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1 XXVIII Convegno SISP – Perugia 11-13 settembre 2014 Panel “Teoria della scelta razionale e analisi della politica: un tributo a Paolo Martelli” Teorie razionali della politica e normatività Francesca Pasquali Dip. di Scienze Sociali e Politiche Università degli Studi di Milano [email protected] C’è stato un momento di intenso scambio tra teoria razionale della politica e teoria politica normativa. In effetti, negli anni in cui la teoria della scelta razione inizia a essere applicata all’analisi della politica, si riscontra una particolare attenzione rispetto alle implicazioni normative dei modelli elaborati e un notevole interesse nei confronti della riflessione filosofica. Analogamente, nel periodo in cui l’indagine normativa riacquisisce autorevolezza, gli strumenti della teoria della scelta razionale sono utilizzati per giustificare i principi o i modelli proposti e per fare chiarezza circa i vincoli da considerare nell’elaborarli. Questo saggio si propone di indagare cosa abbia reso possibile e proficua la collaborazione tra due approcci che perseguono finalità differenti. A questo proposito, sembra opportuno tenere presente, in primo luogo, l’orientamento della scienza politica nel momento in cui la collaborazione comincia a svilupparsi. Infatti, il comportamentismo allora predominante risulta insoddisfacente tanto da una prospettiva normativa, quanto alla luce degli impegni esplicativi propri delle teorie politiche positive. Tuttavia, sebbene condivisa, l’insoddisfazione è motivata da ragioni diverse ed è quindi il caso di chiarire meglio perché il superamento del comportamentismo abbia favorito il confronto tra teorici positivi e teorici normativi. In particolare, come il prossimo paragrafo evidenzia, l’approccio razionale promuove impegni teorici di più ampio respiro rispetto a quelli che contraddistinguono il comportamentismo e, in questo modo, contribuisce a riabilitare la riflessione teorica di carattere normativo. Se questa lettura può spiegare l’interesse dei filosofi politici verso la teoria della scelta razionale e i suoi esiti, non sembra sufficiente, invece, per rendere conto dell’attenzione che gli esponenti dell’approccio razionale riservano agli sviluppi dell’indagine normativa. È dunque necessario considerare un altro elemento. Come il secondo paragrafo suggerisce, le premesse metodologiche della teoria della scelta razionale, oltre a rivelarsi congeniali per l’indagine normativa, rendono tale indagine un punto di riferimento indispensabile per fare luce su alcuni aspetti del processo decisionale, che costituisce uno dei cardini dell’analisi messa in campo dall’approccio razionale.

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XXVIII Convegno SISP – Perugia 11-13 settembre 2014 Panel “Teoria della scelta razionale e analisi della politica: un tributo a Paolo Martelli”

Teorie razionali della politica e normatività

Francesca Pasquali

Dip. di Scienze Sociali e Politiche Università degli Studi di Milano

[email protected]

C’è stato un momento di intenso scambio tra teoria razionale della politica e teoria politica normativa. In

effetti, negli anni in cui la teoria della scelta razione inizia a essere applicata all’analisi della politica, si

riscontra una particolare attenzione rispetto alle implicazioni normative dei modelli elaborati e un notevole

interesse nei confronti della riflessione filosofica. Analogamente, nel periodo in cui l’indagine normativa

riacquisisce autorevolezza, gli strumenti della teoria della scelta razionale sono utilizzati per giustificare i

principi o i modelli proposti e per fare chiarezza circa i vincoli da considerare nell’elaborarli. Questo saggio

si propone di indagare cosa abbia reso possibile e proficua la collaborazione tra due approcci che

perseguono finalità differenti. A questo proposito, sembra opportuno tenere presente, in primo luogo,

l’orientamento della scienza politica nel momento in cui la collaborazione comincia a svilupparsi. Infatti, il

comportamentismo allora predominante risulta insoddisfacente tanto da una prospettiva normativa,

quanto alla luce degli impegni esplicativi propri delle teorie politiche positive. Tuttavia, sebbene condivisa,

l’insoddisfazione è motivata da ragioni diverse ed è quindi il caso di chiarire meglio perché il superamento

del comportamentismo abbia favorito il confronto tra teorici positivi e teorici normativi. In particolare,

come il prossimo paragrafo evidenzia, l’approccio razionale promuove impegni teorici di più ampio respiro

rispetto a quelli che contraddistinguono il comportamentismo e, in questo modo, contribuisce a riabilitare

la riflessione teorica di carattere normativo. Se questa lettura può spiegare l’interesse dei filosofi politici

verso la teoria della scelta razionale e i suoi esiti, non sembra sufficiente, invece, per rendere conto

dell’attenzione che gli esponenti dell’approccio razionale riservano agli sviluppi dell’indagine normativa. È

dunque necessario considerare un altro elemento. Come il secondo paragrafo suggerisce, le premesse

metodologiche della teoria della scelta razionale, oltre a rivelarsi congeniali per l’indagine normativa,

rendono tale indagine un punto di riferimento indispensabile per fare luce su alcuni aspetti del processo

decisionale, che costituisce uno dei cardini dell’analisi messa in campo dall’approccio razionale.

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1. Impegni teorici: comportamentismo vs. teorie razionali e normative

Come anticipato, il riferimento alla condivisa insoddisfazione verso il comportamentismo fornisce una

prima chiave di lettura per rendere conto dei fattori che hanno contribuito ad alimentare la collaborazione

tra teorie politiche razionali e teorie politiche normative. Si tratta di un aspetto che richiede però alcune

puntualizzazioni. In effetti, se le ragioni che motivano l’insoddisfazione normativa verso il

comportamentismo sono piuttosto evidenti, quelle che animano i teorici razionali sono più sottili e

rimandano a una diversa interpretazione circa gli standard di scientificità e rigore da adottare. Da un lato, il

comportamentismo riconduce la scientificità dell’analisi politica all’impiego di una metodologia in cui

l’indagine e la verifica empirica sono centrali. In questo modo, il comportamentismo squalifica come

infondata la riflessione normativa, al pari di ogni approccio che non adoperi una metodologia di carattere

empirico. Dall’altro lato, l’approccio razionale alla politica condivide con il comportamentismo l’enfasi sulla

scientificità, ma se ne distanzia con l’intento di elaborare un impianto teorico più rigoroso. Infatti, a

differenza del comportamentismo, per l’approccio razionale la riflessione teorica è centrale e le sue finalità

sono concepite in modo meno restrittivo, consentendo così alla teoria politica normativa di riacquisire

autorevolezza.

