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Sotto il segno di venere anteprima

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Sotto il segno di VenereGiulia, figlia dell’imperatore Augusto

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Giulia Sulpizi

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Coordinamento editorialeLeandro del Giudice

Cura graficaAnna Bartoli

In copertinaThe Belvedere di John William Godward, (coll.privata)

ISBN 978-88-8103-837-4

© 2014 Edizioni DiabasisDiaroads srl-Vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia

telefono 0039 0521 207547www.diabasis.it

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Ai miei genitori,

perché mi hanno sempre aiutata e sostenuta

e perché per me ci sono sempre, nel bene e nel male.

E a mio nonno Diego,

perché è stato tra i primi a leggere questo romanzo

e perché spero un giorno di essere come lui.

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proloGo

10 a.C.

Era notte e un tranquillo sopore abbracciava gli stanchi corpi in terra; quieti erano i boschi e le frementi distese

del mare, nell’ora in cui le stelle volgono al mezzo del loro corso…Eneide, libro IV, verso 522-524

Notte. Scendo nelle strade senza farmi sentire o vedere. È tutto così confuso visto alla luce della luna. Cammino lentamente senza curarmi delle pozzanghere che mi bagnano leggermente l’orlo della veste.

L’Urbe è molto più silenziosa di notte. È come se volesse a tutti i costi man-tenere un segreto impronunciabile, il suo segreto. Nessun suono o rumore si ode e, tra le vie nascoste alla luce, dei piccoli cani si stanno rannicchiando gli uni sugli altri.

All’improvviso dalla casa esce una figura incappucciata. So bene chi sia e spero di essermi sbagliata sul suo conto. Vorrei che non fosse uscito da casa e che non si stesse dirigendo dove so io.

Incomincio a seguirlo e la sua sagoma diventa ben distinguibile alla luce della luna. Studio i suoi movimenti calmi e sereni. Vedo più volte la sua testa girarsi verso di me e prontamente mi nascondo dietro qualche vicolo. Ho come l’im-pressione che sappia di essere seguito, ma non si ferma. Anzi, accelera il passo e continua a nascondersi nell’ombra. Il mio cuore batte talmente forte che credo stia per uscire dal petto. La paura, l’ansia, l’incertezza si mescolano in me con tale confusione che perdo la cognizione del tempo e il mondo pare fermarsi. Mi guardo intorno e lui è scomparso. Il tragitto mi è sembrato breve e realizzo che probabilmente sarà entrato in un’abitazione. La cosa più importante è che non abbia capito che lo stavo seguendo.

All’improvviso una mano mi ferma prendendomi per la vita, mentre l’altra immobilizza il mio braccio libero perché con il sinistro tengo un lieve velo che mi copre il viso.

«Fatti vedere». La sua voce è così cambiata che stento a riconoscerla. Non rispondo. Sono troppo impaurita e tutto inizia a turbinare. Non ho mai credu-to di poter essere scoperta, ma evidentemente non sono stata così cauta come pensavo.

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«Non mi hai sentito? Togliti quel velo!». La sua voce è imperiosa e tira velocemente fuori dalla manica un coltello.

«Voltati». Continuo a tenere gli occhi bassi. Il suo coltello rimane puntato alla gola ed io sono costretta ad obbedire al suo ordine.

Con lentezza tolgo la semplice spilla che tiene il velo, facendolo cadere scom-posto sulle mie spalle. Abbasso la testa. Mi vergogno così tanto di quello che ho fatto. Anche se non vede i miei occhi mi ha già riconosciuta dai riccioli scuri e brillanti. Tendo una mano verso di lui e il mio viso si specchia nel bracciale dorato che indosso.

Nessuno di noi due parla e sento un unico sussurro. «Giulia».Finalmente alzo il viso e lo guardo negli occhi. Le mie paure svaniscono da-

vanti all’uomo che amo più di tutti nella mia vita.«Giulia» dice di nuovo e sorrido nell’ombra.

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prima parte

FiGlia

33 a.C.-29 a.C.

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L’inizio di tutto

Ma se tale è il tuo desiderio di conoscere le nostre sventure…inizierò.

Eneide, libro II, versi 10-13

Quando vidi mio padre per la prima volta ero come incantata. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Fino ad allora non avevo mai sentito la sua mancan-za: era come una figura onnipresente, ma assente al tempo stesso. Non sapevo come fosse fisicamente, cosa gli piacesse e soprattutto se mi amasse. Mi aveva abbandonata alle cure di mia madre, malata d’infelicità fin da quando era stata lasciata da lui e dal matrimonio con la mia matrigna: Livia. Anche lei era un mi-stero per me e speravo che la sua gentilezza e bontà d’animo fossero com’erano state narrate da ogni ospite della nostra casa. Ma quando osservai mio padre per la prima volta non pensai al fatto che avesse abbandonato mia madre per un’altra donna o che avesse dimenticato la mia esistenza per sei anni.

Vidi solo un giovane uomo biondo, con occhi azzurri e intensi, uno sguardo di ghiaccio, talmente freddo e implacabile che non riuscii a capire come molti potessero guardarlo negli occhi. Il suo corpo era molto magro e segnato dalla malattia. Avevo sentito dire che Cesare fosse sempre malato e che spesso si ri-tirasse nelle sue stanze per intere giornate, per poi uscirne momentaneamente guarito.

L’uomo mi si avvicinò e mi sfiorò i capelli. «Giulia» lo sentii sussurrare. Per un solo secondo comparve l’ombra di un sorriso sul suo volto e immediatamente mi rallegrai. Egli però si fece subito serio e si rivolse a mia madre. «Scribonia» la salutò e lei non accennò ad abbassare lo sguardo. Mi chiesi immediatamente che cosa sarebbe successo se mio padre avesse deciso di portarmi via dalla mia casa. Non ero mai stata fuori da essa per più di un giorno e pensare che avrei abban-donato mia madre mi rattristava sempre più. «Sono venuto qui per prendermi cura di mia figlia Giulia e per portarla via da questa casa. La tua stessa presenza rattrista tutto ciò che c’è qui dentro e credo che mia figlia si troverà più a suo agio con giovani del suo stesso rango che con vecchie matrone come te che, a quel che si dice, non fanno altro che piangere». Questo discorso era quello più crudele che avessi mai sentito pronunciare in tutta la mia vita. Sospettavo che sarebbe successo. Non capivo quale altrimenti potesse essere il motivo della sua visita, dato che non si era mai interessato di me.

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Sentii di fianco a me mia madre che serrava i pugni e le serve che si avvici-navano a lei. Quando mi voltai non vidi più Scribonia, ma una donna stanca, triste, privata di ogni forza o conforto. Il capo basso e chino nascosto dai capelli m’impediva di osservare le lacrime che sicuramente le stavano solcando le guan-ce, ma potei udire i suoi disperati singhiozzi e la sua flebile voce che cercava di trattenersi senza successo. «Non puoi portarmela via» diceva con un tono di voce talmente basso da poter essere udito con estrema difficoltà. Subito iniziò a piangere, alzò il viso così dolce e delicato, eppure tanto sconvolto da emozioni contrastanti: paura, odio e rabbia si agitavano dentro di lei come un mare in tempesta. Anch’io fui spaventata da quelle emozioni così forti ed evidenti e fui costretta a fare un passo indietro.

«Non riesci neanche a dominare le tue emozioni, Scribonia. Dubito che tu sia la persona più indicata per crescere una bambina. Per questo ho pensato che Livia sia una madre perfetta per lei».

Quest’ultima dichiarazione di mio padre mi sconvolse e non riuscii a capaci-tarmi del tempo. Il battito del mio cuore si fece più forte e insistente, i movimenti di coloro che mi stavano attorno rallentarono e tutto si fece sempre più confuso. Vidi le ancelle sostenere mia madre che cadeva per terra, le sue grida sconnesse e prive di ogni logica, il suo sguardo terrificante che mi squadrava e che si spostava famelico, ora su di me ora su mio padre. Sentii delle braccia forti e ossute che mi portavano via e la mia stessa voce mi giunse da lontano. Molti in seguito mi rac-contarono che avevo invocato il nome di mia madre e pianto a lungo, ma io non lo ricordavo. Quei lunghi e strazianti momenti scomparvero a poco a poco col passare dei giorni, insieme al dolore sordo e accecante che mi bruciava il petto. Fu allora che la mia vita iniziò veramente.

