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Ottobre 2013
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mensile di informazione in distribuzione gratuita
Ottobre 2013
n. 92
NEW LONDONSCHOOL EXPLOSION
HABITATZEROUNO
IL CASTELLODELLA MONICA
pag. 6
pag. 10
pag. 20
CI SONOBANDIERE E BANDIERE
SOMM
ARIO 3 Ci sono bandiere e bandiere
4 Teramo Culturale 6 New London school explosion 8 Non sai Nulla? Mettiti in politica 9 Agorà 10 Un Habitat per l’arte teramana: Capitolo zerouno 12 Il libro del mese 13 Il Carrozzone va avanti 14 Il Premio Nobel per la Letteratura 16 Il Corecom apre a Teramo 17 Arco Consumatori Informa 18 Jacopo Di Giampietro 19 L’oggetto del desiderio 20 Il Castello della Monica 22 In giro 24 Musica: il Folkstudio 25 Musica: David Bowie 26 Cinema 28 Calcio 28 Arte 30 Pallamano
Direttore Responsabile: Biagio TrimarelliRedattore Capo: Maurizio Di Biagio
Hanno collaborato: Mimmo Attanasii, Maurizio Carbone, Maria Gabriella Del Papa, Maurizio Di BiagioMassimo Di Giacomantonio, Floriana Ferrari, Carmine Goderecci, Maria Cristina Marroni, Fabrizio Medori, Silvio Paolini Merlo, Antonio Parnanzone, Leonardo Persia, Sergio Scacchia.
Gli articoli firmati sono da intendersi come libera espressionedi chi scrive e non impegnano in alcun modo né la Redazionené l’Editore. Non è consentita la riproduzione, anche soloparziale, sia degli articoli che delle foto.
Progetto grafico ed impaginazione: Antonio Campanella
Periodico Edito da “Teramani”, di Marisa Di MarcoVia Paladini, 41 - 64100 - Teramo - Tel 0861.250930per l’Associazione Culturale Project S. Gabriele
Organo Ufficiale di informazionedell’Associazione Culturale Project S. GabrieleVia Paladini, 41 - 64100 - Teramo - Tel 0861.250930
Registro stampa Tribunale di Teramo n. 1/04 del 8.1.2004Stampa: Gruppo Stampa Adriatico
Per la pubblicità: Tel. 0861 250930347.4338004 - 333.8298738
Teramani è distribuito in proprio
www.teramani.infoè possibile scaricare il pdf di questo e degli altri numeri dal sito web
n. 92
Meno dieci, meno otto… meno tre,
meno due, meno uno… lift off. Un
nuovo traguardo s’avvicina. Manco
a dirlo è il jingle del Comune di Teramo
sequenziale e stampato giornalmente
su un sei per tre e spalmato per tutta
la città con la pretesa di un casereccio
stupor mundi. Dal sapore vagamente
mao-stalinista, da regime comunque,
instilla nell’inconscio collettivo la vigoria
e il trionfo che solo le opere pubbliche in
questo caso sanno inculcare nelle menti
dell’elettorato allettato ed avido sempre
del ghe pens mi o delle maestrie della
cazzuola sui mattoni.
In questa rivoluzione epocale da altro
mondo e da altri sogni e da un altro esodo,
c’è chi si ostina ancora a sbandierare
risultati infrastrutturali, alla stessa stregua
dei raccolti e piani quinquennali di Radio
Mosca o Radio Tirana. Un risultato tra
l’altro nemmeno sudato con il perlage
pecoreccio della propria fronte ma con
quello più spazioso dell’Anas: è come
se io mettessi la firma su un articolo del
compianto Bocca e me ne compiacessi.
Goffo. triste, piuttosto.
Soprattutto quando a dieci metri dal
gioioso sei per sei da guerra fa capolino
una misera bandieretta, una specie
di stendardo rosso, sostenuta da sue
asticelle, di cui una rotta da mesi, che
segnala la presenza in Viale Bovio della
Pinacoteca Civica. Un contrattempo
da poco si dirà, ma comunque molto
emblematico dei tempi che corriamo,
suscettibili di annunci e di uomini
tronfi. Leggo dall’enciclopedia virtuale
Wikipedia: pinacoteca, dal greco
πίναξ (pinax, “quadro”) e θήκη (théke,
“scrigno”, “ripostiglio”), è il luogo in cui
sono conservate, tutelate ed offerte alla
pubblica fruizione opere d’arte dipinte.
Ripostiglio dei quadri insomma, della
nostra memoria storica, del nostro essere
stati italiani e teramani.
Un luogo che ha poco a che fare con
un ripostiglio delle auto, con parcheggi
multipiano o con opere attese da
trent’anni e sventolate come successi
individuali.
Ci sono bandiere e bandiere, quindi, ma la
cura maniacale che si presta ad una lingua
di strada svela prepotentemente l’aridità e
la sublime pochezza del nostro essere. n
3L’Editoriale
Ci sono bandieree bandiere
diMaurizio Di Biagio
Teramo culturale4diSilvioPaolini Merlo [email protected]
n.92
VenanzoCrocettie il valore aggiunto della committenza
Quella del centenario della nascita di Venanzo Crocetti appar-
tiene al genere di ricorrenze che meno rischiano di venire
onorate sottotono. Nell’orizzonte dei maggiori protagonisti
della Teramo culturale, passata e presente, non esiste forse
fi gura il cui valore possa dirsi altrettanto universalmente conclamato
entro e fuori dei confi ni nazionali. Ad attestarlo un’importante espo-
sizione al Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma, dal titolo Ve-
nanzo Crocetti e il sentimento dell’antico - L’eleganza nel Novecento,
che lo colloca, precisamente nel costante dialogo con l’arte antica
e il lessico fi gurativo della classicità, tra gli autori centrali dell’arte
scultorea del Novecento. Ben al di là della conversazione tenuta al
Kursaal di Giulianova con Francesco Tentarelli, soprintendente ai
beni librari e biblioteche d’Abruzzo, e il giovane storico dell’arte Sirio
Pomante, direttore tecnico del Polo museale civico, la collocazione di
Crocetti tra i maggiori scultori del Novecento italiano appare un fatto
assodato per pressoché tutta la critica italiana, al pari di nomi affer-
mati come il bergamasco Giacomo Manzù, il pistoiese Marino Marini,
il trevigiano Arturo Martini, ai quali Crocetti è stato di frequente
accostato e coi quali dimostra numerose affi nità. Rispetto al primo,
Crocetti assimila l’uso della tecnica del bassorilievo su bronzo oltre
che una certa sensibilità per la fi gura umana. Dal secondo, l’attenzio-
ne al mondo degli animali. Dal terzo, il recupero della tecnica fi ttile
per un ritorno alquanto marcato alle suggestioni arcaiciste della
scultura etrusca. Da tutti e tre, una istintiva predilezione per le linee
dolci, per la sodezza delle masse corporee, che tende all’elevazione
dello sguardo e ad un rapporto indissolubile, diciamo pure metafi -
sico, tra simbolismo fi gurativo e cruda matericità degli oggetti. Non
che in Crocetti non si evidenzino distintamente, e fi n dal principio,
dei tratti caratteristici suoi propri, quelli di un’idea e di uno stile
consapevoli e maturi. Anche su questo punto si è praticamente tutti
concordi: benché il suo mondo espressivo non rappresenti un inizio,
la sua tecnica non abbia introdotto una nuova dimensione espressi-
va, la sua non sia stata l’opera di un capofi la, uno “stile crocettiano”
esiste e si distingue.
Incuriosisce non poco, allora, leggere nelle note di presentazione
della mostra romana, come già per l’esposizione delle sue aggrazia-
te ballerine al piano nobile di Palazzo Zenobio a Venezia nel 2011,
l’antico adagio di un colpevole difetto di attenzione da parte di critica
e pubblico, persino il pericolo concreto di una condanna all’oblìo. Già
vincitore della Biennale di Venezia, titolare nella stessa città della
cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti, presente con una
sala personale permanente al Museo Ermitage di San Pietroburgo e
scultore prescelto per realizzare la porta d’ingresso della Cattedrale
di San Pietro in Vaticano, la fortuna di Crocetti è in realtà quasi senza
pari nel panorama artistico abruzzese. Salutato tra i massimi scultori
europei del Novecento, tra
i maggiori italiani di ogni
tempo, esposto e riesposto in
quattro continenti, ha iniziato
giovanissimo a riscuotere i
primi successi a livello nazio-
nale. Il ruolo di erede, reale o
virtuale che sia, dell’opera del
concittadino Raffaello Pagliac-
cetti, il maggiore predecesso-
re nella Giulianova dell’Ot-
tocento, diviene a paragone
poco più di un dettaglio. Ma
vediamo di non girare intorno
alla questione: chi oggi voles-
se occuparsi di ciò che lega
Venanzo Crocetti a Teramo
senza parlare dell’onorevole
Antonio Tancredi, segretario
dominus di partito nelle liste Dc fi n dal 1965 e in seguito parlamen-
tare incaricato in diverse commissioni, partirebbe non solo col piede
sbagliato ma compirebbe una vistosa mistifi cazione storica. Se la
carriera inizia presto ad arridere al giovane scultore giuliese, dopo gli
anni Sessanta diviene praticamente inarrestabile. Il punto non è certo
il valore di Crocetti, del quale nessuno dubita né ha mai osato dubita-
re. Ma è altrettanto indubitabile - malgrado l’apprezzamento sincero
di critici anche di area comunista come Antonello Trombadori - che la
natura culturale delle committenze di Crocetti, la si chiami deliberata
o frutto di un reclutamento implicito, sia sempre stata marcatamente
politica. Questa, e non altra, a me pare essere la ragione profonda
della distrazione critica e galleristica, della parziale omissione o
riluttanza storica che da qualche tempo con una certa costernazione
Il Giovane Cavaliere della PaceYokoama Museum of Art
Affi nità tematico-stilistichefra Manzù (a sinistra ) e Crocetti
5
- forse un poco strumentalmente - si viene
osservando. Indubitabile è al contempo che
il suo legame col capoluogo teramano sia
stato più forte e signifi cativo che non con
quello giuliese, notoriamente di area politi-
camente alternativa, e che questo legame
abbia sottinteso strategie culturali molto
marcate. La mostra celebrativa promossa a
Roma dalla Fondazione Crocetti, nata quale
costola della Banca di Teramo, a sua volta
braccio operativo del feudo tancrediano,
non è che l’ultimo capitolo di un’antica saga
di famiglia, quella che Crocetti - orfano di
entrambe i genitori e rimasto celibe - non
ha purtroppo mai avuto, e che ha reso di
fatto l’intera faccenda, non solo l’opera di
promozione ante e post mortem ma l’opera
crocettiana in sé, un affare semiprivato,
un’operazione di colonizzazione e di preser-
vazione autocratica.
Si potrà certo discutere a lungo se l’impo-
nente bronzo del San Michele Arcangelo ad
Aprilia, uno degli esiti massimi dell’opera
crocettiana, sia o meno da ridurre intera-
mente a un esempio di arte fascista, com’è
in qualche misura avvenuto per il collega
Martini, eletto tra le due guerre scultore uf-
fi ciale del regime. E sarà per questo oppor-
tuno, come si è detto in merito, storicizzare,
motivare, comprendere l’opera in ragione
delle contingenze storiche. Ma quelle narra-
zioni scolpite sui lati della base, iconografi e
che assai più del Rinascimento di Piero della
Francesca richiamano la mistica di tutt’altra
temperie mecenatesca, non possono facil-
mente venire districate dal progetto fascista
di bonifi ca integrale delle paludi pontine, la
più poderosa impresa architettonica di Mus-
solini, e da quel grande orto da realizzare
alla periferia romana attraverso la nascita
di quattro nuovi comuni in provincia di Lit-
toria. Porre in una delle “città nuove” della
bonifi ca un’opera simile, tanto virilmente
educatrice quanto dolcemente ammonitrice,
alludeva, nonostante quanto si sia contro-
argomentato, all’esigenza di un assoggetta-
mento obbediente dell’artista a un preciso
pedagogismo nazional-imperialista, per
scopi apologetici e consolatori. E così le vit-
torie nei concorsi all’Accademia di San Luca,
Crocetti appena maggiorenne, alla Galleria
Nazionale di Firenze, l’invito alla Biennale
di Venezia nel 1934 e alla Quadriennale di
Roma, con cospicui premi in denaro, che gli
apriranno la strada verso le affermazioni a
Bruxelles, Parigi, Berna e Zurigo. E non c’è
chi non veda, a voler vedere, quanto stretto
sia il legame tra le committenze ricevute
a Roma da Concezio Petrucci, aderente al
Raggruppamento Architetti Moderni Italiani,
fi liazione sindacale degli architetti fascisti, e
quelle, tutte estremamente impegnative per
non dire imponenti, ricevute nel dopoguerra
a Teramo da Gambacorta e Tancredi.
Chiedersi, sia pure in base alle commit-
tenze, se Michelangelo, Caravaggio o il
Perugino siano stati artisti “di destra” o “di
sinistra” è, semplicemente, privo di senso.
