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Università degli Studi
Suor Orsola Benincasa
FACOLTA' DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE in
COMUNICAZIONE PUBBLICA E D’IMPRESA
TESI DI LAUREA IN
BRANDING, CORPORATE IDENTITY E LOBBYING
NUOVI MODELLI DI BUSINESS NEL CALCIO:IL TIFOSO CONSUMATORE
Relatore ANDREA Candidato Nazareno FerraroCh.mo Prof. DELOGU Matricola 176000135
Anno Accademico 2012 - 2013
Indice
Premessa 3
Capitolo 1 - L'impresa calcio: caratteristiche e protagonisti 5
1.1 Un esteso universo di relazioni1.2 La particolarità dell'ambito sportivo 6
1.2.1 sponsor e partners1.2.2 media: televisione 71.2.3 altre società sportive 81.2.4 federazioni e leghe 91.2.5 altri soggetti1.2.6 il tifoso 10
1.3 I capisaldi nell'analisi dell'azienda calcio: la fedeltà alla squadra 111.4 I capisaldi nell'analisi dell'azienda calcio: il risultato sportivo 14
1.4.2 il modello “profit maximizing” 151.4.3 il modello “win maximizing” 17
1.5 La retrocessione “sostenibile”, ovvero come gestire l'incertezza 18
Capitolo 2 – Il sistema calcio in Italia 20
2.1 Una introduzione: il confronto con l'Europa2.2 La storia: il lento passaggio all'impresa calcio 22
2.2.1 l'approccio mecenatistico 232.2.2 l'approccio imprenditoriale 24
2.3 Lo scenario attuale in Italia 252.4 Le criticità da affrontare: i costi di gestione 272.5 Le criticità da affrontare: le strutture 282.6 Le criticità da affrontare: il difetto culturale 302.7 La rivoluzione tifocentrica. Teoria di una soluzione 31
Capitolo 3 – L'impresa del tifo 33
3.1 Il tifoso come consumatore “sui generis” 343.2 Le esigenze del tifoso 35
3.2.1 lo stadio: il punto di partenza 363.2.2 l'importanza della cornice: il marketing mix da stadio 393.2.3 stadio contro televisione: una lotta forzata 42
3.3 La codificazione dei valori nell'impresa calcio: “il team brand” 433.3.1 storia e territorio : il caso Barcellona e la filosofia “mes que un club” 453.3.2 la responsabilità sociale dell'impresa calcio 473.3.3 lo sfruttamento commerciale del “team brand”: il merchandising 48
3.4 La riduzione delle distanze: il ruolo della comunicazione “social” per combattere il
1
“football divide” 503.4.1 Il knowledge management nel calcio 56
3.5 La gestione tecnico-finanziaria. Fair play, salary cap e vivaio. 57
Capitolo 4 – Segnali di svolta: il Sorrento calcio 61
4.1 Tentativi di conversione all'azienda calcio: una realtà esemplare 624.2 Un progetto di marketing 634.2.1 La vicinanza al tifoso : la CSR 654.2.2 Iniziative per il tifoso-consumatore 664.3 Intervista ai vertici: la volontà di cambiare 69
Conclusioni: la sfida più importante 71
Bibliografia 73
Sitografia 75
2
Premessa
Forse è davvero riduttivo definire il calcio solamente uno sport.
Gli ultimi campionati del mondo disputati in Sud Africa possono fornire una rappresentazione
quantitativa di quello che esso riesce a muovere in termini economici e sociali, stimolando masse
indiscriminate di appassionati e quindi coinvolgendo una molteplicità di stakeholders interessati. Un
evento del genere si è trasformato così nella concreta occasione di sviluppo globale di un paese che
si è affidato al calcio per crescere.
Per avere un'idea del fenomeno, le cifre parlano di investimenti per circa 3,3 miliardi di euro,
distribuiti tra i diversi settori da implementare per organizzare un appuntamento di questa portata:
43% nelle infrastrutture
30% nei trasporti
24% nella costruzione di nuovi stadi
3% nella sicurezza
Queste spese sono motivate da un immensa opportunità di ritorno economico. Nell'occasione, si è
raggiunta una cifra superiore ai 6 miliardi di euro. I ricavi si presentavano diversificati in questo
ordine:
38% da diritti televisivi
13% da sponsor e merchandising
28% da biglietteria e spese dei tifosi
21% da attività turistiche
La metà del totale di questi ricavi è attribuibile alla capacità di spesa di una singola, fondamentale
figura: il tifoso, un fenomeno che merita definizione più completa. Esso è il fulcro dello spettacolo
sportivo. Ne è il primo diretto consumatore, ma allo stesso tempo rende unico il prodotto sportivo
costituendone anche il produttore: è lui infatti che disegna la cornice di un evento e dunque la sua
forza attrattiva. E alla sua presenza è indissolubilmente legata la sorte del calcio. Ma il calcio stesso
tende a dimenticarlo. Da questo punto parte il nostro percorso di analisi, concentrato sulle criticità
3
attuali del sistema professionistico italiano, responsabile di una pericolosa dispersione del valore, e
sulle possibilità di evitare questo declino proprio grazie alla valorizzazione del suo principale
fruitore.
La prima parte dell'analisi si concentrerà sulla descrizione dell'impresa calcio quale organismo
socio-economico attivo costantemente correlato ai suoi interlocutori di riferimento. Per effetto di
una serie di radicali trasformazioni la società agisce ormai come una azienda con finalità lucrative,
oltre che meramente sportive. Per questo motivo anche in Italia si rende necessaria l'evoluzione di
un approccio manageriale che controlli entro il possibile l'incertezza di un modello troppo rigido,
alimentato in buona parte dalle entrate televisive, che lo vincolano, e penalizzato dall'elevato costo
del lavoro. Di fronte alle notevoli differenze con i grandi campionati del continente, l'unica
possibilità risiede nell'adozione di una strategia calibrata sulle esigenze del supporter-consumatore,
dalla cui soddisfazione dipenderà quella dell'intero sistema calcistico.
Qui comincia la seconda parte. Il recupero dello stadio rappresenta la priorità e l'indice di una
rivoluzione che riduca le distanze tra tifoso e società. Questa ha il dovere di raccogliere e codificare
l'immenso patrimonio di valori condivisi con il proprio pubblico e convertirlo in una “brand
identity” che aggiunga valore al club, aumentandone l'appeal presso tutti i possibili interlocutori.
Per essere un marchio di livello, l'impresa calcio ha il dovere di aprirsi, in un processo strategico nel
quale diventa prezioso anche il contributo delle tecnologie comunicative dirette, come quelle social.
L'ultimo passo offre lo spunto di un caso concreto, quello del “Sorrento Calcio”, che testimonia
l'impegno di alcune realtà professionistiche a cambiare rotta, in nome del recupero di un rapporto
che non ammette ulteriore compromissione. La storia e le sue suggestioni, il territorio con i suoi
simboli, i valori sociali dell'appartenenza ad un unico colore: come la società presa in esame anche
quelle più blasonate possono contribuire ad un nuovo modello di gestione “a misura di tifoso”,
fondato cioè sulla condivisione di principi comuni.
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Capitolo 1
L'impresa calcio: caratteristiche e protagonisti
1.1 Un esteso universo di relazioni
Già in sede di introduzione è stata assunta una prospettiva che mira a dare un'idea della forza del
sistema calcio, intesa come capacità di cui esso dispone di attirare verso il suo nucleo una miriade di
interessi economici e sociali. Questo particolare intreccio è dunque cresciuto, e raggiunge ai tempi
attuali un livello di complessità troppo forte perché non se ne parli in termini di impresa. Essa è per
definizione un sistema che vive in rapporto quasi simbiotico con l'ambiente esterno, è impossibile
negarlo.
Gli stakeholders che agiscono attorno ad una società di calcio provengono da una molteplicità di
ambiti, e c'è stato modo di rilevare l'incredibile portata economica, in termini di investimenti e di
susseguenti ricavi, che un evento come un mondiale di calcio riesce a rappresentare.
Realizzando un'analisi piuttosto superficiale della fitta schiera di rapporti che vengono intrapresi si
evidenzia innanzitutto la presenza di portatori di interesse secondo due livelli distinti.
Livello interno
• dipendenti dell'impresa
• tifosi (concetto che in seguito verrà ripreso ai fini del nostro percorso)
Livello esterno
• istituti di credito
• istituzioni locali e nazionali
• imprese che assolvono una funzione logistica (trasporti)
• imprese che assolvono una funzione commerciale (sponsor tecnici, main sponsor)
• imprese che assolvono una funzione infrastrutturale (gestione degli stadi e altre
strutture)
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• sistema dei media
Una breve parentesi aiuterà a definire con maggiore precisione la conformazione di questo universo
aziendale, sottolineando le particolarità di settore.
