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Istituto MEME s.r.l. Modena associato a Université Européenne Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles STORIA DELLA CRIMINOLOGIA ORIGINI – SVILUPPI – ORIENTAMENTI APPLICAZIONI Scuola di Specializzazione: Scienze Criminologiche Relatore: Dr.ssa Roberta Frison Tesista specializzando: Dr.ssa Cinzia Palopoli Anno di corso: Primo Modena 24 – 06 – 2006 Anno accademico 2005-2006

STORIA DELLA CRIMINOLOGIA - istituto-meme.it · La teoria ecologica o delle aree criminali pag. 49 3. Le teorie della disorganizzazione sociale pag. 50 4. La teoria dei conflitti

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Istituto MEME s.r.l. Modena associato a

Université Européenne Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles

STORIA DELLA CRIMINOLOGIA

ORIGINI – SVILUPPI – ORIENTAMENTI APPLICAZIONI

Scuola di Specializzazione: Scienze Criminologiche

Relatore: Dr.ssa Roberta Frison

Tesista specializzando: Dr.ssa Cinzia Palopoli

Anno di corso: Primo

Modena 24 – 06 – 2006

Anno accademico 2005-2006

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CINZIA PALOPOLI – CRIMINOLOGIA - PRIMO ANNO A.A. 2005/06

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INDICE

PREMESSA pag. 6

Cap. 1. INTRODUZIONE ALLA CRIMINOLOGIA

1. Premessa pag. 7

2. Origini storiche pag. 9

3. La criminologia moderna pag. 9

4. Fenomenologia dei comportamenti criminosi pag. 10

5. Criminologia e psichiatria forense pag. 10

6. Il lavoro del criminologo pag. 11

7. I metodi della criminologia pag. 11

8. Le teorie criminologiche pag. 12

9. La criminologia clinica pag. 13

Cap. 2. LO STUDIO DELLA CRIMINOLOGIA

1. Premessa pag. 15

2. Il ruolo del criminologo e la criminologia pag. 15

3. Le scienze criminali pag. 17

4. Oggetto di studio e specificità della criminologia pag. 18

5. La criminologia come scienza pag. 19

6. Definizione di comportamento deviante e criminale pag. 22

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Cap. 3. METODOLOGIA DELLA RICERCA CRIMINOLOGICA

1. Premessa pag. 25

2. Il campo delle indagini criminologiche pag. 26

3. Gli strumenti di controllo pag. 28

4. Metodi e fonti delle conoscenze empiriche pag. 28

5. Il numero oscuro pag. 30

6. Statistiche di massa pag. 31

7. Inchieste su gruppi campione pag. 32

8. Le osservazioni individuali pag. 32

9. Questionari ed interviste pag. 33

10. Indagini predittive pag. 34

Cap. 4. LO SVILUPPO DEL PENSIERO CRIMINOLOGICO

1. Ideologie e criminologia pag. 35

2. L’Illuminismo e l’ideologia penale liberale pag. 37

3. La Scuola Classica del diritto penale pag. 38

4. Il determinismo sociale: la società come causa del delitto pag. 39

5. Il determinismo biologico e la criminologia dell’individuo:

Cesare Lombroso pag. 40

6. La Scuola Positiva pag. 42

7. Integrazione tra approccio sociologico e antropologico pag. 43

8. Gli sviluppi dell’indirizzo individualistico e la

criminologia clinica (anni ’50) pag. 44

9. Il Nuovo Realismo pag. 45

10. Neo-Classicismo e abolizionalismo pag. 46

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Cap. 5. TEORIE SOCIOLOGICHE E CRIMINALITA’

1. Premessa pag. 49

2. La teoria ecologica o delle aree criminali pag. 49

3. Le teorie della disorganizzazione sociale pag. 50

4. La teoria dei conflitti culturali pag. 51

5. Lo struttural-funzionalismo e teoria della devianza pag. 52

6. L’anomia come causa di devianza: Merton pag. 54

7. La teoria delle associazioni differenziali: Sutherland pag. 56

8. La criminalita’ dei “colletti bianchi” di Sutherland pag. 58

9. La criminologia del consenso pag. 60

10. La criminologia del conflitto pag. 62

11. Le teorie dell’etichettamento pag. 63

12. La criminologia critica: criminalità come fatto politico pag. 65

Cap. 6. TEORIE PSICOLOGICHE E CRIMINALITA’

1. La criminologia incentrata sull’individuo pag. 68

2. Personalità – temperamento - carattere pag. 69

3. Le teorie psicoanalitiche di Freud pag. 72

4. La coazione a confessare pag. 74

5. Psicoanalisi e criminalità: Alexander e Staub pag. 75

6. La psicologia sociale: Adler e Fromm pag. 79

7. Identità personale e teoria dei ruoli pag. 81

8. Devianza – emarginazione – marginalità pag. 83

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Cap. 7. TEORIE BIOLOGICHE E CRIMINALITA’

1. L’approccio naturalistico pag. 85

2. Le teorie della predisposizione: eredità e delitto pag. 86

3. Le teorie degli istinti pag. 89

4. La criminalità violenta pag. 90

CONCLUSIONI pag. 92

BIBLIOGRAFIA pag. 96

SITOGRAFIA pag. 96

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PREMESSA

La scelta di questo lavoro, è dettata da alcune motivazioni: la prima è,

certamente, quella di offrire una visione d’insieme, se non del tutto completa,

delle teorie che si sono succedute nel tempo. Si è convinti, infatti, che chi si

avvicina per la prima volta alla materia debba conoscerne la storia, i metodi di

ricerca, l’evoluzione e le varie sfaccettature per, poi, decidere di proseguirne lo

studio e sceglierne, nel caso affermativo, l’area tematica da approfondire. Per

questo si è cercato, quando si è ritenuto opportuno, di fare un breve excursus delle

correnti di pensiero che hanno ispirato di volta in volta le teorizzazioni

criminologiche.

Il testo, offre una paronamica ampia e sistematica di tale affascinante disciplina,

che assume sempre maggiore importanza. Poiché la connotazione

multidisciplinare della materia, rende alcuni testi non di facile apprendimento, si è

preferita una stesura espositiva lineare per favorire l’approccio anche a chi si

avvicina per la prima volta alla materia.

In conclusione, il mio intento è stato quello di dimostrare come la tendenza

di fondo della criminologia sia consistita, da una parte, nel progressivo ricorso

all’approccio interdisciplinare e, dall’altra, nel dare importanza crescente ai fattori

esogeni o sociali del comportamento deviante.

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CAPITOLO 1

INTRODUZIONE ALLA CRIMINOLOGIA

1. Premessa

Per criminologia si possono intendere professioni, metodi, teorie, approcci molto

diversi ed anche in forte contrasto. Nonostante mafia e terrorismo, i misfatti

impuniti e i problemi insoluti, la corruzione che ci vede collocati in posti

miserevoli delle classifiche internazionali, l’illegalità di massa, eccetera, la storia

della criminologia è in Italia particolarmente rilevante. Cesare Beccaria é il punto

di partenza del diritto penale moderno; Cesare Lombroso è la pietra miliare

dell’antropologia criminale moderna. In questi giganti della storia della cultura

italiana e mondiale, è preminente l’importanza dell’aspetto metodologico. Di

Cesare Beccaria è ben nota la critica esemplare di ogni potere penale arbitrario,

irrazionale, inquisitorio, oscurantista. A differenza di Beccaria, Lombroso è stato

assai contestato, proprio sul piano metodologico, per molto tempo.

Dalle critiche al positivismo di tipo lombrosiano sono nati i due più geniali autori

della criminologia moderna: Durkheim e Sutherland. La metodologia

durkheimiana è frontalmente contrapposta alla metodologia lombrosiana: non

basta collezionare una quantità enorme di esempi, dati, casi, fatti, sentenze,

fotografie, disegni, per dimostrare la bontà di una teoria. Il desiderio e la

presunzione di sapere, di esplorare, di teorizzare, sono tendenze tanto umane

quanto diffuse ed ingenue: bisogna controllarle attentamente. Negli Stati Uniti, la

Criminologia presentò sin dagli inizi un orientamento prevalentemente, se non

proprio esclusivamente, sociologico e tale indirizzo conserva tuttora. Per

l’influenza schiacciante di Durkheim nell’area culturale di lingua francese e per

l’influenza schiacciante di Sutherland, di Merton, della scuola di Chicago, nei

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Paesi di lingua anglosassone, la criminologia è stata per decenni un sottosettore

della sociologia. 1

Le istituzioni, svolgono un ruolo decisivo: possono aiutare a prevenire il crimine

(ad esempio con interventi adeguati nel mercato del lavoro o nell'istruzione) sia a

scoraggiare il crimine (ad esempio attraverso investigazioni che assicurino ai

colpevoli una pena certa e rapida). In questa prospettiva, i fattori istituzionali sono

un fattore cruciale: l'intervento pubblico può compensare, correggere, modificare i

problemi individuali e collettivi, oppure aggravarli, o lasciarli marcire, fino a farli

diventare una concausa di varie forme di criminalità e di disagio sociale. Livelli di

criminalità e livelli di funzionalità delle istituzioni sono strettamente correlati. Gli

alti livelli odierni di criminalità sono connessi con una forte difficoltà delle

istituzioni di fronteggiare i problemi odierni, assai diversi rispetto a prima.

La criminologia di Durkheim e di Sutherland era strettamente connessa con i

problemi sociali dell’età industriale. Per Durkheim una nuova morale civile

doveva essere costantemente predicata attraverso le istituzioni, dalle scuole

elementari fino alle università; egli richiedeva l'intervento dello Stato.. Un suo

dovere è quello di vegliare sulla salute sociale». Ragionamenti simili si ritrovano

nella sociologia e nella criminologia americana, che affrontarono molti problemi

della società industriale con un’enfasi speciale sulle istituzioni, sull’educazione,

sulla morale civile.

La criminologia può essere definita come la disciplina scientifica che studia i

reati, i loro autori, e la reazione sociale ai reati medesimi. È una disciplina sia

teorica che empirica, sia descrittiva che esplicativa, sia normativa che fattuale.

L'oggetto fondamentale di studio è, come detto, il reato, la cui definizione è

esclusivamente sociale. Il reato non è un fatto biologico o assoluto, ma il frutto di

una certa definizione sociale che varia in funzione del tempo (storia) e dello

spazio (geografia), ossia varia da cultura a cultura. Crimine, diritto e cultura sono

pertanto concetti profondamente interrelati tra loro.

1 Ponti G.,Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.

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2. Origini storiche

Dal punto di vista storico, i primi albori della criminologia si hanno con

l'affermarsi della cultura illuminista nel XVIII secolo, e in particolare con gli

scritti dell'italiano Cesare Beccaria ("Dei delitti e pene"). Ne nasce la cosiddetta

"scuola classica", imperniata sui concetti liberistici del diritto penale.

Successivamente, nell'Ottocento, con lo sviluppo delle scienze empiriche

(psicologia, sociologia, antropologia), nasce la scuola positiva, che si articola in

due direzioni: lo studio dell'uomo che delinque secondo l'approccio medico-

biologico dell'antropologia criminale (Cesare Lombroso) e lo studio sociologico

delle condizioni che favoriscono la commissione differenziale di reati in funzione

del ceto sociale di appartenenza.

In seguito, con il moltiplicarsi delle ricerche e delle conoscenze psicologiche, la

scuola positiva prenderà anche un taglio psicopatologico e psichiatrico. La

delusione conseguente alle eccessive aspettative che si erano formate in relazione

alla possibilità di affrontare scientificamente i problemi della criminalità porterà

all'emergere di approcci di criminologia critica e di anticriminologia da un lato, e

dall'altro al riemergere della scuola classica (nel filone oggi denominato

"neoclassico").

3. La criminologia moderna

Attualmente la criminologia si configura come una scienza multidisciplinare ed

interdisciplinare, che rifugge dalle spiegazioni monofattoriali ricorrendo

preferenzialmente ad un approccio multifattoriale (non c'è un'unica "causa

universale" dell'agire criminoso, bensì una costellazione mutevole di possibili

variabili causali, da valutarsi sempre caso per caso nello specifico individuo o

contesto sociale sotto il profilo della criminogenesi e della criminodinamica).

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4. Fenomenologia dei comportamenti criminosi

Dal punto di vista descrittivo, la criminologia si occupa sia della fenomenologia

dei principali delitti (il modo in cui essi si manifestano concretamente: omicidio,

violenza sessuale, reati legati al consumo di sostanze stupefacenti, crimini

economici e dei colletti bianchi, delinquenza comune e organizzata, terrorismo, e

così via) sia delle possibili classificazioni dei reati, degli autori dei reati (tipologie

di autori: imputabili e non imputabili, primari e recidivi, ecc.), dei moventi

sottostanti ai reati medesimi (stati emotivi e passionali, moventi di lucro, moventi

di vendetta, eccetera). L'analisi fenomenologica della criminalità ha evidenziato,

ad esempio, che la tendenza all'agire criminale è molto più frequente (quasi dieci

volte più frequente) nei maschi che nelle femmine, e si concentra nelle fasce

giovanili di età (dai 20 ai 35 anni soprattutto).

5. Criminologia e psichiatria forense

Lo studio delle tossicodipendenze e quello delle malattie mentali, nei possibili

risvolti criminologici, è di competenza di quel ramo della criminologia che è

formato dalla psichiatria e dalla psicopatologia forense.

Il maggiore campo applicativo di queste discipline riguarda la questione

dell'imputabilità, a sua volta collegata alla valutazione della capacità di intendere

e di volere. Per la legge italiana, se manca pienamente la capacità di intendere e/o

di volere, il reo non è imputabile e nei suoi confronti vengono prese delle misure

di sicurezza a carattere anche terapeutico; se invece la capacità di intendere e/o di

volere è "grandemente scemata", il reo è imputabile ma la pena è diminuita (e

possono essere prese delle misure di sicurezza).

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6. Il lavoro del criminologo

In Italia il criminologo può operare nei seguenti contesti professionali: all'interno

delle carceri, come esperto facente parte dell'équipe di osservazione e trattamento;

come esperto del Tribunale di Sorveglianza o del Tribunale dei Minori; come

componente "non togato" del Tribunale di Sorveglianza; come perito nominato

dal giudice o da una delle parti, nell'ambito di un procedimento penale in cui sia

importante la valutazione dell'imputabilità.2

Esistono anche limitate possibilità di impiego come collaboratore delle forze

dell'ordine (per esempio come esperto di "criminal profiling") o come consulente

aziendale in materia di sicurezza.

7. I metodi della criminologia

La criminologia è oggi una disciplina piuttosto eclettica in termini metodologici.

Essa si avvale infatti delle seguenti tecniche di indagine:

• lo studio di casi clinici individuali

• le ricerche mediante campioni (sondaggi campionari)

• l'analisi di statistiche ufficiali collettive

• l'analisi di fonti informative e documentali

• le ricerche sperimentali o quasi-sperimentali

• le inchieste sociali e sul campo

• l'analisi di documenti storici

Sono anche possibili indagini settoriali e studi predittivi mediante particolari

tecniche statistiche. In Italia le statistiche ufficiali della criminalità sono raccolte,

elaborate e pubblicate dall'ISTAT, l'istituto nazionale di statistica. Esse forniscono

2 Merzagora, Betson I.,Lezioni di criminologia, Cortina, Milano, 1999.

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in particolare i tassi relativi ai vari reati (il tasso di un reato è il numero di casi del

reato in questione, registrato in un determinato anno, ogni cento mila abitanti).

Indagini campionarie a scopo criminologico sono svolte da vari istituti italiani, per

esempio dal Censis e da Doxa. Esse consentono di studiare la percezione

dell'opinione pubblica in materia di criminalità e di misurare quante persone sono

state vittime di reati (in questo caso si tratta delle cosiddette "indagini di

vittimizzazione"). Il confronto fra i reati ufficialmente denunciati e quelli

realmente commessi, quali risultano dagli studi di vittimizzazione, consente una

sia pur sommaria valutazione del "numero oscuro" (i reati commessi ma non

denunciati né rilevati ufficialmente, che sono sempre in numero maggiore rispetto

ai reati ufficialmente "contabilizzati"). Il problema della valutazione del numero

oscuro è una delle maggiori sfide metodologiche per la criminologia.

8. Le teorie criminologiche

Sono state proposte molte teorie per spiegare i fenomeni criminali. Esse si

possono dividere in:

• teorie biologiche fra le prime vanno ricordati gli studi di Cesare

Lombroso sul delinquente nato e sul concetto di

"atavismo", oltre che le indagini sui fattori genetici,

ormonali, psicopatologici e neurologici dell'agire

criminoso.

• teorie psicologiche alla base del comportamento criminale potrebbe

esserci un "accumulo" di aggressività da

frustrazione

• teorie sociologiche fra le teorie sociologiche si ricordano quella degli

ambienti o contesti criminogeni (ecologia

criminale), la teoria delle associazioni differenziali

di Sutherland, quella delle identificazioni

differenziali, la teoria del conflitto culturale, le

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teorie fondate sul concetto di anomia (maggiore è la

tendenza anomica in una società, maggiore è la

frequenza di reati in quella stessa società).

9. La criminologia clinica

Il ramo applicativo della criminologia viene denominato "criminologia clinica".

Essa si propone, soprattutto attraverso l'analisi e l'intervento su singoli specifici

casi, di formulare una diagnosi, una prognosi e una possibile "terapia

trattamentale" relativamente agli autori di reati. La diagnosi punta a ricostruire i

fattori e le condizioni che hanno portato alla genesi e all'esecuzione del reato

(criminogenesi e criminodinamica), la prognosi cerca di valutare la maggiore o

minore "pericolosità sociale" del delinquente, la terapia prevede interventi di

rieducazione e di assistenza psicologica con l'obbiettivo di risocializzare il reo e

consentirgli una piena reintegrazione sociale. Per quanto riguarda la dimensione

prognostica, che ha come detto l'obiettivo fondamentale di valutare la maggiore o

minore pericolosità sociale di un soggetto, nonché di stimare le maggiori o minori

probabilità di recupero sociale per quel soggetto, un modello previsionale che ha

avuto notevole successo in passato è quello sviluppato dai coniugi Glueck. Questo

modello ipotizza che tre gruppi di variabili consentano di prevedere la maggiore o

minore probabilità di incorrere in una "carriera criminale":

1) variabili legate alla famiglia di origine (clima familiare, atteggiamenti dei

genitori, valori o controvalori trasmessi, e così via),

2) variabili legate alla struttura di personalità del soggetto (stabilità o instabilità

emotiva, resistenza o meno alla frustrazione, maggiore o minore impulsività,

eccetera),

3) variabili legate ai concreti comportamenti espletati dal soggetto medesimo

(maggiore o minore precocità di manifestazione di episodi devianti, tendenza o

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meno alla recidiva, tendenza o meno a fare uso di sostanze voluttuarie o

stupefacenti, e così via).

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CAPITOLO 2

LO STUDIO DELLA CRIMINOLOGIA

1. Premessa

La criminologia, offre in una prospettiva umanistica, molteplici spunti per

ampliare le conoscenze e favorire una migliore conoscenza della persona umana.

Fornire conoscenze maggiormente approfondite, che non ricalchino solo il

comune buon senso o gli stereotipi e i luoghi comuni sul crimine è lo scopo

specifico di questa disciplina.

2. Il ruolo del criminologo e la criminologia

a. ll ruolo del criminologo

Comunque il ruolo del criminologo non è soltanto quello di trattare della

criminalità e di elencarne tipologie e manifestazioni, ma anche quello di

analizzare, interpretare e organizzare le relative informazioni all’interno di una

cornice sistematica, allo scopo di avere una chiara visione del fenomeno. Infatti, la

descrizione obiettiva e ben strutturata dei fattori quantitativi e qualitativi del

comportamento criminale e deviante costituisce il necessario prerequisito per

qualsivoglia analisi esplicativa del crimine.3

Ci si è resi conto che, come in tutte le scienze umane, anche in

criminologia non sia possibile giungere a una spiegazione attraverso un processo

induttivo di causa-effetto. Appare, invece, possibile evidenziare ed esaminare le

connessioni tra il fenomeno criminale e quei fattori sociali che contribuiscono a

perpetuarne l’esistenza, quali i valori dominanti e la struttura sociale. Lo stesso

discorso vale se si vuole analizzare il singolo deviante; in questo caso si

evidenziano le correlazioni tra fattori individuali (personalità, carattere, patologie

3 http://it.wikipedia.org/wiki/criminologia

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mentali, ecc.) e sociali (condizioni socio-economiche, familiari, rapporti

interpersonali, ecc.).

E’ preferibile definire la criminologia come una disciplina multifattoriale.

È, comunque, pur sempre una scienza idiografica, che studia i fatti, le

cause e le probabilità degli eventi particolari, e nomotetica, cioè mirante a scoprire

leggi scientifiche universalmente valide, uniformità e tendenze.

Il criminologo, perciò, assume il doppio ruolo di teorico e di ricercatore.

Nel primo sviluppa teorie e tenta di individuare le cause del

comportamento criminale.

