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1 Splendore e percezione della forma nell’Estetica Teologica di Von Balthasar Di Maurizio Buoni C. P. Introduzione Poco prima della morte, in una intervista postuma, H. Marcuse lasciava un messaggio alle nuove generazioni: “è l’eredità che lascio alla soglia degli anni terribili che si annunciano. I giovani devono capire che bisogna recuperare al più presto i valori estetici. Non si devono rifiutare, in nome della violenza astratta e feroce, l’amore e la visione poetica, lirica del mondo, qualificando l’arte, la cultura, lo spirito come cose reazionarie. È una vera e propria aberrazione. Se si è arrivati a questo punto è perché da un secolo ci si è dimenticati della dimensione estetica, la sola che possa assicurare la rivoluzione del XX secolo, la sola che sia in grado di galvanizzare un mondo avido di pensare, amare, contemplare"1. Su quest'ultima prospettiva di Marcuse le interpretazioni sono state diverse: riscoperta di una più ricca pluridimensionalità dell'uomo, rifiuto della ripetizione, irruzione del bello come preannuncio di un orizzonte radicalmente "altro" e diverso da quello dell'economia e della sociologia, presenza di un più profondo senso tragico della vita, ritrovato legame con Horkeimer (con la tarda esaltazione del Totalmente Altro), e Adorno (la concezione del bello come preludio di felicità)2. È vero: Marcuse non esce dallo spazio tradizionale del suo filosofare, carente di una fondazione propriamente metafisica. Ma non è forse in sintonia con una pungente nostalgia dell'uomo contemporaneo? "Attendo che la bellezza venga ad illuminare un giorno i muri sordidi della mia quotidiana prigione", così E. Ionesco, inquieto cercatore di luce3. Le celebri parole di Dostoewskij richiamano la sua affermazione sulla "bellezza che salverà il mondo". La frase non è il facile slogan di un esteta; è, invece, tra le più pregnanti di questo infaticabile scavatore del dramma umano. Non ne cerchiamo i significati reconditi, la ricordiamo solo come un'intuizione vicina alle nostre ansie e alle nostre domande: tanti aspetti della nostra storia, nel bene e nel male, erano già dentro le sue parole4. È proprio nella dimensione della bellezza, che si offre a noi gratuitamente, che parte la direzione della nostra ricerca, che intende porre in evidenza un elemento della bellezza stessa tanto chiaro, ma che nel corso dei secoli è rimasto uno dei più oscuri: lo stupore della luce. La luce come luogo della rivelazione dell'assoluto dove tutto trova la sua armonia e dove lo stesso spazio illuminato fa emergere le varie forme create a immagine e somiglianza di Dio. Il nostro intento è quello di operare una lettura estetica a partire dalla luce, vista come il contesto in cui la bellezza si offre nella sua manifestazione eventica, ed anche come ciò che ci permette di cogliere la stessa bellezza. In un primo momento ci soffermeremo sulle caratteristiche fondamentali dell'Estetica teologica di Balthasar. Il lavoro del

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Splendore e percezione della forma nell’Estetica Teologica di Von Balthasar

Di Maurizio Buoni C. P. Introduzione Poco prima della morte, in una intervista postuma, H. Marcuse lasciava un messaggio alle nuove generazioni: “è l’eredità che lascio alla soglia degli anni terribili che si annunciano. I giovani devono capire che bisogna recuperare al più presto i valori estetici. Non si devono rifiutare, in nome della violenza astratta e feroce, l’amore e la visione poetica, lirica del mondo, qualificando l’arte, la cultura, lo spirito come cose reazionarie. È una vera e propria aberrazione. Se si è arrivati a questo punto è perché da un secolo ci si è dimenticati della dimensione estetica, la sola che possa assicurare la rivoluzione del XX secolo, la sola che sia in grado di galvanizzare un mondo avido di pensare, amare, contemplare"1. Su quest'ultima prospettiva di Marcuse le interpretazioni sono state diverse: riscoperta di una più ricca pluridimensionalità dell'uomo, rifiuto della ripetizione, irruzione del bello come preannuncio di un orizzonte radicalmente "altro" e diverso da quello dell'economia e della sociologia, presenza di un più profondo senso tragico della vita, ritrovato legame con Horkeimer (con la tarda esaltazione del Totalmente Altro), e Adorno (la concezione del bello come preludio di felicità)2. È vero: Marcuse non esce dallo spazio tradizionale del suo filosofare, carente di una fondazione propriamente metafisica. Ma non è forse in sintonia con una pungente nostalgia dell'uomo contemporaneo? "Attendo che la bellezza venga ad illuminare un giorno i muri sordidi della mia quotidiana prigione", così E. Ionesco, inquieto cercatore di luce3. Le celebri parole di Dostoewskij richiamano la sua affermazione sulla "bellezza che salverà il mondo". La frase non è il facile slogan di un esteta; è, invece, tra le più pregnanti di questo infaticabile scavatore del dramma umano. Non ne cerchiamo i significati reconditi, la ricordiamo solo come un'intuizione vicina alle nostre ansie e alle nostre domande: tanti aspetti della nostra storia, nel bene e nel male, erano già dentro le sue parole4. È proprio nella dimensione della bellezza, che si offre a noi gratuitamente, che parte la direzione della nostra ricerca, che intende porre in evidenza un elemento della bellezza stessa tanto chiaro, ma che nel corso dei secoli è rimasto uno dei più oscuri: lo stupore della luce. La luce come luogo della rivelazione dell'assoluto dove tutto trova la sua armonia e dove lo stesso spazio illuminato fa emergere le varie forme create a immagine e somiglianza di Dio. Il nostro intento è quello di operare una lettura estetica a partire dalla luce, vista come il contesto in cui la bellezza si offre nella sua manifestazione eventica, ed anche come ciò che ci permette di cogliere la stessa bellezza. In un primo momento ci soffermeremo sulle caratteristiche fondamentali dell'Estetica teologica di Balthasar. Il lavoro del

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teologo elvetico ha inizio con un'operazione imprescindibile: coniugare la gloria con la bellezza. La gloria suscita soddisfazione, ammirazione, meraviglia, a volte rispetto e timore, ovvero desta emozioni. I sette volumi, che trattano diffusamente tale sforzo, protrattosi per un decennio, trovano nel fulcro cristologico l'opera centrale di Dio, l'evidenza oggettiva che con la sua luce rischiara l'evidenza soggettiva, vale a dire la fede. Nel secondo momento evidenzieremo i tratti più suggestivi del suo pensiero teologico, che ha tentato di percorrere provocatoriamente la strada estetica, tenendo conto in modo particolare del primo volume della sua Trilogia, La percezione della forma, per cogliervi quegli elementi che ci permettono di vedere la via della rivelazione sotto l'aspetto dominante della luce che, oltre ad offrire la possibilità di una nuova lettura della bellezza, ci mostra anche una realtà etica: la verità e la bontà della rivelazione stessa. Nella croce il Dio trinitario, assumendo il massimo della ricettività umana, mostra la sua verità che deve risplendere per illuminare l'umanità immersa nella morsa del peccato e delle tenebre. Come scrive Balthasar: "Questa parola dell'amore deve essere una parola che genera luce e che deve essere da tutti vista "volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto" (Zc. 12,10), perché saranno attratti dalla luce dei Crocifisso stesso che mostra una bellezza inconsueta, che vince la bellezza mondana, perché perde la sua stessa bellezza. In questo paradosso inspiegabile il dolore è vinto dall'amore e le tenebre sono rotte dallo squarcio di luce del Crocifisso che domina la scena di questo mondo invocandone il cambiamento"5. Prendendo il "bello" trascendentale, peculiare proprietà dell'essere e inseparabile dalle altre sue determinazioni di vero e buono, Balthasar intende il suo discorso tematico sulla gloria di Dio. Il cristiano ha "il compito di realizzare e di vivere anche oggi la segreta esperienza dell'essere per divenire il custode responsabile della gloria" del Dio vivente apparsa visibilmente in Gesù di Nazaret. Ma siccome la trattazione rigorosamente teologica della gloria della rivelazione cristiana è inseparabile da un riferimento costante alla metafisica da qui il compito, del cristiano, di essere egli stesso il "custode della metafisica". Egli filosofando in base alla fede "è e resta il custode della meraviglia metafisica con cui comincia la filosofia e nella cui persistenza la filosofia sussiste e vive". L'origine e il punto culminante della contemplazione di questo stupore è Dio stesso, la sua bellezza, ossia la sua gloria che è amore. "La bellezza viene dall'amore, perfino il volto di Dio ha dell'amore la sua amabilità, se no non ha splendore"6. 1. Fondamenti filosofici e teologici dell'estetica teologica Cogliere l'estetica nei suoi risvolti metafisici, significa volgere lo sguardo non ad una metafisica che pensa l'essere come fondamento o assenza di fondamento, ma pensarla come dono che viene offerto, che può anche sparire nel momento in cui tale dono non è accolto. In questa dimensione possiamo cogliere la via

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estetica come donazione che ha vissuto nella storia momenti di accoglienza e di non accoglienza: "Nell'apparizione e nel ritorno a sé del fondamento noi siamo al di là di ogni costrizione, nella libertà dell'autodonarsi e dell'essere donati, che deve essere e restare il mistero eterno rivelato a se stesso [...]. Ma il fondamento vuole se stesso solo nell'apparizione, e la luce e la misura che si danno quindi fra i due sono quanto di più manifesto e misterioso c'è al tempo stesso: essere come grazia, gratuità, bellezza, amore"7. La ricerca del fondamento estetico come gratuità, grazia, bellezza, e amore, ci condurrà sui sentieri della luce, e Balthasar ci aiuterà a comprendere che dar luogo ad un'estetica teologica: "non è riportare semplicemente nella teologia le categorie di un campo essenzialmente estraneo, come ad esempio della comprensione religiosa del mondo che avevano i greci. Significa invece unicamente partire dal principio fondamentale che, come questa rivelazione è verità e bontà assoluta, così è anche bellezza assoluta"8. 1.1. Dio: un difficile incontro L'esigenza fondamentale e più intima dell'uomo di ogni tempo è quella di voler incontrare Dio: questa sembra essere l'espressione più profonda e più significativa dell'avventura umana. È un'ansia che l'uomo porta dentro di sé, la stessa identica ansia, anche se nascosta sotto nomi differenti, di poter almeno una volta dire di aver incontrato Dio nonostante poi la descrizione diventi nebulosa e oscura. È, in altri termini, il problema di come ascoltare il messaggio cristiano, di come poter accreditare il mistero di Cristo alla cultura del nostro tempo, di come esprimere la fede all'uomo. I cristiani sanno che il loro annuncio è "scandalo per i giudei e follia per i pagani" (1 Cor 1, 25), ma non possono fuggire da questo grandissimo paradosso; se Cristo è realmente ciò che credono non possono fare a meno di essere trasportati da questa passione e annunciarlo agli uomini. È un fatto: la recezione del cristianesimo non è più la stessa. Non certo perché è cambiato Gesù Cristo, egli è sempre, come nella primitiva predicazione apostolica, Cristo, Signore, Logos-Verbo, Salvatore9, ma è l'uomo della nostra cultura che si è disaffezionato e disinnamorato di questa presentazione. Sembra che il cristianesimo sia stato messo fuori gioco, che ci si trovi davanti ad una apparente inconciliabilità dell'antropologia con la rappresentazione scritturistica e la formulazione dogmatica. Come spiegare questo silenzio di Dio se non come una mutata posizione dell'uomo rispetto al mondo10? Due tappe particolari sembrano segnare il cammino, oggi non più praticabile, con le quali l'uomo tentava di spiegare la presenza di Dio. 1. Il tempo mitico: con esso si voleva rendere credibile e accettabile il messaggio cristiano situandolo sullo sfondo della religione naturale11. Questa prospettiva, particolarmente cara ai

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Padri, concepiva il cristianesimo come completamento della religione naturale. I vari "logoi sphrmatikoi" che davano frammentarietà e molteplicità al cosmo, ritrovavano nella interpretazione del "logo_ sarx", nel Verbo fatto carne, tutta la loro unità e l'intera sintesi. Una simile concezione, facilmente concretizzabile per i Padri, era possibile proprio perché essi formulavano un'identità tra filosofia e teologia; l'ordine naturale cioè era in perfetta identità con quello soprannaturale; i due ordini avevano alla base una concezione profondamente unitaria12. Modificandosi la visione del cosmo però veniva a modificarsi, di conseguenza, tutta la costruzione che su esso il cristianesimo aveva creato; quella metodologia pertanto era valida fino a quando l'uomo considerava il mondo come una realtà che avesse in sé condizioni sacre. Oggi questo non sarebbe più né valido né attuabile; l'uomo, infatti, non è più portato ad elevarsi per contemplare le bellezze del creato come epifania di Dio, ma è piuttosto rivolto ad esse per vedervi una materia capace di essere strumentalizzata e dominata dalla sua avanzata tecnologia. 2. Il tempo filosofico: l'uomo viene qui a trovarsi al centro di tutto il creato; egli assume il ruolo di partner privilegiato di un dialogo tra l'Assoluto e l'Umanità, si concepisce come sintesi di tutto l'universo e come punto di confine tra Dio e il mondo13. Ne scaturisce che tutta la rivelazione, per poter essere accettata dalla ragione, dovrà essere interpretata a partire dalla natura umana. La filosofia diventa unicamente antropologia e la teologia premessa per lo svolgimento ulteriore di una nuova antropologia; l'uomo si sostituisce a Dio, anzi quest'ultimo diventa una "ipotesi inutile" che può solo "alienare" e angosciare l'esistenza dell'uomo che si sentirà continuamente oppresso da questa idea che lo allontana dall'affrontare la reale situazione del mondo14. Anche questa prospettiva oggi non è più perseguibile: la filosofia ha limiti determinati dalla sua natura e dalla sua stessa struttura; essa potrà delineare un'antropologia o una psicologia (intesa come dottrina del comportamento individuale) o una sociologia (intesa come una dottrina sul comportamento collettivo)15, ma non potrà essere in grado di motivare il valore eterno e insostituibile che la persona possiede. Se poi si volesse interpretare la rivelazione in questa prospettiva, allora si cadrebbe in un inevitabile riduzionismo; si priverebbe, infatti, la Scrittura e la salvezza della loro trascendenza e si toglierebbe loro qualsiasi possibilità per essere percepite come dono gratuito dell'amore di Dio. Come si potrà riportare Dio all'uomo? Cosa dovrà fare il credente perché il messaggio cristiano sia accettato dai suoi contemporanei? Come potrà la teologia presentare la credibilità del kerigma senza tradire il kerigma stesso? "C'è una via d'uscita tra l'estrinsecismo di Scilla e l'immanentismo di Cariddi?"16. Un tentativo si può compiere anche se la strada che si vuole seguire è pericolosa, ma non per questo impraticabile17. Bisognerà ritornare alla fonte originaria della filosofia dove i tre trascendentali, verum-bonum-pulchrum, erano tra loro inscindibili. Sarà necessario compiere il passo decisivo,

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importante e fondamentale, quello di assumere l'estetica come metodo. È un cammino che ha lasciato nella Chiesa un solco talmente profondo e penetrante che si è sempre avuta una visione unilaterale e parziale della teologia quando ci si è dimenticati di voler fare entrare in essa il pulchrum: "Non si tratta quindi, a motivo di una vaga e nostalgica malinconia; di far scivolare (la teologia cristiana) o, una carreggiata laterale, tranquilla e poco frequentata. Si tratta piuttosto di riportarla sulla strada principale, abbandonata, senza per questo voler affermare che la prospettiva estetica debba sostituire, per il futuro, nella conduzione della teologia, quella logica ed etica. I trascendentali infatti non sono assolutamente separabili e la dimenticanza di uno di essi non può che avere un effetto distruttore sugli altri. È meglio quindi, proprio per l'interesse comune non bollare a priori questo tentativo - di più esso non può e non vuole essere - come "estetismo", per sbarazzarsene subito, ma cercare, in primo luogo, di prestare ascolto a ciò che esso vuol dire"18. 1.2. Perché la scelta del "pulchrum" "Ciò che è bello appare beato in se stesso"19. Il pulchrum, in quanto tale, si presenta come un fenomeno che si sottrae sempre alla determinazione, ma che tuttavia resta sempre oggetto di speculazione e di indagine. Esso è capace, proprio a causa della sua sovranità e non disponibilità alle leggi razionali dell'uomo, di spezzare ogni costrizione delle leggi tecniche ed economiche ed è in grado, più di ogni altro, di indicare le varie lacune metafisiche dell'interpretazione del cosmo. Proprio a partire dal pulchrum Balthasar cerca di delineare la sua prima sintesi teologica: "La parola con la quale, noi diamo inizio ad una sequela di studi teologici, è una parola con la quale l'uomo filosofico non inizierà mai, ma con la quale piuttosto porrà fine alle sue riflessioni; una parola inoltre che non ha mai posseduto nel concerto delle scienze esatte un posto e una voce durevoli e garantiti; una parola che quando è stata scelta come tema da parte di queste scienze sembra tradire nel consesso di queste indaffaratissimi specialisti, un dilettante stravagante e ozioso; una parola infine dalla quale nell'epoca moderna, mediante energiche delimitazioni di frontiere, hanno preso le loro distanze sia la religione che, in particolare la teologia: in breve, una parola anacronistica per la filosofia, la scienza e la teologia, che non può quindi oggi essere in nessun modo sfoggiata e con la quale si rischia di non trovare ascolto da nessuna parte. Se il filosofo non può cominciare con questa parola, ma tutt'al più (qualora non se ne sia scordato per strada) finire con essa, non dovrebbe il cristiano, proprio per questo motivo, sceglierla come sua parola iniziale? La nostra parola iniziale si chiama bellezza è l'ultima parola che l'intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che coronare, quale aureola

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di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita neppure dalla religione ma che, come maschera e strappata al suo volto mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un'apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, essa non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa"20. 1.2.1. Premesse bib1ico-teologiche Alcuni testi particolari aiutano a comprendere maggiormente l'impostazione che Balthasar dona alla sua opera, ma la specificità di questi non deve allontanarci dalla visione globale che si ritrova in tutta la Scrittura dove, sia il racconto mitico che sapienziale che storico, è fin dalla sua struttura esterna, elemento poetico: "occorre che noi, a guisa di una notazione previa, riandiamo alla Scrittura che se non nella totalità, è tuttavia in misura prevalente un libro poetico. È, necessario quindi superare i limiti imposti dal metodo filologico-archeologico nell'interpretazione dei testi sacri, perché qui viene usata, come strumento di comunicazione, la poesia, forma espressiva più antica dell'umanità"21. C'è un'estetica teologica nell'Antico Testamento dove il rapporto nuziale tra Dio e il suo popolo viene presentato al mondo intero come dialogo di amore e di intimità. La stessa immagine la ritroviamo nel Nuovo Testamento, ma la presenza della Parola di Dio che si fa carne dà un contenuto nuovo ad ogni cosa e l'immagine stessa ne risulta notevolmente differenziata dalla presentazione precedente: "mentre nell'Antico Testamento la designazione di Israele come Sposa era rimasta soprattutto un'immagine etico-giuridica, condizionata dal rapporto personale dialogico e dalla fedeltà rispettivamente promessa e sperata dai contraenti il patto, nel Nuovo Testamento questa designazione diventa radicalmente diversa a causa dell'incarnazione della Parola"22. Grande esempio di contemplazione e sensibilità estetica veterotestamentaria ci è dato dai libri sapienziali dove s'intravvede lo Spirito che riflette su se stesso. Come oggetto di lode egli non prende solo i fatti storici del passato, ma anche la gloria della creazione naturale, la situazione e i sentimenti dell'uomo mortale e soprattutto la stessa sapienza che è cosciente di "autogloriarsi" espressamente. L'autocontemplazione della sophia diventa "glorificazione": "Essa è perciò, alla sua maniera, altrettanto profetica e poetica quanto la rivelazione di Dio nella storia, nella natura e nella vita umana, da essa cantata"23.

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Un testo chiave è dato dal brano di 2 Cor 3, 18: "e noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore". Il contesto di questa pericope è un confronto che troviamo descritto nei vv. 7-15: la gloria che risplendeva sul volto di Mosè è contrapposta alla gloria che si incarna in Cristo; l'una è "effimera" e "passeggera", l'altra "sovraeminente" e "duratura". In Cristo splende la gloria oggettiva di Dio, essa è il kabôd definitivo, inviato e chiamato a coprire con la sua ombra il tabernacolo di tutta la creazione. A differenza di Mosè che portava il volto coperto (Es 34, 33) i cristiani, che vivono del "ministero dello Spirito" (v. 8), uniti a Cristo riflettono loro pure la gloria di Dio; il privilegio che un tempo era solo di Mosè, con Cristo è diventato di tutti i credenti. A partire da 2 Cor 4, 6 in cui Cristo concretizza in sé, in modo totale e definitivo, la gloria di Dio sarà possibile formulare una teologia che abbia alla base l'estetica come suo metodo perché "la conoscenza della gloria divina risplende sul volto di Cristo"24. Altre premesse sono più tipicamente patristiche; non possiamo dimenticare infatti che la formazione teologica di Balthasar ha lo studio e la traduzione dei Padri. Costoro "hanno considerato la bellezza come un trascendentale e hanno sviluppato una teologia coerente con questa convinzione. Questo presupposto ha segnato in maniera profondissima il modo e il contenuto del loro lavoro teologico, giacché una teologia del bello non può essere sviluppata altrimenti che in modo estetico. La specificità dell'oggetto deve imporsi già attraverso la specificità del metodo"25. Sono particolarmente Ireneo, Dionigi, Massimo il Confessore e Giovanni della Croce i punti di riferimento costanti che Balthasar richiama continuamente per giustificare la scelta dell'estetica: "nell'analisi dell'Aeropagita e di Giovanni della Croce26, i teologi più attaccati al metodo apofatico, apparirà come essi non lo isolano mai da quello catafatico e possono tendere in alto la verticale, proprio perché non abbandonano mai l'orizzonte. È questo il motivo per cui sia l'uno che l'altro possono essere fatti valere come i più forti teologi estetici della storia cristiana"27. Ma è soprattutto a Dionigi l'Aeropagita che Balthasar si richiama per mostrare la dimensione complementare di bellezza e amore28. 1.2.2. Premesse filosofiche Due elementi caratteristici determinano, dal punto di vista di riflessione filosofica, i vari momenti dell'estetica. Balthasar si richiama qui espressamente ad Agostino, a Bonaventura e a Tommaso29; egli compie un tale processo di integrazione tra il dato filosofico in quello teologico che ne risulta una sintesi talmente originale che non ha precedenti nel campo della teologia cattolica.

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"Distingueremo, nel bello, due momenti per rapportarli vicendevolmente. Questi due momenti, che hanno determinato a partire da sempre ogni estetica, possono essere contrassegnati con Tommaso d'Aquino come forma e splendore: species (o forma) e lumen (o splendor)"; e ancora: "le parole che tentano di esprimere il bello ruotano, in primo luogo, attorno al mistero della forma o della specie. Formosus proviene da forma, speciosus da species. Immediatamente però si pone la questione sul "grande splendore che irraggia dall'intimo" e rende speciosa la species: splendor. Nello stesso istante si ha la specie e ciò che irraggia da essa facendola preziosa e degna di essere amata"30. Sarà allora necessario chiarificare innanzitutto i due concetti di forma e lumen. Gestalt è ciò che esprime l'assoluto, che lo rivela partendo da sé e rimandando ad una profondità che essa esprime. "Esso (il concetto di Gestalt) intende una delimitata totalità, come tale concepita, di parti e di elementi, e riposante in se stessa, che però per la sua consistenza ha bisogno non soltanto di un ambiente (Umwelt)", ma dell'essere nel suo insieme e in questo bisogno essa è una (come dice il Cusano) "contratta" rappresentazione dell'assoluto" in quanto anch'essa, nel suo piccolo campo, trascende e domina le parti in cui si articola"31. Si dovrà pertanto dedurre da questo che più la Gestalt è pura tanto più il suo rinviare al mistero dell'essere che possiede sarà grande e, in una applicazione più particolarmente teologica, si dovrà affermare che "quanto più un essere è spirituale e autonomo, tanto più sa in se stesso di Dio e tanto più chiaramente rimanda a Dio"32. In altri termini diremo che: come Gestalt il bello può essere afferrato materialmente, " anzi può essere calcolato come rapporto di numeri, come armonia e legge dell'essere"33, ma non può essere limitato a misura matematicamente comprensibile; Gestalt infatti non sarebbe bello se non fosse " elementarmente l'indice e l'applicazione di una profondità e di pienezza che, se presa astrattamente e in sé, rimane inafferrabile e invisibile"34. Ogni qual volta si è voluto togliere questa dimensione essenziale all'essere si è caduti, nel campo dell'applicazione estetica, in una "disestetizzazione della teologia"; questa trova il suo punto culminante nella formulazione protestante che vuole vedere la totalità del bello esclusivamente nella "irruzione della luce"35. Eccezione è fatta per K. Barth il quale, sulla scia di Anselmo e staccandosi decisamente da tutta la tradizione luterana, riscopre nella contemplazione della "essenza di Dio", "della Trinità" e "dell'Incarnazione", i tre momenti particolari della bellezza nella teologia36. Balthasar si trova a suo agio in questa interpretazione e può indubbiamente fare suo il culmine della riflessione barthiana sotto questo aspetto: "Dio non è Dio perché bello, egli è bello perché è Dio"37. Il secondo concetto che dobbiamo prendere in esame è quello di splendor, lumen, intimamente connesso con quello di Gestalt. Esso si presenta come il continuo rapporto tra soggetto e oggetto: "ciò che è oggettivamente armonico deve corrispondere ad un bisogno soggettivo e da entrambi deve risultare una nuova armonia più

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alta, la soggettività nel suo presagire e con la sua facoltà immaginativa deve trovare espressione liberatrice in una opera oggettiva e in essa ricuperare se stessa"38. In altri termini, forse più adattati ad una problematica teologica ritroviamo quanto era già esposto in un "saggio" dell'inizio del lavoro di von Balthasar: Die Wahrheit39; dove, nella ricerca di un'unità dei tre trascendentali40, egli mostra chiaramente la dialettica di un continuo rivelarsi e nascondersi della realtà dell'essere: "in realtà l'essere non acquista una profondità se non divenendo interiormente luminoso e arricchendosi di una sfera intima, di una interiorità, in breve passando (o meglio avendo già sempre passato) dal semplice "essere-per-sé" superficiale alla profondità e all'interiorità dell'"essere-per-sé". Solo quando la profondità si esteriorizza e si presenta in una apparizione diventa veramente profondità (Grund) cioè qualcosa che acquista profondità nel momento stesso in cui si inizia a misurare la profondità stessa. Si vede così che in questo movimento di apertura di sé, la profondità è sempre lo scopo ultimo di questo movimento; perché solo l'essere realmente esteriorizzato ha trovato se stesso e conoscendo la propria profondità per presentarsi agli altri"41. L'essere tuttavia che è nella sua profondità misterioso e sublime trova nello stesso tempo la sua piena espressione nella bellezza: "la bellezza è la pura luminosità del vero e del bene [...] è la comunicazione che poggia su se stessa [...] e infine una gioia indescrivibile che è al di sopra di tutte le cose e che partecipa alla gioia insondabile della luminosità originale dell'essere"42. In tutto si nota però la stretta dipendenza da Tommaso a cui Balthasar più volte esplicitamente si richiama. Tommaso deve aver ascoltato la presentazione del pensiero estetico di Dionigi fatta da Alberto Magno a Colonia dal 1248 al 1252; pur non avendo formulato un'estetica sistematica, Tommaso non ne sentiva il bisogno specifico in quanto gli era connaturale e spontanea una visione del mondo in termini di bellezza43; egli fissa tuttavia i criteri necessari per una corretta interpretazione estetica. Col termine di forma infatti viene inteso da Tommaso il principio strutturale della cosa, l'entelechia aristotelica e, in termini più estetici dovremmo identificare la forma come la perfezione, la determinazione della cosa che è pur sempre composta di materia, ma non tuttavia riducibile ad essa. In altri termini: con l'ens abbiamo la cosa strutturata e concreta, l'organismo retto da un rapporto che informandolo, lo fa essere; questo organismo così concepito è forma nel suo aspetto strutturale, al di fuori della dipendenza ontologico-metafisica. "Ora quella bellezza che s'identifica con la perfezione stessa della cosa, che riposa sulla concretezza dell'atto di esistere, che si identifica con la pienezza dell'essere, tanto da essergli trascendentalmente indisgiungibile, non può non riposare sulla sostanzialità"44. Avremo quindi necessariamente bisogno, per Tommaso, di un organismo che sia strutturato in modo tale da essere integro e proporzionato (proportio sive consonantia).