1.2 La particolarità dell'ambito sportivo
Questa analisi mira ad evidenziare gli aspetti positivi di una gestione azienda della società di calcio,
nella convinzione che questa vada concepita alla stregua di una impresa che generi profitto. Ma
emerge subito una differenza evidente. Una realtà aziendale di livello sente il bisogno di fare
breccia nei mercati differenziando il suo prodotto, il prezzo, il canale distributivo, la comunicazione
secondo le esigenze dello specifico target di riferimento da raggiungere. Anche il calcio ha a che
fare con un pubblico indifferenziato. Ma mentre l'impresa tradizionale tende a calibrare la sua
offerta, in questo settore assistiamo all'offerta di un prodotto unico ad un pubblico comunque
eterogeneo: lo spettacolo sportivo. Questo ricopre la funzione richiesta da ognuno degli agenti con
cui la società entra in contatto, “clienti” con una particolare esigenza da soddisfare. Di conseguenza,
la società offre un prodotto unico attivando al contempo strategie diversificate.
1.2.1 Sponsor e partners
Lo spettacolo sportivo può rappresentare un ambito di grande interesse per tutte le aziende che
decidano di entrare in rapporto di partnership o di sponsorship. La squadra viene concepita come se
fosse un enorme spazio pubblicitario in grado di connettere le aziende ad un pubblico di
appassionati. Caratteristica interessante da sottolineare è la dinamicità del processo di promozione,
che non si limita a raggiungere il bacino d'utenza della squadra sponsorizzata, ma riesce a garantire
di settimana in settimana anche un'esposizione alla parte “avversaria” di pubblico. Tra le principali
forme di rapporto società-azienda abbiamo:
• Main sponsor, lo sponsor principale che si trova sulla maglietta di una squadra di
calcio.
6
• Partners, altre aziende che decidono di associare la loro immagine a quella della
squadra
• Media partners, di solito emittenti radiofoniche o televisive che raccontano
ufficialmente le vicende della squadra
• Sponsor tecnico, che fornisce l'abbigliamento al club, promuovendo allo stesso
tempo il marchio che lo produce; la commercializzazione dell'abbigliamento sportivo
di un club è anche la forma più classica di merchandising
Una azienda può decidere di entrare in contatto con una società di calcio per motivi differenti:
• visibilità
• prestigio
• possibilità di creare sinergie con le altre aziende che sono partner ufficiali del club 1
E' intuibile che il bacino d'utenza, il valore storico di una società ed i suoi risultati sportivi
rappresentino gli elementi che combinati tra loro danno il valore di una sponsorizzazione. Quando
un'azienda sceglie una società questa deve agire in maniera tale da garantirle un ritorno di immagine
degno dell'investimento sostenuto.
1.2.2 Media: televisione
Il sistema mediatico, in particolare nella forma delle emittenti televisive, è la principale fonte di
ricchezza nel calcio. Avremo modo di osservare che proprio la pressione del sistema televisivo ha
permesso il passaggio ad un modello imprenditoriale di questo sport, grazie all'enorme fonte di
guadagno che questo rappresenta per le società.
Nel nostro paese è addirittura tale la dipendenza da questa fonte di guadagno da paralizzarne l'intero
sistema calcistico, che non riesce ancora a valutare fonti alternative di ricavo.
1 In Mancin M. e Marchesi A. , Strategie per il business dello sport, Libreria dello sport, 2011.
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Il mezzo televisivo costituisce una risorsa economica a livello nazionale ed internazionale.
In Europa “la contrattazione con le emittenti televisive è demandata direttamente alla Lega o alla
Federazione di riferimento” 2, che opera per conto di tutte le compagini partecipanti ad un evento
(come la “Uefa Champions League”) garantendo un' equa ripartizione degli introiti. Questa
ricchezza viene distribuita secondo criteri prestabiliti, e tiene conto anche dei meriti sportivi di una
squadra che avanza nella competizione e ottiene un premio economico calibrati sui risultati
raggiunti.
Nel nostro paese il sistema è fondato sulla presenza di pochi soggetti (Sky e Mediaset) in grado di
aggiudicarsi i diritti di trasmissione del campionato di calcio secondo criteri disparati: risultati
sportivi; bacino d'utenza; tradizione della società. Una distribuzione obbediente a simili parametri
ha finito per acuire il divario tra le squadre di prima fascia e le restanti, secondo una dinamica che si
ripete di stagione in stagione 3. In questo modo l'equilibrio della competizione sportiva viene messo
in discussione, dal momento che la maggioranza delle risorse viene assorbita dalle stesse società,
con la stessa proporzione. E' facile comprendere che il sistema televisivo nel calcio funga da croce e
delizia allo stesso tempo di un sistema che deve assolutamente generare una distribuzione più
allargata ed efficace di una ricchezza che non può dipendere da questa unica fonte.
1.2.3 Altre società sportive
Le altre squadre di calcio rappresentano rispetto ad un club i competitors da affrontare all'interno
del campionato. Le società sono da intendere come parti integranti di uno stesso spettacolo, quello
sportivo, che vivono in un rapporto simbiotico tra loro. Ma sono altresì imprese di un unico settore
che mirano alla realizzazione dei propri specifici obiettivi secondo differenti ordini di relazione. Le
società così possono essere:
• competitor, da un punto di vista strettamente sportivo, come già detto
• fornitrici, nel caso di acquisto di calciatori da un'altra società dello stesso campionato
• clienti, nel caso di cessione ad un'altra società di un proprio giocatore
2 Mancin M. , Marchesi A. , Strategie per il business dello sport, Liberia dello sport, 2011.3 La ripartizione avviene secondo questa proporzione: 40 % diviso tra tutti i club; 30 % per i risultati sportivi (un 10% del quale per i risultati ottenuti dal 1946); 30% in base al bacino di utenza (5 % per gli abitanti del comune della squadra e 25% in base al numero di sostenitori individuati dalle indagini demoscopiche della Lega Calcio).
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1.2.4 Federazioni e leghe
Il compito primario delle federazioni è quello di rappresentare le società che ne sono comprese
all'interno e fungere allo stesso tempo da organo intermediario nell'organizzazione dell'evento
sportivo, garantendone anche il rispetto delle regole.
L'organo che nel nostro paese gestisce i più importanti tornei calcistici è stato fino al 2010 la “Lega
Calcio”, oggi scissa in “Lega Nazionale Professionisti Serie A” e in “Lega Nazionale Professionisti
Serie B”.
L'elemento fondamentale sta nel potere che questo ente possiede di definire i criteri di distribuzione
di diritti televisivi tra le squadre partecipanti alle serie maggiori, secondo accordi che sono rinnovati
normalmente a cadenza triennale e stabiliscono una ripartizione che segue determinati criteri.
Al di là dunque della componente di osservazione sportiva delle regole, essa dispone di una
discussa facoltà che divide i club per la sua presunta iniquità. Le società di minore importanza
attaccano l'eccessiva influenza del fattore storico, denunciando lo scarso peso che questo modello
conferirebbe al rendimento stagionale di una singola squadra di anno in anno.
Contraddizioni come questa rendono l'idea di un sistema che non può crescere come nel resto
d'Europa, se non dopo aver risolto alcuni nodi cruciali di relazione tra i suoi agenti primari.
1.2.5 Altri soggetti
Tra le relazioni principali cui una società di calcio si sottopone certamente deve essere menzionata
quella con gli enti locali, in particolar modo i comuni, da sempre nel nostro paese oggetto di una
questione complessa, relativa al possesso delle infrastrutture.
Il rapporto classico tra queste due parti è incentrato sulla “convenzione”. La struttura dello stadio
viene in pratica concessa per un periodo che non può andare oltre i 99 anni alla società di calcio in
questione che ne diviene utilizzatrice. Al club vanno i ricavi legati allo sfruttamento dell'impianto.
Ma questo rapporto di concessione in realtà è più problematico di quanto possa apparire a prima
vista, e rappresenta anzi uno degli snodi fondamentali da attraversare con successo se si ha
intenzione di risollevare le sorti del sistema calcio italiano. Lo stadio è il luogo del tifoso, il teatro
dello spettacolo sportivo all'interno del quale comincia tutto. Per le società è impossibile pensare di
assecondare le esigenze del tifoso, elevandone lo status da fruitore passivo a consumatore attivo in
grado di generare un circuito gestionale virtuoso, se questo luogo non è all'altezza delle sue
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emozioni. Salvo rarissime eccezioni, sono molteplici le cause dell'arretratezza strutturale degli stadi
italiani, dovute soprattutto alla mancanza di una legge che disciplini con efficacia la materia e
quindi sia in grado di scavalcare gli enormi ostacoli della burocrazia esistente. Il risultato negativo è
uno scenario che non favorisce minimamente l'investimento privato, creando un solco gigantesco
tra l'Italia e il resto dei principali paesi europei. Ma ci sarà modo di tornare sull'argomento.
Un'altra fonte di ricavo legata al rapporto tra la società di calcio e l'ente locale sta nella
sponsorizzazione o nella erogazione di un contributo al club. Questa formula però è praticamente
scomparsa, a causa della crisi del settore pubblico, essendo dal 2010 vietata per legge.
1.2.6 Il tifoso
Questo soggetto rappresenta il principale stakeholder con il quale la società entra in relazione. Il
nostro percorso parte da questa figura: soltanto la valorizzazione assoluta di essa può garantire una
crescita netta del sistema gestionale calcistico italiano. Il tifoso è un patrimonio inestimabile per un
club, genera ricavi diretti legati alla partecipazione all'evento sportivo e contribuisce alla vendita dei
diritti di trasmissione alle televisioni. Ma il tifoso è prima di tutto consumatore, e ha il diritto di
rivendicare un ruolo attivo nella fruizione del prodotto sportivo.
