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STAGIONE TEATRALE

STAGIONE TEATRALE - Teatro Ermete Novelli · 2017. 11. 21. · Carmen nel racconto prevede il suo destino da certi segni della natura: la lepre che corre tra le zampe del cavallo

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STAGIONE TEATRALE 2017 | 2018Programma di spettacoli in abbonamento per le scuole

“Se la gente non va a teatro non è perché il teatro è in crisi, ma perché è in crisi la gente.” (P. Caruso)

“Un popolo che non aiuta e non potenzia il teatro è, se non morto, moribondo.”(F. Garcia Lorca)

Siamo felici di continuare ancora con questa iniziativa in cui abbiamo cre-duto dagli anni 2007-2008. Il teatro regala sempre emozioni! Senza il filtro dello schermo, coinvolge gli spettatori in modo immediato e diretto, facendoci vivere le vicende che vengono rappresentate sul palcoscenico. È un momento di evasione in cui ci si diverte e si ride delle debolezze umane, ma anche un’occasione per riflettere sui grandi temi della vita come i sentimenti, la famiglia, l’onestà, la giustizia, la libertà.Questi gli obiettivi in base ai quali sono stati scelti i sei spettacoli che rien-trano nel progetto Scuola-Teatro, spettacoli attraverso i quali presentare ai giovani le varie forme e i molteplici volti e linguaggi di quel mondo magico che è il mondo dal teatro, dove fantasia e realtà si incontrano e si intreccia-no, come nella vita.

Si alternano sul palcoscenico del Teatro Novelli testi che sono espressione della tradizione teatrale (Questi fantasmi e Le relazioni pericolose), testi mo-derni (Bull), musica e danza (Carmen), comicità e tragedia (Un borghese pic-colo piccolo) e thriller scientifico-politico (Copenaghen) che ci fanno entrare in contatto con storie e culture diverse e ci aiutano a capire le eterne e uni-versali dinamiche che caratterizzano quel “groviglio” che è l’animo umano.Si parla infatti di amore e di amori, di passioni, di tradimenti, di violenze, di bullismo, di bisogno di affermazione, di diversità e anche di scienza e di politica, tutte problematiche che ci riguardano, che ci toccano da vicino e che ci spingono a riflettere sul mistero del vivere.

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SOMMARIO

Carmen K p. 4

Le relazioni pericolose p. 9

Un borghese piccolo piccolo p. 14

Copenaghen p. 19

Questi fantasmi p. 22

Bull p. 28

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TURNO D-ALTRI PERCORSITeatro Ermete Novelli

venerdì 24 novembre, ore 21.00Compagnia Artemis DanzaCARMEN K Testo di Prosper Mériméeideazione e coreografie di Monica Casadeimusiche di Bizet remix by Godblesscomputers Go Dugong Spinelli Sartana & Luca VianiniCarmen Suite Rodion Ščedrincreazione e interpretazione Compagnia Artemis Danza

“Col lavoro ci si libera dalla frustrazione della pigrizia, dal colpo di spada con l’Amore per il prossimo.” (P. Mérimée) Breve ritratto di Prosper MériméeNato a Parigi nel 1803 muore a Cannes nel 1870.Scrittore, storico e archeologo si appassiona sin dall’infanzia, per influenza del padre pittore, delle arti figurative, ma successivamente la madre gli fa scoprire la letteratura, soprattutto inglese e lo scozzese Walter Scott, e decide di dedicarsi alla carriera lette-raria. Intanto vive da bohémien e colleziona donne affascinate dalla sua aria ombrosa. L’amico Stendhal dice di lui: «Costui aveva qualcosa di stonato e molto sgradevole. I suoi occhi piccoli e vacui avevano sempre la solita espressione di “cattiveria.”» Nel 1844 è nominato membro dell’Académie Françoise, in quello che egli definisce «il gior-no più brutto della mia vita»; nel 1853, protetto da Napoleone III e dalla moglie diviene senatore, nel 1866 Grande Ufficiale della Legion d’onore.Grazie ai numerosissimi viaggi entra in contatto con varie culture e apprende molte lin-gue. Amico di Turgenev, è uno dei primi traduttori di romanzi russi in francese. Autore di una produzione letteraria prolifica ed eclettica, scrive romanzi, racconti, poesie, appunti di viaggio, saggi storici. Le sue opere sono ricche di mistero e sono ambientate fuori dalla Francia, in Spagna, in Russia. Carmen, del 1845, è la sua più celebre novella.

Breve ritratto di Georges Bizet“Il cielo aperto, la vita errante, per paese l’universo e per legge la tua volontà e soprat-tutto una cosa inebriante: la libertà!” (G. Bizet)

Nato a Parigi nel 1838 muore a Bougival nel 1875, per cause misteriose, alla trentaseie-sima replica della Carmen all’Opera Comique di Parigi.Fin dall’infanzia rivela spiccate tendenze musicali: la madre è una valente pianista, il padre, insegnante di canto, è il suo primo maestro. I rapidi progressi in campo musicale gli permettono di essere accolto al Conservatorio senza aver raggiunto l’età consentita dai regolamenti. Superati gli esami finali con esiti brillanti si applica allo studio del pia-noforte e delle composizioni. A 19 anni vince il premio di Roma. Carmen, l’opera della piena maturità, alla quale lavora dal 1873 al 1875 è la sua produzione più importante.

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Inizialmente non è un successo per il contenuto giudicato troppo immorale, ma la sua morte improvvisa ed imprevista, in circostanze non chiare, contribuirà a creare la leg-gendaria fortuna dell’opera e del suo compositore.

NOTIZIE SUL TESTO

Carmen, novella di Prosper Mérimée, è pubblicata nel 1845 sulla Revue des Deux Mon-des senza le pagine finali che appariranno come IV capitolo solo nel volume edito nel 1847 con questa epigrafe: «Ogni donna è folle. Non concede che due ore di letizia: una sul letto nuziale, una sul letto di morte.» La vicenda è ambientata nella Spagna dei gitani, dei toreri, delle passioni turbolente, dei paesaggi selvaggi e incontaminati.Nel suo racconto Mérimée unisce tragedia e romanzo picaresco per rappresentare i danni di una passione amorosa spinta all’eccesso tanto da far rinunciare ad un uomo i propri valori e condurlo alla perdizione. Il racconto, diviso in quattro parti, è narrato in prima persona come se si trattasse di un fatto realmente accaduto durante un viaggio in Spagna in cui il narratore incontra casualmente un famoso bandito, José Navarro, e ne diventa amico tanto da aiutarlo a sfuggire alla Legge. La parte prima e seconda deli-neano i due protagonisti della vicenda don José e Carmen, una zingara senza scrupoli, affascinante, dalla bellezza “strana e selvaggia”, dagli occhi “voluttuosi e crudeli, occhi di gatto, occhi di lupo.” Così la descrive l’autore-narratore: «Dubito che la signorina Carmen fosse di razza pura; se non altro era infinitamente più graziosa di tutte le donne del suo popolo che mi sia capitato di incontrare. Perché una donna sia bella - dicono gli Spagnoli - deve soddisfare trenta se, o, se si vuole, la si deve poter definire con dieci aggettivi adatti, ognuna a tre parti della sua persona. Deve avere ad esempio tre cose nere: gli occhi, le palpebre, le sopracciglia, tre cose sottili: le dita, le labbra, i capelli... ». La parte terza contiene la narrazione della storia. José, originario della Navarra, per aver ucciso un uomo in una rissa, è costretto a fug-gire e a cambiare nome. Arrivato a Siviglia dove intraprende la carriera militare, incontra Carmen che lavora come sigaraia in una fabbrica di tabacco. All’inizio indifferente, si lascia coinvolgere dalla sfrontatezza della ragazza, e «com’è abitudine delle donne e dei gatti, che non vengono quando li si chiama e che invece si avvicinano quando non li si vuole, si fermò davanti a me e mi rivolse la parola.» Come “un pezzo di legno” ne subi-sce il fascino e, invece di condurla in carcere, perché coinvolta in una baruffa all’interno della fabbrica, la lascia fuggire.Inizia tra i due una relazione complicata, fatta di tradimenti (con il picador Lucas), di fughe, di ritorni da parte di Carmen, di rischi e di sempre maggior coinvolgimento amo-roso da parte di don José che è costretto a lasciare la sua divisa: «una bella ragazza vi fa perdere la testa, ci si batte per lei, capita una disgrazia si è costretti a vivere alla macchia e da contrabbandieri, si diventa ladri prima di avere riflettuto.» Tra passione, inganni, gelosie, uccisioni, i due protagonisti si scambiano accuse e dichiarazioni d’a-more, sospesi tra desiderio di libertà (di Carmen) e aspirazione al riscatto (José): «Potrei raccontarti ancora delle bugie, ma non ne vale la pena. Tra noi è tutto finito... Carmen sarà sempre libera! ... Vivere con te non voglio»; «Sei tu che mi hai portato alla rovina; è per colpa tua che sono diventato un ladro e un assassino. Carmen! Mia Carmen! Lascia che ti salvi e che mi salvi con te!» fino alla drammatica conclusione.Nella quarta parte l’autore scrive una breve relazione sulle caratteristiche fisiche, sui

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costumi e sulla lingua degli zingari.Il racconto di Mérimée diviene famoso dopo che è trascritto in libretto per l’opera omo-nima musicata da Bizet. Il melodramma, rappresentato a Parigi nel 1875 è ancor oggi considerato una delle migliori espressioni di teatro musicale francese dell’800.La Carmen di Bizet si articola intorno alla III parte del racconto e si concentra sul rap-porto tra Carmen e José eliminando alcuni dettagli e i personaggi secondari. Per esi-genze musicali e teatrali vengono inseriti nuovi personaggi: Frasquita e Mercedes, le zingare amiche della protagonista.Acquisisce spessore il torero, un amante di Carmen che nell’opera si chiama Escamillo (e non Lucas), un vero e proprio matador, “terzo vertice del triangolo amoroso”, “ber-saglio della gelosia di don José.” Carmen nel racconto prevede il suo destino da certi segni della natura: la lepre che corre tra le zampe del cavallo di José, mentre nell’opera la percepisce leggendo le carte. L’opera, inoltre, addolcisce l’abbrutimento morale del matador che nel racconto appare come un eroe byroniano, cupo e scuro. Bizet, co-munque, non vuole che la caratterizzazione dei personaggi snaturi la novella: cerca, infatti, di penetrarne lo spirito e trasmetterlo nella sua opera riproducendo le immagini della Spagna di Mérimée. La musica è ricca di colore nei motivi picareschi, nelle danze popolari, nelle canzoni piene d’impeto e di ardore, nel contrasto tra i festosi motivi zin-gareschi e l’incalzare drammatico dell’azione.

