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mettere le mani nella casse e nelle tasche degli abitanti del Belpae- se. Sia che si tratti del Barbarossa, di Francesco I o della modernis- sima Comunità Europea, la musica non cambia mai al pari, beninte- so, del coro d’accompagnamento dei nostri intellettuali, sempre pronti a correre in aiuto della “società civile” straniera di turno, pur- ché prometta di gettare loro qualche osso. Non essendo questa la sede per commentare le opere architetto- niche, le città, le strade, i monumenti e le altre infine tracce vene- ziane e, più in generale, italiane, lasciate (assieme a qualche brut- to ricordo, naturalmente) da una cultura non effimera attraverso tanti popoli di lingua e fedi diverse, può valere la pena di spende- re qualche parola nel campo, affatto particolare, ma di per sé de- cisivo, del potere marittimo e dell’economia. Si tratta di un acco- stamento non casuale in quanto navi e quattrini sono, e sempre saranno, le due facce della stessa moneta. Un documento segreto Innanzitutto è bene cominciare con un concetto brutale fin che si vuole, ma efficace. Significherebbe, invero, falsare la storia il pretendere che la vita umana (quantomeno alle nostre latitu- dini) valeva, fino a due generazioni fa, un po’ meno di un soldo bucato. Negli archivi di stato veneziani sono conservate copie di istruzio- ni, emesse dal governo della Serenissima nel Cinquecento e, nuo- vamente, nel Seicento, le quali disponevano, in caso di cattura di navi turche, l’uccisione “in qualunque maniera segreta e discreta si ritenga opportuna” dei comandanti, degli ufficiali, dei nocchieri e dei mastri d’ascia. Il fatto che gli ordini in questione fossero emanati anche durante gli archi di tempo, più o meno lunghi, che intervallarono le nume- rose guerre combattute tra la Sublime Porta e la Repubblica tra il 1463 e il 1718, non stupisce, naturalmente, più di tanto, data la re- latività del valore mantenuto ancora oggi dalla parola pace, ma- gari adattata a ”Peacekeeping”. Neppure la natura, inquietante, della disposizione appena descrit- ta appare, di per se stessa, anomala o particolarmente cinica. Il compito dello storico è infatti quello di calare le proprie ricerche (e le relative considerazioni critiche) nel clima dell’epoca, rispar- miando per contro al Lettore i frettolosi giudizi moralistiche tipici, casomai, dei predicatori e dei giornalisti ma del tutto assenti, in realtà, dallo spirito dei tempi passati. Una volta che si pensi che la durata media della vita all’epoca di quegli atti non superava, in un paese avanzato e civile come l’Ita- lia, i trent’anni, che la metà dei nati non raggiungeva il settimo compleanno, che nel Settecento Parigi e Londra (ma non l’Italia tutta, da Milano a Palermo) aveva ancora le fogne a cielo aperto, il quadro complessivo è chiaro. La stessa schiavitù ancora diffusa (e perfettamente legale) nel- l’Europa meridionale, nel Medio Oriente e, naturalmente, in Ame- rica, come testimonia, tra l’altro, il monumento “Dei quattro mori” a Livorno, eretto nel 1617 in onore di Ferdinando I de’ Medici, Gran Maestro dei Cavalieri di Santo Stefano. Date queste premesse, le disposizioni veneziane di cui sopra in- curiosiscono, casomai, dal punto di vista del potere marittimo per- mettendo, in ultima analisi, di formulare alcune considerazioni non peregrine ancora oggi valide e di stringente attualità, data la na- tura immutata (e immutabile) delle leggi del mare e dell’economia. L’“oscuro” medioevo Ben prima della caduta di Costantinopoli (1453) in mano ai turchi e della definitiva scomparsa del residuo impero bizantino (ormai ridotto, dopo la conquista veneto-crociata del 1204, all’ombra di se stesso, salvo trovare una fine gloriosa con le armi in mano – e le tasche vuote da secoli – mancata, per esempio, alla Russia Sovie- tica) i fedeli del Profeta (l’Egira risale al 622 dopo Cristo) erano riu- sciti a mettere insieme, nel corso di una campagna folgorante di conquiste tra il 642 (epoca della caduta d’Alessandria d’Egitto) e il 715, tutte le coste (e le popolazioni rivierasche) comprese tra la Palestina e Marsiglia, per tacere del Marocco, del Portogallo, del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano tra Aden e l’Indo. La disponibilità