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Sviluppo territoriale e distretti industriali: traiettorie evolutive e trasformazioni alla luce dei risultati dell’ultimo censimento
di Gioacchino Garofoli1
1. Introduzione: sviluppo territoriale e industrializzazione
Questo saggio cercherà di portare alcuni elementi fattuali e quantitativi, grazie alla disponibilità dei dati del Censimento del 2011, per la costruzione di una interpretazione del modello italiano degli ultimi venti anni e del ruolo dei distretti industriali e delle agglomerazioni di imprese.
Ciò consentirà di fare un confronto con le modalità di sviluppo territoriale che si sono realizzate nelle fasi precedenti così da poter valutare i cambiamenti realizzati e individuare prospettive evolutive per i prossimi anni, oltre a proporre suggerimenti per le politiche di sviluppo locale/regionale e industriale.
Il lavoro sarà organizzato in tre parti. Nella prima parte si analizzerà la dinamica dell’occupazione industriale a livello regionale; nella seconda parte si farà un’analisi dei processi di industrializzazione a livello provinciale, analizzandone intensità e dinamica nelle varie aree; nella terza parte si analizzerà, anche se con un approccio preliminare ma a livello comparativo a scala nazionale, i comportamenti e le dinamiche realizzate nell’ultimo decennio nei distretti industriali e nelle agglomerazioni di impresa.
Nel paragrafo conclusivo si tracceranno le differenze tra le modalità territoriali della trasformazione economica dell’ultimo decennio rispetto alle fasi precedenti e si discuteranno i primi risultati che emergono dell’analisi comparata dei distretti e delle aree di specializzazione produttiva per valutare la rilevanza del territorio nel favorire la competitività e l’innovazione.
1 Questo lavoro è il prodotto di un ampio progetto di ricerca avviato presso il Dipartimento di Economia dell’Università dell’Insubria e che ambisce ad effettuare un’analisi comparata con altri paesi europei. Il presente scritto è pertanto debitore dell’intenso lavoro di elaborazione e di predisposizione di grafici e tabelle effettuato da Cesare Benzi e Domenico Procacci.
2. Industrializzazione e regioni
Il processo di sviluppo e industrializzazione ha determinato, sin dagli anni Settanta, una forte modificazione dell’articolazione territoriale dello sviluppo con un progressivo cambiamento della gerarchia tra le principali regioni industriali del paese.
Il triangolo industriale (le regioni attorno a Milano,Torino e Genova) copriva quasi il 50% dell’occupazione manifatturiera del paese all’inizio degli anni Cinquanta ma era scesa a poco meno del 40% nel 1981 per giungere ad appena il 36% nel 2011. La Lombardia è stata a lungo (sino al 1991) la regione con la più alta incidenza di occupazione manifatturiera ma già nel 2001 era scesa al quarto posto. Ormai le tre regioni più industrializzate del paese sono divenute il Veneto, le Marche e l’Emilia-‐Romagna; tutte le regioni più industrializzate appartengono, dunque, alla cosiddetta Terza Italia di Arnaldo Bagnasco (1977) e al modello NEC (Nord-‐Est Centro) di Giorgio Fuà (1983).
Il tasso di industrializzazione (rapporto tra occupati all’industria manifatturiera e popolazione totale) è aumentato nel nostro paese sino al 1981 per poi iniziare a diminuire successivamente, e con maggiore intensità nell’ultimo decennio con la perdita di quasi due punti percentuali dell’indice di industrializzazione e con una caduta occupazionale pari al 19,1%. I grafici inseriti nella Figura 1 mostrano gli intensi cambiamenti, negli ultimi decenni, del processo di industrializzazione nelle regioni italiane. Oltre a evidenziare la notevole riduzione del tasso di industrializzazione manifatturiera sia nella media nazionale che nelle varie regioni, le Figure allegate mostrano come la differenziazione dell’intensità di industrializzazione, soprattutto tra le regioni del Nord, sia fortemente aumentata dopo il processo di avvicinamento che si era realizzato negli anni Settanta e Ottanta.
Ma ancora più interessante è notare come le ondate regionali di sviluppo si sono realizzate in Italia dal dopoguerra ad oggi. Si mostrerà prima un grafico abbastanza conosciuto tra gli studiosi dei distretti e dello sviluppo territoriale, pubblicato in un articolo seminale di Becattini e Bianchi (1982), e che ho utilizzato diverse volte nei miei lavori e che mostra le tendenze che si sono realizzate tra 1951 e 1981. La Figura 2 mostra sia i diversi tempi dello sviluppo industriale e le diverse modalità che hanno assunto nelle regioni italiane (industrializzazione accompagnata da crescita demografica e dall’urbanizzazione nel Nord Ovest; ritardata e accelerata industrializzazione senza urbanizzazione e immigrazione nelle regioni della Terza
Italia), oltre che il relativo declino industriale nelle regioni del Nord Ovest, specie in Liguria. Le regioni del Mezzogiorno e il Lazio mostrano un forte aumento della popolazione senza sostanziale modificazione (con una parziale eccezione per la Puglia) dei tassi di industrializzazione.
La Figura 3 mostra le ondate di sviluppo industriale tra il 1991 e il 2011. Si evidenzia come il processo di relativo declino industriale abbia ormai toccato anche le regioni della Terza Italia e che a questo punto restano soltanto due gruppi di regioni: da una parte le regioni più ricche e industrializzate (che comprende anche l’Abruzzo) che riducono i tassi di industrializzazione ma continuano ad attrarre popolazione dall’esterno (per il controbilanciamento occupazionale dei settori non industriali) e, dall’altra, le regioni del Mezzogiorno (oltre alla Liguria) che, oltre ad abbassare il tasso di industrializzazione, perdono popolazione (in netto contrasto con i decenni precedenti).
Queste prime considerazioni sulla dinamica negativa dell’occupazione manifatturiera a livello nazionale e delle diverse regioni oltre che sui nuovi processi di differenziazione regionale pongono alcuni rilevanti questioni sulla spiegazione del relativo declino industriale del paese e delle regioni più industrializzate, soprattutto dopo il successo delle regioni della cosiddetta Terza Italia negli anni Settanta e Ottanta e dopo le notevoli performance nelle esportazioni dei distretti industriali e dei sistemi di piccola e media impresa in genere che sono continuate sino agli anni più recenti.