Le teorie più strettamente sociologiche, invece, pongono l’accento

sull’importanza dell’apprendimento e dei processi di socializzazione. Entrambi gli

approcci, poi, rilevano la forte influenza che le disuguaglianze economiche e

sociali hanno sullo sviluppo di tensioni, frustrazioni e conflitti che possono in

qualche modo indurre le persone a coinvolgersi in atti criminali.

Sia gli studi teorici sia le ricerche empiriche, comunque, contribuiscono

con i loro risultati all’evoluzione della politica sociale e criminale e alla

formazione di programmi di trattamento per i delinquenti e le loro vittime.

Un logico corollario di tali considerazioni consiste, infine, nel ruolo di

ermeneuta del criminologo, che deve continuamente sottoporre a valutazione

critica i risultati degli studi teorici ed empirici per proporre cambiamenti e

suggerire nuovi indirizzi di indagine.

In conclusione, la criminologia si prefigge i seguenti fondamentali

obiettivi: in primis, individuare, definire e descrivere il maggior numero possibile

di atti e comportamenti devianti nella società; in secondo luogo analizzare,

interpretare e organizzare i dati rilevati sulla criminalità; terzo, sviluppare

spiegazioni teoriche sull’eziologia della criminalità e del comportamento deviante.

b. Definizione di criminologia

Con il termine «criminologia» si intende lo studio scientifico della

criminalità, del delinquente e del comportamento criminale. Più in particolare i

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criminologi studiano la natura e la dimensione del crimine, i tipi di criminalità,

cercano di individuare e spiegare le cause del reato e del comportamento

antisociale, nonché la connessa reazione sociale.

La criminologia è una scienza autonoma, una disciplina unica la quale si

costituisce «a esposizione propedeutica di un sistema di scienze»una disciplina

integrata che trae le sue conoscenze da molti campi, da una «costellazione» di

altre discipline: sociologia, psicologia, psichiatria, antropologia, biologia,

giurisprudenza e diritto penale, scienza politica, storia e scienza della pubblica

amministrazione. I criminologi, quindi, con le loro radici e la loro formazione nei

diversi settori, contribuiscono allo studio della criminalità soprattutto attraverso lo

sviluppo di ricerche scientifiche atte a far loro analizzare e spiegare le diverse aree

del crimine in rapporto a un ampio spettro di fattori come età, sesso, razza,

religione, classe sociale, attività lavorativa, stato civile, clima, stagioni, ecc.

3. Le scienze criminali

Le discipline che hanno come loro interesse i fenomeni delittuosi si denominano

“scienze criminali” e ad esse appartengono, oltre alla criminologia:4

- il diritto penale – esso è la scienza che studia, analizza ed approfondisce il

complesso delle norme giuridiche rivolte ai cittadini, le quali divengono,

in forza di legge, regole di condotta. Pertanto, il delitto, che è il campo

degli interessi e delle indagini scientifiche della criminologia, viene ad

essere definito dal diritto penale.

- Il diritto penitenziario – che ha come oggetto l’insieme delle disposizioni

legislative e regolamentari che disciplinano la fase esecutiva del

procedimento giudiziario penale.

- La psicologia giudiziaria – che studia la persona umana non in quanto

reo ma quale attore, in differenti ruoli, nel procedimento giudiziario.

4 www.criminologia.it

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- La politica penale (o politica criminale) – che ha come obiettivo quello di

studiare, elaborare e proporre gli strumenti ed i mezzi (legislativi,

giuridici, sociali, trattamentali, preventivi) per combattere la criminalità.

- La criminalistica, invece, non va confusa né con la criminologia né con le

scienze criminali: essa è da intendersi come l’insieme delle molteplici

tecnologie che vengono utilizzate per l’investigazione criminale. Si tratta

di tecniche di polizia scientifica che hanno come obiettivo la risoluzione di

svariati problemi di ordine investigativo, utili per la qualificazione del

reato, per la identificazione del reo o della vittima, per la caratterizzazione

delle circostanze (es.: analisi grafometrica, analisi di campioni biologici,

indagini tossicologiche, ecc.).

4. Oggetto di studio e specificità della criminologia

La criminologia si colloca fra le discipline che hanno come loro oggetto di

studio la criminalità e che abbiamo definito quali scienze criminali. Tratto

caratteristico della criminologia, però, è il confluire integrato e non meramente

giustapposto degli apporti di diverse discipline secondo una prospettiva sintetica.

Vediamo le sue caratteristiche in particolare:

- l’ampiezza del campo di indagine – che considera i fatti criminosi e i loro

aspetti fenomenologici, le variazioni nel tempo e nei luoghi, le condizioni

sociali ed economiche che ne favoriscono la diffusione e le modificazioni.

Rientrano nell’ambito dei suoi interessi anche lo studio degli autori dei

delitti, i diversi tipi di reazione sociale che il delitto suscita, l’analisi delle

conseguenze esercitate dal crimine sulle vittime, del fenomeno della

devianza.

- È una scienza multidisciplinare – essa si occupa dei fenomeni delittuosi

secondo molteplici prospettive e competenze. Afferiscono alla

criminologia conoscenze fornita da più discipline quali la sociologia, la

psicologia, la psichiatria, la psicologia sociale, ecc. mentre è esclusivo

compito della criminologia il coagulare in sé i loro apporti per quanto può

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essere utilizzato per lo studio del crimine. Il criminologo è lo studioso che

deve saper integrare in una visione sintetica dati, conoscenze, approcci e

metodi provenienti da campi diversi del sapere.

- È una scienza interdisciplinare – poiché ha necessità di dialogo con altre

scienze per poter, congiuntamente a queste, affrontare questioni alla cui

risoluzione necessitano molteplici competenze.

- È una delle scienze dell’uomo – tali si definiscono quelle scienze che

studiano quella realtà complessa, articolata e multiforme che è il

comportamento umano in seno alla società nei suoi infiniti aspetti. Con le

altre scienze dell’uomo (posologia, antropologia, pedagogia, storia,

economia, psichiatria, ecc.) la criminologia ha in comune lo studio

dell’uomo nella sua dimensione individuale e sociale, e come suo

specifico oggetto lo studio dell’uomo allorquando viola la legge penale.

5. La criminologia come scienza

Per poter parlare di scienza è necessario gli irrinunciabili requisiti sono:

- la sistematicità – nel senso che una scienza è l’insieme delle conoscenze

acquisite in determinati ambiti del sapere, integrate in un complesso

strutturato ed armonico;

- la controllabilità – posto che le enunciazioni debbono poter essere

sottoposte al vaglio delle critiche logiche e al confronto con i dati della

realtà;

- la capacità teoretica – per la quale una scienza deve riunire e riassumere

molteplici osservazioni e dati sui fenomeni di cui si occupa in proposizioni

astratte unite da un nesso logico (le teorie) e intese a spiegare, in una

costruzione semplice e comprensibile, i rapporti causali, le correlazioni e

le variabili dei fatti oggetto della sua analisi;

- la capacità cumulativa – consistente nella caratteristica delle scienze di

costruire teorie in derivazione l’una dall’altra talché le più recenti

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correggono, modificano, amplificano o perfezionano le teorie prima

formulate;

- la capacità predittiva – anche se è doveroso precisare che le scienze

dell’uomo presentano grandi limiti nella possibilità di prevedere quali

saranno i futuri comportamenti sia collettivi che dei singoli individui.

L’uomo, infatti, non è mai “costretto” ad agire in un certo modo ma è

libero, sia pur in modo non totale, di scegliere la sua condotta: la quale è

influenzata, anche fortemente, dal sistema delle relazioni interpersonali,

dagli obblighi legali e dalle norme di costume, così come lo è dai fattori

sociali, economici, familiari, ma alla fine la condotta è pur sempre rimessa

alla scelta dell’individuo.

Per studiare e spiegare il comportamento criminale e deviante possono

essere utilizzati diversi approcci. L’approccio proprio della criminologia deve

essere distinto dagli altri in quanto essa utilizza il metodo scientifico nelle sue

investigazioni. Nell’uso di tale metodo i criminologi seguono determinate linee

guida; tra queste le più importanti sono l’obiettività, i dati fattuali, la precisione, la

valutazione e la verificazione.

Indubbiamente la principale qualità del metodo scientifico deve essere

l’obiettività, riferita all’abilità e volontà di studiare un qualsivoglia fenomeno

senza pregiudizi e prevenzioni. Il criminologo, perciò, deve condurre la ricerca e

trarne le conclusioni senza farsi influenzare da preconcetti e sentimenti personali;

Per massimizzare l’obiettività, lo studioso di criminologia deve, perciò,

stare in guardia dai propri «moti dell’animo» e valori di riferimento e ciò può

avvenire solo attraverso un’adeguata formazione e un prolungato addestramento

nell’approccio scientifico. In altre parole il ricercatore, deve basarsi sui dati

fattuali emersi dalla ricerca scientifica e non su speculazioni personali o su

nozioni di senso comune.

La terza linea guida prima accennata è la precisione in tutte le fasi di una

ricerca e in particolare nella raccolta e analisi di dati tanto delicati e complessi

quali sono appunto quelli relativi alla questione criminale. L’ultimo elemento di

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un corretto approccio scientifico consiste nella valutazione critica e verificazione

da parte degli altri studiosi della materia.

Di certo la criminologia è stata da molti ricompresa fra le scienze

empiriche, nel senso che sarebbe fondata solo sull’osservazione della realtà

criminosa e non sulla speculazione astratta o su presupposti teorici o su giudizi di

valore, e nel senso che i suoi dati dovrebbero avere carattere oggettivo. Ciò però

accade solo per talune delle teorie criminologiche poiché altre sono invece

fortemente influenzate dall’atteggiamento soggettivo dello studioso. Il carattere

avalutativo e neutrale della criminologia intesa come scienza sempre e solo

empirica, a lungo sostenuto nel passato è oggi assai ridimensionata. Le teorie

criminologiche non vengono più considerate come oggettive certezze anche se

rimane pur sempre alla criminologia il requisito di scienza anche emprica, ma

solo relativamente a talune delle sue acquisizioni. Un altro aspetto del suo essere

scienza empirica si manifesta con la sua qualificazione come scienza descrittiva

dei fenomeni criminosi: per questo ad essa competa la descrizione fattuale, la

classificazione e la differenziazione tassonomica dei delitti e dei loro autori. Nel

momento in cui alla descrizione si aggiunge però anche la ricerca e la

identificazione dei fattori responsabili di tali eventi, la criminologia viene ad

assumere il carattere di scienza eziologia, cioè di scienza che ricerca le cause dei

fenomeni da lei osservati.5

Aspetto empirico/descrittivo giudizi di fatto

Criminologia

Aspetto ideologico/critico giudizi di valore

Quando la criminologia costruisce le sue teorie, viene dunque ad assumere

prevalenti connotazioni di scienza eziologia: in questo senso, sottolineando

l’importanza di alcuni fattori e indicandoli come cause della criminalità, viene in

5 Ponti G.,Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.

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definitiva ad effettuare giudizi ispirati a valori e perde quindi le sue connotazioni

di scienza empirica. Ciò si verifica rinunciando al metodo induttivo in favore di

quello deduttivo, particolarmente nella costruzione di talune teorie, nelle quali è

preminente la interpretazione di taluni fatti secondo una visione ideologica o

sociale: assume in tal caso le caratteristiche di quelle scienze che si fondano su

giudizi di valore. Quando la criminologia coltiva essenzialmente l’aspetto

empirico e descrittivo dei fenomeni criminosi, è prevalente la prima caratteristica;

quando la criminologia entra nel merito di valutazioni che sono ideologiche o

etiche, quando privilegia taluni fattori sociali conferendo ad essi valore di causa

unica o prevalente della criminalità essa assume caratteri di scienza speculativa

che si fonda su giudizi di valore. Un’altra caratteristica della criminologia è quella

di essere anche una scienza applicativa. Fra le molteplici competenze del

criminologo, vi è anche quella di intervenire operativamente sui fenomeni

criminosi e sugli individui. La criminologia non può essere solo scienza empirica

e conoscitiva, ma include in sé necessariamente anche aspetti di scienza etico-

normativa poiché le sue acquisizioni, oltre che basarsi su giudizi di fatti,

contengono anche giudizi di valore.

6. Definizione di comportamento deviante e criminale

La criminologia considera il crimine come la forma più grave di

comportamento deviante

In tal modo le norme culturali o sociali definiscono il grado di stabilità e ordine

all’interno di una società e assicurano la realizzazione di numerosi valori e bisogni

fondamentali.

Di conseguenza, il comportamento deviante è quello che non si conforma alle

regole sociali, che viene meno alle aspettative di un gruppo, comunità o società,

mentre si considera come criminale il comportamento che violi le leggi penali del

contesto di riferimento. In ogni società, gruppi di soggetti dominanti istituiscono

uno spettro di procedure e tecniche allo scopo di garantire il mantenimento del

controllo sociale e della conformità a regole e leggi: ciò avviene principalmente

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per mezzo del processo di socializzazione, che consiste nell’interiorizzazione di

valori, credenze, propensioni e modelli di comportamento socialmente accettati.

Ma la conformità alle leggi e alle regole sociali si sviluppa anche grazie a

numerosi meccanismi esterni, sia informali sia formali. Più le società sono

complesse, più il controllo informale perde efficacia e viene sostituito con quello

più formale. I meccanismi di controllo formale consistono, in concreto, nel

sistema di leggi scritte, nel potere legislativo e giudiziario, nelle forze di polizia e

nel sistema penitenziario. Lo Stato, che rappresenta l’autorità più elevata,

possiede quindi il monopolio dell’uso della coercizione allo scopo di mantenere

ordine e stabilità nella società.

Secondo il paradigma funzionalista o del consenso, le regole sociali

diventano leggi quando riflettono usi e costumi culturali che godono di una

generale approvazione da parte della coscienza collettiva.

I criminologi del conflitto danno risalto all’idea che il sistema legale favorisce gli

interessi delle classi superiori e non della società nel suo complesso. Il

comportamento criminale e deviante si riscontra in tutti i gruppi sociali e in tutta

la storia dell’umanità. Il comportamento deviante si manifesta in varie forme,

dalla violazione delle regole di etichetta alla mancata diligenza nelle mansioni

lavorative e negli obblighi familiari, fino alla trasgressione delle norme penali.

Quindi, quando si parla di reato ci si riferisce a quei comportamenti che violano

specifiche norme penali, cioè «norme formali» che definiscono i comportamenti

che offendono o ledono beni tutelati dallo Stato. Nel nostro ordinamento

giuridico, come in quello di tutti gli Stati moderni, è la Costituzione (o Statuto o

Carta fondamentale) che indica le linee guida per regolare la vita sociale e

mantenere la pacifica convivenza.

La criminologia, a seconda delle correnti di pensiero, utilizza per le sue indagini

sia la definizione giuridica di reato, sia la definizione più ampia di comportamento

deviante o antisociale. Esistono alcuni comportamenti devianti molto più dannosi

socialmente di quelli sanzionati penalmente, che non vengono previsti dal codice

penale e che vi sono modelli di comportamento sociale molto simili a violazioni

della legge penale che però non sono compresi nella codificazione.

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In ogni caso va tenuto presente che il comportamento deviante in senso lato e

quello criminale in senso stretto sono relativi nel tempo e nello spazio.

Così un fatto considerato reato o deviante in un certo periodo storico può non

esserlo in un altro; allo stesso modo ciò che è considerato deviante o criminale nel

nostro Paese può non esserlo in un altro Stato. Una delle funzioni della

criminologia é appunto quella di analizzare e mettere in evidenza, da un lato, quei

comportamenti che risultino talmente offensivi e dannosi per la collettività da

necessitare di una sanzione penale, dall’altro di sollecitare una revisione de

criminalizzante di atti considerati dalla maggioranza ormai inoffensivi o al

massimo devianti.

Si può concludere che l’oggetto di studio della criminologia non si limita

al concetto formale di reato del diritto penale, ma si allarga alla vasta gamma dei

comportamenti devianti, spesso zona grigia antistante il delitto;

contemporaneamente, nello studiare dimensione, struttura e dinamica della

criminalità, non si può prescindere dal concetto penale di delitto. Esiste, perciò,

uno stretto legame tra criminologia e diritto penale.

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CAPITOLO 3

METODOLOGIA DELLA RICERCA CRIMINOLOGICA

1. Premessa

In questo capitolo vengono esaminati i metodi di ricerca per individuare la

specie e la dimensione dei reati, con particolare riferimento alla situazione

italiana. In altri termini si cercherà di approfondire alcune tematiche come le

metodologie utilizzate per la misurazione quantitativa e qualitativa della

criminalità e degli autori dei delitti, per la valutazione delle tipologie di

comportamento deviante.

Come si è già accennato, compito principale della criminologia è quello di

acquisire conoscenza e concordanza di idee sulla devianza e la criminalità,sugli

autori, sulle vittime, sui comportamenti devianti e sulla reazione sociale a essi, al

fine di costruire modelli teorici di riferimento per la politica criminale e per la

politica generale di uno Stato.

Lo scopo ultimo, perciò, è quello di fornire indicazioni per un’adeguata ed

efficace attività di controllo sociale che nelle società più complesse è sempre più

formale, cioè soprattutto normativa.6 La suddetta attività si svolge lungo due

direttrici principali; la prima consiste nella prevenzione generale, che tende a

ridurre la criminalità entro un alveo perlomeno «fisiologico» attraverso interventi

di politica sociale (lotta alla disoccupazione, all’analfabetismo, miglioramento

degli standards di vita, assistenza alle famiglie e alle categorie deboli); nella

prevenzione speciale, poi, diretta a ridurre le iniziali espressioni di

comportamento deviante soprattutto negli adolescenti (assistenza psicologica nelle

scuole e alle famiglie, creazione di centri ricreativi e sportivi nelle aree urbane,

ecc.) e a recuperare i delinquenti per mezzo di trattamenti risocializzativi dentro e

fuori dalle strutture penitenziarie. La seconda direttrice riguarda le attività di

6 www.ledizioni.com

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repressione messe in atto dal sistema della giustizia penale (potere giudiziario,

forze di polizia, ecc.).

La ricerca criminologica non si risolve in un puro esercizio speculativo,

bensì è finalizzata all’individuazione di obiettivi concreti in più campi: nel

sistema sociale in generale e nella pianificazione degli interventi sul territorio;

nella legislazione penale; nella giustizia penale e in particolare in quella minorile;

nelle attività di polizia; nel sistema penitenza

2. Il campo delle indagini criminologiche

La criminologia, già si è detto, non può avere una propria autonomia nel

delimitare il proprio ambito d’indagine perché è delimitata in questo dal diritto

positivo. Oltre che mutevoli, le definizioni del diritto positivo sono

necessariamente rigide e schematiche. Per molti studiosi il delitto si sostanzia in

una condotta che lede o mette in pericolo un bene di rilievo per la collettività, nel

senso che la sua lesione o messa in pericolo costituisce danno sociale: essa cioè

risulta intollerabile per la società stessa e non altrimenti evitabile se non

utilizzando sanzioni criminali. Il delitto non è pertanto “fatto naturale” bensì

“fatto sociale” identificato da una definizione convenzionale, necessariamente

mutevole con il mutare delle società e, pertanto, l’idea del delitto naturale risulta

inaccettabile per chi affronta il problema in una prospettiva antropologico-

culturale. Nel tentativo di definire il delitto secondo criteri di validità generale, si

è anche tentato di utilizzare il principio della antisocialità o della pericolosità

sociale. Sulla pericolosità si incentrava la politica criminale propugnata della

Scuola Positiva del diritto, intesa come una specie di innata tendenza a compiere

delitti non necessariamente connessa con l’effettualità di comportamenti

legalmente proibiti. Ma l’antisocialità e la pericolosità sono però condizioni ben

difficili da oggettivare da arte delle scienze dell’uomo ed è in definitiva un mero

giudizio di valore espresso nei confronti di taluni individui in ragione non solo di

talune loro caratteristiche somatiche e psicologiche ma in pratica molto spesso

semplicemente del loro status. Rientrerebbero pertanto tra questi esseri antisociali

anche coloro che pur non avendo commesso reati ne vengono reputati

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potenzialmente capaci: si ammette così l’esistenza di una criminalità “potenziale”

o “induttiva” svincolando il concetto di delinquente dal quello di delitto

consumato o tentato. Peraltro, si è cercato di differenziare i delitti a seconda del

criterio della maggiore o minore gravità, pensando di circoscrivere la competenza

della criminologia solo ai primi: ma secondo quale gerarchia di gravità dei reati?