continuata nei secoli di un totale stimato mai infe- riore a dieci milioni di abitanti, in maggioranza residenti lungo le coste, e la lucida decisione di metter mano, sin dal 644, a una Ma- rina araba centralizzata (i c.d. saraceni) in seguito alla minaccia costituita dalla flotta bizantina avrebbero dovuto rappresentare, in teoria, le basi ideali della futura flotta mussulmana. Eppure, nonostante le pietre miliari rappresentate delle invasioni delle isole Baleari (820), della Sardegna e della Sicilia (827), della Corsica (850) e di Malta (870), strappate tutte ai bizantini, le cose non erano andate per il verso giusto. La natura decisiva del potere marittimo, infatti, aveva incomincia- to a far capolino, con meccanica puntualità, dall’altra parte della barricata. Affrancata sin dal 751, dal dominio e dall’influenza, più o meno di- retta, di Bisanzio per motivi, in primo luogo, economici, la realtà italiana, spezzettata fin che si vuole, ma sempre vitale, si era po- sta sotto l’egida del Papa nei confronti della minaccia della nuova fede. Seguirono, a questo primo passo, una serie di campagne navali, condotte tra l’846 e l’849 dalla flotta della Lega Campana (Amal- fi, Napoli, Sorrento e Gaeta). Quest’inedita coalizione, posta al comando del console Cesario, secondogenito di Sergio I, Conte di Cuma, Duca di Napoli e nominale magister militum bizantino della città partenopea, attuò, perseguendo coerentemente alcu- ni lucidi criteri militari incredibilmente “moderni”, un differenzia- to complesso di operazioni, spaziando dal blocco ravvicinato delle coste tirreniche a cicli di sbarchi anfibi di taglia ancora oggi 29 Marinai d’Italia Ottobre 2014 28 Mare&Storia Sulle rotte dello Stato da Mar Venezia e l’Italia di ieri e di oggi Enrico Cernuschi - Socio del Gruppo di Savona A nche le altre Repubbliche marinare ebbero stabilimenti e insediamenti in questo bacino. Genova conservò le isole di Chio e Mitilene fino al 1566, per tacere dei domini del- la Superba (e, in precedenza) di Pisa nel Mar Nero, ma nulla poté competere, per ricchezza, splendore e continuità, con l’in- fluenza e i domini della Serenissima, da prima delle crociate fino a Napoleone. Ancora nel fatale anno 1797, ultimo della Repubblica dogale, Le isole Jonie, Cerigo e Cerigotto (oltre, naturalmente, alla Dalmazia) facevano parte dello Stato da Mar. Gli storici di maniera parlano, in maniera generica, di decadenza, ma dimenticano che Corfù era stata ancora una volta difesa, vittoriosamente, dai veneziani e dai loro alleati (ossia le potenze navali minori italiane del Mediterra- neo occidentale) nel 1716. Si trattò di un episodio (o, meglio, di una guerra) importante in quanto la fase d’espansione turca era tutt’altro che esaurita, come avrebbero sperimentarono a proprie spese gli austriaci tra il 1734 e il 1739 perdendo la Serbia e la Bo- snia, riconquistate dal Sultano dopo i successi di vent’anni prima del Principe Eugenio di Savoia. Quanto alla leggenda del declino economico della Serenissima, questo luogo comune, di matrice protestante e francese fatto pro- prio dai nostri poco nutriti intellettuali, cozza contro l’evidenza dei libri contabili. È vero che le finanze veneziane, esauste dopo i ven- ticinque anni dell’incredibile assedio di Candia (l’attuale Heraklion) e di quella guerra contro i turchi non avevano più potuto permet- tersi, per il seguito (e a differenza dei genovesi) di continuare a pre- stare importanti capitali, a un buon tasso, agli olandesi. Resta però il fatto che le cifre delle entrate venete riportate, per esempio, da Luciano Pezzolo nel libro L’oro dello Stato, parlano chiaro: una me- dia di 46 tonnellate annue d’argento durante il Quattrocento salite a 55 alla fine del XVI secolo per innalzarsi a quasi 100 per il 1629 scendendo, poi, tra pestilenze e guerre, alla metà salvo risalire, a metà Settecento, a quota 83, oltrepassando infine le 100 tonnellate durante gli ultimi anni della Repubblica. Insomma, si tratta della solita storia. Gli italiani (uniti o divisi), curano bene i loro affari mettendoci, in più, un gusto estetico e una tolleran- za spesso ignote altrove, e i vicini di casa, spesso con le pezze al se- dere, pretendono di decidere loro cominciando, naturalmente, col Marinai d’Italia Ottobre 2014