«Il tragitto fino a Velletri è lungo. Mangia qualcosa! Ti sentirai molto me-glio!». Per tutta la strada mio padre aveva tentato di farmi mangiare e di parlare con me, ma senza successo. Non avevo aperto bocca fin da quando eravamo partiti ed ero troppo sconvolta. Fino a pochi secondi prima avevo pianto e nem-meno le parole gentili di Ottaviano erano riuscite a calmarmi.

«Dovrai pur parlarmi prima o poi. Sono tuo padre e anche se ciò non ti aggra-da è un dato di fatto». Per molto tempo restammo in silenzio, ma la fame si fece sentire presto. Presi un pezzo di pane che mi era stato offerto da lui, ma evitai accuratamente di guardarlo negli occhi.

«Immagino che questo sia il primo passo verso la pace» mi disse, ma non sorrisi. Mi limitai a guardarlo e annotai minuziosamente ogni suo gesto. Osservai che prendeva in mano gli oggetti con estrema grazia, come se avesse paura di romperli da un momento all’altro. Vidi che il suo sguardo, sebbene fosse sereno, non era allegro e mi chiesi se egli sapesse che cos’era veramente la felicità.

«Sono stanca». Involontariamente parlai. Il suo sguardo stupito fu subito so-stituito da uno compiaciuto. Mi accoccolai contro il suo petto e chiusi gli occhi,

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assaporando quel piccolo momento di felicità che durò ben poco. Dopo qualche secondo, infatti, egli si scostò, come bruciato dai miei capelli ricci e setosi. Addo-lorata dal suo rifiuto mi ritrassi e mi richiusi in me stessa.

Un infinito silenzio si abbatté su di noi e per molto tempo ci fissammo come due estranei. Quando il silenzio si fece insopportabile mi decisi a parlare. «Rac-conta una storia» lo pregai. Evidentemente la mia richiesta gli risultò talmente insensata che non mi rispose neanche all’inizio. Poi mi chiese che cosa mi doves-se raccontare. «Racconta la mia nascita».

«Non ti ha già detto tutto tua madre?».«No» risposi seccamente. «Lei non mi ha mai detto niente». Un momento di

silenzio. «Capisco» mi disse e così prese a raccontare.

Quando tu nascesti la giornata si annunciava insolitamente calda per quella stagione. Tua madre Scribonia aspettava con ansia la tua nascita e per me quello era un momento di gioia. Speravo di avere l’erede che tanto desideravo e la mia carriera politica stava migliorando giorno dopo giorno. Ma un giorno, mentre tor-navo alla villa di Velletri, rincontrai una giovane donna di cui mi ero innamorato tempo prima. Il suo nome era Livia Drusilla. La sua famiglia paterna, la gens Livia, non era alleata del mio prozio e padre adottivo Giulio Cesare e nemmeno quella materna, la gens Claudia: entrambe, infatti, erano tra le famiglie aristocratiche più potenti di Roma e guardavano con preoccupazione alla scalata al potere di Giulio Cesare. Per questo, nonostante fossi stato profondamente colpito da lei, non avevo mai osato chiederla in moglie. Ma quel giorno la vidi sempre più bella e solare e immediatamente mi sembrò la persona migliore che esistesse sulla terra. Per giorni non dormii e non pensai ad altro che a lei, ma il parto si avvicinava e l’emozione cresceva. Quando tua madre ti diede alla luce io ero a casa di Livia, a discutere con lei del nostro matrimonio. Anche lei era sposata e, come tua madre, era incinta. Era innamorata di me proprio come io lo ero di lei e decidemmo di sposarci. In quei giorni avevo fatto di tutto per cercare di divorziare e di chiedere Livia in moglie. Il giorno della tua nascita avevo appena annunciato a Livia che ci saremmo uniti in matrimonio dopo circa tre giorni ed entrambi eravamo molto felici. Arrivò la notizia del parto e con essa il crollo di tutte le mie speranze.

Si fermò per osservare la mia reazione e lo guardai incuriosita, esortandolo in silenzio a continuare.

Per la successione la legge Romana stabilisce che sia necessario un erede ma-schio e quindi tu, in quanto donna, non avresti potuto ereditare il mio patrimonio e le mie ricchezze. Decisi quindi di non indugiare oltre e andai alla casa di Scribonia. Dicono che quando ti tenni in braccio per la prima volta compii un gesto più unico che raro in me: sorrisi. Nessuno mi aveva mai visto sorridere veramente, con il cuore che trabocca di gioia per essere diventato padre. L’unica cosa che rovinò quel

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momento fu il racconto del mio amore segreto. Lì spiegai a tua madre i miei senti-menti per Livia e la pregai di comprendermi, ma l’unica cosa che ottenni fu il suo odio. La lasciai per un’altra donna, è vero. Ma non ho mai voluto abbandonarti. Non ti ho subito tolta da lei perché sapevo che sarebbe stato un duro colpo e un peso troppo grande da sopportare, ma ora sei grande abbastanza per capire che tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto per il tuo bene.

Il suo racconto terminò così e rimasi senza parole. La sua schiettezza e sin-cerità mi colpirono come una lama affilata. Nemmeno io capivo più perché gli avessi chiesto di narrarmi proprio quella storia. Forse perché volevo sentire l’im-possibile: mio padre non ci aveva abbandonate il giorno in cui ero nata e non per un’altra donna. Non capivo l’amore folle, cieco e ostinato che l’aveva spinto a compiere quel gesto e sperai di non innamorarmi mai.

Finsi di dormire per il resto del tragitto e, arrivati a Velletri, scesi dalla por-tantina con un salto.

Non mi voltai neanche per vedere che cosa avrebbe pensato mio padre e su-bito sfrecciai verso l’entrata della villa. All’improvviso mi fermai perché davanti a me c’era la donna più autorevole e decisa che avessi mai visto. «Tu devi essere Giulia» disse semplicemente senza neanche soffermarsi a guardarmi in faccia. Mio padre venne subito dopo di me e non potei fare a meno di notare che aveva occhi solo per lei. Immediatamente capii chi fosse quella donna: Livia, la rivale di mia madre, l’unica donna che mio padre amasse veramente. Era diversa da ogni matrona che avevo mai visto: il suo sguardo era altero e deciso, ma al con-tempo dolce e armonico; i capelli rossicci la facevano assomigliare ad una mera-vigliosa ninfa, ma le donavano un’aura minacciosa; la sua statura era notevole e la faceva sembrare più anziana e saggia.

«Bentornato, marito» lo salutò con un sorriso talmente falso da farmi cresce-re nel petto una rabbia cieca e sorda. Era possibile che mio padre non riuscisse a vedere come Livia lo stava manovrando? Avrebbe sempre fatto ciò che lei desiderava?

Non riuscii a darmi una risposta.«Livia, ti presento mia figlia Giulia». La voce di mio padre era pacata e con-

trollata, eppure pronunciava quelle parole senza emozione, senza un sorriso, senza alcuno sprazzo di felicità.

«L’avevo immaginato. Deve aver ereditato il temperamento selvaggio della madre, ma non ti preoccupare: mi prenderò io cura di lei quando sarà il mo-mento». Il suo ennesimo sorriso di circostanza m’infuse un’antipatia per quella donna così forte che non riuscii a comprendere da dove essa nascesse.

«Credo che sia giunto il momento di farle conoscere i suoi nuovi fratelli. Tu non credi Gaio?» chiese la mia nuova matrigna a mio padre, evitando accurata-mente di chiamarlo con il nome del suo padre adottivo Giulio Cesare. «Credo che Giulia ne sarà felice».