E’ evidente, pertanto, che anche questo criterio non può essere accolto, essendo

contingente anche la valutazione di maggiore o minore gravità dei reati. La

“gravità del reato”, infatti, è prevista dal codice penale quale uno dei parametri per

l’applicazione discrezionale fra minimo e massimo della pena (art. 133 c. p)7 e si

tratta, quindi, di una prerogativa del giudice. In particolare, è prerogativa del

legislatore il porre il principio generale e, del giudice, l’identificare nelle singole

fattispecie la maggiore o minore rilevanza sociale del delitto, non certo del

criminologo. Piuttosto, la criminologia si occupa anche della corrispondenza (o

non corrispondenza) fra la percezione nel corpo sociale della gravità degli illeciti

penali con quella della legge, percezione valutata attraverso ricerche empiriche,

inchieste, sondaggi di opinione, che vengono comparati con la scala di gravità

emergente dalla minore o maggiore entità delle pene. In definitiva, il parametro

per delimitare i confini del campo degli interessi della criminologia può essere

solo quello della legge. La stretta dipendenza della criminologia dal diritto

positivo non va intesa però come subordinazione concettuale nei confronti della

norma: anche la norma giuridica costituisce una realtà sociale nei confronti della

quale il criminologo mantiene la propria libertà di studioso, esercita una analisi

storica, ne studia caratteri e dinamiche, evoluzioni e meccanismi. Se la

criminologia studia il delitto e il delinquente alla luce di ciò che definisce come

tali la legge penale, nello stesso tempo, quale scienza autonomia, essa non si trova

nei confronti del diritto in una posizione subordinata, ma esamina e analizza

criticamente, e in piena indipendenza, la legge medesima, le sue modalità di

applicazione e gli effetti che produce.

7 Cremonesi C., Lucchesi V.,L’avvocato nel cassetto, Mondolibri, Milano, 2003.

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3. Gli strumenti di controllo

Ogni società è retta da regole di comportamento, parte non codificate,

parte tradotte in norme legali (fra le quali quelle penali) al fine di assicurare

coesione fra i suoi membri e stabilità sociale: senza regole, infatti, qualsiasi

contesto, dl più arcaico al più evoluto, non può esistere. Questi obiettivi sono

assicurati dalla esistenza di sistemi di controllo che hanno appunto lo scopo di

assicurare la coesione e la salvaguardia di ogni dato contesto sociale.

4. Metodi e fonti delle conoscenze empiriche

E’ opinione generale che la criminologia si distingua dalle altre scienze

criminale per la sua caratteristica di scienza empirica, cioè fondata

sull’osservazione della realtà e non sulla speculazione concettuale. Ma dobbiamo

ricordare, tuttavia, che ciò è vero solo in parte perché non è pensabile una

criminologia senza il presupposto di una visione del mondo, che è anche filosofica

ed etica. Così come, reciprocamente, la criminologia non può prescindere anche

dai dati dell’osservazione empirica dei singoli individui, dell’ambiente e della

realtà sociale. Da qui, l’importanza di conoscere metodi e fondi dei dati empirici

di cui pur sempre la nostra disciplina si avvale.

Gli strumenti statistici a disposizione del criminologo sono:

1. Le statistiche di massa - servono per esaminare l’estensione dei

fenomeni e le caratteristiche più generali dei fatti criminosi (frequenza, diffusione,

distribuzione e fluttuazioni nel tempo e nei luoghi) e sono effettuate su grandi

numeri o sulla totalità dei soggetti dell’universo considerato. Non consentono,

però, l’identificazione dei fattori sociali che concorrono alla genesi del fenomeno

osservato e l’evidenziazione delle condizioni microsociali o individuali rilevanti,

in quanto privilegiano i fattori macrosociali di più generale influenzamento;

2. L’osservazione individuale – tipica della criminologia clinica,

consente invece di evidenziare circostanze particolari che la statistica non può

considerare (caratteristiche psicologiche o psicopatologiche del reo, aspetti del

suo ambiente particolare, riverberi su di esso della reazione sociale, la sua carriera

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criminale, relazioni interpersonali, ecc.). Risulta però impossibile enucleare con

questo mezzo di indagine i fattori di più generico influenzamento presenti

nell’ambiente sociale. Questo tipo di investigazione può estendersi a più soggetti

aventi una comune caratteristica delittuosa, così che dalla moltiplicazione dei

singoli casi osservati se ne possono ricavare profili psicologici e identikit

maggiormente significativi sulla tipologia di particolari delinquenti. Ricerche di

questo tipo consentono di accertare, ad esempio, le caratteristiche comuni di ladri

o truffatori professionali, serial killer, ecc.

3. Le ricerche su gruppi campione – con questo tipo di ricerche,

l’indagine viene sempre centrata su singoli individui ma estendendo l’indagine su

un numero più elevato di soggetti e utilizzando certe regole di rilevazione, se ne

possono ricavare conclusioni dotate di validità generale, così come avviene con le

statistiche sui grandi numeri. La ricerca è eseguita su un numero relativamente

ristretto di soggetti che diventa però “rappresentativa” (un campione, appunto)

dell’intera popolazione.

4. Le indagini sul campo – Quando si vogliono studiare le

caratteristiche criminali di certi ambienti o gruppi, gli orientamenti particolari di

certe sottoculture, le interazioni che esistono fra i loro appartenenti, può essere

utile che il ricercatore si inserisca materialmente per un periodo di tempo.

5. Le ricerche settoriali – sono condotte, senza che il ricercatore si

inserisca personalmente nel campo indagato, su altri ambienti particolarmente

significativi (carcere, istituti per misure di sicurezza, ambienti dei tossicomani,

ecc.) per indagare su dati e situazioni non altrimenti conoscibili.

6. Interviste a testimoni privilegiati - Si eseguono inchieste su

persone che, per la loro veste professionale (assistenti sociali, psicologi, psichiatri,

insegnanti, ecc.) hanno conoscenze vissute ed esperienze professionali

particolarmente preziose.

Tutti questi tipi di indagine vengono eseguite con la tecnica delle interviste

dirette e con questionari, così da poter valutare le percezioni e le opinioni nei

confronti di vari problemi attinenti alla criminalità. Quando si vogliono analizzare

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gli effetti di taluni trattamenti risocializzativi, le conseguenze di certi interventi o

la validità di talune innovazioni penali, si utilizzano le ricerche operative, che

consistono nel controllare i loro effetti comparando una campione di soggetti che

ne hanno beneficiato con altri che non ne hanno fruito. In tal senso, queste

possono essere definite ricerche sperimentali.

Ci sono poi le indagini anamnestiche che esaminano i risultati a distanza

di tempo di taluni interventi per valutarne l’efficacia.

Sono da ricordare anche gli studi predittivi, utilizzati per trovare indicatori

che consentono di prevedere il futuro comportamento sulla scorta di certi

parametri e le ricerche storiche, che offrono un’ampia gamma di studi, per

esempio sulla fenomenologia criminosa, sulle pene e sui sistemi carcerari di

epoche passate.

5. Il numero oscuro

Una importante limitazione di ogni indagine effettuata in ambito

criminologico è legata al fatto che i dati utilizzati, qual che sia la metodologia

impiegata, sono relativi ai reati denunciati dalla polizia o dai privati alla

magistratura, ai procedimenti penali istruiti, alle sentenze di condanna, alle

popolazioni delle carceri e, comunque, ai dati relativi ai criminali o crimini

identificati. Così, la visione della realtà criminosa risulta gravemente deformata

ove essa fosse riferita solo ai dati ufficiali senza prendere in considerazione anche

quelli relativi alla criminalità sconosciuta. A ciò fanno riferimento

sostanzialmente gli studi sul numero oscuro (dark number).8 L’indice di

occultamento (cioè il rapporto reati noti e reati commessi) varia in modo

considerevole per le differenti specie di delitti: il numero degli omicidi volontari

commessi è molto vicino a quello noto; le truffe, invece, quelle note sono

notevolmente inferiori a quelle attuate dato che non tutte le vittime denunciano il

reato subito. Al numero oscuro relativo al mancato accertamento dei reati, si

aggiunge poi – a dilatare ancora di più la zona d’ombra – il problema della non

8 Compendio di criminologia, ed. Simone, Napoli, 2004.

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identificazione dell’autore dei reati pur accertati. Il numero oscuro non è dunque

da riferirsi solo ai fatti delittuosi che rimangono del tutto ignorati e che non

mettono nemmeno in moto le strutture deputate alla loro repressione e punizione,

ma ricomprende anche quei delitti ufficialmente noti e dei quali non si è scoperto

l’autore.

a – L’atteggiamento della vittima e qualità del reato

E’ da considerare che non tutti i delitti vengono denunziati dalle vittime (o dai

testimoni) e non tutti vengono perciò a conoscenza delle autorità: anche

l’atteggiamento della vittima, dunque, gioca un ruolo determinante sul numero

oscuro.

b – L’atteggiamento degli organi istituzionali

Gli organi di polizia e la magistratura inquirente hanno, per loro finalità, non solo

il compito di identificare gli autori dei fatti denunziati o comunque conosciuti, ma

anche quello di prendere l’iniziativa andando a ricercare fatti delittuosi non ancora

divenuti noti. Nella realtà, le iniziative di indagine si rivolgono invece in modo

selettivo verso certi settori di delittuosità piuttosto che verso altri.

c – La qualità dell’autore del reato

Interferisce sull’entità del numero oscuro anche la qualità dell’autore del reato: a

parità di condotta delittuosa, per esempio, l’autore di un piccolo furto non verrà

denunciato qualora si tratti di un ragazzo di buona famiglia e questo perché

intervengono pressioni oppure considerazioni di opportunità che possono favorire

maggior tolleranza nei suoi confronti.

6. Statistiche di massa

Le statistiche di massa consentono la raccolta, l’analisi matematica e

l’interpretazione di dati quantitativi, inclusa la determinazione di correlazione fra

vari dati. Poiché raccolgono, di un fatto osservato, tutti i casi che si sono

verificati, o un numero molto grande di essi, la veridicità dei dati di statistiche di

questo tipo è molto elevata. Può utilizzarsi questo genere di indagine per avere

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statistiche trasversali (es.: caratteristiche della criminalità in un dato momento)

ovvero statistiche longitudinali o dinamiche (modificazioni da un momento

all’altro o nello sviluppo diacronico di un fenomeno). Questi dati possono poi

essere elaborati in funzione di numerose variabili: età, sesso, tipo di reato, tipo di

sanzione, condizioni economiche degli autori, professione, regione di nascita e di

residenza, scolarità, religione, razza, nazionalità, condizione familiare e molti

altri.

La statistica criminale è soggetta a errori non solo relativi all’interpretazione dei

dati ma anche per quanto concerne la loro validità come, da esempio, per quelli

che derivano dalla imprecisione o dalla non attendibilità delle fonti.

7. Inchieste su gruppi campione

Le indagini campionarie sono quelle che consentono di ricercare talune

caratteristiche su di un gruppo ristretto di persone, scelte però in modo tale da

rappresentare la totalità di una popolazione, così da essere un campione veramente

rappresentativo di essa. Affinché il gruppo campione sia rappresentativo, è

necessario che, a seconda del tipo di indagine, esso contenga, in misura

proporzionale a quella esistente nella realtà, certe percentuali dei differenti tipi di

soggetti che esistono nella popolazione. Le inchieste campionarie sono dotate di

un indubbio potere chiarificatore e hanno consentito alla moderna criminologia di

acquisire conoscenze fondamentali.

8. Le osservazioni individuali

Con i metodi individuali di indagine, si studiano singoli criminali o, al più,

piccoli gruppi in quanto esse attengono, in generale, allo studio della personalità,

intesa come unità psico-organica, e dei fattori microsociali agenti a più immediato

contatto del singolo. Queste indagini possono essere indirizzate verso lo studio del

caso, eseguito con investigazione minuziosa e approfondita. Vengono così

sviscerati, relativamente ad un singolo caso, tutti gli aspetti relativi alla famiglia,

al passato, alle caratteristiche ambientali, mediche, psicologiche, ecc. Talune

indagini individuali particolarmente dettagliate e approfondite possono assumere

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il carattere di storia di vita descrivendo tipi particolari ed emblematici di carriere

criminali, illuminando su fattori di peculiare importanza (es. difetti di

socializzazione o influenza di determinate vicende o ambienti sociali nel destino

di una persona) e mettendo in evidenza, con il circostanziato racconto biografico,

il riscontro e l’esemplificazione delle teorie criminologiche nel caso concreto. Le

indagini individuali hanno consentito così di enucleare fattori assai significativi

della condotta deviante e criminale: frequenza delle anomalie della personalità,

fattori familiari disturbanti, condizioni di frustrazione, ecc.

9. Questionari ed interviste

Fra i metodi di indagine utilizzati in criminologia si debbono citare anche i

questionari e le interviste che vengono ampiamente utilizzati negli ambiti più

diversi per effettuare sondaggi di opinione, conoscere preferenze, scelte, gusti ed

abitudini. Nello specifico della ricerca criminologia, questi vengono utilizzati per

rilevare atteggiamenti e reazioni nei confronti dei fenomeni criminali, il maggiore

o minore sentimento d’insicurezza dovuto alla criminalità da strada, le richieste e i

provvedimenti auspicati da parte delle autorità competenti.

I questionari non sono altro che “interviste strutturate” consistono in un insieme

di domande uniformi e rigidamente predefinite, volte in genere a indagare temi

precisi e circoscritti, che vengono sottoposte a gruppi campione molto estesi.

Esistono poi altri tipi di interviste nelle quali le domande non sono predisposte in

maniera altrettanto rigida, e perciò all’esaminatore viene lasciata maggiore libertà

di interloquire con il soggetto: esse possono distinguersi in “semistrutturate” o

“libere”, a seconda del maggiore o minore grado di flessibilità.

Tra le finalità di questi metodi di indagine vi è anche quella di conoscere meglio

l’identità e qualità dei delitti commessi: utilizzando queste interviste e questionari

è stato possibile, ad esempio, aprire qualche spiraglio nella conoscenza della

criminalità nascosta.

Le inchieste confidenziali, ad esempio, sono state utilizzate per interrogare

con questionari campioni di popolazione, chiedendo agli intervistati se avessero

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mai commesso reati. Tali inchieste vengono eseguite in condizioni di massima

discrezione ed offrendo garanzie di assoluto anonimato. Altre ricerche, sempre

effettuate mediante la tecnica delle inchieste confidenziali, sono state svolte per

identificare quelle vittime che non avevano denunciato i torti subiti (inchieste

vittimologiche): attraverso indagini su gruppi campione e chiedendo agli

intervistati quali e quanti reati avevano subito in un certo periodo, è emersa la

conferma che i reati commessi sono ben più numerosi di quelli ufficialmente noti.

Agli stessi risultati hanno condotto le inchieste tra persone che, per il ruolo e

l’attività svolti hanno maggiore possibilità di venire a conoscenza di fatti

delittuosi (inchieste tra testimoni privilegiati).

10. Indagini predittive

La predizione di futuro comportamento delittuoso rappresenta uno degli

obiettivi della criminologia.

La predizione criminosa viene di regola effettuata secondo criteri induttivi, cioè

secondo esperienza e comune buon senso. Utilizzando una diversa metodologia,

fondamentalmente viene utilizzato un criterio statistico, che ha in sé

inevitabilmente tutte le incognite connesse al trasferimento sul singolo caso di

medie statistiche.

La predizione del comportamento è uno dei compiti più impegnativi, nonostante

le sue conoscenze specifiche, che il criminologo incontra.

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CAPITOLO 4

LO SVILUPPO DEL PENSIERO CRIMINOLOGICO

1. Ideologie e criminologia

La criminologia nasce come scienza solamente nel 1800 quando, per la

prima volta, viene affrontato in modo empirico e sistematico lo studio dei

fenomeni delittuosi, che in precedenza, venivano considerati secondo una

prospettiva essenzialmente morale e solo secondariamente giuridica. In questa

prospettiva storica, è comunque da sottolineare il fatto che riandando fino ai tempi

più remoti della nostra evoluzione culturale, si constata che da sempre la norma

(sia essa legale o morale) rappresenta il fondamentale parametro regolatore della

condotta degli uomini: il definire quindi taluni comportamento come “autorizzati”

ed altri “proibiti” è dunque una esclusiva caratteristica dell’uomo. La netta

differenziazione fra illecito morale e illecito giuridico avverrà solo in tempi a noi

vicini e sarà frutto del pensiero illuministico. Questo approccio storico può essere

affrontato secondo una triplice prospettiva:9

1) una prospettiva esplicativa perché si delinque?

2) una prospettiva operativa come punire?

3) una prospettiva finalistica a qual fine punire?

Vediamole in particolare.

1) prospettiva esplicativa – secondo questa prospettiva, oggi si risponde alla

domanda “perché si delinque?”; per lunghi secoli, invece, questa domanda era

“perché si pecca?”. Le risposte in proposito sono state molte: per ribellione al

comandamento divino, cioè, in altri termini, al mai risolto conflitto tra Bene e

Male. Un simile approccio pone subito la questione mai risolta della

predeterminazione, ovvero della libertà di peccare: questo dibattito ancora

oggi è aperto tra le correnti di pensiero deterministiche, che ritengono l’uomo

9 Banditi T.,Criminologia:il contributo della ricerca alla conoscenza dl crimine e della reazione sociale, Giuffrè, Milano, 1991.

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totalmente condizionato nell’azione da forze a lui esterne (cultura, società,

pressioni ambientali di ogni tipo, fattori psicologici, ecc.) e quelle che

ritengono invece l’uomo comunque libero, cioè dotato della capacità di

scegliere il male (i comportamenti proibiti dalle norme) ovvero il bene (i

comportamenti autorizzati). Solo in tempi a noi più vicini, con il rafforzarsi

dell’autorità dello stato, si sono andati lentamente differenziando il delitto –

inteso come infrazione ai divieti terreni – dal peccato – quale inosservanza

della morale (cioè dei precetti divini).

2) Prospettiva operativa – se ci chiediamo, invece, “come punire”, è ben nota la

predilezione, nei tempi passati, per la pena capitale quale sanzione elettiva,

applicata per infrazioni ai nostri occhi anche di ben modesta gravità anche se

le pene corporali, le fustigazioni, la lapidazione, i tormenti, le mutilazioni, ed

altre atrocità non erano disdegnate. Solo ai nostri giorni la pena fondamentale

è diventata la perdita della libertà mediante la carcerazione.

3) Prospettiva finalistica – se vogliamo invece mettere in evidenza la domanda

“qual è lo scopo della pena?” dobbiamo fare alcune considerazioni. E’ da

sottolineare innanzitutto come, in ogni tempo, non si è mai rinunciato al

principio sanzionatorio non solo come strumento di controllo sociale ma

anche al fine di appagare in ognuno il sentimento e il bisogno di giustizia.

Pena significa, appunto, infliggere sofferenza per fa pagare il male commesso.

Nel passato la finalità della pena fu quella della vendetta, con l’infliggere un

male al colpevole direttamente da chi ha subito il torto in compenso del male

subito. Per secoli, infatti, la vendetta non fu solo la motivazione principale

della pena ma un preciso diritto della vittima o dei suoi familiari. Le origini

del diritto penale si possono far risalire allora proprio nel momento in cui lo

stato limita e regolamenta la vendetta, ponendo delle norme legali per stabilire

come e in quali casi essa poteva essere legittimamente esercitata. La moderna

finalità retributiva era, all’epoca illuministica, ancora da venire mentre la

finalità intimidativa fu sempre insita nella pena, ed essa costituiva nel passato

anche l’unica modalità di prevenzione che veniva per lo più attuata con la

pubblicità della punizione da eseguirsi sulle pubbliche piazze dinanzi a tutto il

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popolo. La segretezza del giudizio, quale vigeva un tempo, è stata sostituita

dalla attuale pubblicità del processo. La funzione pedagogica e di emenda

morale, caratteristica del 1800, e la funzione risocializzativa/riabilitativa del

‘900, non erano presenti nella cultura preilluministica ma può intravedersene

una anticipazione nei teologi della Scolastica per i quali la pena aveva un

carattere medicinale per il reo, che espiava la sua colpa davanti a Dio. E’ da

mettere ben in evidenza, ancora oggi, fra le finalità della pena, il suo

contenuto satisfattorio: la necessità di dare soddisfazione al bisogno di

giustizia, vedendo unito il colpevole, anche se oggi misconosciuto o

sottaciuto, è un contenuto sempre vissuto da tutti gli uomini come

irrinunciabile.

2. L’Illuminismo e l’ideologia penale liberale

Il pensiero penalistico moderno nasce con l’Illuminismo. Nell’ancien

regime, infatti, tanto il diritto che la procedura quanto l’esecuzione delle pene,

erano incentrati sull’autoritarismo dispotico della monarchia assoluta e sui

privilegi dell’aristocrazia nobiliare ed ecclesiastica. Anche l’esercizio della

giustizia era arbitrario tanto quanto la struttura sociale. Il delinquente era

percepito alla stregua di un malvagio attentatore dell’autorità del sovrano, la cui

persona si identificava con lo stato. L’esecuzione della punizione era dunque

pubblica affinché tutti potessero vedere ciò che comportava l’aver sfidato

l’autorità. E’ in questa situazione che le idee dell’Illuminismo cominciano a farsi

strada con l’obiettivo di rischiarare la mente degli uomini dalle tenebre del

dispotismo, dell’ignoranza, della superstizione religiosa, attraverso la scienza e la

conoscenza.