Sulle rotte dello Stato da Mar - Marinai d'Italiatasche vuote da secoli – mancata, per esempio, alla Russia Sovie-tica) i fedeli del Profeta (l’Egira risale al 622 dopo Cristo)

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Page 1: Sulle rotte dello Stato da Mar - Marinai d'Italiatasche vuote da secoli – mancata, per esempio, alla Russia Sovie-tica) i fedeli del Profeta (l’Egira risale al 622 dopo Cristo)

mettere le mani nella casse e nelle tasche degli abitanti del Belpae-se. Sia che si tratti del Barbarossa, di Francesco I o della modernis-sima Comunità Europea, la musica non cambia mai al pari, beninte-so, del coro d’accompagnamento dei nostri intellettuali, semprepronti a correre in aiuto della “società civile” straniera di turno, pur-ché prometta di gettare loro qualche osso.Non essendo questa la sede per commentare le opere architetto-niche, le città, le strade, i monumenti e le altre infine tracce vene-ziane e, più in generale, italiane, lasciate (assieme a qualche brut-to ricordo, naturalmente) da una cultura non effimera attraversotanti popoli di lingua e fedi diverse, può valere la pena di spende-re qualche parola nel campo, affatto particolare, ma di per sé de-cisivo, del potere marittimo e dell’economia. Si tratta di un acco-stamento non casuale in quanto navi e quattrini sono, e sempresaranno, le due facce della stessa moneta.

Un documento segreto

Innanzitutto è bene cominciare con un concetto brutale fin chesi vuole, ma efficace. Significherebbe, invero, falsare la storiail pretendere che la vita umana (quantomeno alle nostre latitu-dini) valeva, fino a due generazioni fa, un po’ meno di un soldobucato.Negli archivi di stato veneziani sono conservate copie di istruzio-ni, emesse dal governo della Serenissima nel Cinquecento e, nuo-vamente, nel Seicento, le quali disponevano, in caso di cattura dinavi turche, l’uccisione “in qualunque maniera segreta e discretasi ritenga opportuna” dei comandanti, degli ufficiali, dei nocchierie dei mastri d’ascia.Il fatto che gli ordini in questione fossero emanati anche durantegli archi di tempo, più o meno lunghi, che intervallarono le nume-rose guerre combattute tra la Sublime Porta e la Repubblica tra il1463 e il 1718, non stupisce, naturalmente, più di tanto, data la re-latività del valore mantenuto ancora oggi dalla parola pace, ma-gari adattata a ”Peacekeeping”.Neppure la natura, inquietante, della disposizione appena descrit-ta appare, di per se stessa, anomala o particolarmente cinica. Ilcompito dello storico è infatti quello di calare le proprie ricerche(e le relative considerazioni critiche) nel clima dell’epoca, rispar-miando per contro al Lettore i frettolosi giudizi moralistiche tipici,casomai, dei predicatori e dei giornalisti ma del tutto assenti, inrealtà, dallo spirito dei tempi passati.Una volta che si pensi che la durata media della vita all’epoca diquegli atti non superava, in un paese avanzato e civile come l’Ita-lia, i trent’anni, che la metà dei nati non raggiungeva il settimocompleanno, che nel Settecento Parigi e Londra (ma non l’Italiatutta, da Milano a Palermo) aveva ancora le fogne a cielo aperto,il quadro complessivo è chiaro.La stessa schiavitù ancora diffusa (e perfettamente legale) nel-l’Europa meridionale, nel Medio Oriente e, naturalmente, in Ame-rica, come testimonia, tra l’altro, il monumento “Dei quattro mori”a Livorno, eretto nel 1617 in onore di Ferdinando I de’ Medici, GranMaestro dei Cavalieri di Santo Stefano.Date queste premesse, le disposizioni veneziane di cui sopra in-curiosiscono, casomai, dal punto di vista del potere marittimo per-mettendo, in ultima analisi, di formulare alcune considerazioni nonperegrine ancora oggi valide e di stringente attualità, data la na-tura immutata (e immutabile) delle leggi del mare e dell’economia.

L’“oscuro” medioevo

Ben prima della caduta di Costantinopoli (1453) in mano ai turchie della definitiva scomparsa del residuo impero bizantino (ormairidotto, dopo la conquista veneto-crociata del 1204, all’ombra di sestesso, salvo trovare una fine gloriosa con le armi in mano – e letasche vuote da secoli – mancata, per esempio, alla Russia Sovie-tica) i fedeli del Profeta (l’Egira risale al 622 dopo Cristo) erano riu-sciti a mettere insieme, nel corso di una campagna folgorante diconquiste tra il 642 (epoca della caduta d’Alessandria d’Egitto) e il715, tutte le coste (e le popolazioni rivierasche) comprese tra laPalestina e Marsiglia, per tacere del Marocco, del Portogallo, delMar Rosso e dell’Oceano Indiano tra Aden e l’Indo.La disponibilità continuata nei secoli di un totale stimato mai infe-riore a dieci milioni di abitanti, in maggioranza residenti lungo lecoste, e la lucida decisione di metter mano, sin dal 644, a una Ma-rina araba centralizzata (i c.d. saraceni) in seguito alla minacciacostituita dalla flotta bizantina avrebbero dovuto rappresentare, inteoria, le basi ideali della futura flotta mussulmana. Eppure, nonostante le pietre miliari rappresentate delle invasionidelle isole Baleari (820), della Sardegna e della Sicilia (827), dellaCorsica (850) e di Malta (870), strappate tutte ai bizantini, le cosenon erano andate per il verso giusto. La natura decisiva del potere marittimo, infatti, aveva incomincia-to a far capolino, con meccanica puntualità, dall’altra parte dellabarricata.

