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Istituto MEME s.r.l. Modena associato a
Université Européenne Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
STORIA DELLA CRIMINOLOGIA
ORIGINI – SVILUPPI – ORIENTAMENTI APPLICAZIONI
Scuola di Specializzazione: Scienze Criminologiche
Relatore: Dr.ssa Roberta Frison
Tesista specializzando: Dr.ssa Cinzia Palopoli
Anno di corso: Primo
Modena 24 – 06 – 2006
Anno accademico 2005-2006
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L BRUXELLES
CINZIA PALOPOLI – CRIMINOLOGIA - PRIMO ANNO A.A. 2005/06
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INDICE
PREMESSA pag. 6
Cap. 1. INTRODUZIONE ALLA CRIMINOLOGIA
1. Premessa pag. 7
2. Origini storiche pag. 9
3. La criminologia moderna pag. 9
4. Fenomenologia dei comportamenti criminosi pag. 10
5. Criminologia e psichiatria forense pag. 10
6. Il lavoro del criminologo pag. 11
7. I metodi della criminologia pag. 11
8. Le teorie criminologiche pag. 12
9. La criminologia clinica pag. 13
Cap. 2. LO STUDIO DELLA CRIMINOLOGIA
1. Premessa pag. 15
2. Il ruolo del criminologo e la criminologia pag. 15
3. Le scienze criminali pag. 17
4. Oggetto di studio e specificità della criminologia pag. 18
5. La criminologia come scienza pag. 19
6. Definizione di comportamento deviante e criminale pag. 22
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Cap. 3. METODOLOGIA DELLA RICERCA CRIMINOLOGICA
1. Premessa pag. 25
2. Il campo delle indagini criminologiche pag. 26
3. Gli strumenti di controllo pag. 28
4. Metodi e fonti delle conoscenze empiriche pag. 28
5. Il numero oscuro pag. 30
6. Statistiche di massa pag. 31
7. Inchieste su gruppi campione pag. 32
8. Le osservazioni individuali pag. 32
9. Questionari ed interviste pag. 33
10. Indagini predittive pag. 34
Cap. 4. LO SVILUPPO DEL PENSIERO CRIMINOLOGICO
1. Ideologie e criminologia pag. 35
2. L’Illuminismo e l’ideologia penale liberale pag. 37
3. La Scuola Classica del diritto penale pag. 38
4. Il determinismo sociale: la società come causa del delitto pag. 39
5. Il determinismo biologico e la criminologia dell’individuo:
Cesare Lombroso pag. 40
6. La Scuola Positiva pag. 42
7. Integrazione tra approccio sociologico e antropologico pag. 43
8. Gli sviluppi dell’indirizzo individualistico e la
criminologia clinica (anni ’50) pag. 44
9. Il Nuovo Realismo pag. 45
10. Neo-Classicismo e abolizionalismo pag. 46
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Cap. 5. TEORIE SOCIOLOGICHE E CRIMINALITA’
1. Premessa pag. 49
2. La teoria ecologica o delle aree criminali pag. 49
3. Le teorie della disorganizzazione sociale pag. 50
4. La teoria dei conflitti culturali pag. 51
5. Lo struttural-funzionalismo e teoria della devianza pag. 52
6. L’anomia come causa di devianza: Merton pag. 54
7. La teoria delle associazioni differenziali: Sutherland pag. 56
8. La criminalita’ dei “colletti bianchi” di Sutherland pag. 58
9. La criminologia del consenso pag. 60
10. La criminologia del conflitto pag. 62
11. Le teorie dell’etichettamento pag. 63
12. La criminologia critica: criminalità come fatto politico pag. 65
Cap. 6. TEORIE PSICOLOGICHE E CRIMINALITA’
1. La criminologia incentrata sull’individuo pag. 68
2. Personalità – temperamento - carattere pag. 69
3. Le teorie psicoanalitiche di Freud pag. 72
4. La coazione a confessare pag. 74
5. Psicoanalisi e criminalità: Alexander e Staub pag. 75
6. La psicologia sociale: Adler e Fromm pag. 79
7. Identità personale e teoria dei ruoli pag. 81
8. Devianza – emarginazione – marginalità pag. 83
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Cap. 7. TEORIE BIOLOGICHE E CRIMINALITA’
1. L’approccio naturalistico pag. 85
2. Le teorie della predisposizione: eredità e delitto pag. 86
3. Le teorie degli istinti pag. 89
4. La criminalità violenta pag. 90
CONCLUSIONI pag. 92
BIBLIOGRAFIA pag. 96
SITOGRAFIA pag. 96
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PREMESSA
La scelta di questo lavoro, è dettata da alcune motivazioni: la prima è,
certamente, quella di offrire una visione d’insieme, se non del tutto completa,
delle teorie che si sono succedute nel tempo. Si è convinti, infatti, che chi si
avvicina per la prima volta alla materia debba conoscerne la storia, i metodi di
ricerca, l’evoluzione e le varie sfaccettature per, poi, decidere di proseguirne lo
studio e sceglierne, nel caso affermativo, l’area tematica da approfondire. Per
questo si è cercato, quando si è ritenuto opportuno, di fare un breve excursus delle
correnti di pensiero che hanno ispirato di volta in volta le teorizzazioni
criminologiche.
Il testo, offre una paronamica ampia e sistematica di tale affascinante disciplina,
che assume sempre maggiore importanza. Poiché la connotazione
multidisciplinare della materia, rende alcuni testi non di facile apprendimento, si è
preferita una stesura espositiva lineare per favorire l’approccio anche a chi si
avvicina per la prima volta alla materia.
In conclusione, il mio intento è stato quello di dimostrare come la tendenza
di fondo della criminologia sia consistita, da una parte, nel progressivo ricorso
all’approccio interdisciplinare e, dall’altra, nel dare importanza crescente ai fattori
esogeni o sociali del comportamento deviante.
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CAPITOLO 1
INTRODUZIONE ALLA CRIMINOLOGIA
1. Premessa
Per criminologia si possono intendere professioni, metodi, teorie, approcci molto
diversi ed anche in forte contrasto. Nonostante mafia e terrorismo, i misfatti
impuniti e i problemi insoluti, la corruzione che ci vede collocati in posti
miserevoli delle classifiche internazionali, l’illegalità di massa, eccetera, la storia
della criminologia è in Italia particolarmente rilevante. Cesare Beccaria é il punto
di partenza del diritto penale moderno; Cesare Lombroso è la pietra miliare
dell’antropologia criminale moderna. In questi giganti della storia della cultura
italiana e mondiale, è preminente l’importanza dell’aspetto metodologico. Di
Cesare Beccaria è ben nota la critica esemplare di ogni potere penale arbitrario,
irrazionale, inquisitorio, oscurantista. A differenza di Beccaria, Lombroso è stato
assai contestato, proprio sul piano metodologico, per molto tempo.
Dalle critiche al positivismo di tipo lombrosiano sono nati i due più geniali autori
della criminologia moderna: Durkheim e Sutherland. La metodologia
durkheimiana è frontalmente contrapposta alla metodologia lombrosiana: non
basta collezionare una quantità enorme di esempi, dati, casi, fatti, sentenze,
fotografie, disegni, per dimostrare la bontà di una teoria. Il desiderio e la
presunzione di sapere, di esplorare, di teorizzare, sono tendenze tanto umane
quanto diffuse ed ingenue: bisogna controllarle attentamente. Negli Stati Uniti, la
Criminologia presentò sin dagli inizi un orientamento prevalentemente, se non
proprio esclusivamente, sociologico e tale indirizzo conserva tuttora. Per
l’influenza schiacciante di Durkheim nell’area culturale di lingua francese e per
l’influenza schiacciante di Sutherland, di Merton, della scuola di Chicago, nei
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Paesi di lingua anglosassone, la criminologia è stata per decenni un sottosettore
della sociologia. 1
Le istituzioni, svolgono un ruolo decisivo: possono aiutare a prevenire il crimine
(ad esempio con interventi adeguati nel mercato del lavoro o nell'istruzione) sia a
scoraggiare il crimine (ad esempio attraverso investigazioni che assicurino ai
colpevoli una pena certa e rapida). In questa prospettiva, i fattori istituzionali sono
un fattore cruciale: l'intervento pubblico può compensare, correggere, modificare i
problemi individuali e collettivi, oppure aggravarli, o lasciarli marcire, fino a farli
diventare una concausa di varie forme di criminalità e di disagio sociale. Livelli di
criminalità e livelli di funzionalità delle istituzioni sono strettamente correlati. Gli
alti livelli odierni di criminalità sono connessi con una forte difficoltà delle
istituzioni di fronteggiare i problemi odierni, assai diversi rispetto a prima.
La criminologia di Durkheim e di Sutherland era strettamente connessa con i
problemi sociali dell’età industriale. Per Durkheim una nuova morale civile
doveva essere costantemente predicata attraverso le istituzioni, dalle scuole
elementari fino alle università; egli richiedeva l'intervento dello Stato.. Un suo
dovere è quello di vegliare sulla salute sociale». Ragionamenti simili si ritrovano
nella sociologia e nella criminologia americana, che affrontarono molti problemi
della società industriale con un’enfasi speciale sulle istituzioni, sull’educazione,
sulla morale civile.
La criminologia può essere definita come la disciplina scientifica che studia i
reati, i loro autori, e la reazione sociale ai reati medesimi. È una disciplina sia
teorica che empirica, sia descrittiva che esplicativa, sia normativa che fattuale.
L'oggetto fondamentale di studio è, come detto, il reato, la cui definizione è
esclusivamente sociale. Il reato non è un fatto biologico o assoluto, ma il frutto di
una certa definizione sociale che varia in funzione del tempo (storia) e dello
spazio (geografia), ossia varia da cultura a cultura. Crimine, diritto e cultura sono
pertanto concetti profondamente interrelati tra loro.
1 Ponti G.,Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.
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2. Origini storiche
Dal punto di vista storico, i primi albori della criminologia si hanno con
l'affermarsi della cultura illuminista nel XVIII secolo, e in particolare con gli
scritti dell'italiano Cesare Beccaria ("Dei delitti e pene"). Ne nasce la cosiddetta
"scuola classica", imperniata sui concetti liberistici del diritto penale.
Successivamente, nell'Ottocento, con lo sviluppo delle scienze empiriche
(psicologia, sociologia, antropologia), nasce la scuola positiva, che si articola in
due direzioni: lo studio dell'uomo che delinque secondo l'approccio medico-
biologico dell'antropologia criminale (Cesare Lombroso) e lo studio sociologico
delle condizioni che favoriscono la commissione differenziale di reati in funzione
del ceto sociale di appartenenza.
In seguito, con il moltiplicarsi delle ricerche e delle conoscenze psicologiche, la
scuola positiva prenderà anche un taglio psicopatologico e psichiatrico. La
delusione conseguente alle eccessive aspettative che si erano formate in relazione
alla possibilità di affrontare scientificamente i problemi della criminalità porterà
all'emergere di approcci di criminologia critica e di anticriminologia da un lato, e
dall'altro al riemergere della scuola classica (nel filone oggi denominato
"neoclassico").
3. La criminologia moderna
Attualmente la criminologia si configura come una scienza multidisciplinare ed
interdisciplinare, che rifugge dalle spiegazioni monofattoriali ricorrendo
preferenzialmente ad un approccio multifattoriale (non c'è un'unica "causa
universale" dell'agire criminoso, bensì una costellazione mutevole di possibili
variabili causali, da valutarsi sempre caso per caso nello specifico individuo o
contesto sociale sotto il profilo della criminogenesi e della criminodinamica).
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4. Fenomenologia dei comportamenti criminosi
Dal punto di vista descrittivo, la criminologia si occupa sia della fenomenologia
dei principali delitti (il modo in cui essi si manifestano concretamente: omicidio,
violenza sessuale, reati legati al consumo di sostanze stupefacenti, crimini
economici e dei colletti bianchi, delinquenza comune e organizzata, terrorismo, e
così via) sia delle possibili classificazioni dei reati, degli autori dei reati (tipologie
di autori: imputabili e non imputabili, primari e recidivi, ecc.), dei moventi
sottostanti ai reati medesimi (stati emotivi e passionali, moventi di lucro, moventi
di vendetta, eccetera). L'analisi fenomenologica della criminalità ha evidenziato,
ad esempio, che la tendenza all'agire criminale è molto più frequente (quasi dieci
volte più frequente) nei maschi che nelle femmine, e si concentra nelle fasce
giovanili di età (dai 20 ai 35 anni soprattutto).
5. Criminologia e psichiatria forense
Lo studio delle tossicodipendenze e quello delle malattie mentali, nei possibili
risvolti criminologici, è di competenza di quel ramo della criminologia che è
formato dalla psichiatria e dalla psicopatologia forense.
Il maggiore campo applicativo di queste discipline riguarda la questione
dell'imputabilità, a sua volta collegata alla valutazione della capacità di intendere
e di volere. Per la legge italiana, se manca pienamente la capacità di intendere e/o
di volere, il reo non è imputabile e nei suoi confronti vengono prese delle misure
di sicurezza a carattere anche terapeutico; se invece la capacità di intendere e/o di
volere è "grandemente scemata", il reo è imputabile ma la pena è diminuita (e
possono essere prese delle misure di sicurezza).
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6. Il lavoro del criminologo
In Italia il criminologo può operare nei seguenti contesti professionali: all'interno
delle carceri, come esperto facente parte dell'équipe di osservazione e trattamento;
come esperto del Tribunale di Sorveglianza o del Tribunale dei Minori; come
componente "non togato" del Tribunale di Sorveglianza; come perito nominato
dal giudice o da una delle parti, nell'ambito di un procedimento penale in cui sia
importante la valutazione dell'imputabilità.2
Esistono anche limitate possibilità di impiego come collaboratore delle forze
dell'ordine (per esempio come esperto di "criminal profiling") o come consulente
aziendale in materia di sicurezza.
7. I metodi della criminologia
La criminologia è oggi una disciplina piuttosto eclettica in termini metodologici.
Essa si avvale infatti delle seguenti tecniche di indagine:
• lo studio di casi clinici individuali
• le ricerche mediante campioni (sondaggi campionari)
• l'analisi di statistiche ufficiali collettive
• l'analisi di fonti informative e documentali
• le ricerche sperimentali o quasi-sperimentali
• le inchieste sociali e sul campo
• l'analisi di documenti storici
Sono anche possibili indagini settoriali e studi predittivi mediante particolari
tecniche statistiche. In Italia le statistiche ufficiali della criminalità sono raccolte,
elaborate e pubblicate dall'ISTAT, l'istituto nazionale di statistica. Esse forniscono
2 Merzagora, Betson I.,Lezioni di criminologia, Cortina, Milano, 1999.
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in particolare i tassi relativi ai vari reati (il tasso di un reato è il numero di casi del
reato in questione, registrato in un determinato anno, ogni cento mila abitanti).
Indagini campionarie a scopo criminologico sono svolte da vari istituti italiani, per
esempio dal Censis e da Doxa. Esse consentono di studiare la percezione
dell'opinione pubblica in materia di criminalità e di misurare quante persone sono
state vittime di reati (in questo caso si tratta delle cosiddette "indagini di
vittimizzazione"). Il confronto fra i reati ufficialmente denunciati e quelli
realmente commessi, quali risultano dagli studi di vittimizzazione, consente una
sia pur sommaria valutazione del "numero oscuro" (i reati commessi ma non
denunciati né rilevati ufficialmente, che sono sempre in numero maggiore rispetto
ai reati ufficialmente "contabilizzati"). Il problema della valutazione del numero
oscuro è una delle maggiori sfide metodologiche per la criminologia.
8. Le teorie criminologiche
Sono state proposte molte teorie per spiegare i fenomeni criminali. Esse si
possono dividere in:
• teorie biologiche fra le prime vanno ricordati gli studi di Cesare
Lombroso sul delinquente nato e sul concetto di
"atavismo", oltre che le indagini sui fattori genetici,
ormonali, psicopatologici e neurologici dell'agire
criminoso.
• teorie psicologiche alla base del comportamento criminale potrebbe
esserci un "accumulo" di aggressività da
frustrazione
• teorie sociologiche fra le teorie sociologiche si ricordano quella degli
ambienti o contesti criminogeni (ecologia
criminale), la teoria delle associazioni differenziali
di Sutherland, quella delle identificazioni
differenziali, la teoria del conflitto culturale, le
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teorie fondate sul concetto di anomia (maggiore è la
tendenza anomica in una società, maggiore è la
frequenza di reati in quella stessa società).
9. La criminologia clinica
Il ramo applicativo della criminologia viene denominato "criminologia clinica".
Essa si propone, soprattutto attraverso l'analisi e l'intervento su singoli specifici
casi, di formulare una diagnosi, una prognosi e una possibile "terapia
trattamentale" relativamente agli autori di reati. La diagnosi punta a ricostruire i
fattori e le condizioni che hanno portato alla genesi e all'esecuzione del reato
(criminogenesi e criminodinamica), la prognosi cerca di valutare la maggiore o
minore "pericolosità sociale" del delinquente, la terapia prevede interventi di
rieducazione e di assistenza psicologica con l'obbiettivo di risocializzare il reo e
consentirgli una piena reintegrazione sociale. Per quanto riguarda la dimensione
prognostica, che ha come detto l'obiettivo fondamentale di valutare la maggiore o
minore pericolosità sociale di un soggetto, nonché di stimare le maggiori o minori
probabilità di recupero sociale per quel soggetto, un modello previsionale che ha
avuto notevole successo in passato è quello sviluppato dai coniugi Glueck. Questo
modello ipotizza che tre gruppi di variabili consentano di prevedere la maggiore o
minore probabilità di incorrere in una "carriera criminale":
1) variabili legate alla famiglia di origine (clima familiare, atteggiamenti dei
genitori, valori o controvalori trasmessi, e così via),
2) variabili legate alla struttura di personalità del soggetto (stabilità o instabilità
emotiva, resistenza o meno alla frustrazione, maggiore o minore impulsività,
eccetera),
3) variabili legate ai concreti comportamenti espletati dal soggetto medesimo
(maggiore o minore precocità di manifestazione di episodi devianti, tendenza o
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meno alla recidiva, tendenza o meno a fare uso di sostanze voluttuarie o
stupefacenti, e così via).
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CAPITOLO 2
LO STUDIO DELLA CRIMINOLOGIA
1. Premessa
La criminologia, offre in una prospettiva umanistica, molteplici spunti per
ampliare le conoscenze e favorire una migliore conoscenza della persona umana.
Fornire conoscenze maggiormente approfondite, che non ricalchino solo il
comune buon senso o gli stereotipi e i luoghi comuni sul crimine è lo scopo
specifico di questa disciplina.
2. Il ruolo del criminologo e la criminologia
a. ll ruolo del criminologo
Comunque il ruolo del criminologo non è soltanto quello di trattare della
criminalità e di elencarne tipologie e manifestazioni, ma anche quello di
analizzare, interpretare e organizzare le relative informazioni all’interno di una
cornice sistematica, allo scopo di avere una chiara visione del fenomeno. Infatti, la
descrizione obiettiva e ben strutturata dei fattori quantitativi e qualitativi del
comportamento criminale e deviante costituisce il necessario prerequisito per
qualsivoglia analisi esplicativa del crimine.3
Ci si è resi conto che, come in tutte le scienze umane, anche in
criminologia non sia possibile giungere a una spiegazione attraverso un processo
induttivo di causa-effetto. Appare, invece, possibile evidenziare ed esaminare le
connessioni tra il fenomeno criminale e quei fattori sociali che contribuiscono a
perpetuarne l’esistenza, quali i valori dominanti e la struttura sociale. Lo stesso
discorso vale se si vuole analizzare il singolo deviante; in questo caso si
evidenziano le correlazioni tra fattori individuali (personalità, carattere, patologie
3 http://it.wikipedia.org/wiki/criminologia
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mentali, ecc.) e sociali (condizioni socio-economiche, familiari, rapporti
interpersonali, ecc.).
E’ preferibile definire la criminologia come una disciplina multifattoriale.
È, comunque, pur sempre una scienza idiografica, che studia i fatti, le
cause e le probabilità degli eventi particolari, e nomotetica, cioè mirante a scoprire
leggi scientifiche universalmente valide, uniformità e tendenze.
Il criminologo, perciò, assume il doppio ruolo di teorico e di ricercatore.
Nel primo sviluppa teorie e tenta di individuare le cause del
comportamento criminale.
Le teorie più strettamente sociologiche, invece, pongono l’accento
sull’importanza dell’apprendimento e dei processi di socializzazione. Entrambi gli
approcci, poi, rilevano la forte influenza che le disuguaglianze economiche e
sociali hanno sullo sviluppo di tensioni, frustrazioni e conflitti che possono in
qualche modo indurre le persone a coinvolgersi in atti criminali.
Sia gli studi teorici sia le ricerche empiriche, comunque, contribuiscono
con i loro risultati all’evoluzione della politica sociale e criminale e alla
formazione di programmi di trattamento per i delinquenti e le loro vittime.