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Altro termine usato da Tommaso, anche nelle accezioni più disparate, è quello di splendor, lumen, claritas che non è da interpretare come integrità o come proporzione, ma è il principio comunicativo della forma che si realizza nel rapporto di visualizzazione dell'oggetto. Diremo così, concludendo, che per Tommaso la cosa è ontologicamente disposta ad essere giudicata bella, ma per essere tale necessita di una focalizzazione tra oggetto e soggetto in modo tale che quest'ultimo possa essere messo in stato di contemplazione45. 1.3. Peculiarità dell'Estetica Teologica Possiamo ora delineare, nelle sue caratteristiche essenziali, l'estetica teologica di Balthasar: egli parte dall'uomo che contempla Dio, o meglio la gloria di Dio che si manifesta nella persona di Cristo. Partendo dall'uomo che contempla la bellezza, il teologo svizzero fonda giustamente l'estetica teologica evitando il pericolo di formulare una teologia estetica, che sarebbe stata tale se punto di partenza fosse stato Dio e non l'uomo. Il bello quindi appare all'uomo, egli lo può percepire quanto rinviato dalla forma stessa alla profondità che essa contiene e, in questa dinamica, è portato inevitabilmente ad essere rapito in modo estatico per la contemplazione del bello stesso. "L'apparizione (Erscheinung), come rivelazione della profondità, è indissolubilmente e, allo stesso tempo, presenza reale della profondità, del tutto, e rimando reale, al di là di se stessa, a questa profondità. Noi "scorgiamo" la forma ma quando la scorgiamo realmente, non solo come forma disciolta, bensì come profondità che si manifesta in essa, allora la vediamo come splendore e gloria dell'essere. Guardando questa profondità siamo "incantati" da essa e in essa "rapiti", ma (fin quando si tratta del bello) mai in modo tale da lasciare dietro di noi la forma (orizzontale) per immergerci (verticalmente) nella nuda profondità"46. Primo termine fondamentale per comprendere l'estetica teologica di Balthasar è quello di "percezione" (Wahrnehmung) con la conseguente "dottrina della percezione" (Erblickungslehre)47, esso ruota intorno all'interrogativo costante di come l'uomo possa entrare in comunicazione con Dio, e come possa percepire la sua azione salvifica. Estetica in questo contesto è usata in senso kantiano come intuizione sensibile dell'uomo, attività che è movimento del soggetto verso l'oggetto percepito in cui il soggetto stesso impegna tutte le sue attività48. A partire da qui la bellezza manifesta una profondità che le è essenziale. "Per vivere nella forma originaria occorre averla intravista. Occorre avere un occhio dell'anima capace di percepire nel rispetto profondo, le forme dell'esistenza. (Quale parola: percezione, Wahrnehmung, cioè capacità di cogliere il vero! Ma cosa ne ha fatto la filosofia: il contrario di ciò che esprime la parola tedesca!). Non si tratta di atti puntuali, isolati nei

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quali l'uomo, come con uno spillo, possa perforare la nebbia che avvolge l'annichilimento e la quotidianità della sua esistenza fittizia, per aprirsi un forellino verso cui scorge l'assoluto; in questo modo egli non riuscirebbe a salvare la sua dignità perduta. Si tratta piuttosto di una forma vitale disposta, e quindi capace, a conferire nobiltà alla sua stessa quotidianità. Ma ancora una volta: l'uomo ha bisogno per questo di possedere occhi capaci di scorgere la forma spirituale"49. La percezione impegna, quindi, l'uomo ad entrare in sintonia con ciò che viene percepito per poter compiere il secondo momento, inscindibile da questo primo appena descritto; il momento cioè in cui si viene rapiti nella contemplazione estatica del bello. È necessario quindi che in questo primo momento l'uomo usi "una tale semplicità di sguardo" che permetta la decisiva "percezione del vero"50. "A partire da qui bisogna guardare il punto più alto: la forma della rivelazione divina nella storia della salvezza fino a Cristo e a partire da lui. Qui, ancora una volta, si richiede uno sguardo più affinato e non è da nutrire eccessiva speranza che questi occhi nuovi ci siano comunicati e ci vengano aperti se prima non abbiamo già imparato a contemplare con gli occhi vecchi la forma dell'essere. La soprannatura non serve a sostituire ciò in cui noi siamo falliti con le nostre capacità naturali. Gratia perficit naturam, non supplet"51. È il passo necessario per descrivere il secondo termine chiave dell'estetica: estasi (Entrückung). "Solo ciò che ha forma può trasportare e rapire nell'estasi; solo attraverso la forma può guizzare il lampo della bellezza eterna. Si dà il momento in cui la luce prorompente, lo spirito zampillante, irradiano la forma esteriore e dalla maniera e dalla misura in cui ciò avviene, dipende se è bellezza "sensibile" o "spirituale", grazia o dignità - ma senza la forma l'uomo non può essere afferrato e rapito". Questo è il momento inevitabile che deve compiere colui che passa dall'essere "entusiasta della bellezza naturale" all'essere "estasiato della bellezza cristiana"52; è il passaggio dal confine della filosofia al campo dominato dalla teologia, da quello dominato dalla natura a quello della grazia; è l'elevarsi continuo della creatura,verso la contemplazione del Creatore. "Estasi non significa alienazione dell'essere finito da se stesso per ritrovarsi nella sua autenticità oltre se stesso nell'infinito, ma significa superamento della nostra estraneità davanti all'amore assoluto in cui l'io (o anche il noi) finito, chiuso in se stesso, anzitutto e soprattutto vive, significa essere attirati nella sfera della gloria tra il Padre e il Figlio quale è apparsa in Gesù Cristo"53. La conseguente dottrina del rapimento (o ugualmente dottrina dell'estasi, Entrückungslehre) deve essere compresa non come un semplice rimando ad una realtà superiore, ma come realtà stessa presente già nella percezione: "la forma visibile non "rinvia" soltanto ad un mistero invisibile della profondità, ma ne è l'apparizione, lo rivela proprio mentre nello stesso tempo lo nasconde e lo vela"54.

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In una trasposizione teologica, estetica diventa gloria, kabôd; "autopresentarsi della gloria di Dio, della sua bellezza teologica "; "estasi deve essere intesa nel Nuovo Testamento come un essere rapiti dalla gloria di Dio - dal suo amore - in modo da non rimanere spettatori, ma da divenire collaboratori della gloria"55. Davanti a tale splendore di gloria l'uomo non viene accecato dalla troppa luce emanata dalla bellezza divina ma, per grazia, lo spirito umano diventa capace di resistere davanti alla semplicità infinita e si pone in stato di contemplazione, di adorazione e viene così trasformato in credente e discepolo. Sembra quindi che nella fase dell'estasi si debbano distinguere due momenti inscindibili tra loro, tanto da farne un unico atto: l'autopresentazione di Dio e il rapimento dello spirito umano. Non si può non rivedere così la scena descritta da Paolo in 2 Cor. 12, 2-4: "Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa, - se con il corpo o fuori del corpo non lo so, Dio lo sa - fu rapito fino al terzo cielo. E so che questo uomo - se con il corpo o senza corpo non lo so, Dio lo sa - fu rapito in Paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare". Il primo atteggiamento da parte del credente è quello dell'entusiasmo che costituisce parte costitutiva della contemplazione: "la dottrina della contemplazione che implica necessariamente un momento entusiastico"56. E ancora in termini più chiari dichiara che: "Mancando questa contemplazione, la rivelazione di Dio propriamente non sarebbe degna dell'uomo. Essa né distrugge nel mistero della croce la rivelazione dell'essere (e quindi il momento estetico), né la sostituisce (in tal caso, infatti, sarebbe Dio ad abolire il suo disegno cosmico insieme con i presupposti che ha stabiliti per il suo compimento); invece le "svolte" i rivolgimenti, in cui Dio, provoca uno choc nell'uomo peccatore, si velano e si dimostrano un invito e un motivo per superare con un balzo i limiti di una finitezza rinchiusa su di sé per entrare in quella manifestabilità e in quell'apertura di Dio, e cui già rimandava la creaturalità, senza poterle pienamente elargire"57. Entusiasmo non deve però essere confuso o frainteso come una reazione psicologica: "l'entusiasmo inerente alla fede cristiana non è puramente idealistico, ma è un entusiasmo originato dell'essere effettivo, realistico e perciò ad esso adeguato"58. L'entusiasmo di cui si parla nella contemplazione è obbedienza a Dio attraverso quell'atto di fede che è piena fiducia e amore in colui che per primo ci ha amati: "Lo spirito che nasconde in sé Dio (en-thous-iasmos) obbedisce ad una istanza più alta che implica una forma ed è capace di realizzarla: allora non è giusto rifiutare una analogia intrinseca tra le due forme o i gradi di bellezza. È implicito nella natura della cosa che si dia un progresso autentico dall'entusiasmo come principio della forma, all'essere inabitati da uno spirito più alto e che questo progresso, per esprimerci in termini cristiani,

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con duce nel dominio della fede; nella fede cioè in uno spirito divino personale ed originario, libero e signore. È proprio della fede consegnarsi misticamente all'assoluto, non soltanto originario che supera qualsiasi forma del mondo, la mette in discussione, la distrugge anzi; è proprio della fede l'affidarsi piuttosto, contemporaneamente, nella confidenza, al Creator Spiritus"59. Entusiasmo quindi è un momento che, teologicamente, abbraccia e completa tutto l'arco della rivelazione divina all'uomo. Un secondo momento è quello dell'indifferenza (Indifferenz) intesa non come apa_eia della gnosi filosofica, come pura contemplazione, quanto piuttosto ci sembra, nell'interpretazione data da Massimo il Confessore come libertà assoluta, disponibilità alla fede e all'amore: "noi cogliamo rettamente la rivelazione nella carne e nella lettera quando, pur nella finitezza della carne e della lettera, manteniamo quella disposizione di apertura verso l'infinità della verità divina, che è una cosa sola con la pienezza divina del Figlio [...]. Questo atteggiamento di disponibilità è fede, in quanto poi soggetti portatori di valori, questa medesima disponibilità è amore"60. Per comprendere in fondo la portata dell'estetica teologica sarà necessario vedere, a conclusione, l'inscindibile unità che intercorre tra dottrina della percezione (Erblickungslehre) e dottrina dell'estasi (Entrückungslehre); non sono queste realtà giustapposte, ma un solo atto: "Visione ed estasi non sono una accanto all'altra, ma una nell'altra"61. In questo modo si dà alla rivelazione stessa un elemento dinamico; essa non è statica, ferma, ma è in continuo passaggio che parte dall'essere percepita, al suo mostrarsi come tale con il rimando alla sua profondità e al suo contenuto, rapendo l'uomo in atteggiamento estatico. "Dottrina della considerazione e della percezione del bello ("estetica, nell'uso che fa del termine la Critica della ragion pura) e dottrina della forza di rapimento del bello sono vicendevolmente connesse. Nessuno infatti può percepire in verità senza già essere stato rapito e nessuno che non abbia già percepito può essere rapito. Questo vale anche per il rapporto teologico tra fede e grazia"62. 1.3.1. Estetica e metodo in teologia Non avremmo completato, anche se sommariamente, la presentazione dell'estetica teologica se non vedessimo le implicanze che essa comporta per la teologia in tutto il pensiero di Balthasar. Cosa debba essere "metodo" in teologia il nostro autore lo dice espressamente: è atteggiamento semplice, realizzato con gli occhi della fede63 che permette di concretare sia la percezione che l'estasi della bellezza divina: "Diventa chiaro che il metodo teologico una volta presupposti gli "occhi della fede" in cui avviene questo risplendere - non può mai essere propriamente deduttivo (perché altrimenti sottometterebbe la libertà della forma alle leggi del pensiero umano), ma

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piuttosto induttivo, nel modo proposto da Newman, al punto da presentare le convergenze delle linee e delle vie di valutazione nell'unico punto splendente focale dove risplende la gloria. È il metodo dell'essere semplici di fronte alla semplicità divina. Che poi adesso si veda soprattutto l'inesprimibile semplicità della gloria divina riversata su tutta la forma (come riesce soprattutto a fare la teologia greca che resta perciò prevalentemente "simbolica" e contempla ogni particolare in trasparenza sull'infuocato centro dell'epifania di Dio) o che invece si percorrano con diligenza razionale le vie verso il centro a partire dalle articolazioni esterne (come ama fare la teologia occidentale per capire meglio essa stessa e aprire ad altri più vie alla intelligenza del mistero), in tutti e due i casi i due metodi devono e possono completarsi a vicenda"64. Il metodo estetico non è qualcosa di irrilevante, ma si presenta come l'unico in grado di raggiungere il cuore stesso della teologia. Sorgente prima dell'estetica infatti, da cui tutto deriva e a cui tutto tende, è il fatto fondamentale dell'Incarnazione. "l'Incarnazione di Dio porta a compimento tutta l'ontologia e l'estetica dell'essere creato che viene assunto in una nuova profondità ad espressione e linguaggio dell'essere e dell'essenza divina a dare testimonianza è Gesù Cristo che, in quanto uomo, utilizza tutto l'apparato espressivo umano dell'esistenza storica, dalla nascita alla morte, in tutte le età, le condizioni, le situazioni individuali e sociali. Egli è ciò che esprime, cioè Dio, ma egli non è colui che egli esprime, cioè il Padre. Paradosso incomparabile che sostituisce il punto originario dell'estetica cristiana e quindi di ogni estetica"65. L'Incarnazione pertanto, in questa dimensione, non può essere compresa come un esempio per illustrare una verità; ma è la verità stessa che si rivela. È dall'Incarnazione che scaturisce la testimonianza apostolica trasmessa dalla Chiesa nella Scrittura: "solo a partire da questa immagine, contemplata con gli occhi della fede, i testimoni oculari hanno dato la loro testimonianza orale e poi anche scritta"; "l'insegnamento e l'esistenza di Cristo non potrebbero essere compresi, nella loro forma, al di fuori di questa sua connessione con la storia della salvezza che tende a lui"66. Oggetto specifico dell'estetica quindi è la percezione della bellezza divina e il suo contenuto è l'amore del Padre che si concretizza nell'esistenza umana del Figlio che vive rivelando l'amore trinitario del Padre e dello Spirito Santo67. Il metodo così concepito viene descritto da Balthasar come un metodo di "integrazione" in opposizione a quello "evolutivo"; integrazione cioè tra la fedeltà all'evento storico della persona di Cristo e la sua presentazione secondo le necessità dell'uomo moderno68. L'estetica tuttavia non è solo metodo in teologia, ma in certo qual modo la definisce69, anzi, la teologia è l'unica che possa

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avere come oggetto il pulchrum; in essa infatti si ritrova quel processo "dialettico" che permette al pulchrum70 di essere percepito e di riportare alla profondità che rivela. La teologia, quindi, si pone al servizio della Scrittura guida la riflessione della fede e permette un addentrarsi sempre maggiore nella persona di Cristo che concretizza in sé il culmine di ogni paradosso: l'inesprimibile infatti diventa parola. Davanti a questo evento la teologia "costringe" se stessa a mettersi in stato di adorazione, in ginocchio e diventa teologia apofatica71. La teologia non può dimenticare neppure per un istante le sue radici da cui trae la linfa: l'adorazione in cui, nella fede, vediamo i cieli aperti, e l'obbedienza della vita che ci fa liberi di intendere la verità72. Date queste premesse, scaturiscono inevitabili conseguenze per l'intera struttura della teologia; questa difatti non sarà più frammentata a secondo delle differenti verità da dimostrare, ma poggiandosi sull'atteggiamento di percezione e adorazione dell'unica e complessa verità rivelata, si orienterà in due direzioni; l'estetica quindi comprende: 1) dottrina della percezione o teologia fondamentale. Estetica (nel senso kantiano) come dottrina della percezione della forma del Dio che si rivela. 2) La dottrina del rapimento o teologia dogmatica. Estetica come dottrina dell'Incarnazione della gloria di Dio e dell'elevazione dell'uomo alla partecipazione di questa gloria73. Si presenta, a questo punto, una conclusione metodologica di vasta portata: l'inscindibile unità tra teologia fondamentale e teologia dogmatica tra la dottrina della percezione e quella dell'estasi. Il nostro autore, sotto questo aspetto, non lascia dubbi: Teologia fondamentale e teologia dogmatica sono inseparabili"74. La vera teologia quindi, quella dei santi, è quella che si fonda sull'obbedienza della fede e sull'abbandono fiducioso all'amore, puntando sempre al centro della rivelazione e indagando, come pensiero umano, quale problematica, quale metodo speculativo siano idonei ad illuminare il senso della rivelazione in se stessa. Ma ogni teologia dovrà pure essere aperta all'uomo, abbracciare tutto l'uomo nella sua globalità; apertura alla verità e idoneità a rendere credibile il messaggio cristiano: "qualsiasi concetto della teologia deve essere cattolico, cioè universale, cioè tale da rappresentare ogni verità, da attirare in sé o da aprirsi ad ogni verità, da spezzare i limiti, da risorgere nella verità celeste, dopo aver attraversata una propria morte. E questo deve avvenire nella fede, non (hegelianamente - dialetticamente) nel sapere: o in un sapere che sia esso stesso una fede protesa nella ricerca e appagata nel ritrovamento secondo la norma dell'adorazione e dell'obbedienza e della grazia"75. Non la storia e le sue leggi quindi e neppure la filosofia con i suoi sistemi, ma la fede stimola la teologia e la rende capace di inginocchiarsi nell'adorazione e nella kenosi dell'obbedienza. Definendo la teologia si fissa necessariamente anche il fine e il lavoro del teologo; egli è colui che di volta in volta applica le leggi del pensiero umano in modo che la legge della fede vi risulti più visibile. Dice Balthasar:

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"Stranamente paradossale è nel mondo attuale la situazione del teologo. Per vocazione egli è votato allo studio del passato dove Dio si è manifestato e al di là anche di questo passato dove Dio si è manifestato al di là anche di questo passato alla contemplazione dell'Eterno. Ma nella sua esistenza è immerso in un mondo che vacilla sulle proprie basi e sembra pronto a sprofondarsi. Pur assorbito che sia nella preghiera e nelle ricerche professionali, se egli ha conservato qualche libertà per guardare attorno a sé e per elevarsi abbastanza alto per cercare di comprendere quanto avviene, non può dubitare che egli appartiene ad un'"epoca", come diceva Péguy, non ad un "periodo""76. Definendo il teologo e il ruolo che questi occupa nella Chiesa come colui che, adorando e obbedendo, svela nella limitatezza del pensiero umano le "insondabili ricchezze" della bellezza divina, Balthasar definisce anche il programma della sua vita come credente e come teologo. Leggendo con occhio attento le alterne vicende della nostra storia e ponendosi la radicale domanda di come poter manifestare nella nostra cultura la grandezza della bellezza divina, von Balthasar indirizza se stesso e ogni teologo, all'inno di giubilo come il luogo privilegiato per una autentica teologia: "poiché solo l'occhio semplice ottiene di scorgere un barlume della semplicità infinita. Io ti esalto Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai saggi e sapienti, ma le hai rivelate ai semplici"77. 2. Il Tema della luce nell'estetica teologica Noi a volte vediamo la luce davanti a noi e vediamo un cielo luminoso senza vedere la luce, e come riusciamo a vedere quella luce? Forse perché abbiamo anche la luce nel nostro sguardo? Se questa luce non è contigua allo strumento con il quale noi guardiamo, allora essa è qualcos'altro? La luce è il luogo in cui tutto si rivela? La luce è forse una totalità che cancella tutte le differenze, è una totalità in cui tutte le cose perdono la loro identità? La luce porta alla comprensione della bellezza? Partendo da questi interrogativi cercheremo di evidenziare il problema della luce così come è posto da Balthasar nella sua opera ed in modo particolare nel primo volume: La percezione della forma. Rileviamo come tale problema inerente alla luce non trova in Balthasar il suo precorritore, ma egli è stato uno fra gli autori che ne ha fatto oggetto della sua riflessione78. 2.1. Luce e bellezza come stile teologico Esaminando lo stile teologico di Balthasar A. Scola afferma: "all'irradiarsi assolutamente libero e affascinante della Signoria di Dio sull'essere, su ogni essere, una Gloria da cui sprigiona una bellezza che rapisce chi la percepisce. Lo stile per Balthasar si trova alla confluenza delle categorie tomistiche di species

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(forma) e di splendor (splendore). Sono i fattori costitutivi del pulchrum che Tommaso stesso definisce come splendor veri"79. Uno stile è, propriamente parlando, solo l'espressione (expressio) dell'impressione (impressio), i termini cui Balthasar rinvia sono di Bonaventura80, che una forma col suo splendore esercita su chi la percepisce, il quale a sua volta ne è sempre rapito. Al di fuori di questo nucleo costitutivo non si dà il bello e, quindi non si dà stile alcuno. Teologicamente parlando la forma del bello è la gloria di Dio il cui splendore afferra e rapisce. E la Gloria di Dio tocca il suo vertice in Gesù Cristo, cioè in quella forma imperitura che congiunge Dio e l'uomo (il mondo) nella nuova ed eterna alleanza. E questa forma ha bisogno più che mai di quella capacità di visione che è propria degli occhi semplici della fede81. La forma teologica chiama in causa l'uomo affascinato e rapito dentro la gloria di Dio la cui vita ed il cui pensiero vogliono essere un frammento in cui possa brillare per noi la bellezza della forma assoluta: il Dio di Gesù Cristo82. Essa in senso supremo è il Dio unitrino il cui misterioso splendore, la cui gloria appunto, restando assolutamente se stessa, attraversa tutto lo sconfinato campo degli esseri e vi imprime il suo sigillo, così che questi a loro volta possono esprimere la bellezza ricevuta83. Allora ci domandiamo: se l'uomo è forma, può percepire la forma suprema irraggiata dalla Gloria di Dio dai mille fenomeni di questo mondo? Proprio il primo volume di Gloria, si fa carico di rispondere a tali questioni, sul piano soggettivo dell'esperienza della fede e su quello oggettivo dello svelarsi dell'evento della Rivelazione, giungendo fino a porre le condizioni per cogliere la forma di Colui che si è inabissato per noi sulla Croce, trovandovi per la potenza dello Spirito la Gloria del Padre. Per cogliere questa forma, per farne in qualche modo un'interiore esperienza, l'uomo possiede una precomprensione nella sua struttura umana84. Balthasar tenta di mostrare, sulla scia della metafisica classica, la natura enigmatica dell'uomo: "l'uomo esiste come essere limitato, eppure la sua ragione è aperta all'illimitato, all'Essere tutto intero"85. Ed è questa precomprensione umana che permette alla teologia di trovarsi nella condizione di essere aperta da tutte le parti, proprio come un frammento dove, se mai vorrà, la gloria stessa potrà risplendere della luce di Dio. Se per Rahner, il punto d'avvio della riflessione filosofica è l'autocoscienza del soggetto e la messa in questione del suo mondo86, per Balthasar l'esperienza umana originaria è quella del Tu, l'attimo in cui il bambino, per la prima volta, diviene consapevole del sorriso della madre. In questo incontro gli si apre l'orizzonte di tutto l'essere infinito che gli mostra quattro verità: "1° Nell'amore egli è "uno" con sua madre, benché le stia di fronte, così che ogni essere è "uno". 2° Quest'amore è "buono", dunque ogni essere è "buono". 3° Quest'amore è "vero", dunque ogni essere è "vero". 4° Quest'amore suscita "gioia", dunque tutto l'essere è "bello". È proprio dell'essere di manifestarsi: "Un essere "appare", ha luogo un'epifania: in questo manifestarsi esso è bello e ci rende felici. Apparendo esso si dona: è buono. E

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donandosi "si esprime", si svela: esso è vero (in sé e nell'altro cui si rivela"87. Per l'autore svizzero, contro Heidegger, è imprescindibile rilevare che nell'epifania o manifestazione dell'essere noi non cogliamo soltanto l'ente (il fenomeno) o la parvenza di essere, ma l'essenza di ciò che si dà a vedere, cioè la realtà stessa. È proprio della verità dell'essere il suo svelamento, la sua non chiusura in sé, il suo non-nascondimento (a-létheia). Questo non-nascondimento significa: "che da una parte appare l'essere e che dall'altra l'essere appare"88. Questo svelamento è una peculiarità dell'essere in quanto tale, indica il suo movimento e la possibilità di farsi conoscere nel suo mistero. In questo movimento ravvisiamo: "1° ciò che si apre, il fondo (Grund) dell'essere; 2° ciò che è aperto, l'apparenza o fenomeno; 3° l'apertura stessa come il movimento del fondo dell'apparenza. L'apparenza non è un essere diverso indipendente accanto al detto fondo, [...] è piuttosto l'esposizione del fondo, la sua informazione, per così dire misurazione"89. Dunque, l'epifania dell'essere, cioè la sua bellezza, è realmente la breccia attraverso cui penetrare nell'uomo per destarlo, contemporaneamente, alla coscienza di sé e del reale90. 2.2. splendore e gloria della forma Solo nei sensi, e attraverso essi, l'uomo percepisce e sente la realtà del mondo e dell'essere. L'uomo può percepire la bellezza di una cosa, dì un oggetto solo perché questa cosa, elemento qualsiasi della natura, possiede una sua forma particolare, strutturata, articolata, complessa e allo stesso tempo semplice. Una forma vede la forma. Questa forma, che delinea ogni cosa rendendola percettibile, presenta dei tratti distintivi per apparire bella agli occhi dell'uomo: una luce propria, che la rende visibile all'occhio di chi guarda; una luce in cui ad essa è data risplendere come forma particolare. In ultimo, un soggetto che ha la capacità di vedere in essa una luce particolare, propria di una forma concreta, che risplende nella sua bellezza. "Il bello è in primo luogo una forma e la luce non cade su questa forma dall'alto o dall'esterno, ma irrompe dal suo intimo. Species et lumen sono nella bellezza una sola cosa, almeno se la species porta a buon diritto e realmente il suo nome (che non sta ad indicare una forma qualsiasi, ma la forma che s'irradia e suscita diletto). La forma visibile non rinvia soltanto ad un mistero invisibile della profondità, ma ne è l'apparizione, lo rivela proprio mentre nello stesso tempo lo nasconde e lo vela"91. Da ciò appare evidente che l'uomo avendo una forma coglie la bellezza di un'altra forma particolare poiché ha la capacità intrinseca di vedere nella luce. Egli, vedendo nella luce risplendere altre luci particolari, coglie l'intensità di bellezza dando vita ad una graduazione di forme dettata dalla loro maggiore o minore intensità di luce: "il contenuto non giace dietro la forma, ma in essa. Chi non riesce a vedere e a leggere la forma,

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non può cogliere nemmeno il contenuto. A colui il quale la forma non dà luce, rimarrà invisibile anche la luce del contenuto"92. Balthasar offre l'esempio della conversione di San Paolo. Paolo resta folgorato da una forma originaria luminosissima, splendente di luce, in pieno giorno. Questa forma che era Cristo stesso non era uguale alle altre, ma è stata percepita, vista o in modo spirituale o in modo materiale proprio per la sua grande luminosità, come coronata di spine e crocifissa93. Paolo si converte perché coglie la bellezza di questa forma di Cristo grazie alla sua luce particolare94. Paolo vede questa forma di luce in pieno giorno (siamo quindi in un contesto luminoso) rimanendone conquistato. Si comincia a delineare così il discorso: la forma si dà nella luce come contesto, e risplende in quella luce di una luce propria e particolare che fa emergere la bellezza a coloro che possono vederla, che cioè hanno la possibilità recettiva di ricevere tale forma, perché anch'essi aventi una forma propria, con una luce propria, che risplende nel contesto di luce dove può essere vista e percepita. "In questo movimento si fondano il vero, il bello, il bene. Ogni apparizione è al tempo stesso un illuminarsi del fondamento e una misurazione delle proprie dimensioni; luce e misura sono correlative, allo stesso modo in cui il fondamento è tale solo nell'apparizione e si dà apparizione del fondamento. Lo spazio di luce tra il fondamento e l'apparizione è misura e dove questa luce diventa riflessione, la misura diventa parola dell'essenza che raccoglie e legge se stessa e fa di se stessa un valore e un dono comunicabile. La luce dell'essere diventa allora fonte di felicità e la misura dell'essere fonte della verità"95. Se affrontiamo la lettura del testo balthasariano con la distinzione data dalla natura stessa dei termini, ci renderemo conto che la luce manifesta, fa emergere lo splendore della forma che mi fa percepire il bello, che appartiene a me soggetto che guardo. Oppure, detto in altri termini: luce-splendore della forma-bello trascendentale. Lo splendore è, quindi, una qualità della luce, manifesta, che fa emergere ciò che permette di avere una visione della bellezza. Quindi se noi intendiamo il pulchrum, il bello come trascendentale, cioè come bellezza dell'essere, dobbiamo presupporre che questa bellezza dell'essere è percepibile da un soggetto perché essa splende di una luce propria. In altri termini, è inevitabile l'affermazione che l'essere è luce e come tale appare bello, cioè appare in quell'elemento che l'uomo può percepire perché predisposto nella sua precomprensione. L'essere è luce che manifesta la sua bellezza agli occhi dell'uomo. Si può concludere che se il bello è il trascendentale, esso ha come suo fondamento la luce. Balthasar, cogliendo queste distinzioni, utilizza i tre termini in modo correlato al concetto di forma. Emerge che una forma è bella perché splende, in quanto ha una luce propria. Quello che il soggetto vede è una forma concreta, particolare, finita, inserita in un contesto di forme che splendono in modo diverso, perché diversa è la loro luce.

