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Sguardi sulla città Numero unico a cura dei partecipanti al Corso di giornalismo organizzato dall’Associazione Oratorio S.Antonio - Trento Marzo 2011

Sguardi sulla città

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Il risultato di 6 mesi di corso di giornalismo

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Sguardisulla città

Numero unico a cura dei partecipanti al Corso di giornalismo organizzato dall’Associazione Oratorio S.Antonio - Trento

Marzo 2011

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Uno sguardo diverso

Il volontariato impara a comunicare

L’ABC del giornalismoUn corso organizzato dall’Associazione Oratorio S. Antonio

In quest’epoca in cui l’informazione riveste no-tevole importanza, anche sotto il profilo tecno-logico, trova adeguata collocazione l’iniziativa di un “Corso di giornalismo” organizzato dall’As-sociazione Oratorio S. Antonio di Trento, con il sostegno della Fondazione trentina per il volonta-riato sociale.Al corso ha partecipato un gruppo eterogeneo di persone - per età, sesso, provenienza, esperienza di lavoro -, tutte peraltro legate da un comune de-nominatore e cioè l’impegno sociale o comunque nel volontariato locale, e perciò stesso desiderose di poter disporre di un apporto più pregnante nel settore di operatività.I contenuti del corso si sono ispirati a tre aree tematiche di fondo: conoscenza generale dei me-dia, stampa e giornalismo, strumenti informatici. Pur nella varietà degli aspetti toccati, il percorso è stato lineare e coerente.In sostanza, si è partiti dai principi portanti del pensiero scritto, con peculiare riguardo al momento della conoscenza e della correttezza nell’informazione; si è poi passati alla struttura ed alla tecnica del giornale, anche in connessione al corredo fotografico, con particolare riferimen-to alla stampa avente dimensione locale; ci si è, quindi, soffermati sugli aspetti etico - deontolo-gici del giornalista, per pervenire infine alla parte operativa sotto il profilo informatico - compo-sitivo della stampa in generale e del giornale in particolare.In tale contesto ha assunto rilevanza la visita alla redazione del giornale “L’Adige”, con consta-tazione dal vivo dell’apparato strutturale degli articoli in via di pubblicazione, tempestivamente integrati dagli aggiornamenti dell’Agenzia ANSA,

quale fonte primaria per immediatezza ed attendi-bilità.Nella parte conclusiva del corso si é dato spazio all’attività pratica, con l’utilizzo di software liberi per scrittura, elaborazione di immagini e metodi di impaginazione, di sicura utilità a livello di noti-ziari locali (parrocchiali o di associazioni volonta-ristiche).L’ampiezza del corso e la qualità dei profili svolti evidenziano l’intrinseca utilità dell’iniziativa sia sul piano di una costruttiva riflessione in ordine all’importanza della funzione giornalistica, sia su quello dell’acquisizione degli strumenti rivolti alla correttezza operativa.

In quest’ottica va anche sottolineato l’impegno partecipativo che ha offerto l’occasione ai fre-quentanti di scambiarsi idee ed esperienze diverse ed ha consentito agli stessi un apporto concreto mediante uno o più “pezzi” scritti per la pubbli-cazione sulla stampa locale.Il tutto lascia intendere che le conoscenze ac-quisite, specie sul versante dell’utilizzo dell’in-

formazione e della sua completa applicazione a mezzo della stampa quotidiana o periodica, hanno offerto ai singoli interessati ulteriori elementi per un fattivo contributo nel campo della socialità e, in particolare, in quello del volontariato locale o a più ampio raggio d’azione.

Lucia Menato

Chi, come, quando.Nel settembre 2010 ha preso avvio presso l’Associazione Oratorio S. Antonio di Trento il “I Corso di giornalismo - per redattori o collaboratori di notiziari o giornali parrocchiali, rionali, di associazioni, di volontariato”, organizzato dalla Redazione “Comunità in Dialogo” e coordinato da Mauro Avi.Il Corso, della durata di circa 80 ore, si è sviluppato in un ciclo di 20 settimane (fino alla fine di febbraio 2011), con lezioni serali teorico–pratiche, che hanno visto impegnati i giornalisti trentini Diego Andreatta, Vittorio Cristelli, Fabrizio Franchi (presidente dell’Ordine), Fulvio Gardumi, Paolo Ghezzi e Giorgio Grigolli, nonché altri esperti del settore, quali Flavio Antolini (per le dinamiche della comunicazione), Lucia Bort (insegnante di grafica), Giovanna Gadotti (docente di Sociologia della comunicazione - Università Trento), Dino Panato (fotografo - fotoreporter) e Pierluigi Roberti (docente di informatica - Università Trento).

Avete presente quelle signore anziane che parlano sempre e solo di malattie, di rapine e omicidi della cronaca e poi concludono con: “Oh, che brutto mondo!”, scrollando la testa e levando gli occhi al cielo? Ci si chiede, a volte, se anche i media non si comportino allo stesso modo.Scorrendo i giornali o prestando ascolto ai vari TG, ci si trova per lo più sopraffatti da notizie di crimini, disgrazie, malaffare e tragedie planetarie. Tanto da essere indotti un po’ alla volta a convincersi che al mondo accadano quasi esclusivamente fatti negativi.Va detto che i media tengono conto del criterio di notiziabilità, cioè di che cosa faccia sì che un fatto piuttosto che un altro diventi notizia, interessi il pubblico, si faccia leggere dalle persone che prendono in mano un giornale o una qualsiasi pubblicazione. Questi strumenti dovrebbero informarci, darci un’idea, illustrarci, renderci edotti del mondo che ci circonda nella sua complessità, con i risvolti anche critici o problematici, ma componendo una visione d’insieme esaustiva. Quanto invece i loro criteri di scelta e di presentazione delle notizie sono più indirizzati alla diffusione della testata o a catturare l’ascolto delle persone, per la gestione economica del giornale, e per l’interesse o l’indirizzo dell’editore?Per cercare di comprendere e gestire questi meccanismi anziché esserne passive vittime, abbiamo organizzato

questo corso che vede noti docenti qualificati susseguirsi alla cattedra.Prima ancora da lettori ed utenti dei media che come “apprendisti” ed aspiranti operatori, sia pure locali, nel mondo dell’informazione.Perché questa è forse l’area in cui giocano un ruolo i giornali locali e i fogli di categoria, di parrocchia, di rione: possono diventare strumento e stimolo per un con-fronto diretto su temi grandi e piccoli con le persone che incontriamo nel rione o sul lavoro, fare da rete interme-dia di informazione e partecipazione. Assumersi il compito di integrare con tasselli di vita comune i vuoti lasciati dalle notizie più generali di at-tualità, che a volte, risucchiano e focalizzano l’attenzio-ne del pubblico solo su alcuni temi, tralasciandone altri egualmente importanti, o magari più “spinosi”.Presentare, sia nei risvolti positivi, che, nei nodi criti-ci, pezzi della realtà che ci circonda immediatamente, palpabile e constatabile dal vivo, pur mantenendo uno sforzo di collegamento tra il “piccolo”, il “vicino”, e il “globale”.Far sì, infine, che l’immagine proiettata nella nostra mente dalla massa di informazioni che ci bombardano quotidianamente, sia equilibrata e per quanto possibile completa, più vicina a noi e, soprattutto, più integrata e aperta nella direzione di una realistica positività.