In altri termini andrebbe compreso quanto di questa caduta occupazionale sia da attribuire a fattori esogeni sfavorevoli e quanto invece a fattori endogeni al sistema nazionale, che in prima approssimazione potremmo suddividere tra errori strategici del sistema delle imprese e incoerenza della politica economica nazionale e regionale rispetto al modello organizzativo dell’industria italiana. Numerose possono già essere le indicazioni che questi primi dati ci offrono, ma rimando alle considerazioni finali dopo aver analizzato i dati a livello provinciale e con gli incroci province/settori che ci avvinano fortemente alle questioni dei distretti industriali.
Ma resta ancora un punto rilevante che riguarda la struttura industriale italiana che può essere analizzato in dettaglio grazie alle informazioni statistiche che provengono dal Censimento e che riguarda, in particolare, la modifica della struttura dimensionale delle imprese e degli stabilimenti produttivi nell’industria manifatturiera.
Continua a diminuire il peso delle grandi imprese, oltre che delle medio-‐grandi imprese, e la struttura economica (soprattutto nell’industria) del paese è sempre più orientata alle PMI e alle medie imprese. La dimensione media di impresa cessa, tuttavia, di diminuire2 come era avvenuto nei decenni precedenti e la distribuzione degli addetti per classe dimensionale delle unità locali manifatturiere cambia relativamente poco nell’ultimo decennio (cfr. Tabella 1). Sarebbe interessante discutere come è cambiata la struttura dimensionale delle imprese e la distribuzione degli addetti manifatturieri nelle varie regioni3. Ma lo spazio limitato non ci consente di effettuare in dettaglio queste considerazioni che rimanderemo ad una prossima occasione.
Cambia, in ogni caso, anche la struttura dimensionale delle imprese e delle unità locali nelle varie regioni, anche se in questo caso si nota una progressiva convergenza dei comportamenti. Se prendiamo come punto di riferimento due regioni particolarmente rappresentative della prima e della terza Italia (Lombardia e Veneto), si può notare dalla Figura 4 la netta differenza esistente nel 1971 (ma ancora netta nel 1981) tra la struttura dimensionale degli stabilimenti manifatturieri, con una elevata quota di occupazione nei grandi impianti in Lombardia e una quota nettamente più rilevante di occupazione nelle micro e piccole unità produttive nel Veneto. La struttura dimensionale dell’industria manifatturiera delle due regioni è, invece, ormai pressoché simile nel 2011: i processi di deverticalizzazione operati dalle imprese lombarde accompagnati dalla crisi della grande impresa ha portato ad un aumento del peso occupazionale delle piccole e medie imprese anche in Lombardia. La quota di occupazione manifatturiera in stabilimenti con meno di 50 addetti è attualmente prossima al 60% sia in Lombardia che in Veneto.
È interessante notare che si avvicinano di più le dimensioni degli stabilimenti produttivi più che la struttura dimensionale delle imprese. Ciò potrebbe ancor più confermare l’ipotesi del venir meno delle economie di scala sul processo produttivo mentre potrebbero rimanere più rilevanti le questioni di scala a livello finanziario e di controllo della capacità commerciale (e della rete distributiva).
Quanto appena scritto ripropone la questione dei rapporti tra performance e dimensione che, negli ultimi decenni ha fortemente attirato l’attenzione degli studiosi dei distretti industriali e che ha messo in discussione l’esistenza di una 2 La dimensione media delle unità locali manifatturiere passa da 8,4 addetti nel 2001 a 8,3 addetti nel 2011, mentre le dimensioni medie delle imprese manifatturiere passa da 9,1 addetti nel 2001 a 9,2 addetti nel 2011. 3 Ormai tra le regioni con presenza relativamente alta di occupazione nelle imprese grandi e medio-‐grandi ci sono anche la Basilicata, il Molise e l’Abruzzo e non soltanto Piemonte, Liguria e Friuli Venezia Giulia.
relazione diretta sulla base dell’operare di economie di scala. I dati del Censimento industriale da tempo indicava sia la diminuzione della dimensione media di impresa realizzata tra il 1971 e il 2001 oltre che il progressivo spostarsi dell’industria italiana verso una struttura dimensionale orientata alla piccola-‐media dimensione (Garofoli, 1991; Traù, 1999) e ciò metteva già in notevole difficoltà l’ipotesi teorica di una relazione diretta tra dimensione e performance. Le analisi condotte sui bilanci delle imprese, specie quelle condotte negli ultimi anni attraverso un confronto sistematico sulle medie imprese italiane e sulla comparazione con altri paesi europei hanno consentito di affrontare con maggior dettaglio la questione perché consentono di verificare non solo l’esistenza di un relazione tra efficienza economica (misurabile con il valore aggiunto per addetto) e dimensione di impresa ma anche di una eventuale relazione tra redditività e dimensione. Le analisi condotte hanno chiaramente messo in evidenza l’assenza di una relazione diretta non solo tra produttività del lavoro e dimensione di impresa ma anche tra redditività (MOL e ROI) e dimensione di impresa (Garofoli, 2013; AAVV, 2013). Tra l’altro, ciò non avviene esclusivamente per il caso italiano, mettendo ancor più in difficoltà l’assunto teorico della relazione diretta.
3. I processi di industrializzazione a livello locale: alcune prime considerazioni
Le differenze di struttura economica e delle modalità di sviluppo sono abbastanza intense anche all’interno delle regioni, specie quando sono di grande dimensione come la Lombardia e il Piemonte. Già nel passato si era mostrato come la presenza di agglomerazioni di imprese e di distretti industriali fosse sufficientemente elevata anche nelle regioni della prima Italia (Garofoli, 1978 e 1983). Ora i dati del recente Censimento ci consentono di fare un aggiornamento della situazione a scala territoriale molto disaggregata, provinciale e subprovinciale sino a giungere a livello municipale e dei sistemi produttivi locali.
In questa fase preliminare della ricerca ci siamo concentrati sul livello territoriale provinciale che già mostra notevoli differenze di comportamento e consente di intravvedere, attraverso l’incrocio dei dati settoriali e territoriali (cfr. il paragrafo successivo), le tendenze dei principali distretti industriali del paese.
La Figura 5 mostra i tassi di industrializzazione a livello provinciale nel 2001 e nel 2011, oltre che i tassi di variazione dell’occupazione manifatturiera nelle Unità Locali.