LO SPETTACOLO

In prima nazionale al Teatro Comunale di Bologna nell’aprile del 2017, Carmen K la nuo-va creazione di Monica Casadei per Artemis Danza, approda al Novelli per la stagione teatrale 2017-2018.Il segreto, l’originalità della rappresentazione è tutta in quella K, chimera, “segno di una donna rivoluzionaria, politicamente scorretta”, icona contemporanea di libertà, forza, coraggio che è anche il coraggio di pagare di persona la libertà di amare e di esistere andando incontro alla morte. A dare un senso allo spettacolo non è il triangolo amoro-so (Carmen, Don José, Escamillo), non l’ambientazione, ma “l’essenza chimerica” che le luci, i suoni, i colori e le emozioni, in una contaminazione ingegnosa di linguaggi, compongono e suggeriscono. Lo spettacolo è diviso in due parti; la prima è articolata secondo 5 mini atti musicati da quattro dj che dal vivo, ognuno con il proprio stile, remixano alcune arie della partitura di Bizet, e dalle musiche originali del compositore Luca Vianini frutto anch’esse delle suggestioni legate alla figura di Carmen e alla par-titura operistica. Cinque quadri di 5 minuti dietro i quali intervengono proiezioni cine-matografiche di fiori dai colori acidi, di disegni di cuori pulsanti; cuori di ceramica sono tenuti da un gruppo di danzatori che avanza e indietreggia secondo il ritmo cardiaco. I contributi video sono della fotografa Fabian Albertini, da anni collaboratrice della com-pagnia, dello scultore Brunivo Buttarelli, dei ceramisti Elisabetta Bovina e Carlo Pastore di Studio Elica, affiancati dal video-maker Fabio Fiandrini. In questa prima parte si entra nell’intimità di Carmen e si coglie la sua intensa fisicità: Carmen è in pelliccia verde, seduta in proscenio con l’addome in luce che si muove seguendo il ritmo della musica, accompagnata da altre danzatrici che si alternano sulla scena a rappresentare la Donna nei suoi molteplici aspetti: seducente e sedotta, regina e serva, aggressiva e devastatri-ce. Dietro, a turno, danzano gli uomini che Carmen calamita alla sua poltrona, uomini/

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burattini che presto sedurrà, userà, amerà e tradirà.Nella scena successiva Carmen è “immersa” in un biancore di teli sospesi con il “ma-schio” che la ricopre di rose da tenere in equilibrio “sulle braccia e sulla testa”, rose rosse (il colore della passione) che tutti “indossano.” E’ un crescendo coinvolgente ed emozionante.La seconda parte è strutturata intorno alla Carmen suite, che il compositore Rodion Scedrin trasse dall’opera di Bizet rendendola più moderna, eseguita dall’orchestra del Teatro comunale di Bologna diretta da Tonino Battista (e questo è sicuramente un va-lore aggiunto). Qui, nel cerchio di un’arena rosso sangue, i ruoli si moltiplicano e tutti i 18 interpreti diventano altrettante Carmen e altrettanti José. I 57 minuti di esecuzione musicale danno il ritmo ad una danza “poderosa, ardente e selvaggia”. Uomini e don-ne nudi, o quasi, con stralci di pelle nera e gigantesche rose di raso rosso invadono il palcoscenico in un susseguirsi di variazioni energiche e sensuali: salti, grovigli di mani e di corpi, baci prolungati, intorno alla “tela” dei tre protagonisti. Grazie al supporto illumino-tecnico e scenografico, sul rosso di amplessi fortuiti viene spennellato il verde di una gelosia primordiale. Arroganza, prepotenza, machismo, capaci di immobilizzare la voluttuosa Carmen, sem-brano confermare la predominanza virile. Ma è solo un’illusione! La furia dell’innamorato tradito si blocca e, a testa bassa, di fronte alla sua Signora si lascia ipnotizzare da un banalissimo sventagliare delle dita, “esca irresistibile anche per gli altri compagni.”La scena iniziale: Carmen con un braccio sui fianchi e l’altro allungato e con le dita della mano che ruotando fanno avanzare e inginocchiare uno alla volta tutti gli uomini che, come penitenti sembrano chiedere perdono per la malvagità usata nei suoi confronti, chiude anche lo spettacolo a dimostrazione che, nonostante il ravvedimento la Storia si ripeterà.

Perché vederlo?- per immergersi in “una storia, mille storie uguali a loro stesse che si ripetono nei se-coli.” (M. Casadei);- per godere di uno spettacolo che è colore, calore, passione, musica e danza;- per riflettere su un tema universale come la libertà.

SPUNTI DI RIFLESSIONE

A che scopo Monica Casadei ha utilizzato il capolavoro di G. Bizet scomponendolo nelle sue arie più celebri e riducendo all’osso la drammaturgia passionale che contrad-distingue la pièce nella storia dell’opera e del balletto? Probabilmente per utilizzare una chiave di lettura al passo con i tempi dimostrando come la vicenda gitana oltrepassi le barriere temporali ed acquisisca una dimensione universale e attuale. Chi è Carmen? Un personaggio complesso: civettuola, seducente nella voluttuosa habanera del I atto (“l’amour est un oiseau rebelle”), funerea nell’aria “delle carte”, fatale e spavalda come un’eroina della tragedia classica nell’epilogo finale. Una donna indomita, simbolo di quello che sta al di là di ogni regola e di ogni legge, trasgressiva e forte, incarnazione di quel senso di libertà cui tutti aspirano, talvolta anche «con l’aggressività istintiva espressa da quella dura K politica che porta accanto al titolo.» (V. Bonelli)Carmen, natura selvaggia e istintiva è anche traditrice, seduce gli uomini, li usa, li tra-

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disce e questo rappresenta un suo limite: la rinuncia al principio di reciprocità che è il principio per eccellenza dei rapporti umani, l’incapacità di donarsi a chi si ama, che è un aspetto importante dell’amore (anche se risponde sicuramente a convenzioni bor-ghesi) e che non significa inevitabilmente rinunciare ad essere se stessi. Carmen ama e spesso non ama, libera di fronte all’uomo che forse la ama e comunque la desidera e che lei non ama o ama non più di un giorno o di una notte. Affiora continuamente la compromissione tra delitto ed etica: sia don José che Carmen invocano un sistema alto di valori appellandosi all’amore e alla libertà. Entrambi vogliono “vincere”: José vuole vincere Carmen, ma non ucciderla. L’uccide perché non è riuscito “ad essere desidera-to.” L’assassinio è l’esito estremo dello scacco di fronte all’amata-antagonista che non vuole ricambiare amore con amore. Carmen, a sua volta, non vuole limiti o costrizioni ad essere se stessa: vuole invece decidere chi amare e chi no: “quando mi si proibisce di fare una cosa, è il momento che la faccio.” Lo conferma il riferimento agli occhi del gatto e del lupo, animali selvatici e indomiti, fieri, liberi e fortemente gelosi della propria vita indipendente, anche se il gatto accetta di vivere come l’uomo e limita il proprio spirito libero al momento in cui è predatore istintivo e orgoglioso. Risulta presente, anche se rimane sullo sfondo, il tema della violenza sulle donne spinta fino al femminicidio.La forza di Carmen è nel suo essere non “una”, ma tante; come scrisse Victor Hugo a proposito di Amleto, possiamo dire: “Carmen non siete voi, non sono io, è tutti noi” (S. Schoonejans); è la Donna, simbolo di libertà, libertà di vivere e di scegliere e di affron-tare anche la morte. La scelta di essere liberi, infatti, richiede coraggio; d’altra parte o vince la legge interiore, quella dell’anima, o si è costretti a soggiacere al dominio, al possesso, alla prigionia. Carmen vive il suo essere Donna nel senso più pieno del ter-mine: Donna e Femmina due termini che in passato erano in aperta contrapposizione, oggi possono coesistere nella stessa persona per dar vita ad un individuo indipendente, realizzato, capace di emanciparsi e di essere libero di amare.Il fatto che nel finale dello spettacolo Carmen si rialzi dopo la violenza subita e richiami intorno a sé tutti gli uomini per una violenza simbolica è emblematico del fatto che continua comunque a vivere e che forse le tante Carmen della società di oggi possono non morire più.

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TURNI ABCTeatro Novelli

martedì 5, mercoledì 6, giovedì 7 dicembre ore 21.00Elena Bucci e Marco SgrossoLE RELAZIONI PERICOLOSEdal romanzo omonimo di Choderlos de Laclosprogetto, elaborazione drammaturgica e interpretazione Elena Bucci e Marco Sgrossoe con Gaetano Colellaregia Elena Bucci, con la collaborazione di Marco SgrossoCentro Teatrale Bresciano, collaborazione artistica Le Belle Bandiere

“Il tempo porta sempre la verità. Peccato che non la porti sempre in tempo” (de Laclos)

Breve ritratto di Choderlos de LaclosNato ad Amiens nel 1741, muore a Taranto nel 1803Poiché rifiuta i conforti religiosi viene sepolto nella piazza d’armi interna del Forte de La-clos (che da lui prende il nome) sull’isola di San Paolo nel golfo di Taranto. In seguito al crollo di Napoleone, gli abitanti distruggono la sua tomba e si pensa che le sue spoglie siano state gettate in mare.Personalità poliedrica de Laclos è generale, scrittore, inventore, giacobino, amico del duca d’Orleans, segretario governativo per Danton, governatore sotto Napoleone, “ca-pace di danzare con la storia, con le arti, con tutti i poteri che si sono avvicendati in quel secolo straordinario.” Appassionato d’armi (tenterà di inventare un proiettile cavo - boulet creux- di grande potenza esplosiva), si dedica alla carriera militare, quindi “alla conquista gloriosa” dei salotti della provincia, con scarso successo: “ha troppo l’aria di un géomètre”. La marchesa di Coigny dirà di lui:” viene nolto spesso da me un signore alto, magro, pallido, vestito di nero, non saprei che dirgli se mi trovassi sola con lui... avrei paura!”Laclos ha 40 anni e concepisce allora la scrittura de Les liaisons dangereuses. Chiede un congedo di sei mesi, si chiude a La Rochelle, la cittadella militare sull’Alantico, e scri-ve di getto uno dei capolavori della letteratura del XVIII secolo: “la vetta della letteratura del cardiogramma” (Jean Rousset), il vero boulet creux, una bomba contro il potere, le istituzioni, i valori dominanti.

IL TESTO

Romanzo epistolare polifonico in 175 lettere è pubblicato nel marzo del 1782 in quattro volumi. Viene accolto subito con grande entusiasmo, soprattutto per lo scandalo che suscita e che ne favorisce il successo; il mese dopo, in aprile, esce la seconda edizione. L’autore fa seguire al titolo un sottotitolo: ”Lettere raccolte in una società, pubblicate per istruirne altre”.I critici del tempo lo hanno definito “empio, criminale e blasfemo”, ma è probabile che l’intento morale sia autentico: l’autore sembra voler costruire un quadro della società nobiliare del tempo, del suo cinismo e della sua corruzione per connotarla negativa-mente. Baudelaire che ne ha colto lo spirito lo ha definito “Libro di un moralista elevato tra i più elevati, profondo tra i più profondi”.La vicenda si svolge intorno agli intrighi intessuti da due personaggi chiave: il Visconte

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di Valmont e la Marchesa di Merteuil, “due vampiri allo specchio” che succhiano il san-gue delle loro vittime, ma anche da loro stessi, che tendono fino allo spasimo il gioco della seduzione, la corda delle relazioni fino a spezzarla e a precipitare in un abisso da cui è impossibile risorgere. La Marchesa di Merteuil, una vedova depravata che nasconde la sua malvagia condotta agli occhi della società in cui gode ottima stima e reputazione costruita con estrema cura, intrattiene rapporti di amicizia con il Visconte di Valmont, un suo ex amante, seduttore di professione che, a differenza della Marchesa, ha la fama di persona poco raccomandabile: “non ha fatto un passo, detto una parola senza avere uno scopo e non ha mai avuto uno scopo se non disonesto e criminale.” Per vendicarsi di un vecchio amante, il conte di Gercourt, promesso sposo della gio-vane Cécile Volanges, fanciulla appena uscita di collegio, “adorabile”, “un bottoncino rosa”, spinge Valmont a sedurla. Nel frattempo, però, egli è intento alla conquista di Ma-dame de Tourvel, donna sensibile, virtuosa, dai “rigidi principi” e dalla profonda moralità e riesce a piegarne le resistenze grazie alla sua arte consumata, sfruttando l’innocenza, la bontà e la compassione della “presidentessa” di cui, alla fine, si innamora realmente. Urtato dalle maldicenze di Madame de Volanges (madre di Cécile) nei suoi confronti, Valmont si propone di rovinarne la reputazione attraverso la figlia. Si finge intermediario nell’amore di Cécile per il cavalier Danceny e la seduce, aiutato dalla Marchesa che si insinua come protettrice nel cuore di Cécile e contemporaneamente con le sue grazie attrae a sé Danceny. In questo perfido gioco di intrighi, la Marchesa che aspira che “tut-to fili con ordine” (il suo!) e che regge le fila di tutte le vicende, esige che Valmont rom-pa il rapporto con la presidentessa de Tourvel, rivela a Danceny la relazione di Cécile con Valmont e ciò provoca il precipitare degli eventi. Valmont muore in duello contro Danceny, la Marchesa, di cui è ormai riconosciuta la vera natura, sfigurata dal vaiolo, si emargina dalla società, Madame de Tourvel, offesa e tormentata dai rimorsi, si ammala e muore, Cécile si ritira in convento.Dei due personaggi-chiave dell’intera vicenda che gestiscono con raffinatezza la loro paziente tessitura è la Marchesa la vera artefice; per la sua autorealizzazione, guida a distanza Valmont a volte in modo subdolo e lusinghiero, a volte esplicito e duro. Nella trappola cadono personaggi non corrotti: la presidentessa de Tourvel, unico personag-gio borghese della vicenda, Danceny e Cécile, giovani ingenui e fiduciosi, pedine di un gioco al massacro che diviene via via sempre più pericoloso e spietato, vittime innocen-ti di due “carnefici” destinati loro stessi alla sconfitta, in anticipo su quella débâcle che quell’aristocrazia colta e annoiata avrebbe subito poco dopo (1789).

