sisminuzzano in tanti gruppi (per non parlarepoi della ulteriore devianza realizzatasi conla frammentazione del parametro numerico:per la costituzione dei gruppi “in deroga”).
E si apre anche una questione presiden-ziale. Ho sentito le argomentazioni, come alsolito equilibrate, di Damiano Nocilla, ma nelmomento in cui si rompe edittalmente l’ideadel presidente che costituisca l’intercapedi-ne tra i due schieramenti, al di là dell’operaconcreta e delle qualità personali, qualcosaaccade nel nostro sistema, facendo venirmeno l’unità delle forze parlamentari. Sigiunge in questo clima di non reattività delnostro parlamento all’uso maggioritario dellecommissioni d’inchiesta, mentre si perdequel “bene pubblico” italiano, che erano lecommissioni in sede legislativa, ora ridotte adimensioni interstiziali.
Questa passività, questa mancanza direattività parlamentare, la ritroviamo inmaniera assai netta anche nel 2001, in con-seguenza dell’importante riforma costitu-zionale del Titolo V sul regionalismo. LeCamere non riescono a varare la riformaregolamentare – pur sollecitata dall’art. 11della legge costituzionale n. 3 del 2001: cheavrebbe consentito, e ancora consentireb-be, di avviare con l’ingresso in parlamentodi rappresentanti di regioni, province ecomuni sia pure con soli poteri di aggrava-mento procedurale – una riforma del nostrobicameralismo in linea con la «base regio-nale» dell’elezione del Senato (di cui parlal’art. 57 Cost.).
Ora che la storia costituzionale italiana èa un critico momento di rendicontazione edi radicale verifica, credo che l’unica logica daseguire per una effettiva svolta sia quella di
Manzella
203
ristabilire l’intreccio – la «reattività», abbia-mo convenzionalmente detto – tra regola-menti parlamentari e innovazione costitu-zionale e altre leggi di sistema.
Questo vale sia per la forma di governo,sia per la forma di Stato. Per la forma digoverno: perché il filo conduttore della sto-ria che ci è stata appena raccontata è nellamisura in cui il governo diventa istituzioneparlamentare e il parlamento diventa istitu-zione governativa. Quando il governo entranella programmazione dei lavori – anche sein una misura assolutamente insufficiente –è quello il momento in cui diventa istituzio-ne parlamentare. Viceversa, quando il par-lamento decide di rinunciare al voto segretosulle questioni finanziarie e su altre questio-ni, allora il parlamento diviene anche istitu-zione governante. È questo anche il caso delleleggi “ratificatorie” di accordi tra il governoe soggetti autonomi. Quando il governo ponela fiducia contro modifiche parlamentari, indifesa del nucleo negoziale sui cui ha chiusol’accordo con le parti sociali, chiama la suamaggioranza ad associarsi all’azione di gover-no in una misura ben più penetrante di qual-siasi iniziativa legislativa.
Infine, un ulteriore meccanismo di par-lamento-governante è quello che si sta affer-mando al Senato: la “quasi-fiducia”. Il gover-no annuncia di voler porre la questione difiducia, si riunisce la commissione che esa-mina il testo e, dalle risultanze di questoesame, il governo torna a porre la questionedi fiducia-bis sul pacchetto così modificato.Ma con questa che potrebbe apparire unairrazionalità può darsi che si affermi la razio-nalità delle nuove posizioni.
Per quel che riguarda la forma di Stato,appare oggi evidente che solo una logica «dipacchetto» (revisione costituzionale piùlegge elettorale più regolamento parlamen-
tare) può risolvere il nodo del nostro ormaiinsostenibile bicameralismo. Un Senato adelezione differenziata (non solo indiretta,come è previsto nella proposta della Came-ra: ma anche con membri di diritto, come i«governatori» delle venti regioni e i sinda-ci delle città metropolitane, e con una quotadi senatori eletti direttamente). Un Senatoche potrebbe trarre ispirazione per i suoipoteri anche proprio da quel modello rego-lamentare inattuato previsto dall’art. 11 dellalegge costituzionale n. 3 del 2001.
In conclusione, dopo il 1994, in regimemaggioritario, le possibilità di galleggiamen-to della istituzione-governo si sono accre-sciute, per l’incombente rischio di elezionianticipate connesse a crisi governativa. Tut-tavia, in due crisi esemplari (quella del gover-no Berlusconi del 1994 e del governo Prodidel 1998) si è visto che questo rischio puòessere scongiurato, come è nella logica diflessibilità di un sistema che, maggioritario onon maggioritario, resta parlamentare.Rimane, tuttavia, emblematico che nell’unae nell’altra crisi la vicenda si è sviluppata al didentro del parlamento e con strumenti tipi-ci parlamentari (deposito di mozioni di sfi-ducia, questione di fiducia).
Dopo quasi un cinquantennio di crisiextraparlamentari, la centralità del parla-mento riguadagna una dimensione che sem-brava ormai meramente «letteraria». Credoche anche di questo, si debba tenere contoquando si tenta, come si fa in questi giorni,di dare una nuova e autentica «svolta» allanostra storia costituzionale. È in questa nuovacentralità del Parlamento che potrà forse(forse) realizzarsi quell’intreccio, quella«fertilizzazione» reciproca tra regolamentiparlamentari, legge elettorale e revisionecostituzionale: per recuperare il senso, oggidissipato, di «Repubblica parlamentare».
Approdi
204
205
Mi associo a Manzella nel plauso rivolto alla
Presidenza del Senato ed ai funzionari di
Commissione e di Aula per aver condotto
la discussione della legge finanziaria senza
rendere necessario il ricorso alla votazione
di fiducia. Riservo tuttavia un giudizio fina-
le, perché aspetto di vedere se anche nel
prosieguo della discussione si riuscirà e in
che misura ad evitare le storture che sono
state a suo tempo censurate sia dal Presi-
dente Ciampi e dal Presidente Napolitano,
sia in sede di giustizia costituzionale, per-
chè si teme che l’articolo 72 della Costitu-
zione possa risultare sostanzialmente vio-
lato. Prendo atto che il tratto di strada com-
piuto è comunque significativo.
Venendo per un attimo alle conclusioni,
voglio notare l’importanza della fonte
“regolamento parlamentare”, che viene
invocata oggi quasi per un compito di sup-
plenza rispetto a quello che in altri Paesi si
è fatto con una legge apposita. Oggi, in pra-
tica, si giunge ad invocare una normativa di
regolamento parlamentare che attribuisca
ai partiti una figura prevista sostanzialmen-
te in Germania con una legge sulla discipli-
na dei partiti. Si chiede ora al regolamento
di ciascuna Camera, valorizzando la “riser-
va di regolamento”, di garantire la identità
tra partito elettorale (o formazione politi-
ca elettorale) e formazione politica di grup-
po nella Camera e nel Senato, in modo che
non ci sia possibilità di sdoppiamento o di
ulteriore frammentazione.
Questo sdoppiamento successivo, tra
l’altro, può agevolare l’aggiramento di una
clausola di sbarramento (quorum naziona-
le minimo per l’attribuzione dei seggi nei
sistemi elettorali di tipo tedesco), che in
Germania è mantenuta salda dalla norma
legislativa in base alla quale, coerentemen-
te, si richiede l’identità della figura partito
tra la sede elettorale e quella parlamentare,
e che da noi non sarebbe assicurata nem-
meno dall’esito del referendum pendente.
Infatti la coerenza del quesito referendario
avrebbe dovuto portare alla fine della coali-
zione ma anche alla preclusione del “listo-
ne” pluripartitico: il quesito, come è oggi, è
a mio avviso, sostanzialmente contraddit-
Riforma dei partiti mediante le norme dei Regolamenti parlamentari
leopoldo elia
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
torio, perché, nel momento in cui si ammet-te un listone che può assommare in sé varipartiti, non si può allo stesso tempo esclu-dere, senza autentico arbitrio, la coalizionedi più partiti. La legge tedesca, al contrario,è coerente perché tra soggetto elettorale esoggetto parlamentare non ci può esserequesta differenza; del resto se un partito nonsi presenta a due elezioni politiche consecu-tive, è cancellato dall’albo dei partiti e perdeanche il finanziamento pubblico.
Il compito, direi, di supplenza, a frontedi esperienze straniere, a cui sarebbe chia-mato da noi il regolamento parlamentare,incide quindi sulla forma di governo e sulfunzionamento corretto di congegni anti-frammentazione. Certo, si deve tenereconto di una circostanza: finora si è riusci-ti a mantenere in entrambe le Camere, ladisciplina di gruppo nelle votazioni rile-vanti per la maggioranza; quindi i singolipartiti, anche se vogliosi per il futuro dipresentarsi da soli con una vocazione mag-gioritaria, nel frattempo, a tutela del Gover-no, ma anche per salvare le chances dellalegislatura, hanno assicurato la disciplinadi voto; ed è un fatto che deve essere rile-vato, perché le tentazioni di “rompere”sono state molteplici, ma finora sono staterespinte.
La chiamata in causa dei regolamentiparlamentari ai fini di antiframmentazioneè molto impegnativa, in quanto affida per ilfuturo alla consapevolezza di ciascunaCamera un compito che è stato negletto dallegislatore: per troppi decenni non si èattuato l’articolo 49 della Costituzione, nonsi è varata una disciplina dei procedimentidi selezione per le candidature nelle for-mazioni partitiche e si cerca oggi, assai tar-divamente, di rimediare in qualche modo auna così colpevole omissione.