Mauro Avi

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La “Casa Satellite” dell’ANFFASCome l’informatica favorisce l’autonomia della persona

Gli ospiti abituali della “Casa Satellite” sono 16 ragazzi con un ritardo mentale tra il grado lieve e medio dovuto alla sindrome di Down o a problemi connatali. Di una età compresa tra i 21 e i 31 anni, normalmente vivono con le loro famiglie. Per il progetto è stato individuato a Trento un appartamento di 71 m2 al primo piano di una palazzina ITEA. La zona dove è ubicato l’edificio è raggiungibile a piedi dal vicino centro di ANFFAS Trentino “Cresciamo insieme” (a monte della nuova sede della Questura) e ben servita dai mezzi di trasporto pubblico. Gli obiettivi dichiarati del Progetto “Casa Satellite” sono assai variegati ma in estrema sintesi possiamo riassumerli in due. In primo luogo la volontà di sperimentare un contesto residenziale nel quale le persone con disabilità intellettiva possano acquisire le competenze necessarie per la gestione della vita domestica con il massimo grado di autonomia possibile. In parallelo lo sviluppo di una rete fra enti profit e no-profit per individuare soluzioni tecnologiche atte a migliorare la sicurezza e la qualità della vita delle persone con disabilità intellettiva.I genitori che vedono crescere il loro figlio con disabilità intellettive serie si pongono, inevitabilmente, molte domande riguardanti il suo futuro. Una delle più angoscianti riguarda il “dopo di noi”: ovvero il non sapere quali scenari si apriranno per il proprio figlio quando loro non saranno più in grado di occuparsene. Da tale questione, più volte dibattuta anche all’interno dell’ANFFAS Trentino, è nata l’idea di sperimentare un modello di residenzialità ove testare una serie di nuove strumentazioni e modalità operative eventualmente applicabili

anche ad altri contesti. La prima grande novità è la domotica, ovvero l’informatica applicata alla casa. In prospettiva è immaginabile uno scenario di proposte residenziali diversificate a seconda dei bisogni degli utenti che consenta, attraverso l’uso sempre crescente della tecnologia informatica, un maggior grado di autonomia degli ospiti e un conseguente significativo risparmio di risorse anche da parte dell’ente pubblico. Sin d’ora questa esperienza potrebbe essere di stimolo alle famiglie verso l’utilizzo di tali ausilî domotici in grado di garantire l’autonomia e la tutela del figlio anche in assenza del loro occhio vigile.Un altro aspetto importante posto in essere dal progetto è il coinvolgimento massiccio del volontariato. In “Casa Satellite” tale risorsa viene utilizzata in maniera sistematica, stabile ed efficiente grazie alla collaborazione con l’Organizzazione “Liberamente insieme per ANFFAS Trentino” che ha portato allo sviluppo di innovativi modelli di gestione del volontariato.Il progetto trentino, del tutto sperimentale e innovativo, è già stato fatto proprio da un’altra realtà italiana, a Pavia. Come tutto ciò si svilupperà in futuro dipenderà da una serie di fattori: economici, certo, ma non solo. Anzi, l’aspetto economico al momento pare un problema assai meno significativo rispetto ad altri, essenzialmente di natura emozionale: ben più difficili da risolvere.

Pietro Marsilli

A cena con degli ospiti specialiUna serata decisamente diversa...

Sono quasi le venti e trenta. Abbiamo finito di mangiare ma siamo ancora seduti a chiacchierare. La tavola è stata sparecchiata da poco e stiamo aspettando, chi più chi meno golosamente, di mangiare i grostoli, visto che siamo nel periodo di Carnevale. Ad un tratto il campanello suona: è arrivata la volontaria che farà la notte.E’ mercoledì due febbraio, sono nella “Casa Satel-lite” gestita da Anffas Trentino Onlus assieme ad un ‘collega’ del corso di giornalismo; siamo stati gentilmente invitati a cena dal responsabile della struttura, Gianluca Primon. Il conoscersi a tavola davanti a un buon piatto di pasta, mi è subito sembrato un modo davvero piacevole e cordiale per entrare in diretto contatto con questa nuova realtà, a me finora sconosciuta. Ogni settimana per quattro giorni, dal mercoledì al sabato pomeriggio, viene ospitato a rotazione un gruppo diverso di ragazzi, di solito composto da due maschi e due femmine. Grazie al pc ‘do-motico’ che si trova in soggiorno è possibile or-ganizzare le varie attività quotidiane. Per scegliere il menù del pranzo e della cena i ragazzi trovano un elenco di immagini di pietanze (primi, secon-di, contorni..), decidono insieme quali vogliono cucinare quel giorno e poi le spuntano su una lista, che alla fine viene stampata. A questo punto controllano cosa c’è già in dispensa e infine vanno insieme a comprare ciò che manca. Anche la mattina il computer sveglia ognuno all’ora oppor-tuna, in base ai suoi impegni e alle sue abitudini: per esempio c’è chi è più pigro e vorrebbe dor-mire fino all’ultimo minuto e chi invece preferisce alzarsi un po’ prima per lavarsi e far colazione con tutta calma prima di uscire di casa. Infine la sera bisogna spegnere il cellulare verso le 21.00 e an-

che in questo caso una voce registrata avvisa per nome ciascun ospite con un simpatico messaggio.La signora che è appena entrata è la mamma di una ragazza che frequenta abitualmente la casa, ma che non è presente lì quella sera. Fa la volon-taria da quando questo progetto è iniziato, ma in effetti da molto più tempo, da quando cioè sua figlia aveva appena un mese e lei ha conosciuto il “Centro Piccoli Down”, fondato nel 1981 da alcuni genitori (tra i quali c’era anche Maria Gra-zia Cioffi Bassi, l’attuale presidente dell’Anffas Trentino Onlus). E’ una persona dalla sguardo vivo e rassicurante, una mamma che ogni mese dedica una o due notti a questi ragazzi che ormai conosce benissimo - visto che sono cresciuti sotto i suoi occhi - e che tratta in modo molto familiare e accogliente.Qualcuno ha messo alla tv la videocassetta di un film comico che in realtà nessuno guarda: non c’è tempo, c’è altro da fare! Chi intrattiene gli ospiti, chi prepara per tutti la camomilla calda – il rilassante rito della sera – chi ascolta un po’ di musica sull’I-pod, chi disfa la valigia e inizia a farsi il letto per la notte. Il clima generale è frizzante, ma nello stesso tempo molto sereno. La casa poi è decisamente ordinata e pulita, con ogni cosa al suo posto. Ci si sta bene. Faccio ancora un po’ di conversazione con i ragazzi, poi saluto e mi congedo. Torno a casa con la sensazione di aver trascorso proprio una serata diversa e arricchente. C’è un mondo silenzioso di persone che dedicano il proprio tempo e i propri talenti agli altri. Il 2011 è l’Anno Europeo del volontariato. Pensiamoci.