Affrancata sin dal 751, dal dominio e dall’influenza, più o meno di-retta, di Bisanzio per motivi, in primo luogo, economici, la realtàitaliana, spezzettata fin che si vuole, ma sempre vitale, si era po-sta sotto l’egida del Papa nei confronti della minaccia della nuovafede. Seguirono, a questo primo passo, una serie di campagne navali,condotte tra l’846 e l’849 dalla flotta della Lega Campana (Amal-fi, Napoli, Sorrento e Gaeta). Quest’inedita coalizione, posta alcomando del console Cesario, secondogenito di Sergio I, Contedi Cuma, Duca di Napoli e nominale magister militum bizantinodella città partenopea, attuò, perseguendo coerentemente alcu-ni lucidi criteri militari incredibilmente “moderni”, un differenzia-to complesso di operazioni, spaziando dal blocco ravvicinatodelle coste tirreniche a cicli di sbarchi anfibi di taglia ancora oggi

29Marinai d’Italia Ottobre 201428

Mare&Storia

Sulle rotte dello Stato da MarVenezia e l’Italia di ieri e di oggi

Enrico Cernuschi - Socio del Gruppo di Savona

A nche le altre Repubbliche marinare ebbero stabilimenti einsediamenti in questo bacino. Genova conservò le isoledi Chio e Mitilene fino al 1566, per tacere dei domini del-

la Superba (e, in precedenza) di Pisa nel Mar Nero, ma nullapoté competere, per ricchezza, splendore e continuità, con l’in-fluenza e i domini della Serenissima, da prima delle crociate finoa Napoleone.Ancora nel fatale anno 1797, ultimo della Repubblica dogale, Leisole Jonie, Cerigo e Cerigotto (oltre, naturalmente, alla Dalmazia)facevano parte dello Stato da Mar. Gli storici di maniera parlano,in maniera generica, di decadenza, ma dimenticano che Corfù erastata ancora una volta difesa, vittoriosamente, dai veneziani e dailoro alleati (ossia le potenze navali minori italiane del Mediterra-neo occidentale) nel 1716. Si trattò di un episodio (o, meglio, di unaguerra) importante in quanto la fase d’espansione turca eratutt’altro che esaurita, come avrebbero sperimentarono a propriespese gli austriaci tra il 1734 e il 1739 perdendo la Serbia e la Bo-snia, riconquistate dal Sultano dopo i successi di vent’anni primadel Principe Eugenio di Savoia.

Quanto alla leggenda del declino economico della Serenissima,questo luogo comune, di matrice protestante e francese fatto pro-prio dai nostri poco nutriti intellettuali, cozza contro l’evidenza deilibri contabili. È vero che le finanze veneziane, esauste dopo i ven-ticinque anni dell’incredibile assedio di Candia (l’attuale Heraklion)e di quella guerra contro i turchi non avevano più potuto permet-tersi, per il seguito (e a differenza dei genovesi) di continuare a pre-stare importanti capitali, a un buon tasso, agli olandesi. Resta peròil fatto che le cifre delle entrate venete riportate, per esempio, daLuciano Pezzolo nel libro L’oro dello Stato, parlano chiaro: una me-dia di 46 tonnellate annue d’argento durante il Quattrocento salitea 55 alla fine del XVI secolo per innalzarsi a quasi 100 per il 1629scendendo, poi, tra pestilenze e guerre, alla metà salvo risalire, ametà Settecento, a quota 83, oltrepassando infine le 100 tonnellatedurante gli ultimi anni della Repubblica.Insomma, si tratta della solita storia. Gli italiani (uniti o divisi), curanobene i loro affari mettendoci, in più, un gusto estetico e una tolleran-za spesso ignote altrove, e i vicini di casa, spesso con le pezze al se-dere, pretendono di decidere loro cominciando, naturalmente, col

Marinai d’Italia Ottobre 2014

Page 2: Sulle rotte dello Stato da Mar - Marinai d'Italiatasche vuote da secoli – mancata, per esempio, alla Russia Sovie-tica) i fedeli del Profeta (l’Egira risale al 622 dopo Cristo)