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Chiaramente la forma perfetta è quella di Cristo, che risulta l'apice della manifestazione della bellezza, perché risplende sul mondo intero, quindi splende più di tutte le altre forme che a lui si accostano perché la sua luce propria e originaria, in quanto gli viene conferita da Dio. Quindi una forma è tanto più perfetta quanto più conforme a quella di Cristo: "alla contemplazione di Dio, dove in una estasi irresistibile, bisogna prendere atto che anche la forma, la maniera e il modo in cui Dio è perfetto, sono perfetti, sono cioè la forma perfetta, questa forma è infatti quella meravigliosa, sempre misteriosa e tuttavia sempre chiara in se stessa, unità di identità e non identità, di semplicità e molteplicità, di interiorità ed esteriorità, di Dio stesso e della pienezza di ciò che egli, in quanto Dio, è"96. Balthasar si rende conto che il compito rigorosamente teologico di chi tratta della gloria della rivelazione cristiana non è risolvibile senza una costante implicazione della metafisica. I trascendentali sono in forte correlazione tra loro: Verum-Bonum-Pulchrum, accompagnano la manifestazione, l'apparire dell'essere all'ente. La svolta che Balthasar compie è di grande genialità: sceglie il Pulchrum, il bello, perché risulta fondamentale. Possiamo dire che, se non percepiamo una forma concreta, non possiamo vedere la sua verità e la sua bontà. "Solo il divenire manifesto di una forma espressiva nella cosa conferisce ad essa quella dimensione profonda tra fondamento ed apparizione che, in quanto luogo proprio della bellezza, scopre anche il luogo ontologico della verità dell'essere e libera il soggetto, che tende alla distanza spirituale, che rende il bello della forma degno di essere amato nel suo essere in sé ( e non soltanto nel suo essere per me) e quindi solo così degno di essere perseguito"97. È nella contemplazione di una forma che posso rendermi conto della sua verità e della sua bontà. Il capovolgimento è giusto e non si contrappone al pensiero precedente, ma lo rovescia nella sua prospettiva in quanto i trascendentali dell'essere sono correlativi (insieme danno la pienezza) e non esclusivi. Questo significa che partendo dal bello di una forma, che è la prima cosa che mi appare, che mi si manifesta, io mi renderò conto anche della sua verità e della sua bontà. Se questo ragionamento è corretto, si può affermare che quella luce che mi permette di cogliere la bellezza tramite il suo splendore, mi permette anche di percepire la verità e la bontà. L'essere quindi è luce, e perché luce, io posso comprendere i suoi trascendentali, i suoi modi di esprimersi. Ed ecco anche spiegato il piano dell'opera balthasariana che, dopo aver esaminato i capisaldi di una forma, ne vede i suoi percorsi storici nel suo evolversi. Nella luce dell'essere comprendiamo la nostra luce e contempliamo la luce che possiedono tutte le forme esistenti in natura e che appaiono belle. 2.2.1. Il rapporto luce e forma

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Ora è nostra intenzione concretizzare la nostra ipotesi per poter leggere il pensiero del nostro autore, comprenderne il nesso fondamentale persistente tra luce e forma. La forma è la categoria decisiva98, tanto che Balthasar nella Premessa , alla sua opera, così si esprime: "se tutto ciò che è bello sta soggettivamente alla confluenza di due momenti che Tommaso chiama species e lumen, forma e splendore, allora il loro incontro può essere caratterizzato dai due momenti del percepire e dell'essere rapiti"99. Questo significa che i due momenti del percepire e dell'essere rapiti formano un'unica realtà, il percepire segue l'essere rapiti. Continuando la sua riflessione, chiamando ancora in causa Tommaso, Balthasar afferma: "se Tommaso poteva contrassegnare l'essere come "una certa luce" per l'ente, questa luce non si spegnerà là dove si è disimparato il linguaggio della luce stessa e non si lascia più che il mistero dell'essere esprima se stesso [...]. La testimonianza dell'essere diventa incredibile per colui il quale non riesce più a cogliere il bello"100. Il teologo elvetico cerca di comprendere il campo semantico in cui il bello viene espresso individuando nella forma o nella specie quella modalità effettiva che permette di percepire101. La forma e lo splendore sono uniti intimamente e ciò che fonda entrambi facendoli preziosi e degni di essere amati e quello che permette di far emergere dall'intimo: cioè la luce. La forma può irraggiare perché possiede una sua intimità, un suo centro, un suo fondamento che non può essere altro che la luce: "che irradia dalla Gestalt e che si apre alla comprensione è in tal modo indivisibilmente luce della forma stessa (la scolastica parla perciò di splendor formae) e la luce dell'essere in genere in cui la forma è immersa per poter avere in genere reale Gestalt. Con l'immanenza sale la trascendenza. Esteticamente parlando: quanto più alta e pura è una Gestalt, tanto più irradia la luce dalla sua profondità e tanto più essa rinvia al mistero luminoso dell'essere nel suo insieme"102. Ciò chiarifica il legame intimo esistente tra la forma che appare, rapisce e ciò che gli è di più intimo e le permette di apparire. Anche l'uomo possiede una forma che non è capace però di darsi da sé, ma gli viene conferita, pertanto: "egli nella sua totalità, non è l'archetipo dell'essere e dello spirito, ma l'immagine derivata, non è la parola originaria, ma la parola di risposta"103, perciò deve imparare a cercare la via dell'origine, che gli permette di vivere con serenità il dramma della propria vita: "non gli resta altro che farsi tutto, nella spiritualità e nella sua corporeità specchio di Dio e ricercare quella trascendenza e quell'irraggiamento che devono pur trovarsi nell'essere mondano se questo è realmente immagine e somiglianza di Dio, sua parola e suo gesto, sua azione e suo dramma"104. Questo significa che l'essere dell'uomo è già nella sua origine forma che s'identifica con lo spirito e la libertà. E la libertà "celebra la sua festa sempre più inebriante, nella varietà dei giuochi espressivi delle forme"105. Questi giochi esprimono una diversità di forme che si rendono visibili proprio per la loro graduazione di luce che irradiano come immagine della luce

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dell'essere. La sola forma che è capace di rendere manifesto lo spirito e la libertà che porta in sé e che permette di trascendersi può essere definita bella "e poiché lo spirito in questo mondo si trova sempre a decidere tra l'abisso del cielo e quello dell'inferno, qualsiasi bellezza di forma è sempre immersa nel chiaroscuro della questione che tenta di sapere di quale signore sia la gloria irradiata adesso dalla forma"106. Ogni forma quindi irradia una certa luce. Il problema è, allora, vedere se tale luce è quella reale dell'immagine di Dio, quindi della suprema bellezza spirituale, o di un qualsiasi signore risplendente di falsa luce: "tuttavia per vivere nella forma originaria, è necessario averla intravista. Occorre avere un occhio dell'anima capace di percepire, nel rispetto profondo, le forme dell'esistenza"107. Da questo si ricava che occorre una certa precomprensione dell'essere e della sua forma originaria di luce, che ci permette di risalire ad essa con il nostro atto conoscitivo che mi porta alla sua percezione: "solo ciò che la forma può trasportare e rapire nell'estasi, solo attraverso la forma può guizzare il lampo della bellezza eterna. Si dà il momento in cui la luce prorompente, lo spirito zampillante irradiano la forma esteriore, e dalla maniera e dalla misura in cui ciò avviene, dipende, se è bellezza sensibile o spirituale, grazia o dignità, ma senza la forma l'uomo non può essere afferrato o rapito"108. Ancora un passo di eccezionale forza, che consente di cogliere l'importanza della percezione della forma nel momento in cui questa luce prorompe nella creazione e nelle diverse forme. Il rapporto è stringente, la forma esteriore ci è permessa di vederla per mezzo del lampo. Siamo immessi nel campo della visione; il lampo per un attimo illumina, poi svanisce, fa vedere e nasconde, rende chiaro per poi far tornare nell'oscurità, e in questo momento, che diviene per noi, soggetti conoscenti, tempo opportuno, che contempliamo la bellezza eterna che non è sempre davanti ai nostri occhi, ma che si rivela mostrandoci la strada di altre forme esteriori che ci permettono di raggiungerla. Il percorso diventa un'ascesa dove percepiamo la bellezza eterna come un lampo, attraverso una visione rapidissima, che consente il passaggio alla contemplazione delle forme sensibili irradiate dalla Bellezza eterna. La visione ci permette di avere uno sguardo d'insieme della luce originaria verso cui tendere. Balthasar ritorna più volte sul problema della visione, dello sguardo, vedendovi il centro di un'estetica della luce, che parte dalle forme percepibili con i sensi ed in modo particolare con quello della vista. Il vedere è diventato un osservare e un costatare al quale segue, ordinando ed elaborando, l'attività dell'intelletto astratto. Ciò autorizza la riflessione su come l'occhio non è solo strumento che l'uomo impiega, ma è la sua stessa vita. L'occhio ha la sua ragion d'essere in ciò che deve essere visto: "vedere è incontrare la realtà: l'occhio è semplicemente l'uomo, nella misura in cui egli può essere toccato dalla realtà nelle forme di questa ordinate alla luce"109. E dandoci una chiarificazione terminologica del rapporto tra il vedere e l'oggetto visto, afferma: "la luce e il colore si aprono

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nella oscurità del vedere che non ha oggetto, i suoni nella pace dell'ascolto che non ha oggetto. L'occhio però non vede il suo vedere, ma le cose; il vedere è quindi sempre al tempo stesso il veduto, il senso è ciò che si è scorto nell'apertura del suo cammino. Blicken (gettare uno sguardo) viene da blinken (brillare, lampeggiare). Il Blick (sguardo) è il lampo che illumina l'apparizione [...]. La visione è sia l'esercizio del vedere che l'oggetto visto [...] l'Ansehen (aspetto) è sia il mio vedere (sehen) che l'aspetto che una cosa o una persona importante hanno come proprio"110. La visione (conoscenza sensibile) è per se stessa rapita nell'aperto e quindi nell'altro. Risvegliata a se stessa dalla luce, fin dall'origine essa si è sperduta nell'altro e quindi nell'esteriorità dell'estensione spaziale. La visione, quindi, non si aggiunge alla natura, poiché essa stessa è il fondamento della luce e degli esseri111. Le immagini si lasciano raccogliere e comprendere come immagini formate solo nella luce originaria dell'essere. Allora "la luce originaria della conoscenza dell'essere è questo movimento ontologico della fondazione dell'essere, in cui l'essere attua se stesso nell'altro"112. La visione è vista come un incontro tra la causa ed il suo effetto, è ciò che ci permette di leggere il tutto come accadimento: "ora tutto ciò che è dovuto alla vista è visione corrispondente e occhio rivolto alla causa [...]. Ogni essere in effetti è una traduzione autonoma di questo sguardo creatore e la realizzazione nel tempo della forma prescritta alla sua obbedienza, cioè alla sua operazione, e del segno necessario alla sua significazione"113. La forma, dunque, è l'espressione concreta, e il mezzo stesso della conoscenza che egli ha del generale in quanto particolare. Balthasar continua affermando che: "tutto ciò che è forma ha quindi il suo centro a partire dallo sguardo di risposta della creatura allo sguardo creatore di Dio e tutta la nostra vita religiosa e l'attenzione all'intenzione particolare che Dio ha avuto chiamandoci all'esistenza, con quel nome nuovo che ci ha donato nel Figlio suo"114. Anche l'essere cristiano è, infatti, forma: "l'immagine dell'esistenza è irradiata dall'archetipo Cristo e formata dalla forza dello Spirito creatore"115. Cristo diviene la forma originaria su cui confrontare la nostra forma di esistenza concreta e d'interpretarla sotto una nuova dimensione: "Gli stessi secoli della cristianità che seppero magistralmente comprendere il linguaggio della forma del mondo naturale, furono dotati di un occhio eccezionalmente formato a percepire, nella illuminazione della grazia, la verità della rivelazione come forma e solo allora ad interpretarla"116. È nella capacità dell'uomo di vedere l'immagine che è suo archetipo, che si trova la via della forma come luce, come immagine che risplende, ed è nello Spirito che noi siamo invitati ed ammessi come testimoni oculari alla visione originaria. Balthasar, parafrasando l'apostolo Giovanni, descrive: "come nell'incontro, nel dialogo, la forma di Gesù acquista risalto, si delineano in maniera inconfondibile i suoi contorni e come

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all'improvviso ed in maniera inesprimibile il lampo dell'incondizionato, butti a terra nell'adorazione l'uomo, per ricrearlo come credente alla sequela di Cristo"117. La visione di una forma incondizionata resta inesprimibile, ma può essere compresa solo come il lampo che appare e scompare, che impressiona chi la vede fino a sconvolgerlo. Solo in questo modo si possono comprendere le scelte del nostro autore: nel tracciare gli stili teologici egli ha tenuto presente proprio questo criterio esistenziale dello sconvolgere, nel senso di creare una nuova mentalità, un nuovo clima culturale e spirituale: "non v'è, nel tempo della Chiesa, alcuna teologia storicamente efficace che non sia essa stessa riflesso della gloria di Dio; soltanto una teologia bella, vale a dire soltanto una teologia che, afferrata dalla gloria di Dio, riesce a sua volta a farla risplendere, ha la possibilità di incidere nella storia degli uomini imprimendovisi e trasformandola"118. Occorre, perciò, che la luce di Dio brilli nelle tenebre perfette. 2.2.2. Il rapporto luce e bellezza Il bello ha un suo mistero, manifestandosi come immagine sintetica, come splendore dell'essere, allo stesso tempo non si manifesta, rimanda cioè dietro alla semplice manifestazione; nella superficie visibile di questa si percepisce la profondità che non si rivela. Così il nostro autore coglie questo mistero: "la forma del bello è apparsa in una tale capacità interiore del trascendere, da scivolare, senza soluzione di continuità, dal dominio mondano in quello sovramondano"119. Questa capacità interiore del trascendere è data dall'incanto, che porta ad un'autotrasfigurazione del mondo, sia pure soltanto per un istante. Balthasar osserva: "il bello comporta un'evidenza che s'impone immediatamente: è dovuto a questo che ci accostiamo alla rivelazione divina con la categoria del bello"120. Ciò è possibile in quanto ci accostiamo al primato dell'amore divino, che si rivela come Gloria Dei, per questo l'Estetica teologica non verte primariamente sul trascendentale del bello filosofico, né sulla bellezza in senso mondano, ma sullo splendore della divinità di Dio stesso manifestatosi, nell'ordine della creazione e della redenzione, peculiarmente nella vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Il suo è un approccio profano (il bello filosofico), ma la scelta della direzione e il punto d'arrivo sono prettamente teologici e cristologici: la gloria di Dio splendente sul volto di Cristo121. Infatti, l'uomo prende il suo avvio da un approccio profano datogli dalla sua capacita precomprensiva: "L'abitudine dell'uomo di designare come bello solo ciò che a lui s'impone come tale è, almeno sulla terra, impossibile da superare"122. Questa, che è una struttura della capacità conoscitiva dell'uomo, non ci blocca, tuttavia, nel nostro cammino di comprensione. La forma, difatti, della Gloria Dei trova il suo inizio e la sua discriminante: "con la resurrezione del Signore, la quale a sua volta effonde il suo sublime splendore sulla chiesa e su ogni partecipazione di grazia. Si procederà così alla eliminazione di

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quella forma nascondimento che l'economia della croce comporta per tutta la storia della salvezza?"123. Quest'interrogativo ci fa riflettere. Nonostante la gloria e lo splendore hanno la loro manifestazione concreta e singolare nell’evento della croce, ciò non elimina il suo mistero di nascondimento, che rimane nella sua incomprensione del mistero stesso. Se per l’uomo ogni bellezza del mondo era epifania della gloria divina, in modo diverso i Padri: “hanno considerato la bellezza come un trascendentale e hanno sviluppato una teologia coerente con questa convinzione: una teologia del bello non può essere sviluppata altrimenti che in modo estetico”. Essi hanno inteso l’estetica come metodo .sintetico per fare teologia. Ed era loro convincimento, come Balthasar fa ancora notare, che solo qui "si insegna l'ascesa verso l'alto e verso l'interiorità, fino al punto in cui la luce definitiva permea le forme terrene e velate della salvezza: la contemplazione diventa qui anticipazione folgorante dell'illuminazione escatologica, presagio veggente della gloria che traspare nella forma del Servo"125. Il nascondimento-svelamento tipico della rivelazione cristiana può essere compreso solo nella contemplazione del mistero che diviene incanto e rapimento nel momento estetico. Rifacendosi a Evagrio Pontico, Balthasar afferma come egli "vede la luce eterna splendere attraverso l'anima purificata e pervenuta alla conoscenza"126. Questo indica che nel momento in cui si arriva alla conoscenza, e quindi ci si eleva attraverso la contemplazione estetica dalle cose mondane, si arriva a percepire il fulcro della rivelazione di Dio che è luce eterna che splende. Riguardo alla contemplazione, che è inscritta nel dato biblico, che permette di irradiare e di fare emergere tutta la sua forza, afferma: "la forma specificamente biblica della contemplazione ispirata getta sulla storia della salvezza, su quella passata e su quella futura, una luce estetica che, contemporaneamente alla forma spontaneamente poetica della legge e dei profeti, ne fa risaltare le dimensioni irriducibilmente soprannaturali [...]. Si tratta di far acquisire coscienza e di svelare tutta la forza di irradiazione della dimensione estetica implicita in questa irripetibile azione drammatica, dimensione che costituisce l'oggetto di una estetica teologica"127. Karl Barth, nella sua Kirchliche Dogmatik, ha posto le basi per un ritorno alla riflessione sul bello, come rileva Balthasar, e il suo sforzo è quello di cercare di attribuire di nuovo a Dio il titolo Bellezza che è contemplazione. Egli così sì esprime: "potrebbe essere conoscenza, potrebbe essere rivelazione, ciò che in ultima analisi non rimane che puro oggetto-oggetto senza forma? Non occorre piuttosto prendere atto che c'è qualcosa di più che il factum brutum della gloria di Dio nella sua rivelazione e non è necessario quindi chiedersi in qual misura, nella sua automanifestazione, la luce di Dio è luce, e quindi illuminante? In che misura Dio, mentre è presente a se stesso e agli altri, traspare e convince?"128. Questo "di più" che interroga il pensiero di Barth è proprio il nostro problema centrale: la luce. In qual misura la luce

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nell'automanifestazione di Dio rivela e illumina colui al quale si rivela? E l'interrogativo che ci guida nel vedere la luce come fondamento. Barth continua così esprimendosi riguardo al bello: "Dio è bello, bello in una maniera propria a lui e soltanto a lui, bello come la bellezza originaria e irraggiungibile, ma proprio per questo non già soltanto come fatto, non già soltanto come forza, ma piuttosto come fatto e forza che egli impone alla sua maniera, come colui che suscita diletto, crea il desiderio e ricompensa con il godimento [...] come Dio che è degno di essere amato"129. Operando una lettura di questo testo di Barth, si può affermare che la luce s'impone alla sua maniera come "fatto" e "forza". Come fatto perché è evidente, manifesto; come forza perché dove essa è non sono possibili le tenebre. Ed è proprio la luce che suscita il diletto di chi ne è immerso, crea il desiderio di contemplarla, e ricompensa con il godimento della piena manifestazione della verità della realtà. Allora in che modo si può rinunciare al concetto del Bello e pensare ad un Dio senza gioia, senza splendore? Questo legame tra la bellezza e la gloria che risplende fa nascere la gioia a cui si è rapiti. Barth pone in evidenza tutta la sua riscoperta del rapporto della bellezza con la rivelazione partendo da Anselmo e trova il punto centrale di una bellezza che risplende, di luce propria, nel Crocifisso: "Dio nella unità del suo abbassamento e della sua esaltazione stessa, porta con sé la forma e la bellezza propria, cosicché il detto di Isaia, "non aveva né forma, né bellezza è proprio il luogo dove risplende la bellezza specifica di Dio: si cerchi pure la bellezza di Cristo in una gloria di Cristo che non sia quella del Crocifisso: la si cercherà invano"130. In questa cornice emerge chiaro anche il rapporto tra la bellezza e la kenosi di Cristo, tra la luce che svela e il nascondimento. Se il bello è la natura originaria del mondo: "il cristiano sa e sente che la natura si è estraniata, dalla sua origine: Dio non parla più attraverso tutti gli esseri ed il velo che ricopre il volto di Dio è lo stesso che cela la magnificenza della natura. Ciò che noi siamo soliti chiamare estetico è affetto, esattamente come la ragione (illuministica), dalla vanità e dall'irrealtà del peccato originale. Cristo soltanto, e la parola di Dio in lui nella forma della sofferenza, del nascondimento sub contrario, la parola storica nella sacra Scrittura, svelano nuovamente la gloria di Dio"131. Se la luce è nascosta, la via estetica ci autorizza a togliere quel velo e di essere di nuovo rapiti dallo splendore della luce. Ed è tramite l'abbassamento di Cristo che questo velo è tolto ed è ridonato lo splendore e la bellezza: "attraverso il mistero del proprio abbassamento, la gloria originaria dell'amore di Dio che si umilia, la vera concidentia oppositorum alla quale la fede, ma anche l'entusiasmo, si accendono: una dimostrazione della maestà più gloriosa e dell'annichilamento più spoglio! Un miracolo di una siffatta tranquillità infinita che rende Dio uguale al nulla e tale che, o

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si nega senza scrupoli la sua esistenza, o bisogna essere bestie [...]. Gloria come kenosi, non soltanto del Dio incarnato, ma già del Dio creatore, che creando si reca nel nulla, ed anche dello Spirito Santo che si nasconde sotto "tutti i cenci" e la spazzatura della lettera della Scrittura, in maniera che occorre avere occhi illuminati ed entusiasti, armati della gelosia di un amico, di un confidente, di un amante, per riconoscere sotto un tale travestimento i bagliori della gloria divina"132. Balthasar, facendo proprio il modo di ragionare di Hamann, vede la bellezza della luce rifulgere dalla via dell'obbedienza estetica della croce: "nella stoltezza della Croce egli trova l'accesso a quella bellezza originaria della nostra esistenza, alla forza archetipa della parola autentica e generatrice, ed infine il nucleo più profondo del mistero di tutta la realtà"133. 2.2.3. Il rapporto luce e rivelazione Balthasar, continuando nell'individuazione del suo percorso, attraverso gli studi degli autori che hanno messo in luce questa intuizione della bellezza, come punto centrale di partenza, nota l'importanza del tema dell'immagine in rapporto alla rivelazione. La bellezza percepita nella luce ci fa volgere lo sguardo all'immagine. Noi percepiamo la bellezza nella creazione stessa che ci circonda, che è: "l'auto espressione vivente di Dio ed il suo inno, il quotidiano canto del mattino che glorifica e nel quale egli stesso si glorifica"134. L'uomo stesso è immagine e somiglianza di Dio: questo tende a porre in risalto il poema della creazione. Così Balthasar si esprime, riportando le parole di Herder: "Nell'immagine egli vede allora e nello stesso tempo se stesso e la sua origine eterna: nel suo io-immagine l'assoluto Io divino"135. Le immagini devono essere significative per se stesse, devono, cioè, avere un valore da comunicare. Riaffiora, nuovamente, il tema della luce, di conseguenza, dobbiamo interrogarci sul come intenderla e che cosa essa ci svela. Balthasar scopre questo nesso nel seguente passaggio: "La luce è la prima cosa: la sua rivelazione in cui tutto può essere visto e compreso come ciò che in realtà è: apparizione di Dio"136. Questo indica che ogni dimostrazione dev'essere preceduta, necessariamente, da una filosofia dell'intuizione, dell'evidenza, del segno, della esperienza che è la parte più importante ed originaria, che ci permette di cogliere l'evidenza e la certezza delle cose137. Continuando su tale questione Balthasar afferma: "L'anima umana che si svela vede immagini! Sono immagini? Sono cose? È un sogno o una realtà esterna? Ma che cosa significa esterna? Cosa significa è una cosa? Esistenza! Presenza! Chi le mostra, chi le insegna, chi le rischiara? La luce! Luce, archetipo della dimostrazione di Dio che tutto svela [...] linguaggio del trono di Dio"138. La luce, dunque, che viene vista come linguaggio che svela, che assume una valenza ermeneutica, perché capace di rendere chiaro e manifesto nelle immagini la bellezza, una luce che nello svelare

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spiega e rende comprensibile perché evidente, ci pone in contatto con ciò che è più originario, con Dio stesso. Proprio perché la luce possiede la capacità di svelare il mistero originario, diviene la più efficace dimostrazione di Dio, dimostrazione non argomentativa, ma di presenza che viene affermata nella evidenza di un mistero. Infatti: "nella luce della rivelazione di Dio l'uomo è messo davanti all'essere divino, ed il sovrappeso infinito di Dio, la sovranità del suo essere divino, brilla come ciò che c'è di più immediato ai suoi occhi"139. La rivelazione viene ad essere un mistero svelato e la Bibbia non ne conosce un altro; questo svelamento avviene nel segno dell'incarnazione: "perciò Cristo è il vertice e il compendio di ogni rivelazione: sia di Dio che dell'uomo che è a sua volta il compendio della creazione come immagine"140. La Scrittura descrive e chiama Cristo "splendore, immagine luminosa della gloria di Dio e con ciò intende l'impronta di ciò che viene riportato nell'immagine"141. In una immagine, quella di Cristo, troviamo presenti le nostre immagini, che in essa trovano senso, trovano la loro scintilla della divinità, che permette all'incomprensibile di divenire comprensibile, al velato di venire svelato. L'immagine quindi trova il suo luogo di apparizione proprio nella rivelazione. Balthasar, presentando l'opera di Gügler142, sostiene: "la Rivelazione di Dio nella creazione è naturale nel suo risultato, soprannaturale e meravigliosa nella sua profondità divina; per chi ha la capacità di sentire questa profondità sacra in cui Dio si rende presente e si manifesta a tutti gli esseri, il mondo appare come l'opera d'arte affascinante ed entusiasmante di Dio. Tutti i popoli testimoniano, attraverso la loro arte, di qualcosa di quest'esperienza originaria. Mentre tuttavia, in essi, la luce divina si scompone in colori diversi. solo gli ebrei hanno conservato la massima trasparenza possibile alla luce; l'elemento nazionale non si è separato in essi dalla sua sorgente di origine"143. Interessante a tal riguardo ciò che dichiara Gershom Scholem, uno dei grandi filosofi e teologi ebrei, nel suo libro intitolato Le grandi correnti della mistica ebraica: "Il simbolo nella quale la vita del Creatore e quella della Creazione diventano una ... è un raggio di luce che, uscito dalle oscure ed abissali profondità dell'esistenza e della conoscenza, penetra tutto il nostro essere. E una "totalità passeggera" che è percepita intuitivamente in un istante mistico-misura del tempo proprio del simbolo"144. L'esperienza del simbolo è uno dei luoghi privilegiati, ma non l'unico in cui l'uomo attua la luce dell'uomo. È una qualità di luce totalmente propria all'uomo, distinta dalla luce cosmica e dalla luce divina. È la luce dell'uomo come creatura, e quindi anche già la luce del Creatore. Questo tuttavia è muto, velato quanto al proprio essere e alla propria vita: non possiamo conoscere l'essere del Creatore né la sua vita a meno che non decida di svelarli. Allora entriamo nel processo della Rivelazione. Tuttavia la luce che riceviamo procede da questo Creatore. Con parole mirabili è descritto: "E Dio disse: Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza" (Gen 1,26). Ad "immagine" e "somiglianza": c'è bisogno dei due termini. L'immagine è