Anna Degasperi

1. Modulo per il riconoscimento digitale e per il codice

2. Video interlocutore tra casa e utente della casa

3. Zona pranzo

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4. 5. Contatti magnetici a porte e finestre6. Luci interne a “barra graduata”

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7. Soggiorno 8. Stanza da letto per le ragazze9. Stanza da letto per i ragazzi10. Visualizzazione e gestione dell’alloggio dal touch screen8

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Perché le due metà del cielo non diventino troppo uguali

Ho da poco iniziato a leggere un libro dal titolo “Lettera alle donne”. È scritto dalla giornalista francese Catherine Barry che ha raccolto i vari messaggi del Dalai Lama all’universo femminile.

In sintesi il Dalai Lama affer-ma che “ La prossima era sarà delle donne” sostenendo che è l’unica che con la sua sensi-bilità, il suo altruismo, la sua compassione può dare inizio ad un cambiamento profondo e radicale in grado di costruire una società di pace. Sono completamente d’accor-

do con questa affermazione.Guardiamo un po’ la società nella quale viviamo: sono più le donne rispetto agli uomini che spesso vanno in viaggio, a teatro, in pizzeria, che trovia-mo in maggior numero in associazioni di volon-tariato, che si ritrovano a fare due chiacchiere davanti ad una tazza di caffè, che più si prestano quando ce n’è bisogno, ma soprattutto sono anco-ra le donne che educano i figli.Cosa significa questo? Significa che le donne sono maggiormente portate alla comunicazione e che proprio per questa loro capacità e il loro modo di vivere più frequentemente la comunità possono più facilmente trasmettere messaggi e convinzioni.

Ecco perciò l’importan-za che non passi il mes-saggio che purtroppo in questi ultimi mesi sta di-lagando nel nostro paese: una forma di prostituzione consape-vole come

sistema di emancipazione e come strumento di accesso a desideri effimeri. Ecco l’importanza di mantenere le diversità tra uomo e donna, di non cadere noi donne nella trappola di scambio e denaro in nome di potere e soldi, scambio sul quale l’uomo, spesso, ha basato questa società.

In questi ultimi cinquant’anni la donna ha ot-tenuto un ruolo sempre più “attivo” all’interno della società: è entrata nel mondo del lavoro, ha occupato ruoli da sempre prettamente maschili, ha imparato a camminare con le “sue gambe” dimostrando il suo valore anche se spesso si è visto che questo nuovo modo di essere è più un copiare i comportamenti maschili che non l’aver trovato una vera nuova identità. Basta pensare alle donne che in politica in nome del “potere” difendono così strenuamente quei capigruppo od onorevoli o senatori che molto palesemente dal loro parlare ed agire lasciano intendere ciò che pensano dell’essere fem-minile e cioè che è “solo un bel passatempo”. Op-pure delle donne soldato: ricordate la soldatessa statunitense carceriere ad Abu Ghraib che con i suoi colleghi ha parteci-pato alle sevizie e torture dei prigionieri iracheni? Poco tempo dopo quella stessa soldatessa è rimasta incinta. Ma come può colei che è in grado di dare la vita partecipare a queste efferatezze? Ma abbiamo donne come San Suu Kyi, abbiamo le “Madri coraggio”, Dian Fossey che ha dato la vita per salvare ciò nel qua-le credeva e tante altre, ma soprattutto abbiamo milioni di donne che tutti i giorni con il loro modo di vivere dimostrano la loro forza e la loro capacità di portare avanti le idee nelle quali credono senza cedere al ricatto dei “soldi e del potere”.Ecco perché è importantissimo non copiare i comportamenti maschili ed ecco perché, se manterrà la sua identità, solo la Donna può essere colei che può costruire una società di pace. Anna Mussi

Maschere del mondo Il primo compleanno della Bottega Buffa CircoVacanti

Il 27 gennaio scorso, nella sala conferenze della Caritro, l’Associazione di promozione sociale “Bottega Buffa CircoVacanti” ha festeggiato il suo primo anno di attività alla presenza di colla-boratori, sostenitori ed estimatori d’arte.L’associazione si è costituita a Trento per la caparbietà e passione di sei ragazze di nazionalità diversa e con alle spalle esperienze formative e percorsi culturali quanto mai vari.I vissuti, coltivati negli ambiti del teatro, della mu-sica, della danza, delle arti visive si sono incrociati nella condivisione di una poetica comune che vuole recuperare l’antica arte dell’attore, secondo la quale il teatro è prima di ogni altra esperienza, spazio di relazione e di comunicazione, capace di incontrare nelle piazze e nelle corti un pubblico

eterogeneo d’età, estrazione sociale e provenienza geografica. Per il particolare lavoro di ricerca che de-dica alle masche-re la Bottega si è gemellata con un gruppo di ricerca teatrale brasi-liano di nome

Cia Buffa de Teatro che si occupa del recupero e della codificazione dei linguaggi artistici e rituali presenti nelle manifestazioni popolari brasiliane ma anche di altre parti del mondo, quali le danze di possessione del sud Italia.Bottega - racconta una delle artiste - significa luo-go in cui la creazione passa attraverso l’alchimia della fatica e del sudore dell’artigiano che lavora instancabilmente dietro la propria visione, insom-ma un luogo dove ci si sporca le mani. A partire

da questa poetica, diventa immediata la compren-sione dell’istinto del gruppo di cercare continua-mente la collaborazione con quegli artigiani che lavorano ancora con il senso di trasmissione della propria arte. Un esempio è sicuramente la colla-borazione con lo scultore trentino Luca Molinari che ha accettato di insegnare alle attrici del grup-po l’arte dell’intaglio per ottenere una matrice di legno sui cui battere successivamente la propria maschera in cuoio e trasferirla al volto per dare vita ai personaggi della commedia dell’arte, dagli Zanni, Arlecchini, Pantaloni, Balanzoni, alle Servette, oltre ai primitivi Buffoni e ai più homus erectus, Clown per percorrere le vie dei borghi, prediligendo carnevali e luoghi che hanno il sapo-re di antico, inondandoli di fantasie perdute. E se il sostantivo non casuale di Bottega che dà il nome all’associazione ci fa scoprire l’arcaico, possiamo capire il significato della scelta di Buffa: perché anche questo è teatro: parlare di ciò che le convenzioni ed il galateo non permettono di dire; esprimere il poetico e il grottesco che la realtà mescola e la maschera ridice; di Circo, in quanto è un crogiolo di discipline diverse e di Vacante poiché costantemente alla ricerca di vuoti da riempire. In definitiva la Bottega ci comunica una bella esperienza: che là dove c’era desiderio e volontà di incontrare volti e persone il dialogo fra le culture è concretamente possibile.