Per il resto, ricordo che nel libro diAstrid Per far funzionare il Parlamento, cura-to da Andrea Manzella e Franco Bassanini(Il mulino, Bologna, 2007), si elencanoaddirittura 44 proposte di modifiche dinorme parlamentari per far funzionaremeglio il Parlamento. Un punto moltoimportante in questa proposta di migliorfunzionalità del Parlamento è dato dallapossibilità di realizzare un’adeguata istrut-toria legislativa, che Andrea Manzella, inun recente articolo (la Repubblica, 28novembre u.s.) ha definito allo stato degliatti di “dimensioni interstiziali”. Io speroche sia valorizzata, perché i servizi delleCamere offrono ai parlamentari un mate-riale importante su cui prendere posizio-ne; ed è un peccato che una istruttoriatroppo affrettata o pressoché inesistente,perché soffocata dalla calendarizzazionedei lavori in Aula, impedisca di utilizzare afondo dossier, che servono sia alla mag-gioranza che all’opposizione. Si tratta ditrovare una giusta misura, nel senso chenon è detto che debbano utilizzarsi neces-sariamente i due mesi prescritti dal rego-lamento della Camera: può essere suffi-ciente anche un tempo notevolmenteminore, perchè non c’è bisogno che glistessi argomenti vengano ripetuti più volteda parlamentari diversi dello stesso schie-ramento, facendo sorgere il sospetto del-l’ostruzionismo; essenziale è che i motivi afavore e contro siano sufficientementeargomentati e approfonditi in sede diCommissione, rivalutando questo lavoroche è fondamentale per preparare unabuona discussione di Aula.
Per il resto, vedo una potenzialitàbifronte a proposito di regolamenti parla-mentari. Per certi aspetti essi diverrebbe-ro soggetti ad una ricaduta derivante da
Approdi
206
Elia
207
altre riforme: se, per esempio, si attribuis-se alla Corte costituzionale l’ultima parolain tema di verifica dei poteri – evidente-mente ci vuole una legge costituzionale –questa riforma avrebbe immediatamenteun riflesso sulle norme attuali del regola-mento parlamentare.
Ma ci sono altri casi, come quello checitavo prima circa la conservazione dellaidentità dei partiti tra fase elettorale e faseparlamentare, in cui l’intervento del rego-lamento è creativo, è d’iniziativa, non è unrisultato di altre riforme, ma diventa pro-motore esso stesso di riforme. È in questodifficile equilibrio, in questa sfida che ilParlamento italiano deve intervenire –riscattando anche omissioni del passato. Miauguro che sia possibile rivederci in unaoccasione non lontana per un ulterioreesame delle norme che regolano i lavoridelle due Camere.
Librido
211
Frutto dei lavori di uno stimo-
lante convegno tenutosi alla
Facoltà di Scienze della Comu-
nicazione dell’Università degli
Studi di Teramo (Alle radici
della politica assoluta. Forme di
governo straordinario e di guer-
ra, 9-10 dicembre 2004), il
volume raccoglie dodici saggi
preceduti da un’introduzione
firmata dai curatori. Al centro
delle indagini è la riflessione
sui concetti cardine dello stato
moderno hobbesiano e della
visione politica di Schmitt (la
guerra, l’eccezione, il nesso
protezione-obbedienza, la dit-
tatura come apice o rilevazio-
ne della decisione sovrana); e
tuttavia l’urgenza di un simile
cantiere è nata, come spiegano
Benigno e Scuccimarra, dal-
l’attenzione attualissima al
ritorno della guerra e alla crisi
che accompagna i processi di
scelta e di controllo propri
delle democrazie occidentali.
Se negli ultimi anni si torna
quasi a invocare un potere
esecutivo svincolato dal con-
trollo parlamentare e dalle
garanzie formali del diritto, e
si varano tante misure emer-
genziali che ottengono l’effet-
to di limitare e di mettere in
pericolo la libertà per come la
si è concepita nel sistema libe-
rale, è benvenuta una ricerca a
più voci che ha il merito di
scavare nella lunga storia (dei
fatti, delle leggi, delle dottri-
ne) del ‘governo delle emer-
genze’ (vere o supposte tali). E
che tale storia abbia sullo
sfondo la retorica del nemico e
la guerra (dentro i confini del-
l’Occidente, tra nord e sud del
mondo, tra ceti privilegiati e
classi pericolose), certo non
stupirà affatto. Come abbiamo
imparato da Foucault, distin-
guere guerra e polizia è un
esercizio sterile e ozioso; ma
forse altrettanto sterile è il
supporre che lo stato di ecce-
zione sia una tendenza ‘strut-
turale’ della politica occiden-
tale senza prima guardare alle
singole teorie politiche e ai
singoli contesti dell’emergen-
za (Introduzione, p. 15).
Così Gabriele Pedullà ci
conduce tra le pagine del primo
dei moderni, Niccolò Machia-
velli, tentando di capire come
il Segretario fiorentino abbia
formulato una particolare
interpretazione dell’antica dit-
tatura romana e una precoce
riflessione sui governi di emer-
genza impossibili a immagi-
narsi nei pensatori dell’uma-
nesimo, debitori di una visione
costituzionale ‘ordinaria’ che
doveva i suoi fondamenti alle
tesi di Aristotele e alla lettura
degli storici classici. Si trascu-
ra, spiega Pedullà, che per
Machiavelli ebbe grande
importanza la lezione di un
autore ‘bistrattato’ come Dio-
Primo Piano: Il governo dell’emergenza. Poteri stra-ordinari e di guerra in Europa tra XVI e XX secolo, acura di Francesco Benigno e Luca Scuccimarra,Viella, Roma, 2007, pp. 304, euro 28,00
vincenzo lavenia
giornale di storia costituzionale n. 15 / I semestre 2008
nigi di Alicarnasso, e che da un
passo delle Antiquitates egli
riprese l’idea che uno dei pila-
stri della potenza di Roma fosse
stato l’ordine statuale che pre-
vedeva l’eccezione in forma
legale (la dittatura temporanea
di un condottiero di guerra che
però dipendeva dal senato
all’inizio e alla fine del suo
mandato). Che con Silla le cose
fossero cambiate era chiaro
all’uno e all’altro, a Dionigi e
all’autore dei Discorsi: con la
crisi di crescenza delle guerre
civili la tirannide elettiva, che
aveva permesso di canalizzare
l’emergenza e di legalizzarla, si
era trasformata in tirannide
tout court. E quando Schmitt
include nella concezione roma-
na dei poteri dittatoriali il
governo sillano, conclude
Pedullà, egli scarta consapevol-
mente dal pensiero del repub-
blicano Machiavelli in nome di
una visione ben più autoritaria.
Francesco Benigno torna
alle sue ricerche sul ministeriat
per rintracciare nella novità
politica dei plenipotenziari
(Lerma, Buckingham, Olivares,
Richelieu) un momento auro-
rale dell’organizzazione dei
poteri e delle opposizioni della
seconda età moderna. La con-
centrazione della decisione
politica nelle mani dei validos e
dei primi ministri (un fenome-
no nato in Spagna, ma poi
introdotto in tutta Europa)
costituì uno scarto ben perce-
pito rispetto all’organizzazione
del consenso cetuale che rego-
lava i rapporti tra sovrano e
corpi sociali fino al Seicento, e
fu all’origine di una lunga crisi
che ebbe come sbocco l’ende-
mica fase di rivolte che investì
il continente a partire dagli
anni venti del XVII secolo. La
separazione tra ‘governo’ e
‘regno’ e l’abnorme potere dei
favoriti (un potere esecutivo
che si sostanziò soprattutto nel
comando della catena militare e
fiscale) potè permettere che si
decapitasse un re ben prima
della rivoluzione francese, e
che l’assassino dell’alter rex
Buckingham fosse osannato
dalla folla di Londra come un
nuovo Davide vincitore su un
mostruoso Golia. Giovanni
Ruocco affronta invece il regno
del Re Sole, rileggendo la storia
di Francia e il concetto di asso-
lutismo alla luce delle dottrine
di Hobbes e delle recenti inda-
gini di J. Cornette. Re di guerra,
Luigi XIV concepì il potere
diretto come gloria personale e
mirò ossessivamente a sostitui-
re gli Asburgo di Spagna come
primo monarca cattolico del-
l’Europa dissanguando un
paese gravato oltre ogni limite
(facendo guerra al suo stesso
popolo, osservò un suo mini-
stro). Ben lungi, insomma, dal-
l’essere il razionalizzatore della
macchina statuale dipinto da
Voltaire, il Re Sole appare sì
come un sovrano assoluto e
accentratore, ma sempre in
nome di una concezione della
sovranità patrimoniale che
faceva sempre perno sulla tra-
dizionale gloria militare del
principe. E nel contesto della
guerra, spiega Roberto Martuc-
ci in un saggio appassionato che
fa giustizia di molti facili revi-
sionismi, va collocata anche
l’esperienza di quella forma
tanto vituperata di governo
eccezionale (e dittatoriale) che
fu il Comitato di Salute Pubbli-
ca a partire dal 1793. Potere
esecutivo per eccellenza, che
seppe imporsi su quella stessa
Convenzione da cui originava,
il Comitato, una volta che fu
monopolizzato dai giacobini,
ebbe il merito di governare
un’emergenza reale: quella di
una guerra totale mossa contro
la Francia dagli eserciti di
mezza Europa anche per colpa
della facile bellicosità di un
Brissot. Con un terzo del terri-
torio occupato, il Comitato
seppe però organizzare fulmi-
neamente la leva di massa; mise
in piedi una produzione di armi
efficientissima, che quasi anti-
cipa (osserva Martucci) i pro-
cessi di industrializzazione
della Francia ottocentesca;
attuò una energica e rigorosa
epurazione dei capi militari
incapaci o inaffidabili; inventò
un sistema di comunicazioni
veloce e innovativo; introdusse
visite commissariali inflessibi-
li e inaspettate, e mobilitò una
partecipazione bellica prima
sconosciuta. Nato per la salus
publica in nome di una conce-
zione dei poteri di emergenza
che molto doveva all’eredità e
alla retorica costituzionale della
Roma repubblicana, il Comita-
to, negli anni del Termidoro,
perpetuò il primato dell’esecu-
Librido. Primo piano
212
tivo e la guerra che lo aveva giu-
stificato, chiudendo invece con
gli eccessi polizieschi dell’an-
no giacobino; e fu all’origine di
quella trasformazione costitu-
zionale che sfociò, più tardi, nel
bonapartismo. E a Napoleone,
non a caso, è dedicato il terzo
saggio di argomento francese
raccolto nel volume. Luca Scuc-
cimarra ci ricorda così come
durante il regime bonapartista
la legislazione d’emergenza si
fosse tramutata in una norma-
zione ordinaria (si pensi solo ai
tribunali speciali destinati a
stroncare le opposizioni, che
dal 1810 presero il nome para-
dossale di Corti speciali ordina-
rie). E tuttavia si chiede giusta-
mente se si sia trattato di un
regime concepitosi sempre
come semplice ordine politico
in mano ai militari. Se ne deve
dubitare, osserva Scuccimarra,
perché Napoleone (che «di
tutti i militari è il più civile»,
puntualizzò l’eminenza grigia
Sieyès) intese i poteri eccezio-
nali di cui pure fece uso abnor-
me come un momento di
emergenza giustificato dalle
guerre ma comunque destina-
to a fondare e a consolidare un
nuovo e pacifico ordine costitu-
zionale che inverasse, ormai su
scala continentale, quella stes-
sa rivoluzione che aveva sep-
pellito l’antico regime a tutto
vantaggio dei ceti proprietari.