Non chiederselo dell’arte moderna, specie
dopo le ultime follie belliche mondiali e il
fallimento delle utopie liberaliste, lo è altret-
tanto. Non solo tecniche come il formale
e l’informale hanno preso a polarizzarsi
violentemente, ma temi come l’ingiustizia e
la povertà sono diventati per vocazione di
sinistra, così come quelli dell’ordine, della
rettitudine, della misura, sono stati attribuiti
alla destra. Il pessimismo, l’arcaicismo,
l’ambientalismo, i diritti della donna, hanno
assunto il segno di un progressismo anar-
chico, così come l’ottimismo, il naturalismo,
n.92
la fi ducia nella ragione e nelle scienze,
sono divenuti un’ipoteca reazionaria della
classe dominante. Follia doppia, avallata dal
sistema dei blocchi contrapposti, mantenuta
in vita, durante e dopo, da fondazioni di
stampo politico-fi nanziario che di autentica-
mente culturale non hanno avuto pressoché
nulla. Si vede dunque piuttosto bene, credo,
cosa sia ciò che anche in un artista della
statura di Crocetti non ha fi nora saputo
garantire un elemento identitario forte alla
Teramo culturale. Precisamente questo suo
essere stato, più o meno consapevolmente,
un emissario spirituale per conto terzi, un
eroe cherubino, una sorta di ambasciatore
morale di una parte politica determinata,
quella conservatrice italiana, clericofascista
prima e democristiana infi ne, per la quale
ha saputo fungere da punta di diamante,
da cavaliere purifi catore, quasi templare
antisecolarizzante della “vera” fede e della
“vera” cultura.
Colpa gravissima per la critica d’arte italia-
na, in massima parte di matrice hegelomar-
xista, e indubbiamente tallone d’Achille per
ogni futura lettura obiettiva e serena che di
lui e del suo lavoro si vorrà tentare.
Non che questo genere di letture non siano
possibili, oltre che auspicabili. Ma una
volta compiute sorgerà spontaneo, temo,
chiedersi che cosa resti di propriamente
“teramano” nell’opera di Crocetti. n
Lo Studio di Crocetti(Fondazione Crocetti - Roma)
Opere di Crocetti a Palazzo ZenobioVenezia (2011)
L’esplosione della New London School è avvenuta il 18 marzo
1937, quando una fuga di gas naturale ha distrutto un edificio
scolastico, nella Contea di Rusk. Il terzo disastro più letale
nella storia del Texas, dopo l’ uragano di Galveston del 1900 e
Texas City Disaster del 1947.
Il gas naturale non trattato è inodore e incolore, così le perdite
sono difficili da individuare e può passare inosservato. Anche se c’è
da dire che gli studenti, a quei tempi, effettivamente spesso rac-
contavano di improvvisi mal di testa; ma fu data poca importanza ai
capricci improvvisati di quegli inquieti ragazzini.
Il 18 marzo cadde di giovedì. Il giorno dopo sarebbe stata vacanza,
per consentire agli studenti di partecipare alla Henderson ‘s Inter-
scholastic Meet, una competizione sportiva molto ambita all’epoca.
A un certo momento, Lemmie R. Butler, un istruttore di formazione
manuale, accese una levigatrice elettrica. Una scintilla diede fuoco
a una miscela micidiale di aria e gas.
Disastri accaduti6n.92
New London Schoolexplosion
diMimmoAttanasii [email protected]
I testimoni del disastro raccontarono di pareti che si gonfiavano e
del tetto sparato in alto e ricaduto sulla struttura crollata. La forza
dell’esplosione fu così potente che scagliò addirittura un blocco
di cemento da due tonnellate su una Chevrolet parcheggiata nelle
vicinanze, disintegrandola.
Un autista della London School bus, Lonnie Barbiere, che trasporta-
va alunni delle scuole elementari, alla vista del disastro, dapprima
continuò il suo solito percorso nel condurre i bambini a casa dai
propri genitori, per poi precipitarsi subito alla ricerca dei suoi quat-
tro figli dispersi fra le macerie dell’esplosione.
Su 600 persone che si trovavano all’interno dell’edificio scolasti-
co, solo 130 riuscirono a scamparla senza riportare lesioni gravi.
Le stime sul numero di morti variano dalle 296 alle 319 unità, ma
questo numero potrebbe di molto superiore se si considera che
molti dei residenti nella New London, lavoratori precari e transitori
impiegati nel settore petrolifero, raccolsero i corpi dei loro figli, nei
giorni successivi al disastro, per dargli sepoltura vicino le loro case.
La maggior parte dei corpi rimasero carbonizzati, non identificabili.
Una madre morì d’infarto dinanzi ai resti della figlia, con solo una
parte del suo viso, il mento e un po’ di ossa sparse. Un altro ragaz-
zo fu identificato solo grazie alla cintura dei suoi jeans.
I soccorritori lavorarono notte e giorno, sotto la pioggia, per 17 ore.
L’intero sito era stato cancellato dal fuoco. Gli edifici delle comunità
vicine di Henderson, Overton, Kilgore e anche di quelle ancora più
distanti, come Tyler e Longview furono adibite a improvvisati obitori
per ospitare un enorme numero di organismi irriconoscibili.
I giornalisti si videro travolti anch’essi nel tentativo di salvatag-
gio. Anche a Walter Cronkite toccò in sorte, in uno dei suoi primi
incarichi giovanili alla United Press, di raccontare la tragedia di New
London. Decenni appresso, dopo avere assistito agli orrori della
seconda guerra mondiale e del processo di Norimberga, dichiarò:
“Non sono bastati i miei studi, né tanto meno le mie esperienze di
vita, per prepararmi ad affrontare una storia come quella della New
London School explosion”.
Gli esperti della United States Bureau of Mines giunsero unani-
mi alla conclusione che il collegamento con la linea del gas era
difettoso e, dal momento che il gas naturale è invisibile e inodore,
la perdita non era possibile rilevarla. In seguito, s’impose l’aggiunta
di composti organici di atomi di carbonio, zolfo e idrogeno che, ca-
ratterizzati da un odore intenso e sgradevole, rendono le eventuali
perdite rapidamente avvertibili. La pratica si diffuse velocemente in
tutto il mondo.
Dopo il disastro, lo Stato del Texas, sotto l’enorme pressione dell’o-
pinione pubblica, promulgò una legge molto severa a regolamenta-
re le pratiche di ingegneria sull’errata installazione dei collegamenti
del gas naturale. Ancora oggi, l’uso del titolo di “ingegnere” in Texas
rimane giuridicamente limitato a coloro i quali l’esercizio ingegne-
ristico sia stato professionalmente certificato unicamente dallo
Stato. A Piano d’Accio, alle porte della città di Teramo, si sarebbe
potuta verificare una strage. Il pericolo scampato dà i brividi se
proiettato sul quadrante di un orologio. Le lancette vicine alla tacca
dell’esplosione e a quella della campanella d’uscita lasciano appe-
na il tempo per un pensiero da rimuovere: “Un’ora prima e sarebbe
stata una ecatombe”. n
disastri scampati
sua inutilità stipendiata peraltro da noi. Sabrina De Camillis è l’esempio
dell’avidità che i nostri politici palesano in tante assise: lei in Regione e in
Parlamento, percependo la doppia indennità, in barba alle leggi nazionali
e morali e alla faccia del cielo stellato sopra di me e la legge morale
dentro di me. Questi rozzi esemplari di esseri civici sventolano solo legge
della poltrona sotto di loro. E basta.
La beata Beatrice Lorenzin, nel suo ruolo di ministro della salute, tra l’altro
mai lavorato in questo settore, ha l’ardire di consigliare allegramente un
Trip advisor per gli ospedali, in parole povere i pazienti che mettono i voti
agli ospedali (una cagata pazzesca, sic!). Sventola ancor più beatamente
il diploma di maturità, in un settore talmente complesso che necessita
competenze ben specifiche. Poi non meravigliamoci se, davanti ai Napo-
letani che protestano incazzati perché da loro c’è un’alta percentuale di
cancro ai polmoni o allo stomaco, la ministra se ne esca con un: “E’ colpa
vostra e dei vostri stili di vita”. Tanto per una che vuole far mettere i voti
ad una tomografia assiale computerizzata o a un Drg cosa può uscire
di bocca. “Ministro, sotto queste terre ci sono dieci Seveso” la richiamò
stizzito uno scienziato campano”.
Giampiero D’Alia è ministro della pubblica amministrazione ma il suo
caso è paragonabile a quello della Lorenzin: zero
competenze specifiche, sebbene possegga una
laurea. Viva l’italianità del tirare a campare. Viva
il potere dell’appartenenza politica e del lecchi-
naggio, uno sport dove noi siamo indubbiamen-
te campioni del mondo, non ci batte nessuno.
Leccare, adulare, annullarsi, per raggiungere la
poltrona. Anche la stupidità
è bella, se perfetta, diceva
Thomas Mann, ma noi in
questo campo raggiungiamo
il sublime.
Il sudista Gianfranco Miccichè
afferma candidamente, quan-
do deve spiegare il suo lavoro,
che lui non ha fatto nulla:
“Come sottosegretario alla
funzione pubblica so che il Ministro ha presen-
tato una legge sulla semplificazione che però
non mi sembra una legge molto importante,
diciamo”. Diciamo, e lo diciamo alla Ignazio La
Russa, con molto sarcasmo e disprezzo.
Infine che lezione trarre da questi esempi man-
dati peraltro in onda dalla trasmissione Report
di Raitre? Che i politici hanno un’etica particolare, tutta loro, sganciata dal
mondo reale. Molti dei nostri rappresentanti presso le istituzioni politiche
sono degli incapaci… totali, mentre i restanti sono invece capaci di tutto,
diceva uno. Ma in questo caso colpisce la chiara stupidità dei leccaculo,
che poi riescono a sedere nei posti di comando con nostro profondo
rammarico: non importa ciò che sostiene il suo boss, se afferma cose
intelligenti o stupidate abissali, l’importante è annuire, dire sì col capo,
mettersi in mostra, dirgli che è il più bravo pur di ottenere un favore. Di
questo il potente è consapevole, tanto che egli non si fida affatto dei
suoi scagnozzi: se ne serve come zerbini perché il beneficio, per quanto
effimero e non duri all’infinito, è reciproco: non ci sarebbero monopoli se
non ci fossero imbecilli che li sostengono. n
La Nunzia scambia una lontra per un uccello. La Sabrina non ne vuo-
le sapere di mollare l’osso anche se ricopre illegittimamente due
ruoli politico-istituzionali, ricevendo una
doppia indennità. Beatrice per giustifica-
re l’alto tasso di mortalità per tumori addossa
alla gente tutte le colpe per via dei loro stili di
vita. Giampiero non capisce proprio un’acca
di quello che sta facendo. L’altro Giampiero fa
ricoprire un ruolo prestigioso al fidanzato di
sua nipote. Gianfranco non sa che sta
facendo eppure è a capo di un’isti-
tuzione importante. Marco distrugge
l’ambiente eppure è uno deputato a
preservarlo.
Cos’hanno in comune tutte queste
persone? E’ che sono politici italiani.
Cavalcano i nostri tg quotidianamen-
te, riempiono di ovvietà i talk show,
producono il nulla…e soprattutto
sono ignoranti, nel senso che ignorano ciò che fanno. Tutti: ministri,
sottosegretari, yes-man, siedono in poltrone tanto perché un giorno
hanno reso un servigio a sua maestà il ras di turno, non perché, in virtù di
una qualsiasi meritocrazia, possano aver maturato il diritto a presiedere
qualche assemblea solo perché hanno in animo di far crescere il nostro
paese o di contrastare la disoccupazione, no, ma per un inveterato diritto
feudale amano avere sotto il culo un velluto rosso da sbandierare poi
ad amici, conoscenti, stampa e mondo mediatico, in un eterno spirito di
idiota rivalsa che fa piccoli loro e il paese intero. Purtroppo.
La Nunzia fa di cognome De Girolamo e da miracolata, senza aver rice-
vuto un solo voto di preferenza ma solo bigliettini amorosi del perenne-
mente arrapato Berlusca, si ritrova nominata in parlamento a scambiare
uccelli per fiaschi. Facesse almeno un po’ di birdwatching, lì col cannoc-
chiale ad osservare l’universo attorno a sé, comprenderebbe un po’ la
L’Italia degli ignoranti8n.92
Non sai di nulla? Mettitiin politica
diMaurizioDi Biagio www.mauriziodibiagio.blogspot.com
Chiedete e vi sarà dato ma solo se siete utili alla causa (ovviamente la loro)
9
Nella Grecia antica l’agorà era la piazza che rappresentava il cen-
tro della polis, sia economico che commerciale, sia religioso che
politico, in quanto luogo della democrazia e delle assemblee dei
cittadini. La piazza fu inventata dai Greci, dato che le altre civiltà
non ne avevano avvertito l’utilità e i pregi. Teramo, che in epoca romana
meritò uno dei teatri più antichi dell’Impero, coevo del più famoso Tea-
tro Marcello di Roma, ha molte piazze che nei millenni hanno accolto la
vita cittadina.
Durante il secolo scorso diverse piazze sono sorte e hanno contribuito
all’aggregazione dei teramani.
Piazza Garibaldi ha dapprima rap-
presentato la periferia urbana in
direzione Ascoli Piceno, poi mano
mano ha acquisito una centralità
collegata all’espansione della cit-
tà in Viale Bovio e sulla collina del
Castello. Sulla piazza si affacciano
la Villa comunale e la Pinaco-
teca civica, e in essa insistono
numerose attività commerciali e
gastronomiche che la rendono il
cuore della vita notturna.