Ezio Risatti

Contatti:

Referente: Veronica Risatti cell. 3497227824bottegabuffacircovacanti@gmail.combottegabuffacircovacantiblogspot.com

Bottega - racconta una delle artiste - significa luogo in cui la creazione passa attraverso l’alchimia della fatica e del sudore

dell’artigiano che lavora instancabilmente dietro la

propria visione, insomma un luogo dove ci si sporca le mani.

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Dentro ho incontrato uomini liberiUn laboratorio di fede nel carcere di Trento

“Veglia sempre su questi figli tuoi…” canticchia la mia mente mentre alle mie spalle si chiude anche l’ultimo cancello che separa due mondi: il “dentro” e il “fuori”.Il “fuori” è la vita della maggior parte di noi, fatta di tante cose, a cui forse non diamo troppo peso perché ormai fanno parte della nostra quotidianità: famiglia, casa, lavoro, traffico, impegni, corse frenetiche, volontariato e anche qualche hobby, se rimane tempo.Il “dentro” è invece quel mondo a tanti sconosciuto – fino a poco tempo fa anche a me – che sta oltre il muro di cinta del carcere.La vita riserva spesso sorprese e novità che mai ci si sarebbe aspettati. E così, da circa un anno e mezzo, ho ricevuto quello che ritengo un dono immenso, il potermi affacciare alla finestra di questa complessa realtà, che mi ha stupita, sconvolta, commossa e coinvolta al tempo stesso.Forse per noi gente comune, tutta presa a rincorrere i propri progetti, a realizzare i propri sogni, quel muro divide i buoni dai cattivi, i belli dai “mostri”. Vi assicuro che non è così!Con altri tre amici e il padre cappellano del carcere di Trento ci ritroviamo insieme ad un gruppo di carcerati, che hanno scelto di partecipare a questo momento di incontro chiamato “laboratorio della fede”. E’ aperto a tutti ed è molto variegato per religione, lingua e cultura. Ciò che ci accomuna è la sete di qualcosa di importante; è il desiderio di leggere insieme la Parola di Dio, sulla quale poi ci confrontiamo, ci scambiamo le nostre riflessioni e sensazioni. Quanti volti abbiamo incontrato in questi mesi, quanti nomi, quante storie! A volte non servono tante parole perché i loro sguardi trasmettono emozioni indicibili. Ci sono visi tristi, spaventati, rassegnati, che portano il segno della sofferenza, ma anche sguardi carichi di vivacità, di intelligenza, di voglia incredibile di vivere, comunicare, amare. Un forte spirito di solidarietà e di sensibilità reciproca si coglie dai loro racconti. C’è chi è in carcere per la prima volta, e chi del carcere ha fin troppa esperienza, perché ne ha visti tanti e magari molti dei suoi 20-30 anni li ha vissuti “dentro”.Secondo la legge sono uomini che nella vita hanno sbagliato qualcosa, che devono pagare per i loro errori. E questo è il compito della legge. Ma per noi ci sono delle persone con esperienze

di vita da far venire i brividi, ragazzi cacciati di casa dai loro stessi genitori, che si sono trovati nel pericolo, faccia a faccia con la morte più di una volta; ci sono mariti e padri di bimbi anche piccolissimi che, tra le lacrime, ci confidano il loro dispiacere per aver causato loro sofferenza, la paura di perderli, il vuoto e la solitudine di non poterli abbracciare o festeggiare insieme il loro compleanno.Nei confronti di questi uomini ci poniamo con profondo rispetto e, a volte, con il semplice silenzio nella consapevolezza che nessuno di noi può dire di non aver mai sbagliato, né di essere migliore o peggiore di loro.A loro va la nostra gratitudine per come ci fanno sentire accolti per quel che siamo, con semplicità di cuore.E a Maria li affidiamo cantando insieme, ancora una volta: “Veglia sempre su questi figli tuoi!”

Cristina Malacarne

La vita riserva spesso sorprese e novità che mai ci si sarebbe aspettati.

12 km o poco piùdi Costanza Schiaroli

Ti riconosco alla vista del mare. Di quel mare. Il mio. Ti riconosco, assenza, perchè per 12 km o poco più posso guardarti negli occhi. Sei la mia terra. Alla velocità decisa dal treno ho il privilegio di godere di te che ti concedi vanitosa e furbetta. Mi chiami a te ma mi costringi altrove. E il con-gedo è morire un po’. E il tornare è dirti grazie e amarti ogni volta di più. Terra: mi hai generato dal tuo grembo e solo lì, accanto al mare, sono davvero io. Ho allungato le mie radici, evitando gli strappi, per vivere altrove ma tu non ti sei tra-scinata con me. Chissà come sarebbe il mio Sud se fosse Nord. Chissà come cambierebbe fare l’amore con la terra se fosse il contrario. Quan-ti altri vivono di te, assenza? Quali km di mare aspettano gli altri? All’apparenza non lasci tracce ma se guardo io vedo solchi profondi sul tuo seno, terra. Potrei distinguerli. I segni di chi come me torna con passo pesante all’origine, quando è permesso, abitando in un altro luogo che spesso fatica a riconoscere come proprio e in cui spesso fatica a riconoscersi. Sei doppia, assenza, nel pri-varmi di essere a casa ovunque io viva, tranne che con te. Eppure ho il privilegio di avere doppi oc-chi per conoscere perché so da dove vengo e ho bisogno di sapere dove vado per sentirmi bene. Eterna inadeguatezza. Le radici sono una dolce prigione che quando posso abito. Il distacco è una gola in cui non mi calo. Se mi chiedessero di dare nome alla mia casa sarebbe terra madre. Se mi chiedessero di dare nome alla terra che mi ha accolto ora non ne sarei capace perché la sua lin-gua e i suoi frutti non li ho imparati da bambina. Doppia assenza mi costringi a rinominare la mia identità e a farmi essere straniera anche a casa, quando tornando di tanto in tanto sento che mi manca la confidenza di un tempo. Il vociare dei ricordi si mescola con la smania di sapere del pre-sente. Ma saperlo non è viverlo. Mi togli tutto. Ti tolgo tutto. E non sono mai vuota. E non sono mai piena. Né all’origine né all’approdo. Cosa mi fa essere quello che sono? La terra mi plasma più degli uomini e mi comanda. Le sue forme, la sua storia, i suoi rumori fanno la mia identità. Casa perchè in viaggio non ti porto con me? Sei mia solo per 12 km o poco più. E poi resti lì, non ti avvicini e io come un parassita vorrei appiccicar-mi alle tue pareti e vivere di te. Peccato mortale

Danuta Harkabuzik ha scelto una poesia per raccon-tarsi. 24 anni in Polonia e 24 anni in Italia, anche lei è testimone di uno sdoppiamento. Il suo è un perfetto equilibrio tra sofferenza per la terra lon-tana e desiderio di confronto e ricchezza culturale con quella che l’ha adottata. Davanti ad un caffè queste donne si sono narrate la fatica di adattarsi alla nuova vita e il tempo lento della fiducia per la costruzione di relazioni. Tornare e restare. Questa la vicinanza, lo sguardo comune di una storia che parla di (in)giusta distanza e di casa.Ecco la poesia originale e tradotta in italiano.