È il caso di segnalare che, quando il comportamentismo si afferma, la filosofia politica ha già da tempo

abbandonato impegni normativi per concentrarsi sull’analisi dei concetti politici, chiarendone il significato e

lo sviluppo storico1. Infatti, la fondatezza dell’indagine normativa era già stata minata dal successo del

neopositivismo. In un’ottica neopositivista, le proposizioni la cui validità non è accertabile attraverso

verifica empirica sono bollate come metafisiche e considerate prive di significato. Di conseguenza, i giudizi

normativi sono ritenuti privi di contenuto cognitivo e concepiti, al massimo, come espressione di

preferenze soggettive2. In effetti, il neopositivismo traccia una netta distinzione tra fatti e valori, tra

asserzioni descrittive e asserzioni normative, e riconduce l’indagine normativa a un ambito epistemico

distinto e qualitativamente inferiore rispetto a quello della ricerca scientifica di carattere empirico.

1 Questa è la situazione descritta, per esempio, in Easton 1951. David Easton ritiene negativa la scomparsa di quella

che definisce “creative value theory”, ovvero di quel tipo di riflessione teorica che non si limita a indagini di carattere storico o concettuale, ma che è impegnata a “riformulare il contenuto dei valori” (Easton 1951, p. 40 – la traduzione di questa citazione è mia, così come quella delle altre citazioni tratte da testi non pubblicati in italiano). Per Easton, un approccio normativo alla politica sarebbe, non solo di per sé auspicabile, ma anche funzionale all’analisi empirica, indirizzandola nella selezione delle questioni da affrontare. Nel panorama comportamentista, una simile posizione è però decisamente isolata. Come lo stesso Easton osserva, “nel periodo comportamentista, la ricerca morale è […] morta” (Easton 1985, p. 146). Una simile diagnosi è proposta da più parti e il riferimento classico è all’asserzione provocatoria di Peter Laslett che, nel 1956, scrive: “per il momento, ad ogni modo, la filosofia politica è morta” (Laslett 1956, p. vii). L’aspetto qui rilevante è che Laslett riconduce la morte della filosofia politica al prestigio delle scienze dure tra gli scienziati sociali, prestigio che rende difficile rivendicare la possibilità di affrontare in modo sensato fatti e fenomeni politici attraverso una metodologia differente rispetto a quella di carattere empirico. 2 Si veda, per esempio, Carnap 1935.

3

Il comportamentismo adotta un’impostazione affine a quella del neopositivismo: uno dei suoi capisaldi è

proprio l’assunto secondo cui “la valutazione etica e la spiegazione empirica implicano due differenti tipi di

proposizioni che, per ragioni di chiarezza, devono essere mantenute analiticamente distinte” (Easton 1967,

p. 16). Sulla base di una simile distinzione, i comportamentisti fanno propria anche l’idea che solo un

approccio privo di connotazioni valoriali sia all’altezza di criteri scientifici di oggettività. Al pari del

neopositivismo, dunque, il comportamentismo equipara, da un lato, giudizi normativi e preferenze

soggettive e, dall’altro, metodo rigoroso e metodo empirico. Infatti, i comportamentisti ritengono che le

questioni normative “eccedano di gran lunga i metodi coerenti con l’approccio scientifico” (Easton 1997, p.

22), l’unico ritenuto pienamente affidabile quando si tratta di giungere a conoscenza rigorosa. In questo

modo, l’aspirazione a rivendicarne la correttezza di tesi e principi normativi appare infondata ed è negata la

possibilità di indagarne in modo attendibile la validità. Inoltre, i comportamentisti adottano una particolare

interpretazione della riflessione teorica e dei suoi compiti che tende a svuotare ulteriormente di senso la

teoria politica normativa, un’interpretazione che Sheldon Wolin definisce “deflazionistica” (Wolin 1969, p.

1083) e priva di “visione” (Wolin 1969, p. 1073).

L’impianto teorico messo in campo dal comportamentismo risponde, per un verso, a una specifica

concezione della politica. Come osserva Wolin, con il comportamentismo, si afferma l’idea che “il principale

obiettivo – acquisire conoscenza scientifica della politica – dipenda dall’adozione […] di specifiche tecniche”

(Wolin 1969, p. 1063). Sebbene spesso presentata come neutrale, l’adozione di un certo metodo o di certe

tecniche implica, non solo un particolare sguardo sulla realtà, ma anche, come Wolin sottolinea, una

determinata concezione della realtà stessa: “l’impiego di un metodo assume, o perfino richiede che il

mondo sia di un certo tipo piuttosto che di un altro se le tecniche devono essere efficaci” (Wolin 1969, p.

1064). Il mondo che rende sensati metodi e tecniche comportamentiste è contraddistinto dalla presenza di

regolarità. I comportamentisti assumono, infatti, che “nel comportamento politico ci siano uniformità che

possono essere scoperte” e che possono “essere espresse attraverso generalizzazioni o teorie dotate di

valore esplicativo o predittivo” (Easton 1967, p. 16). Di conseguenza, la teoria è finalizzata all’elaborazione

di generalizzazioni che permettano di far quadrare i dati osservativi, rendendo così conto delle regolarità

rilevate empiricamente.

D’altra parte, il comportamentismo modella i propri impegni teorici alla luce di un particolare ethos

scientifico, caratterizzato dall’enfasi sull’oggettività, sul distacco scientifico e, soprattutto, sulla fedeltà ai

fatti (cfr. Wolin 1969, p. 1064). Alla luce di simili criteri, la portata della teoria è strettamente circoscritta e

risulta definita, come suggerisce Wolin, dal “rimuginare su fatti che sono selezionati alla luce di quelli che si

assumono essere requisiti funzionali del paradigma esistente” (Wolin 1969, p. 1082). I compiti della teoria

sono, in effetti, definiti al ribasso. La teoria è chiamata a mettere in campo generalizzazioni che, ricavate a

partire da osservazioni empiriche, hanno come unico obiettivo quello di riflettere fedelmente i fatti. La

4

teoria non ha dunque margini di autonomia rispetto all’indagine empirica: non c’è alcuno spazio per

l’immaginazione teorica e la teoria non può offrire alcuna visione rispetto a possibilità che eccedano i limiti

dell’ambito fattuale3. In base a una simile concezione riduzionistica della teoria, della sua portata e delle

sue finalità, l’indagine normativa non ha le credenziali necessarie per qualificarsi come approccio teorico

rigoroso. L’indagine normativa, infatti, non mira a fornire un resoconto degli stati di cose osservabili, ma a

delineare criteri per valutarli o per mostrare la desiderabilità di modelli alternativi. È promuovendo una

diversa concezione della teoria e dei suoi compiti che l’approccio razionale contribuisce a riabilitare la

teoria politica normativa.