Si può notare come nel 2001 ci fosse una certa omogeneizzazione dei livelli di industrializzazione in una parte del paese che comprendeva la gran parte della Terza Italia e la Lombardia. Nel 2011 il processo di industrializzazione si è molto scompaginato e aumentano le differenze anche all’interno delle regioni più industrializzate. Le aree che tengono in termini occupazionali si rinvengono ormai in alcune parti del Veneto e dell’Emilia-‐Romagna e in qualche area delle Marche e della Toscana.
I tassi di industrializzazione più elevati sono attorno al 15% e si trovano a Vicenza, Fermo e Prato; c’è poi un gruppo di aree con valori dell’indice attorno al 14% (Pordenone, Reggio Emilia, Modena, Lecco e Treviso).
Aree che avevano tassi di industrializzazione superiori al 15% nel 2001 (Biella, Bergamo, Brescia, Varese, Mantova, Monza e Brianza, Belluno) presentano ormai tassi di industrializzazione compresi tra il 10 e il 12%. Ma anche se prendiamo in considerazione la provincia con il tasso di industrializzazione più elevato, si può notare che Vicenza ha perso il 19,1% degli addetti manifatturieri nell’ultimo decennio, quindi con un tasso di riduzione del tutto analogo a quello registrato nella media nazionale, passando da un indice di industrializzazione del 21,1% nel 2001 al 15,8% nel 2011; Prato passa dal 19,8% al 14,7% e Biella passa dal 18% al 10,6%. Si può quindi dire che le aree a più elevata industrializzazione hanno pagato uno scotto nel processo di ristrutturazione degli ultimi 10-‐15 anni analogo se non più alto del costo sopportato a livello nazionale.
Ciò ovviamente pone dei problemi per una ipotesi interpretativa che voglia valutare il ruolo degli ispessimenti localizzativi, dei legami inter-‐impresa e della produzione di economie esterne; ma anche su questo argomento torneremo con maggio dettaglio dopo aver discusso le elaborazioni degli incroci aree/settori delle informazioni statistiche .
4. Agglomerazioni di impresa e distretti industriali: quale ruolo gioca la specializzazione e gli ispessimenti localizzativi sulla performance occupazionale dei vari territori italiani?
4.1. Le dinamiche occupazionali nelle aree di specializzazione produttiva
Veniamo ora alla questione che più ci sta a cuore e che interessa in modo particolare gli amici degli incontri di Artimino.
Ovviamente questa analisi preliminare non può che essere un’analisi che fornisce elaborazioni ed informazioni che valgono per appoggiare un’ipotesi interpretativa solo in prima approssimazione. Saranno, infatti, analizzate le dinamiche per province e settori in quanto i distretti industriali e i sistemi produttivi locali sono statisticamente individuabili all’incrocio tra specializzazione per settori e comparti e aree territoriali. In alcuni casi, addirittura, per esempio nelle piccole province specie per alcune tra quelle di recente costituzione (Biella, Prato, Lecco, Fermo), c’è una sostanziale identità di struttura economica a livello provinciale e a livello di distretto industriale.
Mostreremo, dunque, alcune evidenze empiriche sulla base dei dati del Censimento Industriale a livello provinciale per l’intera industria manifatturiera e per sei settori industriali fortemente organizzati per distretti industriali e sistemi produttivi locali4.
Iniziamo con alcune considerazioni analizzando la Figura 6 che a differenza delle altre ci mostra la dinamica degli addetti a livello provinciale dell’intera economia privata. Tra il 2001 e il 2011, infatti, vi è stato un considerevole bilanciamento occupazionale tra i settori industriali e gli altri settori anche come conseguenza della crescita dell’occupazione totale (e dei tassi di occupazione) in Italia, accompagnata dalla crescita demografica che ha consentito un aumento (anche se relativamente leggero) della domanda interna sino almeno all’avvio della crisi economica. Ma come si sa, i dati del Censimento misurano le differenze tra due istanti e tra due fotografie della struttura economica del paese.
Il tasso di crescita dell’occupazione nel totale dell’economia privata (che l’Istat definisce settore delle imprese) in Italia è stato, tra 2001 e 2011, pari al 2,8% a fronte di una diminuzione degli addetti manifatturieri del 19,1%. Questa è, dunque, una prima osservazione di struttura che occorre tenere in mente. 4 In ogni caso abbiamo già svolto alcune prime riflessioni analizzando in dettaglio i dati del Censimento di alcuni distretti che confermano le evidenze già mostrate a livello provinciale. Il lavoro in dettaglio sui distretti industriali italiani sarà presentato, tuttavia, in un successivo scritto.
Ciò che interessa notare è che in alcune aree il tasso di crescita dell’occupazione nel totale delle imprese supera il 15% e, quindi, significa che in alcune province si è assistito ad un processo di ristrutturazione delle economie locali che ha consentito un processo di sviluppo sufficientemente rilevante e che mostra che non tutte le aree seguono (o debbano seguire) un percorso di sviluppo di tipo industriale -‐ manifatturiero. Ciò è importante perché in altri paesi l’attenzione a questi diversi modelli di sviluppo e alle loro dinamiche sta diventando particolarmente diffusa, con crescente interesse da parte dei policy maker. In Francia, ad esempio, da alcuni anni si sottolinea la rilevanza delle aree di sviluppo basate sull’economia residenziale (sia su servizi di prossimità forniti alla popolazione residente – dando luogo anche a mobilità territoriale delle residenze per l’attrazione giocata dalla qualità di questi servizi – sia i servizi sanitari specializzati anche per residenti in altre regioni e per servizi turistici) (cfr. Davezies, 2008; 2012; Courlet, Pecqueur, 2013).
La Figura 6 evidenzia che i tassi di crescita dell’occupazione sono più alti in alcune aree relativamente periferiche ma caratterizzate da meccanismi di forte identità e di elevata solidarietà sociale. Trento, Bolzano, Sondrio e Cuneo rappresentano aree in cui la presenza dell’intermediazione del sistema cooperativo nella produzione e, soprattutto, nell’organizzazione del sistema produttivo è particolarmente rilevante; ma sono anche le aree con una alta presenza di Banche Rurali e di Credito Cooperativo e che favorisce, dunque, la presenza del cosiddetto capitale di prossimità, oltre che aree da tempo orientate ai servizi al cittadino e alla loro integrazione. La Figura 6 evidenzia anche il ruolo di Rimini e di alcune province emiliane (Reggio Emilia, Parma), oltre ovviamente dei grandi centri metropolitani (Roma, soprattutto, e Milano) che forniscono servizi relativamente pregiati o che, comunque, sono sufficientemente attrattivi per questioni di natura culturale, fieristica, amministrativa e di relazione con i processi decisionali (con i conseguenti effetti sul turismo d’affari).