Le tre parole più strane

Quando pronuncio la parola Futuro,la prima sillaba già va nel passato.Quando pronuncio la parola silenzio,lo distruggo.Quando pronuncio la parola Niente,creo qualche cosa che non entra in alcun nulla.

Di Wislawa Szymborska, poetessa polacca premio Nobel per la letteratura 1996Particolare dell’icona della Risurrezione nella chiesa del nuovo carcere

di Trento

1000 km o poco meno

“L’ (in)giusta distanza”

tornare da te per vivere la tua mancanza, eppure non resisto agli orgasmi offerti alle membra che ti assaggiano nonostante siano vecchie di te. Elenco i miei altrove. Qual è la giusta distanza? Abiterò un limbo finchè non mi deciderò a non essere più tua schiava, terra madre. Lasciami libera di rico-noscermi in quello che vivo lontana da te. Non è un tradimento, il mio. Anche io per te sono assen-te, lo so. Ma da sempre sono e voglio continuare a essere solo tua.

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Frate francescano, taumaturgo, dottore della Chiesa, sant’Antonio da Padova nacque a Lisbo-na, in Portogallo, nel 1195 e morì ad Arcella, nei pressi di Padova, il 13 giugno 1231. Indice della sua straordinaria popolarità è che il suo nome, nelle diverse varianti e traduzioni (Antonio, Tonino, Antonietta…) è in assoluto il più diffuso al mondo. A lui anche in Trentino sono dedicati numerosi edifici di culto, non solo legati all’Ordi-ne francescano. Fra di essi la chiesa parrocchiale del nostro quar-tiere, come pure la strada antistante. Fu costruita fra il 1956 e il 1959, benedetta il 15 marzo 1959, consacrata il 5 giugno 1982. Il progetto è dell’ing. Giovanni Lorenzi (e non dell’arch. Efrem Ferrari, come talvolta è stato erroneamente scritto) su incarico dell’allora parroco Randolfo Sottopie-tra. Le caratteristiche architettoniche dell’edificio ricordano liberamente alcuni aspetti dell’archi-tettura gotica, quali la verticalità, la soffittatura a vele piatte, il netto contrasto fra strutture portanti e pareti di tamponamento. E’ contraddistinto dai triangoli vetrati ai lati del coronamento, il cui disegno geometrico si ripete nella cupola absidale, nel tetto a capanna, nelle tre aperture del grande porticato che timbra la facciata caratterizzata da una elevazione assai pronunciata, nelle lesene cementizie. L’interno, impostato su pianta rettangolare, è ad aula unica, affiancata da una serie di basse cappel-le laterali di cemento e di marmo che svolgono la funzione di contrafforti, il tiburio sopra al presbi-terio è a pianta quadrangolare. Il grande crocifis-so ligneo della parete absidale, il gruppo ligneo della Sacra Famiglia della terza cappella a destra, la statua di sant’Antonio di quella seguente e la statua policroma della Madonna addolorata della terza cappella a sinistra sono di Ermanno Mo-roder. Il dipinto con il battesimo di Cristo della cappella seguente è di Franco Nones. L’affresco di sant’Antonio della fronte destra del presbi-terio, del 1963, è di Marco Bertoldi. Lo stesso Marco Bertoldi che nel 1978-1979 realizzò diversi interventi ad affresco nella vicina chiesa del Sacro

Cuore di Gesù, in particolare il san Giuseppe operaio con Gesù Bambino e la Madonna col Bambino.Giovanni Lorenzi (Lavis 1901-1962), laureatosi in ingegneria civile a Padova nel 1927, ha prodot-to numerosi disegni, progetti e materiali per la partecipazione a concorsi di edifici chiaramente razionalisti. In alcuni testi pubblicati su “Trenti-no”, la rivista della Legione Trentina, negli anni precedenti la Guerra, i suoi progetti sono pro-posti a un pubblico vasto come esemplari della nuova architettura razionalista che lui interpreta spesso lungo linee ed elementi curvi. Le sue prime opere importanti datano verso il 1936 e l’attività professionale, da quella data, è intensa. Partecipa al concorso per il Piano Regolatore di Trento del 1938. Dopo il 1945, calata la tensione che lo caratterizzava, la sua produzione architetto-nica “si appiattisce su moduli ripetuti e anonimi” (Giovanazzi). Oltre alla chiesa di Sant’ Antonio in Bolghera, fra le sue opere principali si ricordano casa Lubich in piazza Cesare Battisti (1936), il Supercinema Vittoria in via Manci (1937), la Casa del Littorio, poi Autorità del Bacino dell’Adige, in largo Porta Nuova e le scuole elementari di Lavis (1938), il Grand Hotel Trento in via Alfieri (1939), il quar-tiere INA-Casa a San Donà (1957).

Pietro Marsilli

Nulla di strano che in una città storicamente così intrisa di religiosità come la nostra, sia le intitola-zioni di alcuni grandi edifici, di culto e non, che di alcune strade, che di artistiche statue siano legate a santi e a sante. Ciò vale anche per il quartiere di oltre Fersina connotato dalla presenza dell’ospedale cittadino, per antonomasia “il” Santa Chiara, del quale la posa della prima pietra risale al 1960 (23 ottobre) e la inaugurazione al 1970 (18 gennaio). La sua intitolazione ben si motiva con il trasferimento fra quelle nuove mura dell’ospedale civile cittadi-no che dal 1811 aveva sede all’inizio di corso Tre novembre, nell’ex convento delle clarisse, e che per questo veniva detto di “Santa Chiara”. E così continuò a chiamarsi, senza soluzione di continuità anche dopo che dalla vecchia sede passò alla nuova.Al centro dell’aiuola-rotatoria antistante l’ingres-so principale, in occasione dell’ottavo centenario della nascita di santa Chiara, il Movimento Fran-cescano Trentino promosse la realizzazione di un monumento bronzeo dedicato alla santa. L’opera fu plasmata da fra Silvio Bottes, il noto ed apprez-zato scultore francescano del convento di Arco nato nel 1921. Come si legge nel pieghevole edito in occasione della sua benedizione (3 ottobre 1993), esso fu realizzato “per evocare ai malati, agli operatori sanitari ed ai visitatori i messaggi di fede e di fortezza cristiana, nei quali si riconosce l’attualità della testimonianza della Santa”. Ovviamente ci si riferisce a santa Chiara di Assisi (1193 - 11 agosto 1253), la co-fondatrice dell’or-dine delle Clarisse, nel quale da allora anche le donne poterono vivere l’ideale francescano.