Del resto, anche negli anni in
cui sacralizzò il suo regime civi-
le in uniforme, Bonaparte pun-
tualizzò a più riprese di non
volere affatto governare nelle
vesti di generale. E tuttavia, alla
fine della sua parabola, dal riti-
ro forzato di Sant’Elena, egli
avrebbe dovuto riconoscere di
non essere stato affatto una
versione (gallica e ‘coronata’)
del generale repubblicano
Washington, novello Cincinna-
to. La guerra, si giustificò, aveva
impedito la pace; la dittatura
era stata arma universale leva-
trice di un nuovo ordine mai
stabilizzato.
Insieme alla storia france-
se è quella tedesca a occupare
le ricerche confluite nel volu-
me. Così Massimo Mori sfata
il mito di una Prussia tutta
disciplinata e in divisa già
dalla fine del Seicento, e spie-
ga, al contrario, come il mili-
tarismo dello stato caserma
degli Hohenzollern abbia
conosciuto un autentico salto
di qualità sociale solamente
dopo il trauma della rapida
sconfitta in guerra contro la
Francia rivoluzionaria. Solo
allora, infatti, le riforme di
Scharnhorst, Humboldt e von
Stein, ispirate dalla presa d’at-
to di un fallimento politico e
dagli scritti di Arndt, Schleier-
macher e Fichte stesso, si
posero il moderno obiettivo di
mobilitare gli animi dei solda-
ti-sudditi in nome della tota-
lità spirituale dello stato; solo
allora l’esempio francese servì
a mettere in luce i macrosco-
pici difetti di una formazione
militare di certo efficiente ma
comunque fredda, e priva di
legami con la cultura naziona-
le che si prese a promuovere –
nelle caserme come nelle uni-
versità – e che mutò alla radi-
ce la natura stessa del vecchio
e fragile militarismo prussia-
no. Sulla stessa lunghezza
d’onda si colloca anche il con-
tributo di Maria Pia Paternò,
che traccia i contorni di una
linea interpretativa in passato
egemone (quella di Gerhard
Ritter e di Fritz Fischer) per
discostarsene. Il militarismo
cieco e autoritario fu davvero
un carattere originario della
storia prussiana (tedesca), si
chiede l’autrice? E come si
spiega in questa chiave l’esi-
guità del numero dei coscritti
e del numero di guerre com-
battute nel corso del Settecen-
to? Come si spiegherebbe con
quel cliché la sentita disobbe-
dienza di generali come von
Clausewitz, che preferirono
appoggiare i russi piuttosto
che chinare il capo all’allean-
za forzata e umiliante che
Bonaparte aveva imposto al re
di Prussia? Lungi dal configu-
rarsi come un corpo militare
macchinale e fanatico, il
comando dell’esercito prus-
siano possedeva un ethos
nazionale non del tutto prono
ai piani bellici della corona, e
attraversò una crisi in cui
seppe fare appello alla
coscienza individuale contro
un conflitto che non condivi-
deva. I tempi di Guglielmo II,
insomma, non vanno antici-
pati, né si dovranno confon-
dere le posizioni di Treitschke
con quelle di un von Clause-
witz.
Vincenzo Lavenia
213
All’età contemporanea
guardano i saggi conclusivi del
volume. Carlotta Latini analiz-
za la storia dell’Italia unita,
rintracciando l’origine del-
l’esosa legislazione di emer-
genza, dei pieni poteri di guer-
ra varati durante il primo con-
flitto mondiale e di quell’isti-
tuto (militare e poliziesco) che fu
lo stato di assedio, impiegato
molte volte nei momenti di
crisi, nella stessa Carta alberti-
na e nel ricorso sistematico ai
decreti-legge che originarono
dal governo all’indomani del-
l’epoca risorgimentale. Per-
ché, come spiega l’autrice,
l’esecutivo fu l’elemento forte
di una costituzione statuale che
prevedeva un debole controllo
legislativo e aveva nel Dna un
timore aggressivo e ossessivo
nei confronti di ogni forma di
opposizione civile e sociale.
Dopo la Grande Guerra la
scienza giuridica italiana di
inizio Novecento provò a nor-
malizzare l’esperienza emer-
genziale dei governi postgiolit-
tiani, ma si scontrò con una
trasformazione effettiva nella
natura dei poteri che si conclu-
se di fatto nel fascismo. La
guerra, in sostanza, gestita dal-
l’esecutivo nel pieno dei suoi
poteri, aveva dimostrato che in
Italia, al contrario che in altri
paesi, si poteva fare a meno del
parlamento. Se Michele Surdi
traccia con rapida acutezza il
profilo normativo e securitario
dello Stato di assedio nella
Francia e nella Germania del-
l’Otto e del Novecento, met-
tendo in rilievo il debole con-
fine che ha separato le ordi-
nanze e le vere e proprie leggi,
l’emergenza e il governo ordi-
nario, la guerra e la polizia
interna, con il saggio di Pietro
Di Girolamo il governo italiano
dell’economia di guerra
durante il primo conflitto
mondiale assume anch’esso un
profilo proprio e sinistro che
lo distingue da analoghe (e
controverse) esperienze d’Ol-
tralpe. Perché in Italia non si
trattò solo di imporre la pace
sociale adottando, nella fab-
brica e fuori, un sistema cor-
porativo prolungatosi dopo la
guerra. In Italia il mancato
appoggio alla guerra da parte
dei socialisti, dei cattolici e di
una costola dei liberali fece sì
che la disciplina economica di
guerra assumesse netti carat-
teri militari, al punto da esse-
re gestita direttamente da
uomini in uniforme con una
durezza ben più evidente che
altrove, e con l’assimilazione
del conflitto sociale alla diser-
zione, e del lavoro salariato al
lavoro coatto. Nel contributo di
Nicola Labanca lo stesso colo-
nialismo italiano (breve, ritar-
dato e feroce) si stacca dal resto
delle esperienze europee per
una più marcata e precoce
vocazione razzista, condivisa,
almeno in parte, con quello
tedesco. E se è vero che il colo-
nialismo ha incoraggiato in
tutto il mondo un doppio sta-
tuto della guerra (regolata,
sulla carta, da convenzioni che
valevano solo tra i popoli ‘civi-
li’; e permessa quasi senza
limiti fuori dai confini delle
nazioni ‘progredite’); e se è
vero, per altro verso, che non
si può trattare tutta la vicenda
coloniale dell’Occidente alla
stregua di un crimine; è vero
tuttavia che il colonialismo
incoraggiò un doppio status
giuridico che rese regola le
eccezioni praticate al di fuori
dei confini europei; ed è vero
che l’Italia, in questo quadro,
si distinse per il disprezzo
legalizzato nei confronti delle
civiltà africane (cristiane e
non); un disprezzo che appare,
specie dopo gli anni della guer-
ra d’Etiopia, come l’anticame-
ra della discriminazione razzi-
sta del 1938.