De Laclos, nella falsa avvertenza dello scrittore, afferma: «pensiamo sia nostro dovere avvertire il pubblico che non garantiamo l’autenticità della raccolta di queste lettere e abbiamo anzi forti motivi per credere che si tratti di un romanzo perché i suoi perso-naggi sono così corrotti che è impossibile supporre che siano vissuti nel nostro secolo di filosofia, dove i lumi hanno reso tutti gli uomini probi e tutte le donne modeste e riservate. Il nostro parere è, quindi, che le vicende narrate non siano potute accadere che in altri tempi.» Non importa certo stabilire se le lettere siano vere o meno: quante volte l’arte ci stupisce raccontando cose non reali anche se sono più vere del vero? E neanche sapere se le vicende siano da inserirsi nella II metà del ‘700. Quello che è importante è che queste 175 lettere costituiscono un dialogo “stringato e continuo di presenze simultanee”. Ogni lettera è indirizzata a un destinatario e composta secondo il suo carattere e la specifica situazione tanto che egli risulta presente nella lettera che sta

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per ricevere come in quella che scriverà. La Marchesa lo fa presente a Cécile: «quando scrivete a qualcuno è per lui, non per voi: cercate di dirgli meno di quello che pensate e più quello che a lui può fare piacere» (lettera CV).I personaggi più spregiudicati non dicono mai una parola che non sia calcolata, sono sempre mascherati, sempre attori: la Marchesa cambia maschera sotto i nostri occhi a seconda che scriva a Valmont o a Cécile, o a Madame de Volanges... Quando scrive a Cécile o a Madame de Tourvel non rivela mai ciò che pensa, ma ciò che produrrà l’effetto voluto per far progredire l’impresa di seduzione: «il mio pensiero è solo mio e mi indigno che si possa carpirmelo contro la mia volontà» (lettera LXXXI). Invece Cécile, Danceny e Madame de Tourvel sono incapaci di dissimulare «non so dissimulare né combattere le impressioni che provo». Le lettere non si possono leggere isolatamente: si innestano, infatti, e si sostengono le une con le altre formando una trama di fili sottili disposti secondo una successione e un ordine non mai casuale, tanto da costituire una perfetta scacchiera: una lettera di o per Mme de Tourvel fa seguito ad una lettera di o per la Marchesa. Ne risulta una moltepli-cità di relazioni: a quelle iniziali tra Valmont e la Marchesa, Cécile e Sophie, l’amica di collegio, si aggiungono nuove combinazioni: Cécile e Danceny, Mme de Tourvel e Val-mont, la Marchesa e Danceny... I due protagonisti, grazie alla loro ingegnosità, leggono anche le lettere non a loro destinate: la Marchesa riceve le minute delle lettere alla de Tourvel e le risposte, Valmont intercetta la corrispondenza che va da Mme de Tourvel a Mme de Volanges... e ciò permette loro di prevedere e ordinare tutto. Ma questo ingranaggio perfetto si spezza, “gli specchi si rompono” e non esistono più carnefici e vittime, vincitori e vinti, ma solo vinti.Dall’opera emerge il quadro realistico di una società moralmente dissoluta e di una aristocrazia cinica, alla ricerca del “piacere eterno”, del potere, protesa a soddisfare il proprio capriccio e ad anestetizzare la noia di una vita insignificante e indifferente al vento di cambiamento che già aleggiava.

Del romanzo esistono due versioni cinematografiche: una del 1959 per la regia di R. Vadim, definita “superficiale, snobistica, di un erotismo patinato da rotocalco”, in cui i personaggi, ricchi e annoiati borghesi, “sono vacui simulacri dei libertini del ‘700” (Il Morandini, 2017), l’altra del 1988 per la regia di Stephen Frears, premiata con 3 Oscar, con un cast di attori come Glenn Close, Michelle Pfeiffer, John Malkovich e Uma Thur-man. Rispetto al romanzo questa versione guadagna in ritmo ed energia, ma perde in ambiguità, sottigliezza, complessità.

LO SPETTACOLO

Le relazioni pericolose per la regia di Elena Bucci e Marco Sgrosso, andato in scena in prima nazionale al Teatro Santa Chiara Mina Mezzadri di Brescia nell’aprile 2017, nella nuova produzione del CTB (centro teatrale bresciano) con la Compagnia La Belle Ban-diere, viene proposto al teatro Novelli nella stagione teatrale 2017-2018.L’intenzione degli autori che hanno sentito “la pericolosa tentazione” di affrontare il ro-manzo epistolare di de Laclos, un testo ambientato nel ‘700 “in un tempo sospeso che ha molta fiducia in sé, in cui la gente vive senza rendersi del cambiamento che è dietro l’angolo” (E. Bucci), è quello di staccarsi dagli altri innumerevoli adattamenti teatrali e

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cinematografici, puntando su una drammaturgia in cui i personaggi escono direttamen-te dalle lettere mantenendo, in questo modo, la naturale teatralità del linguaggio e del contesto settecentesco. Riescono nel loro adattamento ad immergere il pubblico in un’altra epoca, specchio della contemporaneità.Elena Bucci, attrice pluripremiata, vincitrice nel 2016 dei premi Ubu e Duse, risulta im-peccabile nel dare corpo e voce a due personaggi femminili diametralmente opposti come la marchesa di Merteuil e la presidentessa de Tourvel, rendendo perfettamente, nel duplice ruolo, la lucida perversione della prima e la sofferta e tormentata passione della seconda, la maschera demoniaca dell’una e l’anima dell’altra. Marco Sgrosso ca-ratterizza in modo eccellente il ruolo del Visconte di Valmont, uomo perfido, ma anche fragile, spavaldo e arrogante, che non si accorge di essere anche lui una pedina nel-le mani dalla perfida marchesa. Al loro fianco Gaetano Colella nei panni dell’eclettico narratore de Laclos, ma anche voce di personaggi come Cécile, Danceny, Mme de Volanges… I tre attori riescono perfettamente a calarsi nei diversi personaggi, in un frizzante turbinio. Il registro cambia, come nel romanzo, in relazione al narratore: pudico quando scrive Cécile, ingenuo con Danceny, elegante e audace con Valmont, arguto e strafottente con la marchesa.A dare il ritmo dello spettacolo sono le lettere: capitoli di una vicenda romanzesca, pic-coli trattati di perfidia amorosa, siparietti che trasformano gli attori “in automi, schiac-ciati su una scacchiera che non prevede vincitori.” Alcune di esse prendono vita sulla scena, altre “rimbalzano” tra emittente e destinatario: del resto hanno in loro stesse un impianto scenografico che trova nel teatro il suo “humus ideale”. L’impianto scenico semplice, ma suggestivo viene delineato da alcune quinte scorrevoli che si aprono e si chiudono, impreziosito dalle luci di Loredana Ottone che caratterizzano ogni singola sequenza creando quadri di grande effetto; i dialoghi sono accompagnati da musiche di Vivaldi, Chopin, Schubert scelte da Raffaele Bassetti. Bucci e Sgrosso ci consegnano uno spettacolo che è frutto di una raffinata e curata esegesi, ossequiente al testo e nello stesso tempo “sincopato, notturno e moderno”.

Perché vederlo?- per conoscere un romanzo epistolare lucido e amaro, implacabile atto d’accusa con-tro i costumi della nobiltà cortigiana del ‘700;- per ammirare la prova d’attori dei tre protagonisti;- per immergersi in un’epoca lontana, ma nello stesso tempo non molto diversa dalla nostra.

SPUNTI DI RIFLESSIONE

Marco Sgrosso parlando dell’attualità del testo afferma: «il contenuto cambia, ma i meccanismi di queste relazioni pericolose sono gli stessi che utilizziamo oggi quando tentiamo di mettere in relazione il sentimento dell’amore con quello della distruzione, entrambi insiti nella natura umana». E’ sempre valida l’affermazione: “tutto cambia, tutto si ripete!”In effetti siamo lontani secoli dagli anni immediatamente precedenti a quella rivoluzione che “ha cambiato la Storia”, ma non possiamo non notare con stupore e smarrimento come “nella natura dell’uomo” si ritrovino le stesse paure, gli stessi intrighi, le stesse

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trappole, gli stessi slanci, le stesse contraddizioni, le stesse modalità di sentire. Ieri come oggi l’amore è concepito come sentimento autentico, ma anche come dominio, come potere da esercitare nei confronti degli altri, con ogni mezzo e ad ogni costo, fino all’altrui rovina. L’amore totale, vissuto intensamente ed interiormente, pronto al sacri-ficio di Cécile, Danceny e Mme da Tourvel si scontra e soccombe di fronte all’amore come bisogno di affermazione, di possesso di Valmont e della Marchesa che giocano con cinismo a quello che possiamo definire “l’eterno teatrino dell’amore” manovrando i destini altrui e disprezzando chi l’amore lo prova veramente.E’ un amore quello del Visconte e della Marchesa che soggioga e plagia le sue vittime. Sembra vincente, ma fortunatamente, come avviene nel romanzo, talvolta il castello di inganni crolla e travolge tutti, chi domina e chi è dominato. Tante sono oggi le drammatiche vicende di inganno, malvagità e perversione che si na-scondono dietro la falsa maschera dell’amore e della protezione; tante, troppe le vittime che soccombono fisicamente e psicologicamente all’azione dei loro “dominatori”. Un elenco che ormai è infinito e le cui vittime di questa esperienza di “non-amore” sono per lo più le donne, di ogni età, di ogni condizione economico-sociale: sorelle, madri, mogli con l’unica colpa di essere donne.Siamo di fronte a quella che non è più solo un problema, ma piuttosto un’emergenza e, di fronte ad un’emergenza, si deve intervenire!Purtroppo si verifica che questa “marea” di donne non è solo vittima di violenza ma-schile, che trova forse la sua motivazione nella perdita di un ruolo di potere, ma anche delle donne contro altre donne. Questo vale anche per la Marchesa, donna perversa e subdola, che nel fare il male paradossalmente, potremmo dire, manifesta l’esigenza di affermazione e difesa nella lotta tra i sessi in cui le donne dovevano (e devono) com-petere con un avversario, il maschio, che aveva (e forse ha ancora) il potere dalla sua parte. Da un certo punto di vista femminista si può considerarla come un’eroina?