Un logico corollario di tali considerazioni consiste, infine, nel ruolo di
ermeneuta del criminologo, che deve continuamente sottoporre a valutazione
critica i risultati degli studi teorici ed empirici per proporre cambiamenti e
suggerire nuovi indirizzi di indagine.
In conclusione, la criminologia si prefigge i seguenti fondamentali
obiettivi: in primis, individuare, definire e descrivere il maggior numero possibile
di atti e comportamenti devianti nella società; in secondo luogo analizzare,
interpretare e organizzare i dati rilevati sulla criminalità; terzo, sviluppare
spiegazioni teoriche sull’eziologia della criminalità e del comportamento deviante.
b. Definizione di criminologia
Con il termine «criminologia» si intende lo studio scientifico della
criminalità, del delinquente e del comportamento criminale. Più in particolare i
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criminologi studiano la natura e la dimensione del crimine, i tipi di criminalità,
cercano di individuare e spiegare le cause del reato e del comportamento
antisociale, nonché la connessa reazione sociale.
La criminologia è una scienza autonoma, una disciplina unica la quale si
costituisce «a esposizione propedeutica di un sistema di scienze»una disciplina
integrata che trae le sue conoscenze da molti campi, da una «costellazione» di
altre discipline: sociologia, psicologia, psichiatria, antropologia, biologia,
giurisprudenza e diritto penale, scienza politica, storia e scienza della pubblica
amministrazione. I criminologi, quindi, con le loro radici e la loro formazione nei
diversi settori, contribuiscono allo studio della criminalità soprattutto attraverso lo
sviluppo di ricerche scientifiche atte a far loro analizzare e spiegare le diverse aree
del crimine in rapporto a un ampio spettro di fattori come età, sesso, razza,
religione, classe sociale, attività lavorativa, stato civile, clima, stagioni, ecc.
3. Le scienze criminali
Le discipline che hanno come loro interesse i fenomeni delittuosi si denominano
“scienze criminali” e ad esse appartengono, oltre alla criminologia:4
- il diritto penale – esso è la scienza che studia, analizza ed approfondisce il
complesso delle norme giuridiche rivolte ai cittadini, le quali divengono,
in forza di legge, regole di condotta. Pertanto, il delitto, che è il campo
degli interessi e delle indagini scientifiche della criminologia, viene ad
essere definito dal diritto penale.
- Il diritto penitenziario – che ha come oggetto l’insieme delle disposizioni
legislative e regolamentari che disciplinano la fase esecutiva del
procedimento giudiziario penale.
- La psicologia giudiziaria – che studia la persona umana non in quanto
reo ma quale attore, in differenti ruoli, nel procedimento giudiziario.
4 www.criminologia.it
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- La politica penale (o politica criminale) – che ha come obiettivo quello di
studiare, elaborare e proporre gli strumenti ed i mezzi (legislativi,
giuridici, sociali, trattamentali, preventivi) per combattere la criminalità.
- La criminalistica, invece, non va confusa né con la criminologia né con le
scienze criminali: essa è da intendersi come l’insieme delle molteplici
tecnologie che vengono utilizzate per l’investigazione criminale. Si tratta
di tecniche di polizia scientifica che hanno come obiettivo la risoluzione di
svariati problemi di ordine investigativo, utili per la qualificazione del
reato, per la identificazione del reo o della vittima, per la caratterizzazione
delle circostanze (es.: analisi grafometrica, analisi di campioni biologici,
indagini tossicologiche, ecc.).
4. Oggetto di studio e specificità della criminologia
La criminologia si colloca fra le discipline che hanno come loro oggetto di
studio la criminalità e che abbiamo definito quali scienze criminali. Tratto
caratteristico della criminologia, però, è il confluire integrato e non meramente
giustapposto degli apporti di diverse discipline secondo una prospettiva sintetica.
Vediamo le sue caratteristiche in particolare:
- l’ampiezza del campo di indagine – che considera i fatti criminosi e i loro
aspetti fenomenologici, le variazioni nel tempo e nei luoghi, le condizioni
sociali ed economiche che ne favoriscono la diffusione e le modificazioni.
Rientrano nell’ambito dei suoi interessi anche lo studio degli autori dei
delitti, i diversi tipi di reazione sociale che il delitto suscita, l’analisi delle
conseguenze esercitate dal crimine sulle vittime, del fenomeno della
devianza.
- È una scienza multidisciplinare – essa si occupa dei fenomeni delittuosi
secondo molteplici prospettive e competenze. Afferiscono alla
criminologia conoscenze fornita da più discipline quali la sociologia, la
psicologia, la psichiatria, la psicologia sociale, ecc. mentre è esclusivo
compito della criminologia il coagulare in sé i loro apporti per quanto può
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essere utilizzato per lo studio del crimine. Il criminologo è lo studioso che
deve saper integrare in una visione sintetica dati, conoscenze, approcci e
metodi provenienti da campi diversi del sapere.
- È una scienza interdisciplinare – poiché ha necessità di dialogo con altre
scienze per poter, congiuntamente a queste, affrontare questioni alla cui
risoluzione necessitano molteplici competenze.
- È una delle scienze dell’uomo – tali si definiscono quelle scienze che
studiano quella realtà complessa, articolata e multiforme che è il
comportamento umano in seno alla società nei suoi infiniti aspetti. Con le
altre scienze dell’uomo (posologia, antropologia, pedagogia, storia,
economia, psichiatria, ecc.) la criminologia ha in comune lo studio
dell’uomo nella sua dimensione individuale e sociale, e come suo
specifico oggetto lo studio dell’uomo allorquando viola la legge penale.
5. La criminologia come scienza
Per poter parlare di scienza è necessario gli irrinunciabili requisiti sono:
- la sistematicità – nel senso che una scienza è l’insieme delle conoscenze
acquisite in determinati ambiti del sapere, integrate in un complesso
strutturato ed armonico;
- la controllabilità – posto che le enunciazioni debbono poter essere
sottoposte al vaglio delle critiche logiche e al confronto con i dati della
realtà;
- la capacità teoretica – per la quale una scienza deve riunire e riassumere
molteplici osservazioni e dati sui fenomeni di cui si occupa in proposizioni
astratte unite da un nesso logico (le teorie) e intese a spiegare, in una
costruzione semplice e comprensibile, i rapporti causali, le correlazioni e
le variabili dei fatti oggetto della sua analisi;
- la capacità cumulativa – consistente nella caratteristica delle scienze di
costruire teorie in derivazione l’una dall’altra talché le più recenti
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correggono, modificano, amplificano o perfezionano le teorie prima
formulate;
- la capacità predittiva – anche se è doveroso precisare che le scienze
dell’uomo presentano grandi limiti nella possibilità di prevedere quali
saranno i futuri comportamenti sia collettivi che dei singoli individui.
L’uomo, infatti, non è mai “costretto” ad agire in un certo modo ma è
libero, sia pur in modo non totale, di scegliere la sua condotta: la quale è
influenzata, anche fortemente, dal sistema delle relazioni interpersonali,
dagli obblighi legali e dalle norme di costume, così come lo è dai fattori
sociali, economici, familiari, ma alla fine la condotta è pur sempre rimessa
alla scelta dell’individuo.
Per studiare e spiegare il comportamento criminale e deviante possono
essere utilizzati diversi approcci. L’approccio proprio della criminologia deve
essere distinto dagli altri in quanto essa utilizza il metodo scientifico nelle sue
investigazioni. Nell’uso di tale metodo i criminologi seguono determinate linee
guida; tra queste le più importanti sono l’obiettività, i dati fattuali, la precisione, la
valutazione e la verificazione.
Indubbiamente la principale qualità del metodo scientifico deve essere
l’obiettività, riferita all’abilità e volontà di studiare un qualsivoglia fenomeno
senza pregiudizi e prevenzioni. Il criminologo, perciò, deve condurre la ricerca e
trarne le conclusioni senza farsi influenzare da preconcetti e sentimenti personali;
Per massimizzare l’obiettività, lo studioso di criminologia deve, perciò,
stare in guardia dai propri «moti dell’animo» e valori di riferimento e ciò può
avvenire solo attraverso un’adeguata formazione e un prolungato addestramento
nell’approccio scientifico. In altre parole il ricercatore, deve basarsi sui dati
fattuali emersi dalla ricerca scientifica e non su speculazioni personali o su
nozioni di senso comune.
La terza linea guida prima accennata è la precisione in tutte le fasi di una
ricerca e in particolare nella raccolta e analisi di dati tanto delicati e complessi
quali sono appunto quelli relativi alla questione criminale. L’ultimo elemento di
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un corretto approccio scientifico consiste nella valutazione critica e verificazione
da parte degli altri studiosi della materia.
Di certo la criminologia è stata da molti ricompresa fra le scienze
empiriche, nel senso che sarebbe fondata solo sull’osservazione della realtà
criminosa e non sulla speculazione astratta o su presupposti teorici o su giudizi di
valore, e nel senso che i suoi dati dovrebbero avere carattere oggettivo. Ciò però
accade solo per talune delle teorie criminologiche poiché altre sono invece
fortemente influenzate dall’atteggiamento soggettivo dello studioso. Il carattere
avalutativo e neutrale della criminologia intesa come scienza sempre e solo
empirica, a lungo sostenuto nel passato è oggi assai ridimensionata. Le teorie
criminologiche non vengono più considerate come oggettive certezze anche se
rimane pur sempre alla criminologia il requisito di scienza anche emprica, ma
solo relativamente a talune delle sue acquisizioni. Un altro aspetto del suo essere
scienza empirica si manifesta con la sua qualificazione come scienza descrittiva
dei fenomeni criminosi: per questo ad essa competa la descrizione fattuale, la
classificazione e la differenziazione tassonomica dei delitti e dei loro autori. Nel
momento in cui alla descrizione si aggiunge però anche la ricerca e la
identificazione dei fattori responsabili di tali eventi, la criminologia viene ad
assumere il carattere di scienza eziologia, cioè di scienza che ricerca le cause dei
fenomeni da lei osservati.5
Aspetto empirico/descrittivo giudizi di fatto
Criminologia
Aspetto ideologico/critico giudizi di valore
Quando la criminologia costruisce le sue teorie, viene dunque ad assumere
prevalenti connotazioni di scienza eziologia: in questo senso, sottolineando
l’importanza di alcuni fattori e indicandoli come cause della criminalità, viene in
5 Ponti G.,Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.
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definitiva ad effettuare giudizi ispirati a valori e perde quindi le sue connotazioni
di scienza empirica. Ciò si verifica rinunciando al metodo induttivo in favore di
quello deduttivo, particolarmente nella costruzione di talune teorie, nelle quali è
preminente la interpretazione di taluni fatti secondo una visione ideologica o
sociale: assume in tal caso le caratteristiche di quelle scienze che si fondano su
giudizi di valore. Quando la criminologia coltiva essenzialmente l’aspetto
empirico e descrittivo dei fenomeni criminosi, è prevalente la prima caratteristica;
quando la criminologia entra nel merito di valutazioni che sono ideologiche o
etiche, quando privilegia taluni fattori sociali conferendo ad essi valore di causa
unica o prevalente della criminalità essa assume caratteri di scienza speculativa
che si fonda su giudizi di valore. Un’altra caratteristica della criminologia è quella
di essere anche una scienza applicativa. Fra le molteplici competenze del
criminologo, vi è anche quella di intervenire operativamente sui fenomeni
criminosi e sugli individui. La criminologia non può essere solo scienza empirica
e conoscitiva, ma include in sé necessariamente anche aspetti di scienza etico-
normativa poiché le sue acquisizioni, oltre che basarsi su giudizi di fatti,
contengono anche giudizi di valore.
6. Definizione di comportamento deviante e criminale
La criminologia considera il crimine come la forma più grave di
comportamento deviante
In tal modo le norme culturali o sociali definiscono il grado di stabilità e ordine
all’interno di una società e assicurano la realizzazione di numerosi valori e bisogni
fondamentali.
Di conseguenza, il comportamento deviante è quello che non si conforma alle
regole sociali, che viene meno alle aspettative di un gruppo, comunità o società,
mentre si considera come criminale il comportamento che violi le leggi penali del
contesto di riferimento. In ogni società, gruppi di soggetti dominanti istituiscono
uno spettro di procedure e tecniche allo scopo di garantire il mantenimento del
controllo sociale e della conformità a regole e leggi: ciò avviene principalmente
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per mezzo del processo di socializzazione, che consiste nell’interiorizzazione di
valori, credenze, propensioni e modelli di comportamento socialmente accettati.
Ma la conformità alle leggi e alle regole sociali si sviluppa anche grazie a
numerosi meccanismi esterni, sia informali sia formali. Più le società sono
complesse, più il controllo informale perde efficacia e viene sostituito con quello
più formale. I meccanismi di controllo formale consistono, in concreto, nel
sistema di leggi scritte, nel potere legislativo e giudiziario, nelle forze di polizia e
nel sistema penitenziario. Lo Stato, che rappresenta l’autorità più elevata,
possiede quindi il monopolio dell’uso della coercizione allo scopo di mantenere
ordine e stabilità nella società.
Secondo il paradigma funzionalista o del consenso, le regole sociali
diventano leggi quando riflettono usi e costumi culturali che godono di una
generale approvazione da parte della coscienza collettiva.
I criminologi del conflitto danno risalto all’idea che il sistema legale favorisce gli
interessi delle classi superiori e non della società nel suo complesso. Il
comportamento criminale e deviante si riscontra in tutti i gruppi sociali e in tutta
la storia dell’umanità. Il comportamento deviante si manifesta in varie forme,
dalla violazione delle regole di etichetta alla mancata diligenza nelle mansioni
lavorative e negli obblighi familiari, fino alla trasgressione delle norme penali.
Quindi, quando si parla di reato ci si riferisce a quei comportamenti che violano
specifiche norme penali, cioè «norme formali» che definiscono i comportamenti
che offendono o ledono beni tutelati dallo Stato. Nel nostro ordinamento
giuridico, come in quello di tutti gli Stati moderni, è la Costituzione (o Statuto o
Carta fondamentale) che indica le linee guida per regolare la vita sociale e
mantenere la pacifica convivenza.
La criminologia, a seconda delle correnti di pensiero, utilizza per le sue indagini
sia la definizione giuridica di reato, sia la definizione più ampia di comportamento
deviante o antisociale. Esistono alcuni comportamenti devianti molto più dannosi
socialmente di quelli sanzionati penalmente, che non vengono previsti dal codice
penale e che vi sono modelli di comportamento sociale molto simili a violazioni
della legge penale che però non sono compresi nella codificazione.
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In ogni caso va tenuto presente che il comportamento deviante in senso lato e
quello criminale in senso stretto sono relativi nel tempo e nello spazio.
Così un fatto considerato reato o deviante in un certo periodo storico può non
esserlo in un altro; allo stesso modo ciò che è considerato deviante o criminale nel
nostro Paese può non esserlo in un altro Stato. Una delle funzioni della
criminologia é appunto quella di analizzare e mettere in evidenza, da un lato, quei
comportamenti che risultino talmente offensivi e dannosi per la collettività da
necessitare di una sanzione penale, dall’altro di sollecitare una revisione de
criminalizzante di atti considerati dalla maggioranza ormai inoffensivi o al
massimo devianti.
Si può concludere che l’oggetto di studio della criminologia non si limita
al concetto formale di reato del diritto penale, ma si allarga alla vasta gamma dei
comportamenti devianti, spesso zona grigia antistante il delitto;
contemporaneamente, nello studiare dimensione, struttura e dinamica della
criminalità, non si può prescindere dal concetto penale di delitto. Esiste, perciò,
uno stretto legame tra criminologia e diritto penale.
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CAPITOLO 3
METODOLOGIA DELLA RICERCA CRIMINOLOGICA
1. Premessa
In questo capitolo vengono esaminati i metodi di ricerca per individuare la
specie e la dimensione dei reati, con particolare riferimento alla situazione
italiana. In altri termini si cercherà di approfondire alcune tematiche come le
metodologie utilizzate per la misurazione quantitativa e qualitativa della
criminalità e degli autori dei delitti, per la valutazione delle tipologie di
comportamento deviante.
Come si è già accennato, compito principale della criminologia è quello di
acquisire conoscenza e concordanza di idee sulla devianza e la criminalità,sugli
autori, sulle vittime, sui comportamenti devianti e sulla reazione sociale a essi, al
fine di costruire modelli teorici di riferimento per la politica criminale e per la
politica generale di uno Stato.
Lo scopo ultimo, perciò, è quello di fornire indicazioni per un’adeguata ed
efficace attività di controllo sociale che nelle società più complesse è sempre più
formale, cioè soprattutto normativa.6 La suddetta attività si svolge lungo due
direttrici principali; la prima consiste nella prevenzione generale, che tende a
ridurre la criminalità entro un alveo perlomeno «fisiologico» attraverso interventi
di politica sociale (lotta alla disoccupazione, all’analfabetismo, miglioramento
degli standards di vita, assistenza alle famiglie e alle categorie deboli); nella
prevenzione speciale, poi, diretta a ridurre le iniziali espressioni di
comportamento deviante soprattutto negli adolescenti (assistenza psicologica nelle
scuole e alle famiglie, creazione di centri ricreativi e sportivi nelle aree urbane,
ecc.) e a recuperare i delinquenti per mezzo di trattamenti risocializzativi dentro e
fuori dalle strutture penitenziarie. La seconda direttrice riguarda le attività di
6 www.ledizioni.com
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repressione messe in atto dal sistema della giustizia penale (potere giudiziario,
forze di polizia, ecc.).
La ricerca criminologica non si risolve in un puro esercizio speculativo,
bensì è finalizzata all’individuazione di obiettivi concreti in più campi: nel
sistema sociale in generale e nella pianificazione degli interventi sul territorio;
nella legislazione penale; nella giustizia penale e in particolare in quella minorile;
nelle attività di polizia; nel sistema penitenza
2. Il campo delle indagini criminologiche
La criminologia, già si è detto, non può avere una propria autonomia nel
delimitare il proprio ambito d’indagine perché è delimitata in questo dal diritto
positivo. Oltre che mutevoli, le definizioni del diritto positivo sono
necessariamente rigide e schematiche. Per molti studiosi il delitto si sostanzia in
una condotta che lede o mette in pericolo un bene di rilievo per la collettività, nel
senso che la sua lesione o messa in pericolo costituisce danno sociale: essa cioè
risulta intollerabile per la società stessa e non altrimenti evitabile se non
utilizzando sanzioni criminali. Il delitto non è pertanto “fatto naturale” bensì
“fatto sociale” identificato da una definizione convenzionale, necessariamente
mutevole con il mutare delle società e, pertanto, l’idea del delitto naturale risulta
inaccettabile per chi affronta il problema in una prospettiva antropologico-
culturale. Nel tentativo di definire il delitto secondo criteri di validità generale, si
è anche tentato di utilizzare il principio della antisocialità o della pericolosità
sociale. Sulla pericolosità si incentrava la politica criminale propugnata della
Scuola Positiva del diritto, intesa come una specie di innata tendenza a compiere
delitti non necessariamente connessa con l’effettualità di comportamenti
legalmente proibiti. Ma l’antisocialità e la pericolosità sono però condizioni ben
difficili da oggettivare da arte delle scienze dell’uomo ed è in definitiva un mero
giudizio di valore espresso nei confronti di taluni individui in ragione non solo di
talune loro caratteristiche somatiche e psicologiche ma in pratica molto spesso
semplicemente del loro status. Rientrerebbero pertanto tra questi esseri antisociali
anche coloro che pur non avendo commesso reati ne vengono reputati
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potenzialmente capaci: si ammette così l’esistenza di una criminalità “potenziale”
o “induttiva” svincolando il concetto di delinquente dal quello di delitto
consumato o tentato. Peraltro, si è cercato di differenziare i delitti a seconda del
criterio della maggiore o minore gravità, pensando di circoscrivere la competenza
della criminologia solo ai primi: ma secondo quale gerarchia di gravità dei reati?
E’ evidente, pertanto, che anche questo criterio non può essere accolto, essendo
contingente anche la valutazione di maggiore o minore gravità dei reati. La
“gravità del reato”, infatti, è prevista dal codice penale quale uno dei parametri per
l’applicazione discrezionale fra minimo e massimo della pena (art. 133 c. p)7 e si
tratta, quindi, di una prerogativa del giudice. In particolare, è prerogativa del
legislatore il porre il principio generale e, del giudice, l’identificare nelle singole
fattispecie la maggiore o minore rilevanza sociale del delitto, non certo del
criminologo. Piuttosto, la criminologia si occupa anche della corrispondenza (o
non corrispondenza) fra la percezione nel corpo sociale della gravità degli illeciti
penali con quella della legge, percezione valutata attraverso ricerche empiriche,
inchieste, sondaggi di opinione, che vengono comparati con la scala di gravità
emergente dalla minore o maggiore entità delle pene. In definitiva, il parametro
per delimitare i confini del campo degli interessi della criminologia può essere
solo quello della legge. La stretta dipendenza della criminologia dal diritto
positivo non va intesa però come subordinazione concettuale nei confronti della
norma: anche la norma giuridica costituisce una realtà sociale nei confronti della
quale il criminologo mantiene la propria libertà di studioso, esercita una analisi
storica, ne studia caratteri e dinamiche, evoluzioni e meccanismi. Se la
criminologia studia il delitto e il delinquente alla luce di ciò che definisce come
tali la legge penale, nello stesso tempo, quale scienza autonomia, essa non si trova
nei confronti del diritto in una posizione subordinata, ma esamina e analizza
criticamente, e in piena indipendenza, la legge medesima, le sue modalità di
applicazione e gli effetti che produce.