In realtà (e si tratta, forse, dell’aspetto più affascinante, nei secoli,del potere marittimo) la validità di una Marina da guerra e, soprat-tutto, di una politica navale NON si misura sulla base demograficae, apparentemente, neppure col semplice computo dalle risorsemateriali disponibili né, infine, partendo dalle stesse condizionigeografiche di partenza (spesso storicamente assai disgraziate),ma da una quantità intellettuale assai più sottile e impalpabile.Detto in altre parole sono gli uomini – storicamente – e non le na-vi a combattere mentre le lotte (in primo luogo economiche) vedo-no costantemente premiati gli organismi intellettualmente vivaci efigli di una grande tradizione.È il caso, per intenderci, dell’Ammiragliato britannico, consolida-tosi empiricamente nel corso dei tre secoli intercorrenti tra la co-struzione, a Portsmouth, nel 1497, del primo bacino di carenaggioinglese – evento questo considerato tradizionalmente alla stre-gua dell’atto di nascita ufficiale della nuova marina dei Tudor diEnrico VII – e le fondamentali decisioni prese, nel corso dellaCampagna di Trafalgar, dall’ottantenne Lord Barham, Primo Lorddell’Ammiragliato, la mattina del 9 luglio 1805. In quell’occasioneinfatti quel vecchio marinaio, frutto selezionato di una lunga teo-ria di strateghi e amministratori formatisi soprattutto – ed emi-nentemente – come marinai, prese prontamente e con mano fer-ma (dopo aver passato tutta la propria esistenza sulle navi e alministero), nonostante avesse a disposizione soltanto pochi econtraddittori elementi, tutta una serie di difficili decisioni cheavrebbero assicurato puntualmente a un’Inghilterra concreta-mente minacciata da Napoleone (e giunta ormai al punto più bas-so delle proprie fortune) la salvezza, la vittoria e il proprio defini-tivo primato per un secolo relegando, in verità, l’assai più popo-lare Nelson al ruolo di semplice strumento, sia pure geniale, diuna visione strategica superiore e lungimirante.Un’altra quantità intellettuale paragonabile a quest’esempio insu-perato di pragmatismo è riscontrabile nella genesi dello StatoMaggiore tedesco, nato da un lucido pensiero di base concepitonel 1807, poco dopo la disfatta di Jena, da Augustus von Gneise-nau e successivamente realizzato partendo dal presupposto, ra-zionale, dell’impossibilità, per la Prussia, di poter contare, statisti-camente, sull’apparizione di un nuovo genio della taglia di Federi-co il Grande. Data, peraltro, la necessità di supplire, a causa del-la sempre disgraziata condizione storica germanica (sempre cir-condata da nemici) il problema, i prussiani decisero di ricorrereall’attività coerente e coordinata di una squadra complessa di ele-menti selezionati.Seguendo una linea di pensiero non diversa da quelle appenadescritte, i vertici della Serenissima stimarono, nel corso dellafase più dura delle guerre con la Mezzaluna, che la scontata,tradizionale superiorità numerica della flotta turca non sposta-va, in realtà, i termini della questione, nel Mediterraneo Orien-tale (in quello occidentale la partita era già stata risolta sin dalXIV Secolo in seguito alla decisione, presa dagli ormai autono-mi Dey e Bey di Algeri, Tunisi e Tripoli, di continuare a dedicar-si alla sola guerra di corsa eterna “a bassa intensità”, di per sénon troppo diversa dall’attuale (e tutt’altro che storicamentenuova) guerra “asimmetrica” mossa all’Occidente dai nuovi ter-rorismi medio-orientali.In soldoni, la questione relativa alla classica (ma non certo da da-re eternamente per scontata) inferiorità marittima della SublimePorta era legata all’apparire, o meno, nell’ambito del complesso,chiuso e frazionato contesto sociale Ottomano, di una classe di

buoni marinai con, alle spalle, una correlata e adeguata organiz-zazione a terra.L’impero commerciale della Serenissima, formato come era daun’esile catena di perle sparse da Creta a Corfù fino alle costedell’Istria, era tenuto insieme soltanto da un doppio filo formatodalle flotte militare e mercantile veneziane; la Marina della Re-pubblica, a sua volta, era formata da uomini, e soltanto un altrocomplesso di uomini, riunito nell’ambito di un’organizzazioneugualmente o, magari, ancor più efficiente di quella veneta,avrebbe potuto spezzarlo.