Del resto l’ossessione
antiebraica, come si compren-
de dal contributo di Angelo
Ventrone, fornisce quasi la
matrice a ogni ideologia e
retorica del nemico diffusa in
Europa dopo la fine dell’Otto-
cento. Timori di decadenza,
invocazioni di guerra, ansie
vitalistiche, evocazioni del tra-
monto biologico dell’Occiden-
te, propaganda antisocialista,
fascino e timore della moder-
nità, ricerca e odio della città,
sono i tratti distintivi di una
retorica dell’emergenza e del
nemico che caratterizzò larghi
strati della borghesia europea
che si rappresentò come vota-
ta a una degenerazione frutto
delle malattie dell’individuo
blasé, pago delle sue pulsioni
di desiderio, enervato, effemi-
nato, impotente, sterile,
Librido. Primo piano
214
imbelle, antipatriottico e
cosmopolita. L’interventismo
italiano ne fu particolarmente
segnato, tanto che agli occhi di
molti ‘arditi’ il nemico finì per
essere il tedesco, e non tanto
come barbaro, ma come ordi-
nato soldato e produttore
massificato e moderno, inca-
pace di vita e di autentici sen-
timenti eroici. Infine Pietro
Costa compone un suggestivo
trittico dell’esclusione dalla
civitas occidentale che accom-
pagna (forse ancora ai nostri
giorni) l’affermazione della
sovranità moderna nella forma
dell’eccezione e della regola. I
suoi dispositivi disciplinari si
dispiegano così, con una logi-
ca applicata all’interno e
all’esterno dell’Europa, ora
contro gli indios (barbari per
natura, o rustici da educare allo
stessa stregua dei selvaggi che
popolano le campagne euro-
pee); ora contro i non proprie-
tari (i colonizzati privi di domi-
nium le cui terre appaiono
come res nullius; le classi
subalterne europee soggette
perché incapaci di possedere);
ora contro le razze inferiori
(esito, questo, del coloniali-
smo, ma anche di quelle
scienze sociali che cercavano
fondamenti biologici per giu-
stificare la disparità di classe e
per interpretare i fenomeni di
criminalità interni). La deriva
razzista, spiega Costa, ha inte-
so cancellare il tallone di
Achille dell’Occidente, quella
retorica del progresso e quel-
l’ansia di assimilazione (cri-
stiana e secolare) che per tre
secoli ha comportato, per
risvolto dialettico, la necessi-
tà di garantire il miglioramen-
te di coloro che venivano
assoggettati, di fatto promuo-
vendone una qualche forma di
emancipazione. Con il discor-
so della razza, al contrario, la
disparità si naturalizza, e l’ec-
cezione coloniale dispiega la
sua forza biopolitica. Ma ciò
non deve ingannare: «la
metropoli è il trionfo della
norma e la colonia è il regime
dell’eccezione. È vero. A patto
però […] di tener presente
l’unità di fondo del processo di
assoggettamento. E allora: il
regime coloniale è, sì, un regi-
me eccezionale, ma è anche un
regime che produce norme, le
applica, le utilizza per garan-
tirsi una sua “regolarità” […];
e […] il regime metropolitano
è, sì, il regime della norma, ma
la sua normalità è fragile e
contrastata, continuamente
esposta al rischio di essere tra-
volta dalla sfrenatezza del
potere sempre pronta a invo-
care lo “stato di necessità”»
(p. 249). I rigurgiti razzisti di
cui fa mostra l’Italia dei nostri
giorni, la giustificazione
governativa dei regimi di tor-
tura applicati in nome del ter-
rore dalla polizia imperiale
americana, i numeri esorbi-
tanti della popolazione carce-
raria statunitense stanno a
ricordarci che quanto dice
Costa è senz’altro vero.
Vincenzo Lavenia
215
217
APaolo ALLEGREZZA
L’élite incompiuta.
La classe dirigente
politico-amministrativa
negli anni della
destra storica (1861-1876)
Milano, Giuffrè, 2007, pp. 262ISBN 88-14-13555-X
All’ormai ricca storiografia
dedicata ad un’analisi delle
strutture costituzionali ed
amministrative emerse dal
processo unificatorio si
aggiunge questa puntuale rico-
gnizione delle “risorse
umane” sulle quali poté con-
tare il nuovo regno italiano.
Rimanendo fedele alla que-
stione di fondo che negli ulti-
mi anni ha ispirato – meritata-
mente – tutta la ricerca dedi-
cata all’epoca post-cavouria-
na, ossia “cosa non funzionò”,
l’autore propone un contribu-
to che tenta di coniugare le più
accreditate ricostruzioni del
quadro politico –istituzionale
(Rotelli, Martucci, Melis) con
un’analisi dal taglio più socio-
logico, ispirato al concetto di
“élite”. Fedele all’insegna-
mento classico di Mosca, l’au-
tore ci riporta le biografie
degli uomini che avrebbero
tentato di costituirsi come la
“classe politica” del nuovo
Stato. Alla spiegazione degli
insuccessi, delle crisi e della
mancata legittimazione delle
istituzioni liberali si aggiun-
gono, oltre agli argomenti
consueti incentrati sul divario
tra le istituzioni e gli strati più
larghi del paese (Chabod) e
quelli riguardanti la scarsa
autonomia dell’alta ammini-
strazioni nei confronti degli
equilibri politici, anche le
riflessioni riguardanti il retro-
terra sociale (le scuole, la vita
culturale delle città italiane, i
nessi con la sfera economico-
imprenditoriale etc.), atte ad
agevolare la composizione di
un quadro comparato della
élite italiana rispetto a quelle
degli altri Stati europei del-
l’epoca.
R. C.
BBernard BAILYN,
Storia dell’Atlantico,
Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 125
ISBN 978-88-339-1753-5, Euro 13
Quando Vincente Rocafuerte,
durante l’esilio a Filadelfia,
tradusse i principali docu-
menti pubblici americani
definendo la Dichiarazione di
Indipendenza come un “Deca-
logo Politico” e la Costituzione
Ventuno proposte di lettura
A CURA DI MAURO ANTONINI, RONALD CAR, NINFA CONTIGIA-
NI, DANIELE DI BARTOLOMEO, SIMONA GREGORI, ROBERTO
MARTUCCI, GIUSEPPE PATISSO, SIMONETTA SCANDELLARI, LUCA
SCUCCIMARRA, CHIARA SPINSANTE, MARIA VALVIDARES
degli Stati Uniti “come l’unica
speranza per i popoli oppres-
si” intravide allo stesso tempo
che quelle compilazioni erano
frutto dell’incontro di tre con-
tinenti (Africa, Europa e
Nuovo Mondo) ognuno con il
suo carico di eredità e di espe-
rienze che si fondevano dando
vita a diverse culture ed a
nuove suggestioni. Il libro di
Bernard Bailyn, professore
emerito di storia americana
alla Harvard University, riflet-
te proprio l’incontro e lo scon-
tro tra tre grandi continenti
bagnati dall’Oceano Atlantico
e si muove attraverso un appa-
rente “disordine temporale”
che va dall’ingresso degli Stati
Uniti nella prima e seconda
guerra mondiale alla creazione
del “Patto Atlantico” del 1949,
evento che dà il segno di come
questo mare doveva unire e
non dividere i paesi che
bagnava.
Bailyn si sofferma sullo
sviluppo dell’idea di “storia
atlantica” ricordando come
questa non nascesse ad imita-
zione del concetto di storia
mediterranea espressa da
Braudel in La Méditerranée et le
monde méditerranéen à l’époque
de Philippe II malgrado Pierre
Chaunu assieme agli “atlanti-
sti” francesi avessero invoca-
to il nome dello stesso Fer-
nand Braudel come precurso-
re di questo filone storiogra-
fico. Nelle pagine del libro
scorrono personaggi quali
Kennedy, Wilson, Las Casas,
Carlo V, Truman, Jefferson,
Cortès, Cromwell nonché
paesi e istituzioni quali l’Olan-
da, la Spagna, l’Inghilterra, la
Francia, le compagnie delle
Indie. È un libro davvero
intenso e carico di spunti di
riflessione storica in quanto
figlio della migliore tradizio-
ne storiografia americana e,
più in generale, anglosassone.
G.P.
Antonio BRANCATI,
Giorgio BENELLI
Signor Conte… Caro Mamiani
Volle il mio buon genio
che io sedessi a lato
del Conte di Cavour
Ancona, il lavoro editoriale, 2006, pp. 518
ISBN 88-7663-369-3, s.i.p.
Terenzio Mamiani Della Rove-
re, cattolico-liberale, protago-
nista dei moti del 1831, mini-
stro di papa Pio IX nel 1848,
esule a Torino, amico e colla-
boratore di Cavour, poi depu-
tato e suo ministro della Pub-
blica Istruzione nell’ultimo
Gabinetto del Regno sardo (21
gennaio 1860) ci viene resti-
tuito dall’acribia ricostruttiva
di Brancati e Benelli attraver-
so una minuziosa rilettura
archivistica.
Attingendo al ricco fondo
presente nella Biblioteca Oli-
veriana, al dimenticato patri-
zio pesarese gli autori avevano
già dedicato un precedente
volume (Divina Italia. Terenzio
Mamiani Della Rovere cattolico
liberale e il risorgimento federa-
lista, 2004) grazie al generoso
contributo della Cassa di
Risparmio di Pesaro.
Dal nuovo studio emerge
nei suoi tratti essenziali la
figura di un importante prota-
gonista del Risorgimento,
snodo essenziale nei rapporti
Cavour-La Farina negli anni
immediatamente precedenti
la Guerra di Lombardia del
1859. Tra le pagine più inte-
ressanti del volume quelle
dedicate alla Società Naziona-
le, la cui origine viene antici-
pata di un paio d’anni (1855),
ben prima della nota iniziati-
va assunta da Daniele Manin
nell’esilio parigino.
Singolare, in un’opera di
tanta erudizione, l’assenza della
migliore bibliografia risorgi-
mentista dell’ultimo decennio,
unita alla deprecabile mancan-
za di un indice degli autori con-
sultati.
R. M.
Peter BURKE
La storia culturale
Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 188ISBN 88-15-11292-8, Euro 11.50
Natalie Zemon Davis, all’uscita
di questo brevissimo saggio
avvenuta a Cambridge nel set-
tembre 2004 per i tipi della
Polity, ha affermato: «Peter
Burke l’ha fatto di nuovo!». Il
riferimento è ovviamente
all’importante e significativa
produzione di questo autore
considerato uno dei massimi
esponenti anglosassoni della
storia culturale moderna.