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Livia mi osservò attentamente e così mi profusi in una perfetta imitazione dei suoi sorrisi di circostanza. La matrona mi condusse verso l’ingresso della villa su cui ci aspettava un’altra donna. Quest’ultima invece aveva un aspetto dimesso e il suo sguardo glaciale era così simile, eppure al contempo diverso, da quello di mio padre. Il colore degli occhi era il medesimo, ma l’espressione serena e insicura di lei era in netta contrapposizione con quella fiera e altera di Cesare.

«Giulia, lei è mia sorella Ottavia. Sorella, questa è mia figlia Giulia» la pic-cola presentazione di mio padre mi fece sorridere e, evidentemente, il mio stato d’animo contagiò Ottavia, che ricambiò il sorriso. «Benvenuta a Velletri» mi salutò e mi offrì la mano. Indecisa sul da farsi la presi con riluttanza e mi accorsi immediatamente di quanto questa fosse calda.

Una volta all’interno dell’abitazione rimasi costernata: mi ero aspettata sale lussuose e ampie, invece avevo davanti ai miei occhi spazi angusti e modesti, tipici di una qualsiasi fattoria nei pressi di Roma.

«Rimani qui» mi ordinò Livia senza darmi ulteriori spiegazioni.Dopo qualche secondo ella tornò con tre bambini. Il primo era quello più

vicino a lei, a cui sfiorava la spalla con tenerezza, ed era il più grande probabil-mente. «Lui è mio figlio Tiberio» lo presentò Livia e capii immediatamente che doveva essere più grande di me di qualche anno, data la sua elevata statura. I suoi occhi erano grandi e inespressivi e tutto in lui esprimeva disagio e paura, anche se non sapevo con certezza di cosa.

«Lui è Druso». Sospinse con ben poca grazia davanti a me un bambino che avrebbe potuto essere facilmente mio coetaneo. Il suo sguardo era dolce e sereno, amorevole, anche se non mi conosceva. Il suo spirito era libero: ciò si capiva da come si muoveva e dai sorrisi semplici e spontanei che regalava a chiunque. La sua allegria era contagiosa, irrefrenabile e magica. La sua anima era affine alla mia: si vedeva che non era amato dalla madre, così attaccata invece al fratello maggio-re, ma come questo gli importasse ben poco trapelava dalla sua aria impertinente.

«Egli invece è tuo cugino Marcello». Non sapevo nemmeno di avere un cugi-no. Mia madre evidentemente non voleva che lo sapessi, eppure non so perché. Egli era lo specchio di Ottavia, mia zia. Con i suoi occhi azzurri e tristi avrebbe di certo impietosito chiunque, i suoi capelli castani chiari simili a quelli della madre assomigliavano a loro volta a quelli di mio padre e il suo portamento elegante lo faceva sembrare molto più grande di quanto fosse in realtà.

«Loro invece sono tue cugine: Claudia Marcella maggiore, Claudia Marcella minore, Antonia maggiore e Antonia minore». Le quattro ragazze indicate sbucarono da dietro Ottavia e Livia. Tutte e quattro erano molto simili tra loro: alte, capelli chiari e occhi castani. Nessuna di queste mi sorrise ed io mi sentii subito a disagio: non capivo perché fossero così astiose nei miei confronti.

«Dov’è Iullo?» chiese mio padre intervenendo nella situazione con insperato tempismo.

«È in città al momento. Mi aspetta a casa». La voce di mia zia si fece più bassa

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e vidi il viso di mio padre oscurarsi. Lo sentii sussurrare alla sorella che, se vole-va, poteva trasferirsi nella loro casa in città, guadagnandosi una temibile occhiata da parte di Livia, ma la sorella liquidò le sue preoccupazioni con un cenno della mano e un sorriso. Probabilmente la mia aria spaesata dovette convincere Ot-tavia a portarmi via da tutti loro per farmi vedere le mie stanze. Arrivata in cima alle scale mi chiese: «Sopravvissuta?». Le sorrisi.

«Non è stato facile conoscere così tante persone in così poco tempo. Solo qualche ora fa ero a casa di mia madre e adesso…» m’interruppi bruscamente. Non volevo dirle che avrei fatto volentieri a meno di venire in un posto che non conoscevo affatto con persone che mi avevano ignorata per gran parte della mia vita fino ad allora. Non capivo quell’interessamento improvviso da parte loro e pensai che Ottavia fosse la persona più adatta a cui chiedere. «Perché sono qui?».

La mia domanda sembrò un po’ strana a mia zia che dopo qualche secondo mi rispose. «Tuo padre voleva educarti e vivere con te. Anche se non sembra ti vuole molto bene». Una piccola smorfia si dipinse sul mio viso e mia zia sorri-se. Ormai eravamo davanti ad una piccola porta e Ottavia la aprì. L’emozione s’impossessò di me nel momento stesso in cui mia zia aprì la porta. La stanza era molto più ampia rispetto a quelle che avevo visto nel piano sottostante. Il mo-bilio era semplice e modesto: vi era un letto piccolo e in legno, una sedia e una scrivania anch’esse in legno e un grosso specchio un po’ annerito lungo i bordi, un tempo dorati. «È bellissima» sussurrai e Ottavia mi sorrise.

«Tuo padre voleva che tu avessi la stanza migliore mentre siamo via».«Via? E dove?».«Torniamo a Roma immediatamente. Volevamo presentarti la tua nuova fa-

miglia e farti ambientare. Come ti sono sembrati i tuoi cugini e fratelli?»«È stato strano. Non sapevo neanche di avere dei cugini e ora devo imparare

i loro nomi per ricordarmeli…».«Ce la farai. Devi soltanto dargli tempo. So bene che le mie figlie non sono

molto entusiaste dell’idea che tu incominci a vivere con noi, ma col tempo ini-zieranno ad amarti, ne sono certa».

Un silenzio imbarazzante cadde su di noi e mia zia decise di salutarmi con un leggero bacio sulla fronte. «Quando ci rivedremo?».

«Presto, così potrai conoscere anche Iullo e, se sarà tornato, Antonio». Lei mi lasciò senza che io potessi chiederle se sarebbe partita anche Livia. Rimasi nella mia stanza per tutto il resto della giornata.

La notte scese prima del previsto e mio padre non venne a cercarmi.

Non avevo sonno e non facevo altro che osservare il soffitto. Mi rigirai nel letto, ma non riuscii ad addormentarmi e andai alla finestra. Il paesaggio che vidi davanti a me era totalmente illuminato dalla luna, bella e splendente in quella notte di primavera. Poggiai la mano sulla pietra fredda del davanzale e il mio pensiero volò, inspiegabilmente, a mio padre. Il giorno dopo non sarebbe

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stato più qui e la solitudine iniziò a farsi largo nel mio animo: avevo perso mia madre, mio padre e mia zia sarebbero partiti l’indomani ed io sarei rimasta sola, in mezzo a sconosciuti.

Una piccola luce si avvicinò alla mia stanza e subito corsi verso il letto. Mi stesi e chiusi gli occhi. Ascoltai solamente.

«Sta dormendo, padrone» era la voce di una serva che si stava rivolgendo a mio padre. «Lo so» le rispose lui e immaginai che l’avesse congedata perché sentii la porta richiudersi e dei passi che si avvicinavano al letto.

Sentii una mano che mi accarezzava la testa e rabbrividii al contatto. Il suo tocco caldo m’infiammò il cuore e credei per un momento di amarlo: lo cono-scevo appena, eppure mi sembrava di aver vissuto con lui e i suoi modi semplici e poco espansivi da sempre. Dopo un solo secondo tolse la mano, improvvi-samente, come scottato da un fuoco interiore che mi ardeva fin nel profondo dell’anima. Si allontanò e la mia tristezza crebbe. Ero stata rifiutata da lui. Capii che non avrei mai potuto farmi amare veramente e che l’affetto di mio padre era come una piuma al vento: andava dove il volere degli Dei la spingeva.