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TURNO D-ALTRI PERCORSITeatro Ermete Novelli

domenica 10 dicembre, ore 21.00Massimo DapportoUN BORGHESE PICCOLO PICCOLOdall’omonimo romanzo di Vincenzo Ceramimusiche originali di Nicola Piovanicon Massimo Dapportoregia Fabrizio Coniglioproduzione Teatro e Società

“La nostra speranza è che lo stato e le imprese decidano insieme di investire sulle bel-lezze d’Italia e prendano coscienza che la cultura, il talento, la fantasia sono una risorsa ideale.” (V. Cerami)

Breve ritratto di Vincenzo CeramiNato a Roma nel 1940, muore a Roma nel 2013.Il David di Donatello a lui assegnato nel 2013 viene ritirato a suo nome da R. Benigni e N. Piovani con i quali aveva ricevuto l’Oscar per La vita è bella.Fondamentale nel suo percorso formativo l’incontro con P.P. Pasolini, suo insegnante di lettere alla scuola media. Personalità poliedrica e versatile, Cerami “uno degli intellet-tuali più significativi di questi anni” come l’ha definito W. Veltroni, è stato scrittore “a 360 gradi”, drammaturgo e poeta, regista, scenografo, politico, responsabile nazionale del segretario Veltroni, ministro dei Beni culturali nel governo- ombra del Partito Democra-tico in opposizione al quarto governo Berlusconi nel 2008-2009 e sempre nello stesso anno assessore al cultura del comune di Spoleto; e ancora docente presso l’Università La Sapienza, la Pontificia Università Gregoriana e l’Università Cattolica di Lovanio. Nel 2005 è stato insignito dal presidente Ciampi della Medaglia d’oro ai Benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte. Ha collaborato con registi come Pasolini, Amelio, Moni-celli, Scola e Benigni, ha frequentato intellettuali della letteratura e del cinema: Moravia, Fellini, Totò, Sordi.Cosa hanno detto di lui:R. Benigni. “Mi ha insegnato come si fa a far battere il cuore alla gente”,G. Amelio. “E’ stata la persona che mi ha insegnato a scrivere e soprattutto la persona che mi ha insegnato a leggere, che è la cosa più importante”,Ministro Bray: “Figura straordinaria per la cultura del paese”,D. Benedetti, sindaco di Spoleto: “Ha insegnato la necessità dell’arte e della cultura come bagaglio fondamentale dell’essere umano”.Le testimonianze di tanti personaggi costituiscono una dimostrazione di come la sua vita e la sua attività culturale siano state contrassegnate dalla serietà e dall’impegno.

IL TESTO

Siamo negli anni ‘70, gli anni della ripresa economica, della fiducia nel futuro, ma anche gli anni di piombo e delle Brigate rosse.Il protagonista Giovanni Vivaldi è un modesto impiegato del Ministero, ormai alle soglie

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della pensione, dopo 30 anni di servizio. La sua vita monotona e ripetitiva si divide tra lavoro e famiglia: le sue giornate trascorrono l’una uguale alle altre. Con la moglie Ama-lia condivide grandi aspettative sul futuro del figlio Mario, neo-diplomato ragioniere, un ragazzo non molto brillante, ma pronto ad assecondare le aspirazioni dei genitori, in particolare del padre che vorrebbe “farlo entrare al Ministero per assicuragli un avveni-re”, senza le problematiche, le “malinconie”, le “nostalgie” che avevano caratterizzato la sua vita: “da contadino abruzzese morto di fame era diventato, col tempo, un buro-crate del Ministero”. Mario, riconoscente nei suoi confronti, cerca di fare sua la morale che il padre, espressione della piccola borghesia italiana di quegli anni, ha maturato tra difficoltà, sacrifici e desideri di rivalsa sociale: «Pensa solo a te! In questo mondo non hai il tempo di fare sì con gli occhi e no con il capo... è il tempo che basta al tuo nemico per pugnalarti alla schiena. Non esitare un momento, vai per la tua strada, non voltarti indietro... Io e tua madre siamo contenti così... il nostro unico figlio l’abbiamo fatto diventare ragioniere. Cosa vogliamo di più? Noi ormai siamo vecchi, e quello che vogliamo è morire in pace con la coscienza tranquilla... » Per aiutare il figlio che deve affrontare un concorso, chiede aiuto al suo capufficio, il dottor Spaziani, e su suo consiglio, si iscrive a una Loggia Massonica, “la Loggia di rito scozzese, intitolata all’Eccelso, Glorioso, Venerabile Arturo Toscanini” e riesce ad ottenere in anticipo il testo della prova scritta. Dopo giorni e notti di studio arriva la convocazione per lo scritto da affrontare nel Palazzo degli Esami in Trastevere, davanti al Ministero della Pubblica istruzione. Ma il giorno della prova Mario rimane ucciso da “alcuni colpi di arma da fuoco” nel corso di una rapina al Monte di Pietà. L’evento tragi-co e le sofferenze che ne conseguono stravolgono la vita, le convinzioni e la morale di Giovanni. Amalia è colpita “circa un mese dopo la morte del figlio” da una trombosi e da quel momento sta “seduta sulla sedia di vimini senza più ragione né sentimento, in pe-nombra, nel corridoio perché la luce le faceva male” e Giovanni annientato dal dolore e dall’odio, “stordito nell’animo e nel corpo”, si lascia andare, “lascia andare ogni cosa in malora” e matura l’idea di una vendetta personale nei confronti dell’assassino del figlio.Convocato in questura per il riconoscimento del colpevole, per quanto lo riconosca non dice nulla perché teme possa sfuggire a una giusta condanna. Lo segue con la tenacia di un segugio, riesce a farlo prigioniero colpendolo con il cric, lo porta in un suo capan-no in cui si recava spesso a pescare con il figlio e che nei suoi sogni avrebbe dovuto diventare “la sua casa” e con estrema crudeltà lo lega con fil di ferro “ai braccioli e alle gambe della sedia... passando il filo diverse volte e più strettamente possibile” e assi-ste, con freddezza, alla sua agonia.Arriva finalmente per lui il giorno della pensione festeggiato tra l’ipocrisia e l’indiffe-renza dei colleghi, ma non può goderne: il giorno dopo Amalia muore e si ritrova solo, consapevole che “ormai più nessuna disgrazia avrebbe potuto colpirlo”, solo con il suo dolore, e si prepara, con rassegnazione, a vivere la propria vecchiaia solitaria.

LO SPETTACOLO

Il romanzo di Vincenzo Cerami Un borghese piccolo piccolo, 40 anni dopo il film di Mario Monicelli con protagonista uno straordinario Alberto Sordi viene portato per la prima volta sulle scene con l’adattamento e la regia di Fabio Coniglio e l’interpretazione di Massimo Dapporto.Lo spettacolo ha debuttato nel luglio scorso partecipando a tre Festival: Borgio Verezzi,

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La Versiliana, e Teatro e Letteratura di Bardonecchia. Massimo Dapporto nel corso di una conferenza stampa ha espresso con straordinaria chiarezza lo spirito con cui si è accostato al personaggio di Giovanni: “Ho rivisto il film di Monicelli, ma senza alcuna intenzione di imitare Sordi. Non temo il confronto e non lo dico per superbia: i personaggi non sono proprietà di un attore per grande che sia, ma sono abiti che, a film o commedia finiti, l’interprete ripone in un armadio, con l’augurio che qualcun altro, dopo la sua scomparsa, lo indossi in modo degno”. Figlio d’arte, ha ereditato dal padre Carlo la passione per la recitazione e soprattutto la voce bellissima, “di tradizione” come l’ha definita. Nella sua interpretazione egli coglie tutta l’umanità del personaggio, prototipo della persona cosiddetta “normale”, al cui interno si annida, però, il germe del mostro, pronto in determinate circostanze ad esplodere e dà rilievo alla contrapposizione che c’è in Giovanni tra l’uomo che accudisce amorevolmente la moglie ammalata e l’uomo spietato che infierisce sul corpo del ragazzo. Giovanni Vival-di è un uomo dalla doppia personalità, onesto e dedito alla moglie e al figlio, ma anche fragile e meschino, con “note di cattiveria e volgarità”.In scena anche il regista, deus ex machina dello spettacolo. Accanto a loro: Susanna Marcomeni, attrice apprezzata in più occasioni, ci dà, nel ruolo di Amalia, un’interpreta-zione “misurata” e perfetta della moglie caratterizzata da un gran senso di abnegazione, inizialmente delusa e dubbiosa, alla fine distrutta; Matteo Francomanno ci regala una ri-lettura commovente e carica di tenerezza dell’ingenuo figlio; Roberto D’Alessandro nel-la parte del capufficio ne accentua i difetti, la parlata strascicata, il grattarsi, il continuo mangiucchiare; Federico Rubino, lo sparatore, non dice una battuta; la sua presenza sul palco è solo fisica, corporea, fatta di movimenti circospetti, di sguardi, di urla. E’ un cast affiatato, “un bel gruppo di attori che sembrano ragazzi in vacanza”. Grande l’interesse per le musiche, composte appositamente da Nicola Piovani, grande amico di Cerami, che in modo discreto, ma toccante accompagnano ogni momento della storia. Le luci di Valerio Peroni contribuiscono a dare alle scene effetti di grande suggestione attraverso giochi di luce-ombra come nel corso del monologo “cimiteriale” quando Giovanni con il mazzo di fiori bianchi in mano viene “trafitto” dal raggio di luce di un faro bianco. I costumi di Sandra Cardini risultano perfetti per la rappresentazione del contesto tem-porale piccolo-borghese in cui si svolge la vicenda.Lo spettacolo attraversa tutti i versanti della drammaturgia, dal comico al tragico; dalla sottile comicità iniziale e dai quadretti macchiettistici all’interno dell’ambiente familiare e tra le mura dell’ufficio, si passa alla seconda in cui il motivo centrale è, insieme alla violenza, la terribile vendetta, momenti che evidenziano il cambiamento etico e morale di Giovanni. All’iniziale spaccato di vita piccolo-borghese con le meschinità, le debolez-ze, i problemi, il bisogno di affermazione e di rivalsa sociale segue la fase drammatica in cui a Giovanni non interessa altro che attuare il suo progetto vendicativo.L’adattamento di Coniglio cerca di rispettare tutte le peculiarità del romanzo addirittura con maggior intensità; le scene di Giuseppe Di Pasquale sono essenziali, addirittura spoglie, un po’ cupe, con pochissimi arredi: un frigorifero, un televisore, qualche sedia... Il romanzo di Cerami è diventato il capolavoro cinematografico di Monicelli... e ora uno spettacolo commovente e coinvolgente, in cui si ride, si piange... e su cui si deve riflettere.

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Perché vederlo?- per riflettere sulle complesse sfaccettature dell’animo umano;- per apprezzare la straordinaria prestazione dei cinque attori sul palco;- per ammirare uno spettacolo che tocca le corde più intime attraverso il passaggio dai momenti “dolce-amari” della prima parte a quelli più struggenti della seconda.