218
Librido
Tra il pamphlet ed il mani-
festo, questo saggio sembra
sfiorare solo la superficie delle
questioni concernenti i più
recenti contributi ed influen-
ze con cui la storia culturale si
è confrontata. Oltre ad offrire
una ricostruzione del rappor-
to instaurato dalla storia cul-
turale con l’antropologia e la
storia sociale di tradizione
francese, ormai variamente
approfondito in molte altre
recenti pubblicazioni di pro-
venienza varia, l’originalità di
questa operazione è da coglie-
re nella proposta di «un nuovo
paradigma». Tentando di
spingersi oltre quella stessa
«New cultural History», che
insieme a Lyhn Hunt aveva
contribuito a diffondere con la
monumentale pubblicazione
del 1989, Burke rilancia,
infatti, gettando sul piatto le
proposte teoriche di Michail
Bachtin, Norbert Elias, Michel
Foucault e Pierre Bordieu.
L’intenzione è, ovviamente,
sollecitare i lettori «a mettere
alla prova queste teorie e, così
facendo, a ricercare nuovi
temi d’indagine storica o un
nuovo inquadramento concet-
tuale per affrontare quelli vec-
chi» (p. 71).
S.G.
Haim BURSTIN,
L’invention du sans-culotte,
Regard sur le Paris
révolutionnaire,
Paris, Odile Jacob, 2005, pp. 234,ISBN 2-7381-1685-X, Euro 24,90
Haim Burstin, già autore di un
monumentale studio sul fau-
bourg Saint-Marcel, torna qui a
riflettere sulla Parigi rivolu-
zionaria. In questo libro, però,
di taglio esclusivamente inter-
pretativo, la sua attenzione si
concentra sulla genesi della
figura sociale più enigmatica
della Rivoluzione: il sanculot-
to. Burstin parte da una criti-
ca all’interpretazione sociale
classica, accusata di aver tra-
sformato i sanculotti in una
classe sociale, per giungere a
una proposta interpretativa
che vede il sanculotto come il
risultato di un’invenzione del
discorso politico. Questo lavo-
ro s’inscrive a pieno titolo nel-
l’attuale clima storiografico,
attento com’è alla dimensione
discorsiva, al ruolo performa-
tivo dei linguaggi politici e al
tema delle identità. Seguendo
questa prospettiva analitica,
Burstin può concludere soste-
nendo che «on peut considerer
le sans-culotte comme un moule
inventé par les élites révolution-
naires pour contenir le mouve-
ment populaire parisien».
D.D.B.
CCristina Cassina
Parole vecchie, parole nuove
Ottocento francese
e modernità politica
Roma, Carocci, 2007, pp. 158 ISBN 978-88-430-4344-6, Euro 16,50
Dopo aver offerto ai lettori ita-
liani una scrupolosa ricostru-
zione del complessivo conte-
sto genetico del regime di
Luigi Napoleone (Il bonaparti-
smo o la falsa eccezione. Napo-
leone III, i francesi e la tradizio-
ne illiberale, Roma, Carocci,
2001), Cristina Cassina torna
con questo volume alla esplo-
razione del più generale oriz-
zonte intellettuale della Fran-
cia dell’Ottocento, al quale già
in passato aveva dedicato inte-
ressanti contributi esplorati-
vi. Il punto di vista prescelto
per un percorso ricostruttivo
che copre un arco temporale
che dalla genesi del pensiero
contro-rivoluzionario giunge
sino ai fermenti di fine secolo
è, dichiaratamente, quello di
una storia di parole, già ampia-
mente sperimentato nei pre-
cedenti lavori dell’autrice.
Come troviamo enunciato
nella premessa al volume, a
legare tra loro i diversi saggi
che lo compongono è, infatti,
«un interesse di natura stori-
ca per la vicenda delle parole
della politica»: quelle di più
fresco conio come “individua-
lismo”, “plebeanismo”, “cesa-
rismo”, così come quelle
219
Ventuno proposte di lettura
«meno giovani, ma che nel
secolo XIX si sono andate cari-
cando di contenuti e significa-
ti nuovi», come sovranità,
gerarchia e plebiscito. Al cen-
tro dell’analisi si pone, così,
l’«inarrestabile fluttuazione
semantica» che per tutto l’Ot-
tocento caratterizza indelebil-
mente la politica francese, un
processo di trasformazione
intellettuale che qui troviamo
indagato attraverso i contribu-
ti di alcuni dei suoi principali
protagonisti da Bonald a
Saint-Simon, da De Maistre a
Tocqueville. Completano il
quadro le lucide osservazioni
finali che Regina Pozzi – in una
sorta di ideale controcanto –
dedica al problema della deca-
denza nel pensiero francese
dell’Ottocento, un tema-chia-
ve per la comprensione di
questo fondamentale labora-
torio intellettuale della tarda
modernità.
L.S.
Salvatore CINGARI (a cura di),
Europa Cittadinanza Confini.
Dialogando con
Etienne Balibar,
Lecce, Pensa Multimedia, 2006 pp. 355
ISBN 88-8232-444-3, Euro 20,00
Nell’ampio e tumultuoso
dibattito che nel corso degli
ultimi anni ha accompagnato
il problematico processo di
costituzionalizzazione euro-
pea, una particolare rilevanza
deve essere senza dubbio rico-
nosciuta alla riflessione di
Etienne Balibar. Contro la dif-
fusa tendenza a fare dell’euro-
peità una sorta di predetermi-
nata essenza identitaria, fon-
data sulla adesione ad un oriz-
zonte di valori centrato sulle
grandi esperienze fondative
dell’Antichità – Atene, Roma,
Gerusalemme – Balibar è
venuto infatti instancabil-
mente sottolineando la neces-
sità di affrontare la sfida euro-
pea sull’orizzonte aperto della
progettualità politico-istitu-
zionale, rinunciando a quel-
l’esclusivismo dell’apparte-
nenza che oggi sembra conta-
giare anche insospettabili
esponenti della cultura politi-
ca tardo-moderna. L’approc-
cio che ne risulta ha trovato,
forse, la sua più efficace sin-
tesi nell’immagine del media-
tore evanescente, con la quale
Balibar ha voluto esprimere la
necessità che l’Europa prenda
decisamente le distanze «dalle
immagini e dai miti della sua
“identità” chiusa da frontiere
immaginarie», penetrando
«sempre più profondamente
nella logica dei conflitti che
lacerano il mondo “comune”
attuale, di cui in parte è stori-
camente responsabile». Nato
da un seminario tenuto nel
maggio del 2004 presso il
Dipartimento di filosofia del-
l’Università di Bari, il volume
curato da Salvatore Cingari
propone un interessante iti-
nerario di riflessione che, a
partire dalle provocatorie tesi
avanzate da Balibar nell’inter-
vento La costituzione dell’Euro-
pa. Crisi e potenzialità – qui
pubblicato nella originale ver-
sione francese – affronta da
diversi punti di vista le grandi
aporie che a tutt’oggi caratte-
rizzano il difficoltoso proces-
so di unificazione europea. A
dialogare a distanza sul tema
della cittadinanza europea
sono storici del pensiero poli-
tico come Franca Papa, Mar-
cello Montanari e Corrado
Malandrino, filosofi come
Luca Baccelli e Augusto Pon-
zio, sociologi come Giovanna
Procacci, giuristi come Giu-
seppe Bronzini. E ciò che ne
risulta è un ricco e stimolante
pluriverso intellettuale in cui
il discorso sull’Europa e i suoi
confini trova il modo di espri-
mersi in tutta la sua problema-
tica crucialità, al di là di ogni
rassicurante auto rappresen-
tazione identitaria.
L.S.
DNino DEL BIANCO
Enrico Cernuschi
Uno straordinario protagonista
del nostro Risorgimento
Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 246ISBN 88-464-7847-9, Euro 22.00
Questo profilo dedicato a un
dei maggiori protagonisti delle
Cinque giornate di Milano del
marzo 1848, colma egregia-
mente un singolare vuoto sto-
riografico che ha reso stranie-
ro ai più l’eminente patriota,
collaboratore di Carlo Catta-
220
Librido
neo nello scrivere una delle
pagine più significative del
Risorgimento italiano.
Il volume si apre con il
Quarantotto milanese e la
sconfitta repubblicana seguì-
ta all’iniziale successo milita-
re contro gli austriaci, segue
Cernuschi difensore della
Repubblica Romana, tratteg-
gia il profilo dell’esule nella
sua seconda vita parigina, che
lo avrebbe visto finanziere di
spicco, economista di livello
internazionale, touriste, filan-
tropo e collezionista di prima
grandezza.
R. M.
GLoredana GARLATI,
Il volto umano della giustizia.
Omicidio e uccisione nella giu-
risprudenza del Tribunale di
Brescia (1831-1851),
ISBN 88-14-14093-6, Euro 46.00
Introdotto da un non breve
excursus di storia locale, il volu-
me muove dalla giurispruden-
za della Corte provinciale bre-
sciana come punto di osserva-
zione (privilegiato) sulla realtà
d’oltre Mincio diventata per la
prima volta ‘austriaca’ con la
Restaurazione. L’intenzione
dell’autrice, però, è quella di
cogliere nel triplice intreccio di
dottrina, legislazione e giuri-
sprudenza il modus operandi
con cui la cultura giuridica del
luogo si è rapportata al Codice
penale del 1803 «nell’età forse
più matura» della sua applica-
zione (p. 36).
L’esame del fondo Processi
criminali conservato all’Archi-
vio di Stato scopre, in effetti,
lo spazio di una frattura
rispetto all’intenzione del
legislatore ‘straniero’. La fre-
quenza della sentenza non
liquet, scaturigine di un siste-
ma processuale che aveva
imboccato la strada non scon-
tata del principio del libero
convincimento del giudice
combinato con il sistema delle
prove legali, creava infatti una
«generale sensazione di
impunità» (p. 146). Una per-
cezione che occorreva eludere
sia per le esigenze di control-
lo della corona austriaca, sia
per il mantenimento dell’or-
dine pubblico ‘locale’.