7 Cremonesi C., Lucchesi V.,L’avvocato nel cassetto, Mondolibri, Milano, 2003.
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3. Gli strumenti di controllo
Ogni società è retta da regole di comportamento, parte non codificate,
parte tradotte in norme legali (fra le quali quelle penali) al fine di assicurare
coesione fra i suoi membri e stabilità sociale: senza regole, infatti, qualsiasi
contesto, dl più arcaico al più evoluto, non può esistere. Questi obiettivi sono
assicurati dalla esistenza di sistemi di controllo che hanno appunto lo scopo di
assicurare la coesione e la salvaguardia di ogni dato contesto sociale.
4. Metodi e fonti delle conoscenze empiriche
E’ opinione generale che la criminologia si distingua dalle altre scienze
criminale per la sua caratteristica di scienza empirica, cioè fondata
sull’osservazione della realtà e non sulla speculazione concettuale. Ma dobbiamo
ricordare, tuttavia, che ciò è vero solo in parte perché non è pensabile una
criminologia senza il presupposto di una visione del mondo, che è anche filosofica
ed etica. Così come, reciprocamente, la criminologia non può prescindere anche
dai dati dell’osservazione empirica dei singoli individui, dell’ambiente e della
realtà sociale. Da qui, l’importanza di conoscere metodi e fondi dei dati empirici
di cui pur sempre la nostra disciplina si avvale.
Gli strumenti statistici a disposizione del criminologo sono:
1. Le statistiche di massa - servono per esaminare l’estensione dei
fenomeni e le caratteristiche più generali dei fatti criminosi (frequenza, diffusione,
distribuzione e fluttuazioni nel tempo e nei luoghi) e sono effettuate su grandi
numeri o sulla totalità dei soggetti dell’universo considerato. Non consentono,
però, l’identificazione dei fattori sociali che concorrono alla genesi del fenomeno
osservato e l’evidenziazione delle condizioni microsociali o individuali rilevanti,
in quanto privilegiano i fattori macrosociali di più generale influenzamento;
2. L’osservazione individuale – tipica della criminologia clinica,
consente invece di evidenziare circostanze particolari che la statistica non può
considerare (caratteristiche psicologiche o psicopatologiche del reo, aspetti del
suo ambiente particolare, riverberi su di esso della reazione sociale, la sua carriera
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criminale, relazioni interpersonali, ecc.). Risulta però impossibile enucleare con
questo mezzo di indagine i fattori di più generico influenzamento presenti
nell’ambiente sociale. Questo tipo di investigazione può estendersi a più soggetti
aventi una comune caratteristica delittuosa, così che dalla moltiplicazione dei
singoli casi osservati se ne possono ricavare profili psicologici e identikit
maggiormente significativi sulla tipologia di particolari delinquenti. Ricerche di
questo tipo consentono di accertare, ad esempio, le caratteristiche comuni di ladri
o truffatori professionali, serial killer, ecc.
3. Le ricerche su gruppi campione – con questo tipo di ricerche,
l’indagine viene sempre centrata su singoli individui ma estendendo l’indagine su
un numero più elevato di soggetti e utilizzando certe regole di rilevazione, se ne
possono ricavare conclusioni dotate di validità generale, così come avviene con le
statistiche sui grandi numeri. La ricerca è eseguita su un numero relativamente
ristretto di soggetti che diventa però “rappresentativa” (un campione, appunto)
dell’intera popolazione.
4. Le indagini sul campo – Quando si vogliono studiare le
caratteristiche criminali di certi ambienti o gruppi, gli orientamenti particolari di
certe sottoculture, le interazioni che esistono fra i loro appartenenti, può essere
utile che il ricercatore si inserisca materialmente per un periodo di tempo.
5. Le ricerche settoriali – sono condotte, senza che il ricercatore si
inserisca personalmente nel campo indagato, su altri ambienti particolarmente
significativi (carcere, istituti per misure di sicurezza, ambienti dei tossicomani,
ecc.) per indagare su dati e situazioni non altrimenti conoscibili.
6. Interviste a testimoni privilegiati - Si eseguono inchieste su
persone che, per la loro veste professionale (assistenti sociali, psicologi, psichiatri,
insegnanti, ecc.) hanno conoscenze vissute ed esperienze professionali
particolarmente preziose.
Tutti questi tipi di indagine vengono eseguite con la tecnica delle interviste
dirette e con questionari, così da poter valutare le percezioni e le opinioni nei
confronti di vari problemi attinenti alla criminalità. Quando si vogliono analizzare
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gli effetti di taluni trattamenti risocializzativi, le conseguenze di certi interventi o
la validità di talune innovazioni penali, si utilizzano le ricerche operative, che
consistono nel controllare i loro effetti comparando una campione di soggetti che
ne hanno beneficiato con altri che non ne hanno fruito. In tal senso, queste
possono essere definite ricerche sperimentali.
Ci sono poi le indagini anamnestiche che esaminano i risultati a distanza
di tempo di taluni interventi per valutarne l’efficacia.
Sono da ricordare anche gli studi predittivi, utilizzati per trovare indicatori
che consentono di prevedere il futuro comportamento sulla scorta di certi
parametri e le ricerche storiche, che offrono un’ampia gamma di studi, per
esempio sulla fenomenologia criminosa, sulle pene e sui sistemi carcerari di
epoche passate.
5. Il numero oscuro
Una importante limitazione di ogni indagine effettuata in ambito
criminologico è legata al fatto che i dati utilizzati, qual che sia la metodologia
impiegata, sono relativi ai reati denunciati dalla polizia o dai privati alla
magistratura, ai procedimenti penali istruiti, alle sentenze di condanna, alle
popolazioni delle carceri e, comunque, ai dati relativi ai criminali o crimini
identificati. Così, la visione della realtà criminosa risulta gravemente deformata
ove essa fosse riferita solo ai dati ufficiali senza prendere in considerazione anche
quelli relativi alla criminalità sconosciuta. A ciò fanno riferimento
sostanzialmente gli studi sul numero oscuro (dark number).8 L’indice di
occultamento (cioè il rapporto reati noti e reati commessi) varia in modo
considerevole per le differenti specie di delitti: il numero degli omicidi volontari
commessi è molto vicino a quello noto; le truffe, invece, quelle note sono
notevolmente inferiori a quelle attuate dato che non tutte le vittime denunciano il
reato subito. Al numero oscuro relativo al mancato accertamento dei reati, si
aggiunge poi – a dilatare ancora di più la zona d’ombra – il problema della non
8 Compendio di criminologia, ed. Simone, Napoli, 2004.
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identificazione dell’autore dei reati pur accertati. Il numero oscuro non è dunque
da riferirsi solo ai fatti delittuosi che rimangono del tutto ignorati e che non
mettono nemmeno in moto le strutture deputate alla loro repressione e punizione,
ma ricomprende anche quei delitti ufficialmente noti e dei quali non si è scoperto
l’autore.
a – L’atteggiamento della vittima e qualità del reato
E’ da considerare che non tutti i delitti vengono denunziati dalle vittime (o dai
testimoni) e non tutti vengono perciò a conoscenza delle autorità: anche
l’atteggiamento della vittima, dunque, gioca un ruolo determinante sul numero
oscuro.
b – L’atteggiamento degli organi istituzionali
Gli organi di polizia e la magistratura inquirente hanno, per loro finalità, non solo
il compito di identificare gli autori dei fatti denunziati o comunque conosciuti, ma
anche quello di prendere l’iniziativa andando a ricercare fatti delittuosi non ancora
divenuti noti. Nella realtà, le iniziative di indagine si rivolgono invece in modo
selettivo verso certi settori di delittuosità piuttosto che verso altri.
c – La qualità dell’autore del reato
Interferisce sull’entità del numero oscuro anche la qualità dell’autore del reato: a
parità di condotta delittuosa, per esempio, l’autore di un piccolo furto non verrà
denunciato qualora si tratti di un ragazzo di buona famiglia e questo perché
intervengono pressioni oppure considerazioni di opportunità che possono favorire
maggior tolleranza nei suoi confronti.
6. Statistiche di massa
Le statistiche di massa consentono la raccolta, l’analisi matematica e
l’interpretazione di dati quantitativi, inclusa la determinazione di correlazione fra
vari dati. Poiché raccolgono, di un fatto osservato, tutti i casi che si sono
verificati, o un numero molto grande di essi, la veridicità dei dati di statistiche di
questo tipo è molto elevata. Può utilizzarsi questo genere di indagine per avere
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statistiche trasversali (es.: caratteristiche della criminalità in un dato momento)
ovvero statistiche longitudinali o dinamiche (modificazioni da un momento
all’altro o nello sviluppo diacronico di un fenomeno). Questi dati possono poi
essere elaborati in funzione di numerose variabili: età, sesso, tipo di reato, tipo di
sanzione, condizioni economiche degli autori, professione, regione di nascita e di
residenza, scolarità, religione, razza, nazionalità, condizione familiare e molti
altri.
La statistica criminale è soggetta a errori non solo relativi all’interpretazione dei
dati ma anche per quanto concerne la loro validità come, da esempio, per quelli
che derivano dalla imprecisione o dalla non attendibilità delle fonti.
7. Inchieste su gruppi campione
Le indagini campionarie sono quelle che consentono di ricercare talune
caratteristiche su di un gruppo ristretto di persone, scelte però in modo tale da
rappresentare la totalità di una popolazione, così da essere un campione veramente
rappresentativo di essa. Affinché il gruppo campione sia rappresentativo, è
necessario che, a seconda del tipo di indagine, esso contenga, in misura
proporzionale a quella esistente nella realtà, certe percentuali dei differenti tipi di
soggetti che esistono nella popolazione. Le inchieste campionarie sono dotate di
un indubbio potere chiarificatore e hanno consentito alla moderna criminologia di
acquisire conoscenze fondamentali.
8. Le osservazioni individuali
Con i metodi individuali di indagine, si studiano singoli criminali o, al più,
piccoli gruppi in quanto esse attengono, in generale, allo studio della personalità,
intesa come unità psico-organica, e dei fattori microsociali agenti a più immediato
contatto del singolo. Queste indagini possono essere indirizzate verso lo studio del
caso, eseguito con investigazione minuziosa e approfondita. Vengono così
sviscerati, relativamente ad un singolo caso, tutti gli aspetti relativi alla famiglia,
al passato, alle caratteristiche ambientali, mediche, psicologiche, ecc. Talune
indagini individuali particolarmente dettagliate e approfondite possono assumere
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il carattere di storia di vita descrivendo tipi particolari ed emblematici di carriere
criminali, illuminando su fattori di peculiare importanza (es. difetti di
socializzazione o influenza di determinate vicende o ambienti sociali nel destino
di una persona) e mettendo in evidenza, con il circostanziato racconto biografico,
il riscontro e l’esemplificazione delle teorie criminologiche nel caso concreto. Le
indagini individuali hanno consentito così di enucleare fattori assai significativi
della condotta deviante e criminale: frequenza delle anomalie della personalità,
fattori familiari disturbanti, condizioni di frustrazione, ecc.
9. Questionari ed interviste
Fra i metodi di indagine utilizzati in criminologia si debbono citare anche i
questionari e le interviste che vengono ampiamente utilizzati negli ambiti più
diversi per effettuare sondaggi di opinione, conoscere preferenze, scelte, gusti ed
abitudini. Nello specifico della ricerca criminologia, questi vengono utilizzati per
rilevare atteggiamenti e reazioni nei confronti dei fenomeni criminali, il maggiore
o minore sentimento d’insicurezza dovuto alla criminalità da strada, le richieste e i
provvedimenti auspicati da parte delle autorità competenti.
I questionari non sono altro che “interviste strutturate” consistono in un insieme
di domande uniformi e rigidamente predefinite, volte in genere a indagare temi
precisi e circoscritti, che vengono sottoposte a gruppi campione molto estesi.
Esistono poi altri tipi di interviste nelle quali le domande non sono predisposte in
maniera altrettanto rigida, e perciò all’esaminatore viene lasciata maggiore libertà
di interloquire con il soggetto: esse possono distinguersi in “semistrutturate” o
“libere”, a seconda del maggiore o minore grado di flessibilità.
Tra le finalità di questi metodi di indagine vi è anche quella di conoscere meglio
l’identità e qualità dei delitti commessi: utilizzando queste interviste e questionari
è stato possibile, ad esempio, aprire qualche spiraglio nella conoscenza della
criminalità nascosta.
Le inchieste confidenziali, ad esempio, sono state utilizzate per interrogare
con questionari campioni di popolazione, chiedendo agli intervistati se avessero
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mai commesso reati. Tali inchieste vengono eseguite in condizioni di massima
discrezione ed offrendo garanzie di assoluto anonimato. Altre ricerche, sempre
effettuate mediante la tecnica delle inchieste confidenziali, sono state svolte per
identificare quelle vittime che non avevano denunciato i torti subiti (inchieste
vittimologiche): attraverso indagini su gruppi campione e chiedendo agli
intervistati quali e quanti reati avevano subito in un certo periodo, è emersa la
conferma che i reati commessi sono ben più numerosi di quelli ufficialmente noti.
Agli stessi risultati hanno condotto le inchieste tra persone che, per il ruolo e
l’attività svolti hanno maggiore possibilità di venire a conoscenza di fatti
delittuosi (inchieste tra testimoni privilegiati).
10. Indagini predittive
La predizione di futuro comportamento delittuoso rappresenta uno degli
obiettivi della criminologia.
La predizione criminosa viene di regola effettuata secondo criteri induttivi, cioè
secondo esperienza e comune buon senso. Utilizzando una diversa metodologia,
fondamentalmente viene utilizzato un criterio statistico, che ha in sé
inevitabilmente tutte le incognite connesse al trasferimento sul singolo caso di
medie statistiche.
La predizione del comportamento è uno dei compiti più impegnativi, nonostante
le sue conoscenze specifiche, che il criminologo incontra.
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CAPITOLO 4
LO SVILUPPO DEL PENSIERO CRIMINOLOGICO
1. Ideologie e criminologia
La criminologia nasce come scienza solamente nel 1800 quando, per la
prima volta, viene affrontato in modo empirico e sistematico lo studio dei
fenomeni delittuosi, che in precedenza, venivano considerati secondo una
prospettiva essenzialmente morale e solo secondariamente giuridica. In questa
prospettiva storica, è comunque da sottolineare il fatto che riandando fino ai tempi
più remoti della nostra evoluzione culturale, si constata che da sempre la norma
(sia essa legale o morale) rappresenta il fondamentale parametro regolatore della
condotta degli uomini: il definire quindi taluni comportamento come “autorizzati”
ed altri “proibiti” è dunque una esclusiva caratteristica dell’uomo. La netta
differenziazione fra illecito morale e illecito giuridico avverrà solo in tempi a noi
vicini e sarà frutto del pensiero illuministico. Questo approccio storico può essere
affrontato secondo una triplice prospettiva:9
1) una prospettiva esplicativa perché si delinque?
2) una prospettiva operativa come punire?
3) una prospettiva finalistica a qual fine punire?
Vediamole in particolare.
1) prospettiva esplicativa – secondo questa prospettiva, oggi si risponde alla
domanda “perché si delinque?”; per lunghi secoli, invece, questa domanda era
“perché si pecca?”. Le risposte in proposito sono state molte: per ribellione al
comandamento divino, cioè, in altri termini, al mai risolto conflitto tra Bene e
Male. Un simile approccio pone subito la questione mai risolta della
predeterminazione, ovvero della libertà di peccare: questo dibattito ancora
oggi è aperto tra le correnti di pensiero deterministiche, che ritengono l’uomo
9 Banditi T.,Criminologia:il contributo della ricerca alla conoscenza dl crimine e della reazione sociale, Giuffrè, Milano, 1991.
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totalmente condizionato nell’azione da forze a lui esterne (cultura, società,
pressioni ambientali di ogni tipo, fattori psicologici, ecc.) e quelle che
ritengono invece l’uomo comunque libero, cioè dotato della capacità di
scegliere il male (i comportamenti proibiti dalle norme) ovvero il bene (i
comportamenti autorizzati). Solo in tempi a noi più vicini, con il rafforzarsi
dell’autorità dello stato, si sono andati lentamente differenziando il delitto –
inteso come infrazione ai divieti terreni – dal peccato – quale inosservanza
della morale (cioè dei precetti divini).
2) Prospettiva operativa – se ci chiediamo, invece, “come punire”, è ben nota la
predilezione, nei tempi passati, per la pena capitale quale sanzione elettiva,
applicata per infrazioni ai nostri occhi anche di ben modesta gravità anche se
le pene corporali, le fustigazioni, la lapidazione, i tormenti, le mutilazioni, ed
altre atrocità non erano disdegnate. Solo ai nostri giorni la pena fondamentale
è diventata la perdita della libertà mediante la carcerazione.
3) Prospettiva finalistica – se vogliamo invece mettere in evidenza la domanda
“qual è lo scopo della pena?” dobbiamo fare alcune considerazioni. E’ da
sottolineare innanzitutto come, in ogni tempo, non si è mai rinunciato al
principio sanzionatorio non solo come strumento di controllo sociale ma
anche al fine di appagare in ognuno il sentimento e il bisogno di giustizia.
Pena significa, appunto, infliggere sofferenza per fa pagare il male commesso.
Nel passato la finalità della pena fu quella della vendetta, con l’infliggere un
male al colpevole direttamente da chi ha subito il torto in compenso del male
subito. Per secoli, infatti, la vendetta non fu solo la motivazione principale
della pena ma un preciso diritto della vittima o dei suoi familiari. Le origini
del diritto penale si possono far risalire allora proprio nel momento in cui lo
stato limita e regolamenta la vendetta, ponendo delle norme legali per stabilire
come e in quali casi essa poteva essere legittimamente esercitata. La moderna
finalità retributiva era, all’epoca illuministica, ancora da venire mentre la
finalità intimidativa fu sempre insita nella pena, ed essa costituiva nel passato
anche l’unica modalità di prevenzione che veniva per lo più attuata con la
pubblicità della punizione da eseguirsi sulle pubbliche piazze dinanzi a tutto il
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popolo. La segretezza del giudizio, quale vigeva un tempo, è stata sostituita
dalla attuale pubblicità del processo. La funzione pedagogica e di emenda
morale, caratteristica del 1800, e la funzione risocializzativa/riabilitativa del
‘900, non erano presenti nella cultura preilluministica ma può intravedersene
una anticipazione nei teologi della Scolastica per i quali la pena aveva un
carattere medicinale per il reo, che espiava la sua colpa davanti a Dio. E’ da
mettere ben in evidenza, ancora oggi, fra le finalità della pena, il suo
contenuto satisfattorio: la necessità di dare soddisfazione al bisogno di
giustizia, vedendo unito il colpevole, anche se oggi misconosciuto o
sottaciuto, è un contenuto sempre vissuto da tutti gli uomini come
irrinunciabile.
2. L’Illuminismo e l’ideologia penale liberale
Il pensiero penalistico moderno nasce con l’Illuminismo. Nell’ancien
regime, infatti, tanto il diritto che la procedura quanto l’esecuzione delle pene,
erano incentrati sull’autoritarismo dispotico della monarchia assoluta e sui
privilegi dell’aristocrazia nobiliare ed ecclesiastica. Anche l’esercizio della
giustizia era arbitrario tanto quanto la struttura sociale. Il delinquente era
percepito alla stregua di un malvagio attentatore dell’autorità del sovrano, la cui
persona si identificava con lo stato. L’esecuzione della punizione era dunque
pubblica affinché tutti potessero vedere ciò che comportava l’aver sfidato
l’autorità. E’ in questa situazione che le idee dell’Illuminismo cominciano a farsi
strada con l’obiettivo di rischiarare la mente degli uomini dalle tenebre del
dispotismo, dell’ignoranza, della superstizione religiosa, attraverso la scienza e la
conoscenza.
La necessità di una nuova struttura giuridico-normativa del diritto pubblico, che
desse corpo ai principi dell’Illuminismo e che ponesse le basi di un nuovo diritto,
trovò in Cesare Beccaria (1738-1794) il suo più famoso sostenitore e divulgatore,
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che segna l’inizio di una nuova filosofia della pena e che fra l’altro sarà anche
anticipatorio dei futuri approcci criminologici.10
Gli aspetti fondamentali della concezione liberale del diritto, possono
essere così riassunti:
o separazione fra morale religiosa ed etica pubblica - la funzione della pena
è quella di rispondere alle esigenze di una determinata società anziché ai
principi morali;
o presunzione di innocenza – il diritto deve garantire la difesa dell’imputato
contro gli arbitri dell’autorità;
o i codici devono essere scritti ed i reati espressamente previsti;
o la pena deve avere un significato retributivo anziché unicamente
intimidatorio e vendicativo;
o la pena deve colpire il delinquente unicamente per quanto di illecito ha
commesso e non in funzione di quello che egli è o ciò che può diventare;
o il criminale non è un peccatore ma un individuo dotato di libero arbitrio,
pienamente responsabile, che ha effettuato scelte delittuose delle quali
deve rispondere nel modo stabilito dalla legge.