La necessità di una nuova struttura giuridico-normativa del diritto pubblico, che

desse corpo ai principi dell’Illuminismo e che ponesse le basi di un nuovo diritto,

trovò in Cesare Beccaria (1738-1794) il suo più famoso sostenitore e divulgatore,

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che segna l’inizio di una nuova filosofia della pena e che fra l’altro sarà anche

anticipatorio dei futuri approcci criminologici.10

Gli aspetti fondamentali della concezione liberale del diritto, possono

essere così riassunti:

o separazione fra morale religiosa ed etica pubblica - la funzione della pena

è quella di rispondere alle esigenze di una determinata società anziché ai

principi morali;

o presunzione di innocenza – il diritto deve garantire la difesa dell’imputato

contro gli arbitri dell’autorità;

o i codici devono essere scritti ed i reati espressamente previsti;

o la pena deve avere un significato retributivo anziché unicamente

intimidatorio e vendicativo;

o la pena deve colpire il delinquente unicamente per quanto di illecito ha

commesso e non in funzione di quello che egli è o ciò che può diventare;

o il criminale non è un peccatore ma un individuo dotato di libero arbitrio,

pienamente responsabile, che ha effettuato scelte delittuose delle quali

deve rispondere nel modo stabilito dalla legge.

3. La Scuola Classica del diritto penale

In Italia, i nuovi principi si sono articolati in una summa dottrinale che

prese il nome di Scuola Classica del diritto penale che, per quasi un secolo, ha

caratterizzato il pensiero penalistico in tutta l’Europa.

La Scuola Classica, movendo dal postulato del libero arbitrio che intendeva

l’uomo assolutamente libero nella scelta delle proprie azioni, poneva a

fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto quale

rimproverabilità per il male commesso e, conseguentemente, la concezione etico-

retributiva della pena.

10 Ponti G.,Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.

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Essa si incentrava su tre principi fondamentali:

1) la volontà colpevole – il delinquente è percepito perciò come persona del

tutto libera senza tener conto, nella criminogenesi, dei condizionamenti

ambientali e sociali;

2) l’imputabilità – per aversi volontà colpevole occorre che il reo sia capace

di intendere il disvalore etico e sociale delle proprie azioni (da cui deriva il

presupposto della capacità di intendere e di volere, quale requisito

necessario per essere sottoposto al giudizio e alla pena);

3) il significato di retribuzione della pena – per il male compiuto che, come

tale, doveva essere: affittiva, proporzionata, determinata e inderogabile

I principi fondamentali della Scuola Classica costituiscono la base di un sistema

normativo che ancora oggi mantiene piena validità:

1) il principio della legalità – nessuna azione può essere punita se non

esplicitamente prevista dalla legge come reato;

2) il principio della non punibilità per analogia – non si può punire un

comportamento non espressamente previsto come fatto illecito

assimilandolo ad altri reati o perché potenzialmente foriero di futuri delitti;

3) il principio garantistico – con le norme a salvaguardia del diritto di difesa

e della presunzione di innocenza;

4) il principio di certezza del diritto – che mette al bando ogni discrezionalità

nell’irrogazione delle pene e che comporta la loro eguaglianza per tutti

coloro che hanno commesso il medesimo delitto.

4. Il determinismo sociale: la società come causa del delitto

I primi studi statistici sul crimine misero in crisi quel concetto di libero

arbitrio del reo che aveva caratterizzato l’ideologia liberale dal momento, che era

ora possibile statisticamente prevedere il numero e i tipi di delitti che sarebbero

stati consumati nella società. Questo nuovo approccio faceva comunque intendere

che il comportamento criminoso non era più esclusivamente riconducibile alla

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sola volontà del singolo, ma che su di lui agivano anche fattori legati alla società:

esistendo cioè certe circostanze nella società, il delitto doveva inevitabilmente

realizzarsi. Secondo gli studiosi che seguivano questo orientamento, nella società

erano insite delle cause per le quali le azioni dei delinquenti venivano ad essere

necessariamente e fatalmente condizionate in senso delittuoso. Nasce così, con il

primo approccio sociologico della criminologia, la visione deterministica della

condotta criminosa.

Nella prospettiva sociologica, la visione deterministica del crimine consisteva nel

convincimento che solo, o prevalentemente, nel contesto della società dovevano

ritrovarsi i fattori determinanti la condotta criminale e ciò comportava in

definitiva l’assenza di responsabilità morale dell’individuo, governato com’era da

leggi e fattori che prescindevano dalla sua volontà. Andava così prendendo corpo

un determinismo sociale che doveva trovare il suo equivalente contrapposto nel

determinismo biologico di marca lombrosiana.

5. Il determinismo biologico e la criminologia dell’individuo: Cesare

Lombroso

Sempre nel XIX secolo, che vide l’inizio del filone sociologico della

criminologia, Cesare Lombroso (1835-1909) rappresenta il pioniere del nuovo

indirizzo individualistico della criminologia, secondo il quale lo studio del reato

doveva polarizzarsi principalmente sulla personalità del delinquente, fino ad

allora del tutto trascurata.11

Lombroso indirizzò i suoi numerosi studi sulla persona del delinquente e sulle sue

componenti morbose ritenute responsabili della sua condotta: ciò ha rappresentato

una svolta importante nei confronti dell’astrattismo di una concezione solo legale

o morale o sociale del delitto, fino ad allora dominanti. Gli va il merito di aver per

primo impiegato i metodi della ricerca biologica per lo studio del singolo autore

del reato, di aver fatto convergere l’interesse delle scienze penalistiche sulla

personalità del delinquente (prima unicamente rivolto all’entità di diritto costituita

11 www.sociologia.uniroma.it

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dal reato), di aver stimolato una larga massa di indagini sui problemi della

criminalità e di aver dato avvio a un indirizzo organico e sistematico nello studio

della delinquenza (Scuola di Antropologia Criminale), cosicché la criminologia

come scienza ebbe modo di imporsi come nuovo filone della cultura.

⇒ La teoria del delinquente nato – è la più nota delle sue teorie e sostiene

che un’alta percentuale dei più incalliti criminali possiederebbe disposizioni

congenite che, indipendentemente dalle condizioni ambientali, li renderebbe

inevitabilmente antisociali: particolari caratteristiche anatomiche, fisiologiche e

psicologiche si accompagnavano secondo il Lombroso a tali disposizioni e ne

consentivano l’identificazione. Importanti erano anche, tra le cause di innata

tendenza al delitto,l’epilessia e ad altre patologie generali.

⇒ La teoria dell’atavismo – tentava di interpretare la condotta criminosa del

delinquente nato come una forma di regressione o di fissazione a livelli

primordiali dello sviluppo dell’uomo; il delinquente era dunque un individuo

primitivo, una sorta di selvaggio ipoevoluto nel quale la scarica degli istinti e delle

pulsioni aggressive si realizzava nel delitto senza inibizioni.

Lombroso riconobbe poi anche un gran numero di delinquenti occasionali,

non dissimili per la loro costituzione dagli uomini normali, e nei quali

assumevano rilevanza, nel condizionare la loro condotta, l’ambiente e le

circostanze. I fattori individuali innati e predisponesti al delitto mantenevano

comunque un significato di privilegio: la loro primarietà fra le cause e

l’ineluttabilità con cui essi condurrebbero allo sbocco criminoso configurano

quella componente di determinismo biologico che è un carattere saliente del

pensiero lombrosiano.

Il delitto rappresentava dunque nella visione lombrosiana un evento strettamente

legato a qualcosa di “patologico” o di ancestrale che alcuni uomini presentavano

come loro specifica caratteristica. Il reato e le anomalia della condotta vengono

così visti come se fossero solo una malattia da combattere e da neutralizzare

individualmente, in un approccio che risulta essere decolpevolizzante nei riguardi

della società e del reo e che libera da ogni responsabilità collettiva e individuale

nei confronti del fatto delittuoso.

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6. La Scuola Positiva

Le teorie lombrosiane sul delitto hanno costituito la base di un nuovo

orientamento giuridico e criminologico, che si ispirava al pensiero positivistico

allora imperante secondo il quale i dati dell’osservazione empirica dovevano

costituire l’unico punto di partenza per interpretare i fatti delittuosi e per proporne

i rimedi.

Unitamente a Cesare Lombroso, i penalisti Enrico Ferri (1856-1929) e Raffaele

Garofalo (1852-1934) furono i teorici e i divulgatori dei principi di quella che si

sarebbe appunto chiamata la Scuola Positiva di diritto penale.

La Scuola positiva si incentrava sui seguenti postulati:

1) il delinquente è un individuo anormale;

2) il delitto è la risultante di un triplice ordine di fattori antropologici,

psichici e sociali;

3) la delinquenza non è la conseguenza di scelte individuali ma è

condizionata da tali fattori;

4) la sanzione penale non deve avere finalità punitive ma deve mirare alla

neutralizzazione e possibilmente alla rieducazione del criminale e deve

pertanto essere individualizzata in funzione della personalità del

delinquente.

I principi della Scuola Positiva si tradussero in un vero e proprio programma di

politica penale, per il quale, accertata l’attribuibilità del fatto al singolo autore,

una misura di difesa sociale doveva sostituire la pena. Cardine dunque di ogni

misura penale era la pericolosità sociale del criminale, sia attuale, dimostrata dalla

condotta delittuosi, sia potenziale, insita nella sua personalità.

Assai rilevanti sono state le influenze che la Scuola Positiva ha avuto sia sulla

criminologia che sulla evoluzione del diritto penale: essa polarizzò l’interesse

sulla personalità del criminale piuttosto che sul fatto delittuoso, promuovendo la

ricerca e lo studio sulle cause individuali della criminalità. Inoltre, l’approccio con

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metodologie scientifiche segnò l’inizio delle prime vere scuole criminologiche, sia

di indirizzo individualistico che sociologico.

L’influenza del pensiero positivistico ha portato comunque all’introduzione, in

molti sistemi giuridici, del principio secondo il quale andava tenuto conto,

nell’irrogare misure penali, oltre che della gravità del reato, anche della

potenzialità criminale del reo.

Ciò si è realizzato secondo due indirizzi:

1) con il sistema del “doppio binario” (Germania e Italia a partire dagli anni

’30) – secondo il quale a fianco delle pene tradizionali, commisurate alla

gravità del reato, venivano disposte anche misure di sicurezza per i

delinquenti ritenuti socialmente pericolosi (malati di mente, plurirecidivi,

soggetti particolarmente aggressivi, delinquenti abituali e professionali)

che si aggiungevano alla pena detentiva. Tali misure erano indeterminate

nel tempo e destinate a durare fino a quando non veniva a cessare la

pericolosità;

2) con il sistema della pena a “tempo indeterminato” (USA e paesi

scandinavi) – secondo il quale la durata effettiva della pena non era

preventivamente stabilita dal giudice secondo la gravità del reato ma

dipendeva dalle prospettive di successo del reinserimento sociale, in virtù

del buon esito del trattamento risocializzativo.

7. Integrazione fra approccio sociologico e antropologico

Fino dalle sue origini la criminologia si è andata sviluppando secondo due

filoni: quello sociologico e quello incentrato sull’individuo (antropologico) sorto

con la scuola lombrosiana. Questi due indirizzi si sono affiancati a lungo, spesso

proponendosi in una visione contrapposta nella interpretazione dei fatti criminosi.

Per l’approccio sociologico, lo scopo principale della criminologia avrebbe

dovuto essere quello di spiegare la delinquenza ricercandone le cause nella società

stessa; per il filone antropologico, la criminologia avrebbe dovuto invece ricercare

che cosa vi fosse di anormale o di diverso nei delinquenti che favorisce o

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determina il loro divenire criminali. La semplicistica attribuzione delle

responsabilità del delinquere alla società, così come all’opposto alle anomalie del

singolo soggetto, comporta che in ogni caso nessuno abbia né merito né demerito

per le proprie azioni, e impedisce che la collettività possa chiedere a ciascuno di

render conto della propria condotta. Solo dunque una visione integrata che tenga

conto sia dei fattori sociali (cioè degli squilibri, delle carenze e delle ingiustizie

dell’organizzazione collettiva) sia, contestualmente, del diverso modo (variabile

da individuo ad individuo) di rispondere ai fattori ambientali sfavorenti e di

effettuare le proprie scelte, può consentire una valutazione serena della condotta

criminale e suggerire quegli interventi sociali e individuali idonei a contenere il

suo continuo incremento.

8. Gli sviluppi dell’indirizzo individualistico e la criminologia clinica

(anni ’50)

Un punto di riferimento importante nello storico sviluppo della

criminologia è rappresentato dalla fine della seconda guerra mondiale. A partire

dagli anni ’50, la criminologia, non solo continua a svilupparsi secondo i due

filoni di base - antropologico e sociologico – ma si bipartirà ulteriormente

secondo i due filoni ideologici che si erano imposti in quegli anni nella politica

così come nella cultura: si è avuta così una criminologia di sinistra, di ispirazione

marxista, incentrata sulla critica della società capitalista ritenuta matrice

fondamentale della criminalità ed una criminologia di destra, ideologicamente

vicina alla socialdemocrazia, che analizzerà le relazioni fra la classe sociale e la

criminalità rimanendo pur sempre sintonica con i valori di democrazia e di libertà

dei paesi occidentali.

Le teorie individualistiche trovarono il loro momento di confluenza

operativa in quella che prese il nome di criminologia clinica. Uno dei primi cultori

è stato Benigno di Tullio (1896-1979) al quale va anche il merito di aver

mantenuto vivi gli interessi criminologici in Italia anche durante il fascismo.

La criminologia clinica venne concepita come disciplina volta allo studio non

tanto dei fenomeni generali della delinquenza ma del singolo delinquente a fini

diagnostici, prognostici e terapeutici, cioè di trattamento individualizzato per

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finalità risocializzativa. Parallelamente, lo studio clinico di un elevato numero di

soggetti avrebbe permesso la elaborazione di nozioni e concetti di carattere

generale, così da costruire un sapere che, in chiave eziologia, identificasse le

cause individuali (e anche microsociali) responsabili della commissione del reato.

L’opera di Di Tullio è stata poi importantissima in quanto ha realizzato una stretta

collaborazione tra diritto penale e criminologia. Se, infatti, la giustizia penale

mantiene una funzione principale nel meccanismo di lotta alla criminalità, alla

criminologia clinica spetta il compito di attuare la prevenzione speciale, attraverso

l’osservazione scientifica del reo. Infatti, se si vuole applicare il criterio della

individualizzazione della pena è imprescindibile la conoscenza in senso biologico,

psicologico e sociale della personalità del singolo delinquente. 12

9. Il Nuovo Realismo

Nella seconda metà degli anni ’80, gli stessi autori di ispirazione marxista

che in Gran Bretagna erano stati i promotori della New Deviance Conference e

della criminologia critica, pur sempre rimanendo su posizioni di sinistra, diedero

avvio alla scuola del Nuovo Realismo.

L’impostazione viene completamente capovolta dal punto di vista metodologico e

da quello dei contenuti: da una riflessione esclusivamente ideologica e teorica e di

fronte alle esasperazioni di un approccio che vedeva solo nelle sperequazioni

sociali la causa della criminalità e che intendeva il deviante esclusivamente come

vittima, questi autori rivolgono la loro attenzione all’osservazione empirica,

particolarmente riguardo ai reati da strada (street crimes) che avvengono nei

quartieri popolari delle metropoli scoprendo così che la delinquenza, studiata in

precedenza in una prospettiva tutto sommato astratta, è invece una realtà di fatto. I

Nuovi Realisti, scoprono l’elevata vittimizzazione e la richiesta di protezione

propria dei meno abbienti e dei più indifesi, di conseguenza, propongono ora

programmi sociali miranti a ridurre la marginalizzazione, a offrire alternative alla

12 www.criminologia.org

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carcerazione, a promuovere esperimenti di riconciliazione tra reo e vittima. La

prevenzione, prima rifiutata, diviene ora un obiettivo primario.

10. Neo-classicismo e abolizionismo

Sempre negli anni ’80, dopo la fine della criminologia tutta incentrata sulla

ideologia politica di sinistra, hanno preso le mosse altri due filoni di pensiero

come conseguenza di due differenti e in un certo senso opposte ragioni:

1. l’abolizionismo – che distinguiamo in:

a. abolizionismo carcerario – come estrema espressione della critica

alla carcerazione, ritenuta inefficace quale strumento per

combattere la criminalità. E’ un movimento che prende le mosse

contro l’identificazione della sanzione penale esclusivamente con

la reclusione in carcere. Esso, però, finisce per massificare tutti i

criminali secondo una unica prospettiva astratta, vittimistica e

indulgenzialistica, senza tener conto cioè della estrema

differenziazione con cui, viceversa, il criminologo e l’operatore

giudiziario si trovano a confrontarsi. L’istituto della carcerazione, è

stato dunque sottoposto a una critica serrata che però non può

giustificare le posizioni di globale abolizionismo: queste

rispecchiano il rifiuto di infliggere sofferenza ma non tengono

conto, dinanzi ai crimini socialmente più pericolosi, dell’esigenza

universalmente sentita di adeguata retribuzione e di tutela pubblica

e della insostituibilità del carcere quale strumento, per taluni

crimini, di difesa sociale.

Corretto appare invece lo sforzo, ispirato dal principio riduttivistico,

di trovare sanzioni idonee a sostituire il carcere con altri strumenti di

punizione meno dolorosi per il reo e meno costosi per l’economia

pubblica.

b. Abolizionismo penale – il più noto esponente di questa corrente di

pensiero è il norvegese Christie che, propugna la soppressione non

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solo del carcere ma di ogni tipo di pena e, conseguentemente,

dell’intero sistema della giustizia penale. Le correnti abolizionisti

che si sono ispirate a Christie esordiscono col ritenere l’inutilità di

tale sistema, negandone la deterrenza e qualsiasi altra finalità

positiva. L’abolizionismo penale, oltre che di impossibile

realizzazione, comporta rischi di iniquità e aumento di sofferenze

per le vittime mentre del tutto inadeguate appaiono le soluzioni

alternative proposte dallo stesso autore della risoluzione in chiave

privatistico-risarcitoria fra autore e vittima del comportamento

delittuoso e del controllo disciplinare esercitato dalle comunità in

quanto, tra l’altro, rimarrebbero del tutto insoddisfatte le domande

su cosa succederebbe quando il patteggiamento fra le parti non

fosse possibile o non fosse voluto, quando non vi è vittima o

quando il delitto è troppo grave.

2. il neo-classicismo – è sorto quale reazione al fallimento della politica

penale incentrata sul trattamento risocializzativo. L’ideologia del trattamento è

stata messa in crisi da diversi fattori:

a. l’ingente impegno finanziario legato alle molteplici agenzie di

trattamento non corrispondeva una sensibile diminuzione della

delinquenza e delle recidive; anzi, con il passare degli anni, la

delinquenza è aumentata;

b. la presa di coscienza, da parte degli stessi fautori e degli operatori

del trattamento, dell’impossibilità che non con tutti i soggetti si

potessero conseguire risultati soddisfacenti mediante le tecniche di

trattamento criminologico;

c. è stato rimesso in discussione l’obiettivo stesso della

risocializzzione in quanto si affermò l’idea che essa servisse solo a

creare cittadini più ossequienti, a discapito della loro libertà di

autodeterminarsi e di opporsi consapevolmente al sistema politico

vigente.

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Così, come conseguenza di queste critiche, si è andato articolando il filone di

pensiero penalistico e criminologico inteso a rivalutare i principi retribuzionistici

della Scuola Classica del diritto, le garanzie processuali, la certezza della pena,

secondo un modello chiamato appunto neo-classicismo o neo-retributivismo. In

luogo della pena indeterminata, ha avuto incentivazione il sistema della

incapacitazione selettiva, fondato sulla difesa sociale e sulla mera deterrenza e

mirante ad aggravare le sanzioni nei confronti dei delinquenti recidivi e più

pericolosi.

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CAPITOLO 5

TEORIE SOCIOLOGICHE E CRIMINALITA’

1. Premessa

Nella prima metà del ‘900, mentre in Europa venivano maggiormente

coltivati gli indirizzi individualistici, si sviluppa ampiamente negli USA la

sociologia criminale, che diverrà per un lungo periodo il filone più rigoglioso

della criminologia.

Vediamo in particolare le teorie maggiormente significative.

2. La teoria ecologica o delle aree criminali

La Scuola di Ghicago, fu la prima scuola criminologica specificamente

coltivata da sociologi. Questi sociologi indicarono con il termine di aree criminali

quelle zone delle città dalle quali proviene e risiede la maggior parte della

criminalità comune. Secondo queste teorie, in ogni grande agglomerato urbano

possono identificarsi zone con particolari caratteristiche ambientali (da qui il

nome di “teoria ecologica”), nelle quali gli abitanti che hanno avuto a che fare con

la legge si trovano in concentrazione molto più elevata che in altre. Questi

quartieri rappresentano poi un significativo polo di attrazione per coloro che

cercano un ambiente più permissivo e più adeguato al proprio status di delinquenti

abituali ed anche più protettivo, perché non mette ulteriormente ai margini coloro

che già sono degli emarginati. Per la teoria ecologica, pertanto, l’ambiente di vita

è il fattore più importante nella genesi della criminalità, almeno nelle modalità più

squalificate e povere di delinquenza comune, anche se è ovvia l’importanza di

altri fattori. Questa è anche una teoria a “medio raggio” nel senso che non rende

certamente conto di fenomeni più generali: si presta a render conto solamente

della delinquenza comune più povera, della manovalanza delinquenziale.13

13 Compendio di criminologia, ed. Simone, Napoli, 2004.

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3. Le teorie della disorganizzazione sociale

Possono riunirsi in questa comune dizione di “teorie della

disorganizzazione sociale” molteplici studi sociologici che hanno posto l’accento

sulle profonde trasformazioni che, la sempre maggiore industrializzazione ha

indotto nella struttura della società nella prima metà del nostro secolo.