La Figura 7, come le successive, mette in relazione la dinamica degli addetti (in questo caso dell’industria manifatturiera) nell’ultimo decennio con i livelli di specializzazione del settore di volta in volta preso in considerazione, utilizzando l’indice di occupazione normalizzato (dato dal rapporto tra gli indici di specializzazione dell’occupazione settoriale delle varie province rispetto al valor medio nazionale) al 2001. Come si può vedere dalla Figura 7 non sembrerebbe esserci, a prima vista, relazione tra dinamica occupazionale e specializzazione produttiva nell’industria manifatturiera (e conseguente, probabile, ispessimento di
imprese). La nuvola di punti è abbastanza ampia sia sopra che sotto la media nazionale del tasso di variazione e sia a destra che a sinistra della media nazionale della specializzazione nell’occupazione manifatturiera (che è, ovviamente, pari a 1), anche se ancora si può notare un restringersi della nuvola dei punti man mano che ci sposta a destra verso le aree di maggiore specializzazione.
La Figura 7 mostra che le aree che più resistono (i tassi di variazione sono negativi per tutte le province) sono Cuneo, Parma, Pordenone, Reggio Emilia, Padova e Mantova tra quelle maggiormente industrializzate, Piacenza, Sondrio, Trento e Rimini tra quelle mediamente industrializzate. Le aree più industrializzate (Vicenza, Prato, Modena, Treviso, Lecco) presentano una performance molto simile a quella media nazionale. Si nota in negativo la performance dell’area di Biella che ha pagato enormemente il processo di ristrutturazione con una riduzione del 42,5% dell’occupazione nell’ultimo decennio.
Passando alle Figure successive siamo ormai in grado di avvicinarci a comprendere cosa succede nei distretti industriali e nelle aree di agglomerazione di imprese. La figura 8 mostra la relazione tra dinamica occupazionale e specializzazione nel settore alimentare. Anche in questo caso non sembra esserci alcun relazione tra le due variabili ma questo ci può aiutare a comprendere perché in alcune aree di ispessimento produttivo (Ravenna, Ferrara, Forlì-‐Cesena, Piacenza) la performance è negativa mentre in altre (Bolzano, Sondrio, Cuneo, Macerata) la performance è positiva. Notevoli incrementi occupazionali si riscontrano anche in aree con livelli di specializzazione attorno alla media nazionale (Vercelli) o addirittura inferiore alla media italiana (Caserta). Si notano, in ogni caso, dinamiche relativamente positive in molte aree, specie nel Mezzogiorno, con bassi tassi di specializzazione, che indicano, tuttavia, una prospettiva di sviluppo legata alla qualità della produzione agro-‐alimentare che da oltre un decennio si sta estendendo in molte aree italiane. Altre tre province di alta specializzazione (Parma, Cremona e Mantova) sono allineate sulla performance della media nazionale che comunque, in questo caso, non appare molto negativa (essendo il tasso di riduzione dell’occupazione pari a circa il 5%).
Visto che anche a Trento la variazione dell’occupazione è positiva, troviamo ancora le quattro province già ricordate nella discussione della Figura 6: le province di montagna, di alta qualità della vita e di presenza rilevante di un settore agricolo fortemente integrato con l’industria di trasformazione, attraverso la difesa della
qualità (dei prodotti e del territorio), riescono a procedere in un sentiero di sviluppo sostenibile. Viene da pensare che in quelle aree abbia operato un diverso (e particolarmente idoneo) modello di governance dello sviluppo locale, ma questo argomento sarà affrontato in un successivo lavoro nonostante qualcosa sia già stato pubblicato (cfr. Garofoli, 2011).
La Figura 9 mostra la relazione tra dinamica occupazionale e specializzazione nel settore della meccanica, in gran parte meccanica strumentale e produttrice di macchine industriali, che rappresenta il settore più rilevante delle esportazioni italiane e base fondamentale della capacità competitiva del paese.
Sono particolarmente buone le performance di Cuneo, Parma, Pordenone, Reggio Emilia, Verona, Rimini e Arezzo. Parma, Pordenone e Reggio Emilia sono aree di specializzazione nell’industria meccanica, mentre le altre sono grosso modo allineate alla media nazionale. Tiene l’occupazione meccanica a Vicenza , mentre sono allineate sulla media nazionale alcune aree di rilevante specializzazione (come Lecco, Brescia, Bologna, Varese, Monza e Brianza, Treviso, Novara ed Ancona). Le perfomance sono invece negative a Torino, Asti, Belluno, Milano e Verbano-‐Cusio-‐Ossola.
La Figura 10 mostra la relazione tra dinamica occupazionale e livello di specializzazione nel settore tessile e abbigliamento. In questo caso, anche in considerazione del più basso tasso di occupazione nel settore, la nuvola dei punti delle province più industrializzate nel settore T-‐A è più appuntita rispetto a quanto registrato per il settore meccanico. Anche in questo caso, tuttavia, non sembra esserci una relazione positiva tra le due variabili5: diverse aree di specializzazione mostrano valori migliori della media nazionale (anche se la dinamica è sempre negativa) ed altre aree specializzate mostrano tendenze ancora più negative della media nazionale (-‐ 38,6%). Mantova e Prato6 presentano performance meno negative della media nazionale mentre Biella presenta una dinamica negativa ancora più accentuata (-‐ 48,3%) della media nazionale. È interessante rilevare come aree meno industrializzate del paese (Lecce e Teramo, ad esempio) e con minor problemi di reperimento di forza lavoro siano tra quelle in maggior sofferenza anche per quanto riguarda il settore tessile-‐abbigliamento.
5 La retta delle ascisse mostra una interruzione dopo il valore dell’indice pari a 4 perché i livelli di specializzazione di Biella e Prato sono incredibilmente elevati (pari a 12 per Biella e a 15,4 per Prato). 6 Va tuttavia rilevato che la dinamica occupazionale del tessile a Prato è altrettanto negativa di quella di Biella. Ciò che differenzia Prato è la dinamica occupazionale positiva dell’occupazione nel settore dell’abbigliamento, che è addirittura raddoppiata grazie alla forte dinamica delle imprese cinesi, e che parzialmente bilancia la perdita occupazionale del settore tessile.