3. La Scuola Classica del diritto penale
In Italia, i nuovi principi si sono articolati in una summa dottrinale che
prese il nome di Scuola Classica del diritto penale che, per quasi un secolo, ha
caratterizzato il pensiero penalistico in tutta l’Europa.
La Scuola Classica, movendo dal postulato del libero arbitrio che intendeva
l’uomo assolutamente libero nella scelta delle proprie azioni, poneva a
fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto quale
rimproverabilità per il male commesso e, conseguentemente, la concezione etico-
retributiva della pena.
10 Ponti G.,Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.
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Essa si incentrava su tre principi fondamentali:
1) la volontà colpevole – il delinquente è percepito perciò come persona del
tutto libera senza tener conto, nella criminogenesi, dei condizionamenti
ambientali e sociali;
2) l’imputabilità – per aversi volontà colpevole occorre che il reo sia capace
di intendere il disvalore etico e sociale delle proprie azioni (da cui deriva il
presupposto della capacità di intendere e di volere, quale requisito
necessario per essere sottoposto al giudizio e alla pena);
3) il significato di retribuzione della pena – per il male compiuto che, come
tale, doveva essere: affittiva, proporzionata, determinata e inderogabile
I principi fondamentali della Scuola Classica costituiscono la base di un sistema
normativo che ancora oggi mantiene piena validità:
1) il principio della legalità – nessuna azione può essere punita se non
esplicitamente prevista dalla legge come reato;
2) il principio della non punibilità per analogia – non si può punire un
comportamento non espressamente previsto come fatto illecito
assimilandolo ad altri reati o perché potenzialmente foriero di futuri delitti;
3) il principio garantistico – con le norme a salvaguardia del diritto di difesa
e della presunzione di innocenza;
4) il principio di certezza del diritto – che mette al bando ogni discrezionalità
nell’irrogazione delle pene e che comporta la loro eguaglianza per tutti
coloro che hanno commesso il medesimo delitto.
4. Il determinismo sociale: la società come causa del delitto
I primi studi statistici sul crimine misero in crisi quel concetto di libero
arbitrio del reo che aveva caratterizzato l’ideologia liberale dal momento, che era
ora possibile statisticamente prevedere il numero e i tipi di delitti che sarebbero
stati consumati nella società. Questo nuovo approccio faceva comunque intendere
che il comportamento criminoso non era più esclusivamente riconducibile alla
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sola volontà del singolo, ma che su di lui agivano anche fattori legati alla società:
esistendo cioè certe circostanze nella società, il delitto doveva inevitabilmente
realizzarsi. Secondo gli studiosi che seguivano questo orientamento, nella società
erano insite delle cause per le quali le azioni dei delinquenti venivano ad essere
necessariamente e fatalmente condizionate in senso delittuoso. Nasce così, con il
primo approccio sociologico della criminologia, la visione deterministica della
condotta criminosa.
Nella prospettiva sociologica, la visione deterministica del crimine consisteva nel
convincimento che solo, o prevalentemente, nel contesto della società dovevano
ritrovarsi i fattori determinanti la condotta criminale e ciò comportava in
definitiva l’assenza di responsabilità morale dell’individuo, governato com’era da
leggi e fattori che prescindevano dalla sua volontà. Andava così prendendo corpo
un determinismo sociale che doveva trovare il suo equivalente contrapposto nel
determinismo biologico di marca lombrosiana.
5. Il determinismo biologico e la criminologia dell’individuo: Cesare
Lombroso
Sempre nel XIX secolo, che vide l’inizio del filone sociologico della
criminologia, Cesare Lombroso (1835-1909) rappresenta il pioniere del nuovo
indirizzo individualistico della criminologia, secondo il quale lo studio del reato
doveva polarizzarsi principalmente sulla personalità del delinquente, fino ad
allora del tutto trascurata.11
Lombroso indirizzò i suoi numerosi studi sulla persona del delinquente e sulle sue
componenti morbose ritenute responsabili della sua condotta: ciò ha rappresentato
una svolta importante nei confronti dell’astrattismo di una concezione solo legale
o morale o sociale del delitto, fino ad allora dominanti. Gli va il merito di aver per
primo impiegato i metodi della ricerca biologica per lo studio del singolo autore
del reato, di aver fatto convergere l’interesse delle scienze penalistiche sulla
personalità del delinquente (prima unicamente rivolto all’entità di diritto costituita
11 www.sociologia.uniroma.it
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dal reato), di aver stimolato una larga massa di indagini sui problemi della
criminalità e di aver dato avvio a un indirizzo organico e sistematico nello studio
della delinquenza (Scuola di Antropologia Criminale), cosicché la criminologia
come scienza ebbe modo di imporsi come nuovo filone della cultura.
⇒ La teoria del delinquente nato – è la più nota delle sue teorie e sostiene
che un’alta percentuale dei più incalliti criminali possiederebbe disposizioni
congenite che, indipendentemente dalle condizioni ambientali, li renderebbe
inevitabilmente antisociali: particolari caratteristiche anatomiche, fisiologiche e
psicologiche si accompagnavano secondo il Lombroso a tali disposizioni e ne
consentivano l’identificazione. Importanti erano anche, tra le cause di innata
tendenza al delitto,l’epilessia e ad altre patologie generali.
⇒ La teoria dell’atavismo – tentava di interpretare la condotta criminosa del
delinquente nato come una forma di regressione o di fissazione a livelli
primordiali dello sviluppo dell’uomo; il delinquente era dunque un individuo
primitivo, una sorta di selvaggio ipoevoluto nel quale la scarica degli istinti e delle
pulsioni aggressive si realizzava nel delitto senza inibizioni.
Lombroso riconobbe poi anche un gran numero di delinquenti occasionali,
non dissimili per la loro costituzione dagli uomini normali, e nei quali
assumevano rilevanza, nel condizionare la loro condotta, l’ambiente e le
circostanze. I fattori individuali innati e predisponesti al delitto mantenevano
comunque un significato di privilegio: la loro primarietà fra le cause e
l’ineluttabilità con cui essi condurrebbero allo sbocco criminoso configurano
quella componente di determinismo biologico che è un carattere saliente del
pensiero lombrosiano.
Il delitto rappresentava dunque nella visione lombrosiana un evento strettamente
legato a qualcosa di “patologico” o di ancestrale che alcuni uomini presentavano
come loro specifica caratteristica. Il reato e le anomalia della condotta vengono
così visti come se fossero solo una malattia da combattere e da neutralizzare
individualmente, in un approccio che risulta essere decolpevolizzante nei riguardi
della società e del reo e che libera da ogni responsabilità collettiva e individuale
nei confronti del fatto delittuoso.
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6. La Scuola Positiva
Le teorie lombrosiane sul delitto hanno costituito la base di un nuovo
orientamento giuridico e criminologico, che si ispirava al pensiero positivistico
allora imperante secondo il quale i dati dell’osservazione empirica dovevano
costituire l’unico punto di partenza per interpretare i fatti delittuosi e per proporne
i rimedi.
Unitamente a Cesare Lombroso, i penalisti Enrico Ferri (1856-1929) e Raffaele
Garofalo (1852-1934) furono i teorici e i divulgatori dei principi di quella che si
sarebbe appunto chiamata la Scuola Positiva di diritto penale.
La Scuola positiva si incentrava sui seguenti postulati:
1) il delinquente è un individuo anormale;
2) il delitto è la risultante di un triplice ordine di fattori antropologici,
psichici e sociali;
3) la delinquenza non è la conseguenza di scelte individuali ma è
condizionata da tali fattori;
4) la sanzione penale non deve avere finalità punitive ma deve mirare alla
neutralizzazione e possibilmente alla rieducazione del criminale e deve
pertanto essere individualizzata in funzione della personalità del
delinquente.
I principi della Scuola Positiva si tradussero in un vero e proprio programma di
politica penale, per il quale, accertata l’attribuibilità del fatto al singolo autore,
una misura di difesa sociale doveva sostituire la pena. Cardine dunque di ogni
misura penale era la pericolosità sociale del criminale, sia attuale, dimostrata dalla
condotta delittuosi, sia potenziale, insita nella sua personalità.
Assai rilevanti sono state le influenze che la Scuola Positiva ha avuto sia sulla
criminologia che sulla evoluzione del diritto penale: essa polarizzò l’interesse
sulla personalità del criminale piuttosto che sul fatto delittuoso, promuovendo la
ricerca e lo studio sulle cause individuali della criminalità. Inoltre, l’approccio con
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metodologie scientifiche segnò l’inizio delle prime vere scuole criminologiche, sia
di indirizzo individualistico che sociologico.
L’influenza del pensiero positivistico ha portato comunque all’introduzione, in
molti sistemi giuridici, del principio secondo il quale andava tenuto conto,
nell’irrogare misure penali, oltre che della gravità del reato, anche della
potenzialità criminale del reo.
Ciò si è realizzato secondo due indirizzi:
1) con il sistema del “doppio binario” (Germania e Italia a partire dagli anni
’30) – secondo il quale a fianco delle pene tradizionali, commisurate alla
gravità del reato, venivano disposte anche misure di sicurezza per i
delinquenti ritenuti socialmente pericolosi (malati di mente, plurirecidivi,
soggetti particolarmente aggressivi, delinquenti abituali e professionali)
che si aggiungevano alla pena detentiva. Tali misure erano indeterminate
nel tempo e destinate a durare fino a quando non veniva a cessare la
pericolosità;
2) con il sistema della pena a “tempo indeterminato” (USA e paesi
scandinavi) – secondo il quale la durata effettiva della pena non era
preventivamente stabilita dal giudice secondo la gravità del reato ma
dipendeva dalle prospettive di successo del reinserimento sociale, in virtù
del buon esito del trattamento risocializzativo.
7. Integrazione fra approccio sociologico e antropologico
Fino dalle sue origini la criminologia si è andata sviluppando secondo due
filoni: quello sociologico e quello incentrato sull’individuo (antropologico) sorto
con la scuola lombrosiana. Questi due indirizzi si sono affiancati a lungo, spesso
proponendosi in una visione contrapposta nella interpretazione dei fatti criminosi.
Per l’approccio sociologico, lo scopo principale della criminologia avrebbe
dovuto essere quello di spiegare la delinquenza ricercandone le cause nella società
stessa; per il filone antropologico, la criminologia avrebbe dovuto invece ricercare
che cosa vi fosse di anormale o di diverso nei delinquenti che favorisce o
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determina il loro divenire criminali. La semplicistica attribuzione delle
responsabilità del delinquere alla società, così come all’opposto alle anomalie del
singolo soggetto, comporta che in ogni caso nessuno abbia né merito né demerito
per le proprie azioni, e impedisce che la collettività possa chiedere a ciascuno di
render conto della propria condotta. Solo dunque una visione integrata che tenga
conto sia dei fattori sociali (cioè degli squilibri, delle carenze e delle ingiustizie
dell’organizzazione collettiva) sia, contestualmente, del diverso modo (variabile
da individuo ad individuo) di rispondere ai fattori ambientali sfavorenti e di
effettuare le proprie scelte, può consentire una valutazione serena della condotta
criminale e suggerire quegli interventi sociali e individuali idonei a contenere il
suo continuo incremento.
8. Gli sviluppi dell’indirizzo individualistico e la criminologia clinica
(anni ’50)
Un punto di riferimento importante nello storico sviluppo della
criminologia è rappresentato dalla fine della seconda guerra mondiale. A partire
dagli anni ’50, la criminologia, non solo continua a svilupparsi secondo i due
filoni di base - antropologico e sociologico – ma si bipartirà ulteriormente
secondo i due filoni ideologici che si erano imposti in quegli anni nella politica
così come nella cultura: si è avuta così una criminologia di sinistra, di ispirazione
marxista, incentrata sulla critica della società capitalista ritenuta matrice
fondamentale della criminalità ed una criminologia di destra, ideologicamente
vicina alla socialdemocrazia, che analizzerà le relazioni fra la classe sociale e la
criminalità rimanendo pur sempre sintonica con i valori di democrazia e di libertà
dei paesi occidentali.
Le teorie individualistiche trovarono il loro momento di confluenza
operativa in quella che prese il nome di criminologia clinica. Uno dei primi cultori
è stato Benigno di Tullio (1896-1979) al quale va anche il merito di aver
mantenuto vivi gli interessi criminologici in Italia anche durante il fascismo.
La criminologia clinica venne concepita come disciplina volta allo studio non
tanto dei fenomeni generali della delinquenza ma del singolo delinquente a fini
diagnostici, prognostici e terapeutici, cioè di trattamento individualizzato per
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finalità risocializzativa. Parallelamente, lo studio clinico di un elevato numero di
soggetti avrebbe permesso la elaborazione di nozioni e concetti di carattere
generale, così da costruire un sapere che, in chiave eziologia, identificasse le
cause individuali (e anche microsociali) responsabili della commissione del reato.
L’opera di Di Tullio è stata poi importantissima in quanto ha realizzato una stretta
collaborazione tra diritto penale e criminologia. Se, infatti, la giustizia penale
mantiene una funzione principale nel meccanismo di lotta alla criminalità, alla
criminologia clinica spetta il compito di attuare la prevenzione speciale, attraverso
l’osservazione scientifica del reo. Infatti, se si vuole applicare il criterio della
individualizzazione della pena è imprescindibile la conoscenza in senso biologico,
psicologico e sociale della personalità del singolo delinquente. 12
9. Il Nuovo Realismo
Nella seconda metà degli anni ’80, gli stessi autori di ispirazione marxista
che in Gran Bretagna erano stati i promotori della New Deviance Conference e
della criminologia critica, pur sempre rimanendo su posizioni di sinistra, diedero
avvio alla scuola del Nuovo Realismo.
L’impostazione viene completamente capovolta dal punto di vista metodologico e
da quello dei contenuti: da una riflessione esclusivamente ideologica e teorica e di
fronte alle esasperazioni di un approccio che vedeva solo nelle sperequazioni
sociali la causa della criminalità e che intendeva il deviante esclusivamente come
vittima, questi autori rivolgono la loro attenzione all’osservazione empirica,
particolarmente riguardo ai reati da strada (street crimes) che avvengono nei
quartieri popolari delle metropoli scoprendo così che la delinquenza, studiata in
precedenza in una prospettiva tutto sommato astratta, è invece una realtà di fatto. I
Nuovi Realisti, scoprono l’elevata vittimizzazione e la richiesta di protezione
propria dei meno abbienti e dei più indifesi, di conseguenza, propongono ora
programmi sociali miranti a ridurre la marginalizzazione, a offrire alternative alla
12 www.criminologia.org
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carcerazione, a promuovere esperimenti di riconciliazione tra reo e vittima. La
prevenzione, prima rifiutata, diviene ora un obiettivo primario.
10. Neo-classicismo e abolizionismo
Sempre negli anni ’80, dopo la fine della criminologia tutta incentrata sulla
ideologia politica di sinistra, hanno preso le mosse altri due filoni di pensiero
come conseguenza di due differenti e in un certo senso opposte ragioni:
1. l’abolizionismo – che distinguiamo in:
a. abolizionismo carcerario – come estrema espressione della critica
alla carcerazione, ritenuta inefficace quale strumento per
combattere la criminalità. E’ un movimento che prende le mosse
contro l’identificazione della sanzione penale esclusivamente con
la reclusione in carcere. Esso, però, finisce per massificare tutti i
criminali secondo una unica prospettiva astratta, vittimistica e
indulgenzialistica, senza tener conto cioè della estrema
differenziazione con cui, viceversa, il criminologo e l’operatore
giudiziario si trovano a confrontarsi. L’istituto della carcerazione, è
stato dunque sottoposto a una critica serrata che però non può
giustificare le posizioni di globale abolizionismo: queste
rispecchiano il rifiuto di infliggere sofferenza ma non tengono
conto, dinanzi ai crimini socialmente più pericolosi, dell’esigenza
universalmente sentita di adeguata retribuzione e di tutela pubblica
e della insostituibilità del carcere quale strumento, per taluni
crimini, di difesa sociale.
Corretto appare invece lo sforzo, ispirato dal principio riduttivistico,
di trovare sanzioni idonee a sostituire il carcere con altri strumenti di
punizione meno dolorosi per il reo e meno costosi per l’economia
pubblica.
b. Abolizionismo penale – il più noto esponente di questa corrente di
pensiero è il norvegese Christie che, propugna la soppressione non
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solo del carcere ma di ogni tipo di pena e, conseguentemente,
dell’intero sistema della giustizia penale. Le correnti abolizionisti
che si sono ispirate a Christie esordiscono col ritenere l’inutilità di
tale sistema, negandone la deterrenza e qualsiasi altra finalità
positiva. L’abolizionismo penale, oltre che di impossibile
realizzazione, comporta rischi di iniquità e aumento di sofferenze
per le vittime mentre del tutto inadeguate appaiono le soluzioni
alternative proposte dallo stesso autore della risoluzione in chiave
privatistico-risarcitoria fra autore e vittima del comportamento
delittuoso e del controllo disciplinare esercitato dalle comunità in
quanto, tra l’altro, rimarrebbero del tutto insoddisfatte le domande
su cosa succederebbe quando il patteggiamento fra le parti non
fosse possibile o non fosse voluto, quando non vi è vittima o
quando il delitto è troppo grave.
2. il neo-classicismo – è sorto quale reazione al fallimento della politica
penale incentrata sul trattamento risocializzativo. L’ideologia del trattamento è
stata messa in crisi da diversi fattori:
a. l’ingente impegno finanziario legato alle molteplici agenzie di
trattamento non corrispondeva una sensibile diminuzione della
delinquenza e delle recidive; anzi, con il passare degli anni, la
delinquenza è aumentata;
b. la presa di coscienza, da parte degli stessi fautori e degli operatori
del trattamento, dell’impossibilità che non con tutti i soggetti si
potessero conseguire risultati soddisfacenti mediante le tecniche di
trattamento criminologico;
c. è stato rimesso in discussione l’obiettivo stesso della
risocializzzione in quanto si affermò l’idea che essa servisse solo a
creare cittadini più ossequienti, a discapito della loro libertà di
autodeterminarsi e di opporsi consapevolmente al sistema politico
vigente.
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Così, come conseguenza di queste critiche, si è andato articolando il filone di
pensiero penalistico e criminologico inteso a rivalutare i principi retribuzionistici
della Scuola Classica del diritto, le garanzie processuali, la certezza della pena,
secondo un modello chiamato appunto neo-classicismo o neo-retributivismo. In
luogo della pena indeterminata, ha avuto incentivazione il sistema della
incapacitazione selettiva, fondato sulla difesa sociale e sulla mera deterrenza e
mirante ad aggravare le sanzioni nei confronti dei delinquenti recidivi e più
pericolosi.
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CAPITOLO 5
TEORIE SOCIOLOGICHE E CRIMINALITA’
1. Premessa
Nella prima metà del ‘900, mentre in Europa venivano maggiormente
coltivati gli indirizzi individualistici, si sviluppa ampiamente negli USA la
sociologia criminale, che diverrà per un lungo periodo il filone più rigoglioso
della criminologia.
Vediamo in particolare le teorie maggiormente significative.
2. La teoria ecologica o delle aree criminali
La Scuola di Ghicago, fu la prima scuola criminologica specificamente
coltivata da sociologi. Questi sociologi indicarono con il termine di aree criminali
quelle zone delle città dalle quali proviene e risiede la maggior parte della
criminalità comune. Secondo queste teorie, in ogni grande agglomerato urbano
possono identificarsi zone con particolari caratteristiche ambientali (da qui il
nome di “teoria ecologica”), nelle quali gli abitanti che hanno avuto a che fare con
la legge si trovano in concentrazione molto più elevata che in altre. Questi
quartieri rappresentano poi un significativo polo di attrazione per coloro che
cercano un ambiente più permissivo e più adeguato al proprio status di delinquenti
abituali ed anche più protettivo, perché non mette ulteriormente ai margini coloro
che già sono degli emarginati. Per la teoria ecologica, pertanto, l’ambiente di vita
è il fattore più importante nella genesi della criminalità, almeno nelle modalità più
squalificate e povere di delinquenza comune, anche se è ovvia l’importanza di
altri fattori. Questa è anche una teoria a “medio raggio” nel senso che non rende
certamente conto di fenomeni più generali: si presta a render conto solamente
della delinquenza comune più povera, della manovalanza delinquenziale.13
13 Compendio di criminologia, ed. Simone, Napoli, 2004.
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3. Le teorie della disorganizzazione sociale
Possono riunirsi in questa comune dizione di “teorie della
disorganizzazione sociale” molteplici studi sociologici che hanno posto l’accento
sulle profonde trasformazioni che, la sempre maggiore industrializzazione ha
indotto nella struttura della società nella prima metà del nostro secolo.