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Guai

«O compagni (da tempo infatti conosciamo dolore)già sofferenze più dure patiamo, ed anche a queste un dio porrà fine.

Eneide, libro I, versi 198- 199

Il mattino dopo mi svegliai con una terribile sensazione di vuoto. Non sape-vo che cosa fare, con chi parlare e se dovevo scendere al piano sottostante per annunciare che ero sveglia. La luce filtrava appena dalla finestra socchiusa e non avevo alcuna voglia di alzarmi. Dopo qualche secondo, decisi che era meglio vedere che cosa accadeva oltre la porta della mia camera. Non feci in tempo ad aprire che una donna vestita in modo semplice e privo di qualsiasi eleganza entrò nella stanza.

«Sei già in piedi, mia signora?» mi chiese con voce suadente e, vedendo che non le rispondevo, si affrettò a presentarsi. «Sono Egeria. La mia famiglia è di origine sabina e sono al servizio di vostro padre, il triumviro Gaio Cesare. Mi è stato chiesto di prendermi cura di te fino a quando tuo padre non ritornerà per portarvi nell’Urbe. Nel frattempo rimarrai qui sotto la tutela del precettore dei tuoi cugini e mia. Mi è stato ordinato inoltre di farti avere i vestiti di una delle tue cugine fino a quando non arriveranno i tuoi e sarai trasferita a Roma».

In quel momento mi sentii meglio: in fin dei conti mio padre non mi aveva abbandonata, ma affidata alle cure di persone fidate.

«Io sono Giulia» mi presentai e vidi le sue labbra incresparsi in un sorriso. «Lo so» sussurrò e uscì dalla stanza per tornare pochi secondi dopo con un vestito azzurro costoso e bello, completamente diverso dalle semplici toghe con cui mi vestivo a casa.

Casa. Quella parola ormai per me era priva di qualsiasi significato. Non sa-pevo se definire casa un luogo preciso oppure il posto in cui vivevano le persone che mi amavano, se c’era qualcuno che mi amava.

«Vestiti. Dovrebbe andarti bene, è di tua cugina Antonia».«Quale delle due?» le chiesi sorridendo, ma lei non apprezzò la battuta. «Ti

conviene chiamarle con un soprannome per riuscire a distinguerle. Entrambe sono alquanto permalose».

«Lo terrò a mente». Quell’ultimo consiglio mi sarebbe servito davvero. Improvvisamente mi ricordai che mia zia Ottavia si era sposata con il triumviro Marco Antonio, collaboratore di mio padre, per sancire un’alleanza politica. Da tempo però si diceva che egli risiedesse in Egitto alla corte della regina Cleopa-

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tra. Molti che l’avevano vista sostenevano che mia zia fosse molto più bella di lei, più buona e timorosa degli Dei. Non avevo mai visto il triumviro, ma si diceva che fosse altero e impertinente, caratteristiche dovute alla sua antica nobiltà, e che disprezzasse le “umili” origini di mio padre. Non sapevo se l’avrei mai visto, poiché preferiva vivere ad Alessandria d’Egitto e non a Roma e aveva iniziato ad utilizzare dei modi orientaleggianti. Quando mia madre parlava di lui con le serve, narrava che aveva intenzione di sposare Cleopatra, se non l’aveva già fatto in segreto, e che aveva nominato i loro tre figli sovrani di territori conquistati da Roma nel corso del tempo. Riteneva che questo fosse un grande affronto: nes-suno mai avrebbe osato cedere dei territori Romani ad una regina straniera e ai figli illegittimi avuti da quest’ultima.

«Credi che Marco Antonio tornerà mai a Roma?» chiesi alla donna che era intenta a preparare il mio letto. Il suo sguardo si oscurò. «Non sta a me parlare di certe questioni» mi rispose bruscamente e capii che era meglio non fare do-mande sul matrimonio di mia zia.

Una volta pronta, scesi le scale e mi ritrovai nella parte centrale della casa, dove trovai tutte le mie cugine intente a tessere. Le salutai, cercando con molta fatica di associare i loro nomi ai visi, e mi sedetti vicino a quella che identificai come una delle due Claudie Marcelle.

Questa volta ella mi sorrise. «Vuoi unirti a noi?» mi chiese cordialmente e notai con piacere che l’espressione scontrosa del giorno prima era scomparsa. «Non so tessere» mi scusai e sentii tutti gli occhi della stanza puntati su di me. «Non ti preoccupare. Ti insegneremo noi». Il suo tono cordiale mi convinse a provare. Mi insegnarono a infilare la lana nel telaio e come creare dei particolari disegni o rifiniture. Scoprii con mia grande sorpresa che lo stesso vestito che indossavo l’avevano cucito loro.

«È molto bello» commentai e segretamente sperai un giorno di poter diven-tare brava quanto loro.

«Da quando siamo nate abbiamo iniziato a lavorare al telaio. Nostra madre e Cesare avevano deciso che era meglio insegnare anche alle giovani donne le antiche attività delle matrone» mi spiegò Antonia minore, forse quella più vicina alla mia età.

Dopo qualche ora passata a filare in silenzio, il mio iniziale interesse svanì. Avevo tentato di parlare con le mie cugine di qualcosa che non riguardasse la tessitura, ma era stato tutto inutile. Erano concentrate nella loro attività e niente le avrebbe distratte.

Improvvisamente mi domandai dove fossero Marcello e i miei due fratel-lastri. Quando posi questa domanda mi rispose Claudia Marcella maggiore. «Sono in un piccolo studio dove prendono lezioni, in genere insieme ad An-tonio e Iullo, dal loro precettore Teodoro», fece una piccola pausa e poi ag-giunse: «Se qualcuno si avvicina a quella stanza verrà severamente punito. Noi dobbiamo occuparci delle nostre faccende e loro devono imparare: questo l’ha

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stabilito Livia quando nostra madre le ha proposto di vivere tutti insieme».Annuii silenziosamente. «Non vi sembra un po’ ingiusto?» domandai, ma

non appena pronunciai quelle parole fui costretta a rimangiarmele. Evidente-mente le mie cugine erano molto felici di essere considerate diverse, ma io no. Non volevo avere un trattamento di favore né essere esclusa perché donna.

Capendo che non avrei potuto ragionare in questo modo con loro, decisi di non continuare a tessere e trovai una scusa per tornare nella mia stanza. Una volta lì cercai un modo per uscire senza essere vista e, scavalcata la finestra, mi gettai a terra e caddi su un tappeto di foglie che scricchiolarono sotto il mio peso. Ancora distesa sul suolo mi guardai attorno per vedere se qualcuno mi avesse notata, ma apparentemente tutto era calmo. Mi alzai lentamente e mi affacciai alle finestre del pianterreno. Nella prima intravidi le mie cugine, ancora intente a tessere in silenzio. Nella seconda invece distinsi il profilo di tre ragazzi e vidi chiaramente il volto solare e allegro di Druso che parlava animatamente con un uomo alto e anziano, che poteva essere il precettore Teodoro.

Mi fermai lì davanti, sperando che la tenda ocra riuscisse a nascondermi ai loro occhi e che non sentissero la mia presenza. Mi sporsi e posai l’orecchio sulla stoffa per sentire la conversazione della stanza.

«Druso, leggi questa pergamena da solo». Il precettore evidentemente gli aveva consegnato dei testi da leggere e riuscii soltanto a cogliere poche parole, non latine, senza senso. “Ou µovov ev ταις δυστυχιαις” (non solo nelle difficoltà) iniziò a dire, ma improvvisamente si fermò. Mi allontanai immediatamente dalla finestra e mi guardai attorno spaesata. Dopo pochi secondi, quando i quattro uomini uscirono dalla casa, capii che mi avevano scoperta.

«Che cosa stavi facendo là fuori?» mi chiese l’uomo e notai immediatamente il ghigno maligno che si disegnò sul suo viso, scoprendo così i denti neri e cariati.