La svolta imprenditoriale delle società calcistiche italiane deve essere in questo: partire dal tifoso ed
attivare un processo di valorizzazione del suo “team brand” proprio attraverso la soddisfazione delle
esigenze del suo consumatore.
Nel corso di questa analisi si avrà modo di descrivere i differenti ambiti di applicazione di una seria
strategia di rinnovamento “a misura di tifoso” , capace di ridestare l'entusiasmo perso di un bacino
d'utenza che si sente emarginato. Il punto di partenza sarà, però, la valutazione di una realtà che tra
scandali, fallimenti e strutture fatiscenti vive di autoreferenzialità, adagiandosi sugli allori, creando
un pericoloso gap con il mondo al quale sembra dimenticare debba il suo successo. Il primo passo
sta dunque nel colmare una simile distanza di ruoli.
Ognuno di questi specifici agenti merita una dettagliata considerazione, perché in grado di orientare
a suo modo le strategie di un club: la definizione di un sistema di pagamento per tesserare un
calciatore piuttosto che un altro; la possibilità di organizzare un evento sportivo in concerto con le
figure di rappresentanza locali; i ricavi ottenibili da un main sponsor; la decisione di indire una
conferenza stampa.
Ma per quanto questo percorso sostenga l'importanza assoluta di una definitiva svolta in senso
manageriale della società calcistica odierna, si ritiene necessario chiarire subito la priorità di due
aspetti imprenscindibili nella valutazione di questa realtà, che vengono prima di qualsiasi strategia:
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la fedeltà alla squadra e il risultato sportivo, due facce di una stessa medaglia che è impossibile
dimenticare quando si analizza il calcio.
1.3 I capisaldi nell'analisi dell'azienda calcio: la fedeltà alla squadra
Nel corso dell'analisi delle strategie adottate dalla “S.S. Juve Stabia”, una delle società di calcio che
sono state assunte come oggetto di studio ravvicinato di questo percorso, rovistando in mezzo ai
dati di affluenza da stadio degli ultimi anni è emerso un fenomeno alquanto particolare.
La stagione in corso e quella precedente rappresentano il culmine storico dei risultati sportivi
raggiunti da questa squadra, che ha saputo negli ultimi anni riproporsi al calcio che conta. E' emerso
subito un dato, però, apparentemente paradossale, che non rispecchia la felice evoluzione tecnica
della rosa, legato all'affluenza da stadio.
Le due stagioni prese ad esempio, infatti presentano medie di partecipazione diretta all'evento
sportivo che si attestano intorno alle 2.400 unità nel caso più recente; e intorno alle 3.370 unità per
il 2011/2012, l'anno del ritorno in cadetteria4. Non parlando di una piazza di primo livello,
probabilmente questi numeri non ispirano immediate riflessioni, perché sembrano proporzionati. Se
non fosse che la Juve Stabia è al suo terzo campionato di serie b in quasi cento anni di storia, e
vanta uno stadio dalla capienza massima di nemmeno 8.000 persone5. Si comprende che questo
periodo dunque sia eccezionale per il club campano, e ci si stupisce di una media di affluenza
sostanzialmente bassa, a fronte di un evidente progresso sportivo della compagine. L'analisi ha
inoltre fatto emergere un aspetto ancora più interessante: la partecipazione dei tifosi sugli spalti
durante questa fase “aurea” della società è numericamente inferiore a quella del periodo 2003/2005,
quando le “vespe” risalivano le categorie minori, tra la serie D e l'allora serie C1. Un fenomeno
quasi inspiegabile, che a ben vedere trova la sua spiegazione primaria nella gestione delle politiche
di ticketing, basate su una fissazione di prezzi troppo alti rispetto sia al contesto socio-economico
attuale, sia alla qualità delle strutture offerte nella fruizione dello spettacolo sportivo.
Queste sono motivazioni purtroppo comuni a diverse realtà del panorama italiano, che dopo saranno
sviscerate con maggiore precisione. Ma nel caso della Juve Stabia ha pesato anche un fattore
tipicamente “emotivo”, che la particolare geografia del territorio ha contribuito a caricare di
sostanza.
Gli anni del “purgatorio” sportivo di questa squadra sono coincisi con il graduale ritorno ai vertici 4 Fonte: “Www.transfermrkt.it”5 Fonte: “www.ssjuvestabia.it” . Lo stadio “Romeo Menti” ha una capienza massima attuale pari a 7642 posti.
11
del calcio italiano del Napoli, che in Campania, così come in tutto il Mezzogiorno d'Italia, è tra le
compagini più seguite. Qui entra in gioco un fenomeno di “cannibalizzazione territoriale”, che ha
agito con maggiore veemenza rispetto ad altri contesti, deprivando il pubblico stabiese di una
discreta fetta di appassionati, che allo stadio non sono più tornati nemmeno con la crescita
esponenziale dei successi della loro squadra cittadina.
Questi non sono fenomeni che si verificano automaticamente, sia chiaro. In sede di analisi infatti,
c'è stato modo di confrontare queste cifre con uno dei “competitors” storici della Juve Stabia, la
A.S.G. Nocerina. Attualmente in terza serie, perché retrocessa dalla serie b, questa realtà ha saputo
mantenere uno “zoccolo duro” di appassionati che l'ha seguita, come prevedibile, fino alla
promozione in seconda serie (con una media di spettatori che sfiorava le 5.000 unità, piazzandosi
decima nel computo totale delle affluenze della stagione 2011/2012), dimostrando però estrema
passione anche in seguito alla retrocessione. Nella stagione in corso, infatti, la media è di circa
3.480 presenze.
Perché tanta differenza? Confrontiamo questi dati con un'altra realtà.
Nocera Inferiore, cittadina rappresentata calcisticamente dalla Nocerina, è in provincia di Salerno, e
certamente, rispetto a Castellammare, in provincia di Napoli, l'influenza esercitata dalle vicende
della metropoli campana è meno marcata. Ma non basta questo fatto a spiegare una simile
differenza di sostegno diretto alla propria squadra, in territori così affini per identità, territorio,
tradizione. E nemmeno è sufficiente la particolare passione che contraddistingue i sostenitori della
Nocerina.
La risposta sta nella fede.
Il calcio, è bene tenerlo a mente, è prima di tutto questione di passione. Afferisce cioè ad un
dominio che è irrazionale, istintivo, connesso al risultato presente ma allo stesso tempo ad un lento,
graduale processo di immedesimazione nei colori di una squadra ed in quello che essa rappresenta.
La componente emotiva è predominante. Proprio in virtù di questo fatto si ha a che fare con
dinamiche di marketing differenti da quelle tradizionali. E' infatti praticamente rarissimo, se non
impossibile, il caso in cui questa confessione venga ad essere mutata, in favore dell'adesione
“all'offerta” di una società “concorrente”. La dimensione fideistica attinge al patrimonio delle
convinzioni personali, è un valore individuale che non si può collocare sullo stesso piano di una
confezione di acqua minerale o di un detersivo.
Sia ben chiaro, questo implica esclusivamente che quando si parla di tifosi si ha a che fare con
clienti la cui fedeltà ad una squadra è garantita nel tempo. E' possibile, per i motivi che elencheremo
in seguito assistere ad un allontanamento dalla sua “marca preferita”; ma ciò non potrà quasi mai,
12
per non dire mai, significare il passaggio alla “concorrenza”.
Abbiamo quindi assodato con precisione che la fedeltà è cifra caratteristica del tifoso sportivo.
Questa verità non scientificamente dimostrabile è stata però fortemente strumentalizzata dai gestori
del sistema calcio italiano degli ultimi venti anni, per rimanere limitati ad uno studio recente dei
fatti. L'esempio concreto poc'anzi citato lo dimostra.
Le più importanti aziende multinazionali che sovrastano con autorità i mercati dei loro rispettivi
settori di azione sanno bene cosa sia una campagna di mantenimento, e cosa comporti in termini di
predominio rispetto ai competitors di riferimento condurre con efficacia una simile strategia, atta a
preservare le quote di consumatori prodotte nel tempo con tanta attenzione. E' rinomato l'immenso
valore della fidelizzazione in termini di ritorno dell'investimento, oltre che per la sua evidente
convenienza rispetto alla ricerca di nuovi clienti.
La Juve Stabia ha sofferto certamente la compresenza di fattori di matrice storico-territoriale
(l'influenza del vicino capoluogo Napoli, e l'ascesa sportiva della sua squadra di calcio). Ma non ha
fatto nulla per invertire una tendenza i cui risultati si sarebbero fatti sentire entro pochi anni.
Esposta ad una pericolosa attrazione esterna, una parte rappresentativa dei colori stabiesi ha perso la
grinta di un tempo, e la mancanza di una adeguata strategia di mantenimento ha fatto il resto.
Nemmeno con l'esponenziale crescita sportiva del club.