Il nucleo originario di questa teoria era costituito dalla polarizzazione
dell’interesse sul mutamento e sull’instabilità provocati dalla industrializzazione e
da tutti i fenomeni ad essa collegati (urbanizzazione, crisi della vecchia struttura
patriarcale, crisi della famiglia); fattori questi che hanno determinato la rottura di
molteplici equilibri sui quali si fondavano i precedenti valori normativi e l’etica
sociale.
In definitiva, si realizza “disorganizzazione sociale” quando perdono di
efficacia gli abituali strumenti di controllo sociale ed in particolare il controllo di
gruppo e quello familiare.
Secondo questo approccio, il singolo individuo, vivendo in una struttura instabile
e in troppo rapido mutamento, perde la possibilità di governarsi secondo i vecchi
parametri normativi, divenendo egli stesso, come la società, disorganizzato nella
sua condotta. Questo approccio teorico non è solo rivolto a rendere conto
dell’incremento della criminalità fra gli individui più poveri e più emarginati,
come faceva la teorica ecologica, ma fornisce una interpretazione a più largo
raggio, idonea a spiegare in una più ampia prospettiva il dilagare della criminalità
anche in altre classi sociali, ed anche fra coloro che subivano l’influenza della
disorganizzazione sociale pur senza essere afflitti da disagi economici.
Sutherland (1934), ha utilizzato anch’egli il concetto di disorganizzazione
sociale, legandolo, però, più che al mutamento e alla instabilità conseguenti alla
espansione industriale e allo sconvolgimento culturale a esso seguito,piuttosto
all’esistenza nella società di contraddizioni normative. Una società è
disorganizzata perché le norme sono contrastanti e contraddittorie e non assolve
pertanto alla sua fondamentale funzione socializzatrice: di rendere cioè gli
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individui osservanti delle norme. In pratica, il delitto si verifica perché la società
non è saldamente organizzata contro questa forma di comportamento.
Una sintesi dei più significativi aspetti del conflitto di norme, responsabile della
disorganizzazione sociale e del conseguente incremento di criminalità, è stata
formulata, in epoca successiva, da Johnson (1960). Secondo questo autore, vi è
conflitto di norme:
• quando vi sia socializzazione difettosa o mancante – E’ questa la
situazione che si realizza in coloro che, facendo parte di gruppi marginali,
possono essere ambivalenti verso norme legali che, in gran parte, sentono
come estranee o riguardanti solo i diritti delle più favorite fasce sociali
piuttosto che i propri (sono questi gli appartenenti alle sottoculture
delinquenziali);
• quando vi siano sanzioni deboli – vi è quindi insufficienza di intimi-
dazione punitiva verso alcuni tipi di azioni delittuose che vengono pertanto
implicitamente incentivate;
• quando vi sia inefficienza o corruzione dell’apparato giudiziario o di
polizia – in questo caso le sanzioni contemplate nei codici possono essere
anche severe, ma la loro efficacia è ridotta perché le leggi vengono
scarsamente o per nulla applicate.
Il conflitto e la contraddizione delle norme accentuano notevolmente il
carattere di instabilità degli strumenti del controllo sociale e costituiscono pertanto
un’importante causa di disorganizzazione sociale e di delinquenza.
4. La teoria dei conflitti culturali
La teoria dei conflitti culturali venne sottolineata da Sellin (1938), che vide
nella contrapposizione in un medesimo individuo di sistemi culturali differenti
una delle principali cause del venir meno degli abituali parametri regolatori della
condotta sociale con conseguente facilitazione alla devianza e alla delinquenza.
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Egli notò:
• che alcuni valori normativi dell’immigrato si trovavano in contrasto con
quelli della società ospitante – il persistere dei valori della cultura di
origine poteva provocare conflitto con quelli nuovi
• il partecipare a due sistemi culturali differenti provocava una situazione di
disagio, di insicurezza, esponendo l’individuo al rischio di ogni tipo di
disadattamento
• ad essere soggetti a comportamenti devianti non erano tanto i
neoimmigrati quanto quelli di seconda generazione, cioè i loro figli,
perché avevano perduto di significato i contenuti normativi della cultura di
origine (ancora validi per i padri) senza che fossero stati ancora assimilati
costumi e valori del paese ospitante.
Sellin inoltre mise in evidenza che per aversi condotta integrata è
necessario che vi sia sintonia fra i valori normativi del gruppo di appartenenza e
quelli di cui la legge è espressione: se, infatti, le prescrizioni della norma legale
nei confronti di tale condotta non si accompagnano alla “opposizione del gruppo”
(perché i gruppo vive valori devianti rispetto a quelli legali) l’intimidazione della
legge è inefficace. 14
5. Lo struttural-funzionalismo e teoria della devianza
Il concetto di devianza ha avuto un peso notevole nel successivo pensiero
sociologico. Premesso che per struttura si intendono tutti i rapporti esistenti fra le
persone all’interno di una data società. Secondo questo indirizzo, i cui maggiori
rappresentanti sono stati Parsons (1937), Merton (1938) e più tardi Johnson
(1060), i soggetti che agiscono nella società (gli attori sociali) regolano il
comportamento fra le persone e i gruppi in funzione di un complesso sistema di
norme che vengono, consapevolmente o inconsciamente, fatte proprie da
ciascuno. Il comportamento sociale, in funzione della osservanza o della non
14 Merzagora, Betsos I., Lezioni di criminologia, Cedam, Padova, 2001.
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osservanza delle norme, si viene pertanto a collocare fra le due opposte alternative
della conformità e della devianza.
Conformità - è lo stile di vita che è orientato e coerente con l’insieme
delle norme (siano esse espresse da regole del costume, dagli usi, dalle tradizioni,
ecc.): conforme è pertanto una condotta che rientra nella gamma dei
comportamenti permessi e generalmente accettati. Questa conoscenza è il frutto
dei processi di socializzazione e l’essere conformi è il risultato di una
socializzazione ben riuscita. Ciò si realizza attraverso l’educazione (esempio,
imitazione o insegnamento esplicito) ma anche attraverso meccanismi psicologici
complessi, quali la identificazione (cioè col rendersi simili a taluni soggetti eletti a
propri modelli assumendone i valori morali e normativi) e la interiorizzazione
(cioè con l’includere nella propria coscienza norme e principi che vengono così a
costituire parte integrante della personalità di ciascuno).
Il rafforzamento e il mantenimento della conformità è poi favorito dai sistemi di
controllo sociale, cioè da quello insieme di strutture e istituzioni che consento a
ogni attore sociale di conoscere le conseguenze (pene giudiziarie o sanzioni non
legali dei gruppi quali il rimprovero, l’ostracismo e l’emarginazione) della non
osservanza delle norme …
Pertanto, riassumendo, possiamo dire che nella genesi del comportamento
conforme possono distinguersi:
• il momento dell’apprendimento delle norme – che si realizza tramite i
processi di socializzazione e attraverso i continui contatti fra persone e
gruppi;
• la fase del mantenimento e del rinforzo dell’apprendimento normativo –
che è attuata dai vari strumenti di controllo sociale, dalla minaccia di
sanzioni, dall’ideologia, dagli interessi costituiti.
La devianza - è la condizione opposta alla conformità, che ricomprende sia le
condotte che violano le norme penale (cioè i delitti) sia quelle contrarie alle
semplici regole sociali generalmente accettate. Vi è però devianza solo quando la
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violazione è frutto di una precisa scelta e non è accidentale e solo quando lo
violazione avviene nei confronti di una norma verso la quale l’attore è orientato.
Non è dunque deviante chi viola la norma per mero caso o quando infrange una
regola disattesa da tutti.
6. L’anomia come causa di devianza: Merton
Allo struttural-funzionalismo va riconosciuto il merito di aver inteso
fornire una teoria sulle cause della devianza avvalendosi del concetto di anomia.
Ogni società pone dei limiti, con le norme legali o culturali, al soddisfacimento
delle aspirazioni degli individui, stabilendo quali siano i mezzi che possono essere
legittimamente impiegati per soddisfarle. Quando una società è strutturata in
modo stabile e armonico, i limiti e le norme sono percepiti e accettati come giusti.
Quando le norme perdono di credibilità, la condotta di molti individui sarà più
facilmente orientata in dispregio di esse e questa perdita di credibilità delle norme
configura appunto lo stato di anomia di un certo contesto sociale.
L’anomia si realizza dunque quando le regole, che in altri momenti si mostravano
idonee ad assicurare la condotta socializzata dei membri, perdono la loro efficacia
cosicché gli attori sociali si vengono a trovare in una condizione di particolare
difficoltà, dovuta proprio alla carenza dei necessari parametri di riferimento
normativo. 15
Robert Merton, negli anni ’30, ha fornito della devianza una nuova teoria.
L’anomia è intesa infatti come la conseguenza di una incongruità fra le mete
proposte dalla società e la realtà possibilità di conseguirle: una società ha
caratteristiche di anomia quando la sua cultura propone delle mete senza che
vengano a tutti forniti i mezzi per conseguirle. Le mete sociali possono intendersi
come le prospettive che la cultura di un certo momento pone come prioritarie ai
suoi membri, come quell’insieme di obiettivi verso i quali debbono tendere le
aspirazioni di tutti, obiettivi che sono nello stesso tempo ideologici, morali e
15 Berasani L., Prina P., Sociologia della devianza, Nisi, Roma, 1995.
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materiali. Naturalmente, con il variare delle società variano anche le mete che la
cultura di ciascuna società propone come fondamentali, come più meritorie e
qualificanti. Pertanto, le società, per non produrre frustrazioni, debbono
mantenere un buon equilibrio tra le norme e le mete istituzionalmente suggerite e
devono offrire la possibilità di raggiungere le mete con i mezzi legittimi che
vengono prescritti o forniti. Pertanto, la disuguaglianza nelle opportunità di
successo sociale stimolano la non osservanza delle norme, che regolano le
modalità lecite per conseguire le mete proposte dalla cultura. Tale teoria, però,
non è in grado di risolvere il problema psicologico del perché alcuni individui
siano più sensibili e altri meno alle influenze anomiche.
Merton ha anche individuato le diverse modalità di reagire alla condizione
anomica, dunque, abbiamo:
1) un comportamento di conformità che, risulta tanto più agevole e tanto
meno ansiogeno e frustrante quanto maggiori sono le opportunità di
successo offerte dal proprio status.
2) Un comportamento deviante che, a seconda di come viene risolta
l’antinomia fra le mete poste dalla cultura e i mezzi impiegato per
conseguirle, può essere così manifestato:
a. Innovazione – che si realizza quando l’attore sociale è orientato
verso i fini proposti dalla cultura, mira a raggiungerli ma per
ottenerli non si pone problemi circa il carattere eventualmente
illegittimo dei mezzi impiegati.
b. Ritualismo – questo tipo di devianza sui generis, si realizza quando
permane il rispetto per le norme e vi è invece rifiuto di ricorrere ai
mezzi illegittimi anche se ciò comporta la rinunzia a perseguire le
mete del successo sociale.
c. Rinunzia – è la devianza che si realizza quando vengono persi di
vista sia i fini che i mezzi, cioè quando si rinunzia a raggiungere il
fine dell’ascesa economica o del successo, ma nello stesso tempo
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non vi è rispetto delle norme istituzionali. E’ questa la devianza di
chi cessa di combattere, dei vagabondi, dei drogati, dei derelitti.
d. Ribellione – è la devianza caratterizzata dalla sostituzione delle
mete culturali con mete diverse, da un rifiuto globale della società
e, pertanto, anche delle regole circa l’uso dei mezzi illegittimi. Il
ribelle, l’anarchico, il contestatore assumono un sistema di valori
del tutto alieno e contrapposto a quello della cultura dominante e si
propongono di conseguire un sistema sociale e culturale
alternativo.
7. La teoria delle associazioni differenziali: Sutherland
Negli anni ’30, Sutherland elabora una nuova teoria sociologia che prese
il nome di “teoria delle associazioni differenziali”.
Tale teoria ha come suo carattere distintiva il principio che il comportamento
delinquenziale è appreso: poco importerebbe pertanto nel divenire delinquenti la
psicologia dei singoli individui.
L’apprendimento della condotta criminosa è in relazione pertanto con i tipi di
persone con le quali si viene a contatto, con il tipo dei loro valori, mediante un
processo di comunicazione analogo, ma di segno opposto, a quello tramite il quale
si apprende il rispetto delle norme legali.
Questa teoria venne proposta da Sutherland come schema per una teoria generale
della criminalità, una teoria eziologica capace di render conto di tutti i tipi di
condotta criminosa e del perché, nonostante la presenza di analoghe opportunità,
si verificano orientamenti differenti da un individuo all’altro circa il rispetto o
meno della legge, in funzione della frequentazione appunto di gruppi inosservanti
della legge penale.
Una persona è dunque favorita nella scelta delinquenziale a parità di condizioni
economiche e sociali, quando si trova inserita in un gruppo ove prevalgono
definizioni favorevoli alla violazione della legge rispetto a quelle sfavorevoli.
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Non esisterebbe dunque una criminalità innata, ma si imparerebbe ad agire
criminalmente assimilando i modelli di comportamento delinquenziale proposti da
un certo ambiente.
Però non tutti i gruppi con i quali si è via via in contatto hanno la stessa capacità
di influenzare la condotta: fra i vari ambienti di cui un individuo si trova a far
parte, avranno più elevata capacità di orientare la condotta quelli che vengono
frequentati con maggiore intensità; quelli nei quali i rapporti hanno maggiore
priorità (in quanto i membri godono per il soggetto di maggiore prestigio), quelli
dove i rapporti hanno maggiore durata e, infine, quelli che per anteriorità si sono
proposti come modello in epoca più precoce e in età più giovane.
Analiticamente possiamo dunque puntualizzare che:
1) il comportamento criminale è un comportamento appreso;
2) tale comportamento è appreso attraverso il contatto con altre persone e per
mezzo di processi di comunicazione;
3) esso è appreso all’interno di dirette relazioni interpersonali;
4) si apprendono anche le tecniche necessarie al compimento del reato, le
valutazioni e le attitudini nei confronti del crimine;
5) si diventa delinquenti quanto le interpretazioni contrarie rispetto alla legge
sono in un dato ambiente prevalenti rispetto a quelle favorevole;
6) le associazioni differenziali possono variare in rapporto all’intensità, alla
priorità, alla durata, alla anteriorità del “contagio”;
7) il processo di apprendimento del comportamento criminale implica gli
stessi meccanismi che verrebbero chiamati in causa in qualsiasi altro tipo
di apprendimento.
Il fatto che Sutherland si sia sforzato di costruire una teoria eziologia per spiegare
cioè ogni forma di criminalità, non significa che egli ignorasse del tutto la
possibilità dell’intervento di altri fattori nell’eziologia del crimine e, anzi, li indicò
nelle opportunità, nell’intensità del bisogno, nella possibilità che vengano
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proposte alternative al comportamento criminoso e, soprattutto, nella
disorganizzazione sociale.
Però, se certamente è condivisibile l’assunto secondo cui le tecniche e gli
atteggiamenti criminali devono essere appresi, è difficile però condividere il
principio secondo cui tutte le forme di criminalità debbano essere necessariamente
apprese, secondo lo schema fornito da questa teoria.
Altre critiche che si possono muovere alla teoria delle associazioni differenziali
sono:
o essa si mostra del tutto carente dal punto di vista dell’indagine psicologica
in quanto trascura il problema della “risposta differenziale” che si pone a
livello personale;
o non spiega l’invenzione di nuove condotte delittuose mai utilizzate in
precedenza o anche di quella criminalità che si manifesta spontaneamente;
o è portatrice di un determinismo piuttosto rigido, in quanto le motivazioni e
le tecniche attraverso cui si delinque sembrano apprese all’interno di un
ambiente in cui l’attore gioca un ruolo per lo più passivo.
8. La criminalità dei “colletti bianchi” di Sutherland
Sutherland va ricordato non solo per la teoria delle associazioni
differenziali ma anche, e soprattutto, perché per la prima volta ha indirizzato i suoi
studi verso un settore di delinquenza che era stato fino ad allora trascurato, cioè
quello dei reati che vengono compiuti dai dirigenti delle imprese industriali,
finanziarie, commerciali e dai professionisti.16
Egli infatti aveva notato che in certi ambienti professionistici ed imprenditoriali
prevalevano le definizioni favorevoli alla violazione della legge. Queste sue
osservazioni sono state pubblicate nel 1940 nella sua prima opra dedicata ai delitti
commessi da individui dal ruolo prestigioso “White Collar Crime”, divenendo
16 www.sociologia.uniroma.it
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punto di partenza fondamentale per i filoni criminologici incentrati sulla tematica
dei conflitti di classe.
Caratteristiche della delinquenza dei WCC sono date dal fatto che:
o questa delinquenza si realizza negli stessi ambienti ove si producono beni
e servizi ed è strettamente connessa ai processi stessi di produzione di tali
servizi e beni;
o non si tratta di delinquenza parassitaria come quella comune, nel senso che
si procurano ricchezza con i reati ma senza produrre alcun legittimo
beneficio;
o il suo costo sociale è rilevante perché questi reati compenetrano moltissimi
settori delle operatività produttive;
o l’indice di occultamento di questi reati è molto elevato essendo essi
facilmente mascherabili e per loro natura di difficile identificazione;
o gli autori di questi delitto godono di un elevato tasso di impunità in quanto
rivestono posizioni influenti e spesso godono di connivenze con aree del
potere politico e giudiziario;
o è minore la reazione sociale di censura nei loro confronti e ciò traspare
dall’uso di aggettivi quali “disonesto” piuttosto che “criminale”. Ciò
significa che il colletto bianco non viene associato allo stereotipo del
delinquente da parte della collettività e tale inoltre egli non si reputa;
o per chi compie delitti di questo tipo perdono di significato tutti quei fattori
di anomalia di personalità e di sfavore sociale che tanto hanno occupato la
criminologia impegnata nello studio dei delitti comuni;
o per configurare questo specifico tipo di delinquenza, è fondamentale la
tipologia dei reati commessi, che devono essere strettamente connessi alle
attività di produzione di beni o servizi.
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9. La criminologia del consenso
Sempre negli anni ’50 e ’60, oltre ai filoni della criminologia più connotati
politicamente (criminologia di destra e criminologia di sinistra), un nutrito gruppo
di teorie sociologiche, non assunse posizioni ideologiche radicali. Questi filoni, si
fondano sull’assunto che le norme sono suffragate dal consenso della
maggioranza dei consociati. La prospettiva ideologica di queste teorie era pur
sempre la denuncia dei fattori criminogeni insiti nelle discriminazioni sociali, il
mezzo per porvi rimedio doveva essere quello delle riforme e non della
sovversione rivoluzionaria. A questi filoni e a queste teorie sociologiche è stato
attribuito il nome di criminologia del consenso dal momento che la sua
prospettiva è ovviamente quella di ricondurre i devianti e i delinquenti alla
conformità e quindi al consenso.
Nell’ambito della criminologia del consenso, vanno collocati tutti gli indirizzi
antropologici e individualistici miranti ad identificare le peculiari caratteristiche
degli individui che commettono reati, caratteristiche che verranno valutate quali
cause della loro condotta criminosa, secondo la prospettiva della criminologia
eziologia, o quali fattori di vulnerabilità individuale favorenti, se non
determinanti, le scelte criminose.
Particolare rilievo va riservato in questa prospettiva alla criminologia
pragmatistica, che ha spostato l’accento dalla ricerca di cause o di fattori favorenti
individuali e/o sociali, a quello degli interventi operativi. Non esiste una singola
causa della criminalità ma solo un insieme di fattori che coerentemente
concorrono in un sempre fitto reticolo di embricazioni vicendevoli. Scopo della
criminologia deve essere pertanto quello di fornire conoscenze sempre più ampie,
idonee a essere utilizzate a fini pratici per adeguare i provvedimenti legislativi, gli
strumenti istituzionali e il trattamento dei criminali a una mutevole realtà in
costante modificazione.
Traggono da qui origine le teorie multifattoriali che ebbero appunto come
obiettivo quello di integrare la conoscenza dei fattori criminogenetici ambientali
con quelli individuali.
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La teoria dei contenitori di Reckless (1961)
Questa teoria multifattoriale si presenta come un altro indirizzo della
criminologia multifattoriale del consenso. Essa mira a spiegare in generale il
comportamento sociale identificando quei fattori che favoriscono il contenimento
della condotta nell’ambito della legalità: viceversa la carenza di questi fattori di
contenimento costituisce elemento significativo nel favorire la scelta criminale.
Reckless distinse:
• contenitori interni – rappresentati da quegli aspetti della struttura
psicologica più significativi per favorire l’integrazione sociale. Essi
consistono in: buon autocontrollo, buon concetto di sé, forza di volontà,
buon sviluppo delle istanza etiche, ecc.