L’Amministrazione Sperandio ha
creduto bene di approvare un
progetto per sventrare la piazza
e per far luogo a un esperimento
inedito: creare un museo sotterraneo e uno spazio espositivo ipogeo
perfettamente al di sotto del luogo più trafficato di tutto il Comune.
In origine, tuttavia, il progetto prevedeva un museo quasi a livello del
manto stradale, con il reinserimento della vecchia fontana nel posto
originario. Dopodiché l’attuale Giunta, presieduta dal Sindaco Brucchi,
ha modificato il progetto iniziale e ha inaugurato un’opera a metà. Un
monumento agli scarichi delle automobili, un omaggio alle scatole di
tonno aperte, un elogio del ferro arrugginito, uno sberleffo a tutti gli
abitanti di Viale Bovio che prima vedevano piazza Martiri e oggi guar-
dano sconsolati una tavola da surf obliqua. Il costo? Ad oggi sembra si
sfiorino i 3 milioni di euro, cifra con la quale avremmo potuto acquistare
il palazzo della Banca d’Italia per stabilirvi la sede di un museo davvero
prestigioso. Invece abbiamo un mostro di cemento armato che non
tarderà a mostrare i segni delle intemperie, mentre l’adiacente castello
Della Monica e il relativo quartiere aspettano da decenni un solo milione
di euro per tornare a splendere come un tempo (con l’aggravante che
le pitture murali si stanno irrimediabilmente rovinando). In compenso
vantiamo l’unico museo al mondo con il transito dei camion sul soffitto.
Poi c’è Piazza Dante, luogo deputato agli studenti poiché vi insistono il
Liceo Classico, il Convitto nazionale, la scuola media Savini e l’Istituto
Regina Margherita che ospita un asilo infantile.
Qui l’Amministrazione Brucchi è stata ancora più acuta: sventramento
totale per far posto all’ennesimo parcheggio, all’ennesimo mausoleo
dell’automobile. Per completare il capolavoro non potevano mancare
accessi sotterranei volgari e feritoie disgustose per l’aerazione che
rappresentano delle vere e proprie ferite nel manto stradale.
Il colpo di genio però è stato rappresentato dalla rampa di entrata ed
uscita. Scartata l’ipotesi iniziale di creare un accesso dal campetto adia-
cente alla palestra, è parso ben più ingegnoso concedere all’impresa
la facoltà di creare una rampa nella già stretta via di accesso a Piazza
Dante da Viale Mazzini, ottenendo il duplice obiettivo di impedire fisi-
camente il passaggio dei pedoni e di far risparmiare enormi spese alla
ditta costruttrice la quale, se ha preteso che ci fosse un doppio senso
di marcia per entrare ed uscire dal sotterraneo con l’automobile (dato
lo spazio risicato, non sarebbe stato più corretto scavare una rampa
a senso unico?), non ha consentito nemmeno che una madre con il
passeggino possa transitare dal viale dei tigli alla piazza.
Il tutto corredato da due penose aggravanti: la prima è che il piano a
raso della Piazza avrebbe dovuto
essere destinato a giardini e pan-
chine per la vivibilità dell’intera
zona, in base ad un progetto
pubblicizzato con i cartelloni dal
Comune, salvo poi rassegnarsi al
passare degli anni e all’impossibi-
lità di poter rientrare in possesso
dell’area, destinata non si capisce
per quale motivo ad ulteriore
parcheggio a pagamento per le
tasche del costruttore privato
che lo gestisce; la seconda è che
proprio su Viale Mazzini sostano i
pullman che conducono i ragazzi
nelle scuole, per cui all’orario di
entrata e di uscita dalle classi si
crea un ingorgo mostruoso fra la folla che deve entrare ed uscire da
Piazza Dante per recarsi ai mezzi di trasporto pubblico e nelle scuole,
folla che deve necessariamente passare in un pertugio che è offensivo
definire accesso pedonale.
Quindi il parcheggio, che avrebbe dovuto risolvere i problemi di traffico,
si è rivelato un progetto fallimentare, perché numerosi veicoli gravitano
proprio sulla piazza, ostruendo ancora di più le vie cittadine.
Un’altra Piazza sventrata e stuprata è quella dei Donatori di sangue
all’incrocio fra Via Po e Via Fonte Regina, laddove pure si è scavato per
consentire il ricovero delle automobili, salvo poi trasformarsi in parcheg-
gio per topi e altri animali piuttosto che per mezzi di locomozione.
C’era poi Piazza della Cittadella con il suo famoso Albergo Giardino,
demolito sotto la furia distruttrice degli anni sessanta per far posto al
mostruoso edificio sede dell’INPS.
La Piazza ha da molto cambiato nome in Martiri Pennesi ed è anch’essa,
in attesa di essere perforata, un parcheggio a cielo aperto da decenni.
Questo è ciò che resta della polis, ciò che resta dell’agorà, ciò che resta
di una civiltà gloriosa che oggi non ha più diritto ad alcuna gloria. n
n.92
Cose di casa nostra
AgoràIl declino delle piazze teramane
diMaria Cristina Marroni
Teramo culturale10diSilvioPaolini Merlo [email protected]
n.92
Un Habitat perl’arte teramana:capitolo ZerounoRipensamenti e riparazionisulle territorialità artistiche
C’èmodo e modo di fare valorizzazione della cultura
contemporanea di un territorio mediante lo strumen-
to delle gallerie d’arte. Ne ho già detto a più riprese,
specie a proposito di una realtà di recente conio
sviluppata entro l’ambizioso “Progetto Cult” dall’attuale amministra-
zione comunale: lo spazio espositivo denominato Arca, sedicente
Laboratorio per le Arti Contemporanee in Abruzzo, spazio che in città è
di fatto solo l’ultimo arrivato nel rilancio di una centralità del fare cultura
partendo da un contesto di tipo provinciale. Nel suo Identità dell’Arte in
Abruzzo, Antonio Zimarino ha riassunto con efficacia la doppia natura
del provincialismo, rintracciabile in due tipici errori mentali: 1) escludere
la relazione tra “centri” e “provincia” basandosi su di un presunto genius
loci salvifico, da esaltare nella propria incontaminata purezza, fuori cioè
da stimoli di qualsivoglia provenienza esterna; 2) abbracciare acritica-
mente ogni modello maggioritario proveniente dai “centri”, allo scopo di
ottenerne benefici di ritorno. Aggiungo che, a rigore di termini, il provin-
cialismo in provincia non nasce tanto dal primo dei due errori, comune
anche ai “centri”, ma proprio dal secondo. Nel primo vi è cecità, nel
secondo qualcosa di peggio: opportunismo.
Plaudiamo perciò a quest’Habitat Zerouno «sulle realtà creative legate
alla Città di Teramo», promosso da Umberto Palestini nella struttura da
questi presieduta, col quale si dà inizio - pare - a una serie di collettive
centrate su artisti “locali” da tempo attivi nelle arti visive e figurative, di
varia anagrafe ma per lo più di giovane e giovanissima età. In questa pri-
ma tornata, leggiamo i nomi di Maurizio Anselmi, Marco Appicciafuoco,
Fausto Cheng, Antonella Cinelli, Silvestro Cutuli, Paola Di Giosia, Cleto Di
Giustino, Giampiero Marcocci, Marino Melarangelo, Fabrizio Sclocchini.
Eppure, anche stavolta, qualcosa non torna. Nulla da eccepire sui nomi
coinvolti, ognuno a suo modo degno di attenzione. Altro è il punto, e
non entrerò minimamente nel merito dei singoli percorsi creativi. Sia
io che Palestini, al pari di tanti altri operatori attivi entro e fuori Teramo,
sappiamo bene che queste capacità esistono per forza di cose, com’è
naturale che sia e come sarebbe innaturale se non fosse. Qui l’aspetto
che si apre alla discussione è il metodo, il criterio di partenza, il piano
della precomprensione concettuale.
Non è, si dice, una mostra di Teramo fatta per Teramo. E perché mai?
Cosa vi sarebbe di male in caso contrario? Non si può rischiare il narcisi-
mo, si aggiunge. Ma di quale narcisimo si parla? Forse quello dettato dal
punto di vista fino ad ora preso a modello procedurale? Ci si schermisce,
con frasi da excusatio non petita, che l’Arca si è sempre mostrata aperta
ad artisti nostrani, che ha sempre voluto prodigarsi per valorizzare le for-
ze e le risorse del territorio. E si ricordano il caso di Giuseppe Stampone,
con cui l’Arca veniva inaugurata nell’ottobre 2011, a cui si aggiungono
quelli di Marco Chiarini e Georgia Tribuiani. Benissimo. Ma perché mai
asserirlo e rimarcarlo? Perché mai non avrebbe dovuto essere così? A
cosa altro dovrebbe servire una struttura del genere in una città come
Teramo, che provincia era, è, e resterà? A onor del vero, tutta questa
apertura nei confronti del territorio, e della città di Teramo, all’Arca non la
si è vista. E se poi un 10% degli spazi è stato esteso ad artisti teramani,
o per meglio dire ad alcuni di essi, selezionati con criteri non sempre
del tutto limpidi, se ne prende atto con gioia, ma di certo non può dirsi
bastevole a invertire il senso di un percorso che è finora stato quello che
è stato: elitaristico, mercatistico, platealmente mondanizzante, vistosa-
mente antiscientifico, risolto in visibilismo mediatico puro e semplice.
Si insiste sul principio
della ricognizione
“di qualità”, indicata
come “punto fermo”
indifferibile. Pena
la ricaduta nel
localismo. E va pure
bene. Ma questa
benedetta “qualità”,
cui tutti si affidano
come all’extrema
ratio per giustificare
ogni e qualsivoglia
strampalateria, è parola che vuol dire tutto e che può non significare
nulla. Ogni oggetto frutto dello sforzo viscerale di un professionista,
realizzato secondo un criterio e sulla base di acquisizioni sufficienti ad
essere valutate, quotate, riprodotte, e fatte oggetto di mercanteggio,
sono, di per ciò stesso, tutte, “di qualità”. Comprese le note scatolette di
latta che nel 1961 Piero Manzoni riempì della propria merde d’artiste.
Si rimarca inoltre, a più riprese, il termine “scoperta”. Ma scoperta
implica l’idea della ricerca e della personale autonoma valutazione. E
di quale valutazione si può parlare se di questi artisti non si fa altro che
sbandierare quanto hanno già fatto, quanto già contano, quanto già han-
no ottenuto, quanto di loro già si sa o è stato detto? L’accreditamento
semmai, e unicamente l’accreditamento, inteso come qualificazione
ricatapultata dai “centri”, è l’oggetto vero di questa presunta “scoperta”.
Ma dunque parliamo, daccapo, non di reale novità, ma di sommatoria
del già noto. Non di reale valorizzazione, ma di pura ostensione del già-
dato-per-scontato. Non di proposte, non di analisi, senza di cui il bacino
della comprensione territoriale non si incrementa di una sola virgola. Ci
si limita a raccogliere da altri percorsi, da altri canali, da altri ambienti,
da altre idee, da altri consessi critici. Opera di mera ricognizione, di pe-
dissequa agglomerazione, di collage quale che sia, tanto per non essere
da meno, tanto per dare a intendere. n
I talo Calvino è un esperto viaggiatore
tra diversi generi letterari, mai clas-
sificabile definitivamente in un’unica
categoria o stile. Persino nelle opere
più ideologiche, la sua riflessione raziona-
le sposa la leggerezza, attraverso il gusto
letterario della fiaba, del sogno e della
fantasia.
Quando il pensiero si lega all’emozione, la
scrittura diviene vibrante, allora anche il
realismo mette le ali per volare lieve. Ce-
sare Pavese definì efficacemente Calvino
lo “Scoiattolo della penna”.
Così come rifiuta di aderire apaticamente
a un’idea di letteratura dettata dalla moda
del momento, allo stesso modo Calvino
ricusa di compiacere la cultura derivante
da un’appartenenza politica, in base alla
quale un intellettuale della sinistra doveva
descrivere le classi sociali svantaggiate e
polemizzare con la borghesia.
Nel romanzo La speculazione edilizia,
pubblicato la prima volta nel 1957, Calvino
riflette con lucidità sulla pratica della ce-
mentificazione sfrenata e incondizionata.
All’inizio del libro Calvino confessa: “I
luoghi, i fatti, le persone, i nomi di questo
racconto sono assolutamente fantastici
e non possono esservi trovati riferimenti
con la realtà se non per caso”.
In realtà, dietro i tre asterischi *** usati
per definire una generica località, si cela
Sanremo. Il romanzo è ambientato nella
Riviera ligure proprio negli anni della
trasformazione edilizia, anni fecondi che
preludevano al successivo boom econo-
mico, ma che nascondevano “il sospetto
che ogni nostra ostentazione di prosperità
non fosse che una facile vernice sull’Italia
dei tuguri montani e suburbani, dei treni
d’emigranti, delle pullulanti piazze di paesi
nerovestiti: sospetti fugacissimi, che con-
viene scacciare in meno d’un secondo”.
Archiviata la Guerra, la società, dopo anni
di austerità e di digiuno dai vizi, si muove
rapida verso il benessere. In particolare il
ceto borghese alimenta dal suo interno i
propri desideri, anche quelli più super-
ficiali. Si sviluppa anche il turismo e le
località costiere sono prese d’assalto per
il bisogno di possedere una casa al mare,
oppure di affittarla per la stagione estiva.