La Figura 11 mostra l’incrocio tra dinamica dell’occupazione del settore calzature e pelli e l’indice di occupazione normalizzato. Anche in questo caso l’asse dell’ascissa mostra una interruzione della retta dopo il valore di 6, con cambio della scala, perché i valori dell’indice normalizzato delle tre aree con valori più elevati sono compresi tra 11 (Pisa) e 35 (Fermo). Anche per questo settore non esiste una relazione positiva tra le due variabili, con aree di specializzazione che sono al di sopra delle dinamica media nazionale ed altre aree di specializzazione che assumono una dinamica negativa più accentuata della media nazionale (-‐ 25,5%). Anche in questo caso aree relativamente più povere e meno industrializzate (come Lecce e Teramo) presentano dinamiche ancora più negative della media nazionale mentre le province di Milano e Firenze presentano dinamiche positive o lievemente negative. Ancora, tra i distretti più rilevanti le performance sono meno peggiori della media nazionale nel distretto di Montegranaro -‐ Civitanova Marche (compresa tra Fermo e Macerata), nel distretto di S. Mauro Pascoli (Forlì -‐ Cesena) e nel distretto di Strà (tra Venezia e Padova), mentre sono più negative nel distretto di Vigevano e nelle aree di Bussolengo (VR), Capannori (LU) e di Monsummano Terme (PT).
La Figura 12 mostra la relazione tra indice di specializzazione della produzione nel settore del mobile e arredo e la dinamica occupazionale nello stesso settore. Anche in questo ci sono almeno una decina di aree in Italia di forte specializzazione con un indice di occupazione normalizzato superiore a 3 ed anche in questo caso alcune aree di specializzazione si comportano meglio della media nazionale ed alcune si comportano peggio. Il tasso di variazione a livello nazionale è abbastanza elevato (-‐ 27,1%) e più elevato della media manifatturiera. Il sistema italiano dell’arredo ha una forte immagine e una grande capacità di attrazione a livello internazionale come da diversi anni è chiaramente certificato dal successo e dal numero crescente di espositori e visitatori internazionali del Salone del Mobile. La dinamica occupazionale non è stata favorevole ma sarei cauto ad attribuirla a problemi di competitività di costo delle imprese a seguito del progressivo inserimento di nuovi paesi produttori nel commercio internazionale. Non per sminuire la rilevanza del grande cambiamento nelle quote di mercato a livello internazionale ma per sottolineare questioni che sono più connesse alla produzione di nuove competenze e di nuove modalità strategiche e organizzative che stentano a diffondersi tra le imprese italiane. Non dimentichiamo che anche questo settore è stato, per alcune aree, fortemente intaccato dalle strategie di outsourcing che certamente non sono
favorevoli alla crescita delle competenze e all’interazione tra gli attori economici che sono fondamentali per innescare dinamiche innovative.
Tra le aree di relativa specializzazione solo l’area di Macerata (indice pari a 2,38 nel 2001) mostra una dinamica occupazionale positiva, ma non solo l’area di Forlì-‐Cesena (indice pari a 2,74) ma addirittura l’area di Pordenone e Treviso (attorno a Sacile) (con un indice di 9,38 per la provincia di Pordenone) mostrano riduzioni relativamente marginali dell’occupazione (tra il 2% e l’8%). In altri casi la riduzione occupazionale è particolarmente notevole come nel caso di Udine (distretto di Manzano) e nel caso di Matera (distretto dell’imbottito) con una riduzione di occupazione rispettivamente del 43,6% e del 36,8%. Negli altri casi si nota una performance leggermente migliore per il distretto di Pesaro (-‐ 19,4) e per il distretto della Brianza, compreso tra le province di Como e Monza (-‐24,2% e -‐26,3%). In altri termini si può riscontrare che anche all’interno della stessa regione (Friuli Venezia Giulia) sia stata realizzata una dinamica quasi opposta tra due distretti e come l’occupazione tenga più in aree relativamente ricche e che quindi dimostrerebbe che il problema non è il costo del lavoro ma l’insufficienza di competenze tecnico-‐professionali introdotte nel sistema oltre che delle capacità manageriali e strategiche delle imprese dei diversi territori.
La Figura 13 mostra la relazione tra specializzazione nell’industria della Gomma e delle materie plastiche e la dinamica occupazionale del settore. Il settore per la prima volta dal dopoguerra perde occupazione anche se in maniera relativamente modesta (-‐ 7,4% tra 2001 e 2011) ma molte aree presentano dinamiche positive, anche tra diverse aree di specializzazione. L’occupazione aumenta, infatti , nelle province di Pordenone (12,5%), Lecco (13,3%), Padova (13,4%), Bergamo (6,5%), Forlì (10,4%) e Novara (12,2%)ma è sostanzialmente stabile in tre aree di specializzazione abbastanza rilevante come Treviso, Vicenza e Alessandria. Ma in altre aree relativamente specializzate la riduzione dell’occupazione è più accentuata della media nazionale, si pensi a Torino, Como, Lucca ma anche Fermo ed Ascoli Piceno. Credo ancora una volta che la spiegazione della diversa dinamica sia connessa alla tipologia dei prodotti, che sembrerebbero più qualificati e più integrati in sistemi produttivi territoriali legati alla produzione della meccanica strumentale, in genere fortemente orientate all’innovazione e all’utilizzo di componentistica di qualità e, quindi, a relazioni con fornitori che spesso forniscono soluzioni tecniche (attraverso una logica di soluzione dei problemi dei committenti) in una logica di coprogettazione. Certamente una risposta definitiva a questa ipotesi interpretativa
potrà essere fornita con una analisi specifica a scala mesoeconomica e territoriale con indagini dirette sul campo come la ricerca sui distretti industriali ha insegnato da oltre 30-‐35 anni.
4.2. Alcuni elementi per una interpretazione della performance nei distretti industriali e nelle aree di agglomerazione di imprese
Saranno ora effettuate alcune considerazioni generali sulle dinamiche territoriali che si sono realizzate tra i due ultimi Censimenti industriali.