• Contenitori esterni – rappresentati dall’insieme delle caratteristiche
dell’ambiente nel quale il singolo soggetto si trova a vivere. I contenitori
esterni rappresentano i freni strutturali che, operanti nell’immediato
contesto sociale di una persona, o agenti in senso più lato nella società, gli
permettono di non oltrepassare i limiti normativi. Detti contenitori sono
rappresentati da fattori molteplici: da un ragionevole insieme di aspettative
di successo sociale, nel senso che quanto maggiori sono le prospettive di
successo legate al ceto, alle relazioni, alle qualificazioni professionali,
tanto più agevole sarà mantenersi nella conformità e non usare mezzi
illegittimi per affermarsi; l’opportunità di incontrare consensi nel proprio
ambiente, il disporre di figure capaci di offrire coerenti modelli di
identificazione e una salda guida di condotta morale.
Si rende dunque necessario considerare contemporaneamente l’integrazione e la
correlazione tra le variabili psicologiche e quelle ambientali. Esiste cioè tutto un
complesso sistema di correlazioni fra i vari contenitori che consente di
comprendere come l’accentuata carenza di taluni di essi renda proporzionalmente
meno rilevante la mancanza degli altri: in genere, quanto più difettano i
contenitori esterni, tanto minore importanza nel condurre alla criminalità viene ad
assumere la carenza di quelli interni e viceversa.
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10. La criminologia del conflitto
Negli anni ’60, larghi settori dell’opinione pubblica sono stati
caratterizzati, specie tra gli intellettuali ed i giovani, da un deciso viraggio verso le
ideologie di sinistra. Si realizzo così in quell’epoca una vera e propria rivoluzione
culturale. Idee fatte proprie dal movimento del Sessantotto. 17
Le nuove idee investirono presto ogni settore della vita politica, culturale ed anche
privata di quegli anni. I principali informatori e le parole d’ordine di quel
movimento furono soprattutto il rifiuto del consumismo e, più in generale, di tutto
il mondo capitalistico e della società industriale. Si enfatizzava e si rifiutava il
“disagio della civiltà” cioè la quota di nevrosi e di ansia che la competitività e il
consumismo comportano.
In questo clima culturale, taluni filoni della criminologia si sono intessuti di
esplicite connotazioni ideologiche e politiche di sinistra e si sono andati
qualificando come criminologia del conflitto in opposizione ad una criminologia
del consenso. Per la criminologia del consenso, è centrale la percezione della
società come struttura non certo ottimale, con gravi disfunzioni di organizzazione,
disparità di accesso ai beni, carente di giustizia sociale, ma comunque
migliorabile con le riforme. Per i filoni più estremistici della criminologia del
conflitto, invece, la delinquenza non è eliminabile senza la radicale
trasformazione della struttura economico-sociale e senza la più o meno
apertamente auspicata soluzione rivoluzionaria, che avrebbe condotto alla
eliminazione dei conflitti di classe e delle ingiustizie e che avrebbe risolto anche
la questione criminale.
17 Ponti., Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.
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11. Le teorie dell’etichettamento
La visione di una società travagliata dalla continua conflittualità tra classe
detentrice del potere e le classi lavoratrici, viene ulteriormente radicalizzata negli
anni ’60 dai teorici del nuovo filone criminologico del labelling approach.
Gli aspetti caratterizzanti della “teoria dell’etichettamento” sono incentrati sui
seguenti punti:
1. visione rigida e dicotomica delle classi sociali – percepite come classe dei
proletari sfruttati e classe dei padroni sfruttatori;
2. non univoca accettazione delle norme legali – in quanto ritenute funzionali
ai detentori del potere e quindi con condivise da quella parte dei consociati
da essi vessati;
3. valorizzazione del concetto di reazione sociale – quale risposta che la
cultura dei ricchi mette in atto nei confronti delle condotte devianti
mediante la stigmatizzazione, l’emarginazione e le sanzioni penali;
4. percezione della devianza e della criminalità – non quali comportamenti
riprovevoli o colpevoli ma quale mero frutto di un etichettamento negativo
esercitato dal potere nei confronti delle sole condotte antigiuridiche
commesse dalle classe subalterne.
I teorici del labelling approach, affermano che il deviante non è tale perché
commette certe azioni, ma perché la società qualifica come deviante chi compie
quelle azioni. Il punto focale del nuovo approccio è spostato pertanto dall’atto del
singolo, alle reazioni della società nei confronti dell’atto stesso.
- Il deviante non è più visto come disfunzionale al sistema sociale, ma la
condotta deviante è invece intesa come necessaria e utile alla società che in
essa trova il confine ben delineato della propria conformità. Il deviante,
quindi, deve essere “creato” per differenziarsene ed avere un termine di
paragone negativo.
- Il deviante svolge anche un ruolo di capro espiatorio, nel momento in cui si
polarizza contro di lui tutta l’emotività e lo sdegno per gli autori del male, si
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ha il vantaggio di non far percepire come devianti altre condotte, che sono
proprie delle classi dominati;
- Il criminale, non è tanto colui che commette un crimine ma piuttosto colui
che, fra i molti atti illegali, ne compie certuni. Lo stereotipo culturale del
criminale corrisponde a quello della criminalità abituale e convenzionale, ma
non comprende tutti gli atti contrari ai codici. Si avrebbe così una
discriminazione in relazione al tipo di delitto, all’ambiente in cui esso viene
attuato e al ceto dell’autore.
I gruppi sociali, quindi, creano devianza facendo le norme la cui infrazione
costituisce devianza, applicando queste norme ad alcune persone ed etichettandole
come outsider. Da questo punto di vista la devianza non è una qualità dell’atto
commesso dalla persona, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione di
norme e sanzioni a un delinquente da parte di altri.
Il processo di consolidamento della devianza si realizza poi attraverso una serie di
eventi. Infatti, colui che è definito come deviante tende a stabilizzare la sua
condotta in una carriera deviante, il che comporta l’assunzione di un ruolo
deviante e conseguentemente anche il sentimento della identità personale diviene
quello di un Io deviante.
Viene inoltre distinta:
- la devianza primaria – che definisce una condotta deviante senza che si
mettano in moto reazioni sociali e psicologiche che modifichino il ruolo e
il sentimento della propria identità del soggetto agente;
- la devianza secondaria – si realizza come effetto della reazione sociale e
comporta peculiari effetti psicologici sull’individuo che si percepisce
come deviante, sviluppa tutta una serie di atteggiamenti oppositivi che il
suo ruolo comporta, con conseguente fissazione in tale ruolo di deviante
ovvero di delinquente.
Dunque, si diviene devianti perché si è qualificati come tali e, quindi, deviante
colui al quale l’etichettamento è stato applicato con successo; viceversa, colui che
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commette azioni criminose ma che non viene raggiunto dalla censura, non sarebbe
un deviante.
Alcune critiche possono essere mosse a questa teoria:
1. la confusione fra devianza e criminalità, che sono spesso usate come
sinonimi;
2. questa teoria spiega la devianza non criminosa e la piccola delinquenza di
poco conto, la microcriminalità di strada ma non si presta affatto ad essere
applicata nei confronti della criminalità più grave;
3. questa teoria è deterministica, in quanto la persona che ha subito lo stigma
sembrerebbe non potersi sottrarre ad un inevitabile destino delinquenziale;
4. questa teoria è deresponsabilizzante perché equiparando delinquenti e devianti
finisce per attenuare la colpevolezza dei primi che vengono a fruire
dell’atteggiamento più tollerante riservato ai secondi.
12. La criminologia critica: criminalità come fatto politico
Tra gli anni ’70 e ’80, in una prospettiva rigidamente marxista, la
criminalità venne intesa non più come fatto sociale ma piuttosto come fatto
politico: la criminologia, cioè, identificò la devianza con il dissenso, cosicché tutte
le classi ed i movimenti che si opponevano alla società neo-capitalista vennero
ritenuti costituire l’autentica categoria dei devianti. Ma ciò comportò che così
come i movimenti politici di sinistra, anche i criminali vennero intesi come
oppositori del sistema borghese, talché la criminalità venne considerata un fatto
sostanzialmente politico. La criminologia, pertanto, doveva cessare di proporsi
come scienza con finalità di ricerca per assumere precise prese di posizione
militanti e politiche.
In questa ottica, criminale era ritenuta invece la classe dominante con le sue
ingiustizie lo sfruttamento, la mortificazione consumistica e la negazione della
libertà e dignità umane.
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La devianza e la criminalità venivano così a identificarsi con la lotta che l’intera
classe operaia conduce per l’edificazione della società comunista.
Il primo filone della criminologia critica si è sviluppato in Inghilterra attorno alla
National Deviance Conference e ha preso le mosse da una critica della vecchia
interpretazione marxista della criminalità, secondo la quale questa era un diretto
prodotto della società capitalistica ma riteneva il criminale privo della
consapevolezza del significato classista del suo essere deviante. La new
criminology inglese affrontò invece il problema della devianza come scelta
consapevole dei singoli dinanzi ai disagi e alle contraddizioni sociali.
Questo indirizzo è stato coltivato anche in Germania ed in Italia da un gruppo di
studiosi facenti capo alla rivista Questione criminale. Nella prospettiva di questi
studiosi, la devianza veniva definita come una modalità di condotta contrapposta
ai canali normativi (costumi, leggi, cultura) ispirati e governati esclusivamente
della classe al potere. Il fatto che la devianza sia stigmatizzata e repressa dalle
istituzioni è la conseguenza del fatto che essa viene, dalla società capitalista,
percepita come una minaccia per il suo sistema.
Viene distinta:
- una devianza individuale - che nelle sue varie forme (criminalità,
evasione nella droga, rifiuto dell’inserimento lavorativo, ecc.)
costituisce una modalità di rigetto della società borghese, devianza che
però è priva oltre che di consapevolezza anche di prospettive;
- una devianza organizzata – che rappresenta la lotta delle classi
lavoratrici, chiaramente politicizzata e ordinata nei movimenti politici
delle masse. La lotta sociale organizzata per il superamento della
società capitalistica e per l’edificazione del comunismo avrebbe dovuto
consentire anche il riassorbimento delle devianze individuali nella
devianza collettiva e organizzata dei lavoratori.
La criminologia critica, anche se ha avuto il merito di contribuire ad un
movimento per la decarcerizzazione e l’umanizzazione della pena, ha alimentato
un atteggiamento dell’opinione pubblica di sinistra di eccessiva solidarietà nei
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confronti dei delinquenti, visti come vittime della società piuttosto che come
individui non solo inosservanti delle leggi ma spesso anche autori di
comportamenti prevaricatori. Essa ha cioè identificato la delinquenza come se
fosse solo microcriminalità da strada, agita da soggetti provenienti dai gruppi più
sfavoriti, trascurando del tutto la più allarmante criminalità violente, la
delinquenza economica e quella organizzata.
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CAPITOLO 6
TEORIE PSICOLOGICHE E CRIMINALITA’
1. La criminologia incentrata sull’individuo
Le teorie sociologiche rendono conto delle molteplici ragioni legate
all’ambiente, ai rapporti fra gruppi e alle loro reazioni che favoriscono le scelte
criminose di molti individui, ma esse non possono spiegare la variabilità del
comportamento individuale dinanzi ad analoghi fattori socio-ambientali che si
osserva di fatto nei singoli casi: variabilità che è da ricondurre alle diverse
caratteristiche psicologiche e biologiche di ogni individuo. E’ pertanto necessario
utilizzare un approccio integrato che miri a evidenziare quali sono i fattori che
rendono ogni persona una entità unica e irripetibile, così che differiscono per ogni
soggetto anche le risposte ai fattori criminogenetici insiti nella società, fattori che
rappresentano altrettante componenti di vulnerabilità individuale nei confronti
delle scelte criminose.18
Lo studio delle componenti di vulnerabilità può essere condotto:
1. attraverso lo studio delle teorie psicologiche della personalità – che
mettono in evidenza i complessi meccanismi che possono spiegare la
variabilità individuale delle risposte comportamentali e identificare aspetti
della personalità che possono esporre al rischio di devianza;
2. in una prospettiva biologica – per identificare i fattori che rendono ogni
essere vivente diverso dagli altri come conseguenza della differente
struttura del patrimonio genetico e, si conseguenza, tutti i problemi legati
all’ereditarietà, alla rilevanza di fattori neuro-fisiologici nei confronti della
organizzazione psichica e del comportamento istintuale, diverso dal
comportamento appreso;
18 Canepa G., personalità e delinquenza, Giuffrè, Milano 1974.
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3. in una prospettiva clinica – con l’esame di fattori psicopatologici, nel
quadro delle correlazioni fra disturbi mentali e condotta criminosa.
Nel considerare le correlazioni fra individuo e ambiente,va sottolineato che esiste
in ogni tipo di comportamento umano una loro costante integrazione. L’aspetto
più caratteristico di questa correlazione è rappresentato dal rapporto inversamente
proporzionale fra le componenti di vulnerabilità individuale e i fattori ambientali:
quanto più criminogenetici sono questi ultimi, tanto meno rilevanti sono le
componenti psicologiche o biologiche legate all’individuo; e, viceversa, quanto
più marcate sono le componenti della personalità che rendono l’individuo più
incline alla condotta criminosa o deviante, tanto meno significativi risultano le
carenze, le sollecitazioni e , in generale, i fattori criminogeni legati alla società.
2. Personalità - temperamento - carattere
Per comportamento (o condotta) si intende il complesso coerente di
atteggiamenti che ogni individuo assume in funzione dei suoi obiettivi e degli
stimoli che gli provengono dall’ambiente: poiché tali atteggiamenti altro non sono
che, in gran parte, espressione della psiche, ne risulta in pratica la possibilità di
identificare lo studio della psicologia con quello del comportamento.
L’attività psichica è costituita da tre fondamentali funzioni: la sfera conoscitiva, la
sfera affettiva e quella volitiva.
1. La sfera cognitiva – Sono proprie di questa sfera:
a. la conoscenza – è l’insieme delle funzioni che consento all’individuo
di essere informato sulla realtà, di parteciparvi, di accumulare
esperienze, di acquisire nozioni;
b. il pensiero – è l’organizzazione di processi mentali di carattere
simbolico che si concretizza nelle idee.
c. l’intelligenza – è l’insieme delle capacità acquisite, che riutilizzano
oltre che a livello logico-razionale o speculativo, anche per agire
nella vita relazionale; l’intelligenza può essere dunque attitudine ad
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affrontare e risolvere situazioni concrete (intelligenza pratica),
ovvero attitudine a impostare e risolvere problemi generali e
astratti (intelligenza teorica).
2. La sfera affettiva - è quella fondamentale coloritura positiva o negativa,
piacevole o spiacevole che eventi e pensieri suscitano in noi. Nella sfera
affettiva si distinguono:
a. l’umore – inteso come il variare dell’emotività nelle varie sfumature
che vanno dalla tristezza alla gioia;
b. i sentimenti – che sono espressioni più elaborate della vita affettiva che
sorgono nel rapporto con persone e situazioni non tanto sulla scorte
di elementi razionali quanto piuttosto per la risposta interiore che
ciascuno vive nei confronti di tali persone e situazioni;
c. le emozioni – sono sentimenti che si manifestano con una intensità
particolarmente acuta (ira, furore, esaltazione e rabbia) e che si
estrinsecano anche in fenomeni fisiologici (rossore, batticuore,
pallore, tremore).
3. La sfera volitiva – riguarda le azioni (e le omissioni) che vengono
compiute per determinati fini. Sulla volontà si incentra tutta le tematica
della libertà, del libero arbitrio, della responsabilità, o all’opposto, del
determinismo.
Importantissimo è il concetto di personalità.
1. Nell’uso comune, il significato di personalità può identificarsi con la
abilità o accortezza sociale, valutandosi la personalità di un individuo in
funzione della sua capacità ed efficienza nel reagire positivamente nei
contatti con persone diverse e nelle circostanza più varie.
2. Una seconda accezione la personalità di un individuo è definita dalla
reazione del prossimo al modo di interagire di un individuo (prepotente,
affascinante, difficile, debole, ecc.). Si tratta di una definizione
psicosociale dato che considera la p persona nell’interazione col prossimo.
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3. La personalità può ancora essere intesa come l’insieme delle qualità e
caratteristiche di un soggetto, quale somma, cioè di aspetti biologici e
psichici suscettibili di osservazione e descrizione obiettiva, facendo
astrazione dai riflessi interpersonali;
4. La definizione di personalità può anche includere gli aspetti unici ed
irripetibili o più rappresentativi di una persona, ricalcando così il concetto
di “individuo” della prospettiva biologica ma riferendola solo alle
componenti psichiche.
La personalità altro non esprime se non l’insieme dei termini che vengono
impiegati per descrivere il singolo individuo, termini scelti in base a variabili e
dimensioni diverse. Però, un significato di personalità essenzialmente incentrato
sugli aspetti intrinseci della persona non può essere soddisfacente per la
criminologia in quanto essa non può prescindere dall’approccio integrato fra
l’individuo e l’ambiente sociale nel quale viene agito il comportamento delittuoso.
Poiché la condotta criminale è in sostanza un particolare tipo di comportamento
nella società legato alle caratteristiche della persona ed ai reciproci
influenzamenti fra persona e ambiente, dal punto di vista criminologico la
personalità interessa sostanzialmente nei suoi aspetti psicosociali. Pertanto: la
personalità può definirsi come il complesso delle caratteristiche di ciascun
individuo quali si manifestano nelle modalità del suo vivere sociale e può essere
intesa come la risultante delle interrelazioni del soggetto con i gruppi e con
l’ambiente.
Quando parliamo invece di temperamento, ci ricolleghiamo alla base innata,
ancorata alla struttura biologica, delle disposizioni e tendenze peculiari di ogni
individuo nell’operare nel mondo e nel reagire all’ambiente: così parliamo di
temperamento mite o violento, subordinato o dominatore, ecc.
Peraltro, le infinite circostanze dell’esistenza incidono sul temperamento, facendo
assumere al soggetto modalità di pensare, di atteggiarsi e di agire più o meno
diverse da quelle innate: è ciò intendiamo per carattere.
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In sintesi, il concetto di temperamento contiene connotazioni di
“potenzialità” che si traducono in “attualità” di modi di pensare e di interagire,
cioè in carattere, per effetto delle mutevoli esperienze e vicende che la vita pone a
ciascuno.
Il carattere rappresenta pertanto la risultante della interazione fra temperamento
e ambiente: il carattere non è quindi una componente statica della personalità
quanto piuttosto una componente dinamica che si modifica col tempo e con quelle
rivende di vita che ne plasmano gli aspetti.
3. Le teorie psicoanalitiche di Freud
Per molti anni psichiatri e psicologi hanno discusso sul perché alcune
persone divenissero aggressive e violente; per alcuni si trattava di personalità
criminali tout court. La prima interpretazione soddisfacente sull’argomento si
deve a Sigmund Freud, che diede un fondamentale contributo alle teorie sullo
sviluppo della personalità e le sue idee sono state utilizzate dai criminologi per
spiegare il comportamento antisociale. Nei suoi scritti Freud sostenne che la
personalità era il risultato dell’esperienza sociale e sottolineò l’importanza delle
esperienze nella prima infanzia e dei conflitti tra i bisogni dell’individuo e le
richieste della società. La personalità si distingue in tre parti, spesso in conflitto
tra loro: Es, Io , Super-Io.
L’Es, fin dalla nascita, costituisce il polo pulsionale della personalità. I suoi
contenuti sono riconducibili all’istinto di vita, Eros, fonte della libido, e all’istinto
di morte, Thanatos. Entrambi questi istinti possono essere rivolti al mondo
esterno, alle cose, agli oggetti (libido oggettuale e aggressione rivolta verso
l’esterno), oppure alla persona stessa (libido narcisistica e auto aggressione).
Dal punto di vista economico l’Es è per Freud il serbatoio primario dell’energia
psichica; dal lato dinamico, entra in conflitto con l’Io e il Super-Io, che
rappresentano geneticamente differenziazioni dell’Es che è alla ricerca costante
del piacere. L’Io, invece, è quella parte della struttura psichica conscia e razionale.
Si pone come mediatore tra le pulsioni inconsce dell’Es e gli imperativi del Super-
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Io, che interiorizza i divieti sociali e la morale, rappresenta un polo difensivo della
personalità, in quanto aziona i meccanismi di difesa motivati dalla percezione di
un effetto spiacevole (segnale di angoscia), opera secondo il principio di realtà. Il
Super-Io, infine, interiorizza le esigenze e i divieti dei genitori e del gruppo
sociale. Ha la funzione di «coscienza sociale», di «censore», di auto-osservazione,
di formazione di ideali. Freud riteneva che la pressione maggiore da parte della
società fosse diretta verso il Super-Io, in modo tale che la personalità si
conformasse alle regole sociali. Rende capaci di osservare le proprie azioni e di
giudicarle, nonché offre un’immagine di ciò che si dovrebbe essere (Io ideale)
secondo le aspettative della società. 19
Freud collegò la criminalità a un inconscio senso di colpa che il soggetto prova a
causa del complesso di Edipo, se è maschio, o di Elettra, nel caso della femmina,
vissuto nell’infanzia. Questo consiste, per il bambino, nel provare una forte
attrazione e un affetto particolare per la madre e nel contenderne i favori con il
padre, nei cui confronti sviluppa desideri ostili. Attraverso tale identificazione il
bambino interiorizza le regole e i ruoli della sua cultura ed emerge il Super-Io.