Come i comportamentisti, gli autori che adottano l’approccio razionale intendano rivendicare la scientificità

dello studio di fenomeni ed eventi politici. Tuttavia, tale approccio non è assimilabile a quello

comportamentista e, anzi, teorici positivi e teorici della scelta razionale prendono le distanze dal

comportamentismo perché lo considerano carente in termini esplicativi: accertare regolarità o correlazioni

statistiche e verificare empiricamente la validità di certe generalizzazioni non equivale a fornire spiegazioni

soddisfacenti. Come osserva per esempio William Riker, “le spiegazioni […] non sono molto convincenti se

sono accurate soltanto in termini probabilistici e giustificate solo empiricamente” (Riker 1990, p. 167). In

effetti, da un lato, la semplice verifica empirica di una generalizzazione non è conclusiva, dato che una

generalizzazione può essere smentita da osservazioni successive e, dall’altro, rilevare empiricamente la

presenza di una regolarità “non rivela la ragione della regolarità” (Riker 1990, p. 176), non spiega cioè

perché si osservi una certa regolarità. Per superare simili limiti, l’approccio razionale mette in campo un

impianto deduttivo e non induttivo: le generalizzazioni da sottoporre a verifica empirica sono sviluppate,

non a partire da regolarità osservate, ma per via teorica e in modo assiomatico, sulla base di assunti

minimali riguardanti la razionalità degli attori politici4. Procedere in questo modo consente di rivendicare in

modo più stringente la validità delle generalizzazioni proposte: come sottolinea Riker, la teoria offre una

“ragione convincente e logica” per ritenere che gli oggetti cui una generalizzazione si applica debbano

sempre presentare certi attributi e questo consente di mostrare che una “relazione tra soggetto e predicato

è più di una coincidenza storica, che è in effetti necessaria e che persisterà in tutti i casi futuri” (Riker 1977,

p. 15).

Se in un’ottica comportamentista l’enfasi ricade sull’individuazione empirica di regolarità di cui la teoria è

chiamata a rendere conto attraverso generalizzazioni, il focus dell’approccio razionale è sull’elaborazione di

3 Per un resoconto più completo del ruolo che l’immaginazione tradizionalmente ricopre nella teoria politica, si veda

Wolin 1960, in particolare pp. 17-20. 4 Riferendosi alla teoria politica positiva, Sonja Amadae e Bruce Bueno de Mesquita scrivono: “il suo cugino

apparentemente più prossimo, l’allora fiorente approccio comportamentista, enfatizzava la correlazione statistica e la verifica empirica, ma era privo del concetto di trattamento assiomatico del comportamento umano e non faceva affidamento su assunti minimalisti che generano leggi generali” (Amadae e Bueno de Mesquita 1999, p. 272).

5

un apparato teorico rigoroso che offra una base più solida alle generalizzazioni da corroborare tramite

verifica empirica. La teoria assume dunque un ruolo di primo piano: come scrive Riker, “nel modello della

scelta razionale, c’è prima di tutto una teoria” (Riker 1997, p. 196). Inoltre, la riflessione teorica non

risponde soltanto all’esigenza di fare ordine tra i dati empirici: la teoria, come scrive Kenneth Shepsle, è

“più di una ricapitolazione delle osservazioni” (Shepsle 1996, p. 220) e gli impegni teorici risultano più

ambiziosi e variegati. In effetti, i modelli elaborati sullo sfondo della teoria della scelta razionale possono

avere finalità predittive o essere sviluppati con l’obiettivo di chiarire il meccanismo causale di processi e

fenomeni osservati5, ma possono anche essere funzionali ad aprire nuove piste di ricerca, “generando

interessanti e non ovvie proposizioni in merito al fenomeno di interesse” (Clarke e Primo 2007, p. 744).

Senza l’onere di corrispondere fedelmente ai fatti, la formalizzazione teorica può mettere in luce aspetti

inaspettati e far emergere “risultati controintuitivi” (Clarke e Primo 2007, p. 744), indirizzando così

l’attenzione verso nuove questioni da affrontare.

Questa concezione meno restrittiva della teoria e dei suoi compiti si rivela congeniale in un’ottica

normativa. Se la teoria assume un ruolo prioritario e riacquista uno statuto di autonomia rispetto

all’osservazione empirica, infatti, la riflessione teorica di carattere normativo non è squalificata in partenza

e può aspirare allo stesso rigore riconosciuto alle teorie che perseguono finalità esplicative. Come osserva

Morris Fiorina, “le teorie sono teorie” e “la struttura di una teoria normativa non sembra differente da

quella di una teoria positiva” (Fiorina 1975, p. 149). L’approccio razionale alla politica diventa così un punto

di riferimento per riaffermare la sensatezza dell’indagine normativa. In particolare, gli strumenti sviluppati

dai teorici della scelta razionale sono impiegati per mettere alla prova la validità di tesi normative o per

rivendicarne la correttezza, per elaborare e giustificare principi volti a regolare la condotta pubblica o

proposte di disegno istituzionale. In Una teoria della giustizia, testo che, come è unanimemente

riconosciuto, segna un punto di svolta per la riabilitazione degli impegni normativi della filosofia politica,

John Rawls scrive:

I principi di giustizia possono essere concepiti come principi che verrebbero scelti da persone razionali, e […] le concezioni della giustizia possono essere spiegate e giustificate in questo modo. La teoria della giustizia è una parte, forse la parte più significativa, della teoria della scelta razionale. (Rawls 1971, p. 37)

In effetti, Rawls adotta una prospettiva affine a quella della teoria della scelta razionale e ne sfrutta alcune

assunzioni basilari, riconducendo l’indagine in merito alla nozione di giustizia a un esame dei principi che,

5 Per esempio, nell’introduzione a Analytic Narratives, gli autori scrivono “cerchiamo di rendere conto degli esiti

identificando ed esplorando i meccanismi che li generano” e, “modellando il processo che ha prodotto l’esito, cerchiamo di catturare l’essenza delle storie” (Bates et al. 1998, p. 12). Sul potere esplicativo della teoria della scelta razionale, si veda Lovett 2006.