Innanzitutto vi sono alcune aree che tengono maggiormente in termini occupazionali, sia nell’aggregato dell’economia privata ma spesso anche con dinamiche positive per alcuni settori manifatturieri (e, in ogni caso, con performance migliori nell’occupazione manifatturiera rispetto alla media nazionale) e ciò sembra legato ad una strategia di sviluppo condivisa che punta all’identità territoriale e ad una elevata solidarietà locale (cfr. il comportamento e le dinamiche delle geo-‐comunità solidali (specie in aree pedemontane e legate all’imprenditoria sociale) come sembrerebbe essersi realizzato soprattutto nelle aree di Bolzano, Trento, Sondrio e Cuneo.
In secondo luogo, sembra possibile stabilire una relazione tra tenuta occupazionale e l’orientamento alla produzione di qualità e all’utilizzo di competenze specifiche del territorio che tende non solo a radicare fortemente le produzioni al territorio ma rende particolarmente intense le relazioni tra le imprese locali, che diventano in tal modo portatrici non solo di integrazione produttiva ma anche di introduzione continua di nuovi saperi e competenze tecnico-‐professionali, allontanando progressivamente le produzioni del territorio da una competizione basata sul prezzo e, di conseguenza, sui costi di produzione.
Ciò si realizza in due tipologie di settori abbastanza dissimili dal punto di vista tecnologico e organizzativo: nella costruzione di prodotti complessi della meccanica strumentale, soprattutto della costruzione di mezzi di produzione (macchinari, attrezzature e componentistica differenziata e pregiata) e nella produzione agro-‐alimentare di qualità.
Nel secondo caso, i risultati delle informazioni statistiche del Censimento sono particolarmente evidenti: aumenta l’occupazione e si irrobustiscono i sistemi
produttivi locali legati all’agroalimentare che si orientano sempre più verso la produzione di qualità e verso la difesa dei “prodotti tipici” (DOC e DOP). Caso particolarmente esemplare è quello di Alba e delle Langhe ove la percezione della relazione tra qualità del territorio e qualità dei prodotti è molto diffusa tra gli operatori locali e ove l’introduzione di nuove ed levate competenze professionali sono alla base di strategie innovative da parte delle imprese (Garofoli, 2011)7.
Vi sono, invece, aree che hanno perso notevolmente identità territoriale e il senso di appartenenza ad un sistema socio-‐economico locale: sono soprattutto le aree che più sono state esposte all’outsourcing e a strategie di riduzione dei costi; in molte di queste aree si sono registrare riduzioni occupazionali prossime al 40-‐50% in alcuni settori di specializzazione nel decennio 2001-‐2011. Questo è avvenuto soprattutto in aree relativamente deboli, specie nel Mezzogiorno, anche in aree che avevano mostrato una interessante dinamica imprenditoriale e occupazionale durante gli anni Novanta (cfr. Viesti, 2000), ma è avvenuto anche in alcune aree del Nord, specie nel Veneto.
Si registrano, inoltre, alcuni casi “ambigui” (ne rappresentano un esempio particolarmente rilevante le aree di Vicenza e Treviso) che mostrano una grave caduta occupazionale (superiore a quella media nazionale) in alcuni settori (nel tessile e abbigliamento) ma che tengono nell’industria meccanica. Come è stato precedentemente ricordato questo doppio binario di comportamento delle imprese va ricondotto al ruolo strategico dei saperi e dell’integrazione produttiva tra le imprese per la costruzione di prodotti complessi e di qualità nella meccanica strumentale; mentre negli altri settori sembra non essersi realizzata questa consapevolezza da parte degli imprenditori che hanno preferito puntare su strategie di breve periodo e più opportunistiche.
Quanto appena sottolineato favorisce l’introduzione di una considerazione aggiuntiva che può essere effettuata con riferimento al comportamento delle imprese nelle varie aree analizzate nel processo di trasformazione degli ultimi 10-‐15 anni. Innanzitutto sembra di poter rilevare l’esistenza di uno stretto rapporto tra imprenditorialità e sviluppo territoriale. Dove è rimasto un forte radicamento territoriale del sistema produttivo e dell’imprenditore, sembra di poter notare un maggior orientamento al rischio di impresa che favorisce tassi ancora relativamente
7 Anche in questo caso, come nel caso della meccanica strumentale, si nota una forte identità di vedute con quanto scritto da Arrighetti, Traù (2013) che pongono in evidenza l’orientamento delle imprese alla produzione e all’introduzione di competenze specifiche l’asset fondamentale per l’avvio di strategie innovative.
elevati di formazione di nuove imprese. Gli imprenditori, inoltre, manifestano una maggiore attenzione ai rapporti complessi tra l’impresa e il mondo esterno, manifestandosi fautori di uno sviluppo territoriale e attenti agli effetti occupazionali (e sociali) delle strategie delle imprese.
Sembra, pertanto, di intravvedere alcuni comportamenti alquanto “opposti” in alcune aree industriali del Nord con una sorta di spartiacque comportamentale che dà spesso luogo ad una sorta di opposizione imprenditori vs “rentier” che talvolta si manifesta anche all’interno della stessa area : nei casi del primo gruppo si assiste ad una prevalenza di orientamenti aperti al cambiamento e alle sfide da parte della classe imprenditoriale e dirigente, mentre nel secondo gruppo di aree sembra di rilevare una serie di atteggiamenti conservativi e di difesa passiva di interessi particolari ed egoistici che non favoriscono la dinamica relazionale tra le imprese e di cogliere le opportunità di sviluppo. Nel secondo gruppo diventa quindi più probabile la riduzione della volontà di investimento da parte delle imprese locali e della assunzione del rischio di impresa, con progressiva sostituzione di produzione esterna a quella interna e l’avvio di processi di outsourcing, ma anche di “spiazzamento” degli investimenti produttivi rispetto a quelli finanziari e speculativi.
In presenza di un mercato del lavoro competitivo (con settori e imprese che sono capaci di pagare salari più alti e che offrono migliori prospettive di carriera lavorativa) ma anche di migliori e diverse opportunità di impiego dei capitali, per esempio in vicinanza di aree urbane ricche e dinamiche, si assiste spesso alla “disaffezione” degli imprenditori rispetto a produzioni tipiche e storiche delle aree di agglomerazione con riduzione della propensione agli investimenti e all’assunzione del rischio. Un caso abbastanza eloquente è rintracciabile nella differenza di comportamento tra il distretto di Vigevano, da un lato, e il distretto calzaturiero di Montegranaro – Civitanova Marche e il distretto di Strà, dall’altro (Garofoli, 2013b).