Il nucleo originario di questa teoria era costituito dalla polarizzazione

dell’interesse sul mutamento e sull’instabilità provocati dalla industrializzazione e

da tutti i fenomeni ad essa collegati (urbanizzazione, crisi della vecchia struttura

patriarcale, crisi della famiglia); fattori questi che hanno determinato la rottura di

molteplici equilibri sui quali si fondavano i precedenti valori normativi e l’etica

sociale.

In definitiva, si realizza “disorganizzazione sociale” quando perdono di

efficacia gli abituali strumenti di controllo sociale ed in particolare il controllo di

gruppo e quello familiare.

Secondo questo approccio, il singolo individuo, vivendo in una struttura instabile

e in troppo rapido mutamento, perde la possibilità di governarsi secondo i vecchi

parametri normativi, divenendo egli stesso, come la società, disorganizzato nella

sua condotta. Questo approccio teorico non è solo rivolto a rendere conto

dell’incremento della criminalità fra gli individui più poveri e più emarginati,

come faceva la teorica ecologica, ma fornisce una interpretazione a più largo

raggio, idonea a spiegare in una più ampia prospettiva il dilagare della criminalità

anche in altre classi sociali, ed anche fra coloro che subivano l’influenza della

disorganizzazione sociale pur senza essere afflitti da disagi economici.

Sutherland (1934), ha utilizzato anch’egli il concetto di disorganizzazione

sociale, legandolo, però, più che al mutamento e alla instabilità conseguenti alla

espansione industriale e allo sconvolgimento culturale a esso seguito,piuttosto

all’esistenza nella società di contraddizioni normative. Una società è

disorganizzata perché le norme sono contrastanti e contraddittorie e non assolve

pertanto alla sua fondamentale funzione socializzatrice: di rendere cioè gli

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individui osservanti delle norme. In pratica, il delitto si verifica perché la società

non è saldamente organizzata contro questa forma di comportamento.

Una sintesi dei più significativi aspetti del conflitto di norme, responsabile della

disorganizzazione sociale e del conseguente incremento di criminalità, è stata

formulata, in epoca successiva, da Johnson (1960). Secondo questo autore, vi è

conflitto di norme:

• quando vi sia socializzazione difettosa o mancante – E’ questa la

situazione che si realizza in coloro che, facendo parte di gruppi marginali,

possono essere ambivalenti verso norme legali che, in gran parte, sentono

come estranee o riguardanti solo i diritti delle più favorite fasce sociali

piuttosto che i propri (sono questi gli appartenenti alle sottoculture

delinquenziali);

• quando vi siano sanzioni deboli – vi è quindi insufficienza di intimi-

dazione punitiva verso alcuni tipi di azioni delittuose che vengono pertanto

implicitamente incentivate;

• quando vi sia inefficienza o corruzione dell’apparato giudiziario o di

polizia – in questo caso le sanzioni contemplate nei codici possono essere

anche severe, ma la loro efficacia è ridotta perché le leggi vengono

scarsamente o per nulla applicate.

Il conflitto e la contraddizione delle norme accentuano notevolmente il

carattere di instabilità degli strumenti del controllo sociale e costituiscono pertanto

un’importante causa di disorganizzazione sociale e di delinquenza.

4. La teoria dei conflitti culturali

La teoria dei conflitti culturali venne sottolineata da Sellin (1938), che vide

nella contrapposizione in un medesimo individuo di sistemi culturali differenti

una delle principali cause del venir meno degli abituali parametri regolatori della

condotta sociale con conseguente facilitazione alla devianza e alla delinquenza.

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Egli notò:

• che alcuni valori normativi dell’immigrato si trovavano in contrasto con

quelli della società ospitante – il persistere dei valori della cultura di

origine poteva provocare conflitto con quelli nuovi

• il partecipare a due sistemi culturali differenti provocava una situazione di

disagio, di insicurezza, esponendo l’individuo al rischio di ogni tipo di

disadattamento

• ad essere soggetti a comportamenti devianti non erano tanto i

neoimmigrati quanto quelli di seconda generazione, cioè i loro figli,

perché avevano perduto di significato i contenuti normativi della cultura di

origine (ancora validi per i padri) senza che fossero stati ancora assimilati

costumi e valori del paese ospitante.

Sellin inoltre mise in evidenza che per aversi condotta integrata è

necessario che vi sia sintonia fra i valori normativi del gruppo di appartenenza e

quelli di cui la legge è espressione: se, infatti, le prescrizioni della norma legale

nei confronti di tale condotta non si accompagnano alla “opposizione del gruppo”

(perché i gruppo vive valori devianti rispetto a quelli legali) l’intimidazione della

legge è inefficace. 14

5. Lo struttural-funzionalismo e teoria della devianza

Il concetto di devianza ha avuto un peso notevole nel successivo pensiero

sociologico. Premesso che per struttura si intendono tutti i rapporti esistenti fra le

persone all’interno di una data società. Secondo questo indirizzo, i cui maggiori

rappresentanti sono stati Parsons (1937), Merton (1938) e più tardi Johnson

(1060), i soggetti che agiscono nella società (gli attori sociali) regolano il

comportamento fra le persone e i gruppi in funzione di un complesso sistema di

norme che vengono, consapevolmente o inconsciamente, fatte proprie da

ciascuno. Il comportamento sociale, in funzione della osservanza o della non

14 Merzagora, Betsos I., Lezioni di criminologia, Cedam, Padova, 2001.

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osservanza delle norme, si viene pertanto a collocare fra le due opposte alternative

della conformità e della devianza.

Conformità - è lo stile di vita che è orientato e coerente con l’insieme

delle norme (siano esse espresse da regole del costume, dagli usi, dalle tradizioni,

ecc.): conforme è pertanto una condotta che rientra nella gamma dei

comportamenti permessi e generalmente accettati. Questa conoscenza è il frutto

dei processi di socializzazione e l’essere conformi è il risultato di una

socializzazione ben riuscita. Ciò si realizza attraverso l’educazione (esempio,

imitazione o insegnamento esplicito) ma anche attraverso meccanismi psicologici

complessi, quali la identificazione (cioè col rendersi simili a taluni soggetti eletti a

propri modelli assumendone i valori morali e normativi) e la interiorizzazione

(cioè con l’includere nella propria coscienza norme e principi che vengono così a

costituire parte integrante della personalità di ciascuno).

Il rafforzamento e il mantenimento della conformità è poi favorito dai sistemi di

controllo sociale, cioè da quello insieme di strutture e istituzioni che consento a

ogni attore sociale di conoscere le conseguenze (pene giudiziarie o sanzioni non

legali dei gruppi quali il rimprovero, l’ostracismo e l’emarginazione) della non

osservanza delle norme …

Pertanto, riassumendo, possiamo dire che nella genesi del comportamento

conforme possono distinguersi:

• il momento dell’apprendimento delle norme – che si realizza tramite i

processi di socializzazione e attraverso i continui contatti fra persone e

gruppi;

• la fase del mantenimento e del rinforzo dell’apprendimento normativo –

che è attuata dai vari strumenti di controllo sociale, dalla minaccia di

sanzioni, dall’ideologia, dagli interessi costituiti.

La devianza - è la condizione opposta alla conformità, che ricomprende sia le

condotte che violano le norme penale (cioè i delitti) sia quelle contrarie alle

semplici regole sociali generalmente accettate. Vi è però devianza solo quando la

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violazione è frutto di una precisa scelta e non è accidentale e solo quando lo

violazione avviene nei confronti di una norma verso la quale l’attore è orientato.

Non è dunque deviante chi viola la norma per mero caso o quando infrange una

regola disattesa da tutti.

6. L’anomia come causa di devianza: Merton

Allo struttural-funzionalismo va riconosciuto il merito di aver inteso

fornire una teoria sulle cause della devianza avvalendosi del concetto di anomia.

Ogni società pone dei limiti, con le norme legali o culturali, al soddisfacimento

delle aspirazioni degli individui, stabilendo quali siano i mezzi che possono essere

legittimamente impiegati per soddisfarle. Quando una società è strutturata in

modo stabile e armonico, i limiti e le norme sono percepiti e accettati come giusti.

Quando le norme perdono di credibilità, la condotta di molti individui sarà più

facilmente orientata in dispregio di esse e questa perdita di credibilità delle norme

configura appunto lo stato di anomia di un certo contesto sociale.

L’anomia si realizza dunque quando le regole, che in altri momenti si mostravano

idonee ad assicurare la condotta socializzata dei membri, perdono la loro efficacia

cosicché gli attori sociali si vengono a trovare in una condizione di particolare

difficoltà, dovuta proprio alla carenza dei necessari parametri di riferimento

normativo. 15

Robert Merton, negli anni ’30, ha fornito della devianza una nuova teoria.

L’anomia è intesa infatti come la conseguenza di una incongruità fra le mete

proposte dalla società e la realtà possibilità di conseguirle: una società ha

caratteristiche di anomia quando la sua cultura propone delle mete senza che

vengano a tutti forniti i mezzi per conseguirle. Le mete sociali possono intendersi

come le prospettive che la cultura di un certo momento pone come prioritarie ai

suoi membri, come quell’insieme di obiettivi verso i quali debbono tendere le

aspirazioni di tutti, obiettivi che sono nello stesso tempo ideologici, morali e

15 Berasani L., Prina P., Sociologia della devianza, Nisi, Roma, 1995.

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materiali. Naturalmente, con il variare delle società variano anche le mete che la

cultura di ciascuna società propone come fondamentali, come più meritorie e

qualificanti. Pertanto, le società, per non produrre frustrazioni, debbono

mantenere un buon equilibrio tra le norme e le mete istituzionalmente suggerite e

devono offrire la possibilità di raggiungere le mete con i mezzi legittimi che

vengono prescritti o forniti. Pertanto, la disuguaglianza nelle opportunità di

successo sociale stimolano la non osservanza delle norme, che regolano le

modalità lecite per conseguire le mete proposte dalla cultura. Tale teoria, però,

non è in grado di risolvere il problema psicologico del perché alcuni individui

siano più sensibili e altri meno alle influenze anomiche.

Merton ha anche individuato le diverse modalità di reagire alla condizione

anomica, dunque, abbiamo:

1) un comportamento di conformità che, risulta tanto più agevole e tanto

meno ansiogeno e frustrante quanto maggiori sono le opportunità di

successo offerte dal proprio status.

2) Un comportamento deviante che, a seconda di come viene risolta

l’antinomia fra le mete poste dalla cultura e i mezzi impiegato per

conseguirle, può essere così manifestato:

a. Innovazione – che si realizza quando l’attore sociale è orientato

verso i fini proposti dalla cultura, mira a raggiungerli ma per

ottenerli non si pone problemi circa il carattere eventualmente

illegittimo dei mezzi impiegati.

b. Ritualismo – questo tipo di devianza sui generis, si realizza quando

permane il rispetto per le norme e vi è invece rifiuto di ricorrere ai

mezzi illegittimi anche se ciò comporta la rinunzia a perseguire le

mete del successo sociale.

c. Rinunzia – è la devianza che si realizza quando vengono persi di

vista sia i fini che i mezzi, cioè quando si rinunzia a raggiungere il

fine dell’ascesa economica o del successo, ma nello stesso tempo

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non vi è rispetto delle norme istituzionali. E’ questa la devianza di

chi cessa di combattere, dei vagabondi, dei drogati, dei derelitti.

d. Ribellione – è la devianza caratterizzata dalla sostituzione delle

mete culturali con mete diverse, da un rifiuto globale della società

e, pertanto, anche delle regole circa l’uso dei mezzi illegittimi. Il

ribelle, l’anarchico, il contestatore assumono un sistema di valori

del tutto alieno e contrapposto a quello della cultura dominante e si

propongono di conseguire un sistema sociale e culturale

alternativo.

7. La teoria delle associazioni differenziali: Sutherland

Negli anni ’30, Sutherland elabora una nuova teoria sociologia che prese

il nome di “teoria delle associazioni differenziali”.

Tale teoria ha come suo carattere distintiva il principio che il comportamento

delinquenziale è appreso: poco importerebbe pertanto nel divenire delinquenti la

psicologia dei singoli individui.

L’apprendimento della condotta criminosa è in relazione pertanto con i tipi di

persone con le quali si viene a contatto, con il tipo dei loro valori, mediante un

processo di comunicazione analogo, ma di segno opposto, a quello tramite il quale

si apprende il rispetto delle norme legali.

Questa teoria venne proposta da Sutherland come schema per una teoria generale

della criminalità, una teoria eziologica capace di render conto di tutti i tipi di

condotta criminosa e del perché, nonostante la presenza di analoghe opportunità,

si verificano orientamenti differenti da un individuo all’altro circa il rispetto o

meno della legge, in funzione della frequentazione appunto di gruppi inosservanti

della legge penale.

Una persona è dunque favorita nella scelta delinquenziale a parità di condizioni

economiche e sociali, quando si trova inserita in un gruppo ove prevalgono

definizioni favorevoli alla violazione della legge rispetto a quelle sfavorevoli.

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Non esisterebbe dunque una criminalità innata, ma si imparerebbe ad agire

criminalmente assimilando i modelli di comportamento delinquenziale proposti da

un certo ambiente.

Però non tutti i gruppi con i quali si è via via in contatto hanno la stessa capacità

di influenzare la condotta: fra i vari ambienti di cui un individuo si trova a far

parte, avranno più elevata capacità di orientare la condotta quelli che vengono

frequentati con maggiore intensità; quelli nei quali i rapporti hanno maggiore

priorità (in quanto i membri godono per il soggetto di maggiore prestigio), quelli

dove i rapporti hanno maggiore durata e, infine, quelli che per anteriorità si sono

proposti come modello in epoca più precoce e in età più giovane.

Analiticamente possiamo dunque puntualizzare che:

1) il comportamento criminale è un comportamento appreso;

2) tale comportamento è appreso attraverso il contatto con altre persone e per

mezzo di processi di comunicazione;

3) esso è appreso all’interno di dirette relazioni interpersonali;

4) si apprendono anche le tecniche necessarie al compimento del reato, le

valutazioni e le attitudini nei confronti del crimine;

5) si diventa delinquenti quanto le interpretazioni contrarie rispetto alla legge

sono in un dato ambiente prevalenti rispetto a quelle favorevole;

6) le associazioni differenziali possono variare in rapporto all’intensità, alla

priorità, alla durata, alla anteriorità del “contagio”;

7) il processo di apprendimento del comportamento criminale implica gli

stessi meccanismi che verrebbero chiamati in causa in qualsiasi altro tipo

di apprendimento.

Il fatto che Sutherland si sia sforzato di costruire una teoria eziologia per spiegare

cioè ogni forma di criminalità, non significa che egli ignorasse del tutto la

possibilità dell’intervento di altri fattori nell’eziologia del crimine e, anzi, li indicò

nelle opportunità, nell’intensità del bisogno, nella possibilità che vengano

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proposte alternative al comportamento criminoso e, soprattutto, nella

disorganizzazione sociale.

Però, se certamente è condivisibile l’assunto secondo cui le tecniche e gli

atteggiamenti criminali devono essere appresi, è difficile però condividere il

principio secondo cui tutte le forme di criminalità debbano essere necessariamente

apprese, secondo lo schema fornito da questa teoria.

Altre critiche che si possono muovere alla teoria delle associazioni differenziali

sono:

o essa si mostra del tutto carente dal punto di vista dell’indagine psicologica

in quanto trascura il problema della “risposta differenziale” che si pone a

livello personale;

o non spiega l’invenzione di nuove condotte delittuose mai utilizzate in

precedenza o anche di quella criminalità che si manifesta spontaneamente;

o è portatrice di un determinismo piuttosto rigido, in quanto le motivazioni e

le tecniche attraverso cui si delinque sembrano apprese all’interno di un

ambiente in cui l’attore gioca un ruolo per lo più passivo.

8. La criminalità dei “colletti bianchi” di Sutherland

Sutherland va ricordato non solo per la teoria delle associazioni

differenziali ma anche, e soprattutto, perché per la prima volta ha indirizzato i suoi

studi verso un settore di delinquenza che era stato fino ad allora trascurato, cioè

quello dei reati che vengono compiuti dai dirigenti delle imprese industriali,

finanziarie, commerciali e dai professionisti.16

Egli infatti aveva notato che in certi ambienti professionistici ed imprenditoriali

prevalevano le definizioni favorevoli alla violazione della legge. Queste sue

osservazioni sono state pubblicate nel 1940 nella sua prima opra dedicata ai delitti

commessi da individui dal ruolo prestigioso “White Collar Crime”, divenendo

16 www.sociologia.uniroma.it

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punto di partenza fondamentale per i filoni criminologici incentrati sulla tematica

dei conflitti di classe.

Caratteristiche della delinquenza dei WCC sono date dal fatto che:

o questa delinquenza si realizza negli stessi ambienti ove si producono beni

e servizi ed è strettamente connessa ai processi stessi di produzione di tali

servizi e beni;

o non si tratta di delinquenza parassitaria come quella comune, nel senso che

si procurano ricchezza con i reati ma senza produrre alcun legittimo

beneficio;

o il suo costo sociale è rilevante perché questi reati compenetrano moltissimi

settori delle operatività produttive;

o l’indice di occultamento di questi reati è molto elevato essendo essi

facilmente mascherabili e per loro natura di difficile identificazione;

o gli autori di questi delitto godono di un elevato tasso di impunità in quanto

rivestono posizioni influenti e spesso godono di connivenze con aree del

potere politico e giudiziario;

o è minore la reazione sociale di censura nei loro confronti e ciò traspare

dall’uso di aggettivi quali “disonesto” piuttosto che “criminale”. Ciò

significa che il colletto bianco non viene associato allo stereotipo del

delinquente da parte della collettività e tale inoltre egli non si reputa;

o per chi compie delitti di questo tipo perdono di significato tutti quei fattori

di anomalia di personalità e di sfavore sociale che tanto hanno occupato la

criminologia impegnata nello studio dei delitti comuni;

o per configurare questo specifico tipo di delinquenza, è fondamentale la

tipologia dei reati commessi, che devono essere strettamente connessi alle

attività di produzione di beni o servizi.

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9. La criminologia del consenso

Sempre negli anni ’50 e ’60, oltre ai filoni della criminologia più connotati

politicamente (criminologia di destra e criminologia di sinistra), un nutrito gruppo

di teorie sociologiche, non assunse posizioni ideologiche radicali. Questi filoni, si

fondano sull’assunto che le norme sono suffragate dal consenso della

maggioranza dei consociati. La prospettiva ideologica di queste teorie era pur

sempre la denuncia dei fattori criminogeni insiti nelle discriminazioni sociali, il

mezzo per porvi rimedio doveva essere quello delle riforme e non della

sovversione rivoluzionaria. A questi filoni e a queste teorie sociologiche è stato

attribuito il nome di criminologia del consenso dal momento che la sua

prospettiva è ovviamente quella di ricondurre i devianti e i delinquenti alla

conformità e quindi al consenso.

Nell’ambito della criminologia del consenso, vanno collocati tutti gli indirizzi

antropologici e individualistici miranti ad identificare le peculiari caratteristiche

degli individui che commettono reati, caratteristiche che verranno valutate quali

cause della loro condotta criminosa, secondo la prospettiva della criminologia

eziologia, o quali fattori di vulnerabilità individuale favorenti, se non

determinanti, le scelte criminose.

Particolare rilievo va riservato in questa prospettiva alla criminologia

pragmatistica, che ha spostato l’accento dalla ricerca di cause o di fattori favorenti

individuali e/o sociali, a quello degli interventi operativi. Non esiste una singola

causa della criminalità ma solo un insieme di fattori che coerentemente

concorrono in un sempre fitto reticolo di embricazioni vicendevoli. Scopo della

criminologia deve essere pertanto quello di fornire conoscenze sempre più ampie,

idonee a essere utilizzate a fini pratici per adeguare i provvedimenti legislativi, gli

strumenti istituzionali e il trattamento dei criminali a una mutevole realtà in

costante modificazione.

Traggono da qui origine le teorie multifattoriali che ebbero appunto come

obiettivo quello di integrare la conoscenza dei fattori criminogenetici ambientali

con quelli individuali.

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La teoria dei contenitori di Reckless (1961)

Questa teoria multifattoriale si presenta come un altro indirizzo della

criminologia multifattoriale del consenso. Essa mira a spiegare in generale il

comportamento sociale identificando quei fattori che favoriscono il contenimento

della condotta nell’ambito della legalità: viceversa la carenza di questi fattori di

contenimento costituisce elemento significativo nel favorire la scelta criminale.

Reckless distinse:

• contenitori interni – rappresentati da quegli aspetti della struttura

psicologica più significativi per favorire l’integrazione sociale. Essi

consistono in: buon autocontrollo, buon concetto di sé, forza di volontà,

buon sviluppo delle istanza etiche, ecc.