Al contrario, edificio di nicchia dedicato ad un santo altrettanto di nicchia è la cappella che sorge davanti al Villaggio SOS in cima al colle di Gocciadoro. A seguito della morte prematura del suo sedicenne nipote Adalberto, nel 1857, l’avv. Pietro Bernardelli diede disposizione in un codicillo testamentario dello stesso anno affinché venisse eretta una cappella “sul dosso a sera della casa colonica del maso in Gocciadoro intitolata a sant’Adalberto”. Venne effettivamente eretta solo nel 1873, su progetto dell’ing. Saverio Tamanini e benedetta nel corso di quello stesso anno. Ha pianta ottagonale con atrio sorretto da colonne binate e frontone marcato da archetti rampanti. L’esterno è di pietra riquadrata e ben connessa. La parte superiore della facciata è ornata di archi rotondi sostenuti da eleganti colonnine. La lunetta che sormonta la porta di accesso è fregiata da una semplice croce e dalla scritta “In honorem sancti Adalberti archiep.”. L’interno ha gli angoli deco-rati a fasce; nella cupola della volta sono raffigu-rati gli evangelisti. L’altarino è in marmo bianco. Dal 1975 la cappella non venne più utilizzata e ne cominciò il degrado fisico a incominciare dagli infissi e dalla copertura. Non sono più presenti né la pala raffigurante il santo titolare, dipinta nel 1873 da Eugenio Prati, depositata al Museo Pro-vinciale d’arte, né l’acquasantiera in pietra, divelta dalla sua sede e distrutta per atto di vandalismo. L’edificio è stato acquisi-to gratuitamente dal Co-mune di Trento nel 1995. E’ in corso un restauro, finanziato dal Comune di Trento, da parte della ditta Tiziano e Francesco Nerobutto, di Grigno, su progetto dell’arch. Fran-co Janeselli.Il santo a cui ci si riferi-sce è Adalberto di Praga, benedettino, arcivescovo di Praga, morto martire (956 ca. - 23 aprile 997), veneratissimo patrono della Prussia e della Boemia.

Santi ArteIn Cielo e in … Bolghera

1. Santa Chiara e sant’Adalberto

2. Sant’Antonio da Padova

Page 7: Sguardi sulla città

Scendere dal ring e puntare al dialogoEmergenza, sfida, alleanza: termini ricorrenti in questi ultimi anni nel linguaggio di chi, a vario titolo, si occupa di educazione. Educare non è più un’azione spontanea, ma è diventata un problema, una sfida da affrontare con nuove risorse e nuovi strumenti. Si tratta, infatti, non soltanto di resiste-re all’urto inevitabile generato dallo scontro inter-generazionale, ma anche e soprattutto di costruire solide reti di sostegno e di dare vita a situazioni in cui fermarsi per trasformare lo scontro in un incontro aperto al dialogo e alla comunicazione autentica.In questo senso si è mossa “Educa”, manifesta-zione nazionale sull’educazione nata tre anni fa a Rovereto, portavoce di una preoccupazione ormai diffusa a macchia d’olio, ma, al tempo stesso espressione di quanto di positivo si sta cercando di fare e “laboratorio” di nuove pratiche. Tale iniziativa ha saputo, infatti, creare un luogo in cui incontrarsi per riflettere e confrontarsi sul ruolo rivestito dagli adulti nel rapporto problematico con le nuove generazioni. Ormai non più modelli di comportamento né punti di riferimento precisi e affidabili, gli adulti appaiono essi stessi prota-gonisti di una crisi che li vede sempre più privi di quella credibilità e autorevolezza che li rendereb-be agli occhi dei giovani un esempio da seguire. Nasce da questa consapevolezza l’impegno del Comitato per il progetto culturale della Cei che nel 2009 ha pubblicato un rapporto-proposta intitolato proprio “La sfida educativa”. Dopo un’attenta riflessione sullo stato dell’educazione, il testo evidenzia la necessità di creare alleanze in grado di coinvolgere attivamente tutti i sog-getti che hanno a cuore il benessere delle future generazioni e propone linee di intervento che ne

orientino il percorso per riportarlo sulla giusta rotta. Ritrovare slancio e motivazione risulta tuttavia compito non facile quando il futuro appare come una minaccia che priva i giovani di ogni prospet-tiva e li spinge ad appiattirsi sul presente. Ne ha parlato il filosofo Umberto Galimberti nel suo “L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani”, testo dedicato all’analisi del disagio giovanile nelle sue varie manifestazioni. Il rimedio individuato coincide con il compito che da sempre spetta agli adulti: insegnare “l’arte del vivere”, aiutando i giovani a riconoscere le pro-prie capacità per poi esprimerle e lasciarle fiorire liberamente. Occorre quindi recuperare anzitutto fiducia nella bontà dell’azione educativa e nella capacità di trasmettere e comunicare valori in un momento storico in cui le tradizionali agenzie educative - famiglia, scuola, Chiesa, mondo delle associazioni, del volontariato, dello sport - fanno fatica a mettere in campo un agire responsabile che valorizzi la dimensione progettuale implicita nell’azione educativa. Educare, infatti, è possibile quando lo sguardo si allunga verso l’orizzonte e ci si adopera per contrastare l’affermarsi di quelle “passioni tristi” - incertezza e disillusione - che sembrano dominare la scena. Tornare ad appassionarsi, mettersi in gioco per costruire il futuro, investire sulla formazione inte-grale dell’uomo: è questo il messaggio contenuto anche negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 pubblicati da pochi mesi e dedicati proprio all’arte delicata e sublime dell’educazione. Non mancano quindi voci autorevoli provenienti dal mondo laico e da quello cattolico a indicare un percorso difficile ma necessario: riportare l’attenzione al cuore dell’educazione intesa come azione generatrice e formativa per eccellenza che chiama gli adulti ad un impegno responsabile e non più trascurabile. Perché di educazione si torni a parlare come di un incontro fecondo per entrambe le parti del rapporto, in un processo di accompagnamento e arricchimento reciproco. Perché l’educazione cessi di essere un problema, prima di accorgerci che forse non abbiamo più voglia di dedicarci a quello che è il compito più bello e affascinante che possiamo sperimentare: dare la vita ad un altro e poi aiutarlo a crescere libero e autonomo.Non si tratta solo di una questione terminologica - sfida o arte? -: le alleanze e le modalità che per-mettono di calare nel reale l’educazione devono la