Anche a *** si sviluppa con velocità il
mercato immobiliare e la cementificazio-
ne avanza in maniera caotica e spropor-
zionata. Accanto a costruzioni di pregio
si elevano nuovi edifici, privi di qualsiasi
elementare senso estetico. Il paesaggio
ne è violato e perde l’antico splendore.
Il protagonista del romanzo, Quinto Anfos-
si, è un intellettuale che Svevo definireb-
be “inetto”. Ammaliato dalla vivacità dei
tempi e dalla personalità spregiudicata
degli affaristi e dei costruttori, decide di
entrare in affari con Pietro Caisotti, uomo
privo di cultura ma assai ricco per una se-
rie di fortunate coincidenze. I palazzi che
lui costruisce sono vantaggiosi economi-
camente, ma osceni nelle fattezze.
Quinto cede a Caisotti un pezzo di terra
di famiglia per la costruzione di alcuni
edifici, da dividere fra i soci. Ma quello
che doveva essere un affare si rivelerà un
fallimento.
“Di solito mi piace raccontare storie di
gente che riesce in quel che vuol fare (e
di solito i miei eroi vogliono cose para-
dossali, scommesse con se stessi, eroismi
segreti) –spiega il narratore- non storie di
fallimenti o smarrimenti.
Se nella Speculazione edilizia ho rac-
contato la storia di un fallimento (un
intellettuale che si costringe a fare l’af-
farista, contro tutte le sue più spontanee
inclinazioni), l’ho raccontata per rendere il
senso di un’epoca di bassa marea morale.
Il protagonista non trova altro modo di
sfogare la sua opposizione ai tempi che
una rabbiosa mimesi dello spirito dei
tempi stessi, e il suo tentativo non può
che essere sfortunato, perché in questo
gioco sono sempre i peggiori che vincono,
e fallire è proprio quello che lui in fondo
desidera”.
La speculazione edilizia fotografa in anti-
cipo sui tempi la crisi dei valori contem-
poranea e l’impossibilità per la borghesia
italiana di emanciparsi dall’affarismo
becero.
Nonostante la profondità delle rifles-
sioni di Calvino, il romanzo risulta assai
piacevole alla lettura, perché la scrittura
cristallina e il lieve umorismo vi sottraggo-
no ogni pesantezza didascalica.
In un intervento a un dibattito sulla rivista
“Menabò”, Calvino sosteneva il valore
insostituibile della letteratura come “sfida
al labirinto”, nella denuncia alle storture
della società industriale.
Se oggi fosse ancora vivo, Calvino avrebbe
novant’anni. E probabilmente si vergogne-
rebbe ancora di più dell’Italia. n
Il libro del mese12 [email protected]
n.92
diMaria Cristina Marroni
La speculazione ediliziadi Italo Calvino
13Debito pubblico
diMimmoAttanasii [email protected]
Non è come spostare un
pedone perché non si ha la
più squallida idea di come
posizionare l’alfiere, piuttosto
che imbastire tattiche improbabili,
con un cavallo e la regina stretta in
un angolo. Si discute di strutture diri-
genziali manageriali da fare rivoltare
i cadaveri nelle tombe, attribuendo,
come appunto nel caso delle parte-
cipate dagli enti pubblici, ai sindacati
e ai media di avere metamorfosato
privilegi in diritti, mentre erano
indubbiamente privilegi, forse positivi
per i loro iscritti, ma di certo non
utili per i disoccupati. Società che
nascono da un sistema discutibile, da
questioni eticamente censurabili, che
hanno interessato la politica del pas-
sato, con dipendenti assunti perlopiù in maniera clientelare e senza
un reale know how. Una delle vicende più torbide nella storia del
nostro Paese: “I carrozzoni clientelari e i loro costosissimi consigli di
amministrazioni”. Poltrone da accatastare per i trombati dei partiti.
Aziende anche in liquidazione per deficit milionari, costruite in sfre-
gio ai finanziamenti pubblici, di tutti i cittadini contribuenti. Cose già
sentite e rintracciabili in rete. Anche se, di recente, in un trafiletto del
9 ottobre 2013 pubblicato dal quotidiano “Il Messaggero”, si appren-
de di un presunto mancato, o forse solamente ritardato, versamento
delle ritenute Irpef, per una somma di centinaia di migliaia di euro.
La cronaca ha registrato una importante testimonianza su un caso di
presunto clientelismo politico, di un ex direttore generale di una so-
cietà a partecipazione pubblica. Il dg, sentito dai magistrati in merito
al mancato versamento, ha chiarito che effettivamente, nel periodo
preso in esame dall’Agenzia delle Entrate, c’era una mancanza di
fondi in cassa, essendo stato obbligato dall’ente pubblico societario
partecipativo ad assumere 20 dipendenti di un’altra azienda finita
male e costretta al fallimento. A leggerla tutta, il tizio alto in grado ha
ritenuto utile di rendere noto che alcune responsabilità ricadrebbero
su di una governance politica troppo disinvolta. Tutti quegli anni di
studi buttati al vento. Tutto quell’applicarsi, quell’essere diligenti, via
n.92
come niente. Da giovani si gioca spesso a fare il libero pensatore
e al bar ci si vanta pure di non credere nell’esistenza di Dio e cose
del genere. Più delle volte si tratta di acqua che passa. Quel santo in
paradiso, che intercede solo tramite le voci piagnucolose echeggian-
ti nelle sagrestie di partito, se lo si invoca come si deve, fa calare
presto la sua mano a protezione dei miserandi. E miserandi poi si
rimane, seppure alla catena, ma con i soldi per campare la famiglia.
Le iperboli dei politicanti coinvolti, dopo la dichiarazione esplicita del
funzionario, potrebbero ridimensionarsi in semplici strali lessicali do-
vuti alla foga dell’oratoria e della retorica politica. C’è da rimpiangere
il bel management di una volta, quando tutti i tecnici incaricati dello
start-up delle società carrozzone erano sì preparati, in possesso
di indubbie capacità relazionali con la forza lavoro da istruire e una
stimata notorietà professionale vantata in ogni ambiente, ma erano
soprattutto nomi che si rincorre-
vano, nel tempo e nello spazio,
nella tortuosità incorporea di collegi
circoscrizionali, di venerabili maestri
di vita. Fucine di grandi uomini e
pensatori. Grazie alle strategie politi-
che messe in atto, l’Abruzzo di oggi,
moderno e all’avanguardia, è sfio-
rato solo marginalmente da quella
che in quasi tutto il Paese è rimasta
pratica spregevole e consolidata.
Un sistema clientelare inossidabile
che si accanisce sulle “non scelte”
dei giovani. La dritta, che non vuole
essere impartita per diritti acquisiti
sul campo, piuttosto da spendere
per baratto, vista la scarsità di
esperienze vissute, potrebbe essere
quella di ricaricarla sul groppone del
politico, la zavorra esistenziale della
raccomandazione ricevuta per un impiego. Il santo in paradiso, lo si
può tranquillamente restringere in un sofistico ambiente inconsueto
per una mente abituata all’inciucio cerebrale finanche con se stessa,
rinfacciandogli a brutto muso le proprie azioni: “Che vuoi? Hai fatto
male a raccomandarmi!” e via e andare poi con i nomi e cognomi
di tutti quelli che si sono adoperati assieme a lui nel mercimonio
riprovevole, illegale delle coscienze. n
Il Carrozzone va avantiPer campare, questo ed altro
Giovedì 10 ottobre Peter Englund, segretario Permanente dell’acca-
demia di Svezia, ha annunciato che la vincitrice del Premio Nobel
per la letteratura 2013 è stata la scrittrice canadese Alice Munro.
Lo scorso anno, come è noto, il Nobel per la letteratura è andato al
cinese Mo Yan, vittoria che ha suscitato non poche polemiche.
In questi giorni si sono fatti molti nomi sui candidati al Nobel, ma sono
state solo delle ipotesi, scommesse. Per statuto i nomi dei candidati sono
segreti e l’Accademia di Svezia non smentisce mai perché non può tradi-
re il segreto. Secondo alcune voci i nomi più quotati sono risultati Haruki
Murakami (in sentore di Nobel da anni, ormai), il poeta sudcoreano Ko Un,
lo scrittore ungherese Péter Nádas, la scrittrice statunitense Joyce Carol
Oates e la canadese Alice Munro.
Il Premio Nobel per la letteratura può essere assegnato anche a più di
un autore, come succede per gli altri Nobel, anche se ciò non accade dal
1974 quando a vincerlo furono Eyvind Johnson e Harry Martinson. Per
ciò che concerne l’Italia siamo stati detentori del nobel per ben sei volte:
Giosuè Carducci (1906), Grazia Deledda (1926), Luigi Pirandello (1934),
Salvatore Quasimodo (1959), Eugenio Montale (1975) e Dario Fo (1997).
Per quel che riguarda le quote rosa in Nobel si è alquanto carenti: su 109
premiati, solo 12 sono state donne. L’attuale premio Nobel è la tredicesi-
ma donna a vincere tale riconoscimento e in questo modo cerca un po’ di
riequilibrare le “quote rosa” del premio stesso.
Alice Munro nata il 10 luglio 1931 in Ontario è considerata la più grande
scrittrice canadese. Secondo Jonathan Franzen, Alice Munro è “la più
grande narratrice vivente del Nord America. E’ stata premiata perché è
“maestra del racconto breve contemporaneo”. Certo, un bello schiaffo a
gran parte del mondo dell’editoria che non prende mai in considerazione i
Letteratura14n.92
Alice Munro
diMaria Gabriella Del Papa [email protected]
Premio Nobel 2013
racconti (brevi o lunghi) e predilige solo i romanzi.
Secondo alcuni Alice Munro, per via del suo stile asciutto e per la pro-
fondità dell’introspezione, soprattutto dei personaggi femminili, è quasi
una sorta di “Cechov” canadese. E con lo scrittore russo Alice Munro
sembra condividere l’amore per le minuziose descrizioni e per i particolari
apparentemente insignificanti che provocano un’immediata e lancinante
illuminazione.
Infatti con i racconti ha ricevuto riconoscimenti nel corso degli anni: La
danza delle ombre felici è del 1968 e vinse il Governor General’s Award,
il più importante premio letterario canadese. Nel 1978 si distinse con Chi
ti credi di essere? che John Gardner così definì: “Non saprei dire se Chi ti
credi di essere? sia una raccolta di racconti o un nuovo genere di roman-
zo, ma qualunque cosa sia è meraviglioso”.
In italiano Alice Munro è pubblicata, tra gli altri, da Einaudi e Mondadori.
Tra i suoi ultimi titoli ricordiamo: Racconti (a cura di Marisa Caramella,
Mondadori 2013), Troppa felicità (Einaudi 2011), La vista da Castle Rock
(Einaudi 2007).
Sicuramente molti lettori che la conoscono poco o quasi per nulla stanno
cercando di orientarsi nella sua vasta bibliografia, composta per lo più da
raccolte di racconti, ma quali libri scegliere? Da dove cominciare?
Un modo intelligente e direi proficuo per addentrarsi fra le bellissime
parole di Alice può essere quello di lasciarsi guidare da chi la conosce
bene, ossia da Marisa Caramella, probabilmente la maggior esperta
italiana dell’argomento Munro. Caramella ha selezionato cinquantacinque
racconti per l’antologia della collana Meridiani Mondadori. Il volume è
uscito da pochi mesi, per l’esattezza dal 28 maggio 2013, e contiene an-
che alcuni testi mai visti prima in italiano. La versione nella nostra lingua è
ottima, curata da Susanna Basso, traduttrice di casa Einaudi prediletta
da superstar anglofone come Ian McEwan e Julian Barnes, oltre che dalla
stessa Alice.
Questo Meridiano risulta essere una vera immersione letteraria nella
scrittura di Munro, un mare di parole che si alternano e saggezza profonda
milleottocento pagine. Si parte da cinque racconti selezionati fra i quindici
da Danza delle ombre felici, opera d’esordio pubblicata nel 1968 e subito
accolta con stupore dalla critica (un giornalista canadese, quasi presagio
di ciò che è accaduto oggi, si disse folgorato dalla “profonda umanità della
scrittrice e dalla bellezza quasi spaventosa che raggiunge nell’esprimerla”).
Si prosegue poi con un viaggio in quasi mezzo secolo di racconti “densi
come romanzi”. Il librone chiude con la vertigine di Uscirne vivi, apparso
sul New Yorker nel 2011 e quindi all’interno della raccolta a cui dà il titolo,
pubblicata in inglese nel 2013. Poi, alla vigilia dell’ottantaduesimo comple-
anno, Alice Munro, all’improvviso, dichiarava urbi et orbi di non poter più
sopportare la solitudine necessaria alla scrittura, e di voler abbandonare
definitivamente il suo lavoro. Per fortuna, pochi giorni prima, proprio in
Italia era uscita questa preziosa collezione di tesori.
Non credo possa mancare nella biblioteca di un buon lettore almeno
un libro della scrittrice canadese. Consiglio anche la lettura di Nemico,
amico, amante, una raccolta di nove racconti. Sono storie di un mondo
ordinario in cui si scopre anche lo straordinario; non c’è nulla di banale
o di facile sentimentalismo femminile. C’è piuttosto molta umanità: ora
ironica e divertente, ora drammatica.