La battaglia

Proprio l’analisi della celebre battaglia di Lepanto, combattuta il 7ottobre 1571 da una flotta coalizzata italo-spagnola agli ordini diDon Giovanni d’Austria forte di 203 galee e 6 galeazze (queste ul-time tutte venete, al pari di 105 galee) contro 208 galee (più 63 ga-leotte) turche schierando, sommate le due parti, qualcosa come160.000 uomini, tanto da fare di quell’azione la maggiore battagliadel XVI Secolo, permette di verificare quanto sopra.Con buona pace di una certa letteratura transalpina (puntualmen-te e acriticamente ripresa dai nostri ineffabili intellettuali), la qua-le ha sveltamente liquidato quella battaglia sulla base del seguen-te, doppio presupposto: a) la galea era, ormai, una nave da guerra superata in seguito al

futuro avvento nel Mediterraneo, nel Seicento, dei robusti ga-leoni portoghesi e inglesi, figli della nao atlantica (la Santa Ma-ria di Colombo, per intenderci);

b) i turchi riuscirono comunque, nel giro dell’anno successivo aLepanto, a ricostruire la propria flotta.

L’importanza del massacro (ché di questo si trattò) di Lepanto, coisuoi 26.000 morti tra le file turche, oltre a 8.000 prigionieri e a10.000 schiavi cristiani liberati (per tacere delle 80 navi mussulma-ne date per affondate e di altre 117 catturate a fronte di 12 galeeperdute e 7.600 caduti occidentali, con rispettivamente 8 navi e4.800 scamparsi in capo ai veneziani) riposa, viceversa, proprionelle perdite umane. In quella fatale occasione, invero, la scelta,più che la necessità, Ottomana di puntare sugli arcieri (anzichésugli archibugieri) nel decisivo ruolo degli azap (fanti di marina)

31Marinai d’Italia Ottobre 201430 Marinai d’Italia Ottobre 2014

rispettabilissima intervallati, accortamente, da momentanee tre-gue e da accaniti scontri minori all’insegna della difesa del traf-fico convogliato salvo culminare, infine, nella primavera dell’849,davanti alle foci del Tevere, nella grande battaglia navale diOstia, una sorta di decisiva Midway ante litteram combattutacontro la flotta araba riunita. E al termine di quella giornata le co-se non furono più le stesse nel Mediterraneo.Dopo l’esito inatteso di quella battaglia i quadri dei saraceni e, so-prattutto, il governo di Baghdad ebbero modo di meditare lunga-mente, all’ombra metaforica delle nuove, imponenti mura Leonine(erette, a opportuno monito, dai numerosissimi prigionieri Islamicipresi in quell’occasione e che ancora oggi dominano, a tratti, la ri-va destra del Tevere) in merito all’andamento delle due campa-gne navali dell’846 e dell’849 e all’inattesa efficienza della flottaamalfitana (erede, piuttosto alla lontana e con molta buona vo-lontà, della vecchia squadra romana di Porto Miseno e nota piùche altro, fino a quel momento, come il maggior centro commer-ciale del meridione, salvo proclamatasi indipendente da Bisanzioappena nell’anno 840).Altro motivo di riflessione furono le grandi tempeste che travol-sero le già provate flotte saracene nel novembre dell’846 e, dinuovo, nel marzo del 849 senza peraltro compromettere, in quel-le medesime due occasioni, l’efficienza delle unità della LegaCampana, che pure era in mare in quelle stesse giornate. Tuttiquesti avvenimenti messi insieme seminarono, invero, il dubbiotra i maggiorenti arabi in merito alla possibilità di poter conve-nientemente apprezzare e applicare fino in fondo gli sfuggenti,complessi fondamenti del potere marittimo e della tecnica nava-le e marinaresca.