Così, i magistrati brescia-
ni intervennero da oculati ed
esperti protagonisti. Essi
modellarono una «giustizia
dal volto umano» sulla loro
peculiare realtà muovendosi
tra «gli ambigui tratti distin-
tivi dell’omicidio e dell’ucci-
sione» (capp. III-V) e gli
interstizi rimasti aperti nella
strutturale rigidità del proces-
so inquisitorio dell’assoluti-
smo asburgico (la valutazione
degli indizi riconduceva ine-
vitabilmente all’arbitrium). A
volte convinti di condannare,
ma impediti dall’insufficienza
delle prove legali (cap. II),
sempre consapevoli detrattori
della durezza delle pene del
Codice del 1803, in particola-
re della pena capitale, essi
praticarono una «derubrica-
zione a cascata» (p. 444) pro-
ducendosi in un vero e proprio
«ribaltamento». Almeno in
prospettiva storiografica, sot-
tolinea l’autrice, il loro agire
sembra scardinare «la visione
quasi manichea (e semplici-
stica) dell’evoluzione delle
forme processuali, che prefe-
risce distinguere nettamente
tra ‘progresso’ (il libero con-
vincimento legato a forme
accusatorie) e ‘tenebre’ (la
prova legale, figlia del proces-
so inquisitorio) piuttosto che
ragionare su toni chiaroscu-
ri)» (p. 172 ss.).
N.C.
KRyszard KAPUÊCIƒSKI
Sha-in- sha
(Trad. it di Vera Verdiani),
Milano, Universale Economica Feltri-nelli, 2007, pp. 188
ISBN 978-88-07-81778-6, Euro 7.00
Ryszard KapuÊciƒski, attraver-
so i suoi appunti, interviste,
foto, registrazioni accumulati
nel corso del suo soggiorno
iraniano, ricostruisce, con
grande efficacia, la transizione
politico-istituzionale culmi-
nata con la rivoluzione islami-
ca di Komehini. Da un lato la
monarchia feudale di Reza
Pahlavi, la sua missione
modernizzatrice riassunta nel
progetto della Grande civiltà,
che in realtà si traduce nel
221
Ventuno proposte di lettura
governo personale dello Scià
con l’appoggio americano,
nello sfruttamento delle risor-
se petrolifere da parte dei
capitali stranieri e nell’impo-
verimento sempre maggiore
della società iraniana terroriz-
zata dalla potente e crudelissi-
ma polizia politica, la Savak.
Dall’altro, il popolo iraniano,
costituito da una società casta-
le in bilico tra l’ ossequio nei
confronti del regime e il rifu-
gio nello sciitismo, che da
sempre per i musulmani è la
fede degli oppositori e dei
contestatori. KapuÊciƒski
descrive i passaggi che porta-
no al mutamento di consape-
volezza nel popolo iraniano
fino alla liberazione dallo Scià,
sotto la guida dell’uomo che
nessuno è mai riuscito a foto-
grafare da giovane, Komehini.
Nello stesso tempo, ci mostra
in modo lucido il passaggio
dall’oppressione sotto lo Scià
al controllo degli ayatollah.
Recentemente ripubblicato,
questo testo è ancora molto
attuale e costituisce un acuto
lavoro d’inchiesta su un paese
complesso e di importanza
strategica negli equilibri geo-
politici internazionali.
S.O.
RDietmar ROTHERMUND,
Storia dell’India,
Bologna, il Mulino, 2007, pp. 137ISBN 978-88-15-11613-0, Euro 10,50.
Gli otto agili capitoli del libro
rappresentano una sorta di
compendio della storia del-
l’India, uno strumento indi-
spensabile per capire da dove
arriva lo sviluppo e l’affacciar-
si prepotentemente di una
nazione considerata capofila
delle cosiddette “tigri del-
l’Asia”. Si scopre, ad esempio,
che in quello che oggi è iden-
tificato con il paese dei tem-
pli, questi nell’antica India
(almeno fino al V secolo d.C.)
non esistevano e per compie-
re i loro complicatissimi riti
sacrificali i brahmani erigeva-
no altari temporanei a cielo
aperto. Nel libro viene analiz-
zato il passaggio dal buddhi-
smo all’induismo, il dominio
dei “cavalieri a cavallo”, la
nascita dell’Impero del Gran
Moghul che conobbe una rapi-
da ascesa grazie all’impiego
dell’artiglieria da campo che
ebbe un ruolo decisivo nel-
l’esito delle battaglie.
Il quarto capitolo si apre
con la fase coloniale segnata
dalla creazione di uno stato sul
suolo indiano per opera di una
compagnia mercantile inglese;
è evidenziato il ruolo della
compagnia delle indie orien-
tali nel decidere il destino di
questa grande regione del-
l’Asia fino a giungere al perio-
do vittoriano, contrassegnato
da un interesse particolare
della sovrana per l’India (essa
stessa imparò la lingua hindi
da un precettore e invitò a
tenere lezioni private a palaz-
zo l’indologo tedesco Friedrich
Max Müller, che insegnava ad
Oxford) nonché da una lunga
pax britannica che perdurò
fino al 1914. A partire dal
quinto capitolo appare la figu-
ra di Gandhi con tutte le vicis-
situdini legate al cammino di
indipendenza dell’India dagli
inglesi passando dal contrasto
tra musulmani e indù che
portò alla formazione del Paki-
stan, uno Stato che, nascendo
sotto il controllo dei militari,
costrinse l’India a ridefinire la
sua politica estera.
Il libro si chiude con il
passaggio da paese non alli-
neato a potenza nucleare che
dapprima approfittò della
guerra fredda: “l’India deplo-
rava il conflitto tra superpo-
tenze, ma d’altro canto la
guerra fredda offriva alla poli-
tica estera indiana uno sche-
ma di orientamento semplice;
quando improvvisamente finì,
l’India rimase piuttosto scon-
certata”.
G.P.
222
Librido
SLouis SALA-MOLINS,
Le Code Noir ou
le calvaire de Canaan,
Paris, Puf, 2006a, pp. 300ISBN 9 782130 558026, Euro12
Il libro narra da un punto di
vista filosofico le vicende del
Codice Nero francese e le
vicissitudini della schiavitù dal
1685 fino al 1848. Una schiavi-
tù che Sala-Molins analizza da
varie prospettive: quella dei
filosofi illuministi in fondo
non tanto caldi nell’affrontare
l’argomento; quello dei bor-
ghesi comunque soddisfatti
del commercio dello zucchero
e di altri prodotti ottenuti dal
lavoro schiavista; quello della
Chiesa che obbliga gli schiavi
alla conversione, curandosi
molto della loro anima ma
troppo poco del loro corpo (e
della loro condizione terrena).
Per giustificare l’esistenza
dei neri e degli indios america-
ni i teologi affermavano che
questi erano frutto di alcune
tribù del popolo di Israele che
si persero nel deserto e delle
quali non si seppe più nulla. Il
libro fa parlare anche gli schia-
vi che alla fin fine sembra non
siano tanto scontenti di un
regolamento legislativo come il
Codice che quanto meno espli-
cita e regolamenta sottomissio-
ne e lavoro coatto, delitti, pene,
castighi e punizioni.
Ma leggendo a fondo il lavo-
ro del filosofo francese, la sua
ironia a tratti pungente accom-
pagnata dall’analisi spietata
degli “uomini peggio delle
bestie” si coglie una sorta di filo
rosso che lega le tre parti del
libro: la schiavitù è praticata e
tollerata anche dopo la grande
Rivoluzione, dopo il principio
di Egalité, la dichiarazione dei
Diritti dell’uomo e del cittadino
del 1789 e l’Illuminismo. Il
capitolo dal titolo Le Code Noir à
l’ombre des Lumières coglie
appieno tutte le contraddizioni
e le aporie di un’epoca svelando
gli atteggiamenti e le riflessio-
ni dei filosofi nei confronti di
un’altra umanità (quella di
colore nero) e di un altro con-
cetto di Fraternité.
G.P.
Hagen SCHULZE
La Repubblica di Weimar
La Germania dal 1918 al 1933
Bologna, Società Editrice Il Mulino,2004, pp. 538
ISBN 88-15-04121-4, Euro 29,00
È possibile un paragone tra la
prima repubblica tedesca e
quella attuale? «Sostanzial-
mente no» – questa l’opinione
di Schulze. Eppure – «niente
Bonn senza Weimar».
L’autore raccoglie e sinte-
tizza in questo corposo volume
ampia parte delle acquisizioni
storiografiche sul primo espe-
rimento democratico tedesco,
inserendosi a pieno titolo nel
più recente dibattito che
ripensa le radici e l’identità
della Germania come nazione
moderna.
La prima parte del libro
delinea la «scena», il contesto
politico e diplomatico, sociale
ed economico, oltreché istitu-
zionale, in cui gli attori storici
si trovano ad operare nel ten-
tativo di dare corpo alla rico-
struzione in senso democrati-
co di una Germania appena
uscita, sconfitta, dal primo
conflitto mondiale.
Nella seconda parte si ana-
lizza invece il “dramma” che
dopo la disfatta del ‘18, la rivo-
luzione spartachista, i ricorren-
ti tentativi di colpo di stato e le
ripetute crisi economiche porta
alla presa del potere da parte dei
nazionalsocialisti nel a cura di
’33.
La terza e conclusiva parte,
quella più personale e critica,
pone l’accento sulle responsa-
bilità, anche di tipo personale,
da parte dei protagonisti della
scena politica e istituzionale,
mirando a fare di Weimar un
monito contro derive antide-
mocratiche considerate a torto
ineluttabili.
M.A.