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l'impronta, siamo segnati da quel Creatore dal quale procediamo in ogni istante. La somiglianza è il movimento per ritrovare il Creatore attraverso l'interezza della sua creazione, è un essere appassionato145. La storia, allora, è un accordo sempre risuonante alla ricerca dell'armonia eterna, della natura e della vita tutta. La conciliabilità e il rapporto tra un essere eterno delle cose e una loro nascita e un loro declino, possono essere unicamente intesi e dati nel concetto dell'accordo. Tutto ciò è adempiuto nel concetto cristiano della Trinità: il Padre appare come colui che attira, Cristo come il mediatore, lo Spinto in noi è l'accordo concreto di Dio stesso146. È solo così che: "nell'incarnazione di Dio, compiutasi in Cnisto, il superamento della storia e della prenascosta dell'eternità nel regno santo della Chiesa, sono senz'altro compimento dell'arte di Dio"147. Viene ad essere chiaro perché: "secondo la concezione platonica dei rapporti tra parola (che viene essenzialmente dall'esterno e dall'alto) e luce (che si irradia essenzialmente nell'intimo), cosicché il Cristo appare come parola di luce, anzi nutrimento di luce interiore e la chiarificazione profetica del vecchio si trasforma essenzialmente in una trasfigurazione neotestamentaria, in una parola, in una teologia del Tabor"148. L'esegesi deve essere, allora, interpretazione retrospettiva e ritorno progressivo di tutto ciò che ha assunto storicamente una forma nella luce originaria, a partire da una visione d'insieme della storia della salvezza e della rivelazione divina149. Ed ancora von Balthasar riporta un passaggio importante dell'opera di Gügler: "una identità originaria di luce e occhio, di oggetto e soggetto, di verità e conoscenza, e questo fino ad una specie di gnosi cristiana totale (dal pensiero della luce nella posizione assoluta dell'essere), fino alla lingua della luce e alla intuizione della luce (egli vide ciò che era buono), dalla creazione del tempo fino alla carne di luce per il mondo caduto, nella kenosi della parola e, all'inverso nella piena trasfigurazione"150. Possiamo, allora, comprendere perché: "la teologia è l'aurora della luce della visione"151, poiché con il punto di vista di Dio noi possiamo iniziare a vedere già adesso quello che poi contempleremo apertamente nell'eternità assieme a Dio. In questo vedere gioca il suo ruolo fondamentale la fede: "gli occhi del nostro spirito che, toccati da una luce nuova che proviene da Dio, sono in grado di riconoscere visibilmente un oggetto che è propriamente Dio, ma Dio mediatamente nella forma misteriosa sacramentale del Verbo incarnato"152. L'accento è posto non sull'ascoltare, né sul credere, ma su un vedere, guardare, scorgere "ciò che viene visto è mistero e annuncio del Dio invisibile"153. Ciò che allora ci apre ad una percezione è come dice Balthasar: "una nuova luce che, illuminando questa forma particolare, prorompa al tempo stesso da essa e sia quindi contemporaneamente co-oggetto della visione e condizione che la rende possibile. Lo splendore di questo mysterium che offre se stesso non può essere equiparato ad un qualsiasi altro splendore estetico che s'incontra nel mondo [...]. Ciò mostra che

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nonostante tutti i velamenti, c'è tuttavia qualcosa da vedere e afferrare"154. Infatti, viene sempre presupposto, anche se non detto espressamente che "il mysterium Christi sia, come lux tuae claritatis, l'apparizione dell'amor invisibi1is"155. È solo in questa apparizione dell'amore che da invisibile diviene concreto e coinvolgente nella vita del cristiano che ci rendiamo conto di come: "la gloria della trasfigurazione cristiana non è inferiore alla gloria trasfigurante della bellezza mondana, ma unisce l'irradiazione dello splendore alla realtà solida: nella risurrezione e nella sua anticipazione di fede nella vita cristiana"156. Nell'irradiazione dello splendore noi comprendiamo l'immenso valore di una autorivelazione di Dio che è donazione capace di creare un nuovo statuto epistemologico che interpreta con nuovi parametri anche ciò che è nascosto: "se ogni bellezza mondana è epiphaneia, splendore, prorompente disvelamento luminoso degli occulti potenti fondamenti dell'essere in forme altamente espressive, allora l'evento dell'autorivelazione del Dio nascosto, assolutamente libero e sovrano, in forma mondana, nella parola, nella storia ed in fine in forma umana, non può che costituire una superlativa analogia di questo fenomeno"157. Rimarcando questo rapporto tra la luce e la rivelazione, che compiendosi nella libertà sostiene il paradosso dell'incontro tra uomo e Dio, afferma che: "l'epiphaneia cristiana non ha in sè più nulla della pura autoirradiazione del platonico sole del bene; essa è azione di liberissima presenzialità, ove sono messi in gioco le profondità ultime dell'amore e gli estremi rischi di Dio e dell'uomo: l'etico si realizza appunto nella forma dell'estetico: dietro la perfezione di ogni parola, di ogni gesto ed incontro del Figlio dell'Uomo sta, a renderla possibile ed a sostenerla, l'impegno della esistenza dì Dio e dell'uomo, vita e morte insieme, cielo e inferno e, ancora una volta, dunque non in una attestazione collaterale scevra di partecipazione-risiede, come oggetto di una logica teologica, la struttura della verità, che appunto non può essere altro che disvelamento dell'essere nella libertà della propria autorivelazione"158. Avvicinandoci quindi al centro della rivelazione cristiana, al Verbo di Dio fattosi carne, Gesù Cristo, Dio e uomo, allora si impone assolutamente l'affermazione che: "qui una forma è posta davanti allo sguardo dell'uomo. Checché ne sia del nascondimento di Dio, della sua mascherata (Lutero), del suo incognito (Kierkegaard) in Cristo, la prima cosa da dire è tuttavia che qui noi ci troviamo di fronte ad una forma autentica"159. È tuttavia possibile, quindi, che nella luce della rivelazione, la luce dell'essere splenda molto più chiaramente e profondamente e che ciò che noi possiamo chiamare la sua rivelazione, la sua grazia e il suo favore possano essere compresi dal filosofo in maniera del tutto diversa e nuova, cosicché qui la filosofia, coscientemente o no, volente o nolente, oggettivamente o

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soggettivamente, entra nella luce cristiana e diventa filosofia cristiana160. 2.2.4. La luce nel cammino conoscitivo della fede L'autorivelazione di Dio manifesta la sua luce e il suo mistero, ovvero, la conoscenza che proviene dalla fede è determinata dal suo oggetto, che rimanda immediatamente al primato della rivelazione. La fede, per sua natura, è già inserita nel processo rivelativo che la pone come condizione di possibilità per la conoscenza coerente del contenuto rivelato. Senza la fede, insomma, non si verrebbe a conoscere in pienezza l'oggetto della rivelazione; come dire senza l'intelligenza che proviene primariamente dalla luce della rivelazione non è possibile pensare di entrare all'interno del suo circuito gnoseologico. L'uomo si realizza pienamente nella relazione perenne con Dio; egli è creato per la fede e per questo atto che ontologicamente lo costituirà nella sua struttura personale: "II quaerens ha la sua ragione di esistere, giacché la fede tende interiormente, dal credente alla luce di Dio e alla evidenza che giace soltanto in Dio, ma deve essere completata mediante un inveniens tale, quale può essere conciliato con la condizione terrena della fede"161. La fede viene ad essere il fondamento del nostro cammino verso la luce. Cristo è presentato come maestro e pedagogo, e l'uomo, nella fede, si affida a lui per essere guidato, attraverso la grazia, il pensiero, l'ascesi e l'amore verso la luce. Una luce che viene a sua volta donata, nel senso giovanneo, nella grazia dell'illuminazione battesimale o "unzione dello Spirito", ma che dev'essere maturata dal credente condotto per mano da Cristo stesso162. Per un'ulteriore chiarificazione del concetto relativo alla fede biblica Balthasar afferma: "sia in Giovanni e Paolo, che in Clemente ed Origene, la gnosi della fede può essere chiarita con l'impiego dei concetti della teoria, della contemplazione prolungata e sorgente di luce, qualora si intende questo concetto insieme ai suoi presupposti teologici: incorporazione a Cristo mediante la fede e i sacramenti, partecipazione allo Spirito Santo che ci introduce ad ogni verità, volontà di rivelazione del Padre celeste che vuole farci partecipare già adesso, mediante la Parola e lo Spirito, sotto il velo della fede, alla sua stessa verità trinitaria"163. Questo ci fa vedere come l'atto di fede sia intimamente unito alla visione e alla comprensione. Ciò ci permette di accostarsi al teologo svizzero sapendo che in lui, quando si parla di contemplazione, non si è davanti ad un'estasi religiosa; piuttosto ad una rationis contemplatio, una ragione contemplativa costantemente pellegrinante tra fede terrena e visione eterna. Se l'autorivelazione di Dio evoca il nome di doxa, di gloria luminosa (kabod), è allora possibile stabilire un'analogia tra la realtà estetica e quella teologica della rivelazione e la sua esperienza, assunta come categoria per addentrarsi nella comprensione del dato rivelato: "II Dio che infatti ha detto: "splenda la luce dalle tenebre", è anche colui che fa brillare nei nostri cuori (di servi) la sua luce, perché (attraverso noi)

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splenda la gnosi della doxa di Dio che è sul volto di Cristo (2 Cor 4,5-6)"164. In questa prospettiva, fede e ragione vengono incontro come due necessità, due esigenze, che il credente non solo sa di possedere, ma le ritiene essenziali per la propria esistenza. La dinamica progressiva che si attua nell'andare incontro ad esse consente la realizzazione di un equilibrio tra i due poli che porta ad individuarne l'autonomia e si risolve nella soddisfazione per averle raggiunte: "Conoscenze teologiche sulla gloria, bontà, verità di Dio, presuppongono naturalmente una struttura non solo formalistica o gnoseologica, bensì ontologica dell'essere del mondo: senza filosofia nessuna teologia"165. Queste considerazioni portano a verificare la dimensione della fede come forma di conoscenza e accesso alla verità della rivelazione nella storicità dell'evento Gesù Cristo. In lui, la verità viene data nel presente di ogni uomo e tocca il senso dell'esistenza personale, poiché possiede, una volta per tutte nella storia dell'umanità le caratteristiche dell'universalità nella singolarità della sua persona166: "questa verità eterna è l'interiorità dell'essere assoluto, il mistero della sua vita e del suo amore, che costituisce anche la profondità manifestatasi dell'oggetto formale della filosofia. Questa dottrina della fede tende perciò a spostare i propri punti di appoggio da una parte nel dinamismo conoscitivo del soggetto spirituale e dall'altra nel carattere di luce e di illuminazione che conviene all'essere assoluto. Essa pone così il carattere specifico cristiano nella sopraelevazione del filosoficamente valido e, per quanto riguarda i fatti storici, li inserisce con forza nel dinamismo finale della consocenza"167. Balthasar ripropone, seguendo l'esempio dei Padri, l'inscindibile rapporto tra l'essere e la luce che si gioca nel campo conoscitivo finito dell’uomo, che ha però la possibilità di comprendere l’infinito per grazia:”l’essere è luce, questa luce è la sua parola (logos) che irraggia nello spirito e questa parola, già per l’intelletto creato viene ricevuta come una specie di grazia e di rivelazione. Non c’è che da tradurre presso a poco la generale teoria filosofica della conoscenza nel modo cristiano trinitario e comprendere Cristo come colui che illumina e redime lo spirito e rivela il Padre per guadagnare la teologia della fede a partire dalla filosofia"168. È nel dinamismo conoscente dello spirito, che tende alla visione di Dio, che la sua azione rivelatrice è vista come concessione della luce interiore dell'essere: "la fede è ornamento dello spirito con una luce nuova (lumen fidei) che, se per adesso non permette di contemplare ancora l'oggetto dell'illuminazione nelle sue ragioni intrinseche, può essere tuttavia compreso come l'inizio di una visione siffatta"169. Le diverse tendenze, che nel corso della riflessione dei secoli si sono susseguite, non hanno potuto evitare di affermare come all'aspetto della fede cristiana, corrisponda un'intelligenza che le è propria, infatti: "è alla fede che si comunica la luce di Dio, mediata certo nei segni e nelle testimonianze, ma già

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segretamente in quella immediatezza che si avrà in modo manifesto solo nella visione beata"170. 2.2.5. La luce come elemento della forma della fede Visto il legame inscindibile tra la fede e la conoscenza, vogliamo vedere ora gli elementi costitutivi che giacciono nella fede stessa. Bisogna notare che il discorso deve essere inquadrato in una dimensione trinitania. Infatti "solo la luce del Padre sul Figlio porta il credente all'incontro di unione con lui, incontro che è opera dello Spirito santo"171. È opportuno, ora, considerare gli elementi di questa fede e com'essa concerne l'operato dell'uomo posto nel creato: "la fede è la luce di Dio che brilla nell'uomo; Dio infatti, nella sua intimità trinitaria, può essere conosciuto solo mediante Dio. in questo senso i Padri e la grande scolastica hanno parlato del lumen fidei ed occorre che noi trattiamo in primo luogo di questa luce, nella quale noi crediamo a Dio e la quale costituisce il fondamento intimo (causa, motivum, fundamentum) della nostra fede. Dobbiamo trattarne in primo luogo perché, anche se la testimonianza di Dio è in sé una e indivisibile e la sua luce, accesa nel cuore dell'uomo, illumina centralmente il Figlio fattosi uomo, tuttavia è anche vero che di fatto ciò che è illuminato può non essere colto dall'uomo, senza che per questo la luce interiore debba necessariamente essere estinta"172. In un altro brano l'autore svizzero evidenzia le dimensioni della luce di Dio che nella morte per amore spalanca le possibilità di conoscenza da parte dell'uomo: "La luce di Dio che brilla nei nostri cuori (2 Cor 4,6), splende ai fini della conoscenza del Figlio, ma anche mediante lui che, morendo nel mondo, della morte d'amore di Dio, e vincendo nella sua espiazione le tenebre del cuore, rende possibile l'írradiarsi di questa luce.Essa è luce di Dio come vita, grazia, verità"173. La fede, allora, è segno: "della partecipazione alla libera apertura della vita e della luce intradivina, così come la spiritualità creata significa partecipazione all'apertura della realtà in quanto tale"174. E nel momento in cui si rivela la sua luce libera, al tempo stesso è detto che questa luce deve, in colui nel quale splende, liberare verso la libertà divina: essa dona cioè la libertà della risposta e quindi anche la possibilità del rifiuto175. Infatti, l'autore afferma che: "l'autentica luce divina può essere giustamente oscurata, per cui spesso non riesce a filtrare che solo un bagliore"176. La fede conserva, quindi, nella sua libertà la possibilità di un rifiuto: ecco perché essa contiene anche l'aspetto di essere "oscura inchoatio visionis"177. Ancora in un altro passaggio Balthasar afferma l'intraprendenza di Dio capace di vincere tutti i nostri ostacoli: "La luce dell'essere, nella quale noi conosciamo ogni ente, senza poterla ogni volta osservare oggettivamente e che tuttavia nello stesso tempo scorgiamo ogni ente, giacché noi possiamo conoscere

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qualsiasi cosa soltanto nella luce e nella prospettiva dell'essere questa luce si approfondisce e si eleva nel lumen fidei origeniano-agostiniano-tomasiano"178. In questo presupposto il credente può sottomettersi ad un'autorità esterna in quanto: "il lumen fidei infuso in lui e al cui splendore egli si sottomette, non è più eteronomo della luce della ragione naturale innata. Infatti anche questa luce (come lumen intelleclus agentis) propriamente non è la luce sua propria, ma il suo essere aperto alla luce dell'essere stesso che brilla a lui"179. Questo ci fa riflettere come solo nella conoscenza, già ogni volta presente dell'essere, è possibile pensare razionalmente, volere ed amare liberamente. Lo spirito che conosce l'essere, sa ed ama, ogni volta, più di quanto non riesca a portare nelle dimostrazioni o nelle formulazioni logiche. Allora la fede diviene quell'atto di donazione obbediente alla luce che si irraggia, nella quale, credendo ma non vedendo, si riceve la partecipazione alla saggezza del Dio che rivela. È chiaro, allora, come solo nella forma di Cristo presente nel mondo: "la luce interiore della grazia e della fede incontra la sua verifica unicamente valida, nella misura in cui qui e soltanto qui diventa visibile una forma nella quale tutto si accorda alla luce che vede, ma nella quale chiaramente questo accordo non poteva essere raggiunto che a partire da Dio e non può quindi essere riconosciuto come tale se non a partire dalla luce della fede"180. Parlare della fede cristiana resta impossibile se si vuole prescindere dal tema della luce e della forma. Così, infatti, si esprime von Balthasar: "La luce della fede non può quindi essere mai concepita o sperimentata, nemmeno per istante, come una realtà psichica puramente immanente, bensì unicamente come irraggiamento della presenza di un lumen increatum, di una gratia increata, senza che noi possiamo astrarre in questa luce e in questa grazia, dalla incarnazione di Dio. Se questa luce, questa grazia, è cristiforme, allora quanto vi è di luminosità in essa è anche determinato dalla forma oggettiva"181. Ed ancora oltre: "Ciò che Dio mi dona interiormente come sua parola di luce e di grazia, non a caso, ma essenzialmente, possiede la forma che Gesù Cristo ha nella dimensione pubblica della storia"182. Tutto il mistero del cristianesimo consiste nel fatto che la forma, proprio perché posta ed affermata da Dio "non si oppone alla luce infinita e anche se in quanto forma finita e mondana deve morire allo stesso modo in cui è destinata a morire ogni bellezza terrena, tuttavia non scompare in una realtà senza forma, lasciando dietro di sé una nostalgia tragica ed infinita, ma risorge in Dio come forma che adesso in Dio è diventata definitivamente una sola cosa con la parola e la luce divina che Dio ha destinato e donato al mondo"183. Nel soggetto stesso, la luce di fede solo allora è luce quando l'uomo uscendo da sé e rinunciando ad ogni evidenza propria, si consegna all'origine che gli sta aperta dinanzi, per grazia: "l'origine della luce nella forma di Gesù Cristo, così come gli si fa incontro nello spazio della Chiesa"184.

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Il cristiano, che con il battesimo muore e risorge in Dio, vede che tutta la vita non è altro che l'iniziazione e l'esercizio della morte e risurrezione radicale. Infatti, sperimenta che: "la sua forma terrena passa, ma dalla luce di Cristo gli viene donata sempre nuovamente una forma cristiana"185. 2.3. La luce nell'orizzonte ermeneutico della croce L'evento della Croce ci spinge a vedere i suoi risvolti positivi all'interno di quel contesto della visibilità di tutte le cose che è la bellezza. In questo ambito la Croce appare come il massimo della visibilità, e se il contesto, l'orizzonte di questa bellezza è la luce, la Croce come forma di questo orizzonte, come sua chiusura, sarà il suo centro luminoso più intenso e visibile. La Croce si segnala al nostro vedere come il centro e la luce che in essa è rivelata e nascosta, la continua dialettica tra la tenebra che viene dissipata dalla luce del segno che la contiene, ci svela la sua centralità che è un vedere, un contemplare la verità stessa come luce. "I cristiani di oggi, in una notte più profonda di quella del medioevo, hanno il compito di compiere imperturbati a dispetto di ottenebramenti e di distorsioni quell'atto fondamentale che dice di sé all'essere in rappresentanza supplente per l'umanità: atto per essi a tutta prima teologico, che però reca inclusa tutta la dimensione dell'atto metafisico dell'affermazione dell'essere [...]. Se devono brillare come stelle nell'universo tocca ad essi il dovere di illuminare lo spazio ottenebrato dell'essere, affinché la sua luce originaria tomi ad irradiare non solo per loro, bensì per tutto il mondo; giacché solo in questa luce l'uomo può comunicare in modo conforme al suo vero destino"186. Il confronto che la narrazione della Passione di Gesù e della sua Croce impone è un confronto con la storia degli uomini, nello svolgimento di una storia chiaramente definita nel senso che quella morte e quella Croce includeva, in ragione del Crocifisso e della crocifissione. L'appello compromesso nel giudizio dell'uomo, nel deliberare o volere la crocifissione di Gesù, ha implicato tutte le dimensioni dell'uomo e della storia umana: quella religiosa, in quanto la morte data è un appello alla non divinità dell'uomo, quella della libertà dell'uomo in quanto la morte è limite ed è posta storicamente come costrizione di un patibolo; della verità in quanto la morte è una caduta nell'oblio del senso: la morte è un non senso che chiude nell'ignoto ogni verità dell'uomo, allo stesso modo sembra far esaurire l'appello a Dio come a un Dio ignoto. Se la Croce di Gesù deve porsi come criterio ermeneutico della Rivelazione e quindi della teologia, come criterio di comprensione dell'evento cristiano, la situazione della Croce di Gesù, di una sua interpretazione e comprensione teologica, non deve essere posta dialetticamente in rapporto alla Risurrezione o alla

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Divinità o alla salvezza, ma compresa nella sua stessa problematica storica. È la stessa Croce di Gesù che pone una tensione ermeneutica, che urge una comprensione, che pone un confronto in termini definitivamente aporetici, sospendendo ogni altro confronto e nello stesso tempo elevandolo alla dimensione della propria verità che dovremo dichiarare come "differenza teologica" della Croce di Gesù. Necessita, dunque, assumere quella croce nel suo porsi originario, in modo che la comprensione dell'uomo venga a trovarsi davanti ad un diverso interrogativo: quello implicato e compromesso in modo unico e irripetibile nella croce di Gesù, nella verità del morire di Gesù con quella Morte. L'oscuramento della comprensione di fede della verità del morire storico impone una sospensione, una interruzione, un vuoto, una tensione nell'istanza di dover ammettere la negatività della morte connotata da una storicità. La dimostrazione o svelamento della verità che in essa accade come configurazione del morire vissuto. Questa concentrazione sulla croce, quale elemento della forma oggettiva della rivelazione, ci obbliga a far astrazione dal momento centrale della correlazione fra chi si manifesta recando con sé le condizioni per essere percepito, e il destinatario di tanta manifestazione. Vogliamo, cioè, far luce sul fatto per cui Dio avrebbe trovato la sua vera rivelazione e glorificazione nell'evento della morte di croce di Gesù Cristo. Inoltre comprendere il motivo per cui la croce, l'evento dello iato della morte e della diastasi intratrinitaria, rappresenta l'apice della rivelazione e in ciò stesso la sua massima glorificazione187. Quanto prospettato ci porta, in modo particolare, a soffermarci sull'evidenza oggettiva che permette di cogliere la croce nell'assieme della forma della rivelazione e a vedere il centro della forma della rivelazione, precisato ulteriormente, nella non figura del Crocifisso. 2.3.1. La croce centro luminoso della rivelazione Abbiamo già ravvisato in precedenza il rapporto che intercorre tra luce e rivelazione in senso generale. Ora, scendendo in un'analisi particolare, vogliamo vedere quale sia il centro della Rivelazione, che nella sua posizione originaria si mostra a noi come una luce in cui appare la bellezza della sua forma. Balthasar introduce quest'analisi con parole che permettono di cogliere per il credente l'indispensabilità del rapporto con Cristo, giacché scopre in Lui la forma originaria e il modello da realizzare: "L'immagine dell'esistenza è irradiata dall'archetipo Cristo e formata dallo Spirito creatore, con l'elevatezza di colui che non ha bisogno di distruggere quanto c'è di naturale per raggiungere il suo fine spirituale. Per ciò stesso è anche evidente che il cristiano solo allora compie la sua missione, sempre e anche soprattutto oggi, quando diventa questa forma voluta e fondata da Cristo, nella quale l'esterno esprime e riflette un interno credibile al mondo, e l'interno viene

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dimostrato e giustificato nella sua verità attraverso ciò che è rappresentato, e viene cosi reso degno di essere amato nella sua bellezza sfavillante”. Il piano divino si realizza nel rispetto, senza il bisogno di dover annientare la natura, e quindi nell’umanità stessa che viene così valorizzata ed innalzata, pur conservando la debita distanza: “a dare testimonianza è Gesù Cristo che, in quanto uomo, utilizza tutto l’apparato espressivo umano dell’esistenza storica, dalla nascita alla morte, in tutte le età, le condizioni, le situazioni individuali e sociali. Egli è ciò che esprime, cioè Dio, ma egli non è colui che egli esprime, cioè il Padre. Paradosso incomparabile che costituisce il punto originario dell'estetica cristiana e quindi di ogni estetica"189. Tutta la vita di Cristo allora diviene opera salvifica iniziata dal Padre, ed ogni momento è collegato e dipende da ciò che precede e ciò che segue: "da qui l'idea grandiosa di vedere nella risurrezione di Cristo, cadere dall'alto, per portare consumando con sé, il fuoco di Dio e di porre quindi la croce e la risurrezione (e quindi tutta l'esistenza eternamente trasfigurata, nel cielo, di Cristo) come due fasi di un unico atto sacrificale redentore e di trovare così anche un nuovo approccio alla spiegazione del sacrificio della messa. Nel momento in cui la croce stessa viene vista come gloria e questa s'irradia su tutta l'incarnazione, nel momento in cui la croce viene considerata non già come mezzo, ma come rappresentazione dell'amore e dell'essenza di Dio"190. Sorge, allora, l'interrogativo che deve stimolarci nella nostra riflessione teologica ed aprirci alla visione del vasto orizzonte salvifico in cui siamo chiamati a collaborare, la dimensione della bruttezza e della brutalità di una morte che rinnova dando nuovo senso alle cose: "Come poter comprendere però la bellezza della croce senza l'abisso della tenebra nella quale sprofonda il Crocifisso"191. Per S. Paolo tuttavia l'uomo può comprendere se stesso solo se crede, se ha coscienza di essere in cammino tra la sua giustificazione nella morte e nella risurrezione di Cristo ed il ritorno del Signore192. Continuando il nostro discorso, notiamo la differenza che von Balthasar ci mostra tra il discorso di Dio in Gesù e il discorso della Chiesa: "la testimonianza che Dio dà di se stesso in Gesù Cristo, fattosi uomo, morto in croce e risorto dal sepolcro, identica con la testimonianza della vita di Cristo, è per Dio qualitativamente diversa dalla testimonianza ufficiale, data dall'annuncio della chiesa, su questa testimonianza trinitaria. È a partire da quest'ultima che deve essere mostrata e giustificata la fede umana"193. Stimolante e provocatoria appare la netta distinzione che il nostro autore pone a riguardo della luce della fede e della luce della ragione, cioè dei due differenti modi di poter comprendere la rivelazione di Cristo, conservando le prerogative dei differenti approcci: "è possibile obiettare che la luce della fede, in quanto partecipazione alla natura e alla verità divina, in quanto

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elevazione e ordinamento ontologico dell'uomo alla visione di Dio, è essa stessa un mistero della fede e che non perviene quindi nella sfera della coscienza o vi perviene solo in modo inadeguato. La risposta a partire dalla visione agostiniano-tomista dibatterebbe, fondandosi sull'analogia tra luce della ragione e luce della fede, che il lumen fidei (come quello dell'intellectus agens) come tale non può divenire mai oggettivo, ma che brilla solo nell'atto della fede (o dell'atto della conoscenza) oggettivamente orientato. Qui tuttavia fede e conoscenza divergono: mentre ciò che, nell'atto di conoscenza, brilla nella conversio ad phantasma è la luce dell'essere, a cui l'intelletto agente in quanto tale è in potenza di credere, bensì la potenza di Cristo di far partecipare alla sua luce e alla sua forza colui che non ne è capace. La luce dell'essere avvolge soggetto ed oggetto ed è, nell'atto, la loro identità superiore. La luce della fede ha origine dall'oggetto che si rivela al soggetto e lo attira al di là di se stesso"194. Con questi punti fermi, non ci resta che entrare nel vivo della questione, notando come il kerigma ponga Cristo al centro della Rivelazione: "nella misura in cui tutto il contenuto del kerigma proprio in quanto dottrina dell'avvenimento pasquale, non è altro che la trasposizione in parole di Gesù, Verbo incarnato, che muore e risorge per noi, e la fede consiste nell'essere consepolti e nel conrisorgere di tutta l'esistenza credente con questa parola di Dio, allora l'atto di fede, compreso nella sua globalità"195. La croce non è, dunque, da leggere in modo distaccato dalla vita di Cristo, ma è la conclusione di un cammino di realizzazione di un progetto: "chi è stato in grado di leggere la croce non soltanto come un evento puramente materiale, ma come il compimento di tutta la forma interna della vita di Cristo, per costui è ovvio, anzi è da attendersi, che il risultato di questo evento in cui il peccato del mondo è portato, espiato, cancellato, venga adesso applicato, in un segno sacramentale efficace, al peccatore che confessa la sua colpa e si mette sotto la redenzione operata nella croce"196. La rivelazione diviene il momento massimo della ricapitolazione, ma anche il paradosso per eccellenza, in cui è affermata la distanza tra umano e divino, colmata solo analogicamente dalla sua gloria. Essa "doveva però, al di là di ogni attesa e speranza delle creature, ricapitolare tutto il cielo e la terra in un capo divino-umano e dare quindi loro un coronamento di grazia il cui splendore di gloria, appartenente al Signore del mondo, doveva irraggiare su tutta la creazione. Così la stessa forma del mondo che, era già in quanto tale rivelazione della doxa divina, diventa in Cristo e nello Spirito santo effuso da lui, un tempio che in sé e al di sopra di sé contiene il kabod di Dio come il tabernacolo e l'edificio di Salomone"197. Cristo, dunque, non è solo il punto centrale di convergenza, ma il centro stesso della rivelazione, anzi ne è la forma per eccellenza perché tutte le forme mondane ad essa si rapportano ed in essa si misurano: "solo nella divinità di Cristo, cioè nel rapporto che in lui c'è tra le due nature e, in esso, nel suo rapporto al Padre