Freud ritenne che in alcuni criminali si potesse scoprire un senso di colpa
preesistente alla commissione del reato; che questo ultimo non fosse il risultato
della colpa, bensì la sua motivazione. In altre parole, il comportamento criminale
potrebbe essere la risultante di un conscio iperattivo che causa un potente senso di
colpa. Freud riferì che molti suoi pazienti, che si sentivano
colpevoli,commettevano atti antisociali allo scopo di essere arrestati e puniti
severamente, in modo tale da essere liberati dal sentimento di colpa attraverso la
punizione. In accordo con la tesi freudiana del «delinquente per senso di colpa», si
sviluppano in criminologia numerose teorie basate, appunto, sulle idee e sui
metodi psicoanalitici
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4. La coazione a confessare
Tale impulso si può manifestare con atti di dimenticanza e di trascuratezza
sulla scena del delitto, anche quando questo sia stato premeditato e studiato in tutti
i suoi dettagli, oppure con atteggiamenti di disprezzo e arroganza, quasi
provocatori, in sede di interrogatorio di polizia e di giudizio. In altre parole il
delinquente, attraverso il modo indiretto del lapsus, come lasciare oggetti
personali sul luogo del delitto o tracce identificabili, svela il proprio segreto.
Infatti, l’esecuzione del delitto può portare alla pena, e quindi al sollievo psichico
dal senso di colpa solo se il delitto è scoperto. Per questo motivo alcuni
delinquenti commettono reati in modo tale da farsi identificare e mostrano un
desiderio irresistibile di confessare, a volte anche mentendo.
Le teorie di Reik e di Freud si prestano ad altre due possibili ipotesi. La
prima si riferisce al caso in cui il senso di colpa porta a commettere un delitto e
alla conseguente ricerca della punizione per alleviare l’angoscia, per poi reiterare
il comportamento criminale per ottenere una successiva punizione. Ci si riferisce,
in pratica, a un delinquente in cui il senso di colpa e di angoscia non si risolve in
un’unica soluzione, in quanto le tracce lasciate non sono sufficienti per farlo
individuare, ma si allevia solo temporaneamente per poi riemergere fino a far
commettere un altro delitto. delinquenti recidivi e seriali. La seconda ipotesi
riguarda il caso in cui il senso di colpa e il desiderio della punizione sono talmente
forti da bloccare la confessione del soggetto, che non vuole liberarsi dalla colpa in
modo così semplice e veder diminuita la sua pena.
È chiaro, a questo punto, che sul delinquente per senso di colpa la punizione non
esercita alcun controllo, né la sanzione penale ha un effetto deterrente; anzi può
avere un effetto attraente e soddisfare inconsce tendenze masochiste. Estendendo
il discorso dal delinquente alla società, la psicoanalisi tende a individuare il
carattere essenziale dell’istanza sociale di punizione non tanto nella protezione
degli individui dal comportamento antisociale altrui, quanto in una difesa dai
propri impulsi, poiché l’impunità degli altri provocherebbe il prorompere dei
propri istinti. In conclusione, sulla base della concezione che l’essenza della pena
è la risultante del conflitto tra due dinamismi, rispettivamente diretti a infliggere
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una violenza al colpevole e a proteggerlo per un sentimento di dolorosa intima
simpatia del male, per la psicoanalisi le funzioni superiori assegnate alla pena
dalla dottrina sarebbero il frutto di una razionalizzazione secondaria operata dal
pensiero giuridico.
5. Psicoanalisi e criminalità: Alexander e Staub
La teoria psicoanalitica della personalità offre la possibilità di interpretare
talune modalità della condotta criminale. Si tratta dell’utilizza della chiave di
lettura della psicoanalisi anche per la identificazione di alcuni meccanismi della
criminogenesi.
Il più organico contributo psicoanalitico in ambito criminologico è quello
di Alexander e Staub (1929).
Secondo questi autori la condotta criminosa è l’effetto di molteplici modalità dello
svincolo dal controllo del Super-io. Essi identificano diverse condizioni nelle
quali il controllo dell’istanza superiore si riduce fino ad abolirsi completamente,
secondo il seguente schema:
1. la normalità (o integrazione sociale) – è rappresentata dal pieno controllo
del Super-io sul mondo pulsionale-istintuale: in tali condizioni vi è piena
conformità di condotta e rispetto delle regole;
2. la delinquenza fantasmatica – nella quale il controllo delle pulsionalità
antisociale è ancora pienamente efficiente sul comportamento tant’è vero
che l’individuo non delinque; esistono tuttavia istinti antisociali più
pressanti che il soggetto riesce comunque ad arginare.
3. la delinquenza colposa (condotta motivata da imprudenza, negligenza,
imperizia) – può essere interpretata col meccanismo della dislocazione
delle pulsioni aggressive: l’aggressività che il Super-io non consente che si
realizzi come tale, cioè come violenza volontaria, verrebbe estrinsecata
attraverso una condotta imprudente o negligente che provoca ugualmente
danno alla persona osteggiato o alle sue cose;
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4. la delinquenza nevrotica – nella quale la condotta criminale rappresenta un
sintomo di una situazione conflittuale profonda. Il Super-io non ha
completamente rinunziato al controllo dell’antisocialità e questi si realizza
unicamente per l’esistenza di profondi contrasti interiori che trovano una
possibilità di soluzione nella condotta deviante. Quest’ultima è dunque
non l’effetto di un progetto razionale e consapevole o di un ideale dell’Io
di tipo criminale ma una sorta di ripiego per eliminare la tensione delle
conflittualità interiori: la delittuosità nevrotica (piuttosto rara) non essendo
completamente accettata si accompagna pertanto a sensi di colpa (es.
cleptomania).
5. delinquenza occasionale e affettiva – viene definita così quella
delinquenza che si attua appunto solo in circostanze eccezionali,
particolarmente favorevoli allo svincolo delle controspinte superiori
(delitti per passionalità, delitti scaturiti da violenti diverbi, in stato d’ira).
Tale tipo di delinquenza per gli autori è anche quella commessa quando vi
sia un’ampia probabilità di non essere scoperti oppure quando un oggetto
desiderato è offerto in modo suggestivo (furti nei grandi magazzini).
6. delinquenza normale – rappresenta l’ultimo stadio, dove il controllo del
Super-io cessa completamente e l’Io può realizzare senza ostacoli le
pulsioni aggressive e antisociali: non essendovi più controllo superegoico
il delinquente non si sentirà in colpa per la sua condotta.
Da quanto abbiamo appena considerato, appare chiaro come l’adeguamento alla
vita sociale è da vedersi essenzialmente in funzione dell’efficienza del Super-io.
Il Super-io può essere:
1. anomalo - essendo strutturato come Super-io criminale gli ideali
dell’io sono strutturati in modo antisociale e il soggetto adegua la sua
condotta che diviene pertanto criminale;
2. debole - e non costituire una guida sufficientemente costante e valida
per la condotta: ciò si realizza quando vi siano stati fattori desiducativi
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ambientali, difetti dei processi di identificazione, inadeguatezza della
famiglia o mancanza di modelli;
3. del tutto assente - si realizza in tal modo un inadeguamento globale
alla vita sociale.
Concludendo, per Alexander e Staub, si possono distinguere tre tipi fondamentali
di delinquenza:
• la delinquenza accidentale – nella quale sono assenti tratti psicologici
devianti delle personalità e la delittuosità può realizzarsi con delitti
colposi o con delitti occasionali correlati a situazioni eccezionali che
inattivano il Super-io in stati di particolare pregnanza emotiva o per
occasioni particolarmente favorevoli o allettanti;
• la delinquenza cronica – che rappresenta la propensione al delitto
dovuta alla struttura stessa della personalità: essa può dipendere dal
fatto che l’Io è fragile o compromesso (per fatti tossici, per difetto
d’intelligenza) o perché il Super-io è assente e quindi la condotta
dell’individuo è in balia degli istinti.
• la delinquenza per senso di colpa – alcuni soggetti agirebbero cioè in
modo criminoso unicamente per essere poi puniti, e soddisfare, così,
senza rendersene conto, un bisogno inconscio di espiazione di stampo
nevrotico.
In certe situazione, poi, i comportamenti criminali sono stati interpretati come
originati dalla fissazione alla fase del principio del piacere: la delinquenza, in
questo caso, esprimerebbe un modo di dar soddisfacimento diretto alle pulsioni.
Le frustrazioni ambientali e familiari, la marginalità, le sconfitte, l’assenza di
ragionevoli prospettive di successo sociale, sono tipiche situazioni che ostacolano
il processo di maturazione verso la fase governata dal principio di realtà,
favorendo la fissazione o la regressione a modalità più immature di condotta.
Questa, come altre interpretazioni psicodinamiche, comportano il rischio di
fornire una lettura della condotta criminosa che finisce per essere
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deresponsabilizzativi perchè il delinquente viene percepito come se fosse costretto
a delinquere da forze da lui non governabili.
Meccanismo reattivo messo alla luce dalla psicoanalisi e tipicamente collegato
alla immaturità affettiva è quello dell’acting-out (passaggio all’atto) che
rappresenta una modalità impulsiva di comportamento mirante a risolvere l’ansia,
particolarmente quella derivante da eccesso di frustrazione, con una condotta
anomala: molti comportamenti criminali, specie nei giovani, assumono il
significato di azioni realizzate come compenso di gravi carenze affettive o
materiali. L’acting-out criminoso si caratterizza per il fatto che il reato non appare
in relazione a motivi o scopi normali e coscienti (lucro, vendetta, ecc.) ma
rappresenta una scarica o un sollievo da una tensione emotiva riferibile a
conflittualità o frustrazione. Questo meccanismo non solo è all’origine di reati di
tipo aggressivo ma può concretarsi anche in furti commessi per liberarsi da
tensioni interiori.20
Altro aspetto dell’immaturità è rappresentato dalla bassa soglia di tolleranza alla
frustrazione. Quanto più bassa è la tolleranza alla frustrazione di un soggetto tanto
più facilmente egli sarà indotto a reagire con aggressività o con impulsività, alla
frustrazione stessa. Ad analoga situazione si ricollega anche il meccanismo della
difesa dalla frustrazione mediante l’identificazione del frustrato nel frustratore: il
soggetto che ha subito ripetute frustrazioni può eleggere come propri modelli di
identificazione, figure per lui altamente frustranti divenendo pertanto egli stesso,
con l’adeguarsi ai modelli, un soggetto frustratore.
L’incapacità di identificarsi col prossimo caratterizza molti degli autori di
reati contro la persona. In quest’ottica, le condotte criminose violente vengono
classificate in questo modo:
1. condotte dovute a deficienza globale di identificazione con
l’oggetto dell’impulso aggressivo – come accade per esempio nella
legittima difesa;
20 Ponti G.,Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.
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2. condotte dovute a processi di identificazione soltanto parziale – in
base al fatto che determinati valori morali non sono fortemente
avvertiti come veri e propri valori (è il caso delle sottoculture
violente o delle bande giovanili di tipo distruttivo);
3. condotte dovute a processi di identificazione particolari –
attraverso i quali la passività alla violenza si converte in attività (è
il caso della identificazione del frustrato nella figura del
frustratore)
Al meccanismo di difesa della proiezione è da attribuirsi l’atteggiamento di
deresponsabilizzazione riscontrabile in tanti criminali. Proiettando su altri
(famiglia, società) la responsabilità della propria condotta criminosa, ci si sente
anziché colpevoli piuttosto delle vittime, ci si libera dal senso di colpa e si mette il
prossimo (giudici, operatori penitenziari) nella posizione di chi infierisce su un
innocente.
Nonostante i tanti importantissimi contributi per la comprensione della
condotta criminosa, la psicoanalisi, con l’eccessivo indulgere nella ricerca di
interpretazioni psicodinamiche, può comportare il rischio di intendere ogni
criminale come persona in qualche modo psicologicamente disturbata, col
risultato di “patologizzare” la delinquenza; inoltre, le inconsce e spesso tortuose
dinamiche ipotizzate in chiave psicoanalitica rischiano di far perdere di vista la
quotidiana realtà.
6. La psicologia sociale: Adler e Fromm
Dalla psicoanalisi ha preso avvio un importante filone che ha dato corpo
ad una serie di teorie che hanno riservato particolare attenzione alle interazioni
che avvengono fra gli individui all’interno del sistema sociale e alla ripercussioni
di tali interazione sulla personalità. Questo filone è la psicologia sociale che può
essere dunque definita come lo studio delle relazioni interpersonali nel contesto
sociale, ovvero del modo secondo il quale la vita sociale si riflette sulle
manifestazioni psichiche della persona.
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Secondo la psicologia sociale, la personalità non può essere studiata in sé
ma solo nell’ambito dei continui rapporti che si instaurano fra l’individuo, le altre
persone e i gruppi. Le teorie psicosociali possono farsi risalire a quel secondo
filone di derivazione psicoanalitica che fa capo ad Alfred Adler (1870-1937). La
psicologia adleriana considera l’individuo come mosso, anziché da cause interiori
(quali gli istinti, le dinamiche insite nelle sue varie istanze o l’inconscio
collettivo) piuttosto dalle prospettive e dai bisogni legati al suo essere inserito
nella società.
Adler vede nella volontà di potenza l’impulso fondamentale che muove l’uomo:
essa prende l’avvio dalla sua innata aggressività e costituisce la fonte di energia
psichica che consente all’individuo di realizzare le sue aspirazioni verso la
superiorità, meta ultima di ogni condotta. Per converso, il contatto sociale può
alimentare, con l’insuccesso, sentimenti di inferiorità, intesi come senso di
incompiutezza e di imperfezione ma questo sentimento, a sua volta, è il punto di
partenza che stimola l’individuo verso il conseguimento di livelli di aspirazione
più alti.
In condizioni particolari (iperprotezione, carenza affettiva familiare, innata
disposizione) il sentimento d’inferiorità può essere talmente accentuato da
provocare manifestazioni anomale tanto da sviluppare un complesso di inferiorità.
Volontà di potenza, complesso di inferiorità, complesso di superiorità sono
processi psicologici che non infrequentemente possono ravvisarsi nella
criminogenesi di taluni soggetti.
La psicologia di Fromm sottolinea ulteriormente l’importanza del contesto
sociale: il tema della sua riflessione è quello della solitudine e dell’isolamento che
l’uomo prova se non armonicamente inserito nel suo ambiente sociale. Nel
pensiero di Erich Fromm (1900-1980) la condizione dell’uomo, per il suo
equilibrio e armonia, comporta anche il soddisfacimento di fondamentali esigenze
non materiali:
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1. il bisogno di relazioni - in quanto per divenire individuo
socializzato ha bisogno di amore, comprensione e rispetto
reciproco continuo;
2. il bisogno di trascendenza - che si ricollega alla necessità
dell’uomo di elevarsi al di sopra della sua struttura animale
mediante la creatività;
3. il bisogno di avere schemi di riferimento - cioè di un sistema
stabile e coerente di valori che gli consentano di percepire e
comprendere il mondo, schemi che gli vengono forniti dal costume,
dalla cultura, dalle norme;
4. il bisogno di identità personale – l’uomo ha anche necessità di
sentirsi un individuo unico e riconoscersi in una immagine di se
stesso coerente e stabile.
Da tutto questo discende la necessità di associarsi, di sentirsi inserito in un gruppo
per combattere l’isolamento, la solitudine e la carenza di identità.
L’inappagamento o la frustrazione di questi bisogni sono quindi possibili spinte
alla ricerca di compensazioni proprio per la condotta delittuosa.
7. Identità personale e teoria dei ruoli
La psicologia sociale ha elaborato due concetti rilevanti in ambito
criminologico:21
1) quello di identità personale – che si riferisce al sentimento che in
ciascuno si viene a strutturare in ordine all’assenza, unicità, qualità
della propria persona e ai fini e ai mezzi che devono informare il suo
inserirsi nel mondo.
2) Quello di ruolo – che si riferisce alle aspettative che nella società si
formano nei confronti di ciascun individuo in conseguenza della
21 Berasani L., Prina P., Sociologia della devianza, Nisi, Roma, 1995.
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posizione specifica che egli occupa nella società o delle funzioni che
svolge nei gruppi sociali.
Ai problemi della formazione delle disarmonie della identità personale è dedicata
buona parte del pensiero di Erikson (1963) che intende il sentimento della propria
identità come l’organizzazione di un’immagine coerente, omogenea, continua e
stabile dell’essenza della propria personalità.
La formazione dell’identità si realizza:
- attraverso l’identificazione con successivi modelli significativi;
- attraverso i ruoli via via proposti e assunti.
Se per questa cattiva organizzazione della identità, o per qualsiasi altro motivo, si
verifica qualche iniziale comportamento deviante o delinquenziali, si risvegliano
nel prossimo aspettative negative nei confronti di tali soggetti: ciò finisce con
l’alterare l’identità personale sicché l’attore realizza poi stabilmente con la
condotta deviante o criminosa il giudizio negativo anticipato nei suoi confronti
(profezia che si autoadempie).
La società, i gruppi, la famiglia continuamente confermano pertanto il sentimento
dell’identità personale con i giudizi, le valutazioni, le gratificazioni, le
frustrazioni. Ma in talune condizioni la società provoca una serie di degradazioni e
mortificazioni che possono alle volte condurre a una immagine di sé valorizzata,
che si denomina identità negativa. Il giudizio squalificato che un gruppo formula
verso un individuo fa sì che quest’ultimo sia facilitato ad adeguarsi a tale ruolo
negativo, assumendo una identità a esso conforme, e adottando quindi una
condotta stabilmente deviante.
La formazione della propria identità è influenzata oltre che dal giudizio degli altri
anche dalla posizione che ciascuno occupa nella società e dalle funzioni che
vengono svolte in coerenza alla posizione occupata. La posizione di ogni
individuo nella società, o status, costituisce un sistema relazionale che caratterizza
ogni persona in base a una serie di diritti e di doveri che regolano i suoi rapporti di
interazione con persone di altro status.
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Ciò che in criminologia è importante è il fatto che in ogni tipo di società ogni
status è legato a norme che ne regolano i rapporti con gli altri, e ad aspettative
circa l’osservanza dei compiti spettanti a chi occupa quello status: questo è quello
che si intende per ruolo. Questo concetto si riferisce dunque alle attese che
esistono nella società nei confronti di chi occupa una determinata posizione, ma in
questo concetto è insita la consapevolezza nutrita da chi occupa quel ruolo su ciò
che gli altri si attendono da lui. Se esiste un ruolo prescritto (allo studente è
prescritto di apprendere, all’insegnante di fornire nozioni e cultura, ecc.) esistono
anche un ruolo soggettivo (la professione è pur sempre una decisione personale
così come quella di fare il delinquente) e un ruolo svolto (divenire un insegnante
impegnato o uno studente svogliato) che sono liberamente scelti dai soggetti
anche se condizioni ambientali e varie circostanze possono favorire l’uno
piuttosto che l’altro.
Significativo, in senso criminogenetico, è l’occupare un ruolo negativo. Una serie
di status squalificati (per ceto, posizione economica, regione di nascita, razza,
immigrazione, ecc.) facilitano l’assunzione di ruoli altrettanto squalificati che
favoriscono la scelta comportamentale delinquenziale.
8. Devianza – emarginazione - marginalità
Alla psicologia sociale siamo debitori di altri tre concetti fondamentali:
1. il concetto di devianza che, nella sociologia struttural-
funzionalista, aveva il significato di comportamento anomalo sotto il
profilo statistico e raggruppava tutte quelle condotte che si discostavano
dalle regole e costumi sociali condivisi dalla maggior parte delle persone
.Ai tempi della sociologia di sinistra, i devianti venivano identificati con
coloro che erano considerati “vittime della società” a causa delle
discriminazioni e dei pregiudizi che le classi egemoni avrebbero esercitato
nei confronti dei “diversi”. E poiché ei confronti dei devianti viene
abitualmente esercitata l’emarginazione e perché pure i delinquenti
vengono emarginati si finì per includere fra i devianti anche i criminali.
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Alla fine si giunse ad identificare la criminalità con la devianza. Più
correttamente si debbono considerare devianti quei comportamenti che
suscitano invece reazioni di intensa disapprovazione e censura con
richiesta di sanzione: questi comportamenti sono attribuiti a titolo di colpa
ai loro autori perché non sono legati allo status in cui una persona si trova
per nascita e comunque non volontariamente ma sono frutto di scelta
(tossicomani, terroristi, tutti i tipi di delinquenti). La intensa
disapprovazione e la richiesta di sanzione risultano pertanto i parametri
fondamentali per identificare le condotte che meritano la qualificazione di
devianza. La devianza è un concetto sociologico e non giuridico.