6

date certe condizioni, individui razionali sceglierebbero per regolare pratiche e istituzioni politiche6. Non è

soltanto Rawls a utilizzare assunzioni, strumenti ed esiti della teoria della scelta razionale in chiave

normativa. Si potrebbero citare, per esempio, Russell Hardin, David Gauthier e John Binmore, che

impiegano le assunzioni della teoria della scelta razionale e i modelli elaborati dalla teoria dei giochi per

giustificare sistemi cooperativi7, così come si potrebbe richiamare il continuo confronto che i teorici

normativi della democrazia intrattengono con gli esiti della teoria della scelta sociale8. Soffermarsi sul

lavoro di questi autori e su queste prospettive di ricerca permetterebbe di evidenziare in modo più

puntuale il contributo della teoria razionale allo sviluppo della riflessione normativa nella seconda metà del

secolo scorso. Tuttavia, alla luce degli obiettivi di questo saggio, è opportuno concentrarsi su un aspetto

diverso. Infatti, se le considerazioni introdotte fin a questo punto possono spiegare perché i teorici

normativi prestino particolare attenzione agli sviluppi della teoria della scelta razionale, non sono sufficienti

a spiegare perché i teorici che adottano l’approccio razionale mostrino un notevole interesse nei confronti

delle teorie politiche normative. Per fare luce su questo aspetto, è opportuno, come anticipato, esaminare

le assunzioni metodologiche che contraddistinguono la teoria della scelta razionale. A questa analisi è

dedicato il prossimo paragrafo.

2. Scelte e ragioni: tra prospettiva positiva e prospettiva normativa

L’attenzione da parte degli esponenti dell’approccio razionale nei confronti degli sviluppi della teoria

politica normativa non è spiegata in modo appropriato dalle osservazioni proposte nel paragrafo

precedente. Tali osservazioni si limitano a suggerire che, a differenza del comportamentismo, l’approccio

razionale non è ostile alla trattazione normativa di questioni politiche e, anzi, promuove una concezione

6 Rawls non si limita a evidenziare la centralità della teoria della scelta razionale per il suo argomento. In un testo

precedente alla pubblicazione di Una teoria della giustizia, Rawls sottolinea le affinità della sua indagine con quella sviluppata da Buchanan e Tullock in The Calculus of Consent (Buchanan e Tullock 1962) e scrive: “i due argomenti sono simili dato che in entrambi i casi c’è un tentativo di formulare un principio generale che si applichi alla scelta e al disegno di una costituzione, e la decisione in merito alla costituzione deve essere presa […] in assenza di certi tipi di informazione e deve regolare le successive decisioni e azioni” (Rawls 1963, p. 74). Più avanti, tuttavia, Rawls prenderà le distanze dalla teoria della scelta razionale e qualificherà meglio la specificità del proprio approccio. In “Justice as Fairness: Political not Metaphysical”, Rawls afferma: “in A Theory of Justice, ho commesso un errore (e un errore profondamente ingannevole) presentando la teoria della giustizia come parte della teoria della scelta razionale […]. Avrei dovuto dire che, per caratterizzare le deliberazioni delle parti in quanto rappresentanti di persone libere ed eguali, la concezione della giustizia come equità utilizza una trattazione della scelta razionale soggetta a condizioni ragionevoli; e fa tutto questo all’interno di una concezione politica della giustizia che, naturalmente, è anche una concezione morale” (Rawls 1985, p. 187). In particolare, secondo Rawls, non è possibile “derivare il contenuto della giustizia nel contesto di una struttura la cui sola idea normativa sia quella del razionale” (Rawls 1985, p. 187). A questo proposito, è opportuno segnalare che, sebbene alcuni esiti del lavoro di Rawls siano presi sul serio dai teorici della scelta razionale e discussi di conseguenza, alcuni mettono in dubbio la coerenza dell’approccio rawlsiano con l’impianto della teoria della scelta razionale. Per alcuni, infatti, un simile approccio si fonda su premesse che eccedono quelle adottate della teoria della scelta razionale e la successiva elaborazione di Rawls sembra confermare questa interpretazione. 7 Si vedano, per esempio, Hardin 1982 e 1988, Gauthier 1986 e Binmore 1994 e 1998.

8 Il riferimento è a Arrow 1951 e Riker 1982, testi spesso citati nella letteratura normativa sulla democrazia.

7

degli impegni teorici congeniale a riaffermare come rigorosa la riflessione di carattere normativo. Tuttavia,

negli anni in cui l’approccio razionale inizia ad acquisire una specifica fisionomia, non solo viene meno

l’accusa di infondatezza rivolta all’indagine normativa, dal neopositivismo prima e dal comportamentismo

poi, ma si riscontra uno scambio interdisciplinare piuttosto intenso tra prospettiva positiva e prospettiva

normativa. Di questo scambio testimonia, per esempio, la variegata composizione della Public Choice

Society, ai cui incontri partecipano non soltanto esponenti di quello che, nella definizione di Sonja Amadae,

è il “rational choice hall of fame” (Amadae 2003, p. 145) – di cui fanno parte, tra gli altri, James Coleman,

Anthony Downs, John Harsanyi, Roland McKean, Mancur Olson, Vincent Ostrom, William Riker, Thomas

Schelling, Gordon Tullock e Aaron Wildavsky – ma anche filosofi politici, come Rawls. Per un verso, infatti, i

teorici della scelta razionale, sebbene consapevoli delle differenti finalità di approcci positivi e approcci

normativi, sono sensibili alla possibilità di individuare un punto d’incontro tra analisi positiva e indagine

normativa e prestano particolare attenzione alle implicazioni normative della loro ricerca. Come scrive per

esempio James Buchanan:

Una scienza della politica positiva dovrebbe analizzare il funzionamento di un insieme di regole per prendere decisioni collettive, siano esse realmente esistenti o semplicemente postulate, del tutto indipendentemente dalla loro efficacia nel promuovere determinati “scopi della società”. Al contrario, una teoria normativa della politica dovrebbe classificare differenti insiemi di regole in base alla loro prevista efficienza nel produrre certi scopi […]. La teoria normativa dev’essere edificata e trarre la sua forza dalle proposizioni descrittive della scienza […]. Pertanto, lo scopo ultimo della scienza è quello di favorire l’elaborazione di proposizioni normative. Cerchiamo di capire come funziona il mondo per

“migliorarlo”: ciò vale tanto per le scienze naturali, quanto per quelle sociali. (Buchanan 1962, p. 404)9

Anche Riker evidenzia la portata normativa della teoria della scelta sociale e, nella prefazione a Liberalismo

contro Populismo, indica, tra i principali interlocutori cui il libro è rivolto, i filosofi politici. Scrive Riker: “in

primo luogo, intendo dimostrare ai filosofi politici la rilevanza ineludibile della teoria della scelta sociale per

i problemi normativi della filosofia politica” (Riker 1982, p. XLVII).

D’altra parte, i teorici della scelta razionale mostrano un notevole interesse per gli sviluppi della riflessione

filosofica. A questo proposito, è possibile fare riferimento, per esempio, ai saggi che Arrow dedica alla

discussione di alcuni temi sviluppati da Rawls in Una teoria della giustizia10. Non solo Arrow riconosce i

meriti dell’approccio rawlsiano per l’indagine in merito alla nozione di giustizia, ma afferma:

Come economista abituato a molti elementari fraintendimenti rispetto alla natura dell’economia da parte di filosofi e scienziati sociali, devo esprimere la mia gratitudine per la sofisticazione e la conoscenza che Rawls dimostra. (Arrow 1973a, p. 245).

9 In linea con le osservazioni di Buchanan, Norman Schoffield sostiene che “la principale motivazione per chi si occupa

di teoria della scelta razionale, nel corso della sua evoluzione a partire dagli anni ’50, è stata creare una teoria integrata, empirica del mercato e della politica [polity] che sia funzionale all’obiettivo normativo di ideare ‘buone’ istituzioni” (Schofield 1996, p. 190). 10

Si vedano Arrow 1973a e Arrow 1973b.

8

In effetti, oltre ad Arrow, altri teorici della scelta razionale, come Harsanyi, intavolano un serrato dibattito

su aspetti specifici emersi dal lavoro di Rawls – quali i rispettivi meriti del principio dell’utilità media e del

criterio di maximin o l’appropriatezza di adoperare l’utilità attesa piuttosto che i beni primari, o viceversa,

per il confronto interpersonale11 – riconoscendo in questo modo che la riflessione normativa può

contribuire attivamente alla teoria della scelta razionale. Si tratta, però, di capire perché la teoria politica

normativa sia ritenuta rilevante alla luce degli obiettivi perseguiti dai teorici di orientamento positivo.

Per chiarire questo aspetto, sembra plausibile fare riferimento alle premesse di carattere metodologico che

contraddistinguono la teoria della scelta razionale. Non è il caso di entrare troppo nei dettagli e si può

lasciare sullo sfondo il complicato dibattito sullo statuto di simili premesse, sulla loro appropriatezza

descrittiva e sulla loro resa in vista di finalità empiriche. Infatti, per chiarire perché i teorici della scelta

razionale prestino particolare attenzione al lavoro dei teorici normativi sembra sufficiente richiamare alcuni

punti chiave. In particolare, l’approccio razionale assume come unità d’analisi l’individuo, inteso come

soggetto razionale, dotato cioè di capacità decisionali che gli consentono di scegliere quale corso di azione

seguire o quale condotta adottare alla luce delle finalità che si propone e sulla base di ragioni funzionali a

vagliare l’adeguatezza delle opzioni disponibili. L’approccio razionale riconduce dunque la spiegazione di

quanto avviene sulla scena politica alle scelte individuali e all’interazione tra individui. L’adozione di simili

premesse, che costituiscono il fulcro dell’individualismo metodologico, può rispondere a esigenze e

impegni di carattere differente. Per un verso, può essere giustificata in chiave normativa. Per esempio,

sottolineando “il valore normativo di tale metodologia”, Paolo Martelli scrive:

L’affermazione che il fondamento di ogni decisione collettiva risiede nelle volontà interagenti degli individui è al tempo stesso la dichiarazione del proposito di vincolare l’analisi sociale alle possibilità pratiche accette alla filosofia politica liberale, che fa risalire tutte le forme di potere alle convenzioni intuite o pattuite tra i cittadini. La sovranità degli individui è poi operativamente definita dall’ipotesi di razionalità che consiste nella capacità di ciascuno di valutare costi e benefici di ogni scelta così come sono soggettivamente apprezzati, ed esclude pertanto che il comportamento individuale sia eterodiretto. (Martelli 1983, p. 15)

D’altra parte, le premesse della teoria della scelta razionale possono essere giustificate con riferimento

all’esigenza di fornire un resoconto di eventi e fenomeni politici che, rispetto a quello offerto dal

comportamentismo, risulti più fedele all’esperienza diretta degli individui. Riker, per esempio, scrive:

È certamente vero che uno stretto comportamentismo sembra precludere la possibilità di esaminare motivi, scelte e intenzioni. Se si guarda al comportamento solo da un punto di vista esterno alle persone e si deve tacere di quello che accade all’interno, è facile inferire che l’interiorità sia meccanica. Questa inferenza, tuttavia, contraddice il senso che la maggior parte delle persone attribuisce alla propria esperienza di scelta e intenzionalità ed è, quindi, molto difficile accettare la proposizione secondo cui queste cose sono irreali. Di conseguenza, una scienza sociale basata su questa esperienza comune

11

Oltre ai testi citati nella nota precedente, si può fare riferimento, per esempio, a Harsanyi 1975.