«Niente, signore» risposi prontamente, ma i miei occhi dissero tutto il con-trario. Ero colpevole, anche se neanche io sapevo esattamente di cosa. Ero col-pevole di essere curiosa? Di voler imparare? Niente di tutto questo mi sembrava un crimine.

«Maestro, non stava facendo niente di male. È solo curiosa. Credo che do-vremmo tornare alla lezione» intervenne il bambino che avevo identificato come Druso. Il suo solito ed impertinente sorriso lo accompagnò anche mentre pro-nunciava quelle parole.

«Non credo di aver chiesto il tuo parere, Druso» gli rispose brutalmente il precettore. Nonostante ciò il suo sorriso non scomparve.

«Per questa volta non succederà niente, ma dovrò informare tuo padre della tua scarsa disciplina. Sicuramente le tue cugine ti avranno spiegato che le mie lezioni non vanno interrotte e credo bene che tu capisca anche il perché». Il suo tono oltraggioso mi fece montare una rabbia densa e accecante. Avrei voluto rispondergli che avrei potuto essere un’ottima alunna, ma probabilmente non sarebbe servito a niente perché non lo sarei mai stata.

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«Mi dispiace. Prometto che non accadrà più» mi scusai. Il suo sorriso di vittoria si allargò.

«Ne sono certo». Quest’ultima frase era carica di un tale odio che il solo sentirla mi fece arretrare.

Tutti e quattro tornarono indietro ed io rimasi sola. Sola con i miei pensieri, la nostalgia di mia madre e la consapevolezza che, neanche volendo, avrei potuto raggiungerla.

Osservai il mio bel vestito, o meglio quello di mia cugina, e notai che era sporco di terra e foglie. Non osai neanche immaginare che cosa mi avrebbe det-to Egeria non appena lo avesse visto. Come se l’avessi chiamata con la forza del pensiero, Egeria sbucò da dietro la porta. Mi osservò a lungo e si mise a ridere. All’inizio non capii che cosa ci trovasse di divertente nel vedere il bel vestito di mia cugina ridotto in quello stato. «Che cosa hai fatto a quel povero vestito, mia signora?» mi domandò tra una risata e l’altra.

«Sono caduta» mentii spudoratamente. Lei sorrise. «Lo vedo bene. Hai persi-no delle foglie tra i capelli» mi disse. Tastai i miei lunghi ricci e trovai delle piccole foglie sminuzzate tra di essi. Sorrisi. «Ora capisco perché il mio aspetto è così ridicolo» dissi. Dopo essermi tolta accuratamente ogni foglia dai capelli rientrai in casa e trovai tutti i miei cugini e i miei fratellastri seduti allo stesso tavolo.

Mi sedetti vicino a mio cugino Marcello che mi offrì del pane e della carne. Dopo aver ringraziato gli Dei per il cibo che ci avevano concesso, iniziammo a mangiare. In silenzio ognuno terminò il proprio pasto e notai che nessuno di loro era avvezzo a parlare apertamente. A casa mia madre ed io parlavamo spesso, anche con le serve e le ancelle, cercando di ingannare il tempo. Qui invece era tutto diverso: mi sembrava che ognuno pensasse a se stesso e alla propria vita.

Prima che ce ne andassimo, Egeria ci parlò. «Mi hanno annunciato che i vostri genitori saranno di ritorno fra qualche giorno e che nel frattempo ognuno di voi dovrà dare il meglio di sé. Solo chi si comporterà con diligenza e pruden-za», qui si fermò per un breve istante e mi guardò: «…potrà andare a Roma con loro». Mi voltai e vidi gli occhi di tutti loro illuminarsi. Ero vissuta a Roma per gran parte della mia vita, eppure non ero quasi mai uscita per le strade, se non in occasione di qualche importante festa religiosa. «Non siete mai stati a Roma?». Quella domanda mi uscì spontaneamente dalle labbra e tutti mi guardarono in-curiositi. «Certo che ci siamo stati» intervenne uno dei tre ragazzi, ma non capii subito chi fosse. «Ma per noi rimanere nell’Urbe è sempre una grande emozione. Molti di noi ci sono nati, ma pochi se la ricordano ed è questa la cosa più triste». Immaginai, grazie alla statura e al modo di parlare, che doveva essere Tiberio. Il suo viso spigoloso e privo di qualsiasi emozione non mi piaceva: c’era qualcosa di innaturale nel suo modo di argomentare e di muoversi, come se fosse terribil-mente insicuro e avesse paura di non fare la cosa giusta.

Non ribattei e la mia unica soddisfazione fu quella di aver fatto parlare alme-no gran parte dei componenti della mia famiglia, in genere taciturna.

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La notte calò di nuovo e di nuovo mi sentii come se non appartenessi al mondo in cui ero appena entrata. L’oscurità mi avvolse e non potei fare altro che osservare il soffitto per lunghi istanti, fino a quando una piccola e flebile luce non passò tra le tende della finestra, illuminando così la mia stanza. Mi affacciai alla finestra, scostai le tende e vidi il mio fratellastro Druso che mi salutava. «Che cosa stai facendo? Se ti trovano qui passerai molti guai!» sussurrai nella notte, ma abbastanza forte perché riuscisse a sentirmi. «Non ti preoccupare per me. Esco sempre fuori e nessuno mi ha mai visto finora. Vieni giù». Aspettai qualche secondo, guardandomi intorno e scrutando la mia stanza. Avevo addosso solo una leggera veste e non possedevo alcun mantello e nemmeno il vestito che An-tonia mi aveva prestato. Quando aveva visto lo stato del suo bel vestito mi aveva urlato che mai più mi avrebbe prestato un suo indumento.

Decisi di scendere dalla finestra come avevo fatto durante la mattinata e rag-giunsi con un salto il mio fratellastro. Questa volta non caddi, ma ci volle qualche secondo perché mantenessi l’equilibrio una volta a terra.

«Dove mi vuoi portare?» gli domandai con una punta di curiosità nella voce. Druso sorrise. «Lo scoprirai presto», detto questo mi prese per mano e iniziò a correre. Non potei fare a meno di seguirlo. Entrammo in un piccolo bosco e subito mi spaventai, sconvolta dalla mia stessa incoscienza. Se fossi stata a casa, mia madre non mi avrebbe mai concesso di uscire. «Perché siamo venuti qui?» gli domandai con un tono leggermente pauroso. Il mio fratellastro mi spiegò che c’era una piccola sorpresa per me e non mi volle dire in che cosa consistesse. Ad un tratto scomparve nel folto del bosco e mi lasciò sola. L’ululato del vento si fece sempre più insistente ed io m’iniziai a nascondere dietro la corteccia dell’al-bero più vicino. «Giulia, vieni!» mi chiamò e mi prese nuovamente per mano. Dietro un albero trovai un involucro coperto da una stoffa che assomigliava a quella utilizzata per le tende. «Regalo di benvenuto». Una volta pronunciate queste parole, mi porse il pacco e mi sorrise. Lo aprii con poca fatica e sorrisi. Era un vestito viola con i bordi dorati e un piccolo disegno a forma di civetta. «È bellissimo» sussurrai estasiata.

«Ho sentito ciò che ti ha detto Antonia e volevo che tu avessi almeno un vestito per domani. Dopo il filo da torcere che hai dato a Teodoro ti spettava un regalo».

Il suo sorriso bonario mi accompagnò per tutta la strada del ritorno.«A chi l’hai rubato?» gli chiesi, ricordandomi che doveva averlo preso a qual-

cuna delle mie cugine. «Antonia ha fin troppi vestiti. Non se ne accorgerà» «Antonia minore o maggiore?»«Minore». Una piccola pausa da parte sua mi fece sorridere. Non gli chiesi

come se lo fosse procurato perché un altro pensiero mi stava assalendo: come saremmo tornati dentro casa?