Non che si trattasse, beninteso, di un impegno superiore alle ca-pacità intellettuali e culturali di quello che era, per l’epoca (e per icinque successivi secoli) l’unica, autentica civiltà moderna a estdell’Indo e della Cina al cospetto, per di più, di un’Europa eviden-temente sottosviluppata e ricaduta, dopo la fine dell’Impero Ro-mano, al livello raggiunto, 1500 anni prima, dai Germani e dai Cel-ti dell’età del ferro, fatte salve le rade luci rappresentate, nel buiodi quella notte millenaria, dai monasteri.Le ragioni finali che indussero i maggiorenti Mussulmani a volta-re le spalle al mare o, quantomeno, a non incrementare gli sforziin quella direzione accontentandosi di assumere, per il seguito,una linea difensiva conservatrice discesero, con ogni probabilità,da un “meccanismo delle scelte” o, se si preferisce, da un preci-so ordine di priorità che spinse, infine, Baghdad (indipendente-mente dalle vicende politiche interne del Califfato sviluppatesi deisecoli successivi) a rinunciare a dar corso a rinnovati sforzi in di-rezione del potere marittimo.La prova del nove giunse nell’876, quando la flotta romana guidatadal Pontefice Giovanni VIII (detto il “Papa di ferro”), ebbe ragione,davanti al Circeo, di un ultimo tentativo mussulmano in direzionedell’Urbe catturando, in quell’occasione, 18 galee avversarie e li-berando, tra l’altro, 600 schiavi cristiani. Questa stessa scelta poli-tica, peraltro, si sarebbe rivelata puntualmente suicida (come, d’al-tra parte, tutti i grandi errori scontati nei secoli, sotto ogni latitudi-ne, in materia di potere marittimo) a partire dall’XI Secolo. In queltempo, infatti, le Repubbliche Marinare, giunte ormai alla loro pie-na maturità, intrapresero una vigorosa espansione navale grazieanche all’eccezionale e diffuso impulso intellettuale (e quindi eco-nomico) liberatorio assicurato, in Italia e in Occidente, da quellasorta di “rivoluzione culturale” che fu lo Scisma del 1054 consuma-to definitivamente tra la Chiesa Cattolica e quella ortodossa.L’invasione genovese e pisana della Corsica (1015), della Sardegna(1016) e, in seguito, delle Baleari, la riconquista normanna della Si-cilia, tra il 1061 e il 1072, quella di Malta, verificatasi nel 1090, e lacreazione della nuova Marina castigliana confermarono, infatti, inmeno di un secolo, la perdurante, netta superiorità della marineriaoccidentale (e, nel caso specifico, italiana, oltretutto levatrice diquella spagnola) in tutto l’ambito del bacino del Mediterraneo al-largato (ovvero dalle Canarie al Mar Nero), consacrando così unrinnovato primato (accompagnato, questa volta, da un inedito gaptecnologico) rimasto attuale ancora a dodici secoli di distanza.

L’uovo del serpente

Tutto ciò premesso, una volta data per scontata la millenaria storiadella marineria mussulmana – nella versione araba dapprima e inquella turca poi – e la disponibilità effettiva, nei secoli, nel triango-lo compreso tra la Crimea, il Marocco e il Golfo Persico, di decinee decine di migliaia di marinai in servizio permanente effettivo o,comunque, mobilitabili, cui corrispondevano, viceversa, le ridottis-sime proporzioni della popolazione veneziana (giunta, infine, a toc-care, nel Settecento, a bocce ormai ferme, i 170.000 abitanti, maancora ferma, nel 1200, a quota 80.000, salvo ascendere, fino all’e-poca delle grandi pestilenze del Seicento, a non più di 150.000 ani-me) la decisione Cinquecentesca di sopprimere, se del caso, glispecialisti avversari sembrerebbe dettata, in apparenza, da motiviabietti in quanto inutili, crudeli o futili meritando, di conseguenza,l’etichetta di misure criminali anche secondo l’ottica del tempo.

Mare&Storia

Page 3: Sulle rotte dello Stato da Mar - Marinai d'Italiatasche vuote da secoli – mancata, per esempio, alla Russia Sovie-tica) i fedeli del Profeta (l’Egira risale al 622 dopo Cristo)