9

richiede un’ontologia in cui fini e intenzioni sono una parte reale del mondo sociale tanto quanto lo è il comportamento osservabile. (Riker 1977, p. 29)

In un’ottica comportamentista, in effetti, il comportamento è concepito come una reazione all’influenza di

fattori sociali – dall’appartenenza a un certo gruppo all’adesione a una certa religione, passando per

l’orientamento ideologico e così via – e di attitudini o predisposizioni individuali, di natura psicologica per

esempio. Di conseguenza, il comportamentismo adotta una visione deterministica, nella quale non c’è

spazio per il soggetto, le sue intenzioni e le sue scelte12. Riassumendo alcune delle critiche mosse al

comportamentismo, infatti, David Easton evidenzia che spesso gli è stata imputata una specifica concezione

del metodo scientifico che “indirizza l’attenzione […] verso le condizioni che influenzano e vincolano

l’azione, risultando […] una disciplina priva di soggetto, inumana, in cui le intenzioni e i fini umani hanno un

ruolo creativo limitato” (Easton 1997, p. 15).

Un impianto deterministico è congeniale allo studio scientifico della politica, in quanto consente di

sviluppare generalizzazioni, ma contraddice l’esperienza degli individui perché nega il ruolo della scelte

individuali. In modo speculare, l’indeterminismo permette di rendere conto del ruolo della deliberazione e

delle intenzioni individuali, ma mina la possibilità di mettere a punto generalizzazioni affidabili. Secondo

Riker, la teoria della scelta razionale “elude i difetti sia del determinismo sia dell’indeterminismo” (Riker

1984, p. 1): rende centrale il processo di scelta individuale, rompendo con il determinismo, e, al tempo

stesso, assicura la possibilità di generalizzare, in quanto assume che “tutte le persone con gli stessi obiettivi

nelle stesse circostanze scelgano razionalmente la stessa alternativa” (Riker 1984, p. 2). In questo modo,

senza rinunciare a rivendicare la scientificità della conoscenza relativa a fenomeni ed eventi politici, la

teoria della scelta razionale fornisce un resoconto fenomenologicamente adeguato, un resoconto in cui

l’individuo e le sue scelte sono centrali. In effetti, come osserva Easton, l’approccio razionale “ha riportato il

soggetto nell’equazione causale” e “ne ha effettivamente fatto il fulcro” (Easton 1997, p. 21)13

12

Un’interessante indagine in merito le implicazioni deterministiche delle assunzioni epistemologiche e metodologiche che contraddistinguono il comportamentismo è sviluppata in Almond e Genco 1977 con riferimento alla nozione di causalità. 13

Come segnala H. Donald Forbes, tratteggiando differenze e affinità tra approcci che, come il comportamentismo, privilegiano metodologie statistiche e approcci che adottano la teoria della scelta razionale, “entrambi possono essere intesi come volti a contribuire alla conoscenza causale, così come è generalmente concepita, vale a dire, come conoscenza oggettiva rispetto alle condizioni necessarie e sufficienti degli eventi. In linea di principio, l’analisi statistica di variabili dipendenti e indipendenti va dritta al punto, mentre la modellizzazione formale del tipo associato alla teoria della scelta razionale gli si avvicina attraverso una strada indiretta. Prova a isolare e spiegare schemi basilari di interazione sociale sviluppando le implicazioni di assunzioni individualistiche circa la razionalità strumentale” (Forbes 2004, p. 66). La strada indiretta adottata dalla teoria della scelta razionale passa proprio per l’individuo inteso come agente razionale. Se questo aspetto è qui enfatizzato, in un’ottica normativa, come un punto di forza della teoria della scelta razionale – perché, come evidenziato più avanti, rende sensata l’indagine normativa – spesso, invece, è interpretato in chiave negativa. In effetti, non è raro che, sulla base di un grossolano fraintendimento delle sue assunzioni di fondo, la teoria della scelta razionale sia ricondotta a un approccio animato da ambizioni normative e volto a promuovere una visione individualistica e utilitaristica, considerata moralmente discutibile.

10

Concentrare l’analisi sull’individuo, concepito come soggetto razionale e intendere i fenomeni politici come

esito dell’interazione tra individui e loro scelte implica una specifica concezione della politica: significa fare

propria “l’idea che i giudizi e gli interessi degli uomini sono il motore dell’organizzazione e della costituzione

della società” (Martelli 1983, p. 11). In effetti, per l’approccio razionale, pratiche e istituzioni politiche non

sono date, né determinate da fattori che eccedono gli individui e le loro capacità decisionali: pratiche e

istituzioni sono esito di scelte e potrebbero dunque essere diverse da come si presentano all’osservazione

empirica. È opportuno enfatizzare che un’impostazione di questo genere è condizione di possibilità per

l’indagine normativa: solo se pratiche e istituzioni possono essere diverse da come sono, è sensato

indagare come dovrebbero essere e valutare la desiderabilità di opzioni alternative. Anche la

caratterizzazione che la teoria della scelta razionale offre dell’individuo è congeniale all’indagine normativa

e, anzi, costituisce una seconda condizione necessaria affinché gli impegni della teoria normativa siano

sensati. Infatti, la teoria politica normativa è impegnata a rivendicare le proprie tesi e le proprie valutazioni

sulla base di ragioni che possano essere convincenti per gli individui ai quali si rivolge. È quindi

indispensabile assumere che gli individui siano capaci di recepire e valutare le ragioni offerte e,

eventualmente, di agire di conseguenza. L’aspetto interessante è che, ponendo l’enfasi sulla razionalità e le

capacità decisionali degli attori politici, l’approccio razionale, non solo rende sensata l’indagine normativa,

ma ne fa un tassello essenziale per l’analisi della politica.

Se ciò che conta è, come per il comportamentismo, rilevare relazioni tra fattori sociologici o attitudini

psicologiche, da un lato, e comportamento osservato, dall’altro, l’attore politico può essere

convenientemente trattato come una black-box e si può concentrare l’attenzione esclusivamente sugli

input e sugli output, ignorando il processo decisionale che conduce alla scelta di una specifica opzione.