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nello Spirito Santo, si manifesta la forma propria ed intima della rivelazione cristiana"198. Continuando ancora oltre, ponendo Cristo come forma fondante a confronto con tutte le forme create, afferma: "La forma di tutte le forme è la misura di tutte le misure, così come è anche la gloria di tutte le glorie della creazione"199. Balthasar ci aiuta nella comprensione che solo in Gesù è possibile il manifestarsi a noi della forma nel suo splendore, proprio perché egli come uomo si presenta e manifesta il progetto trinitario: "ciò che è decisivo è che nella sua forma-splendore non venga separato e distinto ciò che egli è come uomo e ciò che è come Dio, ma che venga costatato soltanto che può essere l'impronta irraggiante di Dio che è in quanto uomo, solo perché è essenzialmente e trinitariamente uguale a Dio. E tuttavia questa sua gloria eterna può essere afferrata da noi solo in quanto egli l'ha ricevuta e ne è stato investito come uomo"200. L'uomo Gesù, nella sua visibilità, non è un segno che rimanda al di là di sé ad un invisibile Cristo della fede, ma è egli stesso l'immagine e la manifestazione di Dio e l'indivisibile uomo-Dio, l'uomo nel quale brilla Dio è Dio che appare nell'uomo Gesù. Il nostro autore rifacendosi all'apostolo Paolo afferma come egli intende "con il Figlio di Dio sempre già il Figlio incarnato, nella cui luce e nella cui gloria si rende presente la pienezza trinitaria di Dio e riempie con la sua gloria la creazione redenta, non ha bisogno di essere dimostrato. L'immagine e lo splendore in cui guardiamo, per essere trasformati in questa stessa immagine, di splendore in splendore, irraggia dal Signore incarnato. Egli è lo Spirito, egli è l'accesso al Padre e la sua immagine. Ed anche l'illuminazione più intima di Dio nel nostro cuore avviene perché la conoscenza della gloria di Dio brilla sul volto di Cristo, che è la stessa cosa, perché vediamo e comprendiamo che il vangelo risplende della gloria del Cristo"201. Notiamo bene come la gloria di Dio non è mai separata, neppure per un solo istante, da quella dell'Agnello, come, allo stesso modo, non è mai disgiunta la luce trinitaria da quella del Verbo incarnato nel quale il cosmo è ricapitolato ed elevato a città sponsale202. Si può constatare chiaramente che si rivela non solo ciò che Dio è, cioè, amore. Si rivela al tempo stesso che Dio si è impegnato in modo insuperabile, senza possibilità di ritorno nella sua rivelazione amorosa attraverso la carne e il sangue e nel loro sacrificio. Per chi ha imparato a leggere l'immagine del Figlio che effonde il suo sangue sulla Croce non offre più alcuna sorpresa il permanere di questo impegno nell'eucarestia, la quale non è se non la dimensione dell'eucarestia che esce fuori203. Comprendiamo bene le dense parole del nostro autore che intuisce nella bellezza offerta per amore il senso pieno del suo offrirsi in sacrificio che, se da un lato, può deturpare la forma esterna non può, dall'altro, intaccare in alcun modo la luce della sua fonte: "alla bellezza appartengono non solo misura, numero e peso della materia organizzata, ma anche la forza del principio organizzatore che si esprime nella forma senza perdersi

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nell'espressione esterna. La gloria dell'essere libero e più profondamente ancora del potersi prodigare per amore"204. Il Dio di Israele, assolutamente comprensibile nella sua rivelazione ed esigente una comprensione di fede, si mostra nella storia come colui che è sempre più inafferrabile e solo così mostra veramente se stesso. E solo una fede estremamente viva, sostenuta dalla rivelazione, è in grado di riconoscerlo, in questa forma di rivelazione, proprio come il Dio vero e vivo: "La rivelazione positiva di Dio, iniziante con la promessa originaria all'uscita del Paradiso, attraverso Noè, Abramo e Mosè fino a Cristo e alla sua chiesa, non è un surrogato o un rattoppo, ma compimento assolutamente intrinseco ed organico del piano originario di Dio, anche se ormai la forma ultima in questo mondo sarà la croce e la luce della glorificazione dello Spirito Santo che cade su di essa"205. In Gesù Cristo la rivelazione di Dio si compie nel velamento. Non soltanto negli avvenimenti della passione, ma già prima nella incarnazione. Già nel puro fatto che la parola diventa carne: paradosso inconcepibile nel quale confluiscono tutti i paradossi della creazione e della storia della salvezza206. L'incarnazione della Parola sta però a significare, ancor prima dì ogni riflessione particolare, la rivelazione, perché Dio viene qui spiegato all'uomo attraverso, nient'altro che l'uomo stesso, soprattutto non attraverso delle parole di insegnamento, ma attraverso la sua stessa vita e il suo stesso essere207. Ricorrendo, ancora, alle parole del nostro autore, consideriamo come la rivelazione, unitamente all'incarnazione come suo naturale prosieguo, sia una prima forma di kenosi da parte del Cristo: "Il Figlio rivela il Padre nella forma di servo e lo Spirito Santo, come gloria di Dio, illumina questa forma di servo e fa vedere la sua gloria"208. Un servo che mostra tutta la sua gloria perché ha in se stesso la luce necessaria per risplendere di quella bellezza propria fin dall'eternità: "Allora la glorificazione del Figlio ad opera dello Spirito Santo non avrebbe potuto far risplendere niente che non si fosse già rivelato nell'umanità del Figlio"209. La forma di Cristo esige però, per essere afferrata oggettivamente come essa si dà, la compagnia degli uomini che essa incontra in tutte le sue dimensioni. L'incarnazione è avvenuta anzi in funzione di questa compagnia e di questo essere presi assieme: "anche se solo il Figlio di Dio è uomo, la sua umanità è tuttavia necessariamente espressione di tutta l'essenza trinitaria di Dio. Solo così egli può essere rivelazione dell'Essere assoluto"210. Se, come abbiamo cercato di cogliere, mostrando la centralità luminosa di Gesù Cristo nella Rivelazione, per il fatto stesso che la rivelazione, con la sua incarnazione, diviene oggetto del nostro orizzonte di visibilità in cui noi, percependo la bellezza dell'evento ne restiamo estasiati, nel senso di esserne coinvolti perché irraggiati, ciò non elimina l'ostacolo fondamentale di vedere la rivelazione, in quanto forma armonica, si scontra inevitabilmente contro lo scandalo della croce, la quale possiede tutte le prerogative per essere esattamente l'opposto di ogni contemplazione estetica e quindi la negazione di ogni forma.

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Balthasar, come vedremo meglio, è cosciente di questa obiezione, ma farà proprio di questa negazione, insita nella croce, il centro della forma della rivelazione. 2.3.2. Duplice dialettica: velamento-svelamento, tenebra-luce "Il conflitto tra le tenebre e la luce è una guerra di potenze, una guerra di dei a tutti i livelli cosmici, antropologici etici ed escatologici. Una guerra che costituisce il mito soggiacente a tutta la storia umana"211. In cosa consiste il conflitto fra le tenebre e la luce? Quale possibilità di mediazione può esistere tra questi due estremi? Come si realizza la vittoria della luce? sono gli interrogativi che ci guideranno nel nostro ulteriore sondare il mistero della Croce di Cristo. Balthasar invita il lettore a riflettere sul problema della negatività, del tenebroso come momento di passaggio per uno svelamento pieno della luce del bello che si deve imporre passando nel momento della purificazione, della rottura: "Laddove non bisogna dimenticare che anche l'estetica mondana non può mettere da parte il momento della bruttezza, della rottura tragica, del demoniaco, ma deve venire fuori. Ogni estetica, infatti, che tenta semplicemente di ignorare questa dimensione tenebrosa, può essere fin dall'inizio ignorata come estetismo. Non è soltanto la limitatezza e la minaccia che pesa su ogni forma bella ad appartenere al fenomeno, ma la rottura come tale. In essa soltanto infatti risplende il senso della promessa escatologica implicita nel bello. Ciò non viene qui ricordato per rinchiudere la croce e la kenosi di Dio dentro le misure e le leggi di una estetica naturale. Questa assume da parte sua le modalità dell'esistenza decaduta per dare ad esse, nella sofferenza redentrice, un valore nuovo"212. Il tema delle tenebre e della luce ci pone su un altro piano, ma di uguale intensità, quello del velamento-svelamento che racchiude il mistero stesso della rivelazione e il suo centro stesso, la Croce, come momento degli opposti che si concretizzano e si mantengono nella loro alterità: "si tratta cioè dell'inafferrabilità sovrana e soggiogante del fatto che Dio ci ha amato tanto, da dare per noi il suo unico Figlio, per cui il Dio della pienezza si è annichilito non solo nella creazione, ma anche nella modalità dell'esistenza determinata dal peccato, votata alla morte e lontana da Dio. Questo è il velamento che si manifesta nell'autosvelamento, l'inafferrabilità di Dio divenuta afferrabile nell'afferrabile"213. Il carattere dell'incomprensibilità del mistero, nonostante la sua visibilità, è parte integrante del mistero stesso e il nostro stesso vedere un giorno Dio faccia a faccia non eliminerà quegli aspetti di difficoltà e di lontananza che distinguono il Creatore dalla creatura. Quindi, non è contraddittorio poter affermare che noi vedremo Dio incomprensibile dentro ogni comprensione, cioè è un vedere ed un comprendere il mistero senza che esso venga

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defraudato del suo carattere di mistero. Comprendiamo bene com'è proprio qui che si fonda la visione della kenosi storico-salvifica di Dio, che noi consideriamo alla luce della gloria di Dio. Ma proprio in questa luce la kenosi ci apparirà come essa è. Un altro problema sorge nel nostro rapportarci a questa luce che rivela, ed è la nostra capacità come soggetti di avere una precomprensione di ciò che può accadere, perché quella infinita distanza in qualche modo è stata colmata con il rivelarsi di Dio in Gesù di Nazaret: "La precomprensione fondamentalmente non è qualcosa che il soggetto porta come contributo alla conoscenza cristiana. Essa è invece data necessariamente per il fatto semplice ed oggettivo che Dio si fa uomo e si dà quindi una corrispondenza tra lui e le forme universali umane dell'esistenza e del pensiero. Ma ciò che vi è di particolare nella forma di Cristo può manifestarsi solo a partire da lui dentro queste forme generali"214. Il mistero del messaggio salvifico di Cristo non cambia nei secoli, perché la sua luce è permanente, ed anche la precomprensione dell'uomo di tutte le epoche ne viene irraggiata direttamente come se si trattasse di un rapporto istantaneo con la verità di Cristo. La sua comprensione è quindi possibile nella misura in cui l'uomo si lascia trasformare da questa verità: Ciò che trasforma non un singolo evento, quanto tutta l'esistenza di Gesù, nella sua interezza di comprensione è, nell'unità della sua vita che si svela, il mistero nascosto nei secoli che cerca il suo adempimento: "il vangelo ci presenta invece la forma di Cristo in maniera tale che carne e spirito, incarnazione nella passione e nella morte e risurrezione dalla morte siano vicendevolmente in rapporto fin nei dettagli più minuti. Se si elimina, la risurrezione allora, nella vita terrena di Gesù, non è solo qualche aspetto, ma tutto che diventa incomprensibile. La prima forma, terrena, può essere letta solo se si vede che deve essere totalmente consumata nella morte o nella risurrezione. Ma morte e risurrezione, che formano una stretta unità ideale, sono comprensibili solo come trasformazione di questa forma terrena, nella potenza di Dio"215. Altro punto di contrasto che potrebbe in qualche modo non far comprendere questa dialettica del velamento-svelamento è l'accordo, come ci sia accordo, armonia, proporzione tra volere del Padre e missione del Figlio: "Questo accordo tra missione ed esistenza è riportato da Cristo al fatto che egli non compie la sua volontà, ma quella del Padre, che non si è quindi dato da sé la sua missione, ma l'ha ricevuta nell'obbedienza, che non si tratta quindi di un caso privilegiato dell'armonia tra idea ed esistenza, tra idealità e realtà, ma di una presa in servizio di tutta la sua esistenza da parte del Dio vivente: la missione quindi è divina, l'esecuzione umana e la proporzione di perfetto accordo tira le due è divino-umana"216. In questa missione del Figlio non si nota disaccordo o incongruenza, discontinuità o cambiamento di orientamento, ma tutto resta un cammino verso una meta incomprensibile alla mente umana. Fa parte del fenomeno, che egli non solo mantenga la sua parola e sia pronto a morire per essa, ma che egli sia questa

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parola stessa, che gli metta già in conto ogni volta la sua morte particolare, come qualcosa che appartiene alla sua esistenza: "Il pendio della sua esistenza corre verso una morte che non soltanto viene attesa, messa in conto, affermata, desiderata ma viene compresa altresì come la quintessenza della sua missione di redenzione per il mondo. L'insuccesso crescente, l'isolamento progressivo, lo scandalo che egli costituisce, non costringono ad una strategia nuova, ma svelano lentamente il senso primo ed autentico"217. Constatiamo come sia dinamica l'incarnazione della Parola, nella sua discesa sempre più profonda fino ai confini della sofferenza fisica e spirituale, a cui bisogna aggiungere il memoriale passionis come momento ultimo del suo svelamento. L'immagine di Dio, che Cristo concretizza per noi, abbraccia quel dinamismo per cui si può parlare ed agire nella potenza di Dio, da una parte, e soffrire e morire nell'impotenza dell'uomo, dall'altra: "Dio scende ormai nella carne umana giudicata, la cui sofferenza e la cui morte sono tutt'altro, tranne che un come se: questo è l'incarnazione, non più come stato, ma come avvenimento o, se si vuole, come misurazione dinamica ed evenenziale della propria condizione statica previa"218. Inoltre, tale considerazione, dà rilievo all'altro aspetto di questo movimento di Dio che si fa uomo, quello dell'innalzamento dell'uomo stesso alla gloria di Dio, tramite la sua obbedienza umana fino alla morte, fatto che rende palese come l'uomo non è Dio: "questo adeguamento dell'uomo a Dio, è il movimento contenuto già nel movimento di Dio, il movimento dell'esaltazione dell'uomo alla destra di Dio, dell'innalzamento del servo a Kyrios del mondo, della trasfigurazione del sofferente e del morente nell'immortalità e nella risurrezione divina"219. Cristo non ha bisogno di essere riconosciuto come luce: lo è già per la sua stessa qualità che l'impone all'attenzione delle tenebre ponendo quella differenza qualitativa con tutti gli altri oggetti, che sono illuminati dalla sua luce: "è la luce oggettiva del fenomeno, la sua giustezza oggettiva ed irraggiante, che deve brillare, come grazia della fede, al soggetto che lo incontra. Il soggetto illuminato riconosce allora, e sempre meglio, in che misura la luce proviene dall'oggetto e inabita in esso, e nella luce dell'oggetto impara a distinguere questo da tutti gli altri oggetti"220. Ma il fatto che la luce s'imponga non significa che tutti siano in grado di coglierla nella sua visibilità, che tutti coloro che hanno occhi per essa la riconoscano, perché è li che si evidenzia lo scandalo della tenebra: "Colui che vede in forza della sua visione, comprende che l'evidenza oggettiva di questa forma non esclude la possibilità e la realtà dello scandalo, ma che al contrario lo esige; egli è quindi in grado di mostrare come lo scandalo sorga"221. La luce ha la possibilità di imporsi sulle tenebre diradandole, ma fa a meno di usare lo splendore esterno di questa luce, per conservare il mistero della rivelazione che è svelamento e velamento allo stesso tempo: "Ha il suo splendore dall'interno e fa necessariamente a meno, unitamente all'oggetto contemplato,

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dello splendore esteriore, della forza di convinzione puramente mondana"222. La luce deve assumere il mondo dell'oscurità, farlo proprio per fare emergere poi la sua verità. Il nascondimento di Cristo può risplendere solo nel mio nascondimento, operato da lui stesso, allora solo il conformarsi della nostra esistenza all'immagine che Dio ci offre e che splende interiormente nella nostra tenebra come luce di Dio: "Se il mondo sussistesse per istruire l'uomo su Dio, la sua divinità splenderebbe in esso da ogni parte in modo incontestabile; ma siccome non sussiste che in Gesù Cristo, e per istruire gli uomini sulla loro corruzione e sulla loro redenzione, tutto nel mondo risplende delle prove di questa verità"223. Solo in questi termini possiamo comprendere ciò che von Balthasar esprime in termini lapidari, di una chiarezza unica, mostrando come la rivelazione è il nascondersi della luce, cioè il cammino dell'amore fino alla fine: "La gloria lampeggiante stessa possiede il modo del nascondimento ed esige occhi adeguati per essere percepita"224. Non basta che Cristo si riveli, ma occorre avere uno sguardo illuminato da quella stessa luce per poter comprendere la rivelazione stessa, farla propria testimoniandola con la vita. È una rivelazione che nel rivelarsi invita l'uomo a scoprirla, lasciandolo nella sua massima libertà di potere accostarsi accettandola o starsene lontano rifiutandola. Ma il confronto con l'uomo non può eliminare l'oggettività del dono e del mistero della rivelazione stessa nella sua dimensione di tenebra e di luce. Questo è l'enigma, il mistero che s'impone tra necessità e libertà, eroismo, ordine e scissione. La scelta da parte dell'uomo del tutto, dell'ordine o della colpa. L'uomo è chiamato a superare se stesso. Una situazione tragica esistenziale necessaria perché l'uomo scelga no da eroe, l'eroe è abbattuto nella tragedia, ma da misero, succube dell'ignoto di cui la tragedia rivela un mistero occulto225. 2.3.3. La morte in croce come effusione di luce La passione, morte e risurrezione di Gesù, come unico centro focale e luminoso del percorso della rivelazione del Padre, ci appare come il momento fondante la nostra riflessione sulla bellezza tragica della Croce. La vicenda del Golgota è descritta come un quadro dalle diverse tonalità di colore: "nella passione egli trova tutta la predicazione di Gesù come nel suo nucleo di energia, qui egli ha il Padre che si rivela, qui ha lo Spirito, qui i sacramenti, qui l'origine della Chiesa spiritualmente invisibile e visibile in immagini di eloquente somiglianza: la sostituzione con Barabba, la crocifissione tra i due ladroni così diversi e così uniti, il concorso di pagani, giudei-cristiani nella maniera più caratteristica, l'equilibrio della giustizia e della ingiustizia suprema, del velamento più profondo e dello svelamento più alto di Dio"226. È proprio in questa sintesi del mistero, che rivela con forza la bellezza del proprio contenuto, che l'uomo è rinviato fino all'origine del mistero stesso: "ora è il tutto sintetico che

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rimane inafferrabile nella evidenza della sua bellezza. E come lo sguardo rivolto al bello, risalendo all'indietro, si perde nelle profondità del soggetto geniale, al di là della pura psicologia, in quel luogo in cui a lui e al suo occhio particolare si è rivelata la realtà nel suo mistero, che risalga all'indietro fino al mistero di Dio che, in questa genialità cristologica: manifesta se stesso nel proprio mistero sovraluminoso"227. Solo in questo mistero sovraluminoso noi comprendiamo che la tragicità di un evento può essere innalzato a modello di amore, lasciando dietro di sé la brutalità dell'evento stesso: "si può vedere nel modo più evidente la conseguenza di questa identificazione là dove il Figlio del Padre stesso è l'uomo Gesù, la morte e risurrezione di Gesù vengono sottratte alla sfera del destino umano e mondano ed innalzate ad espressione dell'amore divino"228. Fare della morte uno strumento di salvezza rimane inconcepibile alla logica umana, ma è proprio nel dramma dell'uomo che Dio s'inserisce con il suo dramma per gettare uno spiraglio di luce e per aprire una strada all'amore: "solo il cristianesimo invece ha fatto della morte la salvezza. Tutte le religioni con un salvatore predicano la vita dalla morte, il vangelo della croce annuncia invece la salvezza nella morte. Qui diviene sviluppo supremo di potenza l'estrema impotenza, diviene salvezza il disastro peggiore. Non è un dramma che viene coronato con la vittoria divina, ma è il dramma della rovina umana che diventa, nella sua totalità espressione dell'amore eterno"229. È chiara l'attenzione, del nostro autore, nel ravvisare in Cristo l'evento trinitario, nella misteriosità di lontananza e vicinanza all'uomo stesso, come l'unica via percorribile d'incontro e di scontro: "la Trinità che si rivela in Cristo come luce in sé incomprensibile, illumina invece il rapporto tra Dio e l'uomo in un modo completamente nuovo ed originalissimo. Le possibilità che si aprono con questa rivelazione, e le quali evitano gli aspetti insoddisfacenti delle altre vie, sono inesauribili [...]. La dottrina trinitaria appare come l'unica possibile teodicea del mondo, nella cui luce soltanto diventa luminoso ciò che è inaccessibile a qualsiasi altra"230. Il mistero nel suo eccesso di luminosità, capace di illuminare e di dare un senso nuovo a tutte le cose, è capace di produrre nell'uomo stesso un'ampiezza conoscitiva efficace per la sua esistenza: "l'interpretazione trinitaria dell'esistenza umana, del cosmo e della storia del mondo, operata sempre in modo tale che dalla incomprensibilità del mistero si effonda una luce che rende comprensibili le cose, procura all'intelletto e alla volontà un soddisfacimento altissimo progressivo, attinto dal seno dei mistero sempre più grande dell'essere"231. Allora ben comprendiamo il perché a Gesù stesso è stato affidato il compito, apparentemente, contraddittorio di manifestarsi e nascondersi al tempo stesso. Quanto egli nella sua attività pubblica più annuncia e guarisce, tanto più chiaramente appare come il rivelatore e la rivelazione di Dio; proprio questa rivelazione chiara della sua potenza e della sua parola non può

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irraggiare svelatamente, perché egli è il Figlio dell'uomo nascosto nel suo modo divino e nel suo modo umano232. Balthasar ci fa riflettere su come la discriminante del dramma della Croce sia quel "già aver saputo" che accompagna il mistero di una morte che può sembrare ingiusta, ma che è salvifica proprio per questa sua connotazione particolare: "questo amore è dal principio luce nelle tenebre che non la comprendono, non la riconoscono, non l'accolgono. L'accento giace sul dal principio; è un dramma al di là dell'azione drammatica, di fronte ad un "avere-sempre-già saputo", cosicché la fine, la morte, è già all'inizio"233. Il paradosso di una luce nelle tenebre rimane sempre come difficile da comprendere proprio per la difficoltà di cogliere questa realtà del discorso dell'amore racchiusa nella Passione stessa: "luce nelle tenebre significa sempre: amore che si riversa sovrabbondante nell'indigenza, cioè concretamente, nella incredulità, nel brontolio, nella minaccia nascosta o aperta della morte. Il discorso della morte rivela lo stato interno di passione: un offrirsi fino al limite dell'indegnità, del gettarsi in pasto alla gente; un amore inerme che abbandona la propria sicurezza e che subito dopo deve tuonare come giudizio"234. Per l'evangelista Giovanni, tuttavia, si tratta sempre di amore che si dà nelle tenebre e, proprio per questo, si rivela nella sua gloria, fino al confronto dell'ultima cena con Giuda, nel turbamento dell'anima di Gesù235. Di conseguenza la colpa che può generarsi dal misconoscimento della forma di Cristo non si verifica a motivo di una insufficiente evidenza oggettiva, o di una poca luce interna al mistero stesso di Cristo che si rivela, ma per colpa della tenebra che non vede la luce, non la riconosce e non l'accoglie. La forma del nascondimento è al tempo stesso la forma della passione, ed in essa non c'è nulla di gioioso e di edificante, ma solo di disprezzabile da guardare236. Se le cose si presentano a noi in questo modo c'è da lasciarsi interrogare da Balthasar sulla seguente questione: "si può per lo meno formulare allora la questione se il crocifisso possa essere, per così dire, l'immagine ufficiale di Cristo nella comunità, oppure se questa in quanto tale non debba avere come segno distintivo, com'era il caso nella chiesa antica, il Signore glorioso"237. La Chiesa è chiamata a contemplare e meditare l'immagine del nascondimento come cosa necessaria per essere trasformata nella stessa immagine, nella forza dello Spirito. La contemplazione diventa proprio qui, quando Dio si vela, una dimensione essenziale della fede cristiana. Mentre sul Tabor ai discepoli viene impedita una contemplazione tranquilla della gloria sovrana, qui il raggio della divinità è talmente richiamato indietro, che l'occhio umano è in grado di vedere, anche se solo per essere ferito da questa luce velata, tanto più profondamente, quanto viene più realmente vista e sostenuta238. Solo così possiamo comprendere, le seguenti parole: "la forma è percepita già, essa sta compiutamente dentro l'anima, ma come al buio, ed occorre soltanto ancora l'autosvelamento della luce, l'identificazione con l'io che si

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rivela, per trasformare ciò che è oggettivamente conosciuto e posseduto in possesso soggettivo"239. La Chiesa, perciò, non è chiusa in se stessa, nel mondo e accanto al mondo, ma effusione della luce di Cristo in una storia e in una creazione che non appaiono ancora redente, partecipazione al suo portare la colpa del mondo, ma al tempo stesso, del suo "aver-già-portato" tutta la colpa240. Il dramma di Cristo, resta invisibile al mondo. Infatti il fatto che esso sia confermato da testimoni oculari non significa ancora che il mondo, e persino la Chiesa lo possano vedere. Non siamo più in una condizione di luce non riconosciuta dalle tenebre, ma di una tenebra che sopravvive grazie ad un eccesso di luce. I piani quindi sono rovesciati, non è più la tenebra a dettare le sue leggi, ma è la luce stessa: "la forma di Cristo, che è la rivelazione di questa drammatica ultima tra Dio e il mondo, appare nel mondo con una tale pienezza di senso, con una accumulazione tale delle varie formazioni religiose, che stanno tra il cielo e la terra, che questa sintesi divina e divino-umana deve operare l'effetto di una pura sovrabbondanza e quindi di una tenebra che proviene dall'eccesso di luce"241. Abbiamo indicato più volte come l'Estetica teologica culmina nella forma cristologica della storia della salvezza che rende visibile l'Invisibile, dove l'uomo non è diminuito, ma illuminato da questa luce più sobria, autenticamente medicinale, nella quale si staglia in maniera inesorabilmente precisa ogni contorno e ogni gradazione mondana: "Queste azioni di Dio sono la luce della giustezza che cade sul mondo corrotto, e in questa luce pensa e comprende in misura crescente l'Antico Testamento. Si tratta di una luce divina e non è perciò sostanzialmente diversa dalla luce che si incarnerà nella natura umana"242. L'uomo, investito da questa luce, riceve un senso che è più forte ed autentico di quello che lui è capace di darsi autonomamente: gli è data la consapevolezza dell'unica possibilità, cioè quella di far disporre Dio di sé. "È una luce che irrompe dal centro dell'esistenza storica dell'uomo e del popolo e costringe, in questo centro, alla decisione e alla confessione, ma che, in quanto luce storica si estende in avanti e all'indietro: all'indietro, prendendo nella sua orbita, in quanto luce di verità, la storia precedente, imponendone così la reinterpretazione al proprio interno; in avanti proiettando la decisione e la confessione di Dio per l'uomo nel futuro, dal quale soltanto può essere attesa la giustificazione di questo giudizio nel presente"243. In modo sintetico Balthasar si esprime, condensando tutto il processo della rivelazione, nei seguenti termini: "Nell'uomo è Dio stesso che è quindi diventato manifesto: manifesto come il Dio nascosto nella sua libertà; il suo nascondimento non è nascosto, ma manifesto"244. In questo processo di manifestazione il luogo privilegiato è la croce perché in essa abbiamo lo scontro di gloria contro gloria, di una bellezza dal basso contro una bellezza dall'alto: a una bellezza, che è irretimento e sprofondamento rovinante e corrotto nella potenza del piacere e nel piacere della potenza, si oppone la bellezza dell'adorazione e

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del servizio: "se questo disarmo avviene sulla croce, che è quindi il luogo del trionfo sul mondo, tuttavia il cammino tutto che porta dal presepe alla croce è già marcia trionfale al cospetto delle potenze. Altrettanto Gesù appare di fronte agli uomini come l'abbassato e l'umiliato, altrettanto egli, di fronte alle potenze, è colui che fin da principio regna nella gloria"245. L'evento cristiano del processo della croce del Crocifisso, del profeta di Nazaret, apre un ulteriore orizzonte di comprensione ed interpretazione dell'esistenza tragica. Questo evento manifesta in ogni epoca culturale la sua unicità irripetibile, come offerta al pensiero tragico, per un avanzamento della domanda interrogante dell'uomo in modo però che l'uomo la percepisca, nella sua lucidità di una coscienza storica e nella assunzione libera della propria libertà, non più come una domanda, ma, al contrario, come una risposta da dare ad un interrogativo posto, questa volta, da Dio all'uomo nella croce di Gesù. L'evento cristiano identificabile nella Croce di Gesù postula un riconoscimento ed un accoglimento: la fede in Cristo, l'accoglimento di essere salvato, per essere protagonisti della storia di salvezza. 2.3.4. Per un'estetica della croce La sofferenza trova un senso di accettazione nel riferimento al Dio giusto. La sofferenza tragica dell'innocente, del giusto che soffre, che domanda pietà e rigetta la vita, fino al punto di desiderare che il mondo non esista, che il non esistere sia meglio dell'esistere. Ma il desiderare che il mondo non esista significa desiderare che io, così come sono, sia tutto. La sofferenza-dono del servo sofferente scopre una possibilità estrema del soffrire umano come luce che illumina. Una sofferenza per un dono: una sofferenza per-dono, per-donare rivela la via della bellezza. Questa sofferenza che congiunge destino e dono, costrizione e libertà, disperazione e speranza, rigetto e consenso, odio e amore, giustizia ed ingiustizia, punizione e grazia, è comprensibile solo nella mediazione dell'alterità, nella reciprocità del dono. Come dobbiamo intendere e comprendere questa mediazione della sofferenza-perdono perché costituisca un nuovo senso della sofferenza? L'umiltà dell'annientamento di Cristo, il suo morire, non deve essere considerato come una dimensione estrinseca all’opera riconciliatrice. L’effusione del sangue è veramente il linguaggio disarmato della giustizia misericordiosa del Padre; il linguaggio persuasivo per chi vuol comprendere il senso divino dell’amore, il linguaggio di una bellezza trasfigurata che risplende di luce nell’uomo dei dolori crocefisso per amore: “la croce è il primo, finché dura questo mondo, l’ultimo fine dell’incarnazione, e ogni partecipazione al gaudio della risurrezione non può surrogare l’obbligo di essere redenti attraverso la croce e d'un insondabile partecipazione che condivida la passione stessa. Pertanto la gloria luminosa che irradia la Rivelazione di Dio, il sovracolmarsi di ogni bellezza o estetica, necessariamente devono