Riuscire a fidelizzare la propria clientela di riferimento è un dovere prioritario al quale ogni impresa
deve scrupolosamente attenersi; e così un'impresa calcistica deve impegnarsi al massimo, ad ogni
livello, per garantire l'entusiasmo e l'immedesimazione degli affezionati che possono, riepilogando
quanto detto, non mutare le proprie convinzioni in favore di altri colori, ma prendere decisioni
ugualmente drastiche: allontanarsi da un calcio evidentemente lontano dalle istanze dei tifosi
genuini; interessarsi, con maggiore decisione, nei casi simili a quello descritto, alle squadre che
rappresentano un'intero, vasto territorio, affievolendo la passione nei confronti del proprio piccolo
club.
La soluzione è semplice ed unica: ricollocare il tifoso al centro degli interessi societari, valutando la
possibilità di adeguare il sistema gestionale calcistico alle sue istanze, finora eccessivamente
trascurate, nell'ottica di un vero consumatore attivo piuttosto che di un mero passivo fruitore di un
servizio da consumare freddamente una o due volte a settimana, a condizioni proibitive.
Giocando tra il sacro ed il profano, si può sempre dire che la fede tiene uniti. Ma per quanto
l'immortale passione verso la propria squadra del cuore difficilmente avrà mai un epilogo, le società
calcistiche italiane, e con esse, l'intera struttura socio-economica che le circonda, hanno l'obbligo di
favorire con cura totale questo culto, senza limitarsi ad un atteggiamento di meccanico
13
sfruttamento.
1.4 I capisaldi nell'analisi dell'azienda calcio: il risultato sportivo
Evidenziare l'enorme contributo che una corretta diffusione di una cultura gestionale e comunicativa
della società può indurre all'intero sistema calcistico italiano significa cercare di incanalarla verso
procedure razionali che colmino, entro i limiti permessi, le immense lacune attualmente esistenti.
Bisogna però considerare la particolare “atipicità” del settore in esame. Per questo prima è stata
analizzata la componente fideistica del calcio, come elemento radicato pienamente nell'individuo e
allo stesso tempo però minacciato nella sua integrità, fino al punto da legittimare strategie di
gestione imperniante sulla costante alimentazione di questa speciale passione, del tutto irrazionale.
Ma se il calcio viene considerato quanto di più lontano da una scienza esatta è anche in virtù di un
altro fattore principale, connesso alla centralità dell'evento sportivo: il risultato.
Il risultato della competizione infatti, rappresenta un vincolo evidente all'adozione di scelte
strategiche di una società. E' indubbio che, visto il sistema di distribuzione delle risorse economiche
in uso nei campionati di calcio italiani, fondato in maggioranza sul contributo derivante dalla
vendita dei diritti televisivi, l'insuccesso sportivo possa generare conseguenze maligne per una
società, specialmente nei casi in cui venga catapultata improvvisamente in una spirale di risultati
negativi. Questo è possibile in virtù della imprevedibilità totale dell'evento sportivo, che rappresenta
allo stesso tempo fonte di attrazione e rischio.
• Condizioni fisiche e mentali degli atleti protagonisti dell'evento
• Eventi esterni (condizioni climatiche, errori arbitrali...)
• Aleatorietà del risultato (non sempre vince il migliore)
Un concorso di elementi quindi decide un risultato finale, possibilmente non scontato rispetto alle
previsioni. E getta in difficoltà la squadra che si ritrova retrocessa in serie b dopo un campionato
non esaltante. Questo è il caso della U.C. Sampdoria, che nella stagione 2010/2011 abbandona la
massima serie e con essa le garanzie economiche nettamente divergenti rispetto alle attese di uno
campionato tra i grandi. La discesa agli inferi costituisce un buco nelle casse della squadra
genovese, che con l'inizio della successiva stagione non riesce ad affrancarsi da una zavorra di spese
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troppo fuori portata rispetto ai parametri della categoria. Un monte ingaggi lordo pari a 26 milioni
di euro, il più alto del girone, sommati a circa 11 milioni di spese estive di mercato utili a rilevare i
cartellini di sei giocatori, e 15 milioni di costi organizzativi. Sullo sfondo, l'impossibilità di
bilanciare queste cifre con i ricavi dei diritti televisivi e le sponsorizzazioni classiche, visto il crollo
di questi contributi dai 50 ai 15 milioni di euro.
La difficoltà che la Sampdoria ebbe nello scrollarsi di dosso la pesante eredità economica della serie
A costrinse la società a ripianare un bilancio in rosso, per circa 37 milioni. Ma è evidente che
situazioni come questa si verifichino abbastanza frequentemente nel mondo calcistico nostrano.
Una brevissima panoramica ci consentirà di analizzare due approcci differenti che equivalgono
anche a due filosofie differenti di gestione della società sportiva. Il primo, detto “profit
maximizing”, tipicamente connesso al contesto nordamericano; il secondo, comunemente inteso
come “win maximizing”, è invece andato sviluppandosi in Europa6.
1.4.2 Il modello “profit maximizing”
Questo modello di gestione presuppone che i risultati sportivi vengano calibrati in funzione di quelli
economici. Lo scenario naturale entro il quale questo viene ad essere adottato è quello
nordamericano: qui le società sono concepite da tempo come delle vere aziende che producono
ricchezza, perché l'evento sportivo rappresenta uno strumento proficuo in grado di generare profitto.
Basti solamente pensare alla gigantesca mole di risorse economiche proveniente dalla gestione dei
diritti televisivi dei quattro sport principali diffusi in questa area geografica: uno spettacolo senza
soste che si divide tra football, basket, baseball e hockey. Un unico immenso mercato
dell'intrattenimento contraddistinto da una serrata concorrenza, talmente ben equilibrata da sapere
vendere i suoi marchi anche all'estero. Il riferimento al marchio è forse più coerente che mai nella
nostra trattazione. Infatti il sistema chiamato “profit maximizing” può presentare una sua peculiarità
specifica strutturale soprattutto grazie al fatto che si basa sul meccanismo tipico delle franchige.
La franchigia rappresenta il passepartout necessario ad entrare nel club esclusivo dei campionati
professionistici americani. Di fatto la partecipazione ad una stagione sportiva è subordinata al
possesso di una di esse, senza le quali non è possibile essere ammessi. Qui entra in gioco la
6 Fort R. , Quirk J. , Pay dirt the business of professional team sports, Princeton University Press, 2004.
15
sostanziale differenza con il modello europeo. Praticamente chi partecipa al massimo campionato di
basket ha acquistato una franchigia con la quale la squadra di Miami, di Dallas o allo stesso modo
di New York ha il diritto di rivaleggiare con altre città. Non esiste un sistema di retrocessioni e di
promozioni. Le leghe sono quindi gruppi a numero chiuso.
La domanda che a questo punto si pone obbligatoria è: come fa un simile sistema a continuare a
generare interesse senza che esso si basi su un naturale ricambio di squadre, frutto della loro
esclusiva capacità sportiva di mantenersi ad alti livelli secondo un criterio meritocratico? La
risposta è facilmente derivabile se quella che secondo le abitudini nostrane è una mancanza viene
bilanciata con il perfetto equilibrio di un sistema equo e stabile di competizione. Ogni anno ci sono
le stesse squadre che giocano sempre con le stesse regole, che addirittura favoriscono chi perde: ad
inizio stagione infatti, le peggiori compagini sono quelle che per prime hanno il diritto di scegliere,
nel famoso “draft” i migliori giovani di talento provenienti da tutto il mondo secondo delle
specifiche quotazioni create a priori. Tutto questo in nome di una strategia “livellatrice” che mira
all'equilibrio agonistico per realizzare il massimo spettacolo, con effetti particolarmente benigni:
• impiego efficiente delle risorse finanziarie, secondo un criterio di equità che non penalizza
le squadre peggiori, senza che ci siano drastiche riduzioni di ricavi a seguito di una
retrocessione, che di fatto non avviene
• costante incertezza del risultato sportivo, che tiene alto l'interesse del pubblico, e quindi di
tutti gli agenti che entrano in contatto con le società, dai media agli sponsor
A questo punto è doveroso ricordare che tutte le quattro principali leghe sportive americane
mostrano la stabilità della maggior parte delle franchigie ad esse appartenenti. Il più recente
fallimento di una franchigia nel campionato “NBA” è datato 1955, quando cessarono di esistere i
“Baltimore bullets”; nell'hockey, addirittura, l'ultima squadra della lega “NHL”, i “New York
Americans” terminò nel 1942; nella “NFL” di football invece, i “Dallas Texans”, nel 1952; colpisce
infine il dato relativo alla lega di baseball, la “MLB”: nessun fallimento dalla sua fondazione, anno
1899.
L'esistenza di un sistema come questo è inestricabilmente connessa all'evoluzione culturale della
società americana, che ha fatto della spettacolarizzazione forzata e della sua speculazione
16
economica, a tutti i livelli, una proficua ragione di vita. Per quanto sia ricchissimo ed evidente
l'insegnamento che il modello “profit maximizing” abbia dato alle attuali eccellenze del vecchio
continente, e debba ancora dare a molte realtà italiane, è innegabile una sua totale applicabilità al
contesto europeo. Esistono ragioni storiche, come visto, ma ci sono altri indizi in tal senso . Negli
Stati Uniti ad esempio, succede che le franchigie talvolta cambino da una città all'altra: ipotesi
questa difficilmente figurabile nei campionati di calcio europei, dove la fedeltà ai colori, ai valori e
ai simboli di una squadra rappresenta un patrimonio inossidabile.