All’interno di un impianto come quello comportamentista, l’indagine normativa è fuori luogo perché il

comportamento è declinato in termini deterministici e non c’è quindi spazio per il soggetto inteso in senso

proprio: non ci sono agenti capaci di decidere quali condotte adottare, ma solo oggetti che rispondono in

modo prevedibile e generalizzabile a certi stimoli. Se, invece, come per le teorie razionali, le scelte

individuali sono il fulcro dell’analisi, il processo decisionale è cruciale14 e considerazioni di carattere

normativo acquisiscono una maggiore rilevanza, in quanto offrono spunti per spiegare perché il

ragionamento attraverso il quale gli individui decidono come agire risponda a certe ragioni. In effetti, è il

caso di enfatizzare che una comprensione soddisfacente del processo decisionale chiama in causa

considerazioni che si muovono su vari livelli ed eccede i limiti dell’ambito positivo, sconfinando in quello

normativo.

14

È il caso di segnalare che questo non significa che il processo decisionale è l’unico elemento da considerare: è un elemento imprescindibile, al pari di altri, quali le condizioni esterne che influiscono, non solo sull’insieme delle opzioni disponibili, ma anche sulla formazione delle preferenze. Per interessanti considerazioni a questo proposito, si veda Satz e Ferejohn 1994.

11

Le teorie politiche positive indagano il processo decisionale alla luce dell’assunto di razionalità, adottando

una concezione sottile di quest’ultimo, secondo cui la razionalità coincide con la coerenza tra la scelta di

condotte o comportamenti, da un lato, e le preferenze, dall’altro. Gli individui sono considerati come

soggetti in grado di decidere quali condotte o quali corsi di azione seguire in base a standard che

consentono di vagliare ragioni pro e contro le opzioni disponibili. Nel ragionamento, entrano in gioco sia le

credenze individuali, che riguardano, per esempio, i vincoli rilevanti o l’esito di una determinata scelta, sia

le preferenze individuali, che riflettono i fini o gli impegni valoriali che gli attori fanno propri. L’analisi

positiva prende credenze e preferenze come date, focalizzando l’attenzione sul ragionamento messo in

campo e sull’interazione tra individui razionali. Questo permette di elaborare modelli che spiegano perché,

date certe condizioni, credenze e preferenze, si osservino certi esiti o modelli che mostrano quali esiti sia

plausibile aspettarsi una volta precisate preferenze, credenze e condizioni. In questo senso, è possibile che i

modelli teorici evidenzino uno scarto tra ciò che si osserva e ciò che si dovrebbe osservare se gli attori

fossero pienamente razionali. A seconda delle finalità specifiche, può essere necessario colmare lo scarto,

ricalibrando l’assunto di razionalità o specificando meglio le condizioni o le preferenze rilevanti, oppure lo

scarto può essere sfruttato per finalità normative. Infatti, l’elaborazione teorica consente identificare quali

scelte siano razionali e, quindi, quali corsi di azione dovrebbero essere adottati alla luce di certe preferenze

e credenze. Come scrive Jon Elster, sebbene “non ci dica quali dovrebbero essere i nostri obiettivi”, la teoria

della scelta razionale “ci dice cosa dovremmo fare per conseguire i nostri obiettivi al meglio delle nostre

possibilità”(Elster 1986, p. 1). In effetti, la teoria della scelta razionale ha, almeno implicitamente, una

dimensione normativa. Non è però questo il punto che vale qui la pena di sottolineare. L’aspetto rilevante,

piuttosto, è che un’indagine propriamente normativa può fare luce su alcuni aspetti del processo

decisionale che l’analisi positiva non indaga.

Concepire gli attori politici come agenti razionali, capaci cioè di orientare la propria condotta alla luce di

ragioni, consente di chiarire perché scelgano determinati corsi d’azione e di stabilire quali condotte

dovrebbero scegliere date certe preferenze e credenze. Tuttavia, se il processo decisionale è analizzato alla

luce dell’assunto di razionalità, sembra sia sensato indagare anche le ragioni per cui certe credenze e certe

preferenze siano autorevoli per gli individui, ovvero perché attori razionali ritengano, o dovrebbero

ritenere, vere certe credenze e desiderabili certi fini. È un tipo di indagine che eccede finalità di carattere

positivo. Eppure, per un verso, questioni di questo tipo sono direttamente chiamate in causa dalle

assunzioni della teoria della scelta razione. Come scrive Isaiah Berlin:

Qualunque cosa possa di fatto determinare causalmente le nostre convinzioni, sarebbe un abdicare gratuitamente ai nostri poteri ragionativi […] il non voler conoscere che cosa crediamo e per quali motivi crediamo, […] quali criteri di valore e di verità esse comportino e quale ragione abbiamo per ritenerle vere o valide. (Berlin 1962, p. 208)

12

In effetti, come Berlin suggerisce, simili questioni sono ineludibili, se si assume, come nel caso della teoria

razionale, che gli attori politici siano dotati di “poteri ragionativi”. D’altra parte, fare luce su questi aspetti è

rilevante se si intende spiegare perché certe credenze o certe preferenze entrino nel ragionamento

impiegato dagli individui per decidere come agire. Infatti, le ragioni in base alle quali gli attori selezionano

credenze e preferenze sono un elemento significativo del processo decisionale. Di conseguenza, un

approccio normativo, volto a indagare le ragioni per cui agenti razionali dovrebbero adottare, per esempio,

certi principi, rispettare certi vincoli deontologici o ritenere auspicabili certi assetti istituzionali piuttosto

che altri, può fornire spunti funzionali a rendere conto in modo più completo del processo decisionale.

Inoltre, l’analisi normativa può fornire indicazioni che consentono di spiegare perché si osservino scelte o

condotte che non sono immediatamente riconducibili a un ragionamento puramente strumentale, a un

mero calcolo costi-benefici. L’indagine normativa può infatti evidenziare le ragioni per cui, a certe

condizioni o in certe circostanze, gli individui dovrebbero adottare criteri di deliberazione differenti,

contribuendo così a chiarire anche cosa renda autorevoli certi standard di razionalità e quali siano i loro

limiti15.

Un approccio normativo offre dunque una prospettiva più ampia sulle ragioni che entrano nel processo

decisionale, trattandole non in modo opaco, non come semplici dati, ma indagando perché individui

razionali dovrebbero farle proprie e prenderle in esame nel decidere quali corsi di azione seguire. Per

questo motivo, il lavoro di teorici politici normativi risulta interessante anche dalla prospettiva di chi utilizza

la teoria della scelta razionale con finalità principalmente esplicative e non normative. I teorici normativi si

rivelano, infatti, interlocutori con i quali vale la pena di intavolare un confronto e uno scambio che

permettano di fornire una più completa comprensione del processo decisionale.