Amartya SEN
Identità e violenza,
Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 219ISBN 88-420-8052-7, Euro 15,00
Con questa nuova pubblicazio-
ne destinata al grande pubbli-
co, Amartya Sen continua la
sua battaglia contro la lettura
della politica e delle relazioni
internazionali nei termini
dello «scontro tra civiltà»,
che ha contraddistinto molti
223
Ventuno proposte di lettura
dei suoi scritti e dei suoi inter-
venti degli ultimi anni.
La classificazione degli
abitanti del pianeta sulla base
di un sistema di ripartizione
dell’identità «unico e sovra-
stante», che l’autore condan-
na come una delle principali
cause dei conflitti che coinvol-
gono tanta parte dell’umanità,
è il concetto cardine dell’inte-
ro libro. Il «riduzionismo
solitarista dell’identità
umana», con cui per sempli-
cità di rappresentazione si
tenta di ricondurre gli esseri
umani ad un’unica grande
categoria, produce l’indicibile
violenza di rifiutare le diver-
sità «diversamente differen-
ti» di ogni individuo. Ciò
costituirebbe – secondo Sen –
«un buon metodo per inter-
pretare in modo sbagliato pra-
ticamente qualsiasi abitante
del pianeta», ignorando
«l’inaggirabile natura plura-
le» della sua identità.
Anche alcuni raffinati
approcci teorici comunitaristi
e le stesse proposte pacifiste,
spesso declinate nei toni della
riconciliazione e del dialogo
tra gruppi religiosi, etnici o
politici, riproducono in realtà
la medesima terribile violenza.
Sen vi riscontra il mancato
riconoscimento della capacità
razionale dei singoli individui
di scegliere e decidere – volta
per volta – sulle proprie prio-
rità, inducendoli a dimentica-
re «di possedere molte e
diverse affiliazioni e apparte-
nenze e di poter agire con
ognuna di esse in molti e
diversi modi». Non «mono-
culturalismo plurale», dun-
que, ma un multiculturalismo
in cui ad ogni individuo sia
garantita la libertà culturale
attraverso una «vita analizza-
ta» dalla ragione.
S.G.
John SHOVLIN,
The political Economy of Virtue,
Luxury, Patriotism
and the Origins
of French Revolution,
Ithaca and London, Cornell UniversityPress, 2006, pp. 265,
ISBN 0801474183, $25,00
Con il suo contributo, l’autore
mostra di voler partecipare ad
una recente tendenza che
torna ad approfondire il dibat-
tito sul lusso sviluppatosi nel
milieu culturale nobiliare della
Francia del XVIII secolo. La
nobilità costituisce sia l’ogget-
to che l’artefice principale del
dibattitto intellettuale al cen-
tro della ricerca di Shovlin.
Sebbene numerosi lavori sul-
l’argomento siano apparsi di
recente, l’approccio del libro
vuole connotarsi per un’atten-
zione rivolta alla lunga durata.
Shovlin mostra, infatti, come
fenomeni intellettuali tipica-
mente legati alla tradizione
culturale del Settecento –
onore nobiliare, «agroma-
nia» o commercio patriottico-
assumano dal 1740 al XIX seco-
lo, un andamento prevalente-
mente carsico influenzando la
formazione della cultura eco-
nomica e politica francese.
L’opera nonostante le lusin-
ghiere recensioni ricevute dal
panorama accademico anglo-
sassone non appare rivoluzio-
naria ma sicuramente utile per
approfondire un oggetto di
studio che presenta ancora
delle prospettive inedite.
S.G.
TDavide TARIZZO
Giochi di potere.
Sulla paranoia politica
Bari, Editori Laterza, 2007, pp. 185ISBN 978-88-420-8381-8, Euro 18,00
“Was ist der Mensch?” Che cos’è
l’umano? Prendendo le mosse
da uno dei dilemmi fonda-
mentali al quale la riflessione
filosofica, storica e politica,
nel corso dei secoli ha fornito
risposte differenti, l’autore
cerca di giungere ad una defi-
nizione del “politico” che
possa, nella società attuale,
rispondere in maniera effetti-
va ad un principio di umanità.
Se nell’era dei teorici della
post-politica il discorso poli-
tico sembra aver perso defini-
tivamente la sua specificità e
dileguarsi in un generico
discorso sociale, l’autore pro-
pone invece di recuperare la
dimensione propria del “poli-
tico” tenendola distinta (ma
non disgiunta) da quella del
sociale.
L’idea di fondo è che sia
proprio la politica il luogo
224
Librido
dove si affronta la questione
della definizione e della con-
quista dell’umano, e che per
costruire una teoria politica sia
indispensabile iniziare da una
teoria sull’umano. Come ci
dimostra infatti il pensiero
politico e filosofico classico,
l’indagine sulla natura del-
l’uomo e delle sue passioni
rappresentava il preliminare
ad ogni corretta riflessione
politico-filosofica. Lo spar-
tiacque, per l’autore, è rappre-
sentato dall’avvento dell’indi-
vidualismo (Kant) e dalla
nascita della sociologia scien-
tifica, che spezza il legame tra
politica e antropologia assimi-
lando i fatti mentali a meri
fatti sociali.
Ma il principio di autono-
mia, sul quale si fonda l’indi-
vidualismo del pensiero libe-
rale, non è in grado di dare una
definizione dell’umano in
generale, astratto dal singolo
individuo, poiché si tratta di
un principio puramente for-
male, non sostanziale. Se
bisogna ripartire, occorrereb-
be farlo cercando una nuova
definizione della libertà
umana, una definizione che
non sia schiacciata sul princi-
pio di autonomia individuale.
C.S.
Giacomo TODESCHINI,
Visibilmente crudeli.
Malviventi, persone sospette
e gente qualunque
dal Medioevo all’età moderna,
Bologna, il Mulino, 2007, pp. 310ISBN 978-88-15-11930-8, Euro 18.00
La funzione sociale e religiosa
della povertà nel medioevo
rivestiva un’estrema impor-
tanza: attraverso l’elemosina ai
miseri e agli affamati, che
soprattutto la domenica si
accalcavano vicino alle chiese,
nobili e ricchi commercianti
compivano un’opera buona
accumulando indulgenze nel
regno dei cieli. Fin qui una
visione in parte mitizzata del
mondo medievale che il libro
di Todeschini mette invece a
nudo evidenziando il disprez-
zo misto ad indifferenza per
coloro che erano privi di beni
terreni.
Nel XII secolo i canonisti e
romanisti medievali guardava-
no come nel “Diritto romano”
si potesse ritrovare una norma
che escludesse i poveri, insie-
me con altri socialmente
“minori” dalla possibilità di
testimoniare in tribunale o
davanti ad un giudice. Ma que-
sto è solo uno dei tantissimi
spunti di riflessione contenu-
ti negli undici capitoli del
libro: si va dalla “crudeltà degli
infedeli” agli “infami eviden-
ti”, – che diventavano tali per
una serie di maldicenze –, dai
“segnati a dito” come le con-
cubine al disprezzo per la spu-
doratezza dell’usuraio; dagli
“svergognati utili e inutili” (in
pratica chi svolgeva mestieri
quali il boia, il carceriere, il
torturatore giudiziario, la pro-
stituta, lo spazzino, il cuoco, il
panettiere, il tintore) agli
ebrei, quasi ebrei (i falsi cri-
stiani, gli ipocriti incapaci di
comprendere la nozione di
fede) agli avari, definiti
“assassini dei poveri”.
Il libro ci offre, insomma,
come un quadro di Bosch o di
Bruegel un’umanità periferi-
ca, derelitta, marginale e pec-
catrice, una sorta di quadro del
sentimento di inferiorità
morale, civica e sociale che ha
pervaso l’Europa medievale e
moderna.
G.P.
Enzo TRAVERSO
Il passato istruzioni per l’uso.
Storia, memoria politica,
Verona, Ombre corte, 2006, pp. 143ISBN 88-87009-89-9, Euro 12.50
Docente di Scienze politiche
presso l’università della Picar-
dia, nel 2005 l’autore pubbli-
ca in Francia questo breve sag-
gio interrogandosi sull’indu-
stria culturale legata alla
memoria ed alla storia e sul
loro ruolo immediatamente
politico. Per ricostruire i lega-
mi che uniscono la ricerca sto-
rica, l’elaborazione della
memoria ed il suo uso pubbli-
co, Enzo Traverso tenta di fare
il punto su alcuni nodi di que-
sto difficile rapporto.
L’indagine sviluppata con
agilità, lungo il susseguirsi di
sei capitoli, assume come ter-
225
Ventuno proposte di lettura
mine a quo lo storicismo hege-
liano che relegando la memo-
ria nella dimensione del vis-
suto e del relativo ha invece
contribuito a definire la storia
in quella della retrospettiva e
dell’assolutezza.
Dalla storia espressione
della ragione all’insegnamento
di Benjamin sulla rammemo-
razione come processo costrut-
tivo, Traverso mostra come sto-
ria e memoria non possano
essere semplicemente con-
trapposte, ma come sia neces-
sario analizzarle nella loro
complessa relazione di reci-
proca influenza: lo storico, ser-
vendosi della memoria, deve
avere la consapevolezza che il
suo lavoro contribuirà a sua
volta a formarla ed orientarla.
Ricco di riferimenti ai più
accesi dibattiti storiografici
sulla nostra contemporaneità,
il libro affronta le questioni
dell’empatia dello storico, della
rimozione, dell’eccesso di
memoria e della sua spettacola-
rizzazione senza rinunciare a
confrontarsi con quello ancor
più delicato del negazionismo.
S.G.
VJoaquín VARELA
SUANZES-CARPEGNA
Política y Constitución
en España (1808-1978)
Prólogo de Francisco
Rubio Llorente.