32 Marinai d’Italia Ottobre 2014

contando, razionalmente, sulla celerità di tiro (effettivamente di-mostratasi, a Cipro, ancora pochi mesi prima, assolutamente pa-gante) determinò non tanto l’esito finale dello scontro (vinto, inbuona sostanza, da quella sorta di “arma segreta” che furono legaleazze, grandi e inedite navi accreditate (grazie alle loro arti-glierie dotate, altra novità, di una sorta di affusti mobili che con-sentivano, finalmente, di andare oltre gli effetti di un’unica, e spes-so inutile, scarica di ferro da scatenare subito prima dell’arrem-baggio) quanto la perdita, in un colpo solo, assieme ai preziosiequipaggi, di ben due generazioni di soldati, tutti lungamente ad-destrati e non facilmente rimpiazzabili, visto che si trattava dei de-positari di un’arte tramandata di padre in figlio.Questa iattura andava poi sommata alla perdita dei rematori. Costo-ro, invero, erano difficilmente sostituibili nell’ambito di una strutturasociale attentamente bilanciata come quella Ottomana, la quale ren-deva problematico rintracciare una media costante di più di 40.000disgraziati da mettere al remo in condizioni di elevata mortalità pro-vocata, in primo luogo, da cause naturali. L’Occidente, più pratico econ meno idiosincrasie nei confronti del mare, poteva viceversacontare largamente, ancora nel Cinquecento, ai cosiddetti “buona-voglia”, ossia rematori regolarmente stipendiati e adeguatamentecurati. Anche questa lezione, apparentemente sprecata in un’epocacome quella attuale che tende a comprimere, in nome di una malin-tesa “modernità”, i diritti dei lavoratori cercando di ridurre il loro sta-to a quello, assai poco invidiabile, dei c.d. paesi emergenti, o BRICche siano, andrebbe meditata un po’ di più in sede politica, a confer-ma del fatto che un po’ di cultura navale (ma basterebbe un giro inAccademia) non guasta mai, specie in prospettiva. La morte in battaglia, infine, di tutti gli ammiragli turchi (meno uno) edella stragrande maggioranza dei comandanti mise poi bruscamen-te fine alla lunga catena di successi (alternati a qualche secca scon-fitta come quella patita in occasione della fallita presa di Malta del1565) che la Marina della Mezzaluna aveva inanellato, sia pure a ca-ro prezzo, dal 1470 (l’anno della presa dell’Eubea) fino a quel momen-to. Naturalmente non era affatto detto che, dopo l’esito infausto diuna battaglia che la flotta Mussulmana avrebbe avuto tutto l’interes-se a non affrontare, i turchi avrebbero nuovamente posposto (comegià avevano fatto gli arabi sette secoli prima) le necessità (in primoluogo legate alle risorse umane) della flotta a quelle degli ancora vit-toriosi e sempre prestigiosi eserciti del Sultano, tuttavia quel mede-simo, miope e rovinoso scenario si ripeté, in prospettiva, nuovamen-te a sette secoli di distanza in termini, sostanzialmente, immutati.Nonostante il relativamente rapido approntamento di una nuovaflotta da parte dei grandi arsenali di Costantinopoli e Sinope inclu-dendo, questa volta, tra le file della squadra, anche cinque replicheturche delle galeazze (destinate, peraltro, a essere annichilite alladistanza dalle ormai 11 navi di questo tipo schierate dalla Serenis-sima già alla fine del 1571), la situazione navale non cambiò. Gli ot-tomani erano infatti costretti, per forza di cose, ad affidarsi a mari-nai (in turco levents, da cui il nostro levantini) greci, albanesi, dal-mati, nord africani e, ancora, a rinnegati cristiani, ma soltanto inminima parte a genti provenienti dall’Anatolia, data la perduranteriluttanza turca in quel campo. Neppure il fatto nuovo dell’avventogeneralizzato, nella seconda metà del Seicento, dei vascelli (dap-prima affiancati alle galee e, infine, rimasti protagonisti incontra-stati sulla scena navale del Mediterraneo per la metà del XVIII se-colo) mutò i termini della questione, tant’è vero che sia la Serenis-sima che la Mezzaluna arrivarono ad armare, ciascuna, per tutto ilSettecento, una forza media pari a una ventina di navi di linea.

Ieri e oggi

Proprio le poco studiate vicende venete del Sei–Settecento per-mettono di apprezzare un ultimo, magistrale uso del residuo po-tenziale marittimo veneto da parte del governo della Serenissima.Conscia com’era, sin dai primi del XVII Secolo, di essere stata ir-rimediabilmente superata, come città stato, dalle nuove realtà na-zionali e marinare spagnola, francese e inglese, Venezia com-batté, da allora in poi, una tenacissima battaglia di retroguardiavolta a conservare i restanti traffici commerciali col Levante riu-scendo, nel contempo, a evitare le più pesanti interferenze o ma-nomissioni che le superiori flotte di Madrid, Londra, Parigi e olan-dese avrebbero potuto benissimo infliggerle. Questo miracolo diuso del potere marittimo e della diplomazia al servizio dell’econo-mia (sommato a un efficiente Servizio segreto), non fu, natural-mente, fine a se stesso.Il preteso abbandono delle imprese marittime da parte dei capita-listi veneziani nel corso del XVII e, soprattutto, XVIII secolo a fa-vore degli investimenti sulla terraferma in Veneto, Lombardia eFriuli è, infatti, soltanto una delle tante false lezioni della storiacorrente. In effetti i documenti dimostrano che la valorizzazionedelle terre (di per sé indispensabile per nutrire la popolazione del-la Serenissima, in costante crescita al pari degli immigrati tra iquali, vale la pena di ricordarlo, Manzoni annoverò pure Renzo eLucia) risale già alla fine del Quattrocento.Naturalmente per nutrire, nel frattempo, questa gente era neces-sario difendere i traffici d’esportazione di manufatti e d’importa-zione di grano e di materie prime. Le minacce erano di due tipi: laguerra grossa e la pirateria, e per combatterle, tutelando i contidello Stato e il futuro dei suoi abitanti, era necessaria la Marina.Siamo sicuri che stiamo parlando di storia e non di cronaca?

nnn

Le foto in Albumina sono di Carlo Naya (1816-1882) e fanno partedi un catalogo edito dalla Biblioteca Vallicelliana di Romain occasione di una mostra congiunta con la Biblioteca Marcianadi Venezia dell'8 ottobre 2008. La grafica del catalogoè opera del Direttore di Marinai d’Italia Giovanni Vignati

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