1.4.3 Il modello “win maximizing”
Quello detto “win maximizing” è un modello di gestione orientato al perseguimento del risultato
sportivo anche in assenza di profitto. La continuità della società può essere garantita dalle
immissioni di liquidità che periodicamente sono deliberate per ripianare perdite fisiologiche, ma
non è certamente cosa garantita. Va assolutamente specificato che questo modello ha contraddistinto
il calcio sin dagli anni sessanta, epoca in cui questo sport comincia a diventare davvero una forma
di interesse globale, grazie alla graduale diffusione del mezzo televisivo che ne fa uno spettacolo
aperto. Il livello tecnico della competizione cresce, come crescono le possibilità di spettacolarizzare
all'ennesima potenza l'evento calcistico che travalica i confini nazionali. La visibilità estesa di una
partita spinge le società a decidersi di affrontare una competizione che diventa internazionale. In
Italia però accade un evento che è destinato a limitare moltissimo la crescita economica del sistema
calcio. Nel 1966 la FIGC decide per volere statuario di imporre un principio: il divieto di lucro
soggettivo. In pratica, secondo quella che nel 1981 sarebbe diventata una norma,7 l'impossibilità di
distribuire tra i soci la ricchezza ottenuta attraverso l'esercizio di attività sportiva. E' assolutamente
logico pensare dunque che una simile imposizione abbia limitato fortemente lo sviluppo di una
cultura di impresa nella conduzione di una società di calcio. Solamente a metà anni novanta questo
assetto incontrerà drastici mutamenti, a causa di alcuni eventi che saranno analizzati con maggiore
precisione, e che permisero la graduale adozione di un approccio imprenditoriale, tuttora in lento
sviluppo nel nostro paese.
Ma per molti decenni la nostra cultura non ha potuto accettare quello che veniva considerato un
compromesso poco nobile tra sport e lucro, secondo una convinzione di base che portava a
7 In Falsanisi G. , Giangreco E. F. , Le società di calcio del 2000, Rubettino, 2001.
17
concepire il possesso di una squadra di calcio come un atto di mecenatismo. Uno strumento per
ottenere visibilità, per promuovere l'immagine politica di un proprietario, ma pur sempre un costo.
Così questo modello ha generato, paradossalmente, conseguenze nefaste, ben lontane dalla sana
condotta ossequiosa dei principi sportivi che in principio mirava a perseguire. Si è assistito ad una
fortissima speculazione connessa all'esasperata ricerca del risultato, della vittoria, che ha a sua volta
legittimato una scarsa attenzione alle condizioni di equilibrio economico e finanziario. Ancora oggi
ci sono squadre nel nostro panorama professionistico che stanno scontando gli errori, gli sprechi di
un recente passato.
L'applicazione di un sistema come quello americano è impraticabile. Differenze storiche, sociali e
culturali rappresentano vincoli evidenti. Da un punto di vista tipicamente sportivo, poi, esso vive di
certezze che nella nostra percezione sarebbero assolute contraddizioni, limiti palesi. Le leghe
statunitensi sono blocchi chiusi autarchicamente regolati dall'unico bisogno di creare spettacolo con
una competizione interna; la concezione europea (non solo nel calcio) prevede invece da decenni il
confronto tra le eccellenze di ogni singolo paese. E' inoltre ugualmente inimmaginabile un sistema
che non preveda retrocessioni e promozioni, il fulcro attorno al quale ruotano ogni anno sogni,
speranze e illusioni di tutti i tifosi.
Il modello americano deve però insegnare. La società sportiva è un'impresa: come tale deve creare
ricchezza, non per questo dimenticando di aderire alle regole di una sana condotta economica e
sportiva, e favorire la costruzione di un circuito virtuoso. In tal senso infatti, le quattro “Major
league” statunitensi rappresentano un fulgido riferimento.
1.5 La retrocessione “sostenibile”, ovvero come gestire l'incertezza
Il nostro sistema è strutturato in maniera tale che il risultato sportivo finisce per avere un peso
gigantesco sulle vicende di una società. La retrocessione della Sampdoria, squadra che rappresenta
un bacino d'utenza non propriamente esiguo, ne è classica prova. Ma il risultato sportivo, che non è
sempre inestricabilmente connesso alla virtù gestionale di un club, è pure cosa sacra, perché
sancisce un sistema di meritocrazia che distingue, per quanto esso sia sottoposto ad una serie di
influenze, chi vince da chi perde. A ben guardare, è il succo della competizione. La questione è
un'altra, piuttosto: sta nel realizzare un sistema virtuoso, più ricco per tutti i suoi partecipanti,
certamente più equilibrato ed attrattivo, nel quale le società riescano a vendere il proprio brand ad
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un pubblico fedele e soddisfatto. Sta nell'obbligo assoluto di investire maggiormente in strategie
idonee ad incrementare anche i ricavi derivanti da fonti alternative ai diritti media, unitamente al
controllo dei costi, questo è sottinteso, come quelli di ingaggio dei tesserati. Solo così il modello
europeo continuerà a vivere senza accettare compromessi ed il sistema della competizione sarà
salvaguardato. Così agendo la retrocessione di una squadra costituirà sempre una prevedibile
perdita, ma certo non un trauma indelebile come capita in molti frangenti di osservare nei nostri
campionati. Si potrà parlare, magari, di retrocessione “sostenibile”.
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Capitolo 2
Il sistema calcio in Italia
2.1 Una introduzione: il confronto con l'Europa
Il miglior modo per tracciare una descrizione delle caratteristiche, delle criticità e delle potenzialità
di cui il sistema calcistico italiano dispone è rappresentato dal confronto con le altre importanti
realtà europee. Sono conosciute molte delle lacune gestionali del nostro paese, ma si ritiene
doveroso, comunque, evidenziare le cifre esatte che svelino l'entità di un simile dissesto.
Secondo i dati riportati dal “Deloitte annual review of football finance 2012” 8 la crescita globale
del calcio nel vecchio Continente è costante, ed ha raggiunto un valore complessivo di 16,9 miliardi
di euro di ricavi, diviso tra i differenti campionati. Un progresso che eccede del 4% la stagione
2010/2011. Considerando poi le cinque principali leghe calcistiche, che sono :
• Bundesliga (Germania)
• Liga (Spagna)
• Ligue 1 (Francia)
• Premier League (Inghilterra)
• Serie A (Italia)
è possibile registrare una quota totale di ricavi pari agli 8,6 miliardi di euro. Questo numero va
distribuito però secondo una proporzione coerente che vede l'Inghilterra primeggiare con ricavi di
2,50 miliardi, seguita dall'emergente campionato tedesco con 1,75 e dalla “Liga” spagnola, a quota
1,72. L'Italia è al quarto posto, con ricavi pari ad 1,55 miliardi, superiori solo alla Francia in questa
speciale graduatoria (1,04 miliardi).
La pressione della crisi economica dunque non intacca particolarmente i ricavi del mondo del
calcio, che grazie al contributo dei contratti televisivi resiste all'attuale fragilità dell'economia
internazionale. I problemi entrano in gioco però quando si considerano i costi di gestione.
Il costo complessivo degli stipendi di queste cinque realtà ammonta ad una cifra impressionante:
parliamo di 5,6 miliardi di euro. La parabola utile a descrivere questo fenomeno è presto disegnata:
8 Il “Deloitte annual review of finance” è un rapporto annuale che fotografa la situazione finanziaria del calcio europeo e mondiale.
20
aumentando i ricavi televisivi le squadre sono incentivate ad attivare un circuito che spesso non
rispetta nemmeno le regole finanziarie imposte dalle federazioni, e dunque acquistano i cartellini di
calciatori fondamentali nell'aumentare il livello di attrazione del prodotto campionato. Questo dato
non è ancora considerato abbastanza saliente, se è vero che in Inghilterra si evidenzia l'aumento
maggiore, fino ad 1,77 miliardi, e Spagna e Germania hanno conosciuto una impennata pari al 4%.
L'Italia, a causa della cessione di diversi nomi illustri dalle fila delle squadre di punta, ha visto
abbassarsi la quota salari del 2%. Ma è ancora pochissimo, soprattutto alla luce delle dimensioni
economiche minori della nostra lega rispetto alle altre: parliamo di 1,16 miliardi di euro, secondo
posto dopo la “Premier League”.
Il dato più difficile da metabolizzare concerne il rapporto stipendi/ricavi, che vede l'Italia e la
Franca primeggiare con una pericolosa quota del 75%. “Serie A” e “Ligue 1” sono in perdita. La
Germania, a sorpresa, ha raggiunto profitti operativi per 171 milioni di euro, superando nettamente
gli inglesi, a 75 milioni.