SPUNTI DI RIFLESSIONE

Perché riprendere un capolavoro del passato e riproporlo nel nostro tempo? Una spinta commerciale o una storia attuale?Perché, nonostante siano passati tanti anni, è un ritratto di agghiacciante attualità.Cosa farebbe un padre cui è stato tolto improvvisamente e violentemente l’unico figlio? Cosa farebbe un marito lasciato solo anche dalla moglie resa invalida da uno choc? L’uomo si può facilmente trasformare in una bestia e la bestia non ragiona, si vendica. Ogni traccia di moralità, di buoni sentimenti, di rimorso sono soffocati dalla bramosia di repressione e violenza. Questo è quello che accade a Giovanni Vivaldi, un uomo piccolo piccolo, un po’ ingenuo, un po’ incredulo, semplice e dimesso, ossequioso e rispettoso dei ruoli e delle regole sociali che, nel momento in cui vede crollare i suoi sogni, non avendo alcuna fiducia nella giustizia sente che “tocca a lui agire”, evitare tutte le ine-vitabili tappe dei meccanismi burocratici. Sicuramente un comportamento scorretto e disumano, al di fuori dalla legge, umanamente comprensibile, ma non assolutamente giustificabile anche se soffre il dolore più grande che un uomo possa sopportare. Quello che sorprende nella metamorfosi di Giovanni è la malvagità con cui agisce contro l’ucci-sore del figlio; non lo uccide solo, ma utilizza una violenza fredda, sottile, razionalmente premeditata che implica perversione, spietatezza d’animo, crudeltà. Che cosa si veri-fica nella mente umana se un uomo che possiamo definire buono, onesto, lavoratore diviene un mostro di malvagità? C’è, forse, e purtroppo, un seme di violenza, celato, represso in ciascuno di noi?Molti eventi quotidiani nella realtà attuale sembrano confermarlo!Notevoli sono i cambiamenti dagli anni ‘70 ad oggi, ma per tanti aspetti possiamo cogliere analogie. Burocrazia, crisi psicologica e sociale, dilagare della violenza sono aspetti caratteristici della nostra società. L’Italia di oggi non è l’Italia degli “anni di piom-bo”, “dell’attacco al cuore dello Stato”, ma la crisi politica e delle istituzioni, la perdita di valori... hanno aperto la strada alla mafia, alla criminalità, al terrorismo… Oggi, come allora “ogni giorno una strage, una faida tragica di famiglia, crollo di dighe, esplosioni di delinquenza, i suicidi più atroci” cui possiamo aggiungere omicidi sempre più violenti, inondazioni, terremoti, ma quello che è grave è venuta meno la fiducia nel futuro, nella politica, nella ripresa economica, nelle banche che allora c’era. Dice Giovanni al figlio:” i tuoi soldi investili, falli crescere... depositali in Banca, compra azioni sicure, buoni del tesoro...” ma oggi a cosa ci aggrappiamo? La sfiducia nelle istituzioni, spesso la loro latitanza, porta il cittadino a sentirsi solo, non protetto, a rispondere all’aggressività con la violenza, nella convinzione che “i criminali non muoiono per mano della legge, ma per mano di altri uomini”.E’, inoltre di sconcertante attualità la ricerca di “scorciatoie”, di raccomandazioni con-cepite non solo come necessarie, ma quasi obbligatorie per sopravvivere. Come osser-va il regista il nostro quotidiano arrampicarsi, tutto italiano, a discapito di tutto e di tutti, della democrazia, dell’onestà, del talento ci toglie quella parte sana e pura che invece

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dovremmo preservare. Purtroppo è una pratica di sempre che si consolida sempre più; tra i giovani si è rafforzata la convinzione che non siamo tutti uguali di fronte alla legge e che non tutti hanno le stesse opportunità di emancipazione sociale ed economica. Di qui l’esigenza di chiedere l’aiutino per lavorare, per essere promossi, per superare gli esami all’Università… con conseguenze drammatiche. Non avendo, infatti, per mille ragioni, la possibilità di realizzare se stessi si rifugiano “nell’inedia che li spegne, nell’al-col o nella droga che li anestetizzano, per evitare di assaporare ogni giorno la propria insignificanza sociale” (Galimberti). Il futuro non appare più a loro come una promessa, ma come “uno scenario vuoto” che non sanno come riempire.L’impegno di tutti gli adulti deve essere allora quello di aiutare le nuove generazioni ad imparare l’arte della vita (che comporta anche rinunce, difficoltà e ostacoli da supera-re), ad acquisire quell’autonomia per un migliore rapporto con la realtà, anche la più inospitale.

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TURNI ABCTeatro Novelli

Domenica 28, lunedì 29, martedì 30 gennaio ore 21.00Umberto Orsini, Massimo PopolizioCOPENHAGENdi Michael Frayncon Umberto Orsini, Massimo Popolizioe con Giuliana Lojodiceregia Mauro AvogadroCompagnia Umberto Orsini e Teatro di Roma – Teatro Nazionalein collaborazione con CSS Teatro Stabile di Innovazione

“Se analizzassimo il cervello dell’uomo con tutta la tecnologia moderna a nostra dispo-sizione,ci troveremmo teoricamente sempre davanti allo stesso limite” (Michael Frayn)

“Non è possibile una sola verità o una sintesi efficace delle diverse verità, perché una verità è semplicemente un punto di vista, il punto di vista di chi l’ha enunciata. Tutto è umano, niente è assoluto”. (Albert Einstein)

Breve ritratto di Michael FraynNasce a Mill Hill, Londra, nel 1933. Scrittore e drammaturgo britannico, autore televisi-vo, traduttore, saggista e romanziere, con Copenaghen si è aggiudicato il Prix Molière (1999) e il Tony Award (2000). Con il dramma Copenhagen, scritto nel 1998, ha raggiun-to grande rilievo nella comunità letteraria e scientifica; tratta, infatti vicende realmente accadute intorno al mancato sviluppo della bomba atomica nazista durante gli anni della II guerra mondiale.I protagonisti di questa vicenda sono lo scienziato danese Niels Henrik David Bohr e Werner Karl Heisenberg.

Breve ritratto di Niels Henrik David Bohr“La sua teoria, caro signore, è folle. Ma non è abbastanza folle da essere vera.” (Bohr)

“Grazie all’opera di Einstein, l’orizzonte dell’umanità è stato infinitamente ampliato, e al tempo stesso la nostra immagine del mondo ha raggiunto un’unità e un’armonia mai prima d’ora sognate. Le premesse per tali conquiste erano state create dalle genera-zioni precedenti della comunità scientifica mondiale, e le loro conseguenze saranno rivelate pienamente soltanto alle generazioni future.” (Bohr)

Matematico, teorico della fisica e accademico danese, nasce a Copenaghen nel 1885 e muore a Valby, Copenhagen nel 1962. Premio Nobel per la Fisica nel 1922, con questa motivazione: “Per i suoi servizi nell’indagine sulla struttura degli atomi e della radiazione che emana da essi”, ha dato contributi fondamentali nella comprensione della struttura atomica e nella meccanica quantistica.Di famiglia borghese di origine ebraica, è considerato uno dei padri della bomba ato-

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mica. Grazie al prestigio internazionale maturato con i suoi studi e le sue pubblicazioni, guida l’Istituto Nordic per la Fisica Teorica, più noto poi come Istituto Niels Bohr.Nel ’43, in seguito all’occupazione tedesca della Danimarca, è costretto a causa delle sue origine ebraiche a rifugiarsi negli Stati Uniti, dove inizia a collaborare con il “Progetto Manhattan”, sviluppatosi in un laboratorio di Los Alamos (New Mexico) che ha prodotto la prima bomba atomica. Nel 1950 ritorna in Danimarca a dirigere l’Istituto Nordic dove, cosciente delle applicazioni devastanti che potrebbe avere la ricerca scientifica, si dedi-ca a convincere i colleghi della necessità di utilizzare i risultati della fisica nucleare con finalità utili e benefiche.Heisenberg ha detto di lui: «La sua influenza sull’attuale ricerca teorica e sperimentale è superiore a quella di chiunque altro».

Breve ritratto di Werner Karl Heisenberg“La fisica non è una rappresentazione della realtà, ma del nostro modo di pensare ad essa.” (Heisenberg)

“I concetti scientifici esistenti coprono sempre solo una parte molto limitata della realtà; l’altra parte, che non è ancora stata compresa, è infinita.” (Heisenberg)

“Ogni esperimento distrugge alcune delle conoscenze del sistema ottenuto dagli espe-rimenti precedenti.” (Heisenberg)

Fondatore della meccanica quantistica, nasce a Würzburg (Germania) nel 1901 e muore a Monaco di Baviera nel 1976. Premio Nobel per la fisica nel 1932 con la seguente mo-tivazione: “per la creazione della meccanica quantistica, la cui applicazione, tra le altre cose, ha portato alla scoperta delle forme allotrope dell’idrogeno”.Incontra Bohr per la prima volta a Göttingen nel 1922 e con lui inizia una fruttuosa colla-borazione durata 20 anni. Insieme realizzano la meccanica matriciale, la prima formaliz-zazione della meccanica quantistica. Nel 1927 introduce il principio di indeterminazione che confuta l’infallibilità della predizione degli stati di un sistema fisico e insieme a Bohr formula l’interpretazione di Copenhagen della meccanica quantistica. Durante la secon-da guerra mondiale lavora èer il regime nazista e guida il programma nucleare militare. Nel ’41, dopo l’incontro di Copenhagen, termina bruscamente l’amicizia con Bohr. “Un Nobel, una vita colma di successi scientifici, eventi avventurosi e qualche luce e ombra sul piano morale. Ecco la storia di Heisenberg” (S. Valesini)

FACCIAMO QUALCHE BREVE RIFLESSIONE INSIEME

Lo spettacolo teatrale tratto dal libro omonimo “Copenhagen” di Michael Frayn si sno-da intorno all’incontro avvenuto a Copenhagen nel settembre del 1941 tra Heisenberg, capo del progetto tedesco per la costruzione di un’arma atomica e il suo ex maestro e amico, nel giardino di casa Bohr e alla presenza della moglie di quest’ultimo, Margrethe, in una Danimarca occupata dai Nazisti. Un velo di mistero Un velo di mistero avvolge ancora oggi la loro conversazione e provoca una serie di interrogativi.Qual è il motivo dell’incontro? Che cosa si dissero nel loro colloquio? Quali i motivi che posero fine alla loro conversazione? E ancora, voleva forse Heisenberg offrire a Bohr,

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in nome della vecchia amicizia, l’appoggio politico della Gestapo in cambio di qualche segreto? O, invece, forse spinto da scrupoli morali, tentava di rallentare il programma tedesco fornendo a Bohr, schieratosi con gli alleati, informazioni utili alla sua ricerca? Tante domande cui non è possibile dare una risposta certa. “Tutto è umano, niente è assoluto.” Gli attori sul palcoscenico, in uno spazio che si può definire metafisico in cui domina il nero e che rappresenta un’aula universitaria ad anfiteatro con lavagne piene di formule scientifiche, ripercorrono eventi accaduti in un lontano passato, quando erano ancora vivi per chiarire forse anche a loro stessi, cosa avvenne in quel lontano 1941.“Nessuno – dice Heisenberg - capisce il senso del mio viaggio a Copenhagen. Tante volte ho cercato di spiegarlo. A Bohr, a sua moglie Margrethe, agli ufficiali dell’intelli-gence, a giornalisti e storici. Ma più ho cercato di spiegare, più l’incertezza si è fatta profonda”. Frayn immagina un incontro a posteriori in una collocazione spazio-temporale indefinita in cui i piani temporali si sovrappongono dando in questo modo una valenza universale alle questioni poste dai due protagonisti a dimostrazione che in ogni tempo, in ogni contesto, è sempre difficile scoprire la verità cui, in maniera ossessiva, tendono inutil-mente i due fisici in un incontro-scontro tra rancori, frustrazioni, giustificazioni e rivalità.Alla base di qualsiasi evento, piccolo o grande, vi è sempre l’uomo con le sue paure, i suoi difetti, le sue invidie, i suoi egoismi.

Perché vederlo?- Per apprezzare “un teatro di una semplicità disarmante e di una intensità

espressiva senza pari”;- per cogliere la complessità di un’opera che riguarda più la filosofia che la scien-

za e assistere all’incontro-scontro post mortem tra due luminari della fisica;- per ammirare un trio di attori di grande spessore che riescono a mettere in

evidenza i personaggi nelle loro molteplici sfaccettature psicologiche;- Per riflettere sui dilemmi etici dei padri della bomba atomica

Per affrontare un dibattito sempre attuale sur rapporto scienza e morale, scienza e po-tere e sulla libertà dello scienziato in un regime dittatoriale.