• Contenitori esterni – rappresentati dall’insieme delle caratteristiche

dell’ambiente nel quale il singolo soggetto si trova a vivere. I contenitori

esterni rappresentano i freni strutturali che, operanti nell’immediato

contesto sociale di una persona, o agenti in senso più lato nella società, gli

permettono di non oltrepassare i limiti normativi. Detti contenitori sono

rappresentati da fattori molteplici: da un ragionevole insieme di aspettative

di successo sociale, nel senso che quanto maggiori sono le prospettive di

successo legate al ceto, alle relazioni, alle qualificazioni professionali,

tanto più agevole sarà mantenersi nella conformità e non usare mezzi

illegittimi per affermarsi; l’opportunità di incontrare consensi nel proprio

ambiente, il disporre di figure capaci di offrire coerenti modelli di

identificazione e una salda guida di condotta morale.

Si rende dunque necessario considerare contemporaneamente l’integrazione e la

correlazione tra le variabili psicologiche e quelle ambientali. Esiste cioè tutto un

complesso sistema di correlazioni fra i vari contenitori che consente di

comprendere come l’accentuata carenza di taluni di essi renda proporzionalmente

meno rilevante la mancanza degli altri: in genere, quanto più difettano i

contenitori esterni, tanto minore importanza nel condurre alla criminalità viene ad

assumere la carenza di quelli interni e viceversa.

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10. La criminologia del conflitto

Negli anni ’60, larghi settori dell’opinione pubblica sono stati

caratterizzati, specie tra gli intellettuali ed i giovani, da un deciso viraggio verso le

ideologie di sinistra. Si realizzo così in quell’epoca una vera e propria rivoluzione

culturale. Idee fatte proprie dal movimento del Sessantotto. 17

Le nuove idee investirono presto ogni settore della vita politica, culturale ed anche

privata di quegli anni. I principali informatori e le parole d’ordine di quel

movimento furono soprattutto il rifiuto del consumismo e, più in generale, di tutto

il mondo capitalistico e della società industriale. Si enfatizzava e si rifiutava il

“disagio della civiltà” cioè la quota di nevrosi e di ansia che la competitività e il

consumismo comportano.

In questo clima culturale, taluni filoni della criminologia si sono intessuti di

esplicite connotazioni ideologiche e politiche di sinistra e si sono andati

qualificando come criminologia del conflitto in opposizione ad una criminologia

del consenso. Per la criminologia del consenso, è centrale la percezione della

società come struttura non certo ottimale, con gravi disfunzioni di organizzazione,

disparità di accesso ai beni, carente di giustizia sociale, ma comunque

migliorabile con le riforme. Per i filoni più estremistici della criminologia del

conflitto, invece, la delinquenza non è eliminabile senza la radicale

trasformazione della struttura economico-sociale e senza la più o meno

apertamente auspicata soluzione rivoluzionaria, che avrebbe condotto alla

eliminazione dei conflitti di classe e delle ingiustizie e che avrebbe risolto anche

la questione criminale.

17 Ponti., Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.

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11. Le teorie dell’etichettamento

La visione di una società travagliata dalla continua conflittualità tra classe

detentrice del potere e le classi lavoratrici, viene ulteriormente radicalizzata negli

anni ’60 dai teorici del nuovo filone criminologico del labelling approach.

Gli aspetti caratterizzanti della “teoria dell’etichettamento” sono incentrati sui

seguenti punti:

1. visione rigida e dicotomica delle classi sociali – percepite come classe dei

proletari sfruttati e classe dei padroni sfruttatori;

2. non univoca accettazione delle norme legali – in quanto ritenute funzionali

ai detentori del potere e quindi con condivise da quella parte dei consociati

da essi vessati;

3. valorizzazione del concetto di reazione sociale – quale risposta che la

cultura dei ricchi mette in atto nei confronti delle condotte devianti

mediante la stigmatizzazione, l’emarginazione e le sanzioni penali;

4. percezione della devianza e della criminalità – non quali comportamenti

riprovevoli o colpevoli ma quale mero frutto di un etichettamento negativo

esercitato dal potere nei confronti delle sole condotte antigiuridiche

commesse dalle classe subalterne.

I teorici del labelling approach, affermano che il deviante non è tale perché

commette certe azioni, ma perché la società qualifica come deviante chi compie

quelle azioni. Il punto focale del nuovo approccio è spostato pertanto dall’atto del

singolo, alle reazioni della società nei confronti dell’atto stesso.

- Il deviante non è più visto come disfunzionale al sistema sociale, ma la

condotta deviante è invece intesa come necessaria e utile alla società che in

essa trova il confine ben delineato della propria conformità. Il deviante,

quindi, deve essere “creato” per differenziarsene ed avere un termine di

paragone negativo.

- Il deviante svolge anche un ruolo di capro espiatorio, nel momento in cui si

polarizza contro di lui tutta l’emotività e lo sdegno per gli autori del male, si

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ha il vantaggio di non far percepire come devianti altre condotte, che sono

proprie delle classi dominati;

- Il criminale, non è tanto colui che commette un crimine ma piuttosto colui

che, fra i molti atti illegali, ne compie certuni. Lo stereotipo culturale del

criminale corrisponde a quello della criminalità abituale e convenzionale, ma

non comprende tutti gli atti contrari ai codici. Si avrebbe così una

discriminazione in relazione al tipo di delitto, all’ambiente in cui esso viene

attuato e al ceto dell’autore.

I gruppi sociali, quindi, creano devianza facendo le norme la cui infrazione

costituisce devianza, applicando queste norme ad alcune persone ed etichettandole

come outsider. Da questo punto di vista la devianza non è una qualità dell’atto

commesso dalla persona, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione di

norme e sanzioni a un delinquente da parte di altri.

Il processo di consolidamento della devianza si realizza poi attraverso una serie di

eventi. Infatti, colui che è definito come deviante tende a stabilizzare la sua

condotta in una carriera deviante, il che comporta l’assunzione di un ruolo

deviante e conseguentemente anche il sentimento della identità personale diviene

quello di un Io deviante.

Viene inoltre distinta:

- la devianza primaria – che definisce una condotta deviante senza che si

mettano in moto reazioni sociali e psicologiche che modifichino il ruolo e

il sentimento della propria identità del soggetto agente;

- la devianza secondaria – si realizza come effetto della reazione sociale e

comporta peculiari effetti psicologici sull’individuo che si percepisce

come deviante, sviluppa tutta una serie di atteggiamenti oppositivi che il

suo ruolo comporta, con conseguente fissazione in tale ruolo di deviante

ovvero di delinquente.

Dunque, si diviene devianti perché si è qualificati come tali e, quindi, deviante

colui al quale l’etichettamento è stato applicato con successo; viceversa, colui che

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commette azioni criminose ma che non viene raggiunto dalla censura, non sarebbe

un deviante.

Alcune critiche possono essere mosse a questa teoria:

1. la confusione fra devianza e criminalità, che sono spesso usate come

sinonimi;

2. questa teoria spiega la devianza non criminosa e la piccola delinquenza di

poco conto, la microcriminalità di strada ma non si presta affatto ad essere

applicata nei confronti della criminalità più grave;

3. questa teoria è deterministica, in quanto la persona che ha subito lo stigma

sembrerebbe non potersi sottrarre ad un inevitabile destino delinquenziale;

4. questa teoria è deresponsabilizzante perché equiparando delinquenti e devianti

finisce per attenuare la colpevolezza dei primi che vengono a fruire

dell’atteggiamento più tollerante riservato ai secondi.

12. La criminologia critica: criminalità come fatto politico

Tra gli anni ’70 e ’80, in una prospettiva rigidamente marxista, la

criminalità venne intesa non più come fatto sociale ma piuttosto come fatto

politico: la criminologia, cioè, identificò la devianza con il dissenso, cosicché tutte

le classi ed i movimenti che si opponevano alla società neo-capitalista vennero

ritenuti costituire l’autentica categoria dei devianti. Ma ciò comportò che così

come i movimenti politici di sinistra, anche i criminali vennero intesi come

oppositori del sistema borghese, talché la criminalità venne considerata un fatto

sostanzialmente politico. La criminologia, pertanto, doveva cessare di proporsi

come scienza con finalità di ricerca per assumere precise prese di posizione

militanti e politiche.

In questa ottica, criminale era ritenuta invece la classe dominante con le sue

ingiustizie lo sfruttamento, la mortificazione consumistica e la negazione della

libertà e dignità umane.

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La devianza e la criminalità venivano così a identificarsi con la lotta che l’intera

classe operaia conduce per l’edificazione della società comunista.

Il primo filone della criminologia critica si è sviluppato in Inghilterra attorno alla

National Deviance Conference e ha preso le mosse da una critica della vecchia

interpretazione marxista della criminalità, secondo la quale questa era un diretto

prodotto della società capitalistica ma riteneva il criminale privo della

consapevolezza del significato classista del suo essere deviante. La new

criminology inglese affrontò invece il problema della devianza come scelta

consapevole dei singoli dinanzi ai disagi e alle contraddizioni sociali.

Questo indirizzo è stato coltivato anche in Germania ed in Italia da un gruppo di

studiosi facenti capo alla rivista Questione criminale. Nella prospettiva di questi

studiosi, la devianza veniva definita come una modalità di condotta contrapposta

ai canali normativi (costumi, leggi, cultura) ispirati e governati esclusivamente

della classe al potere. Il fatto che la devianza sia stigmatizzata e repressa dalle

istituzioni è la conseguenza del fatto che essa viene, dalla società capitalista,

percepita come una minaccia per il suo sistema.

Viene distinta:

- una devianza individuale - che nelle sue varie forme (criminalità,

evasione nella droga, rifiuto dell’inserimento lavorativo, ecc.)

costituisce una modalità di rigetto della società borghese, devianza che

però è priva oltre che di consapevolezza anche di prospettive;

- una devianza organizzata – che rappresenta la lotta delle classi

lavoratrici, chiaramente politicizzata e ordinata nei movimenti politici

delle masse. La lotta sociale organizzata per il superamento della

società capitalistica e per l’edificazione del comunismo avrebbe dovuto

consentire anche il riassorbimento delle devianze individuali nella

devianza collettiva e organizzata dei lavoratori.

La criminologia critica, anche se ha avuto il merito di contribuire ad un

movimento per la decarcerizzazione e l’umanizzazione della pena, ha alimentato

un atteggiamento dell’opinione pubblica di sinistra di eccessiva solidarietà nei

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confronti dei delinquenti, visti come vittime della società piuttosto che come

individui non solo inosservanti delle leggi ma spesso anche autori di

comportamenti prevaricatori. Essa ha cioè identificato la delinquenza come se

fosse solo microcriminalità da strada, agita da soggetti provenienti dai gruppi più

sfavoriti, trascurando del tutto la più allarmante criminalità violente, la

delinquenza economica e quella organizzata.

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CAPITOLO 6

TEORIE PSICOLOGICHE E CRIMINALITA’

1. La criminologia incentrata sull’individuo

Le teorie sociologiche rendono conto delle molteplici ragioni legate

all’ambiente, ai rapporti fra gruppi e alle loro reazioni che favoriscono le scelte

criminose di molti individui, ma esse non possono spiegare la variabilità del

comportamento individuale dinanzi ad analoghi fattori socio-ambientali che si

osserva di fatto nei singoli casi: variabilità che è da ricondurre alle diverse

caratteristiche psicologiche e biologiche di ogni individuo. E’ pertanto necessario

utilizzare un approccio integrato che miri a evidenziare quali sono i fattori che

rendono ogni persona una entità unica e irripetibile, così che differiscono per ogni

soggetto anche le risposte ai fattori criminogenetici insiti nella società, fattori che

rappresentano altrettante componenti di vulnerabilità individuale nei confronti

delle scelte criminose.18

Lo studio delle componenti di vulnerabilità può essere condotto:

1. attraverso lo studio delle teorie psicologiche della personalità – che

mettono in evidenza i complessi meccanismi che possono spiegare la

variabilità individuale delle risposte comportamentali e identificare aspetti

della personalità che possono esporre al rischio di devianza;

2. in una prospettiva biologica – per identificare i fattori che rendono ogni

essere vivente diverso dagli altri come conseguenza della differente

struttura del patrimonio genetico e, si conseguenza, tutti i problemi legati

all’ereditarietà, alla rilevanza di fattori neuro-fisiologici nei confronti della

organizzazione psichica e del comportamento istintuale, diverso dal

comportamento appreso;

18 Canepa G., personalità e delinquenza, Giuffrè, Milano 1974.

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3. in una prospettiva clinica – con l’esame di fattori psicopatologici, nel

quadro delle correlazioni fra disturbi mentali e condotta criminosa.

Nel considerare le correlazioni fra individuo e ambiente,va sottolineato che esiste

in ogni tipo di comportamento umano una loro costante integrazione. L’aspetto

più caratteristico di questa correlazione è rappresentato dal rapporto inversamente

proporzionale fra le componenti di vulnerabilità individuale e i fattori ambientali:

quanto più criminogenetici sono questi ultimi, tanto meno rilevanti sono le

componenti psicologiche o biologiche legate all’individuo; e, viceversa, quanto

più marcate sono le componenti della personalità che rendono l’individuo più

incline alla condotta criminosa o deviante, tanto meno significativi risultano le

carenze, le sollecitazioni e , in generale, i fattori criminogeni legati alla società.

2. Personalità - temperamento - carattere

Per comportamento (o condotta) si intende il complesso coerente di

atteggiamenti che ogni individuo assume in funzione dei suoi obiettivi e degli

stimoli che gli provengono dall’ambiente: poiché tali atteggiamenti altro non sono

che, in gran parte, espressione della psiche, ne risulta in pratica la possibilità di

identificare lo studio della psicologia con quello del comportamento.

L’attività psichica è costituita da tre fondamentali funzioni: la sfera conoscitiva, la

sfera affettiva e quella volitiva.

1. La sfera cognitiva – Sono proprie di questa sfera:

a. la conoscenza – è l’insieme delle funzioni che consento all’individuo

di essere informato sulla realtà, di parteciparvi, di accumulare

esperienze, di acquisire nozioni;

b. il pensiero – è l’organizzazione di processi mentali di carattere

simbolico che si concretizza nelle idee.

c. l’intelligenza – è l’insieme delle capacità acquisite, che riutilizzano

oltre che a livello logico-razionale o speculativo, anche per agire

nella vita relazionale; l’intelligenza può essere dunque attitudine ad

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affrontare e risolvere situazioni concrete (intelligenza pratica),

ovvero attitudine a impostare e risolvere problemi generali e

astratti (intelligenza teorica).

2. La sfera affettiva - è quella fondamentale coloritura positiva o negativa,

piacevole o spiacevole che eventi e pensieri suscitano in noi. Nella sfera

affettiva si distinguono:

a. l’umore – inteso come il variare dell’emotività nelle varie sfumature

che vanno dalla tristezza alla gioia;

b. i sentimenti – che sono espressioni più elaborate della vita affettiva che

sorgono nel rapporto con persone e situazioni non tanto sulla scorte

di elementi razionali quanto piuttosto per la risposta interiore che

ciascuno vive nei confronti di tali persone e situazioni;

c. le emozioni – sono sentimenti che si manifestano con una intensità

particolarmente acuta (ira, furore, esaltazione e rabbia) e che si

estrinsecano anche in fenomeni fisiologici (rossore, batticuore,

pallore, tremore).

3. La sfera volitiva – riguarda le azioni (e le omissioni) che vengono

compiute per determinati fini. Sulla volontà si incentra tutta le tematica

della libertà, del libero arbitrio, della responsabilità, o all’opposto, del

determinismo.

Importantissimo è il concetto di personalità.

1. Nell’uso comune, il significato di personalità può identificarsi con la

abilità o accortezza sociale, valutandosi la personalità di un individuo in

funzione della sua capacità ed efficienza nel reagire positivamente nei

contatti con persone diverse e nelle circostanza più varie.

2. Una seconda accezione la personalità di un individuo è definita dalla

reazione del prossimo al modo di interagire di un individuo (prepotente,

affascinante, difficile, debole, ecc.). Si tratta di una definizione

psicosociale dato che considera la p persona nell’interazione col prossimo.

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3. La personalità può ancora essere intesa come l’insieme delle qualità e

caratteristiche di un soggetto, quale somma, cioè di aspetti biologici e

psichici suscettibili di osservazione e descrizione obiettiva, facendo

astrazione dai riflessi interpersonali;

4. La definizione di personalità può anche includere gli aspetti unici ed

irripetibili o più rappresentativi di una persona, ricalcando così il concetto

di “individuo” della prospettiva biologica ma riferendola solo alle

componenti psichiche.

La personalità altro non esprime se non l’insieme dei termini che vengono

impiegati per descrivere il singolo individuo, termini scelti in base a variabili e

dimensioni diverse. Però, un significato di personalità essenzialmente incentrato

sugli aspetti intrinseci della persona non può essere soddisfacente per la

criminologia in quanto essa non può prescindere dall’approccio integrato fra

l’individuo e l’ambiente sociale nel quale viene agito il comportamento delittuoso.

Poiché la condotta criminale è in sostanza un particolare tipo di comportamento

nella società legato alle caratteristiche della persona ed ai reciproci

influenzamenti fra persona e ambiente, dal punto di vista criminologico la

personalità interessa sostanzialmente nei suoi aspetti psicosociali. Pertanto: la

personalità può definirsi come il complesso delle caratteristiche di ciascun

individuo quali si manifestano nelle modalità del suo vivere sociale e può essere

intesa come la risultante delle interrelazioni del soggetto con i gruppi e con

l’ambiente.

Quando parliamo invece di temperamento, ci ricolleghiamo alla base innata,

ancorata alla struttura biologica, delle disposizioni e tendenze peculiari di ogni

individuo nell’operare nel mondo e nel reagire all’ambiente: così parliamo di

temperamento mite o violento, subordinato o dominatore, ecc.

Peraltro, le infinite circostanze dell’esistenza incidono sul temperamento, facendo

assumere al soggetto modalità di pensare, di atteggiarsi e di agire più o meno

diverse da quelle innate: è ciò intendiamo per carattere.

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In sintesi, il concetto di temperamento contiene connotazioni di

“potenzialità” che si traducono in “attualità” di modi di pensare e di interagire,

cioè in carattere, per effetto delle mutevoli esperienze e vicende che la vita pone a

ciascuno.

Il carattere rappresenta pertanto la risultante della interazione fra temperamento

e ambiente: il carattere non è quindi una componente statica della personalità

quanto piuttosto una componente dinamica che si modifica col tempo e con quelle

rivende di vita che ne plasmano gli aspetti.

3. Le teorie psicoanalitiche di Freud

Per molti anni psichiatri e psicologi hanno discusso sul perché alcune

persone divenissero aggressive e violente; per alcuni si trattava di personalità

criminali tout court. La prima interpretazione soddisfacente sull’argomento si

deve a Sigmund Freud, che diede un fondamentale contributo alle teorie sullo

sviluppo della personalità e le sue idee sono state utilizzate dai criminologi per

spiegare il comportamento antisociale. Nei suoi scritti Freud sostenne che la

personalità era il risultato dell’esperienza sociale e sottolineò l’importanza delle

esperienze nella prima infanzia e dei conflitti tra i bisogni dell’individuo e le

richieste della società. La personalità si distingue in tre parti, spesso in conflitto

tra loro: Es, Io , Super-Io.

L’Es, fin dalla nascita, costituisce il polo pulsionale della personalità. I suoi

contenuti sono riconducibili all’istinto di vita, Eros, fonte della libido, e all’istinto

di morte, Thanatos. Entrambi questi istinti possono essere rivolti al mondo

esterno, alle cose, agli oggetti (libido oggettuale e aggressione rivolta verso

l’esterno), oppure alla persona stessa (libido narcisistica e auto aggressione).

Dal punto di vista economico l’Es è per Freud il serbatoio primario dell’energia

psichica; dal lato dinamico, entra in conflitto con l’Io e il Super-Io, che

rappresentano geneticamente differenziazioni dell’Es che è alla ricerca costante

del piacere. L’Io, invece, è quella parte della struttura psichica conscia e razionale.

Si pone come mediatore tra le pulsioni inconsce dell’Es e gli imperativi del Super-

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Io, che interiorizza i divieti sociali e la morale, rappresenta un polo difensivo della

personalità, in quanto aziona i meccanismi di difesa motivati dalla percezione di

un effetto spiacevole (segnale di angoscia), opera secondo il principio di realtà. Il

Super-Io, infine, interiorizza le esigenze e i divieti dei genitori e del gruppo

sociale. Ha la funzione di «coscienza sociale», di «censore», di auto-osservazione,

di formazione di ideali. Freud riteneva che la pressione maggiore da parte della

società fosse diretta verso il Super-Io, in modo tale che la personalità si

conformasse alle regole sociali. Rende capaci di osservare le proprie azioni e di

giudicarle, nonché offre un’immagine di ciò che si dovrebbe essere (Io ideale)

secondo le aspettative della società. 19

Freud collegò la criminalità a un inconscio senso di colpa che il soggetto prova a

causa del complesso di Edipo, se è maschio, o di Elettra, nel caso della femmina,

vissuto nell’infanzia. Questo consiste, per il bambino, nel provare una forte

attrazione e un affetto particolare per la madre e nel contenderne i favori con il

padre, nei cui confronti sviluppa desideri ostili. Attraverso tale identificazione il

bambino interiorizza le regole e i ruoli della sua cultura ed emerge il Super-Io.