Una nuova alleanza tra generazioni Educare: cosa significa oggi? Domanda a cui non è facile rispondere, ma che non si può eludere se è vero che la società attuale sembra essere caratte-rizzata da un disagio esistenziale che riguarda non soltanto i giovani ma anche e soprattutto gli adul-ti. Ne abbiamo sentito parlare a “Educa”, mani-festazione nazionale sull’educazione nata tre anni fa a Rovereto, e pochi mesi fa è stata pubblicata la nota dei vescovi italiani per il prossimo decennio, dedicata proprio all’educazione, a testimonianza della necessità di riconoscere il valore dell’azione educativa.Risulta evidente, infatti, che nel rapporto tra ge-nerazioni non esiste più una linea di demarcazio-ne precisa a segnare il confine: di fronte a giovani che non riconoscono più l’autorità di genitori e insegnanti ma che, al tempo stesso, hanno biso-gno di punti di riferimento precisi e affidabili, capaci di orientare il loro percorso e di aiutarli a distinguere ciò che è buono, bello e positivo per la loro crescita, troviamo un mondo adulto sempre più in difficoltà nell’offrire modelli di comporta-mento nei quali potersi identificare. Esso, infatti, sembra aver ormai perso la consa-pevolezza del valore insito nel dovere di educare, che implica la capacità di assumersi un impegno responsabile e fedele nel tempo al rapporto stes-

so. Perché compito dell’adulto è quello di esserci e mostrare fermezza di fronte ai tentativi dell’ado-lescente di mettere alla prova il suo equilibrio e la sua autorevolezza; suo dovere è quello di stabi-lire regole e limiti con i quali l’adolescente deve confrontarsi per conquistare la propria autonomia e indipendenza. Solo grazie a questo incontro/scontro, infatti, egli avrà la possibilità, lungo il suo percorso di crescita, di imparare a conoscersi e a differenziarsi, scoprendo chi è e quali sono i talenti e le capacità che lo rendono unico. Oggi invece sembra prevalere la cultura dell’omolo-gazione che appiattisce la creatività e ostacola l’intraprendenza dei giovani mentre la nostra incapacità di far capire il senso del limite li porta a immergersi in qualsiasi esperienza senza possede-re la maturità e le categorie necessarie per capire le conseguenze delle proprie azioni. Venuto meno quindi al proprio dovere, l’adulto sembra aver dimenticato anche il diritto delle nuove generazioni a essere educate e appare invi-schiato egli stesso in una profonda crisi d’identità che trasforma e modifica le caratteristiche tipiche dell’incontro con l’adolescente: non più rapporto asimmetrico ma tra pari, come se fosse possibile conquistare la fiducia e l’affetto dei giovani solo diventando loro amici e comportandosi come tali. È evidente quindi di quanto bisogno ci sia di educazione, ma soprattutto di testimoni convinti e coerenti della bontà dell’azione educativa: edu-care infatti non può essere un’azione superficiale e astratta, dove le parole non trovano corrispon-denza nei fatti, un’azione che non si cala nel reale, ma rimane sterile e senza impegno, lasciata al caso o alle circostanze, e quindi priva di direzione o meta o con una data di scadenza. L’educazione, invece, è (dovrebbe essere) un’azio-ne intenzionale che chiede a ognuno di mettere le proprie capacità a servizio dell’immenso bene rappresentato dai nostri figli affinché quel bene e la ricchezza racchiusa in ognuno abbia la possibi-lità di esprimersi. Educare quindi significa dedicarsi alla realizza-zione di un progetto nella cui utilità dobbiamo credere profondamente se vogliamo che vada a buon fine. Piantare un seme e sperare un giorno di godere di frutti maturi e saporiti senza curarci di proteggerlo non basta. Nutrire quotidianamen-te il terreno per aiutare quel piccolo germoglio a crescere diritto e rigoglioso: questa invece è la direzione da seguire per permettere all’educazione di rispondere alla sua autentica vocazione, miglio-rare il nostro modo di stare al mondo.

Patrizia Niccolini

loro efficacia non alla procedura, ma alla passio-ne e all’entusiasmo di chi giorno dopo giorno si spende gratuitamente per il bene dell’altro.Educare quindi è possibile se smettiamo di indossare i guantoni dello sfidante e scesi dal ring abbassiamo la difesa per guardare in faccia chi abbiamo di fronte e conoscerlo. Solo nell’in-contro con la sua libertà, aprendoci all’ascolto e al dialogo, troveremo il modo di allearci con i giovani perché se è vero che l’azione educativa è (deve essere) un’azione corale, la prima alleanza da costruire è proprio quella con loro.

Il coraggio di educare

Page 8: Sguardi sulla città

la solitudine, il sentirsi soli non è uno stato d’animo solamente legato all’assenza di qualcuno, ma soprattutto è il frutto di un meccanismo “ad escludendum”. Stare soli infatti a volte è piacevole, è importante per riflettere, ci aiuta a valutare con la dovuta tranquillità delle situazioni difficili, ci aiuta nel prendere decisioni. Questo stare soli, questo stare un po’ con se stessi per ripercorrere esperienze passate, storie ed eventi di vita vissuta è frequente nelle persone anziane, ma non è mai isolamento fine a se stesso, solitudine. Altra cosa è la solitudine a cui spesso, troppo spesso la persona anziana è “obbligata”, costretta da un mondo che non lo riconosce più come persona capace di incidere sull’evoluzione degli eventi, sui meccanismi, sulle “regole” che caratterizzano la società in cui vive: è qui che si compie l’operazione di esclusione, di emarginazione. In questo contesto si è maturata fra l’indifferenza di molti quella morte nella solitudine tanto presente da scoprirla a distanza di giorni. Di fronte a questi eventi abbiamo perso tutti, ha perso “l’animale sociale” che è in noi, ha perso la comunità, il vicinato, la rete di welfare sempre più smagliata, sono venuti meno i valori di solidarietà. La chiave di volta è recuperare con forza i valori di una società solidale capace di contrastare le logiche, le azioni che tendono ad escludere per favorire quelle inclusive. Il vecchio non può essere solo un problema dei servizi sociali, una

questione di rete dei servizi; anche questo, ma deve divenire sempre più una risorsa per sviluppare, rafforzare gli elementi

solidaristici della nostra società condannata ad un progressivo e

costante invecchiamento. Non può considerarsi solidale una comunità che esclude i suoi vecchi e i diversi perché alla lunga si troverà a

non essere nemmeno comunità ma semplice sommatoria di individualità.