3. Collaborazione o divisione del lavoro?

Se si riscontra un’attenzione reciproca tra teorici positivi e teorici normativi è perché ci sono notevoli

affinità tra i due approcci. Sebbene perseguano finalità distinte, i due approcci condividono una specifica

concezione della politica ed entrambi adottano una prospettiva prominentemente teorica. Non è scontato

che approcci esplicativi e approcci normativi trovino un terreno di incontro e che possano quindi

confrontarsi su temi di interesse comune. In effetti, per esempio, il confronto tra approcci

comportamentisti e teoria politica normativa è precluso, non soltanto perché il focus è differente –

empirico nel primo caso e teorico nel secondo – ma anche perché le loro assunzioni fondamentali

15

Su questi aspetti, la riflessione di Amartya Sen è particolarmente interessante, in quanto evidenzia il ruolo del commitment, ovvero di considerazioni che vanno al di là del ragionamento puramente strumentale, all’interno del processo decisionale. Si veda, per esempio, Sen 1977, un testo che non deve necessariamente essere letto come un ripudio della teoria della scelta razionale e dei suoi fondamenti, ma che può essere interpretato come un invito a verificare se sia possibile mettere in campo strumenti più sofisticati, capaci di cogliere elementi che, a prima vista, sembrano eccedere gli assunti della teoria.

13

rimandano a due concezioni antitetiche della politica. L’aspetto che vale la pena di segnalare è che il

confronto tra teorici razionali e teorici normativi non è solo possibile, grazie alle affinità segnalate, ma,

almeno in una fase iniziale, è apparso auspicabile da entrambe le parti per mettere meglio a fuoco alcune

delle premesse adottate e per fare chiarezza in merito alle loro implicazioni.

Per un verso, come suggerito, ricondurre la spiegazione di quanto si osserva – di eventi e fenomeni politici

– alle scelte individuali richiede di concentrarsi sul processo decisionale, la cui analisi, se svolta alla luce

dell’assunto di razionalità, rimanda a un intreccio di considerazioni positive e normative. D’altra parte, se gli

strumenti della teoria della scelta razionale sono impiegati in chiave normativa per elaborare o giustificare

criteri di valutazione o principi volti a regolare pratiche e istituzioni politiche, sembra indispensabile una

comprensione preliminare delle implicazioni e dei vincoli associati all’interazione tra individui, una

comprensione che non può prescindere dagli esiti di un’analisi di carattere positivo. Così, quando la teoria

della scelta razionale inizia a essere utilizzata per l’analisi della politica e la teoria politica normativa

riacquisisce autorevolezza, si assiste a un’intensa collaborazione tra le due prospettive che appare fruttuosa

per entrambe. L’impressione è che, con il consolidarsi dei due approcci, la collaborazione sia diventata

meno intensa.

La teoria politica positiva e la teoria politica normativa sono oggi due programmi di ricerca affermati nei

rispettivi ambiti disciplinari: entrambe si sono rivelate all’altezza dei compiti che si erano proposte e hanno

sviluppato una metodologia consona alle proprie finalità. Negli ultimi decenni, la teoria razionale e la teoria

normativa hanno acquisito una fisionomia specifica: ognuna ha definito in modo sempre più chiaro il

proprio campo di applicazione e ha elaborato un proprio repertorio di linguaggi, metodi e tecniche. Di

conseguenza, la selezione dei temi di ricerca sembra rispondere sempre più a criteri di rilevanza interni ai

due approcci. Dotate di un metodo che si è rivelato empiricamente fecondo, le teorie politiche razionali

hanno la possibilità di mettere a frutto in modo soddisfacente i propri strumenti su casi particolari che non

sembrano però offrire spunti per l’indagine normativa. Analogamente, la riflessione filosofica tende a

esercitarsi su questioni sempre più specialistiche che rischiano di essere di scarso interesse al di fuori dei

suoi confini. In effetti, l’indagine sullo statuto e la tenuta delle premesse adottate e sulle loro implicazioni,

che aveva inizialmente alimentato lo scambio reciproco, è passata in secondo piano e la convergenza su

temi di ricerca di interesse comune appare più improbabile. Si assiste, infatti, non a tanto a un confronto o

a una collaborazione interdisciplinare, quanto a una consenziente divisione del lavoro tra le due

prospettive.

A seconda che l’enfasi ricada su impegni esplicativi o normativi, la prospettiva sui fenomeni politici

inevitabilmente cambia, così come cambiano le priorità e le domande di ricerca rilevanti. Non è detto, però,

che una netta divisione del lavoro, funzionale al consolidamento interno tanto della teoria politica

14

normativa, quanto a quello dell’approccio razionale, sia completamente soddisfacente. È possibile, infatti,

che spiegare adeguatamente certi fenomeni richieda di tenere presente considerazioni di carattere

normativo o che la consapevolezza circa le implicazioni normative dei modelli esplicativi li renda più

attendibili. Allo stesso modo, è probabile che la valutazione normativa possa risultare più affidabile se si

fonda su un’adeguata comprensione dei fenomeni cui si applica e che possa quindi beneficiare dell’apporto

dell’analisi positiva. In effetti, sia alla luce di finalità esplicative, sia in un’ottica normativa, sembrano esserci

ragioni per chiedersi se la divisione del lavoro sia una situazione davvero ottimale. Esaminare simili ragioni

rimanda a un’indagine di carattere più generale sulla relazione tra ricerca empirica e ricerca normativa,

un’indagine che eccede gli scopi dell’analisi proposta in queste pagine. Tuttavia, è plausibile suggerire che,

se, come sembra, un confronto più serrato è auspicabile, la teoria razionale e la teoria normativa

potrebbero riprendere a collaborare in modo reciprocamente proficuo. Infatti, se con il successo riportato

dalle due prospettive sono passate in secondo piano le ragioni per cui il confronto potrebbe essere

fruttuoso, le affinità di fondo messe in luce in queste pagine rimangono e, se approfondite, potrebbero

riservare delle sorprese, ma questo richiederebbe di assumersi il rischio di superare i rispettivi specialismi,

rischio che, in una fase iniziale, i teorici positivi e normativi hanno corso, con risultati più che apprezzabili.

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