Madrid, Centro de Estudios Políticos yConstitucionales, 2007
ISBN 978-84-259-1355-6, Euro 32,00
El presente volumen recoge
veinte trabajos del profesor e
investigador de la Universidad
de Oviedo, Joaquín Varela, cuya
obra, en palabras de su presti-
gioso prologuista, “marca un
hito en el estudio histórico de
nuestras Constituciones”. Es,
por tanto, motivo de satisfac-
ción que el Centro de Estudios
Políticos y Constitucionales
haya reunido en un único volu-
men algunos de los trabajos
más significativos que este
autor ha publicado a lo largo de
los últimos 25 años.
Dividido en cuatro grandes
bloques, a lo largo de los dife-
rentes trabajos se aborda el
análisis de los siglos XIX y XX
desde el punto de vista de la
Historia del Constitucionali-
smo y la Historia Constitucio-
nal española. No en vano su
título, Política y Constitución,
nos anuncia la imprescindible
conexión entre las corrientes
doctrinales y los textos consti-
tucionales, la realidad política
y las normas que intentan pla-
smarla o modificarla.
El volumen se abre con
seis trabajos transversales,
pues recorren diacrónicamen-
te ambos siglos: modelo con-
stitucional del s. XIX y ruptu-
ra; papel de la Monarquía en la
Teoría Constitucional españo-
la; control del Gobierno den-
tro del desarrollo del parla-
mentarismo español; las doc-
trinas liberales; la evolución
en las concepciones iusfunda-
mentales: liberal, democrática
y social y, por último, un estu-
dio histórico-metodológico
relativo al Derecho Constitu-
cional como objeto científico.
El segundo bloque transcurre
de 1808 a 1833, en el que se
atienden los aspectos más
relevantes de nuestro neonato
constitucionalismo: Monar-
quía, Nación, forma de
gobierno. En el tercero, dedi-
cado al segundo tercio del siglo
XIX, destaca el estudio sobre la
doctrina de la Constitución
histórica de Jovellanos, pues el
propio Varela la señala como
“[quizá] la más brillante apor-
tación española a la teoría
constitucional europea del
siglo XIX”. Por último, el cuar-
to bloque abarca el estudio de
más de un siglo de historia. A
través de los trabajos que lo
componen se analiza la evolu-
ción de conceptos básicos de
la teoría constitucional: Con-
stitución, Estado, Derechos
Fundamentales, filtrados por
el empuje de las doctrinas
democráticas que habrían de
transformar el Estado español,
hasta desembocar en la Con-
stitución de la II República,
226
Librido
“una Constitución de vanguar-
dia”. El libro lo cierra la vigen-
te Constitución de 1978, como
aquella en cuya elaboración se
pretendió un grado de con-
senso nunca antes alcanzado
en la Historia Constitucional
española.
M. V.
Joaquín VARELA
SUANZES-CARPEGNA
Governo e partiti nel pensiero
britannico (1690-1832)
Per la storia del pensiero giu-
ridico moderno, n. 73
Milano, Giuffré, 2007, pp.156.ISBN 88-14-13468-5, Euro 16.00
Appare ora tradotto anche in
italiano un interessante saggio
di Joaquín Varela Suanzes-
Carpegna centrato sul dibatti-
to relativo al sistema di gover-
no e all’emergere dell’impor-
tanza dei partiti politici nella
società inglese, che ebbe luogo
in Gran Bretagna negli anni
che andarono dalla pubblica-
zione del Secondo Trattato sul
Governo Civile di John Locke ai
I Dogmi della Costituzione di
John J. Park. L’opera di Joa-
quín Varela aveva già visto la
luce in Spagna nel 2002 (Siste-
ma de Gobierno y partidos polí-
ticos: de Locke a Park, Centro de
Estudios Políticos y Constitu-
cionales, Madrid, 2002, pp.
190) e aveva suscitato un
immediato consenso da parte
degli studiosi di storia del
pensiero costituzionale.
L’autore inizia il suo per-
corso analizzando dettagliata-
mente il pensiero di Locke sul
funzionamento dei vari poteri
e sui rispettivi limiti e attribu-
zioni, per passare poi a discu-
tere le differenti posizioni
assunte da Robert Walpole e
Bolingbroke a proposito della
dottrina della monarchia
“mista” e del ruolo del sovrano
all’interno del sistema costitu-
zionale. Lo studio di Joaquín
Varela prosegue approfonden-
do la posizione di David Hume
nella difesa di un governo di
leggi piuttosto che di uomini,
baluardo dello stato di diritto,
per poi prendere in esame la
teoria esposta da Edmund
Burke nel suo saggio Thoughts
on the Cause of the Present
Discontents che presenta una
dissonanza con quanto soste-
nuto da Blackstone nei suoi
Commentaries. Naturalmente
non poteva mancare, nel viva-
ce dibattito di quegli anni, un
riferimento alla posizione di
Thomas Paine e alle critiche da
lui rivolte al sistema inglese
nelle sue opere, a partire dal
Common Sense e da The Rights of
Man, quest’ultimo saggio in
aperta polemica con Burke.
L’Autore, attraverso una felice
alternanza di discussione e
sintesi a proposito delle teorie
costituzionali, del pensiero
politico, del ruolo della socie-
tà, delle vicende parlamentari
occorse in Gran Bretagna negli
anni presi in esame, delinea lo
sviluppo e l’importanza che i
partiti assunsero nella vita
politica inglese oltre a disegna-
re il nuovo assetto costituzio-
nale che veniva prendendo
forma a partire dalla diversa
interpretazione data da autori
di differente formazione (inte-
ressante la posizione di Paley)
a quella “costituzione mista ed
equilibrata” il cui modello
veniva studiato, discusso,
interpretato e, in genere,
ammirato nell’Europa conti-
nentale. Il dibattito sulla divi-
sione dei poteri, sull’equilibrio
costituzionale e, quindi, sul
ruolo e funzioni della Camera
Alta, della Camera Bassa e del
Re, in una parola, sul sistema
di governo, proseguì in modo
animato anche grazie all’inter-
vento di altri noti e autorevoli
partecipanti, quali furono
Thomas Erskine, Lord Russell,
James Mill, Jeremy Bentham e
John Austin e di questo svilup-
po il libro di Joaquín Varela
offre una chiara testimonianza.
Il saggio si conclude con un
capitolo dedicato all’analisi de
The Dogmas of the Constitution di
John James Park il quale, pren-
dendo le distanze dai due par-
titi tory e whig, intendeva por-
tare il suo contributo, attraver-
so lo studio del costituzionali-
smo britannico effettuato dalla
prospettiva di “scienziato della
politica” (p. 138) in quanto
riteneva che il modo più ade-
guato fosse quello di “indagare
come si erano andati configu-
rando i poteri dello Stato e i
suoi rispettivi controlli, e in che
modo si erano andati separan-
do i principi costituzionali dai
fatti” (p. 139), indicando così
anche un metodo di approccio
227
Ventuno proposte di lettura
228
Librido
scientifico allo studio della sto-
ria del costituzionalismo.
Conseguenza ultima di
questa accurata indagine
attraverso la quale conduce la
lettura del saggio di Joaquín
Varela, è l’emergere del plura-
lismo teorico ( e sociale ) che
costituì una delle premesse e
basi dello Stato costituzionale.
S. S.
Michèle VIROL
(sous la dir. de)
Les Oisivetés
de Monsieur de Vauban.
Ou ramas des plusieurs
mémoires de sa façon
sur differents sujets
Seyssel, Edition Champ Vallon, 2007, pp. 1792
ISBN 978-2-87673-471-5,Euro 44.00
In occasione del tricentenario
della morte del Maresciallo
Vauban (1707-2007) la Fran-
cia celebra l’illustre ingegnere
militare di Luigi XIV pubbli-
cando per la prima volta in
edizione integrale le sue
memorie. Disperse in nume-
rose biblioteche e fondi priva-
ti, sono oggi finalmente acces-
sibili grazie al sapiente lavoro
di recupero svolto da Michèle
Virol. Corredando ognuno dei
29 scritti, con altrettanti saggi
introduttivi dalle firme presti-
giose, come quelle di Joel Cor-
nette, Mireille Touzery e
Thierry Sarmant, la studiosa
mette a disposizione del letto-
re un compiuto repertorio di
fonti ed un raffinato studio
critico sul personaggio.
Destinata a diventare un
punto di riferimento impre-
scindibile per lo storico sei-
settecentista quest’elegante
pubblicazione ha molto da
offrire, non solo a chi di Vau-
ban apprezzi il genio militare,
ma anche a chi sia interessato
ai suoi scritti fiscali, demogra-
fici e geo-politici. Spesso
redatte come veri e propri
memoriali tecnici destinati ad
una «circolazione ammini-
strativa» queste riflessioni
rivelano, infatti, un approccio
matematico-scientifico in cui
è possibile riscontrare lo scar-
to epistemologico che l’art de
bien gouverner si appresta a
compiere in quegli anni.
S.G.
Storiacostituzionale
eum
Giornale di
PERIODICO DEL LABORATORIO DI STORIA COSTITUZIONALE “ANTOINE BARNAVE” n. 15 / I semestre 2008
Francesco Bertolini, Paolo Caretti, Carlo Chimenti, Leopoldo Elia,Romano Ferrari Zumbini, Piero Gambale, Eduardo Gianfrancesco,
Luigi Lacchè, Vincenzo Lippolis, Nicola Lupo, Andrea Manzella,Damiano Nocilla, Giovanni Orsina, Alessandro Palanza,
Cesare Pinelli, Guido Rivosecchi
Giornale di Storia costituzionale n. 15 /
Isemestre
2008eum
edizioni università di macerata
ISBN 978-88-6056-033-9
ISS
N 1
59
3-0
79
3
Euro 22,00
eum edizioni università di macerata
I regolamenti parlamentari nei momenti
di “svolta” della storia costituzionale italiana