Nonostante la UEFA dunque abbia promosso politiche di contenimento economico i cui frutti è
ancora troppo presto per riscontrare sui bilanci, i segnali sono chiari: tutti i paesi, in particolar modo
il nostro, devono premere per un fondamentale allineamento tra costi e ricavi prima che la gestione
globale del proprio sistema si trasformi in un'unica soffocante spesa.
I dati forniti dall'analisi “Deloitte” confermano le innegabili difficoltà di un sistema che deve far
fronte, nei diversi contesti, con variabile urgenza, ma identica cautela, al contenimento dei costi
operativi classici (come gli stipendi dei calciatori) che raggiungono vette molto alte; ma
evidenziano allo stesso tempo l'innata capacità del calcio di costituire un successo economico per
quanto denaro riesca a muovere e per quanta attrazione susciti ancora. Esso rimane, sempre e
comunque, una fede per milioni di tifosi, come il percorso ha già avuto modo di sottolineare.
Dunque, un prodotto appetibile per gli sponsor e le televisioni, che sono una fonte primaria di
guadagno. Guai però ad abusare di essa.
I dati fanno emergere infatti una tendenza pericolosa: l'attuale contributo offerto dai ricavi televisivi
alle principali leghe europee è aumentato del 3% per una cifra che avanza i 4 miliardi. Colpisce che
incida sul 48% (quasi la metà!) dei ricavi totali. Ma se questa statistica viene studiata in relazione
allo specifico campionato, si scopre che in Inghilterra, in Francia e in Italia più della metà delle
entrate deriva dai diritti televisivi. Si tratta, a tutti gli effetti, di un validissimo sostegno. Ma la
preoccupazione è che possa trasformarsi in una pericolosa dipendenza che nuocerebbe innanzitutto
ai campionati strutturalmente deboli come il nostro, che allo stato attuale deve rifondare il suo
valore di marca e migliorare la posizione dei suoi club. Il segreto sta indubbiamente nel sopra citato
21
controllo dei costi; ma pure nell'investimento in strategie che incrementino ricavi derivanti da fonti
che non siano solamente quelle televisive.
2.2 La storia: il lento passaggio all'impresa calcio
Prima che la nostra analisi si soffermi con precisione sull'attuale condizione del sistema calcistico
italiano, e ne valuti in seguito le possibilità di crescita, appare doveroso aprire una parentesi
sull'evoluzione storica che in Italia ha portato ad imporre, a fatica, l'approccio imprenditoriale nelle
società. Un esempio forse renderà più semplice la spiegazione di questo fenomeno.
E' il 1985. In un campionato italiano costellato di talenti, con le solite grandi squadre a
monopolizzare le attese delle stagione, a sorpresa, si impone il Verona di Bagnoli, che vince il suo
primo ed unico scudetto della storia. In un'epoca in cui ancora non esistono le clamorose iniezioni
di liquido provenienti dalle televisioni, è sufficiente anche il sostegno di uno sponsor per mutare le
gerarchie dominanti. A Verona questa variabile impazzita si chiama “Canon”, il marchio giapponese
di tecnologia fotografica conosciuto in tutto il mondo, che all'epoca è rappresentato in Italia da
Ferdinando Chiampan, che è anche proprietario della società scaligera. Ebbene, il contributo
economico di un' azienda che all'epoca fatturava oltre duecento miliardi di lire rende possibile la
realizzazione di un sogno sportivo senza precedenti, e crea allo stesso tempo un binomio
indissolubile tra il club e l'impresa che ancora adesso tramite lo slogan “you can” trasmette il
concetto secondo il quale “tutti possono trasmette il proprio potenziale attraverso la creatività” 9.
Questo breve aneddoto contiene al suo interno i toni enfatici che solo il racconto di una impresa
sportiva può comunicare; un'impresa, viene da dire, di altri tempi. E in effetti questa narrazione è
servita a delineare concretamente il passaggio, molto graduale, cui nel nostro calcio si è assistito da
un approccio “mecenatistico” ad un approccio che potremmo definire “imprenditoriale”.
9 Questa è la mission di “Canon”. Da “www.canon.it”
22
2.2.1 L'approccio mecenatistico
“Sport is sport, business are business”10
(Avery Brundage)
L'evoluzione del nostro settore professionistico subisce una notevole impennata intorno agli anni
sessanta. Questo periodo è decisivo nel dare una nuova forma al calcio italiano, che comincia ad
affacciarsi sull'Europa. Nascono infatti le prime vere competizioni continentali, che rispondono
all'esigenza di travalicare i confini nazionali per mettere a confronto l'evidente progresso tecnico
delle squadre dei paesi più importanti. Tutto ciò in linea con la possibilità di diffondere
mediaticamente uno spettacolo che fa gola ad un numero gigantesco di appassionati. Il calcio si
pone come un contenuto particolarmente adatto al mezzo televisivo, che con il tempo riesce con
successo ad integrare, se non addirittura sostituire la fruizione radiofonica.
Dunque una crescita esponenziale del fenomeno calcio, che induce le società ad elevare il proprio
tasso tecnico per imporsi ad un livello non più semplicemente nazionale. Ma per partecipare ad un
movimento di crescente estensione è necessario far fronte alle sue altrettanto consistenti spese. Ecco
che in questo contesto socio-economico certamente favorevole emerge l'iniziativa di veri e propri
“mecenati” (solitamente imprenditori di successo legati al territorio d'origine della squadra)
“personalmente responsabili per le obbligazioni sociali sorte nell'ambito dell'attività sportiva” 11.
Per quanto sia stimolante il nuovo panorama del calcio di massa, per quanto suggestiva l'apertura
delle frontiere ad una competizione di stampo transnazionale, l'impegno economico in una società
dell'epoca non può offrire gratificazione altra da quella squisitamente sportiva, fatta salvo il ritorno
in visibilità che questi investitori guadagnavano valorizzando le sorti di un club.
Le origini di un simile difetto stanno in un principio previsto nello statuto della “FIGC” del 1966,
poi divenuto norma con la legge 91 del 1981. Con esso si sanciva l'impossibilità di distribuire la
ricchezza prodotta dall'esercizio di una attività sportiva tra i soci di un club, sotto qualsiasi forma.
Alla base di questo provvedimento, che impone il cosiddetto divieto di lucro soggettivo, si pone il
principio dell'incompatibilità tra sport e profitto. Questo principio oggi è inconcepibile, perché le
società calcistiche sono macchine economiche che mirano ad un bilancio sano ed attivo, ma per
anni in Italia ha rappresentano un ostacolo insormontabile, per non dire quello principale,
all'evoluzione di una corretta cultura imprenditoriale nella loro gestione. Ha alimentato il mito di
10 Ex presidente del Comitato Olimpico Internazionale, sostenitore della dicotomia sport-impresa.11 Tanzi A. , Le società calcistiche. Implicazioni economiche di un gioco, Giappichelli, 1999.
23
una falsa e controproducente dicotomia sport-impresa che paradossalmente ha generato effetti
eticamente catastrofici, gli stessi che forse avrebbe pensato di scongiurare ponendo in
contrapposizione questi due concetti. Uno di essi è ad esempio la scarsa attenzione alle condizioni
di equilibrio economico dei club, tendenza che negli anni novanta ha raggiunto l'apice con il
fallimento o il rischio di bancarotta (talvolta evitata da interventi legislativi ad hoc) di importanti
realtà calcistiche. In pratica, si è speso senza valutare le conseguenze di una insana gestione dei
conti, magari considerando esclusivamente la priorità di fattori come la visibilità personale di un
investitore.
Ma è intorno alla metà degli anni novanta che le carte in tavola vengono ricombinate in virtù di
alcuni fattori di rottura che favoriscono l'approdo al “versante manageriale”.
2.2.2. L'approccio imprenditoriale
Il passaggio ad una versione più tipicamente “manageriale” del calcio nel nostro paese si registra
intorno alla metà degli anni novanta, per effetto di alcuni importanti cambiamenti che incidono
profondamente le regole del settore professionistico: la sentenza Bosman12; l'avvento del mercato
delle pay-tv.
Il primo evento ha scaturito una riforma globale dell'assetto legislativo europeo. Con questa
sentenza infatti si stabilì che un a contratto scaduto un calciatore è libero si accordarsi con una
nuova società senza che essa sia tenuta a pagare indennità di qualunque tipo. Dunque ogni singolo
sistema palesò le proprie lacune, dando inizio a differenti riforme, come avvenne in Italia.
Nel nostro paese l'effetto primario della riorganizzazione legislativa si riflesse sui contenuti della
vigente legge 91 del 1981, e quindi sull'articolo 10, che vietava il sopra citato lucro soggettivo.
Questa disposizione fu abrogata a favore della legge 586 del 1996, che è ricordata come la norma
che approva la possibilità di produrre ricchezza con lo sport. Unico piccolo vincolo: destinare
almeno il 10% dell'utile a scuole di formazione tecnica.
Cadeva così per sempre la rigida e limitante contraddizione tra sport e lucro soggettivo, in favore di
una concezione imprenditoriale del calcio. 12 Jean-Marc Bosman, calciatore belga che ha ispirato la sentenza chiedendo di essere trasferito in una squadra
francese.