Tanto per dirla alla Pietro Citati: “Fra pochi anni, chiunque vorrà parlare
di un bellissimo racconto, o di una sottile accortezza narrativa, o di una
visione del mondo tanto ricca quanto inafferrabile, dirà: “Mi ricorda un
libro di Alice Munro. Lo leggerò subito”. n
Chi chiude e chi apre16n.92
Il Corecom
dallaRedazione [email protected]
Oltre 3.500 tra famiglie e aziende abruz-
zesi, negli ultimi 18 mesi – da gennaio
2012 a giugno 2013 – si sono rivolte
al Corecom con un problema legato
alla telefonia mobile o fissa e sono uscite con
la soluzione: indennizzi e bollette annullate
per 1 milione 700 mila euro grazie all’istituto
della conciliazione gratuita. Le richieste più ri-
levanti riguardano i problemi sulla migrazione
(cioè il passaggio ad un gestore ritenuto più
conveniente), la contestazione di importi non
dovuti in fattura, il superamento della soglia
dei costi per il roaming internazionale legato
soprattutto ai periodi di vacanza all’estero, i
distacchi di linea ingiustificati e l’attivazione
di servizi mai richiesti o problematiche legate
alla linea Adsl. “Al 15 settembre erano arrivate
sul tavolo del Corecom - spiega il Presidente
Filippo Lucci - 3656 istanze con una crescita,
rispetto al 2011, del trenta per cento.
Abbiamo registrato oltre 15 mila contatti tra
telefonate, mail e posta ordinaria. Indicatori
che chiariscono due cose: che il Corecom è
sempre più conosciuto ed efficiente e che
la litigiosità tra utente e gestore telefonico
aumenta.. La nuova sede a Teramo – con-
clude Lucci - faciliterà l’espletamento dei
tentativi di conciliazione agli utenti di tutta la
provincia, spesso scoraggiati dal viaggio per
venire nella nostra sede principale di L’Aquila,
tanto da arrivare, a volte, ad abbandonare
l’istanza. Una sede, tengo a precisare, a
costo zero per i cittadini e che arriva dopo
il successo di quella di Pescara”. Presenti
all’incontro, in videoconferenza, dalla sede
dell’Aquila, anche il Governatore Gianni Chiodi
e il presidente del Consiglio regionale Nazario
Pagano. “Registro – ha affermato Chiodi – il
successo del Corecom Abruzzo. La Pubblica
amministrazione ha il compito di facilitare la
vita ai cittadini, e puntare sempre più sulla
semplificazione burocratica. Il Corecom,
come Ente, non rappresenta una novità in
sé, la novità è rappresentata dai servizi che
offre e dalla sua efficienza. Gli Enti, d’altronde,
camminano sulle gambe degli uomini e per
questo esprimo soddisfazione per la scelta
di Filippo Lucci, che, tra l’altro, è riuscito
a scalare i vertici del Corecom nazionale.
“Il Corecom – ha aggiunto Pagano – che si
occupa di questioni concrete, ha raggiunto
un altro importante traguardo”. Hanno voluto
rilasciare dichiarazioni anche altri esponenti
politici teramani. Alfonso Di Sabatino Martina,
vicesindaco di Teramo:”Si può esprimere solo
compiacimento per l’apertura a Teramo e per
gli ottimi risultati del Presidente Lucci che
raccoglie in Italia e fuori consensi unanimi,
aiutando l’Abruzzo e Teramo nella moder-
nizzazione e aiutando il Cittadino”.Tommaso
Ginoble, parlamentare PD:” La sede delle
Conciliazioni e i risultati impareggiabili ottenu-
ti dal Corecom Abruzzo ci aiutano a restituire
corpo alla nostra società abruzzese e a quella
teramana, che è a rischio isolamento con la
perdita di tante Istituzioni. Il presidente Filippo
Lucci è una figura straordinaria ed è l’esempio
di come si ottengano risultati utili a tutti quan-
do in un posto c’è la persona giusta”.Manola
Di Pasquale (esponente minoranza Consiglio
comunale Teramo):” Quando si sa sfruttare
al meglio la normativa insieme con ciò che
offrono le nuove tecnologie, si realizzano
tutte le potenzialità, a beneficio dell’Ente e
dell’intera collettività. Un professionista giova-
ne e capace come il presidente del Corecom,
tanto motivato, andrebbe replicato in diversi
Enti per far sì che si raggiungano risultati che
diventano la crescita di tutti”.
(E aggiungiamo noi che il Presidente Filippo
Lucci ha aiutato “Teramani” nella difficile
fase della nascita e lo ha condotto, sempre
come Direttore Responsabile, nel mare
magnum dell’editoria agli attuali livelli di
credibilità). n
apre una sede a Teramo
Telefonia, in 18 mesi 3.500 conciliazioni e oltre 1,7 milioni di euro agli abruzzesi dalla Redazione.Il Presidente Filippo Lucci: “Siamo un modello nazionale. La cosa di cui siamo più orgogliosi?La soddisfazione dei cittadini”.
nelle attività di investimento
Arco Consumatori informa
diMassimoDi Giacomantonio [email protected]
Obblighi degli istituti di credito
G li istituti di credito, quali intermediari finanziari, anche nell’eserci-
zio professionale dei servizi e delle attività di investimento sono
sottoposti a rigide prescrizioni. Il Decreto legislativo 24 febbraio
1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di interme-
diazione finanziaria), stabilisce che nella prestazione dei servizi e delle atti-
vità di investimento i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con diligenza,
correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per
l’integrità dei mercati; b) acquisire, le informazioni necessarie dai clienti
e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; c)
utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non
fuorvianti; d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno,
idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività.
Entrando maggiormente nel dettaglio, il Regolamento Consob.
n.11522/98 ha opportunamente precisato che, prima della stipulazione
del contratto di gestione e di consulenza in materia di
investimenti, nonché prima dell’inizio della prestazione
dei servizi di investimento e dei servizi accessori a questi
collegati, gli intermediari autorizzati devono chiedere
all’investitore notizie circa la sua esperienza in materia
di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione
finanziaria, i suoi obiettivi di investimento e circa la sua
propensione al rischio.
Gli intermediari bancari autorizzati non possono effettuare
o consigliare operazioni o prestare il servizio di gestione, se non dopo aver
fornito all’ investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle
implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia
necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento.
Gli intermediari bancari hanno altresì l’obbligo di astenersi dall’effettuare
con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia,
oggetto, frequenza o dimensione. Essi, quando ricevono da un investitore
disposizioni relative ad una operazione non adeguata, devono informarlo
di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla
sua esecuzione. Qualora l’investitore intenda comunque dare corso all’o-
perazione, gli intermediari possono eseguire l’operazione stessa solo sulla
base di un ordine impartito per iscritto ovvero, nel caso di ordini telefonici,
registrato su nastro magnetico o su altro supporto equivalente, in cui sia
fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute. Le richiamate norme di
condotta richiamate forniscono utili delucidazioni circa gli obblighi cui gli
intermediari bancari sono tenuti, ponendo in particolare l’attenzione sui
doveri informativi e sull’esigenza di trasparenza che consenta al cliente di
essere adeguatamente e costantemente informato. n
17n.92
Amalia Africani alla sua prima personale,
espone nello spazio di corso Cerulli,
presso il Salotto Artistico Culturale “Pha-
ros” di Giulietta Cerulli, una serie di dipinti che
evidenziano una forte personalità e un sicuro
talento.
Amalia dipinge, come disse il grande scrittore
Wolfgang Goethe, sentendosi “un dilettante”
nel senso proprio della parola, cioè per diletto,
per soddisfare il proprio desiderio di dire e di
fare qualcosa, avendo davanti a sé null’altro
che il piacere di esprimersi. E lo fa con grande
sicurezza, senza tentennamenti, con un gusto
sicuro che nulla concede alla piacevolezza. È
del tutto evidente, infatti, che i suoi quadri non
sono accattivanti, non cercano un consenso
facile tramite, ad esempio, il colore, evitano le
trappole della gradevolezza, cui sono molti a
cedere pur d’intercettare il gusto del pubblico.
Sarà forse per questo che tra gli elementi del
linguaggio dell’arte e del fare pittura - luce,
colore, superficie, spazio, volume, composizione
- che risultano evidenti tra le sue predilezioni,
ad imporsi sono la cura e l’attenta elaborazione
delle superfici. La Pittrice riempie gli spazi della
trama disegnativa dei suoi quadri con delle
stesure mai banali o addirittura sciatte. Siano
esse un prato, un cielo, un muro, uno specchio
d’acqua, oppure un volto o il corpo di una figu-
ra, la coloritura è sempre attenta, complessa,
l’impasto denso, il riempimento mai pago di
un risultato definitivo. Sappiamo che il colore
costituisce tra gli elementi della pittura quello
di più facile comprensione, quello che cattura
di più l’attenzione e predispone l’osservatore
ad un giudizio positivo. Il colore è un elemento
della nostra cultura figurativa più profonda,
la stessa che muove il vivente a far bella la
natura per tessere la trama della vita e della
condivisione. Ma attenzione, può trasformarsi
in un fattore di seduzione e di falso piacere.
Amalia Africani doppia con naturalezza la
trappola dell’insincerità per arrivare al colore
autentico di uno stile ben preciso. Ecco allora
l’infinita gamma dei grigi, dei verdi, dei rossi,
nelle loro variazioni tonali e nella scala di
infinitesime variazioni.
Pittura quindi, pittura autentica che ci auguria-
mo la Nostra possa continuare a praticare per
sempre nuove avventure creative. n
Amalia Africani
Arte di Romolo Bosi
La Sincerità della Pittura
L’uomo e il cavallo hanno percorso tanta strada insieme tracciando
un segno indelebile nella storia dei secoli che si sono succeduti
fino alla rivoluzione industriale. Nel passato il nobile animale è stato
indispensabile per l’uomo per soddisfare i bisogni di tutti i giorni e
nei campi di battaglia.
Con l’avvento della tecnologia la forza prodotta dalle macchine ha
soppiantato quella dell’animale. La simbiosi tra i due esseri ha sviluppato
qualcos’altro che non è stato solo forza prodotta dal cavallo necessaria
per l’uomo. Pur in una condizione di netta distinzione, l’uomo e il cavallo
hanno trovato il modo di completarsi in un’attività diversa dai quotidiani
bisogni, lo sport. Insieme hanno dato vita ad un’attività sportiva chiamata
appunto “equestre” con chiaro riferimento alla specie equina, cui appartie-
ne l’animale. Anche la cinematografia ha contribuito a mettere in risalto il
millenario binomio dedicandole uno specifico settore, il cosiddetto genere
“western”. Le mitiche guerre del Nord America, con gli indomabili indiani
da una parte e i generali dall’altra, hanno fatto la storia del cinema. Da qui
si sono evolute discipline sportive diverse da quelle tradizionali che nel
tempo le stesse hanno acquisito il nome dello stesso continente, comune-
mente chiamate “monta americana”. Molte solo le discipline praticate tra
le quali spicca quella più diffusa, il reining. Nel centro ippico “Le Arene” di
Corropoli, oltre al reining, è possibile praticare altre discipline con la monta
americana come il reined cow horse, il cutting, il roping. Accanto a questi
sport “veloci” si possono praticare le performance Aiqh, come il western
pleasure, il western riding, il trail horse. Nel centro vibratiano, inserito in un
circuito nazionale di ottimo livello, si tengono anche concorsi ad ostacoli,
oltre a offrire agli ospiti ottimi piatti tradizionali della cucina nostrana.
Le attività praticate sono sia a carattere professionistiche che dilettan-
tistiche. Un giovanissimo cavaliere comincia a farsi strada nella difficile
disciplina del renning, dove alle qualità di destrezza nel saper dare i giusti
comandi al cavallo si uniscono anche quelle di freddezza nell’eseguire le
manovre.Il promettente giovane è Jacopo Di Giampietro di Torricella Sicura,
fresco campione interregionale (Abruzzo e Marche), nell’ambiente consi-
derato cavaliere dal sicuro futuro. In tutte le discipline sportive, il sacrificio
di sopportare la fatica e l’abnegazione sono fondamentali sia per la sem-
plice pratica che per eventuali ambizioni. Jacopo ogni mattina dalla casa di
campagna di Corropoli, si reca a piedi nel centro ippico “Le Arene”, situato
a poca distanza, per i quotidiani allenamenti in sella al fedelissimo Cutter
Baby Doc. La passione del reiner in erba è supportata dal nonno Ennio che,
oltre a tifare ovviamente per lui, accudisce i suoi cavalli perché la giovane
promessa, quando non è impegnato in gare e allenamenti, si dedica anche
a lunghe passeggiate con amici e il padre Gianfranco. Il cavallo tutti i giorni
e la domenica anche il calcio perché Jacopo tifa Teramo. Serraiocco e
gli altri idoli biancorossi hanno trovato posto tra le sue passioni: i libri sui
banchi della scuola, le cavalcate in sella a suo Cutter Baby Doc e la tastiera
del cellulare per seguire risultati e classifiche e quando può ad incitare il
diavolo sulle gradinate dello stadio di Piano d’Accio.
“Il cavallo è la mia passione e il renning è la disciplina che mi piace di
più. Insegnare le manovre al cavallo vuol dire entrare in sintonia con lui,
capire le sue peculiarità caratteriali e le capacità di cui è dotato “dichiara
il giovane reiner” e non è facile instaurare un rapporto di buon livello.
La disciplina è molto tecnica e richiede tempo e pazienza per preparare
il percorso di gara, apparentemente semplice da eseguire, in realtà irta
di tante difficoltà. Disegnare in pista dei cerchi a forma di otto,eseguire
la frenata a piedi uniti e far girare il cavallo su se stesso, sono manovre
che necessitano tanto tempo per farle apprendere al cavallo”.