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TURNI ABCTeatro Novelli

martedì 6, mercoledì 7, giovedì 8 febbraio ore 21.00Gianfelice Imparato, Carolina RosiQUESTI FANTASMI di Eduardo De Filippocon (in ordine di apparizione ) Gianfelice Imparato, Carolina RosiMassimo De Matteo, Paola Fulciniti, Federica Altamura, Andrea Cioffi,Nicola Di Pinto, Viola Forestiero, Giovanni Allocca, Carmen Annibale, Gianni Cannavac-ciuoloregia Marco Tullio GiordanaElledieffe, la Compagnia di Luca De Filippo

“Scrivere una commedia impegnata è facile, il difficile è impegnare il pubblico ad ascol-tarla.”“Non so quando le mia commedie moriranno e non mi interessa, l’importante è che siano nate vive.” (E. De Filippo)

Breve ritratto di EduardoNato a Napoli nel 1900, muore a Roma nel 1984.Figlio d’arte, il teatro è per lui ragione di vita: “avevo sei, sette anni, e passavo giornate e serate a teatro... Una commedia o dalle quinte o da un angolo di platea o con la testa infilata tra le sbarre della ringhiera del loggione, o da un palco, me la vedevo chissà quante volte. Ricordo con chiarezza che perfino gli attori che più ammiravo e che più mi entusiasmavano, come mio padre Eduardo Scarpetta o il Pantelma o la splendida Ma-gnetti, suscitavano in me pensieri critici. «Quando farò l’attore non parlerò così in fretta» pensavo; oppure «qui si dovrebbe abbassare la voce. Prima di quello strillo ci farei una pausa lunga almeno tre fiati» e restavo lì ad ascoltare, dimenticando ogni altra cosa.”Il palcoscenico è il suo mondo, solo lì si sente a casa: «la mia vera casa è il palcosce-nico, là so esattamente come muovermi, cosa fare; nella vita sono uno sfollato.» Fon-damentali i suoi rapporti con i suoi padri-maestri naturali o adottivi: Eduardo Scarpetta che lo introduce nell’arte di tradizione napoletana e Luigi Pirandello che gli apre la via del teatro novecentesco.Negli anni ‘40 costituisce con i fratelli Peppino e Titina il Teatro Umoristico I De Filippo, magnifica famiglia e perfetta compagnia, ma il sodalizio si spezza nel 1944, nel corso di una lite con Peppino (Titina è a casa ammalata), durante le prove al Diana di Napoli e la compagnia I De Filippo diviene Il Teatro di Eduardo, un teatro in cui riveste un ruolo fon-damentale la tradizione, “una valigia di esperienze che serve a partire per raggiungere la libertà, l’autonomia.” Uomo di teatro completo, Eduardo è stato autore, regista e attore tanto che si è parlato di “trinità artistica” e ciò ha favorito una continua conversazione e interazione tra testo drammatico ed evento spettacolare: «cerco di far sì che le mie tre attività teatrali si aiutino a vicenda senza prevalere l’una sull’altra e allora autore, attore e regista collaborano strettamente, animati dalla medesima volontà di dare allo spetta-colo il meglio di se stessi.»Come autore Eduardo ha raccolto in vita le sue commedie (almeno quelle che ha rite-nuto di pubblicare) in due raccolte: La Cantata dei giorni pari e La Cantata dei giorni

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dispari. La I comprende 17 commedie scritte tra il 1920 e il 1942 da Farmacia di turno a Io, l’erede, la II suddivisa in tre volumi, 22 commedie scritte tra il 1945 e il 1973, da Napoli milionaria a Gli esami non finiscono mai. La Commedia Questi fantasmi fa parte della Cantata dei giorni dispari, volume primo.

IL TESTO

Questi fantasmi, commedia in tre atti debutta trionfalmente nel gennaio del 1946 al te-atro Eliseo di Roma con la compagnia Il Teatro di Eduardo con Titina De Filippo, per la regia dello stesso Eduardo. Eduardo racconta che per la sua realizzazione si è ispirato ad un episodio di cui fu protagonista suo padre. La sua famiglia in ristrettezze econo-miche fu costretta a lasciare la propria abitazione da un giorno all’altro. Il padre riuscì a trovare in poco tempo una nuova sistemazione, all’apparenza eccezionale in rapporto all’affitto ridottissimo. Dopo alcuni giorni si chiarì il mistero: «la casa era frequentata da un “monaciello”.»

Pasquale Lojacono, un uomo sui 45 anni, “dallo sguardo irrequieto dell’uomo sconten-to, ma che non si è dato per vinto”, affitta gratuitamente per 5 anni un ampio appar-tamento (18 camere e 68 balconi) in via Tribunali 176 nel cuore di Napoli, all’interno di un sontuoso palazzo del ‘600 con il progetto di adibirlo a pensione in modo da poter avviare un’attività lucrativa. Ma l’appartamento nasconde un mistero: è visitato dai fan-tasmi di due amanti murati vivi nel ‘700 dal marito tradito, un aristocratico spagnolo. Ecco perché è stato affittato gratuitamente.Raffaele, il portiere, spiega a Lojacono le regole attraverso cui rispettare l’accordo con il proprietario: dovrà affacciarsi due volte al giorno a tutti i 68 balconi e magari fischiare e anche cantare, “dovete farvi vedere allegro”, “battere quattro o cinque tappeti” per dimostrare che tutto è normale, che nella casa “regna la vera tranquillità.” A Pasqua-le sembra tutto molto facile ed è pronto a rispettare queste strambe richieste, anche perché è scettico sulla presenza di fantasmi. Inizia però presto a nutrire dei dubbi e a ricredersi; il suo scetticismo crolla ascoltando i discorsi del portiere: «ccà se ttratta de fantàseme, spìrete. Chille nun pazzéano... schiaffi, calci mazzate in testa», della sorella di lui Carmela, del dirimpettaio, il professor Santanna, e soprattutto quando si imbatte in Alfredo, l’amante della moglie, entrato nell’appartamento chiuso in un armadio. Lo sconcerto si trasforma in entusiasmo nel momento in cui alle apparizioni del “fantasma benevolo” segue il ritrovamento di denaro e doni. Migliorano le condizioni economiche della famiglia, ma non il rapporto con la moglie Maria, molto più giovane di lui, logorato dall’abitudine e dalle difficoltà economiche: “nel tempo i rapporti si raffreddano, nasce la sopportazione reciproca, l’insofferenza… persino l’odio.” Maria non capisce come il marito non si chieda da dove arrivi tutto quel denaro: “che razza d’uomo tengo vicino?”, “ma tu che uomo sei?” e stanca della sua connivenza pensa di lasciarlo e di fuggire con Alfredo: “io me ne vado... Io per i fatti miei... e tu con la gente come te.” Anche di fronte all’apparizione di Armida, moglie di Alfredo con tutta la famiglia, Pa-squale rimane in silenzio, anzi è sempre più propenso a credere nei fantasmi. Ma Alfre-do, convinto a ritornare in famiglia, lascia senza più sostegni economici Pasquale che, però, non indaga, non fa nulla. Forse non è così ingenuo come vuol far credere e ricorre ad uno stratagemma per non perdere i vantaggi. Quando Alfredo ritorna nell’apparta-

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mento con il proposito di fuggire con Maria, Pasquale, che aveva solo finto di partire, gli si presenta davanti e implora il suo aiuto, necessario per garantire alla moglie che adora una vita dignitosa. Alfredo si commuove alla triste e accorata confessione: «Maria è ‘a vita mia!... E tu capisci che nun tengo ‘o curaggio ‘e ce ‘o ddìcere… perché il coraggio te lo dà il danaro... e senza danaro, si diventa timidi, paurosi... senza danaro si diventa carogna! La perdo! L’amore, di tanto in tanto, deve, per qualunque donna, trasformarsi in una pietra preziosa, in un oggetto d’oro, in un vestito bello...» La commedia si chiude con Pasquale che prende i biglietti da mille lire lasciati da Alfredo e si reca sul balcone per raccontare tutto al professor Santanna «i fantasmi esistono... Ci ho parlato... Mi ha lasciato una somma di danaro...» lasciandoci incerti se amarlo per la sua ingenuità o disprezzarlo per il suo fingersi credulone perché gli conviene.Eduardo, e qui si riconferma la sua grandezza, non si erge a giudice, non condanna né assolve, ma rappresenta il mondo così com’è e gli uomini con le loro fragilità, le loro debolezze, i loro opportunismi e i loro sogni, non molto diversi da quelli degli uomini di oggi.

Due le versioni cinematografiche della Commedia, una del 1954 curata dallo stesso Eduardo e l’altra del 1967 per la regia di Renato Castellani con Sophia Loren, Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni che, però, nonostante la bravura degli interpreti non riesce a cogliere lo spirito del testo e tanto meno “le sfumature e i semitoni” (Il Morandi-ni). Eduardo De Filippo ha curato anche la messinscena televisiva nel 1956.

LO SPETTACOLO

Carolina Rosi che dirige Elledieffe, la Compagnia di Teatro Luca De Filippo, mette in scena il capolavoro di Eduardo Questi fantasmi per la regia di Marco Tullio Giordana: «un debutto importante per la compagnia, sintesi di un lavoro che avvia percorsi artistici condivisi e che continua nel rigoroso segno di Luca (a circa un anno dalla sua morte), a rappresentare e proteggere l’immenso patrimonio culturale di una delle più antiche famiglie della tradizione teatrale italiana.» E’ a Giordana che Carolina Rosi si è affidata «sicura che ne avrebbe esaltato i valori e i contenuti, che avrebbe abbracciato la com-pagnia e diretto la messinscena con lo stesso amore con cui cura ogni fotogramma.» Lo spettacolo, in prima nazionale alla Pergola di Firenze, nell’ottobre del 2016, nasce, infatti, dal sodalizio tra la compagnia e il regista, milanese, ma «dotato di tanta arte, intelligenza, curiosità, cultura e amore verso Napoli, oggetto della rappresentazione, da rimanere fedele allo spirito del testo.» Spettacolo vivo questa commedia dell’esistenza, con le sue miserie, gioie e illusioni vissute alla maniera napoletana con “un po’ di fatali-smo, un po’ di passionalità, una buona dose di ironia.”Il registro linguistico che in larga parte è giocato sul napoletano, contribuisce alla schiet-tezza delle scene, coadiuvato dalla scenografia che riproduce un tipico interno napo-letano della metà del ‘900, ancora legato al gusto ottocentesco della tradizione. Una corda che unisce le due baracche dell’ultimo ordine, dalla quale pendono abiti stesi ad asciugare trasmette tutto il colore popolare dei Quartieri spagnoli. Nonostante questi elementi non è, come afferma il regista, una scena realistica. Le quinte, le pareti, i mo-bili, il pavimento sembrano “dilavati dal tempo”, coperti da una polvere impalpabile, ad evocare nel loro grigio sporco, quasi emergessero dalla memoria, immagini labili e