«Come facciamo a rientrare?» gli chiesi e il suo sorriso mi fece capire che sapeva benissimo come fare. Arrivati davanti a casa egli aprì la porta silenzio-

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samente. Mi salutò con un bacio sulla guancia e non feci neanche in tempo a sussurrare un “grazie” che era già scomparso.

Druso salì le scale saltando i gradini ed io sorrisi quando si volto e alzò la mano in segno di saluto.

Vidi una luce che si spegneva e capii che qualcuno ci aveva visti rientrare. Mi strinsi il vestito al petto e decisi di salire in camera. Seduta sul letto rimasi sveglia a lungo, in ascolto. Di nuovo vidi una luce avvicinarsi alla porta della mia camera e, prontamente, mi misi sotto le coperte.

La porta si aprì e vidi l’ombra di un uomo. Teodoro. In quel momento potei dire di essere nei guai.

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Il ritorno

Ecco, con gli auspici di lui, figlio, l’illustre Romaeguaglierà il suo impero alla terra, il suo spirito si innalzerà all’Olimpo,

essa, da sola circonderà di mura i sette collifeconda di prole virile…

Eneide, libro VI, versi 781- 784

Da diverse settimane ero in campagna e la mia vita lì aveva preso un flusso regolare. Tessevo con le mie cugine per diverse ore, per poi mangiare tutti in-sieme. La netta divisione tra i nostri ruoli non mi aiutava a conoscere meglio i miei nuovi parenti. Solo Druso si ritagliava alcuni momenti della notte in cui mi veniva a trovare e parlavamo spesso della nostra giornata sotto il porticato con colonne corinzie davanti alla casa. Da pochi giorni vi avevano anche sistemato dei triclini e così, quando calava la notte, noi due ci nascondevamo lì. Una volta pregai Druso di portarmi uno degli scritti che gli procurava Teodoro e il mio fedele fratellastro fece come gli avevo chiesto.

«Sono in greco» spiegò davanti alla mia faccia sbalordita e curiosa. Non ave-vo mai visto simboli del genere e mi chiesi come riuscisse il mio fratellastro a leggerli. «Credi che se glielo chiedessi mi verrebbe insegnata questa lingua?» domandai. Druso mi scrutò a lungo e con un sorriso triste mi fece capire che non sarebbe stato possibile. «Che cos’è il greco?» gli chiesi. Così mi persi nei meandri della storia e della cultura di quel popolo, dalla nascita delle prime città fino a quando non furono conquistate da Roma. Capii da subito che quel popolo doveva essere molto simile a me: non accettava di essere comandato e tutto ciò a cui aspirava era la libertà. Compresi che fino a quando sarei stata costretta a sottostare al volere di mio padre, non sarei mai stata veramente libera. «Io sono come loro. Voglio essere libera» confessai, parlando tra me e me. Quando mi resi conto delle mie parole, Druso mi stava già guardando. «La libertà non si può comprare né esportare. Se non sono stati capaci di mantenere la propria indipendenza, forse non la volevano davvero».

«O forse non avevano i mezzi» conclusi per lui. Il mio fratellastro mi sorrise, ma non c’era felicità stavolta nei suoi occhi, solo tristezza.

«Se volessi imparare il greco, tu me lo potresti insegnare?» gli chiesi, ma subito capii che non mi sarebbe stato molto d’aiuto. «Non lo studio con molto impegno». A quelle stesse parole sorrise, spiegandomi che forse Marcello mi

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avrebbe potuta aiutare anche se Teodoro li aveva minacciati dicendo che, se avessero trasgredito agli ordini ricevuti da Cesare in persona, sarebbero stati se-veramente puniti. «Perché tanta avversità nei confronti delle donne?» domandai un’altra sera a Druso. Per la prima volta da che lo conoscevo lo vidi in imbaraz-zo. «Non ha mai odiato le donne, specialmente quelle molto ubbidienti. Credo che per qualche ragione sia arrabbiato con te. Sei l’unica che abbia mai tentato di origliare le nostre lezioni, anche se queste, te lo assicuro, sono molto noiose…Non sai che cosa farei per non potervi partecipare!». Il senso d’inquietudine che mi pervadeva dalla prima volta che avevo visto il famoso precettore dei miei fratellastri crebbe notevolmente. Presa dallo sconforto e dalla paura, i miei occhi si velarono lentamente di lacrime. Non sapevo che cosa fare. Mia madre e mio padre erano a Roma, ma la loro lontananza pesava come un macigno e sapere che sarebbero stati per sempre divisi faceva sanguinare il mio cuore.

Mi asciugai in fretta le lacrime perché il mio fratellastro non se ne accorgesse. «Perché mi stai aiutando?» gli chiesi a bruciapelo e subito notai un radicale

cambiamento nei suoi occhi. Lo osservai attentamente e vidi riflesso nei vivaci occhi verdi uno spirito affine al mio. Capii immediatamente perché lo stesse facendo. «Perché se io fossi nella tua situazione, vorrei che qualcuno aiutasse me». Il suo sorriso triste mi scaldò il cuore.

Finalmente avevo trovato una persona che mi amava veramente.

Quella sera la luna era particolarmente alta. «La prossima sarà piena» mi spiegò Druso. La osservai a lungo e, incantata davanti a quello spettacolo, non prestai attenzione alla voce del mio fratellastro.

«Che cosa ci fate qui fuori?». Avrei riconosciuto quella voce gracchiante, proveniente da quegli odiosi denti cariati, anche fra mille. «Sapevo che uscivate di nascosto da molte notti, ma non sono mai riuscito a trovarvi e ora, dopo che vi ho colti sul fatto, ne parlerò con vostro padre. Questa volta non ve la farò passare liscia» mi assicurò sorridendo e il suo perfido ghigno si allargò lungo tutto il viso. Non gli risposi, ma non abbassai gli occhi. Sostenni il suo sguardo a lungo con il dichiarato intento di sfidarlo.

La luce che proveniva dalla candela che Teodoro teneva in mano si spense e approfittai del suo momento di distrazione per salire velocemente le scale e tornare nella mia stanza.

Chiusi la porta con violenza e cercai qualcosa con cui fermarla se Teodoro avesse provato ad inseguirmi. Vi poggiai una sedia di legno e mi infilai sotto le coperte. In quel momento non m’importò se qualcuno si fosse svegliato o pre-occupato. Mi abbandonai ad un pianto liberatore che sciolse ogni resistenza nel mio cuore. Nessuno sapeva quanto mi costasse continuare a vivere, a sorridere e ad essere quella che ero, senza mai abbandonarsi alla disperazione. Nessuno poteva sapere quanto mi sentissi abbandonata da tutti coloro che amavo. Ero troppo stanca persino per piangere e mi addormentai, sapendo che il giorno dopo non sarebbe stata una bella giornata.

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«Teodoro mi ha raccontato tutto. Non posso credere che sei uscita tutte le notti da sola, in camicia da notte e dalla finestra. Se ti fosse successo qualcosa? Chi avrebbe annunciato a tuo padre che eri ferita o, peggio, morta?». Le parole severe, ma meritate, di Egeria mi ferirono. Forse lei mi aveva amato all’inizio, ma poi era stata corrotta dalle bugie e accuse di Teodoro. Non potei credere che un uomo tanto malvagio potesse avere una vita tanto semplice e agiata: con la sua lingua biforcuta e i denti cariati era riuscito a trovare un impiego come precet-tore ed ora era al servizio di una delle famiglie più importanti di Roma. Non le risposi, non ne avevo la forza.

Quel giorno rimasi in casa per gran parte del tempo. Non scesi ai piani infe-riori perché avevo paura di trovare le mie cugine e non avevo voglia di sentire le loro critiche.

Quella notte Druso non venne alla mia finestra. Forse aveva saputo che quan-do Egeria mi aveva chiesto se uscissi da sola di notte le avevo risposto che nessu-no mi accompagnava. Questa bugia di certo non convinse Teodoro che cercava in tutti i modi di trovare Druso in mia compagnia, ma non per punirlo. Voleva fargli capire che non aveva bisogno della mia amicizia e, essendo l’unico con cui avevo fatto amicizia fino ad ora, desiderava allontanarlo da me per rendermi più debole e vulnerabile senza il mio unico alleato.