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rimanere velati agli occhi di tutti, credenti e increduli, seppure a livelli e gradazioni assai diversi"246. Se la luce è il centro della rivelazione ed è solo dalla luce del morire di Cristo che noi siamo in grado di poter comprendere a pieno titolo il dono della rivelazione dell'amore, non ci resta che vedere come il dramma della croce sia da inserire nell'ambito di una bellezza che qualifica il bello attraverso il momento della forte negatività di Cristo. Balthasar ci fa riflettere ulteriormente su tale tema con le seguenti interrogazioni: "Tutto sta immerso in una luce aperta, che è più grande e magnifica di tutta la quintessenza del mondo bello e terribile. Perciò: dove sarebbe la luce se non ci fossimo noi (tutti) a vederla? Che non abbia addirittura bisogno di noi? Ma no, io e noi tutti siamo rispetto ad essa casuali: tutti noi insieme non siamo una sufficiente spiegazione dell'essere; esso è libero di mostrarsi in modo infinitamente diverso, di far luce a infiniti altri. Tuttavia: che cosa sarebbe la luce se nessuno la vede? Non siamo forse entrambi bisognosi a vicenda?"247. Luce e bellezza si mostrano ancora in un rapporto inscindibile, come in un rapporto inscindibile si trova colui che mostra e chi viene da esso rapito ed estasiato da una visione, che nel nostro caso è salvifica. Siamo entrambi bisognosi di vedere questa luce che splende dall'innalzato sulla Croce, come colui che si lascia innalzare diviene necessario strumento nella sua scelta libera di compiere per noi questo dono così profondo. La luce, in cui tutto è immerso, è ciò che ci permette di distinguere e di comprendere la singolarità dell'evento che si manifesta. Nessuna parola umana è in grado di esprimere il mistero di dolore e di amore che avvolge il Crocifisso, issato tra cielo e terra, sul Golgota di Gerusalemme, rigettato dalla sua gente, tradito e rinnegato dai suoi amici, abbandonato dai suoi discepoli, ridicolizzato dai passanti e persino abbandonato da Dio in cui aveva riposto la sua fiducia, ogni speranza. L'oscurità cosmica che, alla morte di Gesù, sembra avvolgere il mondo intero in una tenebra di luce ancora più fitta, è invece squarciata dal raggio di luce, che solo la fede può incontrare. Nello spazio del bello Balthasar scorge nella modernità, in maniera prevalente, l'urto, il conflitto tra Dio e uomo, tra infinito e finito, il cui superamento avviene con l'identificazione dei due poli e con la conseguente perdita, per la luce dell'essere, della differenza originaria, che può essere ricuperata solo nella bellezza come momento del rapimento e della visione del tutto per mezzo della croce di Cristo che inaugura un nuovo parametro di bellezza248. Per Balthasar, come per Barth, c'è una bellezza proprio là dove essa è negata249. È in questo contrasto, in questa negatività che gli opposti non vengono riconciliati, ma superati, ed è solo qui che la luce della Croce crea un contesto di bellezza, nel superamento, nell'andare oltre entrambe le negatività, nella trasgressione stessa: "Immagine originaria della gloria divina e suo riflesso nella immagine umana e alla fine il rapporto reciproco tra immagine originaria e immagine derivata nella gloria dell'Alleanza di amore: di conseguenza l'uno, di cui ora dobbiamo trattare, diviene

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in un senso inaudito confondatore di tutti i tempi, anzi irradiazione della gloria e impronta della sostanza di Dio stesso"250. Ed è proprio in questa "impronta della sostanza di Dio", che reca con sé, che l'uomo è chiamato a rinnovarsi in una nuova visione del mondo esibita dalla luce del Crocifisso, che l'immerge in una contemplazione nuova della bellezza capace di far risorgere: "No, l'uomo che rappresenta ed è il mondo, ha il suo tempo e muore, ma anche risorge nella vita eterna di Dio con la sua storia, il suo tempo, la sua morte e il suo mondo"251. Gesù, il Figlio di Dio, con la sua scelta libera di una forma opposta a quella della sua dignità ridona alla persona una dignità perduta: solo in questo incontro definitivo e unificante di Dio e dell'uomo conseguiamo quella visione della forma attraverso gli occhi della fede che trasformano il nostro vivere. "Come estetica trascendentale: quanto più una forma è alta nel valore, tanto più diventa trasparente per la luce in genere dell'essere. Soltanto che questa legge metafisica generale si realizza nell'avvenimento unico, la cui iniziativa poggia nella libertà assoluta di Dio, in un modo così immenso da essere radicalmente messa in crisi: l'uno il cui nome è Gesù Cristo deve discendere nell'assoluto opposto alla sua maestà di Signore, nella notte dell'abbandono di Dio e nell'informe caos infernale per essere e per erigere, al di là di tutto ciò che l'uomo può intendere per forma, quella forma imperitura e indivisibile che congiunge Dio e il mondo in una nuova ed eterna Alleanza"252. La visione che spinge ad una vita da vivere nel superamento continuo, consente all'uomo, come fa notare Balthasar, di stare in adorazione davanti alla bellezza dell'opera di Dio e della sua piena luce che rapisce in una nuova situazione di vita: "Questa visione, che per grazia di Dio non porta all'accecamento per troppa luce ma rende lo spirito umano capace di reggere davanti alla semplicità infinita, sprofonda è vero anzitutto l'uomo in adorazione davanti alla gloria, tuttavia è al tempo stesso l'impulso più forte per il pensiero che si completa seguendola"253. Solo così comprendiamo quello che significa per noi la gloria divina, e che cosa sia alla fine la gloria divina che risplende sul volto di Cristo crocifisso: "Parliamo di bellezza di Dio soltanto per spiegare la sua gloria che in ogni caso racchiude e porta ad espressione anche quel che noi chiamiamo bellezza"254. L'unico splendente punto focale, dove risplende la gloria, è proprio il Crocifisso che diviene al tempo stesso conciliazione e superamento di tutte le diversità, ed è proprio su questa parola bellezza, che è riversato un lume di bellezza differente da quella umana e passeggera, che in modo radicale e differente ci mostra la corrispondenza armoniosa tra promessa e compimento, che ci apre ad una dimensione futura irraggiante semplicità. Parliamo, dunque, di bellezza di Dio soltanto per spiegare la sua gloria che, in ogni caso, racchiude ed esprime ciò che definiamo come bellezza: "la bellezza di Dio nella bellezza di Gesù Cristo appare perciò

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proprio nel crocefisso, ma come tale, risorto: in questa automanifestazione la bellezza di Dio abbraccia la morte e la vita, la paura e la gioia, ciò che potremo chiamare odioso e ciò che potremo chiamare bello"255. Cogliamo la bellezza e la perfezione di Dio perché in essa si manifesta, in modo unico e sovrabbondante, quella unità, al contempo, enigmatica e chiara di identità e non identità, di semplicità e molteplicità, di intimo e di esterno. L'apparire di Dio, che mostra e conferma la sua unità, avviene solo nell'essere attratti, qui riceviamo la possibilità di vedere e di essere trasformati a sua "immagine e somiglianza": "Dobbiamo percorrere la strada di quei rudes e incipientes che da principio non sono in grado di vedere la luce della bellezza, come dice Origene, soltanto quando diventano perfetti, assurgono a innamorati della sua bellezza. Questo cambiamento è descritto in un detto misteriosamente oscuro di Gesù nel vangelo di Tommaso: Le immagini sono rivelate agli uomini, ma la luce che è in loro è nascosta nell'immagine del Padre. Questa luce si rivelerà e allora la sua immagine sarà avvolta nella sua luce"256. Siamo davanti all'autopresentarsi della bellezza di Dio, attraverso la luce che non abbaglia, non acceca, ma che pervade ogni cosa che si dirama dall'immagine del suo Figlio crocifisso per amore. Allora comprendiamo bene come la bellezza che qui viene colta è tale perché mediata dalla Croce, non percepibile agli occhi profani, per i quali mantiene un carattere di scandalo e di profonda incomprensibilità. Agli occhi dello sguardo marcato dalla fede essa è però esaltazione massima del cammino kenotico, è rivelazione di ciò che Dio ha fatto in modo del tutto gratuito per l'uomo: la discesa kenotica nel grande smarrimento del mondo ha fatto spalancare gli estremi abissi della libertà che si oppone a Dio. La gloria che avvolge la Croce non è, tuttavia, da interpretarsi al pari di uno svuotamento dei contenuti della sofferenza, di durezza estrema di questa morte, nei suoi risvolti di abbandono trinitario, e d'impatto con tutta la realtà del peccato del mondo: questi rimangono, in un certo senso sono anche potenziati. Essi figurano al centro dell'estetica teologica giacché sono espressione di un atteggiamento, più precisamente, dell'amore concreto di Dio per il mondo. Il cammino kenotico fino negli abissi della morte è glorioso, perché è percorso per amore, nell'amore. La Croce è esaltazione poiché manifesta fino a quale punto Dio ha amato gli uomini; è gloriosa perché è l'espressione massima dell'amore di Dio per la creatura. Così anche la presentazione degli eventi, che tiene conto dei ruoli diversi delle persone trinitarie257, ha senso unicamente poiché è al servizio della concentrazione dell'amore: l'amore di un Dio che si lascia coinvolgere, senza però venire meno a se stesso. La gloria che avvolge la Croce è appunto riverbero, più precisamente, della qualità come amore258. "Nessuna filosofia [...] e nessuna legge filosofica può autorizzarci a derivare dalla struttura del mondo creato la

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liberissima decisione di grazia della kenosi di Dio o a fare di questa una legge del mondo. Si è tentato ripetutamente di universalizzare questa kenosi in senso gnostico o idealistico, di farne la struttura dell'essere, dell'alienazione di sé e del suo superamento, del "muori e divieni" di ogni vita, come pure si è tentato di concludere dalle leggi dell'amore umano, del suo altruismo e della sua povertà, al necessario comportamento di Dio. Ma è soltanto il suo liberissimo amore che può indurre Dio sia a creare il mondo, sia a redimerlo in un modo tanto meraviglioso. Se è vero che tale emersione ad extra del mistero intratrinitario ci svela qualcosa della legge immanente della Trinità, tuttavia non è in nessun caso possibile derivare da questa legge interna una necessità di quell'emersione. Ma se in Gesù Cristo il mistero dell'amore divino si è una volta svelato, allora possiamo inferire che Dio poteva fare ciò che ha fatto, che il suo abbassamento e svuotamento non contraddicevano all'essenza sua propria, ma le erano perfino - in modo insospettabile - commisurati"259. Di fronte a ciò che Dio ha scelto come "necessario" (la kenosi e la croce), la mente tace, limitandosi a cogliere, o meglio ad accogliere, la non contraddizione tra quanto si verifica nella storia salvifica, in particolare sulla croce, e la vita intima di Dio. Il credente, di fronte agli eventi stupendi di cui il Dio trinitario si rende interprete, da una parte mette in atto un'umile adorazione e dall'altra cerca di esprimere in termini sensati le ricchezze divine emergenti da tali eventi. Egli, nella fede, non oserà mai dichiarare marginale o secondario ciò che Dio stesso ha stabilito essere necessario, ma l'intenderà come maggiore convenienza delle scelte divine in vista della realizzazione del progetto salvifico260. E se per questa necessità da Lui stesso voluta, Dio esce dal suo mistero e si sottopone all'umiliazione e all'abbassamento, vivendo una storia di sofferenza e di croce, si potrà forse rimproverarlo di aver occultato la propria beatitudine? Il mutismo totale condiziona la novità radicale di cui la Pasqua è lo splendore mattinale261. La visione del Crocifisso, condotta nella fede, si traduce in contemplazione della gloria incarnata e nascosta in Lui, che è immagine di Dio. Essa consiste in quell'unità d'amore tra il Padre, e lui, il Figlio Unigenito, vissuta nello Spirito Santo e manifestata agli uomini come esistente dall'eternità, e rivelata perché questi ne siano partecipi facendosi testimoni e discepoli del Crocifisso: "nella grazia e nel dovere dell'amore, che esiste da sempre e che si rivolge tanto a lui quanto al fratello in cui s'imbatte, in questo presupposto di luce assoluta che sempre brilla, il cristiano incontra il fratello nell'umanità; non è lui che, titanicamente, strappa il fratello dalle tenebre e lo solleva nella luce in forza della sua propria capacità di amore; anche in un totale impegno di carità (come il samaritano) egli rende solo testimonianza alla luce, allo stesso modo che Cristo, il Figlio del Padre, al quale era stato dato di brillare di luce propria, non ha voluto in tutto il suo risplendere che rendere testimonianza del Padre"262.

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In questa dimensione testimoniale, verso l'umanità, dell'amore crocifisso e della luce, che emana dal suo trono di gloria "colui che crede riceve una luce di salvezza che da sempre gli brilla incontro da sopra i confini della ragion pura e in ordine alla gloria di questa luce egli si muove con una specie di emersione dalla sorgente in posizione recettiva, di sguardo e di ascolto, insomma contemplativa"263. Gesù, il Figlio di Dio crocifisso, è davvero: "l'ultima parola pronunciata da Dio, irraggiungibile da qualsiasi pensiero o prassi [...]. Il gesto estremo dell'amore trinitario che si dona supera le immagini di Dio giudaiche, samaritane e pagane, e diventa per esse il tèlos: videbunt in quem transfixerunt. In futuro non ci sarà nient'altro da vedere da parte di Dio"264. Conclusione Da quanto abbiamo rilevato, nel nostro percorrere la strada intrapresa da Balthasar, in Gloria, è emerso in modo particolare come il tema della luce per un'estetica teologica sia notevole e fondamentale. Nello stesso tempo però, ci siamo resi conto di come questo filone teologico non sia stato sufficientemente elaborato come tematica negli scritti e negli studi che sul teologo di Lucerna sono stati fatti. Pertanto, ai fini di un'ulteriore ricerca sulla prospettiva della luce e della gloria come bellezza e come verità, che si svela e si rivela, sarebbe suggestiva una rilettura di tutta la storia della teologia occidentale ed orientale capace di far spiccare quelle figure teologiche e filosofiche che hanno considerato, nel loro itinerario culturale, simili contenuti. Solo ora, tenendo conto, particolarmente, dell'ultimo decennio, la teologia contemporanea si affaccia su questa prospettiva, che, invece, ha guidato il pensiero dei Padri e della Scolastica, nel fondare una vera e propria metafisica della luce e quindi una teologia della luce, diventando il centro focale e il punto di partenza per un'intelligenza della bellezza che mostra la verità. Nella prima parte del nostro studio, abbiamo visto come Balthasar, con Gloria, ha inteso presentare la teologia alla luce del trascendentale filosofico: il bello. La motivazione nasce dal fatto che lo splendore dell'essere è la prima cosa che vede un bambino o che capisce un uomo semplice. Il suo tentativo si presenta come un ritorno alle origini, dove la bellezza ripresenta alla ragione il suo duplice volto del vero e del bene nella loro reciprocità assoluta. In questo orizzonte la rivelazione che Dio fa di se stesso ha un nome: Gloria, kabod, doxa, Herrlichkeit. È il manifestarsi dell'amore divino in una donazione piena e gratuita, un dispiegarsi del suo essere misterioso che viene incontro all'uomo, nella storia, rivelando la gloria del suo eterno amore trinitario. Qui rifulgono gli elementi della bellezza: assenza di interesse, libertà, pura, mancanza di costrizione, espressione piena, autosufficiente e diffusiva di se stessa. Solo attraverso la forma può, infatti, spiccare un lampo della Bellezza eterna. E la forma

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più splendente del percorso storico della gloria è il Crocifisso perché sul Calvario l'irruzione dell'Amore tocca l'intensità più alta. Dopo aver fissato gli occhi su questa Luce, Balthasar ne cerca i raggi che si annidano in ogni dove. Egli ha messo in evidenza come questa estetica teologica non va confusa con il sentimento romantico: essa è il riconoscimento della maiestas divina attraverso un amore filiale che si esprime poi in adorazione. La bellezza di cui il teologo svizzero scrive è lo splendore dell'essere, dell'originaria, essenziale realtà in un'immagine, che si comunica senza ricorrere a concetti, ma attraverso l'esaltante emozione che l'immagine bella sa suscitare nell'animo disposto ad accoglierla e a goderne la presenza. Attività soggettiva e luminosità oggettiva si congiungono e segnano, nella coscienza, il duplice ritmo della soggettività che rapporta a sé l'immagine e quello della disponibilità all'immagine stessa, al lasciarsi possedere dai significati originari che in essa risplendono. Una prima conclusione si affaccia, giacché l'esistenza è solcata dalla negatività e la Luce si scontra con le tenebre, in altre parole, dal conflitto e dalla tensione tra la libertà di Dio e quella dell'uomo. Quindi, uno sfondo drammatico accompagna la rivelazione realizzando il passaggio dalla teo-estetica alla teo-drammatica. Chi volesse, allora, limitare l'opera di Balthasar alla sola estetica teologica ridurrebbe il suo pensiero isolando l'originalità di una riflessione teologica. La forma della rivelazione, che trova il suo centro nella storia di Gesù di Nazaret, risulta convincente per se stessa, ma viene percepita come tale solo se la facoltà conoscitiva umana è illuminata e abilitata a vedere la rivelazione della grazia. Ci vuole una corrispondenza fra l'esistenza umana nel suo insieme e la forma di Gesù Cristo. Non basta la semplice luce della ragione che può constatare solo una quantità di linee e di proporzioni, ma non riesce a cogliere per virtù propria l'evidenza della forma. Non esiste, pertanto, conoscenza della credibilità che anteceda in maniera pura e semplice l'assenso di fede al contenuto della rivelazione. Se la rivelazione costituisce la vera risposta ad ogni attesa e ogni desiderio, allora non si può negare che le attese e le aspirazioni umane con-costituiscono l'orizzonte in cui soltanto è possibile vedere e comprendere la forma della rivelazione. Nella seconda parte abbiamo percorso alcuni temi centrali del rapporto della luce con ciò che appare a noi che si svela a noi, nella realtà concreta. Già nella contemplazione sensibile la luce è la bellezza per se stessa, la bellezza intuitiva per eccellenza, che ci mostra l'originario delle diverse forme, che a noi si manifestano con una molteplice gamma di splendore. Questo rilievo ci ha consentito di rileggere l'evento della croce sotto l'aspetto luminoso che lo pervade, fino a cogliere la luce della verità nella Trinità stessa, quale sorgente inesauribile di originalità e bellezza. Se la bellezza è luce e la luce è bellezza, il rapporto si presenta indivisibile. Ulteriori conseguenze, qualificanti un'estetica teologica della croce, affiorano nella direzione della luce come verità della morte di Gesù Cristo.

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Se il centro del kerigma cristiano è la verità della morte di Gesù di Nazaret, compresa nella sua autenticità di un morire messianico, questo centro rivelativo possiede una densità di luce che deve illuminare ed espandersi nel mondo intero. In modo più appropriato l'argomento deve enunciarsi come il dirsi della verità del morire di Gesù, in quanto si assume la verità che avviene, come evento, in quel morire; il suo dirsi come dire originario è la luce. Una verità che accade nella temporalità, come apertura alla sua storicità; storicità intesa come coscienza storica, aperta al dire interpretativo, come parola di possibilità progettuale, proprio come annuncio dischiudente un futuro del messaggio evangelico, di buona notizia di salvezza per la condizione umana curvata dalla morte, vinta dal destino tragico. Una percezione di necessità deterministica, non libera, della vita e della morte è ancora la luce in cui noi siamo coinvolti e ci coinvolgiamo. Con quest'affermazione si vuol affermare che l'accadere della morte avviene come svolgimento o evento di cui costituisce e rivela la verità: la sua verità come modo di essere dell'accadimento stesso, non percepibile in delle significazioni che cadono fuori di quel morire o in dei valori attribuiti a quella morte. La bellezza emergente dalla luce della Croce, dunque, non è uno dei modi in cui è presente la verità, ma è l'unica possibilità. Allora, l'autenticità del morire messianico è da vedere come verità epifanica, evento che porta a compimento la rivelazione dell'amore trinitario nella sua massima manifestazione di luce. Domandandoci qual è il dirsi della verità e come sostenere la verità del morire di Gesù, intendiamo rilevare la forza rivelativa della croce nel duplice aspetto di evento luminoso e di kerigma illuminante. Il nostro pensare e la nostra parola vengono a trovarsi in una tensione veritativa verso la croce, che squarcia le tenebre dell'indifferenza schiudendoci la salvezza che da essa viene gratuitamente offerta. La verità dell'uomo assunto nella sua morte, nella sua angoscia tragica davanti al mistero dell'essere e dei nulla, succube del destino fatale che incombe sulle storie dei popoli, è ancora una verità di luce che ci mostra la sua piena bellezza e splendore nella negatività che assunta è modificata e perfezionata. Se, dunque, la luce assoluta manifestata sulla croce è il bello assoluto, la stessa croce trasformerà ogni persona che ad essa volgerà il suo sguardo fiducioso. Pertanto, un'estetica teologica che guarda alla croce come via della salvezza racchiude quel legame intimo che pervade la luce, la bellezza e la verità, perché tutto ciò che appare si svela per la luce265. La lettura di Balthasar, proposta in queste pagine, sottende, a nostro avviso, una tematica che riteniamo sostanziale. Nella moderna situazione culturale, frastagliata e frammentata, emerge l'esigenza di individuare un lògos di verificabilità e un punto di convergenza della fede cristiana, che non ne tradisca però il nucleo essenziale, la sua peculiarità e pretesa, senza esaurirne la portata salvifica.

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Con quali categorie o principi tradurre il messaggio della rivelazione, dove porre il segno di autenticità delle verità cristiane: nel cosmo, nell'uomo, nella storia? Quale testo, quale linguaggio può rappresentare la chiave di accesso al Dio cristiano? La tradizione patristica e medievale aveva individuato il lògos di credibilità e universabilità nella via cosmologica: ciò che poteva permettere un confronto universale, anche con prospettive non cristiane, era la visione religiosa del mondo, della natura, l'osmosi indiscussa tra piano naturale e sovrannaturale. Tale orientamento naturale del finito verso l'infinito è venuto meno, però, con l'ingresso della modernità e il disincanto della natura operato dalla mentalità scientifica e positivista. Alla via cosmologica subentra quella antropologica: l'anima universale cristiana non è più ravvivata affidandosi alle prove cosmologiche dell'esistenza di Dio, che avevano il loro punto di partenza nella natura, ma alla struttura dell'uomo, alla sua esperienza spirituale e storica. Il centro della relazione con Dio è, dunque, l'uomo. Il cristianesimo, come tutta la realtà, è posto, secondo Balthasar, in un orizzonte di verificabilità, di credibilità, di autenticazione che appartiene totalmente e puramente allo spirito finito (idealismo, romanticismo, eticismo kantiano): vi è certamente l'intenzione positiva di rendere universale la fede e il tentativo di superare una visione oggettivistica ed estrinsecistica del cristianesimo. Il pericolo e il limite, però, da cui in maniera perentoria Balthasar pone in guardia, è quello di ridurre il Tu all'io, l'indeducibiltà dell'amore di Dio e della sua rivelazione a una deduzione antropologica (la critica più forte a Rahner); è compromesso il caso serio della fede e dell'amore di Dio. La sua posizione si caratterizza per il superamento delle due vie percorse dalla teologia, quella cosmologica e antropologica, in quanto entrambe fondano la credibilità del cristianesimo al di fuori del nucleo stesso e dell'essenza della fede. Per Balthasar credibile significa indivisibile, originario (che corrisponde all'essere), intrinseco (interno al contenuto, non previo o esterno), autentico, genuino. Solo l'amore, manifestato nella sua essenza nella rivelazione, è credibile, ha in se motivo per essere accolto, corrisponde all'essere nella sua originarietà. Il linguaggio usato per esprimere la credibilità dell'amore si rifà all'orizzonte personalistico che ricupera la dimensione dialogica, di alterità del Tu (rispetto alla dialettica hegeliana), ed estetico che ricupera la priorità del darsi e la dimensione della verità come dono: l'amore non può essere manipolabile o riducibile ad esigenza; può essere compreso ma non catturato; è incondizionato, libero, assoluto. Tale amore si comprende nella sua indeducibilità in rapporto a quello umano, di cui Balthasar descrive mirabilmente la grandezza e la miseria, l'intima contraddizione di eterno e temporale, spirituale e mortale, l'insita consapevolezza di colpa e fallimento, di mistura di egoismo e di paralisi. Tra l'amore divino e quello umano vi è un rapporto di precognizione (è un concetto a priori per interpretare il segno di Cristo) e d'inciampo (l'amore di Dio è scandalo, paradosso, abisso). Ma come concretamente l'uomo giunge

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a conoscere e percepire l'amore di Dio? L'amore di Dio, secondo Balthasar, possiede in sé le condizioni per la sua conoscibilità e le comunica: è il dono della grazia, della fede-speranza-carità che ridesta, riaccende l'amore umano assopito e spento. Le qualifiche di tale credibilità si danno nel concetto di forma, di cui si possono individuare tre elementi: unità in quanto è il darsi contemporaneo di interiorità e comunicazione, di anima e corpo; splendore perché irradia luce, possiede una propria forza di persuasione e attrazione; originarietà in quanto è la forma dell'essere nel suo darsi originario (non è estetismo: bellezza sganciata dal vero, dal buono, dall'uno). Cristo è la forma perché raccoglie in sé questi elementi, realizza in sé le proprietà universali dell'essere, è l'universale concreto, unità perfetta di forma e contenuto, continuo rinvio al Tu, al Padre. La forma di Cristo (espressione di Dio e quindi della sorgente dell'essere) ha in se stessa la sua credibilità perché esprime esternamente l'essere interno nella sua originarietà (dipendenza da Dio); è credibile in quanto riflesso dell'essere autentico. Si tratta di una forma che informa, nel senso che dà, comunica la propria figura, modella e plasma l'esistenza del cristiano. Il segno culminante di tale amore è la croce di Cristo, segno che non è posto al di là dell'essere, ma vi è rappresentato e adombrato. Dio ha creato l'essere in modo tale che sia kenosi, povertà, finitezza, contingenza, creaturalità capace dell'accoglienza di Dio, vuoto che si lascia ricolmare da Dio, rinvio all'oltre: "L'eterno prius della parola divina d'amore s'asconde in un'impotenza che concede il prius alla creatura amata"266. Il compito del cristiano per rendere ragione della sua fede di fronte al mondo d'oggi, afferma Balthasar, è quello di ridare luce all'essere, alla sua differenza creaturale rispetto a Dio, alla sua situazione di perfettibilità. La croce, d'altro canto, viene salvaguardata e compresa nel suo carattere di dono, amore sempre più grande, libertà, indeducibilità, salvezza donata e non sintesi ritrovata, se viene superata la riduzione trascendentale-antropologica moderna (che conduce il tu e l'essere stesso all'io) e viene ridestata la dimensione dell'essere come povertà, vuoto, passività, grazie alla quale l'essere rinvia continuamente a Dio e si lascia plasmare da lui. La credibilità dell'amore di Dio nella croce non è vanificata se è salvato e colto il di più, il semper maior di tale amore, l'urto e il paradosso di tale forma, il suo carattere di non-forma, di silenzio, di contraddizione: solo così si può spezzare il circolo chiuso della logica moderna e rinsaldare il rapporto di amore e liberta tra Dio e il mondo, restaurare il rinvio all'oltre e lo scambio vivente tra uomo e Dio, recuperando nell'immanenza la trascendenza e illuminando il carattere di mistero dell'essere che è insieme povertà e ricchezza. La risposta della fede è dunque il riscontro essenziale dell'amore. L'atto di fede non va compreso in un orizzonte astratto, razionalista (come conoscenza naturale di Dio) ma nello spazio vitale dell'incontro con Dio, della ricezione della rivelazione. La credibilità e la significatività dell'atto di fede non si fonda al di fuori della fede (prove cosmologiche, struttura

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antropologica) ma all'interno: se è vera in se stessa può essere vera-credibile per il mondo. La fede è intesa da Balthasar come abbandono (Gelassenheit). In tale atto, nella "forma", è evidente (e qui si pone la ragione, la forza e la convinzione che è propria della fede) Dio stesso, l'amore di Dio, poiché essa è modellata, "informata" dalla fede di Cristo. Anche la fede soggettiva rimanda continuamente all'oggetto, poiché in essa rifulge Dio. Nell'abbandono del credente è richiamato lo stesso Cristo che si abbandona al Padre; l'evidenza della fede indica che in essa si vede in maniera chiara chi è Dio. La fides qua (il credente) è modellata sulla fides quae (contenuto di fede) e solo nella loro unità sono segno evidente di Dio. Sempre nella fede si sperimenta e si conosce l'essenza dell'amore di Dio, essa cioè diventa trasparenza della rivelazione, ha la sua ragione e credibilità nell'atto stesso di credere in quanto irradia la luce e la gloria della croce, rendendo evidente l'unità e l'unicità dell'evento di Cristo. Il sensus fidei del credente esprime la capacità di discernimento oggettivo del contenuto di fede, di cogliere la totalità-unità e la straordinarietà e unicità del fatto cristiano; il cristiano coglie dall'interno le connessioni del mistero salvifico. La rivelazione, dunque, mistero di amore, può essere compresa solo accogliendo nell'amore l'amore di Dio. Per il teologo elvetico la fede non ha bisogno di un sapere che funga da anticamera, che le serva come preambula fidei per poterne afferrare la luce o la portata. La fede stessa, dal punto di vista biblico (soprattutto in Giovanni e Paolo), si presenta come "gnosi" ben fondata, racchiude in se stessa l'intelligenza del proprio mistero. Non è solo un quaerens intellectum al di fuori di sé, ma un inveniens intellectum in se stessa. Occorre, perciò, recuperare il momento della ratio all'interno della fede (non in un'intuizione di Dio previa, o in un sentimento religioso o esperienza interiore), per poterla pensare come sintesi unitaria, come esperienza viva e spirituale globale di colui che s'incontra concretamente con Dio. Secondo Balthasar si tratta di questione vitale per la cristianità di oggi il presentare la fede in se stessa credibile, nella sua unità, nella sua intima essenza, senza doversi appoggiare ad affermazioni esterne o ritenere semplicemente per vere, solo in forza dell'autorità rivelativa, affermazioni incomprensibili alla ragione: "la fede infatti nonostante tutta la trascendenza della verità divina, anzi proprio mediante essa conduce l'uomo alla comprensione di ciò che Dio è in verità, e in questa comprensione anche alla comprensione di se stesso"267. Qualsiasi forma di kantismo nella teologia, secondo Balthasar, non può che deformare il fenomeno e non coglierlo. L'assioma classico, quidquid recipitur, recipitur ad modum recipientis non può essere giustificato, poiché Cristo non dipende da alcuna condizione soggettiva. La teologia di Balthasar, tuttavia può risultare anacronistica per la filosofia e la scienza, e rischia di non trovare ascolto. Non si tratta di una teologia legittima solo all'interno della Chiesa quindi non avrebbe molta attendibilità agli occhi del mondo? Esiste anche per Balthasar una precomprensione, una premessa su cui innestare la rivelazione?