Il giovane cavaliere mostra maturità e conoscenza della disciplina
promettendo, oltre a un brillante futuro in sella al millenario amico
dell’uomo, anche un avvenire importante come uomo.
Riuscire nello sport vuol dire avere a disposizione strutture idonee. Jaco-
po dispone del centro ippico “Le Arene” di Coppoli, di Alfredo Ciabattoni,
un vero gioiello per la impeccabile gestione e per la cura che denota
altrettanta passione del titolare per lo sport equestre. n
18n.92
diAntonio Parnanzone [email protected]
JacopoDi Giampietro
L’uomo e il cavallo
Una promessa nel renning
19
Le conchiglie sono la corazza,il guscio
calcareo di molti molluschi che vivono
nei mari tropicali e quando hanno una
particolare lucentezza iridescente
si possono usare come ornamento. Fin
dall’antichità le conchiglie possedevano un
significato simbolico importante; in Messico
erano considerate il ricettacolo del soffio
vitale, in Perù erano propizie per la pioggia
ed erano offerte in dono agli dei.
In numerose civiltà orientali anche il simbolo
della conchiglia era associato alla fecondità
e alla prosperità.
Le conchiglie fin dai tempi antichi erano
usate anche come oggetto ornamentale:
raramente venivano utilizzate nella loro
forma originale, più spesso erano lavorate a
piccole placche o a lamelle, per essere infila-
te in collane o bracciali,o per grandi pettorali
e pendenti da esibire durante le cerimonie
importanti.
Oggi le conchiglie più apprezzate sono quelle
dei molluschi perliferi, come la Pinctada
maxima e la Pinctada margaritifera che si
trovano entrambe nelle acque dell’Australia
e della Nuova Guinea. In Nuova Zelanda
invece si pescano le Aliotidi o “Orecchie di
mare” che hanno una bella madreperla blu
verde brillante e talvolta variopinta. Lo strato
di madreperla è cosi spesso che si possono
intagliare direttamente nel guscio grani per
collane.
Oggi le conchiglie si usano per bottoni di
n.92
madreperla, mosaici, manici di coltelli e altri
oggetti come scatole e pettini, tuttavia nella
storia della gioielleria non è certamente
mancato chi ha avuto l’immaginazione e l’ar-
dire di trasformare queste meraviglie della
natura in incredibili capolavori di arte orafa.
Manutenzione e cura:
Come la madreperla e le perle, anche i gioiel-
li ottenuti dalla lavorazione delle conchiglie
sono delicati e devono essere maneggiati
con cura. Si sfaldano, si possono incrinare
o rompere a contatto con altri oggetti ed
è molto difficile ripararli senza che se ne
vedano le tracce.
Le conchiglie temono gli acidi, i profumi e le
sostanze alcoliche o oleose.
Per pulirle è sufficiente con un panno delica-
to come il velluto. n
L’oggetto del desiderio
diCarmine Goderecci di Oro e Argento
Il mare dellemeraviglieLe conchiglie
Il Castello Della Monica è lì, già prima di esistere, celato in un posto
immaginifico della nostra anima fanciullesca, a rapirci e a trasportarci
lontano nell’onirico mondo di gnomi, elfi e spiritacci con barbe incolte
e bianche. È lì con le sue alte guglie da Gothic novels sin da quando
siamo Teramani, sin da quando respiriamo, da quando la prima volta
con la Graziella lo circumnavigammo su per Via Cavour e giù senza freni
(inibitori) per Viale Bovio. È lì perché appare a perdita d’occhio tracotante
e vanaglorioso e perché in valli e colline per chilometri non ha né fratelli
né sorelle. S’erge pretenzioso a ridosso dei Parioli teramani, unico, sac-
cente, borioso e ispido di medievale bellezza. Eppure dalle bifore t’aspetti
che una Giulietta butti giù una treccia o che dai merli rimbalzi l’eco di un
cannone o ancora che frecce sibilanti eruttate da balestre oliate oscurino
il cielo azzurro. A guardarlo dal cancello t’aspetti pure che un maniscalco
serri forte gli zoccoli dei cavalli e che quel pino, alto, maestoso, non tradi-
sca il concedere ogni giorno ombra alla maestosità medievale. Pino che
a quanto pare gli conferisce anche uno status da cartolina. Le sue linee
parlano di arditezza e fantasia in un contesto architettonico cittadino
pusillanime e senza coraggio. Una struttura che appare componibile, forse
solo perché una zingara rivelò al suo autore, Gennaro Della Monica, che
sarebbe morto il giorno in cui avesse terminato l’opera: lui, figlio di quel
Pasquale, rinomato artista neoclassico e insegnante d’arte, cercò di esor-
cizzare la sua ora fatale aggiungendo di giorno in giorno nuovi padiglioni,
impreziosendolo all’infinito, pur di non lasciare questa terra. Lo terminò
nel 1917, senza averlo completato del tutto, mentre la costruzione prese
il via nel 1889. “Pura invenzione senza alcun criterio architettonico” lo
definì lo storico d’arte Guglielmo Aurini. “Un sogno” per molti. Di leggende
sul Castello della Monica si sprecano ma quella che vuole il posto pieno di
reperti storici incastrati tra le pareti è la più gettonata.
Ora a difesa di questo pregevole monumento cittadino, attualmente in
uno stato di degrado, scendono in campo diverse figure. Il Fai ad esempio
ha chiesto la sua gestione e al contempo è sorto da poco il Comitato
civico Castello aperto volto al suo recupero e riuso. Solo poco tempo fa,
grazie al Gruppo giovani Fai di Teramo, circa 300 visitatori hanno potuto
visitare l’edificio, dando anche una sbirciata all’interno della struttura. In
quell’occasione il primo cittadino, Maurizio Brucchi, ha promesso la mas-
sima attenzione da parte dell’Amministrazione comunale. Per il recupero
definitivo occorrerebbero ancora tra le 800 mila e il milione di euro. Il
Capo delegato del Fai di Teramo, Franca Di Carlo Giannella, ha proposto di
coinvolgere il Fondo Ambiente Italiano nel recupero e, successivamente,
nella gestione del bene: un auspicio rilanciato anche dal capogruppo dei
Giovani Fai, Vincenzo Di Gennaro. A salutare l’evento con estremo favore
è il teramano Fabrizio Primoli anche se esterna qualche dubbio: “Prendo
atto con piacere della buona riuscita dell’iniziativa del Gruppo Giovani del
Fai di Teramo, devo tuttavia prendere atto del ritardo perché sono passati
più di due anni da quando ho avuto modo di proporre pubblicamente
l’affidamento del complesso Della Monica al Fai, dal momento che il
coinvolgimento di terzi è l’unica strada percorribile per recuperare questo
patrimonio architettonico”. Su una cosa Primoli non concorda, cioè sulla
quantificazione degli importi necessari per recuperare il bene: “Le cifre
necessarie sono quasi il doppio” conclude.
Per il recupero scende in campo anche il neo costituendo Comitato civico
Castello aperto. Nelle intenzioni del suo presidente Fabio Panichi c’è quella
di “promuovere ogni lecita iniziativa atta a valorizzare, recuperare, rendere
fruibile e tutelare il Borgo Medioevale di Teramo”. Le proposte avanzate da
tempo dal Comitato, che è presente anche su Facebook, per recuperare il
complesso sono: liberare l’immobile posto su Via Camillo De Lellis; aprire
da subito al pubblico i Giardini del Borgo; affidare l’intero complesso a
terzi, affinché possano occuparsi essi stessi dei lavori di recupero; prov-
vedere affinché all’interno degli edifici del Borgo Medioevale si possano
installare esercizi commerciali (le cui locazioni costituiranno reddito per
il gestore del complesso) compatibili con la vocazione del luogo, come
botteghe artigiane, caffè in stile, ristoranti con cucina tipica; e consen-
tire l’affitto di taluni locali del Borgo per eventi privati. Infine il Comitato
avrebbe intenzione di realizzare in attesa degli interventi di recupero, due
iniziative: l’allestimento in occasione delle prossime festività natalizie, con
un albero di Natale dinanzi al cancello principale del Borgo, e l’illuminazio-
ne in notturna, con impianto provvisorio e per la durata di una settimana,
la facciata principale del Castello. Sarebbe già un bel primo passo. n
Luoghi teramani20n.92
Il CastelloDella Monica può farsipiù bello
diMaurizioDi Biagio www.mauriziodibiagio.blogspot.com
Il sogno di un castello ritrovato
In giro22diSergioScacchia [email protected]
n.92
L’antica Colonna d’Ercoledel Regno di Napoli
Colonnella
A ll’alba di un mattino d’estate
l’uomo cammina sul sagrato della
chiesa.
Ha un cappellaccio bisunto, ingen-
tilito da un nastro colorato, folta barba
bianca e abbigliamento trascurato che gli
danno aria da eremita.
Mi guarda mentre dal piccolo balcone della
piazza scatto foto al sole nascente sul
mare di Alba Adriatica.
Poi preso dalla curiosità, mi chiede se di
professione sono un fotografo.
Reporter, gli rispondo, per hobby, aggiungo.
Se ne va tirando boccate da una pipa
dopo aver sbarrato gli occhi all’ombra
di cespugliose sopracciglia e a me, pare
deluso. Si aspettava forse qualche grosso
personaggio cui regalare storie del paese.
Evidentemente uno scribacchino locale
non gli dà affidamento.
Torno a scattare immagini.
Colonnella è un paese dove potresti tro-
vare a ogni angolo spunti per un servizio
fotografico.
Dall’alto del minuscolo belvedere al centro
del paese la spiaggia sembra una crea-
zione della fantasia. Prima della distesa
d’acqua la vista s’imbatte nei puntini multi-
colori delle migliaia di ombrelloni variopinti
che fanno da sfondo a un immaginario
fatto di scenografie per una varia umanità
in costume da bagno.
Volgendo lo sguardo all’altra parte, gli
occhi si riempiono della maestosità di cime
tanto amate nel Gran Sasso e nei monti
della Laga che promettono frescura e
passeggiate corroboranti.
Sotto la collina, nella valle del fiume Vibra-
ta, ferve la vita lavorativa dei campi con
vigne e ulivi e delle mille piccole fabbri-
che che fanno di questa zona, al confine
delle Marche, la parte più produttiva del
teramano.
Colonnella, uno dei paesi più belli della
provincia, è davvero come evoca il nome,
un militare con stelline a guardia di un
territorio che regala un caleidoscopio d’im-
magini di rara intensità. L’etimologia viene
forse per la sua antica posizione di “colon-
na d’Ercole” al confine dell’antico Regno di
Napoli o forse dal nome del suo feudatario
“Antichi palazzi costruitisu un’alta collina,un intreccio di viuzze e scalinate,diverse piazzette caratteristiche,un panorama incantevole, unico,l’aria salubre, fresca,questa e’ Colonnella.”
Ennio Flaiano
23n.92
principale che ne volle l’incastellamento.
La visita a questo paese confinante con
l’ascolano marchigiano è un nuovo, inedito
percorso d’arte, di sapori e tradizioni che
trasportano idealmente il visitatore, coin-
volgendolo e affascinandolo in tutti i sensi.
È bella non poco la piazza del Popolo
su cui prospetta la parrocchiale dei S.S.
Cipriano e Giustino. Ancor più bella la
ripida salita di via dello Statuto che porta
a Piazza Mazzini con il Torrione del secolo
XVI costruito su basamento medievale.
Colonnella da questa torre svettante con
l’orologio che riesci a vedere da ogni parte,
non si sottrae agli sguardi. Si lascia, anzi,
coccolare con i tetti, le grondaie ramate,
le vie strette, le sue improvvise vedute che
lasciano immaginare una sottile linea attra-
versante paesaggi, monti, colline, pianure
e coste.
È come essere appesi su di un filo ar-
genteo che unisce e connette un abitato
con la sua natura dolce e placida, ricca di
contrasti e contraddizioni.
Un consiglio: addentratevi nelle vie di
questo borgo incastellato regalando tem-
po e tranquillità alla vostra visita.
Ne rimarrete entusiasti! n
Se i giovani romani alla moda, nel periodo che va dalla metà degli
anni ’60 alla metà del decennio successivo, avevano trovato
un solido punto di riferimento nel Piper, i giovani intellettuali
trovarono il loro luogo di elezione in una cantina di Trastevere, in
via Garibaldi, denominata “Folkstudio”. Il locale, nato come studio di un
pittore afro-america-
no, Harold Bradley,
appassionato di mu-
sica popolare, diventò
ben presto, per motivi
fiscali e per evitare
accuse di “schiamazzi
notturni”, un “circolo
privato culturale
apolitico”. Nel giro di
pochi anni Bradley
tornò negli Stati Uniti,
dopo aver lasciato
l’abitudine, quasi
una moda, di ascoltare due o tre diversi artisti ogni sera, tutti legati alla
medesima idea stilistica, la musica Folk, che in Italia era praticamente
sconosciuta. Assolutamente sconosciuto era anche Robert Allan Zim-
mermann, in arte Bob Dylan, che nel 1962, all’epoca del suo primo disco,
si trovò a suonare sulla pedana del Folkstudio, davanti ad una quindicina
di distratti spettatori. Bradley fu molto importante anche perché fece
conoscere musiche di una serie di paesi, come il Brasile e l’Irlanda, e
questo insegnò al colto pubblico capitolino che la ricerca delle novità
avrebbe portato solo arricchimento culturale.