Se c’era una cosa che odiavo della vita di campagna era che non si potevano svolgere tante attività. Per noi ragazze l’unica alternativa a tessere e filare era pregare gli Dei.

Passarono i giorni e con essi anche le mie speranze di tornare a Roma. Dopo un primo periodo di silenzio, le mie cugine ricominciarono a parlare con me. Non capii la motivazione, ma ciò riempì il mio cuore di gioia. Druso riprese a ve-nirmi a trovare di notte e rimanevamo svegli nella mia stanza a parlare sottovoce fino a quando il sole non iniziava a sorgere e il cielo si tingeva di rosa. Eravamo molto felici di poter finalmente parlare insieme senza dover uscire. Teodoro, infatti, da quando mi aveva scoperta, aveva smesso di svegliarsi la notte e girare per i corridoi per cercarmi. Rimaneva nella sua camera, anche se sapevo che non dormiva quasi mai. Lo sentivo agitarsi e una volta lo vidi parlare con una delle serve della sua difficoltà a dormire che giustificò con la scomodità del materasso. Capii che erano gli Dei a inviargli quel disturbo: probabilmente a causa dei suoi crimini e della sua cattiveria lo avevano maledetto con l’incapacità di dormire.

Ne parlai con Druso durante una notte di luna piena, la seconda che vedevo da quando ero arrivata. Da circa due mesi ero rimasta a Velletri e già quella vita mi stava stancando. «Tu non hai mai voglia di andartene?» domandai al mio fratellastro. Druso scosse le spalle. «Nessuno vorrebbe rimanere qui, immagino»

«Dove andresti se potessi scegliere?». La mia domanda lo mise in difficoltà e ci pensò a fondo prima di rispondere. «Credo che andrei al Nord, in Germania». Il suo sguardo sognante mi fece capire che era la verità: conoscere un popolo

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diverso gli avrebbe dato la possibilità di capire meglio il proprio. Capivo da come parlava di Roma che non amava molto il modo di comportarsi dei Romani. Quando gli chiesi perché, egli mi rispose che tutti gli intrighi e le congiure di pa-lazzo non erano fatte per lui. Preferiva la vita militare, le armi e il ragionamento dei grandi comandanti alle famose parole di Omero, di Platone o Socrate. «Mia madre non vorrebbe che io diventassi un militare» mi confidò sovrappensiero e continuò: «Combinerebbe sicuramente un matrimonio tra te e me e così di-venterei un senatore influente sotto la protezione di tuo padre». Quella breve e triste visione della sua vita m’impressionò alquanto. Anche mio padre avrebbe programmato in modo così preciso la mia vita? Oppure l’aveva già fatto?

«Druso! Giulia!» ci chiamò una voce, ma non era quella di Egeria. Una delle mie cugine si avvicinò alla stanza. Aprì la porta senza tante cerimonie e mi ritro-vai davanti Marcella maggiore. Mia cugina ci guardò con fare sospettoso. Non comprese perché ci trovassimo entrambi nella stessa stanza di notte, ma non fece domande. «Stanno arrivando i vostri genitori» ci spiegò. Mi prese per mano e mi condusse al pianterreno seguita dal mio fratellastro.

Arrivati davanti all’ingresso notai che tutte le mie cugine, mio cugino e Tibe-rio indossavano una veste o una toga. «Stanno arrivando» ci annunciò Egeria e dietro di lei spuntò Teodoro con il suo solito ghigno.

Una figura incappucciata a cavallo si avvicinò a noi e subito Egeria, il precet-tore e i miei cugini s’inchinarono rispettosi. Mi affrettai a seguirli, ma Tiberio mi prese per un braccio e mi fece alzare con ben poca grazia. «Odia le persone che si prostrano ai suoi piedi» mi assicurò. Rimasi accanto a tutti i miei familiari fino a quando la figura scese da cavallo. Si tolse il cappuccio e rivelò la figura alta e snella di mio padre. I suoi ricci biondi gli conferivano un’aria meno austera del solito e, osservandolo bene, notai delle profonde occhiaie e un piccolo taglio sulla mano. Lo salutammo con il dovuto rispetto, ma egli non guardò neanche le figure che si erano prostrate. Tiberio aveva ragione: non amava coloro che lo osannavano come se fosse un re. Subito si voltò verso di me e i suoi occhi azzurri mi fissarono, freddi come il ghiaccio. «Dobbiamo parlare» mi disse secco e mi prese rudemente per un braccio. Mi voltai spaventata verso Druso e gli lanciai un’occhiata preoccupata. I padri che punivano le figlie disubbidienti erano fin troppo noti. Dopotutto noi ragazze eravamo quasi degli oggetti e non valeva la pena sgridarci. Teodoro lo sapeva bene evidentemente perché quando oltrepas-sai la porta vidi i suoi occhi verdi illuminarsi.

«Entra» m’intimò. Mi spinse dentro una stanza che non avevo mai visto, probabilmente la dispensa, e chiuse la porta. Si sedette al tavolo al centro della sala e chiuse gli occhi per un istante. Capii che doveva aver viaggiato per tutta la notte. «Che cosa devo fare con te?» mi domandò, ma sapevo che la sua era una domanda senza una risposta. «Non vuoi tessere, come facevano tutte le bambine romane alla tua età fino a pochi anni or sono. Non vuoi studiare».

«Chi te l’ha detto?» lo interruppi e il suo sguardo di ghiaccio mi mise a tacere.

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Non rispose, indeciso se dirmi la verità. «È stato Teodoro, vero?» domandai e il suo cenno di assenso arrivò dopo pochi secondi, impercettibile.

«Lo sapevo. Questa è una bugia. Non ti ha raccontato che ho cercato di ascoltare la lezione e che lui mi ha cacciata via? O che ha cercato di rendermi la vita impossibile?».

«Questo starà a me giudicarlo. E ricorda: tu sei solo una bambina, niente di più. L’educazione dei tuoi fratelli e cugini non è un argomento che ti deve interessare». Questa volta il suo sguardo divenne più sereno e continuò a parla-re, senza guardarmi negli occhi.

«Mi ha anche raccontato della tua scarsa disciplina. Racconta che sei irre-quieta e che più volte sei uscita da sola di notte. È la verità?».

«Sì». Una piccola parola in grado di cambiare la mia vita. Ammettendo il mio errore avevo abbandonato l’idea di tornare a Roma un giorno e sarei rimasta per sempre a Velletri.

«Capisco» mi disse, ma a che cosa si riferisse rimase un mistero. Si massaggiò le tempie e passò una mano sugli occhi. Improvvisamente mi resi conto di che cosa avevo fatto: con la mia irrequietezza e il mio temperamento ribelle, lo avevo condannato a venire a Velletri a cavallo per occuparsi della cosa personalmente.

«Cesare» lo chiamò una voce maschile dall’altra parte della porta, ma non apparteneva a Teodoro né ai miei fratellastri o a Marcello. Mio padre si alzò e aprì la porta. «Cosa c’è, Agrippa?».

«C’è un messo che ci ha seguiti da Roma. Dice che è urgente». Non vidi il suo interlocutore, ma la voce mi sembrò calda e rassicurante, come quella di un dolce padre. «Arrivo» gli rispose Cesare e mi lasciò di nuovo sola. Mi appiattii contro il muro e scivolai lentamente per terra. Iniziai a piangere sommessamente e solo una persona mi udì.