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Egli riconosce la premessa fondamentale con cui l'uomo si accosta alla rivelazione, che è data dall'aporia filosofica: la filosofia come domanda d'infinito e come incapacità di risposta. La precomprensione non è qualcosa che il soggetto fornisce come contributo alla conoscenza cristiana, ma è data dal fatto reale che Dio si è fatto uomo, e che a questo titolo corrisponde alle forme generali del pensiero e dell'esistenza umana. Tale precomprensione può essere così delineata: l'uomo è aperto nel suo spirito a Dio, e questo fa sì lo stesso che possa riconoscersi come colui che "rationabiliter comprehendit incomprensibile esse" e individuare Dio come "id quo maius cogitari nequit". Ma l'uomo può conoscere Dio solo in grazia della rivelazione. Anche Balthasar dunque, e questo lo avvicina molto a Rahner, riconosce che l'atteggiamento di risposta alla rivelazione dev'essere strettamente e inevitabilmente connesso con l'atteggiamento più intimo dell'uomo che è quello filosofico: l'oggetto formale della teologia (e dell'atto di fede) "giace nel cuore dell'oggetto formale della filosofia: è dalla profondità misteriosa di quest'ultimo che esso irrompe, come autorivelazione del mistero dell'essere stesso, in una maniera che non può essere derivata da ciò che l'intelletto creato può, con le sue forze, decifrare del mistero dell'essere"268. Il cristiano deve partire sempre dal centro vitale del mistero, e muoversi tra l'adorazione e l'obbedienza: colui che non ha provato il mistero della croce mediante la contemplazione non ne potrà mai parlare. Per entrare perciò nella logica della forma bisogna entrare nella logica dell'obbedienza e della contemplazione: condizioni sine qua non per cogliere l'amore di Dio. Dio si rivela a noi solo quando i nostri concetti vengono meno. Balthasar ha coniato l'espressione teologia in ginocchio: essa è tesa tra l'obbedienza adorante e l'amore credibile, può svilupparsi solo in quel contatto col Dio vivente che si compie nella preghiera. Contemplazione significa meraviglia di fronte all'essere che si è concretamente manifestato nella sua trascendenza in Gesù Cristo. Il cristiano è custode della meraviglia dell'essere con cui comincia sempre la filosofia. "Il mistero cristiano tra "contemplazione" e "azione", detto con più profondità, tra l'assoluto venir destinati da Dio e l'assoluto farsi fabbri del proprio destino nella libertà, è l'illuminazione risolutiva dell'orizzonte dell'essere e dell'uomo che ci vive"269. La fede è esperienza profondamente umana, poiché ne riflette la grandezza e la fragilità, è esperienza di via, di cammino. L'oggettivismo radicale di Balthasar rischia di squalificare le attese, le aspirazioni umane, mentre l'attesa dell'uomo gioca un ruolo decisivo nella ricezione della forma. Il merito e l'eredità di Rahner, che non dovrebbe andar perduta, è di aver preso in tutta serietà l'esperienza fondamentale dell'uomo, la sua attesa della grazia, e di aver resa familiare la fede mettendo in luce l'intreccio vitale tra il dinamismo trascendentale umano e la rivelazione categoriale, storica di Dio. Pur nella connessione di trascendentalità e storicità, tuttavia, esiste sempre uno scarto e un divario esistenziale tra l'aspetto soggettivo e quello oggettivo della fede, tra l'esperienza personale e la sequela

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radicale di Cristo. In tale divario si pone anche la storicità costitutiva della fede, il suo compiersi nel tempo, l'esigenza delle mediazioni quali la chiesa, la testimonianza di fede, la dimensione comunitaria. La fede non è solo senso ma anche consenso, si genera in un contesto vitale, in uno spazio comunitario, in una situazione storica. La trascendentalità dell'esperienza di fede è sempre mediata dalla forma storica della fede. La fede, pertanto, è assenso responsabile che nasce da una ragione o da un processo dotato di un'intrinseca razionalità esistenziale, globale, inoltre è risposta alla rivelazione che si presenta come Verità, ossia con una coerenza interna capace di essere la risposta, per il credente, più completa, più credibile agli interrogativi inquietanti della vita. L'insistenza su tale maturità e responsabilità dell'esperienza della fede pongono in rilievo il centro unitario e l'opzione fondamentale poste nel dialogo, libero e misterioso, tra l'uomo e Dio attivato dalla grazia. Questo porrà in essere una riflessione teologica più esistenziale, globale e maggiormente rispondente alla cultura, alla spiritualità odierna, di cui sta cercando di valorizzare alcune dimensioni fondamentali: l'esperienza dell'autotrascendenza, la maggior credibilità dell'amore, la capacità di stupore, di meraviglia, la costituzione linguistica, storica dell'essere umano. 1. L'intervista è stata riportata, in Italia, sul quotidiano La Repubblica del 5-6 agosto 1979; vedi pure H. MARCUSE, La dimensione estetica, Mondadori, Milano 1979. 2. Vedi le riflessioni di A. RIZZI, Qualità della vita. Itinerario di riflessione, in "Servitium" 13 (1979), p. 18-21. 3. A. BAGORDO, Ionesco o l'inquieto cercatore di luce, in "La scuola e l'uomo" 31 (1974), pp. 19-21; cfr., G. TOSCHI, E. IONESCO, in IDEM, Angoscia e solitudine nel teatro contemporaneo, Esperienze, Fossano 1970, pp. 69-83, qui p. 83. 4. Su questa espressione di Dostoewskij vedi l'ampio studio di A. DELL'ASTA, La Bellezza splendore del vero, in "Russia Cristiana" 5 (1980) pp. 32-53; sul pensiero religioso di Dostoewskij, in particolare sulla sua visione cristologica e sul rapporto Cristo-Bellezza-Verità, vedi F. CASTELLI, Herrlichkeit in "Civiltà Cattolica" III (1981), pp. 225-237 citeremo CivCatt; L. DAL SANTO, Dostoievschij, cristiano contemporaneo e profeta, in "Rivista del Clero Italiano" 63 (1982), pp. 273-280; T. SPIDLIK, L'antropologia cristiana di Dostoievschij, in E. ANCILLI (a cura di), Temi di antropologia teologica, Teresianum, Roma 1981, pp. 388-402. Segnaliamo alcuni recenti saggi che incoraggiano e stimolano nel percorrere una riflessione attorno alla bellezza: J. NAVONE, Verso una teologia della bellezza, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998; B. FORTE, La porta della bellezza. Per un'estetica teologica, Morcelliana, Brescia 1999; GIOVANNI PAOLO II, Lettera agli artisti, in Enchiridion Vaticanum. Documenti della Santa Sede,

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Dehoniane, Bologna 1999; C. M. MARTINI, Quale bellezza salverà il mondo?, Lettera Pastorale 1999-2000, Milano 1999. 5. H. U. VON BALTAHASAR, Il tutto nel frammento [tr. it. di Das Ganze in Fragment. Aspekte der Geschichtsthelogie, Einsiedeln 1963], Jaka Book, Milano 1990, p. 193, citeremo TF. 6. IDEM, Gloria,V. 580. Qui Balthasar cita il Pellegrino cherubino di Angelo Silesio: "Die Schönheit kommt von Lieb, auch Gottes Angesicht Hat seine Lieblichkeit von ihr, sonst glänzt es nicht". Per l'opera Gloria-Herrlichkeit, seguiremo le seguenti abbreviazioni: Gloria I, Gloria. Un'estetica teologica. I: La percezione della forma [tr. it. di Herrlichkeit. Eine theologische Aesthetik. I: Schau der Gestalt, Einsiedeln 1961]. Gloria II, Gloria. Un'estetica teologica. II: Stili Ecclesiastici [tr. it. di Herrlichkeit. Eine theologische Aesthetik. II: Fächer der Stile, I. Klerikale Stile, Einsiedeln 1962]. Gloria III, Gloria. Un'estetica teologica. III: Stili Laicali [tr. it. di Herrlichkeit. Ein theologische Aesthetik. II: Fächer der Stile, II. Laikale Stile, Einsiedeln 1962]. Gloria IV, Gloria. Un'estetica teologica. IV: Nello spazio della metafisica: l'antichità [tr. it. di Herrlichkeit. Eine theologische Aesthetik, III/1. Im Raum der Metaphysik, Einsiedeln 1965]. Gloria V, Gloria. Un'estetica teologica. V: Nello spazio della metafisica: l'epoca moderna [tr. it. di Herrlichkeit. Eine theologische Aesthetik. III/I. Im Raum der Metaphysik, Einsiedeln 1965]. Gloria VI, Gloria. Un'estetica teologica. VI: Vecchio Patto [tr. it. di Herrlichkeit. Eine theologische Aesthetik. III/2: 1. Alter Bund, Einsiedeln 1966]. Gloria VII, Gloria. Un'estetica teologica. VII: Nuovo Patto [tr. it. di Herrlichkeit. Eine theologische Aesthetik. III/2: II. Neuer Bund, Einsiedeln 1969]. 7. Gloria, I, 574. 8. Ibidem, 571; cfr., A. BOGGETTI, Estetica e teologia in Hans Urs von Balthasar, in "Rivista di Estestica" 16 (1971), 390. 9. È ormai un dato acquisito che la prima predicazione cristiana si sia concepita alla luce di un imminente ritorno del Signore; questo annuncio tuttavia è stato adattato alle differenti culture cui veniva rivolto per questo ritroveremo che per i giudei si aveva una corrispondenza con l'Antico Testamento e Gesù era Christos per i pagani si parlava più volentieri di kyrios, Re e Signore; per la cultura ellenistica in genere era invece logos: Parola e luce in relazione al nous; per i provenienti dalla religione misterica era soter ed è sotto questi vari aspetti che il cristianesimo si è aperto ai vari popoli. 10. "Se nulla è potuto mutare nella posizione antica di Dio nei confronti del mondo e della costituzione fondamentale dello spirito umano nei confronti di Dio, quale origine ha dunque il lamento che si ode, lamento che parla dell'oscuramento di Dio, anzi della "tenebra di Dio" di quest'epoca? Risponderemo subito, in via di tentativo e provvisoriamente col dire: esso ha origine con la mutata posizione dell'uomo nei confronti delle cose del mondo, le quali non sono più per lui motivo per un contemplativo elevarsi verso l'assoluto, ma lo sono invece per essere dominate praticamente nella strumentalità tecnica", in Spiritus Creator. Saggi teologici, III [tr. it. di Spiritus Creator. Skizzen zur

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Theologie, III, Einsiedeln 1967], pp. 255-256, citeremo d'ora in poi SC. 11. "Per rendere credibile e accettabile il messaggio cristiano al mondo, i Padri della Chiesa collocano questo messaggio sullo sfondo e nella cornice della religione naturale, considerata o nella sua varietà e molteplicità di forme (Eusebio, Arnobio, Lattanzio), o nella sua riduzione filosofico-religiosa (Giustino, Origene, Agostino)" in Solo l'amore è credibile, p. 17, [tr. it. di Glaubhaft ist nur die Liebe, Einsiedeln 1963], citeremo d'ora in poi AC. 12. "Un simile metodo era reso possibile non solo dal concetto di una identità fra religione e filosofia, ereditato dalle civiltà antiche e accettato come ovvio e evidente, ma più ancora da una concezione unitaria dell'ordine naturale e soprannaturale: Dio è manifesto dal principio del mondo", AC, p. 18. "Può bastare a questo punto qualche richiamo sul cosmo greco. Il mondo è 1) da intendere come epiphaneia del divino all'uomo e come luogo di comparsa dell'uomo destinato a comprenderlo. Solo in un tempo più tardo il cosmo è divenuto "ordine" (in modo manifesto nelle stelle) che guida lo sguardo verso l'epifania del divino, in epoca anteriore a far questo ci sono gli stessi dei che appaiono. Da questa epifania deriva per l'uomo la misura morale che egli deve "tenere" _(sofrosoune)_ la diffida contro il peccato d'orgoglio, e di lì discende pure luce sufficiente per rendere tollerabili e asseribili le oscurità dell'esistenza per la morte... 2) L'ordine del mondo riposa sul giusto e sull'appropriato ed equo (themis, dike) in quanto divina fondazione. L'uomo realizza la sua propria natura individuale e politica riconoscendo questo ordine e rende omaggio a Dio con la sua fedeltà, anzi tende a lui nell'amore (eros)", Gloria, IV p. 29. 13. Il concetto che l'uomo sia sintesi di tutto il mondo non è del tutto moderno come si è spinti a credere. Già Origene, Agostino, Gregorio Magno, Massimo il Confessore [...]. Hanno sottolineato questo aspetto. Il mondo del Rinascimento, per arrivare poi a Kant e Marx, lo ha fatto proprio indebitamente. "L'uomo come "confine" (methorion) fra il mondo e Dio: la concezione che era stata propria dell'antichità e della patristica rivive nel Rinascimento nelle tante esaltazioni della dignità dell'uomo. Egli è l'interlocutore di Dio e il dialogo termina con l'incarnazione di Dio che si fa uomo egli stesso. L'uomo non è solo un microcosmo; ma nella scienza naturale che sorge è l'interprete della natura, che allo stesso tempo egli supera e trascende nel suo intelletto ", AC, p. 33. 14. Prova storica di questo è il sistema filosofico di Feuerbach e Marx che devono formulare primariamente un ateismo metodologico per costruire poi, il loro sistema filosofico, cfr., C. FABRO, Introduzione all'ateismo moderno, Roma 1964, pp. 620-660. 15. SC, pp. 262-263. 16. "Non esiste dunque una via tra la Scilla dell'estrinsecismo e la Cariddi dell'immanentismo? Non esiste una intuizione del cristianesimo tale che, evitando sia la fede fanatica dei semplici (aplousteroi), sia l'arrogante presunzione gnostica dei saccenti (gnostikoi), percepisca in pura, schietta evidenza la luce che

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scaturisce dalla rivelazione, senza per questo dover essere riconducibile al metro alle dimensioni e alle leggi dell'uomo, cioè di colui che la intuisce?", AC, pp. 53-54. 17. Gloria, I, p. 28. 18. Ibidem, p. 3. 19. "Was aber schön, ist, selig scheint es in ihm selbst" è questo l'ultimo verso di una poesia di Mörik del 1846, che noi riprendiamo insieme ad altre osservazioni da un articolo di H. R. SCHLETTE, Il cristiano e la esperienza del bello, in AA.VV., Comprensione del mondo nella fede, Dehoniane, Bologna 1969, pp. 99-125. 20. Gloria, I, pp. 9-11. 21. Ibidem, pp. 31-33. 22. Gloria, VII, p. 89. La parola gloria è una di quelle che ritornano più frequentemente nella Bibbia, nella liturgia, nella tradizione, nei testi del magistero e nelle esperienze dei mistici. Non sempre però è facile coglierne il senso preciso. Con la parola gloria si traduce il termine ebraico kabod e il termine greco doxa. Queste due parole non si corrispondono fondamentalmente. L'ebraico marca di più la gloria radicale, quello che noi potremmo dire ragione e fondamento della gloria. Essa significa il peso, l'importanza della persona che ha gloria. Per un uomo può essere la ricchezza che possiede, per un re il popolo o il gran numero dei suoi soldati, per la donna la bellezza intesa come capacità di essere feconda, cfr., Grande Lessico del Nuovo Testamento, [tr. it. di Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, G. KITTEL-G. FRIEDRICH (edd.), Stuggart 1933-1973], (a cura di), F. MONTAGNINI, Brescia 1965-1990, vol. II, Paideia, Brescia 1966, v. Doxa, kabod nell'AT, col. 1358 ss, citeremo GLNT; P. DASEILLE-P. ADNÈS, Gloire de Dieu, in Dictionnaire de Spiritualité ascétique et mystique. Doctrine et histoire, Beauchesne, Paris 1965, vedi 6, col. 422ss. Per il senso di kabod nell'AT, e per il rapporto con tutti gli altri termini che connotano la gloria, Gloria, VI, pp. 33-176. Alle pagine 34-35, in nota, si trova una bibliografia su Kabod Jahvè. La gloria di Dio è costituita dal suo stesso essere: "Io sono colui che è". La gloria appare, risplende. Dio si manifesta per mezzo della gloria, si fa conoscere per mezzo della gloria. La gloria perciò è all'inizio dell'incontro dell'uomo con Dio ed è condizione del suo riconoscimento in vista dell'alleanza. In quanto la gloria di Dio è potenza, imponenza, grandezza, splendore e anche mistero, impenetrabilità, genera sorpresa, ammirazione, meraviglia, stupore, a volte rispetto e timore. Non si può vedere Iddio senza morire? La manifestazione della gloria di Dio è sempre, perciò, misericordia. Il significato originario della parola doxa con cui i LXX traducono la parola ebraica kabod e che è poi usato nel Nuovo Testamento, è ben diverso da quello di gloria. Derivata da dokéo, essa significa fondamentalmente l'opinione, ciò che si ritiene vero. In questo senso è opposta alla epistéme (scienza) e alla alétheia (verità). Il senso di gloria lo ha assunto in quanto ha teso a significare godere buona fama, buona opinione, buona stima. Nell'uso del NT, la parola doxa ha una forte variazione semantica, che la porta a corrispondere al senso dell'ebraico

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kabod e la fa distaccare dal verbo dokéo, che continua a mantenere il suo senso originario di ritenere, sembrare, sostituito dal verbo doxázo, per esprimere l'atto di dare gloria, glorificare, cfr., G. VON RAD-G. KITTEL, Doxa_ in GLNT, II, col. 1343-1345. Per il senso di doxa e in genere sulla gloria nel NT si ha una buona scelta di bibliografia in Gloria, VII, pp. 217-219. 23. Ibidem, p. 33. 24. Per una esegesi più completa circa il brano di 2 Cor. 3, 18 si può confrontate pure Gloria, VII, pp. 420-422. La pericope di 2 Cor. è concepita da von Balthasar come "luogo classico" dell'estetica per questo trova qui un posto particolare. Si confronti pure in Ibidem, pp. 268-274. 25. Gloria, I, p. 29. 26. Cfr., Gloria, II, p 217. 27. Gloria, I, p. 109. 28. Per Dionigi l'eros comprende in sé al di lá dell'"agape", il momento del rapimento ontologico e questa è per lui un'affermazione soteriologica oltre che estetica. Infatti, il rapimento dell'uomo non si ferma all'aristotelico e neoplatonico kinoun ws eramenon, ma fonda questo in una previa estasi divina discendente nella quale Dio viene tirato da sé, attraverso l'eros, nella creazione, nella rivelazione e nella incarnazione. Von Balthasar fa riferimento esplicito ad un brano di Dionigi di De Divinis nominibus, 4, 13; cfr., Gloria, I, pp. 106-108. 29. Nessuno come Agostino, "divenuto il fondatore permanente di una estetica cristiana", in Verbum Caro. Saggi teologici, I [tr. it. di Verbum Caro. Skizzen zur Theologie, I, Einsiedeln 1960], p. 113, citeremo d'ora in pio VC; "negli anni della sua conversione e in quelli successivi ha così costantemente lodato Dio come suprema bellezza e ha cercato così conseguentemente di definire il vero e il bene con le categorie dell'estetico", Gloria, II, pp. 81-123. "Fra i grandi scolastici, Bonaventura è quello che nella propria teologia dà più spazio alla trattazione del bello, non semplicemente perché ne parla spessissimo, ma perché vi esprime palesemente un'intima esperienza", Gloria, II, pp. 237-325. "In Tommaso d'Aquino avviene di rado che la bellezza si trovi al centro della riflessione e questa è per lo più condizionata dal materiale che la tradizione gli mette al riguardo sotto gli occhi, egli rivede calmo questo materiale ereditario, cerca di armonizzare gli elementi che affluiscono a lui da Agostino, Dionigi, Aristotele, Boezio e dal suo maestro Alberto, e in apparenza senza fornire all'estetica in senso stretto un contributo originale. Nel retroterra tuttavia viene trasferito in una luce nuova per il fatto che tutta la teoria dei trascendentali viene investita da quella che fu la fondamentale prestazione creatrice dell'Aquinate: la sua determinazione dell'esse e del rapporto dell'esse alle essenze ", Gloria, IV, pp. 355-371. 30. Gloria, I, p. 12; p. 103. 31. "Ogni essere reale che incontriamo è secondo gradi analogici diversi una Gestalt, la cui altezza viene valutata in base al potere più o meno grande della sua unità a raccogliere elementi molteplici (Ehrenfels) ma tutte le Gestalten spiritualmente visibili rinviano oltre se stesse all'essere nella sua pienezza e

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perfezione il quale secondo Goethe "non può essere da noi pensato". La luce irradia dalla Gestalt e che si apre alla comprensione è in tal modo indivisibilmente luce della forma stessa (la scolastica perciò parla di splendor formae) e luce dell'essere in genere in cui la forma è immersa per poter avere in genere reale Gestalt. Con l'immanenza sale la trascendenza", Gloria, IV, pp. 34-36. 32. Gloria, IV, p. 36. 33. Gloria, I, p. 103. Per comprendere l'unità di misura: " si misura una cosa mediante un'altra, ma se ciò che viene misurato e ciò che misura (o viceversa) sono parte o aspetto di un tutto, si può dire allora che il tutto è misurato da se stesso. Solo quando le parti o gli aspetti di un tutto si misurano vicendevolmente, possono dare assieme una forma. La forma si ha solo dalle parti o dagli aspetti che sono vicendevolmente ripartiti e adattati (proportio), in modo tale tuttavia che non hanno da se stessi la misura ultima ma dall'insieme che è al tempo stesso distributore ed ultimo beneficiario di tutta la propria misurazione", Ibidem, p. 438. 34. Gloria, I, p. 103. 35. Ibidem, p. 103. Inoltre: "Non si può trascendentalizzare l'evento del bello in modo tale che esso divenga una pura irruzione dall'esterno e dall'alto. Un tale evento che aderisce all'"essere", ma che calpesta l'essente e l'ente, distrugge la metafisica nell'atto stesso in cui la fonda", VC, p. 120. 36. Karl Barth fu l'unico nell'imperversare del tifone che ha saputo raddrizzare decisamente il timone. Superando l'aut-aut tra Hegel e Kierkegaard egli ha promosso (a partire da Hegel) una dogmatica oggettivamente normata ed anche formata che tuttavia ha il suo contenuto (a partire da Kierkegaard) nel rapporto reciproco, originato dalla fede, tra il Dio creatore e salvatore da una parte e l'uomo disvolto da lui e a lui rivolto, dall'altra, rapporto mediato in Gesù Cristo, Dio fattosi uomo. Per la prima volta nella storia della teologia protestante si è ritornati ad attribuire a Dio nuovamente il titolo della bellezza. Occorre notare che Barth, in opposizione al concetto kierkegaardiano dell'estetica, riguadagna il contenuto della "bellezza" in maniera puramente teologica, a partire dalla considerazione dei dati biblici, in particolare della "gloria" di Dio, alla cui comprensione gli sembra indispensabile la bellezza come "concetto ausiliare". Proprio a partire da una considerazione che è "contemplazione", cfr., Gloria, I, p. 43. Da notare anche l'importanza che von Balthasar concede a J. G. Hamann; l'unico che pone il problema di una dottrina estetica: "Alle soglie dell'epoca moderna si erge una figura che come nessuna altra nella storia porta i segni tragici della questione che ci interessa... Ci riferiamo a Johann Georg Hamann egli è stato l'unico a prendere in considerazione l'esigenza di abbozzare una dottrina estetica dove si potesse realizzare tutta l'aspirazione di una bellezza mondana e pagana e tuttavia si desse tutto l'onore a Dio in Gesù Cristo", Gloria, I, p. 69. E ancora: "Il suo sentiero all'indietro non fu tuttavia percorso più e la sua indicazione non fu compresa da tutto l'idealismo tedesco, che invece preferì seguire la via del

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suo discepolo infedele Herder, attraverso Schleiermacher, fino a Hegel", Ibidem, p. 40. 37. "Abbiamo qui schizzato a mo' di introduzione il progetto di K. Barth non solo perché si accorda con il nostro, ma anche per quel che concerne proprio il rapporto tra gloria e bellezza", Gloria, VII, pp. 27-28; Gloria, I, p. 45. 38. VC, p. 117. 39. IDEM, Wahrheit der Welt, Johannes Verlag, Einsiedeln 1947. Noi lo citiamo della traduzione francese di R. GIVORD, Phénoménologie de la vérité. La vérité du monde, Paris 1952. 40. "Si la vérité et la bonté son réellement deux propriétés trascendentales de l'être, elles doivent se compénétrer mutuellement, et il en résulte nécessairement que tout essai de les délimiter d'une manière exclusive ne peut conduire qu'à une fatale méconnaissance de leurs deux natures. On pourrait en dire autant, avec les nuances voulues, de la dernière propriété, trascendentale de l'être, le beauté: elle aussi prétend à juste titre à l'universalité, elle aussi en conséquence est inséparable de ses deux soeurs? C'est pourquoi, pour apercevoir la nécessité abolument fondamentale d'une éthique et d'une esthétique de la vérité et de la connaissance de la vérité, il suffit de reconnaître que les trois déterminations trascendentales de l'être sont nécessaires pour manifester toute sa richesse intime, autrement dit pour dévoiler sa vérité; ce qui revient à dire encore que seule une vérité vivante et durable de la triple attitude théorique, éthique et esthétique, peut nous amener à la vraie connaissance de l'être ", Ibidem, p 13. 41. Ibidem, p. 207. 42. Ibidem, p. 213. 43. "Tommaso non si è mai occupato ex professo dei problemi del bello, non vi ha mai dedicato un trattato o un articolo, non ha mai sentito il bisogno di sistemare in modo evidente le proprie idee estetiche. Tommaso affronta il problema del bello quasi per caso e le risposte che formula costituiscono sempre degli incisi; ma non per disinteresse estetico quanto per la ragione opposta: una visione del mondo in termini di bellezza gli era connaturata, spontanea, facile e quotidiana, e si manifestava come tonalità dominante di un clima sentimentale-religioso, piuttosto che come una questione teologica formulabile in termini problematici e aperta a soluzioni controverse", U. ECO, Il problema estetico in Tommaso d'Aquino, Bompiani, Milano 1970, p. 146; Gloria, IV, pp. 355-371. 44. Ibidem, p. 97. 45. Ibidem, pp. 149-150. Confronta pure Summa Theologiae, II-II, p. 142; II-II, p. 180. 46. Gloria, I, p. 104. 47. "Percezione-Wahrnehmung- è un termine chiave che si può trasportare in italiano sia con "percezione" che con "evidenza". Nella storia della filosofia lo si ritrova in tre accezioni particolari: 1) esso sta ad indicare, in senso generale, qualsiasi attività conoscitiva; 2) più particolarmente sta ad indicare l'atto conoscitivo mediante il quale un oggetto reale è presente alla mente; 3) in chiave più tecnica esso è un'operazione

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specifica dell'uomo in rapporto all'ambiente in cui vive, N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1977, pp. 659-663. A noi sembra che sulla linea di interpretazione e dell'uso fatto da Agostino, Tommaso, Kant, Hegel, Balthasar abbia ad usare il termine in senso più specifico come cioè il rendere presente una realtà esistente, l'afferrare, in questo caso specifico, la realtà dell'essere come bello che è poi rivelazione di Dio. Ancora così si esprime Marchesi: "Quando nel contesto letterario l'accento è posto sul nehmung allora è indicato l'atto soggettivo del vedere, sentire, contemplare [...] se invece l'accento cade sul wahr si ha piuttosto il senso di evidenza oggettiva: è l'autorivelazione, l'automanifestazione della verità divina vista nel suo atto di irradiarsi come centro fontale verso la periferia", IDEM, La cristologia di H. U. von Balthasar, p. 132. 48. "Estetica (nel senso kantiano) come dottrina della percezione della forma di Dio che si rivela", Gloria, I, p. 110; e ancora: "nella dottrina della visione nel primo volume (visione della forma) l'estetica era intesa in senso kantiano come dottrina della percezione", Gloria, VII, p. 32. 49. Gloria, VII, p. 16. 50. Ibidem, p. 21. 51. Gloria, I, p. 20. 52. Ibidem, pp. 23-24. 53. Gloria, VII, p. 349. 54. Gloria, I, p. 137. 55. Gloria, VII, pp. 32-33. 56. Gloria, I, p. 30. 57. VC, p. 127. 58. Gloria, I, p. 108. 59. Ibidem, p. 26. 60. VC, p. 165. 61. Gloria, VII, P. 32. 62. Gloria, I, p. 4. 63. Si noti qui, anche nella terminologia, la dipendenza di Balthasar, o forse sarebbe meglio parlare di concordanza di visione teologica, con P. ROUSSELOT, Les yeux de la foi, in "Récherches de Science Religieuse" 1 (1910), pp. 241-449, e la ripresa del termine patristico di "occhi della fede", "les yeux de la foi", presentato dal nostro autore in Gloria, I, pp. 160-162, qui mostra la dipendenza di Rousselot da Tommaso e Blondel: "Fu un grande passo avanti quello compiuto quando Pierre Rousselot, a partire dal 1910, cominciò a sviluppare la sua dottrina degli "occhi della fede". Già lo stesso titolo, scelto come parola d'ordine, derivato dai Padri e soprattutto da Agostino e rifacentesi alla concezione biblica della fede, indica come ci sia qualcosa da vedere per la fede, anzi come la fede cristiana consista essenzialmente in una capacità di vedere ciò che Dio vuole mostrare e che non può essere visto senza la fede. Dietro Rousselot ci sono da una parte Tommaso d'Aquino e dall'altra Blondel con la sua concezione dell'apertura dinamica dello spirito alla pienezza dell'essere, Ibidem, p. 160. 64. Gloria, VII, pp. 23-24. 65. Gloria, I, p. 20.