Il locale, però, aveva forse una linea artistica troppo poco definita, dal
folk americano a quello europeo, dal gospel alla musica caraibica. Tutto
ciò contribuì a far scemare l’interesse del pubblico nei confronti del
locale, favorendo la decisione di Bradley di tornare in America. Il suo
posto, al timone del Folkstudio, venne allora preso da Giancarlo Cesa-
roni, uno dei fondatori del locale, ed il logo del Folkstudio, una mano
bianca ed una nera che si stringono, è proprio il simbolo del passaggio di
consegne fra il primo ed il secondo gestore dello storico locale. Intorno
alla cantina di via Garibaldi, pian piano, si creò un gruppo di giovani
musicisti legati alle atmosfere acustiche e a quello stile emergente che
trovava proprio in Dylan il suo più conosciuto interprete. Nasceva in quel
modo quella che negli anni avrebbe preso il nome di “Scuola Romana”,
insieme piuttosto eterogeneo di nomi più o meno noti, ispiratori e com-
plici di centinaia di produzioni discografiche, che hanno fatto la fortuna
di alcune etichette, quali la RCA e la IT di Vincenzo Micocci (“Vincenzo, io
ti ammazzerò” di Alberto Fortis). I più illustri frequentatori del Folkstudio
sono stati sicuramente Francesco De Gregori ed Antonello Venditti. Il pri-
mo era stato introdotto nel locale all’età di circa sedici anni dal fratello
Luigi (ancora oggi attivo come interprete e traduttore di canzoni country
e folk americane, con il nome d’arte di Luigi Grechi).
De Gregori esordì una domenica pomeriggio sulla pedana che veniva
usata come palco, e Cesaroni commentò l’esibizione dell’emozionatissi-
mo Francesco dicendogli che se il seguente Mercoledì il suo nome fosse
comparso nella programmazione del locale, sul giornale, avrebbe potuto
suonare di nuovo. Così fu, e così iniziò la carriera di una delle più grandi
stelle della scena musicale Italiana. L’altra grande star del Folkstudio
era Antonello Venditti, che sullo sgangherato piano verticale del locale,
iniziò, circa un anno dopo De Gregori, il suo prolifico cammino artistico.
Proprio loro due, poco prima di dare alle stampe il loro disco d’esordio,
“Theorius Campus” formarono, insieme a
Giorgio Lo Cascio e ad Ernesto Bassignano, il
gruppo denominato con pochissima fantasia:
“I giovani del folk studio”, forse per distinguer-
li da quegli interpreti che già da qualche tem-
po si esibivano nello stanzone di via Garibaldi.
I più noti fra loro erano Ivan Della Mea, Gio-
vanna Marini e Paolo Pietrangeli. Le influenze
artistiche principali, ora
che il termine “apolitico”
sembrava parecchio inade-
guato, si concentravano fra
la musica folk americana
e quella italiana, tanto che
fecero diverse apparizioni
giganti del folk nostrano,
come Maria Carta, Otello
Profazio, e soprattutto
Matteo Salvatore e Il
“Duo di Piadena”. Dopo il grande successo ottenuto da De Gregori e
Venditti, l’ambiente legato al folk studio si arricchì di un gran numero di
personaggi fondamentali per la canzone d’autore italiana, e grazie allo
storico locale, che dopo la sede originaria era stato spostato in altri siti,
conobbero la loro notorietà, Mimmo Locasciulli, Stefano Rosso, Rino
Gaetano, Ivan Graziani, Sergio Caputo e Luca Barbarossa, solo per citare
i più conosciuti.
Il Folkstudio, nato come punto di incontro per giovani intellettuali roma-
ni, si è quindi trasformato, in una straordinaria fucina di talenti musicali,
senza pretese e senza grandi concessioni alle mode - creando, anzi, una
moda durata nei decenni, quella dei cantautori -.
Questa veloce retrospettiva apre uno squarcio su un mondo ormai
scomparso, su un modo di vivere e di concepire la musica che oggi
sembrano preistoria, ma che fino a pochi decenni fa ha sfornato prodotti
artistici di livello eccezionale, sperando possa a tornare, miracolosa-
mente a vivere un posto dove l’arte e la Musica possano contare più del
mercato e del business. n
Musica24 [email protected]
n.92
diFabrizio Medori
L’ ”altra” Roma musicale:il Folkstudio
25
Andiamo all’attualità: questa è la prima recensione dell’anno in
corso, CD pubblicato a...sorpresa, dopo circa 10 anni di inat-
tività discografica, senza clamori pubblicitari, semplicemente
annunciato dal singolo Where Are We Now (8 genn. 2013), il
full-album è uscito a marzo, finalmente! Mr. DAVID BOWIE (all’anagra-
fe David Jones, London 08/01/1947), ha ancora qualcosa (di nuovo)
da dire? Probabilmente pochi personaggi dell’establishment artistico
a 360° possono vantare simili credenziali, soprattutto dalla ‘Stampa’
e dai Mass Media in generale: il Duca Bianco, Ziggy Polvere di Stelle,
Gigolò... Qualche passo indietro, Londra anni ‘70, il giovane Bowie
si districava nella scena londinese in cerca di visibilità, vantava già
una congrua cultura generale, attratto dal teatro e dalla scuola del
mimo Lindsay Kemp, tutto dire. Mr.Jones-BOWIE evidenziava già dagli
esordi alcune peculiarità: abbigliamento sgargiante, una certa ambi-
guità... sessuale, acconciature stravaganti, atteggiamenti da poseur
ammiccanti e altro, un gruppo con solide basi musicali, The Hype (
John Cambridge e soprattutto Mick Ronson alla chitarra e produzio-
ne). Riferimento d’obbligo alle prime fasi discografiche, uno dei primi
45 giri “Space Oddity”, buone vendite e, una curiosa italian version
“Ragazzo solo, Ragazza sola”, chi non la ricorda? Intanto frequenta la
Factory di Andy Warhol, il cinema rappresenta una realtà importante
della sua carriera: Just a Gigolò, Absolute Beginners, The Elephant
Man (David Linch, stupendo!), Miriam si sveglia a Mezzanotte...
Intanto completa il primo disco: The Man Who Sold The World, mai
titolo si rivelerà più indovinato: l’Uomo che Vendette il Mondo! Il
brano omonimo era (è, ancora oggi, dopo 40 anni), una pietra miliare
del firmamento ‘pop’! Nel febbraio del 1971,l’artista britannico mette
a punto il nuovo disco-spettacolo: The Rise and Fall of Ziggy Stardust
& His Spiders from Mars (aiuto! I Marziani sono caduti sulla Terra!),
uno shock, un capolavoro musicale, visivo, di costume. Il disco
(rigorosamente in vinile, magari remastered, a 180 gr.), è (ancora)
splendido, songs memorabili (Five Years, Soul Love, Moonage Daydre-
am, Starman...), non dovrebbe mancare in nessuna discografia che si
rispetti, grande musica, il fido Mick Ronson degno comprimario (e,
non solo). Bowie intanto, è sempre più conteso dai Registi, interpreta
l’ennesimo movie, The Man Who Fell To Earth (l’Uomo caduto sulla
Terra, Nicholas Roeg), ennesimo prototipo del ‘Glam-Rock’ incarnato
da Bowie, si allarga la sfera della popolarità, David è questo, estroso,
mutante, geniale, inafferabile. La carriera prosegue, seguono dischi
come Heroes, Low, Scary Monsters, Pin Ups, Let’s Dance, Young
Americans, Station To Station... Rimarchevole la trilogia Berlinese a
cavallo degli ‘80, con le incisioni appena citate.
Nonostante qualche cenno di stanchezza, Bowie imprime la sua
particolare connotazione musicale ai vari generi che ‘attraversa’ con
grande nonchalance: glam-rock, new wave, synth-pop, dark-gothic,
neo-soul, dance...
Ma, andiamo a questa autentica sorpresa del...”Giorno dopo”. Cover
emblematica, ripresa da Heroes, foto quasi coperta da un quadrato
bianco, titolo ‘Heroes’ cancellato, autore dell’artwork è il Graphic-
Designer Jonathan Barnbrock, il poster interno, multicolorato in
stile ‘optical’ di difficile lettura, comunque elegantissimo, in palese
contrasto con il b/n dell’intero package. Il formato deluxe del titolo, è
arricchito di 3 bonus tracks, lo si può ascoltare instreaming integrale
(gratis!) su iTu-nes, corredato
com’è da video
all’altezza del
personaggio, del
resto David Bowie
è (anche) un con-
sumato attore.
Altra figura im-
portante è Tony Visconti, insieme
hanno convo-
cato i migliori
musicisti sulla
piazza, Gail Ann Dorsey, Sterling Campbell, Earl Slick e, altri
session men, si sono chiusi negli studi di registrazione e, dopo 2
anni (!), oplà! E’ nato un (quasi) capolavoro, 17 brani, lungo ma, non
estenuante e, ci fiondiamo direttamente alla traccia n° 3 “The Stars
(Are Out Tonight): Le Stelle, stanotte sono fuori: tiro irresistibile, ritmo,
voce, strumenti, grandissima musica, in quasi tutti i dischi recensiti,
la song n° 3, è la migliore del lotto, curiosa coincidenza? Un passo
indietro, il CD inizia con la title track tND, così così, segue Dirty Boys,
scura, sporca (appunto) quanto basta, di The Stars... bbiamo detto
ma, ci ritorniamo brevemente, ritmo irrefrenabile, stellare, perfetta
pop-song in 3’55”. L’Album prosegue incessante, fra episodi soste-
nuti, Love Is Lost, If You Can See Me, I’d Rather Be High, Boss On Me,
Dancing Out In Space, How Does The Grass Grow, Plan, I’ll Take You
There, e brani più medidati e rilassati, You Feel So Lonely You Could
Die, Heat, Valentine’s Day, (You Will) Set The Word On Fire. Siamo a
17, anzi 18 (nell’edizione Made in Japan!), alcuni rumors riferiscono
che ne sarebbero stati registrati addiritura...29!
Appena uscito, il disco si è posizionato ai vertici delle charts di
Belgio, Danimarca, Germania, Giappone, Norvegia, Olanda, Gran
Bretagna, Rep. Ceca, Svezia e Svizzera e, immediatamente a ridosso
della prima posizione in Italia, Spagna, Stati Uniti, Canada, Francia e
Austria, così, come dato statistico emblematico. Buon ascolto!
Voto: 7 1/2 n
n.92
Write about... the records!
diMaurizio Carbone [email protected]
The next day David BowieCD - de luxe editionsiso/columbia/sonymusic, 2013
Nello spazio, silente, la macchina da presa si avvicina a noi,
allontanandosi ancor più dall’immagine della Terra, già remota. Il
movimento si identifica con l’orbitante Hubble Space Telescope
che procede verso lo spettatore,
suo controcampo fuoricampo. Una strana
soggettiva rovesciata: è la solitudine dello
spazio a invaderci. In tal modo, il muoversi
danzante di un corpo, fuscello a gravità
zero, che poi diventano due e tre corpi, for-
se quattro con la virtuale voce a distanza di
chi controlla la missione spaziale dalla ter-
ra, unisce tutti: voci, corpi, spettatori, attori
e macchina da presa. Anche quest’ultima
fluttuante e ruotante, come in un mare
senz’acqua, nel quale i nostri occhi nuota-
no upside down, a seguire i capovolgimenti
dei protagonisti, girotondi umani, metafore
di uno spazio dove non esiste né sopra né
sotto. Visione nitida del tempo abolito e so-
speso (anche attraverso il piano-sequenza,
lunghissimo, con cui si apre il film), frazione
del nulla. La danza dell’assenza di peso
unisce e separa i corpi con inaudita facilità,
abolendo divisioni ma pure stabilità, il tutto
divenuto nulla. «È da cagarsi sotto quando
le cose non sono legate».
La science-fiction contemporanea deve
necessariamente fare i conti con un futuro
già arrivato: non l’outer del passato avve-
niristico ma l’inner del presente immobile
è al centro della sua ispirazione visiva e
concettuale. La battuta chiave di Gravity è «It’s time to go home», una
sorta di chiusura per assurdo del cerchio di quel remoto, individualistico
«E.T. home phone» che definì sin troppo bene gli anni ’80. Si tratta an-
cora dell’alien in noi, essere solitario lost in space alla disperata ricerca
di un contact, innanzitutto tra me e me, stavolta però per ritrovare l’e-
sterno. Lo spazio del film di Alfonso Cuarón, da sempre interessato alla
auto-ricostruzione o definizione degli esseri umani (sin dall’esordio di
Solo con tu pareja, 1991) si rivela quindi un cyber-spazio 2013 tutto alla
Cinema
deriva, un terreno minato di lacerti di un passato dissoltosi nell’irreale
simultaneità di un terminale post-moderno. Una casa parallela da cui
fuggire, per ricostituire quella originaria.
Sci-fi da camera, interiorizzata, sia pure nella vastità del cielo che la
contiene, esclusivamente basata (dopo poco più di mezz’ora) sulla
performance di un(a) one (wo)man band, la dottoressa Ryan, specialista
alla sua prima missione, e da salvare (salvarsi da sola) come l’omonimo
soldato emblema di Spielberg. Omaggio alle celebri odissee nello spazio,
2001 e 2002, Kubrick e Douglas Trumbull, ricomprese nell’uso parco del
sound (lo spazio è silenzioso), niente a che fare con la pomposità reto-
rica delle colonne sonore da blockbuster. Nella scarna messa in fabula
dove ogni rotondità di narrazione viene schiacciata da una prospettiva
sferica corrispondente a una semplicità primordiale, ogni elemento
perde spessore (gravità) ponendosi come unità non separata.