«Piccola, che cosa fai lì per terra?». La sua voce era calda e accogliente e il tono come quello di un padre che perdona le malefatte della propria figlia. «Che cosa c’è? Stai forse male?». Scossi la testa in fretta, ma le lacrime non si ferma-rono. «Tuo padre è duro con te, è vero. Ma lo fa per il tuo stesso bene» mi rassi-curò, ma non capii dove fosse tutto il “bene” che mi voleva. A poco a poco però tentai di dominarmi e mi asciugai il viso, bagnato dalle lacrime. Finalmente alzai gli occhi verso l’uomo che stava cercando di aiutarmi. Aveva occhi e capelli scuri, la carnagione olivastra, il corpo possente e mani gentili che mi accarezzavano i capelli. Notai che doveva essere un soldato perché indossava un lungo mantello, come quello dei legionari, e portava una piccola spada al fianco.

«Va meglio adesso?» mi chiese, cercando di guardarmi negli occhi. Gli sorrisi riconoscente: era riuscito a calmarmi. «Sei proprio figlia di Gaio: tanto forte in apparenza quanto fragile emotivamente» commentò lui. Notai il ricorso al vero nome di mio padre e non al solito appellativo formale “Cesare”. Quell’uomo gentile e misterioso doveva essere un grande amico di mio padre, eppure molto diverso da lui.

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Lo guardai negli occhi e compresi subito il suo spirito. Avevo conosciuto così tante persone in quei giorni che avevo imparato ad interpretare un viso e il suo era sincero come quello di un bambino. Il suo animo era docile, fedele e tran-quillo. Desiderai per un momento soltanto di poter essere sua figlia. «Agrippa» lo chiamò l’inconfondibile voce di mio padre e l’uomo si alzò. Avevo sentito parlare di Marco Vipsiano Agrippa e, ora che l’avevo davanti, non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso.

Se mai avesse avuto dei figli, di certo sarebbero stati molto fortunati. Mi alzai lentamente e gli sorrisi un’ultima volta prima che egli scomparisse,

portato via dal richiamo di mio padre. Quella notte non riuscii a dormire. L’indomani Cesare sarebbe ripartito per

Roma ed io lo avrei perso di nuovo.

Mi svegliai all’alba, frutto delle poche ore di sonno cui ero abituata grazie alle chiacchierate con Druso di notte. M’infilai il mio secondo vestito, l’unico che fino a quel momento ero riuscita a confezionarmi e, infatti, si vedeva la differen-za tra il mio e quello delle mie cugine.

Mi vestii in fretta e scesi le scale. Con mia sorpresa trovai mio padre e una donna, alta ed austera: Livia. Entrambi si accorsero della mia presenza dopo qualche secondo e si alzarono in piedi.

«Che cosa fai già in piedi?» mi chiese Livia e i suoi vibranti occhi verdi scin-tillarono mentre un sorriso poco amorevole le illuminava il viso. «Non avevo sonno» le risposi laconica per rivolgermi poi solo a mio padre. «Vorrei parlarti». Vedendo che Livia non accennava ad andarsene specificai, guardandola negli occhi: «Da sola». La mia matrigna scrutò mio padre in attesa della sua risposta e della mia punizione dopo quell’affronto. Ma io sapevo una cosa che Livia non conosceva. L’avevo scoperta il giorno prima, quando Agrippa mi aveva parlato. Mio padre mi amava: se non fosse vero, mi avrebbe duramente punita e invece non mi aveva torto un solo capello; aveva creduto, in fin dei conti, alle mie parole su Teodoro e desiderava che io andassi d’accordo con i miei cugini e fratelli. «Ciò che dico a te posso pronunciarlo anche davanti a Livia, ma se per te è un problema parlare davanti a lei, allora la tua matrigna ci lascerà soli». Si girò verso la moglie che sorrise accondiscendente, ma non felice, e che si affrettò a lasciare la stanza. Prima di uscire e chiudere la porta mi rivolse un sorriso di sfida e il luccichio nei suoi occhi mi fece capire che avrei pagato ben presto quell’affronto. «Tornerò a Roma?» domandai. La mia domanda lo sorprese e il suo sorriso parlò per lui. «Partiamo questa mattina insieme a Druso, Tiberio, Marcello e Antonia».

«Minore o maggiore?» gli chiesi con un sorriso, certa che non avrebbe ap-prezzato la battuta. Contro ogni aspettativa sorrise e mi spiegò che Antonia minore era più adatta alla vita di città. Non gli chiesi che cosa intendesse per adatta né perché volesse portarmi con lui nella mia vecchia città, eppure così sconosciuta ai miei occhi: l’Urbe, Roma.

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Partimmo quando mio padre lo ordinò e i bagagli erano pronti. Noi donne ci mettemmo in viaggio su delle portantine mentre gli uomini sui cavalli, tranne Druso che si sistemò con mio padre perché troppo piccolo. Notai subito il di-verso comportamento di Cesare: gli sorrideva, quasi lo abbracciava e le sue mani forti gli scompigliavano i capelli per gioco. Era bello vederli insieme: chiunque avrebbe pensato che fossero padre e figlio, due persone qualunque, ma non lo erano. Solo in quell’istante provai un moto di gelosia per Druso: era lui che riceveva l’amore di mio padre, anche se non era veramente figlio suo e ciò mi rattristava.

Per tutto il viaggio li guardai, vergognandomi dei miei stessi sentimenti, ep-pure così felice nel pensare che un giorno sarebbe potuto succedere a me. Li-via venne trasportata nella mia stessa portantina e ogni volta che vedeva il mio sguardo volgersi verso loro due mi sorrideva.

«Non sono veramente meravigliosi? Sembra quasi che Druso sia il suo vero figlio» mi disse per tutta la durata del viaggio, parlando ogni tanto della bellezza e grazia delle mie cugine. Ogni volta che le nominava, mi ritornavano alla mente i loro sguardi severi e tristi per non essere state scelte, anche se giudiziose e atten-te. Sicuramente le aveva stupite che avessero scelto persino me, ribelle com’ero.

Mi addormentai nei pressi di Roma e Livia mi svegliò poco dopo con una spinta poco delicata che doveva essere una carezza. «Siamo arrivati» mi disse e subito mi misi a sedere e mi guardai intorno. Nelle strade la gente si fermò a salutare mio padre e molti curiosi si avvicinarono alla nostra portantina da cui scorsero Livia e una bambina che nessuno aveva mai visto.

«La figlia di Cesare!» gridarono molti ed io sorrisi alla folla, aprendo leg-germente la tenda e salutando tutti con la mia piccola mano. Il grido si fece così sempre più forte e Livia fu costretta a chiudere la tenda con un gesto improvvi-so. Il popolo amava la novità e il fatto che fossi al centro dell’attenzione non le piaceva affatto: increspò le labbra in una smorfia sconsolata e mi guardò per un fugace istante incuriosita.

Arrivati davanti alla domus della famiglia Giulia, le grida si erano ormai pla-cate. Scesi dalla portantina trasportata dai colori vivaci delle case, dagli odori delle strade e dal rumore dei suoi abitanti.

Mio padre mi mostrò le mie stanze e vederle affrescate con scene mitiche e notare il piccolo mosaico sul pavimento mi fece sorridere. Mi guardai attorno e mi affacciai alla finestra della mia stanza: era molto più piccola di quella in cam-pagna, ma più curata. Da lì Roma mi sembrò infinita: la Città Eterna si stendeva davanti ai miei occhi con le sue case colorate, la piazza del mercato, un anfiteatro in costruzione, un teatro in stile greco nascosto da grandi ville e, soprattutto, vidi i sette colli di Roma. Il cuore stesso dell’Urbe iniziò a battere dentro di me e l’amore per quella città incominciò in quel momento. Ma Roma era anche una città crudele: Roma uccideva chi non era più forte di lei e non essere catturati dai suoi intrighi era quasi impossibile.

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Nei palpiti d’amoree nell’emozioneche ha percorsola vita infelice

di Giuliafiglia di Augusto

questo libroviene stampato

nel carattere Simoncini Garamondpresso lo stabilimento

Legoprint di Lavis (TN)per conto di Diabasisnell’agosto dell’anno

duemilaquattordici

Giulia.indb 543 30/08/14 13:24