2 Il concetto di marginalità, che indica una condizione statica o uno
status cioè la condizione di taluni individui che “si trovano ai margini della
società”. La marginalità comporta riduzione delle aspettative di
affermazione sociale, minore responsabilità sociale, minore partecipazione
alla vita e alle decisioni collettive. E’ operata verso coloro che, nella logica
dell’ideologia del profitto, non solo produttivi o hanno perduto la capacità
di produrre beni economici: gli inetti, i pensionati, i disoccupati La
marginalità è anche la posizione nella società di certi malati cronici e
specialmente dei sofferenti di AIDS e dei malati di mente. Infine,
divengono marginali i devianti e i delinquenti. Ma mentre i devianti o i
delinquenti si vengono a trovare ai margini della società a causa della loro
condotta disapprovata, gli altri si trovano ai margini della società per un
pregiudizio aprioristico in funzione del sesso, dell’età, del luogo di nascita
ma non per colpa della loro condotta.
3. Il concetto di emarginazione, che invece è un concetto dinamico
che viene messo in atto dai singoli e dai gruppi nei confronti di taluni
soggetti che si tende a escludere dagli abituali rapporti. Il deviante e il
criminale sono collocati in una posizione di marginalità per effetto della
emarginazione agita nei loro confronti: costoro vengono esclusi a cagione
del loro comportamento delittuoso o disapprovato dalla posizione che
occupavano.
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CAPITOLO 7
TEORIE BIOLOGICHE E CRIMINALITA’
1. L’approccio naturalistico
Come approccio naturalistico, si considera un campo di indagine che pur
senza ritenere le condotte criminose come unicamente riconducibili a cause
organiche, riserva particolare attenzione a certi fattori quali gli istinti,
l’ereditarietà e le predisposizioni all’aggressività, che rientrano nell’abito
dell’indagine delle scienze biologiche e mediche.
Questo filone della criminologia è visto frequentemente in antitesi a quello
sociologico e psicologico ma va ricordato che è da evitarsi la visione dicotomica
corpo-mente e che lo studio della condotta criminosa deve condursi nella
prospettiva più ampia possibile, mirando a integrare le conoscenze da qualsiasi
settore dello scibile esse provengano.
L’approccio naturalistico può essere dunque limitativo solo se inteso come unica
fonte di conoscenza con la pretesa di considerare l’uomo come struttura
esclusivamente biologica avulsa dal suo ambiente sociale.
Lo studio del crimine secondo l’approccio naturalistico, può essere affrontato
secondo diverse prospettive, quindi, possiamo distinguere:
a. Teorie della predisposizione – Il trasferire questo termine alla
criminologia può comportare il rischio di considerare la
delinquenza come una sorta di malattia. Possono inoltre ricondursi
alla predisposizione biologica solamente alcune caratteristiche
psichiche o certe strutture di personalità che possono facilitare
talune condotte delittuose ma senza che esista alcun diretto
rapporto fra tali aspetti psichici e la criminalità. Gli approcci
relativi alle predisposizioni biologiche consentono semplicemente
di evidenziare taluni elementi facilitanti le scelte delinquenziali:
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questa agevolazione è connessa alla esistenza di alcune condizioni
psichiche “a rischio” biologicamente determinate nel senso che
esse sono collocate nel novero dei fattori di vulnerabilità
individuale.
b. Teorie degli istinti – secondo le quali il comportamento
delinquenziale (certi tipi di delinquenza particolarmente violenta)
deriverebbero dal prevalere di pulsioni istintuali aggressive o
predatorie.
c. Sociobiologia – è un filone recentemente riproposto che mira a
identificare anche nel comportamento sociale un’origine ereditaria
anziché vedere le strutture sociali come solo dovute all’evolvere
della cultura.
2. Le teorie della predisposizione: eredità e delitto
L’ipotesi di una correlazione fra eredità e delitto, nel senso che
esisterebbero taluni individui dotati, per ragioni genetiche, di una sorta di
predisposizione innata al delitto è da considerarsi improponibile. La criminalità,
infatti, è un comportamento definito tale per convenzione sociale e perciò
variabile a seconda del mutare della cultura e delle norme; i fattori ereditari sono
invece una non modificabile realtà biologica, essendo legati al patrimonio
genetico di ciascun individuo che è indipendente dai fatti culturali e sociali.22
Esistono invece sicure correlazioni fra la struttura biologica degli individui
e certi aspetti della loro mente che possono favorire la criminalità: hanno
sicuramente matrice genetica l’aggressività, certe componenti dell’intelligenza, lo
spirito d’iniziativa, l’inventiva, la reattività. Esistono dunque fra struttura
biologica (cioè fattori psichici ereditariamente acquisiti) e criminalità delle
correlazioni indirette.
22 Compendio di criminologia, ed. Simone, Napoli, 2004.
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Indagini con la medesima finalità di scoprire una predisposizione innata
verso la criminalità sono state condotte mediante lo studio delle famiglie dei
criminali. Da questi studi è emerso:
1. la frequenza di soggetti condannati fra ascendenti e collaterali è
statisticamente maggiore di quanto si possa trovare nelle famiglie di coloro
che non sono mai stati condannati;
2. coloro che hanno avuto genitori criminali possono essere maggiormente
esposti a divenire essi stessi delinquenti senza per questo dimenticare che
questi individui delinquono perché hanno avuto una cattiva educazione e
perché i loro ambiente familiare è stato carente.
Altri studi si sono in passato rivolti ad esaminare il rapporto fra la costituzione e
la criminalità, partendo dal principio che la conformazione corporea è certamente
legata a fattori ereditari e dal fatto che esiste un certo rapporto fra costituzione e
caratteristiche psichiche, inferendo che la presenza di talune di queste
comporterebbe una sorta di predisposizione alla delinquenza.
Basti ricordare gli studi di:
1. Lombroso che aveva costruito la sua tipologia criminale correlando certe
caratteristiche morfologico-costituzionali con la predisposizione al delitto;
2. Di Tullio che considerava, a fianco del delinquente meramente
occasionale e di quello psicotico, tre tipi di delinquenti costituzionali: soggetti cui
sarebbero prevalenti fattori ereditari condizionanti una loro specifica struttura
psicologica. Egli distingueva:
il “delinquente costituzionale a orientamento ipoevoluto” (così
chiamato per lo scarso sviluppo delle caratteristiche psichiche superiori);
il “delinquente costituzionale a orientamento psico-nevrotico” (nel
quale prevalgono dinamismi psichici di natura nevrotica);
i delinquenti costituzionali a orientamento psicopatico” (che
hanno come tratto caratteristico le anomalie del carattere e i disturbi di
personalità).
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3. Sheldon (1942) – ha costruito una classificazione tripartita che prevede la
corrispondenza fra la costituzione fisica e certi tratti del temperamento:
a. la “costituzione endomorfa” – nella quale è presente una struttura
corporea morbida e rotondeggiante con scarso sviluppo dei
muscoli alla quale corrisponderebbe un orientamento psichico
caratterizzato da socievolezza, ghiottoneria, amore per la
comodità, umore stabile, tolleranza;
b. la “costituzione mesomorfa” – nella quale la struttura corporea è
forte con prevalente sviluppo della muscolatura e particolare
resistenza al dolore e agli sforzi fisici; ad essa corrisponderebbe un
temperamento volto verso l’aggressività e l’amore per il rischio;
c. la “costituzione ectomorfa” – con struttura corporea longilinea e
delicata caratterizzata da un temperamento volto al forte
autocontrollo, carattere chiuso, timore della gente, amore per la
solitudine.
Tutti questi approcci, naturalmente, sono oggi caduti in discredito e la validità
delle correlazioni fra fisico e psiche è limitata a un semplice livello statistico
perché le variabili psichiche individuali sono talmente tanto numerose da risultare
arbitrario il farle corrispondere a una tipologia costituzionale che prevede così
poca varietà.
Semplicistico e improprio è pertanto il parlare di disposizioni ereditarie al delitto
in quanto il fattore genetico non può invocarsi per una modalità di condotta così
complessa come la criminalità nella quale interferiscono circostanze ambientali e
situazionali, momenti storici differenti, diversità di luoghi, culture, norme e
soprattutto valori morali. Si può parlare solo di predisposizioni biologicamente
determinate in senso genetico verso particolari caratteristiche mentali che possono
a loro volta diventare condizioni favorenti (= fattori psichici di vulnerabilità) il
comportamento criminoso: tali sono specialmente l’aggressività, lo scarso
controllo dell’emotività e delle pulsioni, l’intolleranza alle frustrazioni.
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3. Le teorie degli istinti
L’antica questione mai risolta è se delinquenti si nasce o si diventa. Poiché
gli istinti sono innati vi è l’opportunità di affrontare la questione secondo gli
insegnamenti che derivano dalla biologia.
In biologia si sono a lungo contrapposti due antitetici orientamenti per quel che
riguarda le determinanti del comportamento: quello che privilegia l’istinto
(secondo il quale il comportamento è l’effetto delle predisposizioni congenite) e
quello che dà maggiore rilievo all’ambiente (secondo il quale il comportamento è
la conseguenza delle condizioni e degli stimoli ambientali). Vediamoli:23
1) orientamento istintivistico – secondo questo vecchio orientamento per
istinto si intende una serie di spinte ad agire in modo sempre uguale e in
prefisse direzioni per conseguire certi fini senza che l’animale avesse
alcuna consapevolezza dello scopo ultimo cui il suo agire mirava; si
riteneva che gli istinti fossero esclusivamente trasmessi per via ereditaria e
che fossero in numero relativamente scarso. Essi erano concepiti inoltre
come una potenzialità innata, come una forza che spinge all’azione senza
la necessità di alcun apporto proveniente dall’ambiente o meglio
l’ambiente forniva solo dei segnali che scatenavano l’azione istintuale.
Questa concezione è andata successivamente temperandosi con gli studi di
Karl Lorenz e degli altri etologi i quali hanno scoperto che gli istinti
vanno intesi come semplici schemi operativi generali: tendenze innate che
devono essere integrate con l’apprendimento, l’esperienza, l’insegnamento
da parte dei genitori, cioè con fattori che provengono dall’ambiente.
2) L’orientamento ambientalistico – secondo questo orientamento non può
distinguersi nella condotta ciò che è determinato congenitamente da ciò
che viene appreso dall’ambiente. La dotazione genetica si manifesterebbe
nella diversa capacità dell’animale di recepire (cioè apprendere) i
messaggi provenienti dall’ambiente che sarebbe, in definitiva, il principale
fattore inducente le varie modalità di condotta. Enorme importanza ha
23 Ponti G., Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999.
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quindi l’apprendimento correlato alle mutevoli stimolazioni e alle
occasioni fornite dall’ambiente.
3) Orientamento correlazionistico – da un po’ di tempo, in biologia, si tenda
superare l’antinomia fra istinto e ambiente per giungere a una visione che
miri invece a sottolineare sempre più la stretta interdipendenza dei due
termini. L’antinomia fra istinto e ambiente verrebbe superata,
considerando due distinti tipi fondamentali di comportamento:
Il comportamento innato, esclusivo degli esseri viventi più
semplici, in cui la determinante ereditaria si riflette sulla struttura
biologica individuale la quale, giunta a maturazione e senza necessità di
interventi dell’ambiente, dà luogo al comportamento.
Il comportamento acquisito, tipico degli animali superiori, in cui i
fattori genici, comportando una struttura individuale diversificata, fanno sì
che gli individui interagiscano con l’ambiente in modo differente in quanto
agenti sul diverso modo di apprendere e sul modo con cui i successivi
apprendimenti si traducono in esperienza.
4. La criminalità violenta
Secondo alcuni studiosi, l’aggressività sarebbe una delle pulsioni istintuali
o delle motivazioni psichiche che più frequentemente entrano in gioco nella
criminogenesi.
E’ necessario distinguere tra aggressione, intesa come effettivo comportamento
lesivo di persone e aggressività, che si riferisce invece a una disposizione o
atteggiamento psichico favorevole all’aggressione.
Non sempre l’aggressività si esprime con condotte giuridicamente perseguibili ma
frequentemente può trovare modi di esprimersi socializzati o quanto meno
socialmente tollerati: essa è addirittura necessaria alla sopravvivenza dell’uomo e
della sua affermazione sociale. Ci sono diversi modi di comportarsi
aggressivamente e di commettere delitti su base violenta:
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1. aggressività diretta sulle cose e sull’ambiente, con significato
genericamente distruttivo, quando la pulsione aggressiva viene deviata
dalla persona cui è diretta verso gli oggetti;
2. aggressività diretta sulla persona esclusivamente in modo verbale, con
l’ingiuria e la calunnia;
3. aggressività diretta sulle persone, con la violenza sessuale, le percosse,
i maltrattamenti, l’omicidio;
4. aggressività rivolta contro sé stessi fino ad arrivare al suicidio.
5. aggressività rivolta verso sé stessi al solo fine di ottenere detenzione
emotiva nell’impossibilità di rivolgerla su altri (da non confondersi
con il tentativo di suicidio, è tipica delle personalità immature e
impulsive e si manifesta con alta frequenza fra i soggetti in reclusione
sotto forma di lesioni da taglio multiple e superficiali).
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CONCLUSIONI
“Attualmente la criminologia appare incerta circa le proprie finalità ed il proprio
oggetto di studio, risulta divisa in indirizzi talvolta profondamente contrastanti, è
condizionata da una situazione di profonda crisi, che in molti casi limita lo
sviluppo, l'affermazione e la diffusione della disciplina. Sulla crisi della
criminologia esiste un consenso quasi unanime ...”24
Per alcuni, la criminologia viene vista come una disciplina che soprattutto
deve dare consigli per strategie difensive di proprietà, interessi, informazioni. Da
questo punto di vista l'insegnamento della criminologia applicata è ovviamente di
grande importanza per forze di polizia, investigatori, operatori della sicurezza. Ma
la criminologia applicata, a confronto con i programmi offerti dalle scuole interne
ad alcuni organismi pubblici (Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia di Stato,
Sismi, Sisde hanno già le loro scuole, largamente finanziate e sperimentate),
appare per molti versi di difficile collocazione dentro l’università tradizionale.
Dagli spunti tratti da questo lavoro, risulta evidente come la criminologia
venga sempre più ad essere una scienza interdisciplinare, in cui discipline
giuridiche, cliniche e sociali collaborano concretamente. E’ auspicabile che tali
ambiti di ricerca non si accostino semplicemente tra loro, ma avvenga un vero e
proprio interscambio culturale e metodologico reciproco. E’ in questa dinamica
che la ricerca interdisciplinare in criminologia troverà ampia possibilità di
sviluppo futuro.
E’ possibile formulare un approccio ai problemi della criminalità che è
caratterizzato innanzitutto da un orientamento umanistico e istituzionale. Alcuni
punti che sono specifici di questo approccio ai temi della criminologia, della
sicurezza, della devianza, dell'intelligence.
24 Bandini T., Criminologia:il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, Giuffrè, Milano, 1991, p.9.
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1. Una criminologia umanistica comincia dalla considerazione che gli esseri
umani sono parte di una complessa rete di interazioni culturali, sociali,
psicologiche, economiche, giuridiche, istituzionali, e soprattutto morali.
Anche l’azione più deplorevole è a suo modo giustificata e ragionata. Se
noi ignoriamo l’aspetto motivazionale, perdiamo il significato del
comportamento criminale Per una criminologia umanistica, empatia e
compassione sono l'inizio della comprensione. Niente di umano è estraneo
ad una criminologia umanistica. Ad una impostazione umanistica è
connesso inevitabilmente il principio che sottolinea l'importanza
dell'educazione e della morale. Tutti gli operatori che si impegnano nella
prevenzione, nella repressione, nella riabilitazione debbono partire da
un’attenta valutazione del mondo etico del fuorilegge e della vittima.
2. Gran parte del comportamento criminale è comportamento razionale. La
razionalità del comportamento criminale si esercita dentro un contesto
istituzionale. Prima di infrangere la legge, gli individui svolgono un'analisi
costi-benefici di premi e punizioni. Questa premessa metodologica mette
in evidenza le responsabilità degli individui, ma ancor più quelle delle
istituzioni, che svolgono un ruolo decisivo: possono aiutare a prevenire il
crimine (ad esempio con interventi adeguati nel mercato del lavoro o
nell'istruzione) sia a scoraggiare il crimine (ad esempio attraverso
investigazioni che assicurino la certezza e la rapidità della pena). In un
certo senso, i livelli di criminalità sono uno specchio del funzionamento
dell'apparato istituzionale. Dopo Cesare Beccaria, è elementare
sottolineare l'importanza della razionalità del sistema istituzionale.
3. Le analisi della criminalità debbono essere svolte dentro un contesto
comparativo internazionale Il confronto con gli altri ci permette di
apprezzare meglio le caratteristiche del nostro paese. Il confronto tra
Oriente e Occidente, ad esempio, ci permette di considerare la grande
differenza esistente tra una cultura centrata sui doveri e una cultura
centrata sui diritti. Questo confronto ci fa porre in primo piano il concetto
di responsabilizzazione. Per prevenire il crimine è necessario che un
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sentimento di responsabilizzazione penetri fin dentro il cuore e la mente
dei cittadini.
4. Il valore della sicurezza non è un valore fascista o autoritario, è la
precondizione per vivere una vita decente in una società aperta. In nome
della sicurezza è necessario adottare varie forme di dissuasione e di
incapacitazione. Per una criminologia umanistica le vittime non sono
meno importanti dei fuorilegge: vanno risarcite e tutelate.
5. La metodologia delle investigazioni è un tema decisivo in una società
caratterizzata dall'asfissiante abbondanza delle notizie. La grande
trasformazione dell’informazione ha tra le varie conseguenze una
alluvione di disinformazioni, dicerie, calunnie, sussurri, indiscrezioni,
indizi, sospetti, verità, mezze verità, false verità. La rivoluzione telematica
ha alterato profondamente molti aspetti del lavoro delle forze di polizia,
della magistratura, dell'avvocatura.
6. I grandi processi di emancipazione che si sono sviluppati per ondate
successive e che coinvolgono sia le società economicamente più
sviluppate sia le società economicamente meno sviluppate, hanno
determinato la nascita di problemi nuovi e straordinari sia in quantità sia in
qualità. Dai problemi dell'immigrazione alla criminalità informatica, dal
riciclaggio dei capitali ai serial killer, dal tampering al mobbing, c'è una
fenomenologia nuova e in allarmante crescita. Spesso i più deboli sono le
prime vittime di queste tendenze; parliamo spesso di nuova criminalità
femminile, di baby killer e di baby boss
7. Il tema della illegalità diffusa diventa sempre più rilevante sotto molteplici
profili. Ad esempio, in molti sostengono con abbondanza di argomenti che
a volte lo Stato moderno sia uno Stato criminogeno, per le sue
inadeguatezze, lentezze, contraddizioni. Alcuni reati sono diventati reati di
massa, e, come nel caso dell’evasione fiscale, interessano non una
minoranza, ma la maggioranza della popolazione.
8. La globalizzazione per molti versi rivela ed esalta le specificità locali,
anche quelle più arretrate ed incivili. Il problema criminale nelle aree
economicamente arretrate è la conseguenza della miscela micidiale
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dell'arretratezza civile con una serie complessa di altri nodi irrisolti, in
primo luogo quelli istituzionali. Leggi e strutture improprie hanno favorito
l'emergere e l'affermarsi di quel che c'era di peggio nella società italiana e
in particolare nella società meridionale.
9. L'intelligence è una cosa molto diversa dallo spionaggio: lo spionaggio
può essere sommariamente definito come un traffico di informazioni
riservate; l'intelligence può essere sommariamente definita come l'attività
di raccolta, valutazione e cura delle informazioni relative alla sicurezza. Se
riteniamo che la sicurezza sia un valore, allora è di grande valore anche
l’intelligence, che ha come scopo supremo la salvaguardia delle vite
umane.
10. In una società aperta, e in particolare in una società aperta caratterizzata
dalla rivoluzione telematica, la circolazione della conoscenza e delle
opinioni deve essere sottoposta a controllo poliarchico e costituzionale.
L'università occupa un posto cruciale da questo punto di vista. La funzione
emancipativa della cultura non deve risparmiare le critiche. Anzi, una
consapevolezza critica e pluralistica deve accompagnare costantemente la
circolazione delle informazioni. Per gli scopi e le conseguenze, per i rischi
di manipolazione e di confusione, i problemi della criminalità debbono
essere osservati da una molteplicità di prospettive concorrenziali: i
miglioramenti umanistici e civilizzatori possono avvenire più facilmente
attraverso il dialogo, il confronto, la contrapposizione dei punti di vista e
delle interpretazioni.
Dagli spunti tratti da questo lavoro, risulta evidente come la criminologia
venga sempre più ad essere una scienza interdisciplinare, in cui discipline
giuridiche, cliniche e sociali collaborano concretamente. E’ auspicabile che tali
ambiti di ricerca non si accostino semplicemente tra loro, ma avvenga un vero e
proprio interscambio culturale e metodologico reciproco. E’ in questa dinamica
che la ricerca interdisciplinare in criminologia troverà ampia possibilità di
sviluppo futuro.
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www.criminologia.it
www.criminologia.org
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www.sociologia.uniroma.it