Non a caso, corpi e volti sexy dei due attori-star risultano annullati dalle
stelle della volta celeste, un tutto indistinguibile. Sandra Bullock (Ryan) e
George Clooney (il comandante Matthew, all’ultima mission prima della
pensione) sono altresì anonimizzati dalle tute spaziali, il loro costitu-
isce un vagare indistinto da quello del terzo corpo di Shariff (Phaldut
Sharma) di cui per un attimo ascoltiamo
la voce. Udiamo parlare (almeno nella ver-
sione originale) pure Ed Harris (Houston), il
quarto uomo dalla Terra, epitome dell’era,
senza più identità e persona (corpo), detta
dal film. Quando, insieme a Ryan, vedremo
Shariff in faccia, sia pure protetto dal casco
che nega la viseità, tranne che nei primi
piani, pure agli altri due, il volto non lo ha
più, trafitto dalle scaglie di detriti di una
stazione spaziale russa distrutta, che a sua
volta distrugge shuttle e satelliti a cui sono
attaccati, come a un cordone ombelicale,
gli eroi leggeri del film. Resta una foto di
famiglia, lui con moglie e figlio, amarcord
dalla Terra.
E dal pianeta più arrogante, con lo stesso
metodo de-composto, autentica dramma-
turgia “magra” di un’esplosione interiore
avvenuta, sono riconoscibili, tra gli interni o
gli esterni delle stazioni spaziali (americana,
russa o cinese, tre mondi senza distinzio-
ne), l’icona di Budda e Gesù, un fotogram-
ma del Voyage sur la lune (1902) di Méliès
(ricordato pure nel tuffo finale), pezzi di
scacchiera (per giocare con la Morte?) e
racchetta e pallina da ping pong. Anche
(siamo in casa Warner) Marvin il marziano,
looney tune spazzata via dalle meteoriti. Cartoni animati e corpi, sport e
religioni, fiction e realtà, tutto omologato.
Sembrano cartoline decontestualizzate eppur eloquenti di un social
network (citato Facebook quando il satellite finisce in pezzi) e, piuttosto
che una conversazione, o un rapporto, quello tra Matt e Ryan, si direbbe
una chattata. Non sanno niente l’uno dell’altra, lui fa il piacione, chiede
della vita di lei, che racconta di sé come probabilmente in nessun altro,
reale, contesto. Le albe sulla Terra diventano un ricordo, una testimo-
26
La gravitàdella tomba
diLeonardoPersia [email protected]
n.92
Gravity sul grave del nostro tempo
27
nianza a distanza (virtuale). Proprio al pari
di un contatto da web, il nome da uomo di
Ryan nasconde una donna, si parla (tutti e
due) di occhi azzurri che invece sono marroni,
il racconto delle proprie tragedie personali
comincia ad affiorare, intimità della distanza.
Seguendo quest’ottica, anche il cognome di
Matt, Kowalski, potrebbe essere un nickname
(in onore a Marlon Brando o Tennessee
Williams). Ryan si chiama così, invece, perché
il padre voleva un maschio, non ha compagno
che l’aspetti sulla Terra, è rimasta irrigidita e
pietrificata (Stone il cognome) dopo la morte
della figlia di quattro anni. Ecco che il termine
gravity chiama a sé grave, la tomba. Ed è
impossibile non pensare alla gravità (pesan-
tezza) della nostra condizione umana, oltre a
quella di Ryan, rimasta improvvisamente sola
nello spazio.
La sua solitudine è la chiave di volta del rac-
conto. Paradossale, perché la donna ha perso
il proprio peso (specifico) proprio per essere
divenuta greve, per essersi fatta pietra. Quella
figlia morta è un rovescio simbolico della sua
condizione di non nata. Il personaggio di Matt
è (ugualmente in senso psicanalitico, junghia-
no) l’uomo da sé estirpato, conferma una
condizione di mutilazione. L’altro paradosso
sta nel fatto che, proprio quando il maschio
sparisce, Ryan lo ritrovi in sé, sotto forma di
visione e slancio, puro fuoco interiore. James
Cameron (che difatti ha elogiato molto il film)
non è tanto lontano, sia nella progressiva
virilizzazione dell’eroina che nelle implica-
zioni avatariane della rete. Soprattutto per la
duplicità, tipica dei simboli, delle situazioni.
L’ululato da cane di Ryan, per esempio, è un
ulteriore sprofondare nell’annullamento, ulti-
mo gradino prima della resurrezione, oppure il
divenire-intenso, divenire-animale, divenire-
impercettibile di cui parlava Deleuze?
Quello spazio virtuale e critico risulta asettico
e fertile allo stesso tempo. I detriti da satellite
colpito da missile richiamano alla mente
molesti spermatozoi che penetrano nella
vita frigida della protagonista e non mancano
neppure i
parti metafo-
rici, l’entrare
e uscire da
pertugi sim-
bolici, come
altrettanto
presenti sono
le riparazioni/
operazioni chi-
rurgiche (Ryan
è in primis
un medico), con tanto di cordoni ombelicali
(satellitari) recisi e sacchi di placenta ambu-
lanti. Se dal 3D si passa al 4D, tutto diventa
chiaro. Si capisce il preludio alla riconquista,
didascalica e in stile Shyamalan, dei quattro
elementi naturali. Quando la donna risale su,
scendendo giù (alla lettera), una rana nuotan-
te rappresenta l’umido della vita contrappo-
sto all’arido del morire (o del vivere senza
n.92
vivere, condizione assai comune). Lo spazio
anfibio ritrovato.
Ryan recupera l’aria (dopo essersi tolta
l’uniforme e ri-postasi in posizione fetale)
e, appunto, il fuoco (reale e metaforico) e
l’acqua (anche per via di una lacrima che
sfoca tutto lo sfondo e riempie lo schermo,
come definitissima particella di saggezza
ritrovata, di scioglimento necessario). Infine
la Terra, approdo inevitabile, con il contatto
non più virtuale, segnato da quella mano che
penetra nella sabbia. «La vita nello spazio è
impossibile» recita la didascalia iniziale. Per
questo, era ora di tornare a casa. Adesso lo
sguardo è smarrito, impaurito, umano. La sor-
presa di ritrovarsi viva. Con fatica, la vediamo
rimettersi in piedi e andare avanti. Ci guarda
e guarda, di nuovo si crea una soggettiva
inversa e plurima che implica lo sguardo dello
spettatore e lo chiama di nuovo in causa. Lei
è nata di nuovo. E noi? n
L’era Vivarini comincia bene.
L’entusiasmante finale
dello scorso campionato
poteva mettere in ombra
la nuova gestione tecnica. Il bel
ricordo della mancata promo-
zione, invece, ha lasciato il posto
ad un brillante inizio di stagione. A rendere ancor più interessante il primo
scorcio di stagione ci ha pensato il Cosenza dell’ex Cappellacci. Un duello
a distanza che alla vigilia di Natale, se le due squadre dovessero continua-
re con lo stesso passo, potrebbe regalare ai tifosi biancorossi una sfida
inattesa e piena di significato. I goal di Dimas, la collaudata difesa della
formidabile coppia centrale Ferrani - Speranza e del paziente Caidi pronto
a sostituire uno dei due, la certezza di Scipioni, l’affermazione definitiva
di Di Paolantonio, i giovani Pacini, Lulli, Petrella, Serraiocco e così via tutti
gli altri, hanno fatto della formazione guidata da Vivarini un collettivo che
gioca bene e sa vincere su qualsiasi campo, magari non sempre, ma senza
subire l’avversario. Proprio quest’ultimo aspetto è la qualità migliore di una
28n.92
diAntonio Parnanzone [email protected]
L’era Vivarini comincia bene
Calcio
Recentemente, nella nostra terra d’A-
bruzzo, nel territorio teramano, abbiamo
accolto Mark Kostaby, un poliedrico
artista, pittore , musicista, un esponente im-
portante nell’arte contemporanea, presente,
a Montorio, con una sua mostra pittorica ed
un concerto all’evento “La Vetrina del Parco”.
Kostaby, artista della Pop Art, nato in Califor-
nia e trasferitosi, dopo gli studi artistici alla
“California State University“, a New York negli
anni ’80, conquistò ben presto il successo a
livello internazionale: dagli Stati Uniti, Giappo-
ne, Australia,fino all’Europa. Nelle sue opere,
attraverso un linguaggio universale, partendo
dalle figure umane che assurgono sempre più
tratti schematici, in un tripudio di colori , rie-
sce a catturare la sensibilità e ad emozionare
quanti si appassionano alla sua arte.
I Mass Media se lo contendono, grazie alla
sua disponibilità, chiarezza nella comunica-
zione , semplicità e nell’aiuto offerto ai giova-
ni artisti. I suoi insegnamenti per arrivare al
successo sembrano facilmente perseguibili,
ma nascondono anni di impegno, fatica, step
by step, sacrifici, grande passione e creatività
artistica.
Tra i suoi consigli ai giovani artisti : vivere
e lavorare a New York, Londra o Berlino…,
non parlare di sé, lasciando il proprio ego
a casa, ma ascoltare gli altri, non lamen-
tarsi, essere educati, credere nelle proprie
capacità, frequentare i galleristi, i luoghi,
gli eventi artistici, conoscere persone ed
interessarsi agli altri, costruirsi una propria
storia, conoscere artisti famosi, saper
vendere le propria produzione artistica ed
infine formare bravi artisti che sappiano
lavorare nello studio del maestro. n
MarkKostaby
Arte varia di Floriana Ferrari
Pillole per il successo artistico
squadra che gioca con personalità e autorevolezza. Anche quando l’equili-
brio tiene teso il filo conduttore dell’incontro, trova lo spunto per risolvere
a proprio favore il match. Qualità importanti che dovrebbe consentire
al Teramo di accedere alla terza serie nazionale unica nella stagione
2014/2015. E’ ancora presto per dire se il Teramo è veramente grande e se
l’ampia rosa potrà reggere al logorio di una stagione altamente agonistica
che gli organi federali hanno proposto per l’assestamento della catego-
ria. Per scivolare nel baratro basta poco. Il nono posto, in altre stagioni
sinonimo di tranquillità in una posizione di centro classifica, significa
intravedere la serie inferiore e se poi le cose dovessero andare un pochino
peggio, diventa certezza il ritorno nei dilettanti. C’è piena consapevolezza
dei rischi che l’annata propone, ma non bisogna demordere di fronte alle
difficoltà. Lo staff tecnico, la società e i calciatori, uniti come non mai,
stanno dando prova che quando
si vuole raggiungere un obiettivo
la forza di volontà e le capacità
di ciascuno conducono nella
direzione giusta. D’altra parte non
possono riconoscersi i meriti del
D.S. Di Giuseppe per i successi
del recente passato e quelli dello
stesso Vivarini che sta conducen-
do, con saggezza e competenza,
un gruppo di ragazzi bravi e volenterosi, da quelli che giocano più spesso a
quelli che devono accontentarsi di starsene seduti sulla panchina o addirit-
tura sulle gradinate della tribuna. E le avversarie? le più titolate (Casertana,
Messina, Foggia) non brillanto, ma c’è da aspettarsi l’ascesa nelle zone alte
della classifica nel prossimo futuro. Bene, invece, Melfi e Vigor Lamezia,
benissimo il Cosenza di mister Cappellacci. I giochi sono appena iniziati,
per cui la sfida per la conquista delle posizioni che contano deve ancora
entrare nel vivo. Il futuro, pertanto, riserverà grande interesse. n
C ampionato iniziato in maniera entusiasmante e superiore ad
ogni più rosea aspettativa per la Teknoelettronica Teramo.
Dopo aver perso la prima gara casalinga piuttosto nettamen-
te con il Carpi, tra le candidate ai primi posti della classifica
finale, la compagine teramana ha inanellato quattro successi con-
secutivi, due dei quali in trasferta a Bologna e Pisa. Le vittorie sul
terreno di casa sono state conseguite contro squadre titolate tra le
quali l’Ambra Prato, sovvertendo ogni pronostico. Ora, la squadra
teramana occupa il primo posto in classifica generale insieme a
Carpi e la stessa Ambra Prato degli ex Pierluigi Di Marcello e del
lituano Raupenas, anche se con una partita in più. Alla luce dei
risultati fin adesso ottenuti e delle belle prestazioni di squadra, il
Sport30 dallaRedazione [email protected]
n.92
Pallamanosogno di
centrare
i play off
sembra
raggiungibi-
le fermo re-
stando che
l’obiettivo
principale
resta quello
della sal-
vezza.
In campo femminile, la squadra allenata da Franco Chionchio,
dopo l’esordio di Salerno perso con appena una rete di differenza
e dopo aver cullato a lungo il conseguimento di una clamorosa
affermazione, ha fatto registrare la brutta sconfitta casalinga contro
il Mestrino, evidenziando quanto difficile sarà il suo cammino nel
corso del campionato.
Queste due iniziali sconfitte hanno consigliato la società teramana
di tornare sul mercato, cercando di aggiungere almeno una gioca-
trice di valore al già nutrito organico e che consenta un cammino
più rassicurante e tranquillo. n
Maschile e femminile
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