Infine, sembra utile sottolineare alcune apparenti contraddizioni ed alcuni paradossi che sono identificabili nei comportamenti delel diverse aree. In alcune aree relativamente “ricche” i settori maggiormente “labour-‐intensive” tengono più l’occupazione rispetto a settori a maggiore intensità tecnologica; ciò avviene soprattutto in aree urbane ricche, come Firenze e Milano che riescono ad innescare dinamiche occupazionali positive nel settore delle pelli e calzature e ove anche la performance occupazionale nel tessile-‐abbigliamento è comunque migliore della media nazionale. Ciò avviene grazie alla presenza di alcuni “brand” e alla produzione
di qualità oltre che all’immagine del territorio: qualità, design e innovazione fanno, dunque, aggio sui costi di produzione e sui risparmi nell’utilizzo dl lavoro.
Invece, l’occupazione in questi settori cede fortemente a Lecce e Teramo, certamente aree che nel passato avevano fortemente puntato sulla flessibilità d’uso della forza lavoro e sull’opportunità di pagare salari più bassi rispetto alle aree ricche del paese. Anche questi risultati sembrano sottolineare come molto spesso i fatti riescano a smentire non solo alcune posizioni teoriche ma anche alcuni “luoghi comuni” particolarmente diffusi tra alcuni studiosi e tra molti imprenditori.
Infine, è interessante notare come l’opposizione della dinamica occupazionale possa avvenire tra i due comparti che caratterizzano il settore tessile-‐abbigliamento addirittura all’interno della stessa area: nel distretto di Prato si assiste, infatti, nell’ultimo decennio ad una forte riduzione dell’occupazione tessile (-‐ 47,2%), superiore alla riduzione media nazionale, compensata tuttavia dal forte aumento, con oltre il raddoppio dell’occupazione nel settore della confezione
5. Conclusioni
Le conclusioni saranno organizzate in due gruppi di osservazioni: un primo gruppo che mette a confronto i connotati territoriali dell’ultima fase dello sviluppo economico italiano con le precedenti, un secondo gruppo di osservazioni farà invece riferimento ai caratteri dello sviluppo territoriale, cioè alle caratteristiche del radicamento territoriale del modello di organizzazione della produzione, specie nelle agglomerazioni di imprese.
5.1. Industrializzazione e modelli territoriali nello sviluppo economico italiano
Sulla base di quanto precedentemente ricordato e sull’analisi della letteratura sulle fasi precedenti, si può affermare che lo sviluppo industriale in Italia dal dopoguerra ad oggi è passato attraverso tre distinte fasi che ha dato luogo a tre diversi modelli di sviluppo territoriale:
a) Una fase di intensa crescita industriale, dall’inizio degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, che si è accompagnata ad un aumento della dimensione media di imprese, ad una diminuzione del numero delle imprese e ad una progressiva concentrazione territoriale della produzione industriale.
Questa fase di sviluppo è stata caratterizzata dal progressivo estendersi del modello fordista della produzione standardizzata che puntava sul perseguimento delle economie di scala e sulla riduzione dei costi di produzione (Secchi, 1974; Garofoli, 1991 e 2014).
b) Una fase di intensa ristrutturazione, negli anni Settanta e Ottanta, che ha implicato due rilevanti cambiamenti e inversioni di tendenza: b1) la dimensione di impresa presenta una consistente e progressiva riduzione come conseguenza del venir meno della rilevanza delle economie di scala, per il contemporaneo operare dell’introduzione di tecnologie flessibili che riducono il differenziale di costo tra produzione su grande scala e produzione in piccoli lotti e della crisi del mercato di produzione di massa che ha offerto un crescente ruolo ai prodotti differenziati e a strategie di prezzi differenziati (Piore e Sabel, 1984; Garofoli, 1991); b2) lo sviluppo di nuove regioni industriali accompagnato dalla crescita del numero complessivo di imprese manifatturiere, dalla proliferazione di nuove imprese e dall’aumento di occupazione manifatturiera, con l’affermarsi di nuove forme di organizzazione industriale e sociale, con ampia mobilità sociale che favorisce il nascere di nuova imprenditoria (Bagnasco, 1977); ciò determina un ruolo rilevante delle agglomerazioni di impresa, dei distretti industriali e del territorio, con un rafforzamento delle reti di relazioni tra imprese, oltre che tra imprese ed altre organizzazioni sul territorio, e con la formazione di rilevanti economie esterne e di processi di governance e solidarietà territoriale (Garofoli, 1991 e 2003).
c) Una terza fase negli anni Novanta e nel primo decennio del Duemila, non ancora pienamente compresa ed interpretata, che ha prodotto un progressivo venir meno dei legami territoriali del sistema produttivo, come conseguenza dell’emergere di un vasto gruppo di imprese (e che ha coinvolto diverse aree industriali) che si è prioritariamente indirizzato alla ricerca di un abbassamento dei costi di subfornitura. Le imprese finali che governavano la filiera produttiva di queste aree hanno determinato una crescente competizione di subfornitori internazionali nei confronti dei subfornitori e dei produttori di beni intermedi localizzati nei sistemi produttivi locali. L’estensione del decentramento produttivo internazionale (e dell’ outsourcing) ha determinato la contrapposizione di reti relazionali con imprese dei paesi poveri alle reti locali che avevano determinato
accumulazione di saperi e competenze che erano state alla base del processo innovativo dei distretti e dei sistemi produttivi locali nei decenni precedenti8. Questa terza fase ha prodotto una forte riduzione della produzione e dell’occupazione industriale, una diminuzione del numero delle imprese manifatturiere (-‐19,9% nell’ultimo decennio) del nostro paese, una forte diminuzione del tasso di natalità delle imprese che a lungo è stato uno dei principali fattori dinamici della capacità competitiva italiana negli anni Ottanta (Garofoli, 1994). Ancora una volta le analisi territoriali dello sviluppo economico sono in grado di scoprire l’eterogeneità dei comportamenti delle imprese e dei territori che le analisi macroeconomiche tendono a nascondere.