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imprecise, come i fantasmi del titolo.Le luci, come la scenografia di Gianni Carluccio insieme ai suoni di Andrea Farri sono proiezioni dello stato d’animo di Pasquale e si stemperano nell’interno domestico e nelle rifiniture di un ambiente originariamente aristocratico. I costumi, disegnati da Fran-cesca Sartori richiamano gli anni ‘40, ma sono completamente re-interpretati e quasi stilizzati, soprattutto nella scelta dei tessuti.Straordinaria la prova di bravura di tutti gli attori; i personaggi risultano, infatti, “esatta-mente definiti tanto da acquistare ciascuno un peso specifico determinante e funzio-nale.” (E. Fiore)Gianfelice Imparato, nel dare volto e voce a Pasquale Lojacono si conferma uno dei mi-gliori attori in circolazione, dando “una personalissima profondità umana al personag-gio, capace nel finale di commuovere.” (A. Calvini). Il suo Pasquale è intenso, elegante e signorile nelle sue ristrettezze, scettico e a suo modo epicureo (come emerge dal racconto del rito del caffè), un po’ stile Luciano De Crescenzo. Eduardo definisce il suo personaggio: “un’anima in pena”, “un uomo scontento, ma non vinto e bisogna vederlo alle prese con se stesso, con le sue paure, i risentimenti, le speranze e soprattutto con il senso di fallimento dal quale tenta disperatamente di uscire.” “Godibile” e irresistibi-le Nicola Di Pinto che nel ruolo del portiere, sgrammaticato e mariuolo, dà vita ad un Raffaele a metà tra l’amico di famiglia e il grande anfitrione, sempre pronto a mettersi al servizio di tutti e a raccontare la strana storia dei fantasmi. Furbo e soprattutto ladro, “un’anima nera” è anche misogino come emerge quando parla della sorella “scema”, “un po’ cretina”, perché “le donne sono cretine.” Dai dialoghi concitati tra Lui e Lojaco-no si può cogliere il fatalismo “appena doloroso” con cui a Napoli si affronta l’esistenza: si confidano le riflessioni sulle difficoltà della vita quotidiana (siamo nell’immediato do-poguerra), sul bisogno espresso da Raffaele di avere un rapporto con le anime dell’al-dilà, buone o cattive che siano, per stringere con loro una sorta di patto tra l’alleanza e la protezione. Un’idea che si fa più profonda nel personaggio di Carmela, (è a lei che si sono manifestati i fantasmi), donna bizzarra, sempre in sospensione tra coscienza e trance, interpretata, con piglio tra l’ironico e il drammatico da Viola Forestiero. Massimo De Matteo dà, a sua volta, vita, nei panni di Alfredo, ad un amante passionale e virile, deciso a stappare Maria all’ingenuo marito. Una considerazione a parte merita il perso-naggio del prof. Santanna, “l’anima utile che non si vede”. Il professore non si vede, ma sappiamo che c’è, che è uno di noi. Nella sua assenza è una presenza evidentissima che incide anche nella conclusione della storia; è, come l’ha definito Aldo Giuffré: “l’oc-chio del mondo.” E’ sempre sul balcone, osserva tutto e sa tutto quello che succede a casa Lojacono. Ovviamente ha capito quali sono gli eventi: sa che Alfredo non è un fan-tasma, che Pasquale viene tradito dalla moglie come gli suggerisce nella famosa scena del monologo del caffè, un rito del vivere partenopeo: «A noialtri napoletani, toglieteci questo poco di sfogo fuori al balcone… Io, per esempio, a tutto rinuncerei, tranne a questa tazzina di caffè...».Una compagnia affiatata come una vera famiglia, guidata «con coraggio da Carolina Rosi... cui va tutto il mio affetto e la mia ammirazione» (M. T. Giordana) che nella pièce tratteggia una Maria, “anima in pena”, che “nei suoi statuari silenzi” appare più decisa rispetto al testo. Dalle molteplici sfaccettature, è inizialmente misteriosa, ferma e poi indipendente, “chiave di volta dello spettacolo.” In Eduardo rimane sospesa nell’indeci-sione se andare via o rassegnarsi a restare, mentre nello spettacolo pianta con assoluta convinzione sia il marito che l’amante, per andarsene sola, ma libera, antesignana delle

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donne di oggi, coscienti del loro ruolo.La regia è puntuale e misurata e Giordana ha il merito di dirigere con discrezione l’a-zione corale degli attori e di far loro mantenere il concitato ritmo pensato da Eduardo fondendo, in modo esemplare, la pura tradizione con una messinscena “attenta a nuove armonie”, con il proposito di continuare il lavoro che Luca ha svolto sul repertorio di Eduardo. Nella regia di Eduardo il I atto si apriva con un palcoscenico buio. Un buio simbolico: rappresenta la nascita della commedia dall’oscurità. La scelta di Giordana si differenzierà? Per scoprirlo bisogna andare a teatro!Noi possiamo dire, con R. Gianmarco, che l’esperimento è riuscito, “con il senso di ieri e il senso dei nostri giorni.”

Perché vederlo? - per apprezzare la straordinaria prova di bravura degli attori;- per conoscere e capire meglio l’anima del popolo napoletano;- per cogliere appieno l’arte narrativa e dialogica di un grande del teatro come Eduardo e il suo pirandellismo.

SPUNTI DI RIFLESSIONE

In un perfetto equilibrio tra comico e tragico, tra realtà e finzione il testo propone uno dei temi centrali della drammaturgia eduardiana, quello della vita “messa tra parentesi”, sostituita da un’immagine, da un travestimento, da una maschera imposta agli uomini dalle circostanze, dalla società, dall’impossibilità di un rapporto sincero, dal tornacon-to economico o dal bisogno di trovare una consolazione di fronte ad una quotidianità sentita come insopportabile. Pasquale Lojacono vive “tra parentesi”: accetta l’amante della moglie e ne fa il proprio fantasma soltanto perché è “benevolo” con lui, gli mette denaro nelle tasche, gli semplifica la vita. Non vede e se vede non capisce o finge di non capire. E’ un gioco amaro, ma garantisce un utile. A chi non piacerebbe ricevere un aiuto inatteso, una soluzione fortuita e sorprendente ai propri problemi? Quanti di noi per una serie di giustificabili motivi, per indolenza o ipocrisia o comodo hanno accettato (o subito) situazioni insostenibili?Questi fantasmi è anche una commedia dolce-amara sul matrimonio dove l’amore, la passione viene travolta dall’abitudine, dalla quotidianità. Spesso, infatti, all’innamora-mento segue la vuotezza dell’abitudine. Il rapporto tra Pasquale e Maria si è logorato, non c’è più comunicazione tra i due, “si è perza ‘a chiave”, perché manca la condivisio-ne: “Tu... dovresti parlare”, “Basterebbe domandare”; se ciò non avviene i rapporti si raffreddano e “nasce la sopportazione reciproca...”Nonostante un toccante confronto in cui Maria urla la sua femminilità offesa, non si arriva ad un chiarimento. Ognuno rimane chiuso in se stesso, nelle proprie posizioni e convinzioni. I rapporti di coppia sono spesso più complicati di come appaiono, molto spesso si creano incomprensioni e fratture che non è facile colmare.Su due nuclei tematici si fonda la commedia. La comunicazione difficile tra gli uomini come “difetto di solidarietà tra i vivi” e la fragilità dell’uomo proteso a credere a ciò che desidera. Due nuclei che interagiscono a vicenda: l’incomunicabilità non nasce tanto da una pirandelliana crisi d’identità quanto da una più sociale mancanza di abbandono reciproco, dalla necessità di “lasciar correre”, di “tirare avanti” senza mettersi in gioco

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e determina, a sua volta, una condizione di insicurezza, di fragilità. Non si può non co-gliere l’interesse e il fascino che, pur nella diversità Pirandello ha esercitato su Eduardo per quanto riguarda la problematica finzione-realtà, la concezione di umorismo e l’inco-municabilità. La famiglia di Alfredo, una famiglia di fantasmi, che entra in scena sembra uscita da “i sei personaggi!”E’ presente anche il tema del fantasma, del “monaciello”, tanto caro al pubblico napole-tano e alla tradizione teatrale della città ed espressione dello spirito ingenuo, fantasioso e superstizioso del mondo napoletano. Tutto è reale, ma anche simbolico come l’ap-partamento toccato a Pasquale che è labirintico come un mondo: 68 balconi, scalette che vanno in terrazza, finestrini “ad occhio”, passaggi insospettati, metafora forse di Napoli, forse dell’Italia intera, come il balcone concepito come un ponte levatoio che viene abbassato spesso e volentieri: espressione dell’esigenza umana di comunicare con il prossimo. Il monologo in cui Pasquale con precisione assoluta descrive tutti i passaggi per la preparazione di un buon caffè, dalla tostatura alla bollitura della polvere, gesti atavici e sempre uguali compiuti con la grazia di chi si accinge ad un rito sacro, piccoli piaceri da godere in solitudine, quasi per liberarsi delle “ombre” che offuscano la sua esistenza e non “adombrarsi” ai doppi sensi giocati sul tema delle “corna”, ci porta ad una domanda emblematica: parla solo del caffè o della propria vita che è costretto a reinventarsi ogni momento adattandola su se stesso? Non si può non cogliere come in Questi fantasmi ci sia un tema fondamentale dell’opera di Pirandello: il tentativo di “imprigionare” la vita in una forma rappresentata, in questo caso, dalla tazzina di caffè.L’attualità del testo è sconcertante: non emerge solo la Napoli grandiosa e miserabile del dopoguerra, la vita grama, la presenza liberatrice/dominatrice degli Alleati, ma an-che un dolore che non ha mai abbandonato la città e nello stesso tempo il suo “con-trocanto gioioso.”

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TURNO D-ALTRI PERCORSITeatro Ermete Novelli

Domenica 11 febbraio, ore 21.00Linda Gennari, Pietro Micci, Andrea Narsi, Alessandro QuattroBULLdi Mike Bartletttraduzione Jacopo Gassmancon Linda Gennari, Pietro Micci, Andrea Narsi, Alessandro Quattroregia e spazio scenico Fabio CherstichTeatro Franco Parenti

“Il teatro deve essenzialmente narrare la realtà in cui viviamo, ma a volte può farlo ve-stendosi di metafore o di gioco o di cabaret che sono tutt’altro che realistici.”(M.Bartlett)

Breve ritratto di Mike Bartlett

Nasce a Oxford nel 1980.Mike Bartlett è un giovane drammaturgo tra i più interessanti e lucidi del Regno Uni-to, con alle spalle oltre venti lavori teatrali già messi in scena e noto in Italia per Cook diretto da Silvio Peroni con cui si è aggiudicato il prestigioso Laurence Olivier Award che ha vinto anche nel 2015 con Bull, già premiato nel 2013 come miglior spettacolo al National Theatre di Londra.Esperto di “gabbie mentali”, i suoi testi hanno il pregio di investigare la psicologia uma-na, presentandoci drammi i cui riferimenti al mondo attuale rendono i personaggi e le loro storie vicini e reali pur agendo sotto la copertura della finzione teatrale. Le di-chiarazioni di Bartlett ci aiutano a capire la sua produzione e le finalità che si propone: «racconto storie complicate che hanno un forte legame con la realtà... ma il teatro è una forma metaforica: qualsiasi cosa si metta in scena rappresenta qualcos’altro e questo carica il testo di significato.» ed ancora: «gli spettacoli e il teatro stesso possono cam-biare in maniera più ampia gli atteggiamenti della società. Il teatro è stato spesso in prima linea nel cambiamento della mentalità politica e sociale. Costa meno rispetto ad altri mezzi e quindi può essere più radicale».

IL TESTO

Pubblicato nel 2013 Bull, definito “una commedia spietata e politicamente scorretta”, delinea con angosciante lucidità “le derive di un mondo sempre più selettivo.”Perché Bull? Bull in inglese significa toro, in psicologia “la totale insensibilità per le sof-ferenze altrui”, in sociologia “il modo di agire grossolano e inopportuno”. Bull contras-segna chi usa la propria forza o potere per ferire e spaventare gli altri con prepotenze e minacce. Di qui Bullismo.