Renzo Dori

Un Ponte sulla fantasia Un itinerario suggestivo

Chi transita per la Bassa Valsugana forse non ha mai notato il grandioso ponte di pietra, una struttura spettacolare, un arco perfetto di oltre 40 metri di luce, completamente staccato dalla parete rocciosa. Le foto non possono rendere il fascino di questa opera d’arte della natura. Le misure sono notevoli: piano parabolico superiore oltre 70 metri, larghezza circa 4 metri, spessore 12 metri, arco interno circa 60 metri, altezza dal suolo sottostante 50 metri. Si è formato per crolli successivi della volta di un profondo “covolon” (grotta aperta verso l’esterno), dovuti ai fenomeni carsici che hanno interessato l’isolata mole del monte Lefre (1.385 m). Per tutta l’escursione si godono vedute sulla Val-sugana, i dirimpettai contrafforti dell’Altipiano di Asiago con i Castelloni di San Marco, ed il paese di Ospedaletto e interessanti varietà di piante.Un’antica leggenda, che qui sotto riportiamo, è legata a questo ponte.Ci si arriva: dalla strada statale 47, uscita Ospeda-letto Valsugana. Arrivati in centro paese, muni-cipio, seguire la segnaletica Ponte dell’Orco per

La leggenda del Ponte dell’Orco

Il popolo, sempre immaginoso, vi in-tessè sopra la seguente leggenda: “Un pecoraio, di non si sa quale regione, arrivò in antichi tempi sulle pendici sovrastanti al luogo, dove sorse poi il paese di Ospedaletto, conducendovi al pascolo le sue pecore. Era uno di quei pecorai nomadi che si aggiravano indisturbati sulle nostre allora libere montagne in cerca di pabulo per il loro gregge. Va e va, il pecoraio si trovò un giorno sul ciglione di un’alta pendice, donde era impossibile transitare al basso, e risalire il monte era oltremodo pericoloso per uno scoscendimento di pietre cadute nella notte, durante un furioso temporale. Il povero pecoraio temette per sè e per le sue pecore. Che fare?... Idolatra come era il pastore, pensò non vi fosse partito migliore che invocare l’aiuto di un essere ultramon-diale e potente, che valesse a liberarlo

circa 2 km, si trova un piccolo parcheggio, e di fronte la partenza ben segnalata per il Ponte dell’Or-co. Il sentiero, che si inoltra nel bosco di pino nero e silvestre, è segnato, ben agibile e senza particolari difficoltà, vi sono alcuni tratti relativamente ripidi. Il tempo per l’escursio-ne è di circa un’ora e mezza andata e ritorno. Nel ritorno si può sostare alla Madonna della Roc-chetta, chiesetta votiva del 1640, con adiacente parco giochi e area attrezzata di tavoli e panche.

Angela Zortea

dal pericolo in cui si trovava. E invo-cò l’“Orco”, il dio dell’inferno e dei giuramenti!... Il grido fu esaudito. S’aprì infatti la terra, e dall’apertu-ra uscì un nembo di fumo e odore di zolfo, e davanti al pastore esterefatto comparve Plutone (il vero nome dell’Orco) in figura di un uomo lungo lungo, scarno scarno, con una folta barba, occhi di fuoco, mento aguzzo, naso aquilino, bocca ampia e sogghignante, coi piedi caprini e le mani somiglianti ad artigli di aquila. - Tu mi hai chiamato, o pecoraio - gridò con voce aspra e chioccia il re dell’Aver-no. - Che vuoi? - Domando aiuto a vostra maestà infernale per uscire da questo pericolo - rispose tremante il pastore. - Quale pericolo? - Vorrei passare là col mio gregge; ma il burrone è alto, scosceso, non transita-bile, e ritornare indietro non posso. - Sono pronto al tuo desiderio; ma tu devi cedermi l’anima tua... Solo a tal patto ti salverò!

- E l’anima mia ti cedo. - Giura! - Giuro! - Ebbene. Guarda!... Il pecoraio guardò, ed ecco sorgere due enormi piloni di roccia e sopra i piloni un gran masso che faceva da ponte. - A rivederci all’Erebo, - disse l’Orco. - Appena tu sarai morto, verrò a prende-re la tua anima, che sarà mia preda. - E sia ! - confermò il pecoraio risoluto. Plutone diè un fischio acutissimo, che rimbombò per le montagne circostanti, e s’inabissò fra un alto nembo di fumo. Il pecoraio passò allora il ponte con le sue pecore e fu salvo. Il ponte rimase, e fu detto e si dice tuttora il “Ponte dell’Orco”.www.comune.ospedaletto.tn.it

Teniamoci compagnia La solidarietà come antidoto alla solitudine

Non molto tempo fa sulla cronaca locale appariva la notizia che una persona anziana era stata trovata morta nel suo appartamento dopo quattro giorni. Nella quotidiana fretta con la quale si sfogliano i giornali non ho dato molto peso alla cosa, ma poi ripensandoci molti interrogativi hanno cominciato ad affollare la mia mente. Stiamo vivendo in una società che progressivamente e inesorabilmente sta invecchiando, bastano alcuni dati per ricordarlo: l’indice di vecchiaia (rapporto fra ultra 65enni e giovani fino a 14 anni) nel 1962 era pari al 42%, nel 2009 era pari al 125% e nel 2032 raggiungerà il 190%.

In questo contesto i fenomeni di solitudine per le persone anziane, ove i rapporti familiari si sono assottigliati moltissimo, diventano sempre più frequenti tanto da rappresentare una evidenza sociale di non facile soluzione. Il sentirsi isolati, tagliati fuori dalle dinamiche della vita quotidiana, sapere che puoi contare poco o nulla per i “valori correnti” della società in cui vivi, intristisce, lo rende inaccettabile. Si può essere soli anche in mezzo alla gente, in una comunità quando nessuno più ti guarda negli occhi o ti rivolge una parola di sostegno. Non necessariamente la vicinanza fisica di una persona risolve la tua solitudine se non c’è relazione. Quindi

Ultra 65enni:

• nel 1961 erano circa 10% • nel 2010 sono il 19% • nel 2030 oltre il 25%

Ultra 80enni:

• nel 2010 sono il 6,3% circa 30.000 • nel 2030 circa il 10% oltre 53.000

Page 9: Sguardi sulla città

Solo, osservo le gocce scivolare sulla vetrata,

ma nessuna è quella che attendo.

Un altro giorno è passato

e il timido sole invernale

tra le nubi tramonta ridendo

Come vendetta di una mente debole

il potere ingannevole dell’arroganza

crea incurabili ulcere nella nostra personalità

www.fovoltn.it

Ideazione, testi, foto, progetto grafico a cura dei partecipanti al Corso di giornalismo organizzato dall’Associazione Oratorio S.Antonio - Trento sotto la guida dei docenti, in particolare Fulvio Gardumi per la supervisione generale e Lucia Bort per l’impaginazione grafica.In copertina: elaborazione di una foto di Dino Panato.

Maurizio Avi, Mauro Avi, Novella Benedetti, Alessandro Bitteleri, Romana Borgogno, Elena Defant Robecchi, Anna Degasperi, Renzo Dori, Alessandro Gremes, Danuta Harkabuzik, Remo Liberi, Cristina Malacarne, Pietro Marsilli, Lucia Menato, Anna Mussi, Patrizia Niccolini, Ezio Risatti, Giada Saltori, Costanza Schiaroli, Angela Zortea.

Con il contributo di:

Alessandro Bitteleri

www.oratorio.parrocchiasantantonio.org