5.2. Alcune questioni cruciali ed alcuni insegnamenti per le politiche industriali e di sviluppo
Innanzitutto riemerge la grande questione del cosiddetto declino industriale del paese. Non è questa la sede opportuna per riprendere le principali critiche che sono state portate a questa interpretazione (Arrighetti, Traù, 2013; Coltorti 2012; Conti, Modiano, 2012); ciò che sembra necessario richiamare è che non esiste alcuna legge economica che prevedesse la caduta occupazionale dell’industria in molte aree italiane. Non solo diverse aree italiane e un vasto gruppo di imprese ancora riescono a fronteggiare la competitività internazionale, ma soprattutto si possono individuare alcune fragilità che hanno determinato sia errori strategici da parte di un vasto gruppo di imprese sia errori strategici da parte del policy maker che non è consapevole dei punti di forza e degli elementi di debolezza dell’industria italiana.
Iniziando dalle condizioni esterne sfavorevoli, vorrei almeno brevemente ricordare l’errore dei policy maker a livello europeo che hanno abbandonato i paesi e le regioni industriali nella fase di crescente globalizzazione, senza introdurre politiche e strategie per promuovere una produzione europea indirizzata alla qualità per difenderla dalla produzione di bassa qualità e di bassi prezzi proveniente dai nuovi paesi emergenti; non solo è mancata una politica industriale europea (incomprensibile in una grande area di 470 milioni di persone) ma contemporaneamente la politica economica europea non ha garantito la soddisfazione della domanda potenziale dei cittadini attraverso il sostegno della 8 Non è un caso che le aree che maggiormente hanno retto il processo di ristrutturazione degli ultimi 15-‐20 anni mostrino un prevalente orientamento delle imprese verso il mantenimento e l’introduzione di competenze tecnico-‐professionali distintive, in linea anche con quanto sostenuto da Arrighetti e Traù (2013).
domanda aggregata europea che, a sua volta, sarebbe stata una rilevante opportunità per la tenuta occupazionale dell’industria manifatturiera europea. Nel gioco del conflitto di interesse a livello europeo, la scelta neoliberista ha favorito la liberalizzazione dei flussi di capitale del sistema bancario-‐finanziario delle piazze europee piuttosto che la coerenza del circuito produzione-‐distribuzione –consumo a livello europeo. Certamente ciò ha fortemente penalizzato i paesi e le regioni più industrializzate ed ha spinto le imprese europee a perseguire obiettivi di breve periodo, attraverso delocalizzazioni e strategie di outsourcing, che certamente non avrebbero favorito la produzione e l’occupazione europea.
Era molto chiaro ai più accorti, sin dai primi anni Novanta, che una tale posizione avrebbe indebolito i distretti industriali italiani che rappresentavano il “cuore” del sistema industriale italiano, soprattutto nel momento in cui si fossero sovrapposti a questi errori di impostazione della politica economica anche gli errori di posizionamento strategico delle imprese. Il perseguimento di strategie di delocalizzazione e la ricerca dell’outsourcing da parte delle imprese avrebbe spostato l’asse del gioco competitivo dai fattori legati alla qualità e all’innovazione a meccanismi di competitività di prezzo e a scelte di investimenti commerciali e finanziari che avrebbero ridato spinta alle economie di scala di tipo commerciale e finanziario, ma avrebbero al contempo raffreddato la capacità di innovazione e la dialettica dinamica prodotta dai rapporti tra le imprese; ciò avrebbe dunque favorito la difesa di posizioni di rendita posizionale delle imprese con capacità di controllo di alcune filiere produttive internazionali.
Ciò ha spinto a dare sempre più enfasi alle strategie delle imprese che si orientavano sempre più alla riduzione dei costi del lavoro e alla competitività di prezzo anziché puntare (coerentemente al modello del distretto industriale) verso la produzione di qualità e verso l’innovazione (attraverso il continuo inserimento di nuove competenze professionali). Che fosse possibile una via diversa che puntasse alla crescita della qualità delle risorse umane, al crescente reclutamento di competenze tecnico-‐professionali elevate9, portatrici di innovazione e cambiamento, alla diversificazione della produzione e alla differenziazione dei prodotti è ormai abbastanza chiara ed è stata sostenuta con dovizia di argomentazioni e con numerosi casi concreti da Arrighetti e Traù (2013), ma
9 Le politiche dell’innovazione e della formazione/occupazione potevano essere integrate attraverso misure e dispositivi che favorissero il reclutamento di queste figure professionali e che facessero interagire ricerca e industria, come è avvenuto in altri paesi.
purtroppo questa non è divenuta la linea strategica del paese e del sistema delle imprese italiane.
Per questo credo che sia opportuno richiamare l’attenzione sulla mancanza di coerenza della politica economica nazionale che, di fatto, ha determinato l’incapacità di “governance” del processo di ristrutturazione dei sistemi produttivi territoriali10. L’attenzione ai prezzi anziché al processo, alla statica comparata (e alla visione contabile) anziché al progetto di sviluppo e alla dinamica, ha fatto dimenticare la comprensione dei nessi logici tra economia-‐società-‐territorio che nel passato avevano funzionato e che, in alcune aree (precedentemente ricordate) ancora sono pilastri fondamentali dell’organizzazione economica e sociale.
Per concludere, valorizzazione delle risorse del territorio e sviluppo delle competenze rappresentano due obiettivi che viaggiano parallelamente ma che devono essere tutelati e salvaguardati per la sostenibilità e la durabilità dei sistemi produttivi locali e della qualità della vita dei cittadini. Una competitività basata sulle competenze e sulla qualità della produzione, del lavoro e del territorio è possibile come è dimostrato dalla capacità di tenuta occupazionale delle aree e dei comparti produttivi, soprattutto nella meccanica strumentale (accompagnata dalla capacità di competitività delle imprese sui mercati esteri) in cui la strategia delle imprese è maggiormente orientata alla qualità e all’innovazione.
Le risorse del territorio e l’identità e la sostenibilità di lungo periodo dipendono, dunque, dalla capacità di coinvolgere (con una partecipazione diffusa alla costruzione del futuro) diversi attori (privati e pubblici) nel gioco complesso della produzione di nuove risorse distintive e dei necessari processi di cambiamento che sono alla base di una competitività basata sulla qualità e sull’innovazione.
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10 Una chiara indicazione del cambiamento nell’orientamento dei policy maker è offerta dal passaggio da politiche di sostegno dei distretti a politiche di sostegno delle reti di impresa che è dapprima iniziata a livello nazionale per poi diffondersi progressivamente praticamente in tutte le regioni.
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