Freud ritenne che in alcuni criminali si potesse scoprire un senso di colpa

preesistente alla commissione del reato; che questo ultimo non fosse il risultato

della colpa, bensì la sua motivazione. In altre parole, il comportamento criminale

potrebbe essere la risultante di un conscio iperattivo che causa un potente senso di

colpa. Freud riferì che molti suoi pazienti, che si sentivano

colpevoli,commettevano atti antisociali allo scopo di essere arrestati e puniti

severamente, in modo tale da essere liberati dal sentimento di colpa attraverso la

punizione. In accordo con la tesi freudiana del «delinquente per senso di colpa», si

sviluppano in criminologia numerose teorie basate, appunto, sulle idee e sui

metodi psicoanalitici

19 www.cepic-psicologia.it

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4. La coazione a confessare

Tale impulso si può manifestare con atti di dimenticanza e di trascuratezza

sulla scena del delitto, anche quando questo sia stato premeditato e studiato in tutti

i suoi dettagli, oppure con atteggiamenti di disprezzo e arroganza, quasi

provocatori, in sede di interrogatorio di polizia e di giudizio. In altre parole il

delinquente, attraverso il modo indiretto del lapsus, come lasciare oggetti

personali sul luogo del delitto o tracce identificabili, svela il proprio segreto.

Infatti, l’esecuzione del delitto può portare alla pena, e quindi al sollievo psichico

dal senso di colpa solo se il delitto è scoperto. Per questo motivo alcuni

delinquenti commettono reati in modo tale da farsi identificare e mostrano un

desiderio irresistibile di confessare, a volte anche mentendo.

Le teorie di Reik e di Freud si prestano ad altre due possibili ipotesi. La

prima si riferisce al caso in cui il senso di colpa porta a commettere un delitto e

alla conseguente ricerca della punizione per alleviare l’angoscia, per poi reiterare

il comportamento criminale per ottenere una successiva punizione. Ci si riferisce,

in pratica, a un delinquente in cui il senso di colpa e di angoscia non si risolve in

un’unica soluzione, in quanto le tracce lasciate non sono sufficienti per farlo

individuare, ma si allevia solo temporaneamente per poi riemergere fino a far

commettere un altro delitto. delinquenti recidivi e seriali. La seconda ipotesi

riguarda il caso in cui il senso di colpa e il desiderio della punizione sono talmente

forti da bloccare la confessione del soggetto, che non vuole liberarsi dalla colpa in

modo così semplice e veder diminuita la sua pena.

È chiaro, a questo punto, che sul delinquente per senso di colpa la punizione non

esercita alcun controllo, né la sanzione penale ha un effetto deterrente; anzi può

avere un effetto attraente e soddisfare inconsce tendenze masochiste. Estendendo

il discorso dal delinquente alla società, la psicoanalisi tende a individuare il

carattere essenziale dell’istanza sociale di punizione non tanto nella protezione

degli individui dal comportamento antisociale altrui, quanto in una difesa dai

propri impulsi, poiché l’impunità degli altri provocherebbe il prorompere dei

propri istinti. In conclusione, sulla base della concezione che l’essenza della pena

è la risultante del conflitto tra due dinamismi, rispettivamente diretti a infliggere

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una violenza al colpevole e a proteggerlo per un sentimento di dolorosa intima

simpatia del male, per la psicoanalisi le funzioni superiori assegnate alla pena

dalla dottrina sarebbero il frutto di una razionalizzazione secondaria operata dal

pensiero giuridico.

5. Psicoanalisi e criminalità: Alexander e Staub

La teoria psicoanalitica della personalità offre la possibilità di interpretare

talune modalità della condotta criminale. Si tratta dell’utilizza della chiave di

lettura della psicoanalisi anche per la identificazione di alcuni meccanismi della

criminogenesi.

Il più organico contributo psicoanalitico in ambito criminologico è quello

di Alexander e Staub (1929).

Secondo questi autori la condotta criminosa è l’effetto di molteplici modalità dello

svincolo dal controllo del Super-io. Essi identificano diverse condizioni nelle

quali il controllo dell’istanza superiore si riduce fino ad abolirsi completamente,

secondo il seguente schema:

1. la normalità (o integrazione sociale) – è rappresentata dal pieno controllo

del Super-io sul mondo pulsionale-istintuale: in tali condizioni vi è piena

conformità di condotta e rispetto delle regole;

2. la delinquenza fantasmatica – nella quale il controllo delle pulsionalità

antisociale è ancora pienamente efficiente sul comportamento tant’è vero

che l’individuo non delinque; esistono tuttavia istinti antisociali più

pressanti che il soggetto riesce comunque ad arginare.

3. la delinquenza colposa (condotta motivata da imprudenza, negligenza,

imperizia) – può essere interpretata col meccanismo della dislocazione

delle pulsioni aggressive: l’aggressività che il Super-io non consente che si

realizzi come tale, cioè come violenza volontaria, verrebbe estrinsecata

attraverso una condotta imprudente o negligente che provoca ugualmente

danno alla persona osteggiato o alle sue cose;

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4. la delinquenza nevrotica – nella quale la condotta criminale rappresenta un

sintomo di una situazione conflittuale profonda. Il Super-io non ha

completamente rinunziato al controllo dell’antisocialità e questi si realizza

unicamente per l’esistenza di profondi contrasti interiori che trovano una

possibilità di soluzione nella condotta deviante. Quest’ultima è dunque

non l’effetto di un progetto razionale e consapevole o di un ideale dell’Io

di tipo criminale ma una sorta di ripiego per eliminare la tensione delle

conflittualità interiori: la delittuosità nevrotica (piuttosto rara) non essendo

completamente accettata si accompagna pertanto a sensi di colpa (es.

cleptomania).

5. delinquenza occasionale e affettiva – viene definita così quella

delinquenza che si attua appunto solo in circostanze eccezionali,

particolarmente favorevoli allo svincolo delle controspinte superiori

(delitti per passionalità, delitti scaturiti da violenti diverbi, in stato d’ira).

Tale tipo di delinquenza per gli autori è anche quella commessa quando vi

sia un’ampia probabilità di non essere scoperti oppure quando un oggetto

desiderato è offerto in modo suggestivo (furti nei grandi magazzini).

6. delinquenza normale – rappresenta l’ultimo stadio, dove il controllo del

Super-io cessa completamente e l’Io può realizzare senza ostacoli le

pulsioni aggressive e antisociali: non essendovi più controllo superegoico

il delinquente non si sentirà in colpa per la sua condotta.

Da quanto abbiamo appena considerato, appare chiaro come l’adeguamento alla

vita sociale è da vedersi essenzialmente in funzione dell’efficienza del Super-io.

Il Super-io può essere:

1. anomalo - essendo strutturato come Super-io criminale gli ideali

dell’io sono strutturati in modo antisociale e il soggetto adegua la sua

condotta che diviene pertanto criminale;

2. debole - e non costituire una guida sufficientemente costante e valida

per la condotta: ciò si realizza quando vi siano stati fattori desiducativi

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ambientali, difetti dei processi di identificazione, inadeguatezza della

famiglia o mancanza di modelli;

3. del tutto assente - si realizza in tal modo un inadeguamento globale

alla vita sociale.

Concludendo, per Alexander e Staub, si possono distinguere tre tipi fondamentali

di delinquenza:

• la delinquenza accidentale – nella quale sono assenti tratti psicologici

devianti delle personalità e la delittuosità può realizzarsi con delitti

colposi o con delitti occasionali correlati a situazioni eccezionali che

inattivano il Super-io in stati di particolare pregnanza emotiva o per

occasioni particolarmente favorevoli o allettanti;

• la delinquenza cronica – che rappresenta la propensione al delitto

dovuta alla struttura stessa della personalità: essa può dipendere dal

fatto che l’Io è fragile o compromesso (per fatti tossici, per difetto

d’intelligenza) o perché il Super-io è assente e quindi la condotta

dell’individuo è in balia degli istinti.

• la delinquenza per senso di colpa – alcuni soggetti agirebbero cioè in

modo criminoso unicamente per essere poi puniti, e soddisfare, così,

senza rendersene conto, un bisogno inconscio di espiazione di stampo

nevrotico.

In certe situazione, poi, i comportamenti criminali sono stati interpretati come

originati dalla fissazione alla fase del principio del piacere: la delinquenza, in

questo caso, esprimerebbe un modo di dar soddisfacimento diretto alle pulsioni.

Le frustrazioni ambientali e familiari, la marginalità, le sconfitte, l’assenza di

ragionevoli prospettive di successo sociale, sono tipiche situazioni che ostacolano

il processo di maturazione verso la fase governata dal principio di realtà,

favorendo la fissazione o la regressione a modalità più immature di condotta.

Questa, come altre interpretazioni psicodinamiche, comportano il rischio di

fornire una lettura della condotta criminosa che finisce per essere

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deresponsabilizzativi perchè il delinquente viene percepito come se fosse costretto

a delinquere da forze da lui non governabili.

Meccanismo reattivo messo alla luce dalla psicoanalisi e tipicamente collegato

alla immaturità affettiva è quello dell’acting-out (passaggio all’atto) che

rappresenta una modalità impulsiva di comportamento mirante a risolvere l’ansia,

particolarmente quella derivante da eccesso di frustrazione, con una condotta

anomala: molti comportamenti criminali, specie nei giovani, assumono il

significato di azioni realizzate come compenso di gravi carenze affettive o

materiali. L’acting-out criminoso si caratterizza per il fatto che il reato non appare

in relazione a motivi o scopi normali e coscienti (lucro, vendetta, ecc.) ma

rappresenta una scarica o un sollievo da una tensione emotiva riferibile a

conflittualità o frustrazione. Questo meccanismo non solo è all’origine di reati di

tipo aggressivo ma può concretarsi anche in furti commessi per liberarsi da

tensioni interiori.20

Altro aspetto dell’immaturità è rappresentato dalla bassa soglia di tolleranza alla

frustrazione. Quanto più bassa è la tolleranza alla frustrazione di un soggetto tanto

più facilmente egli sarà indotto a reagire con aggressività o con impulsività, alla

frustrazione stessa. Ad analoga situazione si ricollega anche il meccanismo della

difesa dalla frustrazione mediante l’identificazione del frustrato nel frustratore: il

soggetto che ha subito ripetute frustrazioni può eleggere come propri modelli di

identificazione, figure per lui altamente frustranti divenendo pertanto egli stesso,

con l’adeguarsi ai modelli, un soggetto frustratore.

L’incapacità di identificarsi col prossimo caratterizza molti degli autori di

reati contro la persona. In quest’ottica, le condotte criminose violente vengono

classificate in questo modo:

1. condotte dovute a deficienza globale di identificazione con

l’oggetto dell’impulso aggressivo – come accade per esempio nella

legittima difesa;

20 Ponti G.,Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.

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2. condotte dovute a processi di identificazione soltanto parziale – in

base al fatto che determinati valori morali non sono fortemente

avvertiti come veri e propri valori (è il caso delle sottoculture

violente o delle bande giovanili di tipo distruttivo);

3. condotte dovute a processi di identificazione particolari –

attraverso i quali la passività alla violenza si converte in attività (è

il caso della identificazione del frustrato nella figura del

frustratore)

Al meccanismo di difesa della proiezione è da attribuirsi l’atteggiamento di

deresponsabilizzazione riscontrabile in tanti criminali. Proiettando su altri

(famiglia, società) la responsabilità della propria condotta criminosa, ci si sente

anziché colpevoli piuttosto delle vittime, ci si libera dal senso di colpa e si mette il

prossimo (giudici, operatori penitenziari) nella posizione di chi infierisce su un

innocente.

Nonostante i tanti importantissimi contributi per la comprensione della

condotta criminosa, la psicoanalisi, con l’eccessivo indulgere nella ricerca di

interpretazioni psicodinamiche, può comportare il rischio di intendere ogni

criminale come persona in qualche modo psicologicamente disturbata, col

risultato di “patologizzare” la delinquenza; inoltre, le inconsce e spesso tortuose

dinamiche ipotizzate in chiave psicoanalitica rischiano di far perdere di vista la

quotidiana realtà.

6. La psicologia sociale: Adler e Fromm

Dalla psicoanalisi ha preso avvio un importante filone che ha dato corpo

ad una serie di teorie che hanno riservato particolare attenzione alle interazioni

che avvengono fra gli individui all’interno del sistema sociale e alla ripercussioni

di tali interazione sulla personalità. Questo filone è la psicologia sociale che può

essere dunque definita come lo studio delle relazioni interpersonali nel contesto

sociale, ovvero del modo secondo il quale la vita sociale si riflette sulle

manifestazioni psichiche della persona.

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Secondo la psicologia sociale, la personalità non può essere studiata in sé

ma solo nell’ambito dei continui rapporti che si instaurano fra l’individuo, le altre

persone e i gruppi. Le teorie psicosociali possono farsi risalire a quel secondo

filone di derivazione psicoanalitica che fa capo ad Alfred Adler (1870-1937). La

psicologia adleriana considera l’individuo come mosso, anziché da cause interiori

(quali gli istinti, le dinamiche insite nelle sue varie istanze o l’inconscio

collettivo) piuttosto dalle prospettive e dai bisogni legati al suo essere inserito

nella società.

Adler vede nella volontà di potenza l’impulso fondamentale che muove l’uomo:

essa prende l’avvio dalla sua innata aggressività e costituisce la fonte di energia

psichica che consente all’individuo di realizzare le sue aspirazioni verso la

superiorità, meta ultima di ogni condotta. Per converso, il contatto sociale può

alimentare, con l’insuccesso, sentimenti di inferiorità, intesi come senso di

incompiutezza e di imperfezione ma questo sentimento, a sua volta, è il punto di

partenza che stimola l’individuo verso il conseguimento di livelli di aspirazione

più alti.

In condizioni particolari (iperprotezione, carenza affettiva familiare, innata

disposizione) il sentimento d’inferiorità può essere talmente accentuato da

provocare manifestazioni anomale tanto da sviluppare un complesso di inferiorità.

Volontà di potenza, complesso di inferiorità, complesso di superiorità sono

processi psicologici che non infrequentemente possono ravvisarsi nella

criminogenesi di taluni soggetti.

La psicologia di Fromm sottolinea ulteriormente l’importanza del contesto

sociale: il tema della sua riflessione è quello della solitudine e dell’isolamento che

l’uomo prova se non armonicamente inserito nel suo ambiente sociale. Nel

pensiero di Erich Fromm (1900-1980) la condizione dell’uomo, per il suo

equilibrio e armonia, comporta anche il soddisfacimento di fondamentali esigenze

non materiali:

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1. il bisogno di relazioni - in quanto per divenire individuo

socializzato ha bisogno di amore, comprensione e rispetto

reciproco continuo;

2. il bisogno di trascendenza - che si ricollega alla necessità

dell’uomo di elevarsi al di sopra della sua struttura animale

mediante la creatività;

3. il bisogno di avere schemi di riferimento - cioè di un sistema

stabile e coerente di valori che gli consentano di percepire e

comprendere il mondo, schemi che gli vengono forniti dal costume,

dalla cultura, dalle norme;

4. il bisogno di identità personale – l’uomo ha anche necessità di

sentirsi un individuo unico e riconoscersi in una immagine di se

stesso coerente e stabile.

Da tutto questo discende la necessità di associarsi, di sentirsi inserito in un gruppo

per combattere l’isolamento, la solitudine e la carenza di identità.

L’inappagamento o la frustrazione di questi bisogni sono quindi possibili spinte

alla ricerca di compensazioni proprio per la condotta delittuosa.

7. Identità personale e teoria dei ruoli

La psicologia sociale ha elaborato due concetti rilevanti in ambito

criminologico:21

1) quello di identità personale – che si riferisce al sentimento che in

ciascuno si viene a strutturare in ordine all’assenza, unicità, qualità

della propria persona e ai fini e ai mezzi che devono informare il suo

inserirsi nel mondo.

2) Quello di ruolo – che si riferisce alle aspettative che nella società si

formano nei confronti di ciascun individuo in conseguenza della

21 Berasani L., Prina P., Sociologia della devianza, Nisi, Roma, 1995.

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posizione specifica che egli occupa nella società o delle funzioni che

svolge nei gruppi sociali.

Ai problemi della formazione delle disarmonie della identità personale è dedicata

buona parte del pensiero di Erikson (1963) che intende il sentimento della propria

identità come l’organizzazione di un’immagine coerente, omogenea, continua e

stabile dell’essenza della propria personalità.

La formazione dell’identità si realizza:

- attraverso l’identificazione con successivi modelli significativi;

- attraverso i ruoli via via proposti e assunti.

Se per questa cattiva organizzazione della identità, o per qualsiasi altro motivo, si

verifica qualche iniziale comportamento deviante o delinquenziali, si risvegliano

nel prossimo aspettative negative nei confronti di tali soggetti: ciò finisce con

l’alterare l’identità personale sicché l’attore realizza poi stabilmente con la

condotta deviante o criminosa il giudizio negativo anticipato nei suoi confronti

(profezia che si autoadempie).

La società, i gruppi, la famiglia continuamente confermano pertanto il sentimento

dell’identità personale con i giudizi, le valutazioni, le gratificazioni, le

frustrazioni. Ma in talune condizioni la società provoca una serie di degradazioni e

mortificazioni che possono alle volte condurre a una immagine di sé valorizzata,

che si denomina identità negativa. Il giudizio squalificato che un gruppo formula

verso un individuo fa sì che quest’ultimo sia facilitato ad adeguarsi a tale ruolo

negativo, assumendo una identità a esso conforme, e adottando quindi una

condotta stabilmente deviante.

La formazione della propria identità è influenzata oltre che dal giudizio degli altri

anche dalla posizione che ciascuno occupa nella società e dalle funzioni che

vengono svolte in coerenza alla posizione occupata. La posizione di ogni

individuo nella società, o status, costituisce un sistema relazionale che caratterizza

ogni persona in base a una serie di diritti e di doveri che regolano i suoi rapporti di

interazione con persone di altro status.

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Ciò che in criminologia è importante è il fatto che in ogni tipo di società ogni

status è legato a norme che ne regolano i rapporti con gli altri, e ad aspettative

circa l’osservanza dei compiti spettanti a chi occupa quello status: questo è quello

che si intende per ruolo. Questo concetto si riferisce dunque alle attese che

esistono nella società nei confronti di chi occupa una determinata posizione, ma in

questo concetto è insita la consapevolezza nutrita da chi occupa quel ruolo su ciò

che gli altri si attendono da lui. Se esiste un ruolo prescritto (allo studente è

prescritto di apprendere, all’insegnante di fornire nozioni e cultura, ecc.) esistono

anche un ruolo soggettivo (la professione è pur sempre una decisione personale

così come quella di fare il delinquente) e un ruolo svolto (divenire un insegnante

impegnato o uno studente svogliato) che sono liberamente scelti dai soggetti

anche se condizioni ambientali e varie circostanze possono favorire l’uno

piuttosto che l’altro.

Significativo, in senso criminogenetico, è l’occupare un ruolo negativo. Una serie

di status squalificati (per ceto, posizione economica, regione di nascita, razza,

immigrazione, ecc.) facilitano l’assunzione di ruoli altrettanto squalificati che

favoriscono la scelta comportamentale delinquenziale.

8. Devianza – emarginazione - marginalità

Alla psicologia sociale siamo debitori di altri tre concetti fondamentali:

1. il concetto di devianza che, nella sociologia struttural-

funzionalista, aveva il significato di comportamento anomalo sotto il

profilo statistico e raggruppava tutte quelle condotte che si discostavano

dalle regole e costumi sociali condivisi dalla maggior parte delle persone

.Ai tempi della sociologia di sinistra, i devianti venivano identificati con

coloro che erano considerati “vittime della società” a causa delle

discriminazioni e dei pregiudizi che le classi egemoni avrebbero esercitato

nei confronti dei “diversi”. E poiché ei confronti dei devianti viene

abitualmente esercitata l’emarginazione e perché pure i delinquenti

vengono emarginati si finì per includere fra i devianti anche i criminali.

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Alla fine si giunse ad identificare la criminalità con la devianza. Più

correttamente si debbono considerare devianti quei comportamenti che

suscitano invece reazioni di intensa disapprovazione e censura con

richiesta di sanzione: questi comportamenti sono attribuiti a titolo di colpa

ai loro autori perché non sono legati allo status in cui una persona si trova

per nascita e comunque non volontariamente ma sono frutto di scelta

(tossicomani, terroristi, tutti i tipi di delinquenti). La intensa

disapprovazione e la richiesta di sanzione risultano pertanto i parametri

fondamentali per identificare le condotte che meritano la qualificazione di

devianza. La devianza è un concetto sociologico e non giuridico.