24
A rendere impresa il calcio italiano però, ha contribuito anche un secondo decisivo fattore, quello
dei diritti televisivi. Lo spettacolo sportivo prende una piega definitiva e diventa format televisivo,
grazie all'intervento delle emittenti satellitari che rendono la fruizione del calcio un evento non più
vincolato al solo stadio. La visione si allarga, dunque, e le società ne beneficiano. Nelle loro casse
arrivano quantità di proventi mai viste prima, distribuite con l'intercessione delle federazioni
secondo criteri storici, sportivi, territoriali e connessi al bacino d'utenza stimato, cioè al pubblico di
tifosi capace di generare audience. Il calcio cambia definitivamente, e questa nuova fonte di
guadagno associata alle inedite disposizioni normative, consacra le società come realtà aziendali a
tutto tondo. L'evoluzione storica è stata descritta passo per passo. Adesso bisogna descrivere le
degenerazioni del sistema che essa ha creato e valutarne le potenzialità inespresse, partendo dallo
stato attuale delle cose.
2.3 Lo scenario attuale in Italia
Le statistiche relative all'assetto del calcio professionistico italiano sono chiare. Esse denotano con
precisione quali siano le evidenti lacune strutturali che inibiscono fortemente le possibilità di un
concreto sviluppo economico, motivando con chiarezza le passività di un sistema dalla crescita
troppo lenta.
A ben guardare infatti, la gestione economica delle società registra una lieve inversione di tendenza
rispetto al passato recente: i dati aggregati testimoniano un incremento medio del 3,6% nel valore
della produzione globale dal 2007 al 201213, raggiungendo quota 2660 milioni di euro nella stagione
2011/2012.
Nell'ultimo anno infatti questo valore è salito del 7%. Questo anche grazie alla crisi. Un fenomeno
globale di indebolimento delle economie nazionali infatti ha pesato subito sull'Italia, contraddistinta
da carenze strutturali marcate rispetto ai paesi europei che ospitano i maggiori campionati. Per
questo motivo da pochi anni si è attivata una tendenza al contenimento dei costi e alla
valorizzazione delle plusvalenze dalla cessione dei calciatori.
I costi sono cresciuti in misura inferiore (4.4%) per effetto di una politica di gestione accurata e
attenta a rispettare i principi del Financial fair play. Ma è la quota delle plusvalenze ad essere
balzata in avanti nell'ultima stagione analizzata, del 20,9% : un salto di 93 milioni di euro per un
13 Fonte : “Report calcio 2013”, in collaborazione con “Arel” e “Pwc”.
25
risultato complessivo di circa 537 milioni di euro. Lo dicono i numeri, ma è facile dedurlo anche
dall'osservazione superficiale, visto che il nostro campionato maggiore, la Serie A, sta perdendo
molti dei suoi campioni per effetto di una politica di gestione certamente più austera rispetto a
Germania, Inghilterra e Spagna, che riescono a investire grossi capitali, spesso senza rispettare le
misure di contenimento vigenti in Europa, come quella sopra citata.
Ad ogni modo, il massimo campionato occupa un peso specifico nettamente superiore rispetto agli
altri campionati professionistici italiani. I risultati del calcio nostrano sono dunque riconducibili
quasi del tutto alla Serie A. Per avere una proporzione basta dire che questa ha raggiunto nell'ultimo
anno un picco di 2146 milioni per un incremento del 6%, concorrendo per l'81% al totale del valore
prodotto dal professionismo nostrano.
La serie B concorre invece per il 15% del valore, mentre la Lega Pro nelle sue due divisioni arriva
ad una quota del 4% del totale.
L'incidenza della massima serie è prevalente, e sono soprattutto i dati relativi ai ricavi televisivi a
testimoniarlo, visto l'interesse dei media nei confronti della serie A. Seppur in calo, il contributo
mediatico è pari al 37% del totale del valore della produzione. In salita invece gli introiti derivanti
dai diritti commerciali (sponsor e altre attività), che giungono a toccare quota 15% di impatto sulla
produzione globale. Negli ultimi cinque anni questa voce è cresciuta in misura maggiore rispetto
alle altre, con un incremento del 7,1% : da 305,4 a 401,9 milioni dal 2007/2008 fino al 2011/2012,
per l'appunto.
Se volessimo dunque tracciare velocemente il profilo economico del calcio professionistico
nostrano secondo le caratteristiche appena elencate, faremmo riferimento ad una più accorta
gestione che gode soprattutto di un netto taglio ai costi, di una politica orientata alla plusvalenza e
di un graduale miglioramento delle cifre da ricavo commerciale. Non a caso i numeri parlano di una
perdita globale di settore che è calata di circa 20 milioni di euro. Detto questo, però, è giusto
ampliare lo spettro della riflessione sul calcio italiano, e sulle reali lacune di un mondo che
annovera comunque un indebitamento pari a 826 milioni di euro. Come a dire, è in atto una
tendenza favorevole, ma i dati mostrano ancora una crisi particolarmente accentuata.
Il calcio italiano subisce infatti l'azione erosiva di alcuni fattori di criticità sufficienti a limitarne
ogni possibilità di evoluzione. Essi pesano in maniera cruciale sia sull'economia complessiva di
settore sia sul valore, e quindi sulla capacità attrattiva di cui il prodotto nazionale dispone rispetto
agli altri campionati europei. Passiamo quindi ad una analisi più dettagliata di tali problematiche.
26
2.4 Le criticità da affrontare: i costi di gestione
Tra i costi di gestione che una società di calcio deve affrontare con particolare attenzione si
distingue la voce relativa al lavoro dei suoi dipendenti. Come abbiamo avuto modo di osservare
infatti l'accorta gestione del sistema retributivo influisce fortemente la stabilità economica di un
club, al punto che oggi le federazioni hanno introdotto delle specifiche regole, subordinate al
rispetto di determinati parametri.
A ben guardare, addirittura, il costo del lavoro pesa per il 50% tra i costi della produzione,
assumendo una posizione indiscutibilmente dominante. I dati aggregati di Serie a, b e Lega pro
parlano di una crescita del 3,4% nella stagione 2011/2012 per il raggiungimento di una cifra
complessiva pari a 1505 milioni di euro. La quasi totalità (94%) è rappresentata dal costo per il
personale tesserato, che comprende calciatori e staff tecnico.
Negli sport professionistici più importanti è sempre stata una sfida enorme, difficilmente vinta,
quella di contenere i costi, che invece spesso hanno superato e tuttora superano i ricavi. Nemmeno
con il passaggio all'impresa calcio i bilanci delle società italiane possono considerarsi integri. Errori
di valutazione tecnica nell'acquisire calciatori troppo costosi rispetto al loro effettivo valore;
pressioni della piazza; volontà di raggiungere i risultati con eccessiva fretta; sono diversi i fattori
che possono trasformarsi irrazionalmente in variabili impazzite, fino al punto di mettere in crisi i
patrimoni societari. Spesso le stagioni si concludono con perdite a bilancio, che i grandi club
coprono ricorrendo a periodiche ricapitalizzazioni.
Ma il costo del lavoro non si esaurisce con i soli emolumenti ai tesserati. Esiste infatti un regime
fiscale da affrontare, che in Italia è particolarmente vessatorio e consiste nei contributi previdenziali
versati all'ENPALS14 e nelle ritenute (Irpef) che ammontano a quasi il 50% del costo totale dello
stipendio. Il fattore tributario dunque non è di poco conto: può essere talmente vincolante da
pregiudicare l'acquisto di un calciatore, e limitare allora le fonti di interesse verso il prodotto
calcistico nella sua totalità.
Una voce di minore importanza comprende poi i premi individuali e collettivi da inserire nei
contratti come incentivo al raggiungimento di un determinato obiettivo sportivo, così come l'accollo
dei costi di trasferta, che comprendono vitto, alloggio, spostamento della prima squadra e di quelle
giovanili. Questi non possono essere considerati dettagli.
Sono proprio le società più importanti a subire il peso di forti passività. Sebbene infatti si registri
una lenta, graduale diminuzione dell'indebitamento complessivo, la maggioranza dei nostri club è
contraddistinta da una scarsa stabilità economica, e le principali rappresentanti del calcio italiano
14 “Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per i lavoratori dello Spettacolo e dello Sport Professionistico”
27
fanno fatica ad invertire tendenze negative difficili da rimuovere con il solo contributo delle pay tv,
alle quali il sistema professionistico è troppo fortemente vincolato. Le cifre stilate dai recenti
rapporti sono alquanto problematiche, e parlano chiaro: l'Inter è la squadra che il deficit più
profondo, pari a circa 90 milioni di euro; nonostante un lieve miglioramento, segue il Milan a 67,3
milioni di passivo; la Roma, a 58, 5; la Juventus registra invece un -48,7, ma nell'ultimo anno ha
ridotto il disavanzo di quasi di 47 milioni di euro, grazie agli introiti favoriti dallo stadio di
proprietà. Le più virtuose come Napoli (+14,4%) Udinese (8,8%) Catania (4,3%) e Lazio (4,2%)
rappresentano una felice eccezione.