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66. Ibidem, pp. 22-23. 67. "Una verità teologica che non si rivelasse sempre più luminosamente come l'incomprensibile irruzione e affermazione dell'eterno amore (trinitario), non sarebbe una verità", Gloria, VII, p. 85. 71. Gloria, VII, pp. 240-244. 72. "La teologia è un mezzo, una mediazione, un rendere possibile, uno schiudere la dovizia infinita della verità divina nei ricettacoli finiti in cui ci è donata la rivelazione, affinché il credente diventi capace di incontrare tale infinità nell'adorazione e nell'obbedienza di vita. La verità della rivelazione in quanto è verità divina e vissuta, è strutturata così che la teologia, compiendo la sua opera come riflessione teoretica, che poi trapassa néll'adorazione e nell'obbedienza di vita, nel suo contenuto di verità debba lasciarsi misurare col metro dell'adorazione e dell'obbedienza", VC, pp. 168-169. 73. Gloria, I, p. 110. 74. Gloria, VII, p. 32. Per quanto riguarda poi i rapporti tra teologia e metafisica, cfr., Gloria, IV, p. 20 s. 75. VC, pp. 171-172. 76. IDEM, Liturgia cosmica, [tr. it. di Kosmische Liturgie. Das Weltbild Maximus des Bekenners, Johannes Verlag, Einsiedeln 1961], A.V.E., Roma 1976, p. VII,. Testo ripreso dalla introduzione che von Balthasar fece a Présence et Pensée. Essai sur la philosophie religieuse de Grégoire de Nysse, Paris 1942. 77. IDEM, Con occhi semplici. Verso una nuova coscienza cristiana, [tr. it. di Einfaltungen. Auf Wegen christlicher Einigung, Kosel, München, 1969], Herder-Morcelliana, Brescia 1970, p. 10. 78. Basti pensare a tutte le estetiche della luce sviluppatesi nel Medioevo a cui fa riferimento U. Eco nel suo saggio Arte e bellezza nell'estetica medievale, Strumenti Bompiani, Milano1994, pp. 55-63, dove si affronta il problema del gusto del colore e della luce, la metafisica della luce di Grossatesta, ed il pensiero di Bonaventura. Altri autori evidenziano una metafisica della luce come P. EVDOKIMOV, Teologia della bellezza, pp. 185-190; B. FORTE, La porta della bellezza, pp. 73-84; per il rapporto tra luce-bellezza e verità vedi il saggio di N. VALENTINI, PAVEL A. FLORENSKIJ, la sapienza dell'amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, Dehoniane, Bologna 1997, pp. 161-175. 79. A. SCOLA, Hans Urs von Balthasar: uno stile teologico, Jaca Book, Milano 1991, pp. 13-14. 80. Riguardo a Bonaventura ed alla sua ermeneutica, J. Navone scrive: "San Bonaventura usò il simbolo della luce nel suo approccio teologico alla bellezza. Per lui, come per altri teologi medievali, la luce era il simbolo centrale per la bellezza trascendentale e reale della creature. La luce in quanto tale non viene vista; si vedono soltanto gli oggetti illuminati", in idem, Verso una teologia della bellezza, p. 74. 81. Cfr., A. SCOLA, Hans Urs von Balthasar, p. 14. 82. Cfr., A. SCOLA, p. 19. 83. Cfr., Ibidem, p .52. 84. Cfr., Ibidem, p. 52. 85. A. SCOLA, cit., p. 30.

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86. Cfr., K. RAHNER, Uditori della Parola, Borla, Torino 1967, specialmente il I capitolo dedicato alla filosofia della religione come ontologia della potentia oboedentialis di fronte alla rivelazione. Il tema che prende corpo alla fine del testo citato è che l'uomo non potrà mai essere pienamente tale se non in relazione con la rivelazione e, a sua volta, la rivelazione non potrà mai realizzare la propria identità se non sarà raggiungibile dal soggetto; cfr., pp. 195-210 e sempre dello stesso autore: Filosofia e teologia in Saggi Teologici I, [tr. it. di Philosophie und Theologie, in Schriften zur Theologie], Paoline, Roma 1968, pp. 137-152. In questo Balthasar si contrappone nettamente al metodo trascendentale di Rahner. Nel corso di un'intervista, senza nascondere la sua ammirazione per la vivacità teologica di Rahner, egli soggiunge: "le nostre posizioni di partenza furono, a dire il vero, sempre diverse. C'è un libro di Simmel che si intitola Kant e Goethe. Rahner ha scelto Kant, o se si preferisce: Fichte, cioè l'impostazionme trascendentale. E io ho scelto Goethe da germanista. La figura (Gestalt), indissolubilmente unica, organica, che si sviluppa - io penso a Metaformosi delle piante di Goethe - questa figura con cui Kant anche nella sua estetica non arriva mai davvero a venire a capo [...]. Una figura, una forma, la si può circondare, le si può girare attorno e vederla da tutte le parti. Ogni volta si vede qualche cosa di diverso e tuttavia si vede sempre la stessa cosa", in M. ALBUS, Geist und Feuer. Ein Gespräche mit Hans Urs von Balthasar, in "Herder Korrespondenz" 30 (1976), p. 75. citato in P. HENRICI, La filosofia di Hans Urs von Balthasar,in K. LEHMANN-W. KASPER, p. 313. 87. H. U. VON BALTHASAR, Mein Werk, p. 92. È da questa esperienza che l'autore svizzero prende le mosse per analizzare la fede in SC, pp. 11-18. Sul rapporto Io-Tu e sulla sua significatività nello spiegare la dinamica della fede cfr., M. BUBER, Werk, I, Schriften zur Philosophie, Kösel und Lambert Schneider, München-Heidelberg 1962, pp.505-603, dove si evidenzia che il problema della fede si pone quando non ci si lascia assorbire dalla relazione Ich-Es e ci si apre alla relazione Ich-Du; perciò la fede, più che la capacità conoscitiva, investe la nostra capacità di incontrarci a livello interpersonale. Sulla fede come ritrovamento del "Tu", cfr., anche J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, [tr it. di Einführung in das Christentum], Queriniana, Brescia 19909, pp. 46-47. 88. Teologica, I: Verità del mondo, p. 41, [tr it. di Theologik. I: Wahrheit der welt, Einsieldeln 1985], abbrevieremo: TL I. 89. Ibidem, 215. 90. Cfr., A. SCOLA, cit., pp. 44-45. 91. Gloria, I, p. 137. 92. Ibidem, p. 137. 93. Cfr., Ibidem, p. 24. 94. La "luce dal cielo", al v. 3, è uno dei segni ordinari delle apparizioni divine, lo stesso vale per il "cadere in terra", del versetto seguente, quale atteggiamento di adorazione dell'uomo di fronte al mistero divino. In questo caso si tratta, piuttosto, del rovesciamento dei disegni umani da parte dell'iniziativa divina. Le parole pronunciate da Cristo esprimono l'identificazione tra il

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Signore risorto e i suoi fedeli, come Paolo stesso evidenzierà, nelle sue Lettere (1Cor 3,16s; 10,17; 12,27; 2Cor 6,16), dichiarando l'unione Cristo-cristiani poiché fondata su questa voce divina; cfr., C. M. MARTINI, Atti degli Apostoli, Edizioni Paoline, Roma 1970, p. 153. Paolo rimane accecato quando alla fine si rialza da terra e tenta di aprire gli occhi e trascorre tre giorni di silenzio dove gli diventa chiaro quanto segue: "1. gli si rivela come volontà di Dio esattamente quello che finora aveva considerato come bestemmia, come un grave peccato contro la volontà di Dio e comprende, quindi, che tutto quello che egli pensava e faceva era un combattere contro Dio. 2. Gesù, che egli aveva ritenuto come un falso messia giustamente condannato ad una morte ignominiosa, è il Signore celeste, che gli è apparso nella luce della gloria divina; egli è veramente risorto. Inoltre, avverte che questo Signore lo ha perdonato senza alcun motivo; anzi, vuol prendere al proprio servizio proprio lui, il suo nemico, per quanto Paolo non sappia ancora in che modo", in G. STÄHLIN, Gli Atti degli Apostoli, [tr. it. di Die Apostolgeschichte], Paideia Editrice, Brescia 1973, pp. 244-245. L'episodio "non è stato un puro e semplice processo di autocoscienza, bensì un prodigio di grazia. Siamo indubbiamente di fronte a una lettura del cambiamento esistenziale del persecutore fatta con gli occhi della fede dal cristianesimo primitivo, ma ancor prima dallo stesso protagonista", in G. BARBAGLIO, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella Editrice, Assisi 1985, p. 75. 95. Gloria, I, p. 574. 96. Ibidem, p. 45. 97. Ibidem, p. 148. 98. Cfr., B. FORTE, La porta della bellezza, pp. 63-66. 99. Gloria, I, p. 4. 100. Ibidem, p. 12. 101. A riguardo della forma G. RUGGIERI, afferma nella prima nota del testo, che il termine "forma" (Gestalt), con cui l'autore rende la species e la forma latina, costituisce una delle parole-chiavi per intendere il suo pensiero, come abbiamo già specificato nella parte introduttiva del nostro lavoro. Forma indica la struttura concreta dell'essere, essa è una figura dinamica che pervade ogni singolo essere unificandolo in tutte le sue parti e lo apre all'Essere che propriamente lo informa, gli dà forma e di cui è quindi espressione, e lo rende a sua volta capace di irradiare il suo proprio splendore; cfr., anche G. MARCHESI, La figura di Gesù Cristo nell'estetica teologica di Hans Urs von Balthasar, in "CivCatt" II (1999), pp. 123-128. 102. Gloria, IV, pp. 5-36. 103. Gloria, I, p. 14. 104. Ibidem, p. 14. 105. Ibidem, p. 13. 106. Ibidem, p. 15. 107. Ibidem, p. 26. 108. Ibidem, p. 23.

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109. Ibidem, p. 361. Il saggio citato di R. GUARDINI è Die Sinne und die religiöse Erkenntnis. 110. Ibidem, p. 364. 111. Ibidem, p. 366. 112. Ibidem, p. 367. Analizzando l'opera di Paul Claudel l'autore svizzero ne riporta il pensiero: "la luce si apre un varco fino all'occhio, attraverso i colori e le ombre. L'occhio da parte sua è il bisogno di visione dello spirito finito che è divenuto organo, la scintilla di luce messa da Dio dentro l'uomo, perché organizzi in forma vivente le tenebre che lo circondano", Ibidem, p. 373 113. Ibidem, pp. 373-374. 114. Ibidem, p. 374. 115. Ibidem, p. 19. 116. Ibidem, p. 20. 117. Ibidem, p. 24, 118. Ibidem, pp. 3-4. 119. Gloria, I, p. 25. 120. Ibidem, p. 28. 121. G. MARCHESI, La cristologia trinitaria, p. 282. 122. Gloria, I, p. 28. 123. Ibidem, p. 29. 124. Ibidem, p. 29. 125. Ibidem, p. 30. 126. Ibidem, p. 30. 127. Ibidem, p. 33. 128. K. BARTH, KD II/1, 732 ss, citato in Gloria, I, p. 43. 129. Gloria, I, p. 44. 130. Ibidem, p. 45. 131. Ibidem, p. 70. 132. Ibidem, pp. 70-71. 133. Ibidem, p. 71. 134. Ibidem, p. 74. È una lettura diversa da quanto proposto, ad esempio, dalla mistica dalla mistica apofatica, fiammingo-renana, che collegandosi alla tradizione metafisica della teologia negativa, vede nella Croce l'attuazione della doppia negazione necessaria perché Creatore e creature si possano incontrare: la kenosi del Verbo e il riconoscimento della nullità della creatura davanti a Dio. Gli scritti di Meister Eckhart si muovono in questa direzione: la forma platonica del pensare prevale su quella biblica, la fede indica il distacco da ogni esteriorità; cfr., M. VANNINI, Dialettica della fede, Piemme, Casale-Monferrato 1983, 26-27. Diversa è l'interpretazione offerta dal filosofo francese S. Breton, che vede nel misticismo speculativo la chiave per passare dal linguaggio dell'essere a quello dell'abisso, che è il vero linguaggio della theologia crucis. Lo stesso Eckhart che parla il linguaggio dell'ontologia dell'essere lascia la parola al Prologo giovanneo; l'essere non è più il primo intelligibile, ma l'effetto dell'intelletto stesso della sapienza, cfr, in IDEM, La Mistica della Passione, Stauròs, Pescara 1986, [tr. it. di La Mystique de la Passion, Desclée, Tournai 1962], pp. 66-98. 135. Ibidem, p. 73. 136. Ibidem, p. 74.

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137. Cfr., Ibidem, p. 74. 138. Ibidem, p. 74. 139. Ibidem, p. 19. 140. Ibidem, p. 75. 141. Ibidem, p. 75. 142. Alois Gügler è stato un geniale teologo di Lucerna prematuramente morto che ha svolto portando a compimento una teologia estetica, sua opera principale L'arte sacra o l'arte degli ebrei 1814/1836. 143. Gloria, I, p. 82. 144. G. SCHOLEM, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 295. 145. J. VIDAL, Sacro, Simbolo, Creatività, Jaca Book, Milano 1992, pp. 122-123. 146. Cfr., Gloria, I, p. 86. 147. Ibidem, p. 87. 148. Ibidem, p. 88. 149. Cfr., Ibidem, p. 88. 150. Ibidem, p. 89. 151. Ibidem, p. 93. 152. Ibidem, p. 105. 153. Ibidem, p. 105. 154. Ibidem, p. 106. 155. Ibidem, p. 106. 156. Ibidem, p. 108-109. 157. Gloria, II, p. 1. 158. Ibidem, p. 3. 159. Gloria, I, p. 139. 160. Cfr., Ibidem, p. 146. 161. Ibidem, p. 122. 162. Cfr., Ibidem, p. 123. 163. Ibidem, pp. 124-125. 164. Ibidem, p. 26. 165. TL, I, p. 13. Tuttavia, ponendo tutto sotto la luce di Dio e dentro l'orizzonte della storia della salvezza, a Balthasar riesce impossibile concepire una filosofia che prescinda completamente dai contenuti della rivelazione. Infatti "il mondo, come oggetto della conoscenza, è da sempre costretto in questa sfera sovrannaturale, e così analogamente il potere conoscitivo dell'uomo si trova anch'esso sotto la positiva premessa della fede o sotto quella negativa della miscredenza. Vero è che la filosofia, in quanto si muove in una relativa astrattezza, prescindendo da questo inalveamento sovrannaturale della natura creata, può evidenziare certe strutture fondamentali naturali del mondo e della conoscenza, le quali non vengono affatto, da quell'inserimento, eliminate o alterate nella loro essenza; ma la filosofia, quanto più si avvicina all'oggetto concreto e quanto più presume dal suo potere conoscitivo concreto, tanto più si troverà a includere, consapevolmente o meno, dati teologici. Il soprannaturale si radica, appunto nelle più intime strutture dell'essere, per impregnarle come un lievito, per attraversarle come un soffio e un aroma onnipresente. È non solo impossibile, ma sarebbe anche folle, voler bandire ed escludere con ogni mezzo

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quest'aroma della verità soprannaturale è troppo profondamente impregnato nella natura perché questa possa essere ancora ricostruita nel suo stato di natura pura", Ibidem, p. 17 166. Cfr. per questo TS, p. 61-70. 167. Gloria, I, p. 134. 168. Ibidem, p. 134. 169. Ibidem, p. 135. 170. Ibidem, p. 136. 171. Ibidem, p. 142. 172. Ibidem, p. 143. 173. Ibidem, p. 143. 174. Ibidem, p. 144. 175. Cfr., Ibidem, p. 145. 176. Ibidem, p. 155. 177. Ibidem, p. 148. 178. Ibidem, p. 151. 179. Ibidem, p. 151. 180. Ibidem, p. 157. 181. Ibidem, p. 197. 182. Ibidem, p. 197. 183. Ibidem, p. 198. 184. Ibidem, p. 198. 185. Ibidem, p. 199. 186. Gloria, V, p. 581. 187. Cfr., M. JÖHRI, Descensus Dei, pp. 308-309. 188. Gloria, I, p. 19. 189. Ibidem, p. 20. 190. Ibidem, p. 100. 191. Ibidem, p. 101. 192. Cfr., Ibidem, p. 119. 193. Ibidem, p. 127. 194. Ibidem, p. 166. 195. Ibidem, p. 180. 196. Ibidem, p. 186. 197. Ibidem, p. 400. 198. Ibidem, p. 400. 199. Ibidem, p. 400. 200. Ibidem, p. 406. 201. Ibidem, p. 407. 202. Ibidem, p. 408. 203. Cfr., Ibidem, p. 410. 204. Cfr., Ibidem, p. 412. 205. Ibidem, p. 422. 206. Cfr., Ibidem, p. 425. 207. Cfr., Ibidem, p. 426. 208. Ibidem, p. 426. 209. Ibidem, p. 427. 210. Ibidem, p. 427. 211. C. HELOU, Il conflitto delle tenebre e della luce negli scritti giovannei. Un approccio simbolico, in J. RIES-C. M. TERNES (a cura di), Simbolismo ed esperienza della luce nelle grandi religioni, Jaca Book, Milano 1997, p. 174. A riguardo del simbolismo delle tenebre e della luce, sarebbe di estrema

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importanza poterlo analizzare nel vangelo giovanneo, vedendone i suoi presupposti e le sue conseguenze, tenendo presente che Balthasar utilizzi a proprio questo il vangelo per meglio comprendere il rivelarsi della forma, il suo manifestarsi all'umanità. 212. Gloria, I, p. 429. 213. Ibidem, p. 429. 214. Ibidem, p. 435. 215. Ibidem, p. 437. 216. Ibidem, p. 439. 217. Ibidem, p. 440. 218. Ibidem, p. 444. 219. Ibidem, p. 445. 220. Ibidem, p. 451. 221. Ibidem, p. 452. 222. Ibidem, p. 452. 223. Ibidem, p. 453. 224. Ibidem, p. 454. 225. Per quanto concerne il tema del tragico esiste una vasta letteratura: P. SZONDI, Sul tragico, Einaudi, Torino 1996; U. CURI, (a cura di), Metamorfosi del tragico fra classico e moderno, Laterza, Roma 1991; R. OTTONE, ad esempio ne Il tragico come domanda. Una chiave di volta della cultura occidentale, Roma 1998, scrive: "una eccezione significativa in campo cattolico è rappresentata, in questo secolo, dalla figura di Hans Urs von Balthasar nella cui opera il tema del tragico costituisce un filone fra i più rilevanti. In estrema sintesi possiamo dire che per von Balthasar, la tragedia di Gesù supera quella greca e quella ebraica soltanto col darle compimento e consumazione perfetta", in idem, p. 203. 226. Ibidem, p. 457. S. Kierkegaard avrebbe rigettato il paragone croce-dipinto: "come potrei decidermi, cioè come potrei lasciarmi andare a prendere il pennello per rappresentare Cristo o lo scalpello per scolpire la sua figura? Poco importa a questo riguardo ch'io sia o non sia un artista; chiedo semplicemente in quale misura mi sarebbe possibile fare questo se ne avessi le doti necessarie. E rispondo: no, mi è impossibile assolutamente", in IDEM, Esercizio del Cristianesimo, p. 311ss. 227. Ibidem, p. 458. 228. Ibidem, p. 472. 229. Ibidem, p. 472. 230. Ibidem, p. 474. 231. Ibidem, p. 475. 232. Cfr., Ibidem, p. 484. 233. Ibidem, p. 486. 234. Ibidem, p. 486. 235. Cfr., Ibidem, p. 487. 236. Cfr., Ibidem, p. 488. 237. Ibidem, p. 489. 238. Cfr., Ibidem, p. 490. 239. Ibidem, p. 490. 240. Ibidem, p. 498. 241. Ibidem, p. 605.

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242. Ibidem, p. 608. 243. Ibidem, p. 609. 244. Ibidem, p. 611. 245. Ibidem, p. 622. È nella espropriazione massima che si apre a noi la via nuova dell'amore di Dio che offre la sua vita, e che nell'offrirla la innalza al di là del tempo contingente, rendendola una icona eterna, la cui luce dona salvezza al contemplante: "inaudito equilibrio dell'amore corporeo: disincantato fino al midollo, sulla croce e davanti all'agape di Dio che si è rivestita del linguaggio corporeo, innalzato al di sopra di sé ed elevato nell'eternità, in questo linguaggio inebriante della carne e dei sangue, per diventare, in quanto eros creato, la tenda e l'abitazione dell'amore di Dio! Espropriato per diventare espressione di qualcosa di più alto! Si ha quindi una duplice vicendevole espropriazione: di Dio dentro la forma umana, dell'uomo dentro la forma di Dio. E questa duplice espropriazione contiene la vita più concreta", Ibidem, p. 631. 246. VC, p. 126. 247. Gloria, V, p. 569-570. 248. Cfr., A. TONIOLO, La theologia crucis nel contesto della modernità. Il rapporto tra croce e modernità di E. JÜNGEL, H.U. von Balthasar e G.W.F. Hegel, Glossa, Roma-Milano 1995, p. 91. 249. VC, p. 126. 250. Gloria, VII, p. 19. 251. Ibidem, p. 20. 252. Ibidem, p. 20. 253. Ibidem, p. 21. 254. Ibidem, p. 27. 255. Ibidem, p. 28. 256. Ibidem, pp. 28-29. 257. "L'amore trinitario è la grande verità attestata dal Nuovo Testamento. Esso è la "gloria divina", lo "splendore" (Glantz) che si irradia dalla forza dirompente, dal peso (Wucht) dell'obbedienza della croce. Ora, in che senso il Crocifisso è manifestazione trinitaria dell'amore di Dio? Con introspezione acuta Balthasar legge la croce come azione del Dio trinitario, come suo impegno irreversibile. Dio Padre è l'agente originario: "Tutte le cose (hanno origine) da Dio che ci ha riconciliato a sé mediante Cristo e ha dato a noi (apostoli) il ministero della riconciliazione; perché Dio in Cristo si è riconciliato il mondo" (2 Cor 5,18s.). e lo Spirito Santo, che è "lo Spirito di Cristo", "Cristo in noi" (Rm 8,9-10), è il segno (das Zeichen) che quest'opera di riconciliazione ha conseguito il suo compimento", in G. MARCHESI, La cristologia trinitaria, p. 544. 258. Cfr., M. JÖHRI, Descensus Dei, p. 337. 259. Gloria, VII, p. 196. 260. "Nell'immagine della piena kenosi c'è il "risplendere della gloria di Dio sul volto di Gesù Cristo" (2 Cor 4,6). Quest'immagine dell'Uomo-Dio, trafitto ed innalzato sulla croce, deriso ed esaltato, costituisce per il credente "la definitiva icona di meditazione", "l'ultima raffigurazione ed esposizione del Dio che nessuno ha mai visto". L'immagine visiva dell'Ecce Homo-Ecce Deus diventa quindi anche una formula suprema di fede: è la

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confessione esplicita della realtà dell'incarnazione e della redenzione; ed è il riconoscimento senza veli di ciò che Dio ha voluto essere e di come si è voluto manifestare nel velamento della morte del Figlio", in G. MARCHESI, La cristologia trinitaria, p. 545. 261. "L'impresa, cha fa ruotare il destino e la fatalità, si produce nel silenzio molto fitto della morte [...] tutte le tracce lasciate sulla terra dal Verbo vivente di Dio sono come cancellate; l'anima che ritorna dall'assenza di tracce, il corpo che risuscita dal sepolcro sigillato, non sono più Cristo secondo la carne, sono una nuova creatura. Le cose vecchie sono passate. Vedete, tutte le cose sono nuove", Gloria, V, 217. 262. Gloria, III, p. 582. 263. Ibidem, p. 583. La kenosi, secondo Balthasar, si proroga e si perpetua nella Gloria poiché la croce è manifestazione estrema e definitiva dell'Amore indefettibile di Dio. inoltre l'esistenza kenotica di Gesù prosegue nella vita nascosta della Chiesa, con la scuola del cristianesimo, con l'imitazione dei Santi, cammino di umiliazione e di nudità, e soprattutto con i sacramenti e la Scrittura: i sacramenti nei quali risiede Gesù sono lo spessore del velo, in particolare l'Eucaristia, abbandonata allo spreco e alla profanazione - la Scrittura nella quale egli asservisce alla parola umana e al chiacchiericcio esegetico. Ecclesia forma servi. Cfr. Ibidem, p. 100. 264. Gloria, VII, p. 345. 265. L'Apostolo delle Genti, descrivendo la radicale trasformazione operata dalla fede, che comporta il passaggio dalle tenebre alla luce, afferma: "Se un tempo eravate tenebra ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare. Tutte queste cose che vengono apertamente condannate sono rivelate dalla luce, perché tutto quello che si manifesta è luce", Lettera agli Efesini. 5,8-13. 266. AC, p. 143. 267. Gloria, I, p. 125. 268. Ibidem, p. 435. 269. Gloria, V. p. 583.