2 Il concetto di marginalità, che indica una condizione statica o uno

status cioè la condizione di taluni individui che “si trovano ai margini della

società”. La marginalità comporta riduzione delle aspettative di

affermazione sociale, minore responsabilità sociale, minore partecipazione

alla vita e alle decisioni collettive. E’ operata verso coloro che, nella logica

dell’ideologia del profitto, non solo produttivi o hanno perduto la capacità

di produrre beni economici: gli inetti, i pensionati, i disoccupati La

marginalità è anche la posizione nella società di certi malati cronici e

specialmente dei sofferenti di AIDS e dei malati di mente. Infine,

divengono marginali i devianti e i delinquenti. Ma mentre i devianti o i

delinquenti si vengono a trovare ai margini della società a causa della loro

condotta disapprovata, gli altri si trovano ai margini della società per un

pregiudizio aprioristico in funzione del sesso, dell’età, del luogo di nascita

ma non per colpa della loro condotta.

3. Il concetto di emarginazione, che invece è un concetto dinamico

che viene messo in atto dai singoli e dai gruppi nei confronti di taluni

soggetti che si tende a escludere dagli abituali rapporti. Il deviante e il

criminale sono collocati in una posizione di marginalità per effetto della

emarginazione agita nei loro confronti: costoro vengono esclusi a cagione

del loro comportamento delittuoso o disapprovato dalla posizione che

occupavano.

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CAPITOLO 7

TEORIE BIOLOGICHE E CRIMINALITA’

1. L’approccio naturalistico

Come approccio naturalistico, si considera un campo di indagine che pur

senza ritenere le condotte criminose come unicamente riconducibili a cause

organiche, riserva particolare attenzione a certi fattori quali gli istinti,

l’ereditarietà e le predisposizioni all’aggressività, che rientrano nell’abito

dell’indagine delle scienze biologiche e mediche.

Questo filone della criminologia è visto frequentemente in antitesi a quello

sociologico e psicologico ma va ricordato che è da evitarsi la visione dicotomica

corpo-mente e che lo studio della condotta criminosa deve condursi nella

prospettiva più ampia possibile, mirando a integrare le conoscenze da qualsiasi

settore dello scibile esse provengano.

L’approccio naturalistico può essere dunque limitativo solo se inteso come unica

fonte di conoscenza con la pretesa di considerare l’uomo come struttura

esclusivamente biologica avulsa dal suo ambiente sociale.

Lo studio del crimine secondo l’approccio naturalistico, può essere affrontato

secondo diverse prospettive, quindi, possiamo distinguere:

a. Teorie della predisposizione – Il trasferire questo termine alla

criminologia può comportare il rischio di considerare la

delinquenza come una sorta di malattia. Possono inoltre ricondursi

alla predisposizione biologica solamente alcune caratteristiche

psichiche o certe strutture di personalità che possono facilitare

talune condotte delittuose ma senza che esista alcun diretto

rapporto fra tali aspetti psichici e la criminalità. Gli approcci

relativi alle predisposizioni biologiche consentono semplicemente

di evidenziare taluni elementi facilitanti le scelte delinquenziali:

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questa agevolazione è connessa alla esistenza di alcune condizioni

psichiche “a rischio” biologicamente determinate nel senso che

esse sono collocate nel novero dei fattori di vulnerabilità

individuale.

b. Teorie degli istinti – secondo le quali il comportamento

delinquenziale (certi tipi di delinquenza particolarmente violenta)

deriverebbero dal prevalere di pulsioni istintuali aggressive o

predatorie.

c. Sociobiologia – è un filone recentemente riproposto che mira a

identificare anche nel comportamento sociale un’origine ereditaria

anziché vedere le strutture sociali come solo dovute all’evolvere

della cultura.

2. Le teorie della predisposizione: eredità e delitto

L’ipotesi di una correlazione fra eredità e delitto, nel senso che

esisterebbero taluni individui dotati, per ragioni genetiche, di una sorta di

predisposizione innata al delitto è da considerarsi improponibile. La criminalità,

infatti, è un comportamento definito tale per convenzione sociale e perciò

variabile a seconda del mutare della cultura e delle norme; i fattori ereditari sono

invece una non modificabile realtà biologica, essendo legati al patrimonio

genetico di ciascun individuo che è indipendente dai fatti culturali e sociali.22

Esistono invece sicure correlazioni fra la struttura biologica degli individui

e certi aspetti della loro mente che possono favorire la criminalità: hanno

sicuramente matrice genetica l’aggressività, certe componenti dell’intelligenza, lo

spirito d’iniziativa, l’inventiva, la reattività. Esistono dunque fra struttura

biologica (cioè fattori psichici ereditariamente acquisiti) e criminalità delle

correlazioni indirette.

22 Compendio di criminologia, ed. Simone, Napoli, 2004.

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Indagini con la medesima finalità di scoprire una predisposizione innata

verso la criminalità sono state condotte mediante lo studio delle famiglie dei

criminali. Da questi studi è emerso:

1. la frequenza di soggetti condannati fra ascendenti e collaterali è

statisticamente maggiore di quanto si possa trovare nelle famiglie di coloro

che non sono mai stati condannati;

2. coloro che hanno avuto genitori criminali possono essere maggiormente

esposti a divenire essi stessi delinquenti senza per questo dimenticare che

questi individui delinquono perché hanno avuto una cattiva educazione e

perché i loro ambiente familiare è stato carente.

Altri studi si sono in passato rivolti ad esaminare il rapporto fra la costituzione e

la criminalità, partendo dal principio che la conformazione corporea è certamente

legata a fattori ereditari e dal fatto che esiste un certo rapporto fra costituzione e

caratteristiche psichiche, inferendo che la presenza di talune di queste

comporterebbe una sorta di predisposizione alla delinquenza.

Basti ricordare gli studi di:

1. Lombroso che aveva costruito la sua tipologia criminale correlando certe

caratteristiche morfologico-costituzionali con la predisposizione al delitto;

2. Di Tullio che considerava, a fianco del delinquente meramente

occasionale e di quello psicotico, tre tipi di delinquenti costituzionali: soggetti cui

sarebbero prevalenti fattori ereditari condizionanti una loro specifica struttura

psicologica. Egli distingueva:

il “delinquente costituzionale a orientamento ipoevoluto” (così

chiamato per lo scarso sviluppo delle caratteristiche psichiche superiori);

il “delinquente costituzionale a orientamento psico-nevrotico” (nel

quale prevalgono dinamismi psichici di natura nevrotica);

i delinquenti costituzionali a orientamento psicopatico” (che

hanno come tratto caratteristico le anomalie del carattere e i disturbi di

personalità).

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3. Sheldon (1942) – ha costruito una classificazione tripartita che prevede la

corrispondenza fra la costituzione fisica e certi tratti del temperamento:

a. la “costituzione endomorfa” – nella quale è presente una struttura

corporea morbida e rotondeggiante con scarso sviluppo dei

muscoli alla quale corrisponderebbe un orientamento psichico

caratterizzato da socievolezza, ghiottoneria, amore per la

comodità, umore stabile, tolleranza;

b. la “costituzione mesomorfa” – nella quale la struttura corporea è

forte con prevalente sviluppo della muscolatura e particolare

resistenza al dolore e agli sforzi fisici; ad essa corrisponderebbe un

temperamento volto verso l’aggressività e l’amore per il rischio;

c. la “costituzione ectomorfa” – con struttura corporea longilinea e

delicata caratterizzata da un temperamento volto al forte

autocontrollo, carattere chiuso, timore della gente, amore per la

solitudine.

Tutti questi approcci, naturalmente, sono oggi caduti in discredito e la validità

delle correlazioni fra fisico e psiche è limitata a un semplice livello statistico

perché le variabili psichiche individuali sono talmente tanto numerose da risultare

arbitrario il farle corrispondere a una tipologia costituzionale che prevede così

poca varietà.

Semplicistico e improprio è pertanto il parlare di disposizioni ereditarie al delitto

in quanto il fattore genetico non può invocarsi per una modalità di condotta così

complessa come la criminalità nella quale interferiscono circostanze ambientali e

situazionali, momenti storici differenti, diversità di luoghi, culture, norme e

soprattutto valori morali. Si può parlare solo di predisposizioni biologicamente

determinate in senso genetico verso particolari caratteristiche mentali che possono

a loro volta diventare condizioni favorenti (= fattori psichici di vulnerabilità) il

comportamento criminoso: tali sono specialmente l’aggressività, lo scarso

controllo dell’emotività e delle pulsioni, l’intolleranza alle frustrazioni.

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3. Le teorie degli istinti

L’antica questione mai risolta è se delinquenti si nasce o si diventa. Poiché

gli istinti sono innati vi è l’opportunità di affrontare la questione secondo gli

insegnamenti che derivano dalla biologia.

In biologia si sono a lungo contrapposti due antitetici orientamenti per quel che

riguarda le determinanti del comportamento: quello che privilegia l’istinto

(secondo il quale il comportamento è l’effetto delle predisposizioni congenite) e

quello che dà maggiore rilievo all’ambiente (secondo il quale il comportamento è

la conseguenza delle condizioni e degli stimoli ambientali). Vediamoli:23

1) orientamento istintivistico – secondo questo vecchio orientamento per

istinto si intende una serie di spinte ad agire in modo sempre uguale e in

prefisse direzioni per conseguire certi fini senza che l’animale avesse

alcuna consapevolezza dello scopo ultimo cui il suo agire mirava; si

riteneva che gli istinti fossero esclusivamente trasmessi per via ereditaria e

che fossero in numero relativamente scarso. Essi erano concepiti inoltre

come una potenzialità innata, come una forza che spinge all’azione senza

la necessità di alcun apporto proveniente dall’ambiente o meglio

l’ambiente forniva solo dei segnali che scatenavano l’azione istintuale.

Questa concezione è andata successivamente temperandosi con gli studi di

Karl Lorenz e degli altri etologi i quali hanno scoperto che gli istinti

vanno intesi come semplici schemi operativi generali: tendenze innate che

devono essere integrate con l’apprendimento, l’esperienza, l’insegnamento

da parte dei genitori, cioè con fattori che provengono dall’ambiente.

2) L’orientamento ambientalistico – secondo questo orientamento non può

distinguersi nella condotta ciò che è determinato congenitamente da ciò

che viene appreso dall’ambiente. La dotazione genetica si manifesterebbe

nella diversa capacità dell’animale di recepire (cioè apprendere) i

messaggi provenienti dall’ambiente che sarebbe, in definitiva, il principale

fattore inducente le varie modalità di condotta. Enorme importanza ha

23 Ponti G., Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.

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quindi l’apprendimento correlato alle mutevoli stimolazioni e alle

occasioni fornite dall’ambiente.

3) Orientamento correlazionistico – da un po’ di tempo, in biologia, si tenda

superare l’antinomia fra istinto e ambiente per giungere a una visione che

miri invece a sottolineare sempre più la stretta interdipendenza dei due

termini. L’antinomia fra istinto e ambiente verrebbe superata,

considerando due distinti tipi fondamentali di comportamento:

Il comportamento innato, esclusivo degli esseri viventi più

semplici, in cui la determinante ereditaria si riflette sulla struttura

biologica individuale la quale, giunta a maturazione e senza necessità di

interventi dell’ambiente, dà luogo al comportamento.

Il comportamento acquisito, tipico degli animali superiori, in cui i

fattori genici, comportando una struttura individuale diversificata, fanno sì

che gli individui interagiscano con l’ambiente in modo differente in quanto

agenti sul diverso modo di apprendere e sul modo con cui i successivi

apprendimenti si traducono in esperienza.

4. La criminalità violenta

Secondo alcuni studiosi, l’aggressività sarebbe una delle pulsioni istintuali

o delle motivazioni psichiche che più frequentemente entrano in gioco nella

criminogenesi.

E’ necessario distinguere tra aggressione, intesa come effettivo comportamento

lesivo di persone e aggressività, che si riferisce invece a una disposizione o

atteggiamento psichico favorevole all’aggressione.

Non sempre l’aggressività si esprime con condotte giuridicamente perseguibili ma

frequentemente può trovare modi di esprimersi socializzati o quanto meno

socialmente tollerati: essa è addirittura necessaria alla sopravvivenza dell’uomo e

della sua affermazione sociale. Ci sono diversi modi di comportarsi

aggressivamente e di commettere delitti su base violenta:

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1. aggressività diretta sulle cose e sull’ambiente, con significato

genericamente distruttivo, quando la pulsione aggressiva viene deviata

dalla persona cui è diretta verso gli oggetti;

2. aggressività diretta sulla persona esclusivamente in modo verbale, con

l’ingiuria e la calunnia;

3. aggressività diretta sulle persone, con la violenza sessuale, le percosse,

i maltrattamenti, l’omicidio;

4. aggressività rivolta contro sé stessi fino ad arrivare al suicidio.

5. aggressività rivolta verso sé stessi al solo fine di ottenere detenzione

emotiva nell’impossibilità di rivolgerla su altri (da non confondersi

con il tentativo di suicidio, è tipica delle personalità immature e

impulsive e si manifesta con alta frequenza fra i soggetti in reclusione

sotto forma di lesioni da taglio multiple e superficiali).

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CONCLUSIONI

“Attualmente la criminologia appare incerta circa le proprie finalità ed il proprio

oggetto di studio, risulta divisa in indirizzi talvolta profondamente contrastanti, è

condizionata da una situazione di profonda crisi, che in molti casi limita lo

sviluppo, l'affermazione e la diffusione della disciplina. Sulla crisi della

criminologia esiste un consenso quasi unanime ...”24

Per alcuni, la criminologia viene vista come una disciplina che soprattutto

deve dare consigli per strategie difensive di proprietà, interessi, informazioni. Da

questo punto di vista l'insegnamento della criminologia applicata è ovviamente di

grande importanza per forze di polizia, investigatori, operatori della sicurezza. Ma

la criminologia applicata, a confronto con i programmi offerti dalle scuole interne

ad alcuni organismi pubblici (Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia di Stato,

Sismi, Sisde hanno già le loro scuole, largamente finanziate e sperimentate),

appare per molti versi di difficile collocazione dentro l’università tradizionale.

Dagli spunti tratti da questo lavoro, risulta evidente come la criminologia

venga sempre più ad essere una scienza interdisciplinare, in cui discipline

giuridiche, cliniche e sociali collaborano concretamente. E’ auspicabile che tali

ambiti di ricerca non si accostino semplicemente tra loro, ma avvenga un vero e

proprio interscambio culturale e metodologico reciproco. E’ in questa dinamica

che la ricerca interdisciplinare in criminologia troverà ampia possibilità di

sviluppo futuro.

E’ possibile formulare un approccio ai problemi della criminalità che è

caratterizzato innanzitutto da un orientamento umanistico e istituzionale. Alcuni

punti che sono specifici di questo approccio ai temi della criminologia, della

sicurezza, della devianza, dell'intelligence.

24 Bandini T., Criminologia:il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, Giuffrè, Milano, 1991, p.9.

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1. Una criminologia umanistica comincia dalla considerazione che gli esseri

umani sono parte di una complessa rete di interazioni culturali, sociali,

psicologiche, economiche, giuridiche, istituzionali, e soprattutto morali.

Anche l’azione più deplorevole è a suo modo giustificata e ragionata. Se

noi ignoriamo l’aspetto motivazionale, perdiamo il significato del

comportamento criminale Per una criminologia umanistica, empatia e

compassione sono l'inizio della comprensione. Niente di umano è estraneo

ad una criminologia umanistica. Ad una impostazione umanistica è

connesso inevitabilmente il principio che sottolinea l'importanza

dell'educazione e della morale. Tutti gli operatori che si impegnano nella

prevenzione, nella repressione, nella riabilitazione debbono partire da

un’attenta valutazione del mondo etico del fuorilegge e della vittima.

2. Gran parte del comportamento criminale è comportamento razionale. La

razionalità del comportamento criminale si esercita dentro un contesto

istituzionale. Prima di infrangere la legge, gli individui svolgono un'analisi

costi-benefici di premi e punizioni. Questa premessa metodologica mette

in evidenza le responsabilità degli individui, ma ancor più quelle delle

istituzioni, che svolgono un ruolo decisivo: possono aiutare a prevenire il

crimine (ad esempio con interventi adeguati nel mercato del lavoro o

nell'istruzione) sia a scoraggiare il crimine (ad esempio attraverso

investigazioni che assicurino la certezza e la rapidità della pena). In un

certo senso, i livelli di criminalità sono uno specchio del funzionamento

dell'apparato istituzionale. Dopo Cesare Beccaria, è elementare

sottolineare l'importanza della razionalità del sistema istituzionale.

3. Le analisi della criminalità debbono essere svolte dentro un contesto

comparativo internazionale Il confronto con gli altri ci permette di

apprezzare meglio le caratteristiche del nostro paese. Il confronto tra

Oriente e Occidente, ad esempio, ci permette di considerare la grande

differenza esistente tra una cultura centrata sui doveri e una cultura

centrata sui diritti. Questo confronto ci fa porre in primo piano il concetto

di responsabilizzazione. Per prevenire il crimine è necessario che un

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sentimento di responsabilizzazione penetri fin dentro il cuore e la mente

dei cittadini.

4. Il valore della sicurezza non è un valore fascista o autoritario, è la

precondizione per vivere una vita decente in una società aperta. In nome

della sicurezza è necessario adottare varie forme di dissuasione e di

incapacitazione. Per una criminologia umanistica le vittime non sono

meno importanti dei fuorilegge: vanno risarcite e tutelate.

5. La metodologia delle investigazioni è un tema decisivo in una società

caratterizzata dall'asfissiante abbondanza delle notizie. La grande

trasformazione dell’informazione ha tra le varie conseguenze una

alluvione di disinformazioni, dicerie, calunnie, sussurri, indiscrezioni,

indizi, sospetti, verità, mezze verità, false verità. La rivoluzione telematica

ha alterato profondamente molti aspetti del lavoro delle forze di polizia,

della magistratura, dell'avvocatura.

6. I grandi processi di emancipazione che si sono sviluppati per ondate

successive e che coinvolgono sia le società economicamente più

sviluppate sia le società economicamente meno sviluppate, hanno

determinato la nascita di problemi nuovi e straordinari sia in quantità sia in

qualità. Dai problemi dell'immigrazione alla criminalità informatica, dal

riciclaggio dei capitali ai serial killer, dal tampering al mobbing, c'è una

fenomenologia nuova e in allarmante crescita. Spesso i più deboli sono le

prime vittime di queste tendenze; parliamo spesso di nuova criminalità

femminile, di baby killer e di baby boss

7. Il tema della illegalità diffusa diventa sempre più rilevante sotto molteplici

profili. Ad esempio, in molti sostengono con abbondanza di argomenti che

a volte lo Stato moderno sia uno Stato criminogeno, per le sue

inadeguatezze, lentezze, contraddizioni. Alcuni reati sono diventati reati di

massa, e, come nel caso dell’evasione fiscale, interessano non una

minoranza, ma la maggioranza della popolazione.

8. La globalizzazione per molti versi rivela ed esalta le specificità locali,

anche quelle più arretrate ed incivili. Il problema criminale nelle aree

economicamente arretrate è la conseguenza della miscela micidiale

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dell'arretratezza civile con una serie complessa di altri nodi irrisolti, in

primo luogo quelli istituzionali. Leggi e strutture improprie hanno favorito

l'emergere e l'affermarsi di quel che c'era di peggio nella società italiana e

in particolare nella società meridionale.

9. L'intelligence è una cosa molto diversa dallo spionaggio: lo spionaggio

può essere sommariamente definito come un traffico di informazioni

riservate; l'intelligence può essere sommariamente definita come l'attività

di raccolta, valutazione e cura delle informazioni relative alla sicurezza. Se

riteniamo che la sicurezza sia un valore, allora è di grande valore anche

l’intelligence, che ha come scopo supremo la salvaguardia delle vite

umane.

10. In una società aperta, e in particolare in una società aperta caratterizzata

dalla rivoluzione telematica, la circolazione della conoscenza e delle

opinioni deve essere sottoposta a controllo poliarchico e costituzionale.

L'università occupa un posto cruciale da questo punto di vista. La funzione

emancipativa della cultura non deve risparmiare le critiche. Anzi, una

consapevolezza critica e pluralistica deve accompagnare costantemente la

circolazione delle informazioni. Per gli scopi e le conseguenze, per i rischi

di manipolazione e di confusione, i problemi della criminalità debbono

essere osservati da una molteplicità di prospettive concorrenziali: i

miglioramenti umanistici e civilizzatori possono avvenire più facilmente

attraverso il dialogo, il confronto, la contrapposizione dei punti di vista e

delle interpretazioni.

Dagli spunti tratti da questo lavoro, risulta evidente come la criminologia

venga sempre più ad essere una scienza interdisciplinare, in cui discipline

giuridiche, cliniche e sociali collaborano concretamente. E’ auspicabile che tali

ambiti di ricerca non si accostino semplicemente tra loro, ma avvenga un vero e

proprio interscambio culturale e metodologico reciproco. E’ in questa dinamica

che la ricerca interdisciplinare in criminologia troverà ampia possibilità di

sviluppo futuro.

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BIBLIOGRAFIA

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www.ledizioni.com

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