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Tre dipendenti di una non ben definita azienda: Isobel, Tony e Thomas sono in attesa del “tagliatore di teste”, il capo Mr. Carter che deciderà chi di loro sarà licenziato. Ini-zia una lotta all’ultimo sangue: Isobel e Tony hanno stretto una sorta di patto e forti di questa alleanza e pronti a tutto pur di “salvarsi”, fanno di Thomas il capro espiatorio su cui riversano con cinismo la loro aggressività. Thomas è l’anello debole: grassottello, timido, insicuro quanto gli altri sono eleganti, determinati, ha già in sé le stigmate del perdente. In attesa dell’arrivo del capo, volutamente in ritardo per permettere che tra i tre i giochi si definiscano, Isobel e Tony con l’atteggiamento ipocritamente benevolo di chi è disponibile “a fare conversazione”: “stiamo chiacchierando. E’ una cosa carina da parte nostra”, infieriscono su Thomas criticando il suo aspetto: “sembri uno spastico in un negozio di caramelle”, “un pinguino autistico”, il suo abito poco adatto alla situazio-ne, il suo atteggiamento, i suoi tic. Alla loro sicurezza e spavalderia fanno riscontro la fragilità di Thomas, i suoi sensi colpa, la sua acquiescenza. Per quanto cerchi di reagire e di esprimere il suo giudizio negativo soprattutto nei confronti di Isobel: “un pezzo di ghiaccio... gelida, dura. Tirata…”, i due persistono nel loro linciaggio morale e interroga-no Thomas sulle sue origini, sul lavoro del padre, ironizzano sulla sua mediocrità: “rie-sco a immaginarti a scuola, facevi fatica a fare amicizia con gli altri ragazzini, sempre in disparte, quando in gita scolastica si spegnevano le luci, volevi subito andare a dormire e al mattino ti lamentavi del chiasso che avevano fatto durante la notte. Tutti bigiavano l’aula di fisica e tu eri l’unico a entrare.”A loro volta raccontano storie di grande effetto che fanno sentire a Thomas la sua inadeguatezza di fronte alla loro superiorità fisica, economica e sociale. Arrivano alla bassezza di ironizzare sulla situazione affettiva che sta vivendo: il figlio da mantenere, la moglie divorziata che lo disprezza, le problematiche conseguenti ad un’eventuale perdita del lavoro e alle difficoltà di trovarne un altro. E’ un susseguirsi di attacchi di-retti, di colpi bassi, di insinuazioni e di accuse di fronte alle quali le risposte di Thomas diventano sempre più deboli e confuse. Attraverso un crescendo dagli effetti sempre più distruttivi, lo fanno sentire un emarginato, una nullità, lo escludono dalle loro fre-quentazioni, non lo informano dei messaggi del capo... I loro gesti, le loro parole, i loro sguardi sono carichi di disprezzo. L’arrivo di Carter non pone fine alle angherie. Per quanto inizialmente dichiari: “siamo persone noi, noi tutti, ciascuno di noi e dovremmo essere trattati come esseri umani” e “non semplicemente come prodotti”, successiva-mente conferma gli equilibri di potere emersi: “quando si tratta della sopravvivenza del più forte non credo che ci sia molto spazio per le categorie protette ... o per chi è partito dal basso”; la presenza è fondamentale.” Su questa affermazione fanno leva Isobel e Thomas evidenziando l’inettitudine e l’incapacità del collega: “è difficile lavorare con uno come Thomas. Ha difficoltà nelle vendite... le sue doti linguistiche e il suo modo di presentarsi sono uguali a zero. Viene spesso al lavoro con la forfora e con l’alito pe-sante...” Indifferente e meschino si uniforma al comportamento dei due: “questo non è posto per te”... e si allontana. L’azione di bullismo messa in atto contro Thomas giunge al culmine nella parte finale quando Isobel dice: “abbiamo fatto una colletta…, ti abbiamo preso questa bottiglia” e soprattutto nella battuta conclusiva: “in bocca al lupo” che sa molto di scherno. Il testo di grande intensità coinvolge e angoscia nello stesso tempo; per l’attualità e la veridicità della situazione è come un pugno nello stomaco, una stretta al cuore.

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LO SPETTACOLO

Dal Teatro Parenti di Milano, in prima nazionale nel marzo 2016, Bull di M. Bartlett giun-ge sul palcoscenico del Novelli per la stagione teatrale 2017-2018.Una scena che è una non-scena: non c’è scenografia, non c’è arredo, non c’è mobile, non c’è musica. Solo tre attori che in un dialogo serrato, stringato, giocato sui silenzi, sulle pause, sulle interruzioni, combattono una lotta feroce in uno spazio che non è un ufficio, ma un ring, delimitato da segmenti interrotti di ringhiere di metallo cui sostenersi nei momenti più critici, quando si è “stretti all’angolo.” Ed è ad uno degli angoli che torna sempre ciascuno dei quattro attori in scena dopo aver colpito l’avversario. Nello spazio di questo match violento e scorretto hanno grande risonanza le parole che rim-balzano dall’uno all’altro, da un angolo all’altro. Il ring assomiglia anche a una pista di pattinaggio su ghiaccio come suggerisce il pavimento bianco su cui gli attori sembrano scivolare e tracciare strisce nere quasi a marcare il proprio territorio su cui esercitare il loro potere.Artefici di questa lotta Isobel (Linda Gennari), Tony (Pietro Micci) e Thomas (Andrea Nar-si) cui si aggiunge Carter (Alessandro Quattro). Isobel, “dura”, fredda, altezzosa, alta, sexy, perfetta nel suo tailleur scuro, gonna corta con lungo spacco, camicia chiara, tac-chi a spillo, capelli biondissimi raccolti con ricercatezza, è la perfetta incarnazione della donna in carriera; Tony, fisico atletico che esibisce sfrontatamente, elegante e spavaldo, padrone di sé, provocatorio è il rampante per il quale conta solo la carriera; Thomas, invece, con il suo anonimo abito grigio spiegazzato, i capelli un po’ lunghi, gli occhiali grandi su un volto grassottello, è l’immagine dell’uomo comune, un po’ “sfigato” , la vittima predestinata. Il quarto personaggio, nel ruolo del capo, Mr. Carter, è freddo e distante, razionale e profondamente inumano.Oltre le parole sono anche i corpi che “parlano”: parlano gli abiti e i movimenti che evidenziano, all’interno del ring, i rapporti di forza dei personaggi; Thomas, agitato, si muove nervosamente avanti e indietro, Isobel e Tony, invece, determinati e sicuri, risul-tano rigidi. E’ sempre Thomas a finire nell’angolo “con il capo ricurvo, lo sguardo a terra, l’incedere goffo”, gli altri si muovono a testa alta, petto in fuori, voce ferma, convinti, nella loro ottica efficientistica e superomistica” che non è solo normale, ma sacrosanto che il più debole crolli, che finisca a terra come un pugile ko: “se non ci fossi stata io, ci sarebbe stato qualcun altro a farti questo.”La luce fissa, accecante e asettica di tre neon, da ospedale o da obitorio, contribuisce a rendere la scena ancora più fredda e grigia. Bravi gli attori diretti ottimamente, “con sapienza e sensibilità” (R. Palazzi) dal giovanissimo regista Fabio Cherstich per una pièce incisiva, tagliente, tecnicamente impeccabile che «mette in luce con crudezza e ironia le piccole, grandi, violentissime dinamiche di sopraffazione del più forte, del più prestante, del più debole.» (Linda Gennari)

Perché vederlo?- per ammirare una scenografia, nella sua “assenza” straordinariamente avvincente;- per cogliere la forza e l’efficacia della parola;- per riflettere su una problematica che contrassegna il nostro quotidiano;- per ammirare Linda Gennari, giovane attrice riminese, sul palco del Novelli anche lo scorso anno ne Il Malato immaginario.

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SPUNTI DI RIFLESSIONE

Potrà mai il brutto anatroccolo diventare un cigno? Succede nella fiaba, più difficile nella realtà.Il teatro di Mike Bartlett “narra la realtà” e a differenza di quanto accade nella fiaba, nella pièce, l’anatroccolo, alias Thomas, non diventerà cigno, gli mancano quelle doti che nella odierna società sono considerate indispensabili; gli mancano fascino, coraggio, fi-ducia in se stesso. E’ il perdente, bersaglio facile di due colleghi senza scrupoli, arrivisti, sicuri di sé, il cui scopo è quello di farlo licenziare al posto loro. E’ questo il bullismo, una pratica che miete quotidianamente vittime in ogni campo, in ogni età con conseguenze drammatiche e spesso fatali. In una società in cui conta l’apparire, in cui è importante l’omologazione, in cui la diversità di qualsiasi tipo sia è concepita come una minaccia ai criteri dominanti, il fisico, l’abito, i gesti, le condizioni economico-sociali, diventano occasioni per esercitare angherie, soprusi, violenze psicologiche… Bull “ripercorre una dinamica d’ufficio” (R.Palazzi), ma il meccanismo viene applicato in qualunque comu-nità, in un’aula scolastica, in un gruppo, ovunque viene resa possibile l’affermazione dei più forti (o di quelli che sembrano tali) sui più deboli che non necessariamente sono i meno “competenti”, ma spesso solo più umani. In questo modo vengono meno la comprensione umana, il rispetto per gli altri, la solidarietà, l’amicizia: quando non si hanno scrupoli per liberarsi dei cosiddetti “pesi morti” o dei presunti tali, quando non si ha rispetto per chi è diverso, muoiono anche la pietà e la solidarietà. Purtroppo com-portamenti di bullismo si verificano spesso, troppo spesso, nel mondo giovanile, senza una motivazione reale, non per la “sopravvivenza, ma solo per colpire il più fragile, il più debole o chi non è abbastanza vaccinato contro la cattiveria e l’imperante cinismo.Nello specifico dello spettacolo non si può non notare come tra i due “carnefici” la più determinata, la più doppiogiochista sia Isobel, una donna cui, per convenzione, siamo portati ad attribuire una maggior sensibilità, comprensione e spirito materno. Del resto osserva Daria D. «l’emancipazione è anche prendere i difetti degli uomini e passarci sopra un bello strato di rossetto rosso acceso, così i sorrisi al capo e ai colleghi diven-tano sexy e possono portare ad una carriera più sfolgorante.» Un’altra dimostrazione evidente di come il bullismo non abbia età, non sia legato al sesso e possa esplodere in qualsiasi forma e in qualsiasi contesto, ispirandosi ad un diktat che sembra essere “sparare sul più debole.” Un delirio di onnipotenza che fa pensare alle farneticanti ide-ologie che prostrarono il XX secolo e a tutti quei pensieri sulla tolleranza, l’accoglienza, l’accettazione ricorrenti nell’odierno momento storico, ma clamorosamente disattesi. Nel monologo di Isobel si possono cogliere, infatti, lampi sconvolgenti di neo-nazismo, affermazioni “che rievocano quelli della purezza della razza” (R. Palazzi) che nel nome dell’efficienza, dell’utilità eliminano i deboli, i perdenti, i non-conformi. Queste le parole di Isobel: “sei basso... sei sproporzionato.”In fondo, come ci fa notare Valeria Claudia Orlandi, Bull è il Minotauro che aspetta Thomas nel labirinto di parole creato da Isobel, Bull è la statua del toro di Wall Street che fomenta la smania di primeggiare negli occhi di Tony. Ma Bull è anche una versione adulta del Brutto anatroccolo in cui non può esistere lieto fine: restare in quell’ufficio o essere licenziato rappresentano per Thomas due condanne diverse allo stesso destino di infelicità. Il toro è sfiancato da due accaniti picadores in attesa di essere infilzato dal torero!

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CONCLUSIONI«Il teatro come la cultura in generale, vive un momento non facile per-ché è una cosa magica e preziosissima, è un’arte antica e strana in questa epoca dominata dall’effimero, e pertanto non facilmente com-merciabile. E’ un’arte piccola, ma tenacissima che ha sempre saputo superare i momenti difficili, ritrovando la luce e la fiducia che anche questa nostra crisi sarà superata» (Elena Bucci)Ma il teatro siamo noi: attori e pubblico e vive grazie agli attori sul palcoscenico e al pubblico in sala.«Ogni sera nel buio della sala tra platea e palco si compie una magia: platea e palco respirano insieme… Abituare i ragazzi ad andare a te-atro significa educarli ad uno spirito critico e curioso, ad una dimen-sione di incontro e condivisione all’interno di uno spazio privilegiato; la sua <assenza> ci rende soli, alienati e poveri intellettualmente e spiritualmente.» (Linda Gennari)Deve essere, quindi, impegno di tutti noi continuare a farlo vivere nel rispetto della diversità dei ruoli e dargli corpo, voce, presenza.

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