I numeri mostrano la malattia di cui soffre il calcio italiano. Questo appare come una gigantesca
forma di vita che vive nettamente al di sopra delle possibilità di cui dispone, nutrendosi quasi
esclusivamente delle stesse fonti di alimentazione, come gli introiti televisivi. I bilanci aggiornati
confermano con i numeri ciò che è evidente anche all'analisi superficiale degli eventi: la serie a è
divenuta sempre più un mercato di vendita e sempre meno di acquisto. La crisi strutturale che essa
vive ha indotto i grandi club a risparmiare sui pesanti ingaggi dei grandi campioni, ceduti ai
campionati di punta del vecchio Continente per dare respiro a bilanci disastrati ed invertire una
tendenza di grave perdita. Il problema è che per mutare definitivamente in meglio un assetto
precario c'è bisogno di invocare un contributo integrale di tutte le risorse che gravitano attorno al
sistema calcio, che altrimenti sarà sempre destinato ad oscillare sul filo dell'incertezza.
2.5 Le criticità da affrontare: le strutture
Altro snodo cruciale che l'analisi dei punti di debolezza del sistema calcistico italiano deve
attraversare è quello legato alle condizioni degli stadi, la sede dello spettacolo sportivo. Lo stato di
arretratezza nel quale la maggior parte di essi attualmente versa rappresenta la massima prova visiva
del ritardo evidente accumulato dal nostro sport nazionale. I numeri parlano chiaro anche qui.
I dati relativi alla stagione 2011/2012 parla di un calo del 6,5% degli spettatori della serie A rispetto
alla stagione precedente, ed è una stima di non poco conto se si pensa che la massima serie contiene
il 63,5% degli spettatori totali del professionismo italiano. La percentuale di riempimento totale è
scesa al 39% ed è costante la tendenza negativa dal 2007/2008 con un decremento pari a circa
28
l'1,57% 15.
La ragione diretta del calo delle affluenze è imputabile alla inadeguatezza degli impianti. Di
particolare impatto è la statistica relativa all'eta media degli impianti che nella stagione 2011/2012
hanno ospitato le gare delle prime due categorie, serie A e serie B: ben 57 anni, con una copertura
degli spalti pari al 56% dei posti complessivi (in pratica poco meno della metà delle strutture è
sempre stato vuoto). Secondo la classificazione Uefa16 sono solamente 3 gli stadi che possono
entrare nella categoria 4, quella più alta, mentre sono 15 su 36 le strutture che non dispongono dei
requisiti necessari ad accedere al grado minimo. Il risultato è un quadro desolante che vede i ricavi
da ingresso ad esse diminuire dal 2007 al 2012 del 4,4%, scendendo nella sola ultima stagione da
275 a 230 milioni di euro. Sono numeri che rendono palese la necessità di una conversione radicale
del settore, che può affrontare forse con una relativa facilità l'ostacolo dei costi di gestione grazie
alla politica delle cessioni e delle plusvalenze, ma non accantonare per questo lo spinoso tema delle
strutture, complesso nei tempi e quindi di assoluta emergenza.
Nel nostro paese lo stadio viene quasi sempre utilizzato in regime di affitto dall'ente proprietario, il
Comune, con un contratto di convenzione che può avere durata breve (2-3 anni) o maggiore (20, 30
anni, fino a un raro caso di 99 come limite). Nel primo caso le spese sono divise secondo la natura
dell'intervento, che tocca all'Ente pubblico nel caso sia straordinario, alla società sportiva nel caso
sia di routine. Questo tipo di rapporto però presenta delle crepe gigantesche al suo interno, che
lasciano pochi spiragli alla possibilità di un cambiamento dello status quo, irrigidito su procedure
burocratiche eterne e costanti situazioni di conflitto tra privato a pubblico alla prima spesa da
sostenere. Questo è lo scenario tipico italiano, e anche in tal caso i numeri danno conforto.
Infatti tra tutti i 36 impianti utilizzati nelle due serie superiori emerge che solamente uno è di
proprietà privata: lo Juventus Stadium di Torino.
Ci sarà modo di analizzare gli incredibili effetti benèfici apportati da questa struttura alla società
bianconera, che nell'ultimo biennio ha vissuto una rinascita sportiva, esemplificata dalla sfavillante
novità della sede che ne ha accolto i successi. Una sede talmente spettacolare da permettere una
netta riduzione del passivo di bilancio per la Juventus, quasi metà, grazie ad un indotto globale di
195 milioni di euro nel 2011/2012 (+41% rispetto alla stagione precedente). A Udine, invece, è da
poco concluso un processo di storica cessione del Comune alla società del club locale dello stadio
“Friuli” fino al 2112, il cui rinnovamento partirà a breve. Questi sono dati ancora eccezionali in
Italia, che emergono facilmente dall'aridità che contraddistingue lo scenario nazionale. Per avere
un'idea del fenomeno della privatizzazione nel calcio è sufficiente gettare lo sguardo sugli altri paesi 15 Fonte: “Report calcio 2013” , in collaborazione con “Arel” e “Pwc”.
16 La classificazione degli stadi “Uefa” è un metodo di classificazione degli stadi europei che utilizza 4 differenti livelli (1,2,3,4 in ordine crescente) di giudizio.
29
europei, come l'Inghilterra, dove non esistono stadi comunali (Wembley stadium a parte) e sponsor
di rilevanza mondiale sostengono la costruzione degli impianti. La ricchezza di stadi di proprietà
denota una particolare flessibilità delle procedure burocratiche che rendono possibile in un tempo
relativamente breve la definizione ed il compimento del progetto di edificazione. Questo è un altro
fattore da non sottovalutare nelle analisi delle differenze con il nostro paese. Non a caso molti
professionisti del settore in Italia invocano una legge sugli stadi che funga da incentivo
all'investimento privato, laddove le condizioni attuali di investimento risultano ostacolate dalla
lentezza estrema dei tempi; allo stesso tempo però il settore pubblico, che è in piena crisi, trarrebbe
solo giovamento dall'intervento dell'impresa calcistica, magari in concorso con sponsor di fama
internazionale.
2.6 Le criticità da affrontare: il difetto culturale
Valutare lo stato di arretratezza del sistema calcistico italiano in termini esclusivamente materiali
(costi e strutture) risulterebbe alquanto riduttivo. Alla base delle scelte strategiche, e dunque delle
conseguenze cui esse portano, sta sempre un modello culturale che fatalmente le orienta in una
determinata direzione. Questa direzione, nel caso della nostra analisi, ha allontanato il calcio nella
sua accezione di spettacolo puro dal suo naturale destinatario, il tifoso.
I cambiamenti epocali cui abbiamo precedentemente fatto cenno hanno avuto la diretta conseguenza
di incanalare seppur in ritardo rispetto agli altri paesi di Europa il calcio italiano verso la sua
“managerializzazione”, conferendo alla società i tipici connotati dell'impresa di servizi. Anche se i
dati mostrano un evidente stato di arretratezza strutturale e di grave deficit patrimoniale, l'interesse
si è spostata alla finalità lucrativa, e dunque alla possibilità di creare ricchezza tramite la gestione
del proprio club. Questo nuovo approccio avrebbe comportato una più marcata attenzione al
controllo dei conti, e ad un sistema sano, lontano dalla minaccia della speculazione. Il calcio era
mutato nella sua forma: non era più solamente una vetrina che promuovesse l'immagine di un
mecenate, ma diventava un concreto generatore di utili. Questo scenario però si è solo parzialmente
realizzato, a causa di una pericolosa autoreferenzialità che ha chiuso questo settore entro i limiti
delle scelte imprenditoriali, ovviamente legittime ma egoisticamente lontane dalle esigenze del
30
fruitore primo dello sport, il tifoso. E' come se diventando il calcio impresa, da impresa stessa
avesse circoscritto il suo raggio d'azione, escludendo persino il suo consumatore: a tutti gli effetti un
eccezionale paradosso.
Dunque al di là di un evidente gap economico esiste una lacuna culturale dovuta alla mancanza di
una visione realmente manageriale. In particolare di vari aspetti cruciali:
• reale coinvolgimento del tifoso nella strategia societaria: riduzione delle distanze
• codificazione dei valori di identificazione che ispirano il club
• politiche a misura di tifoso (stadio; ticketing; merchandising)
Questi rappresentano i dettami principali da seguire per realizzare un modello reale di impresa
calcistica, “in grado di coniugare i principi di una sana gestione economica con la capacità di
competere e soddisfare le esigenze dei propri clienti” 17.
2.7 La rivoluzione tifocentrica: teoria di una soluzione
Il passaggio all'impresa calcistica è irto di insidie, perché ogni processo di conversione, soprattutto
nel nostro paese, è lento e faticoso da condurre avanti.
70.32918: questo è il numero di squadre (tra professionisti, dilettanti e settori giovanili e scolastici)
che calcano ogni giorno i campi da gioco del nostro paese. E' facile partire dalle tante milioni di
appassionati che in Italia sono vicini a questo sport, ma è altrettanto impressionante evidenziare il
numero di coloro che danno vita a questo spettacolo (escludendo il livello amatoriale, che è una
fetta enorme dei praticanti) per comprendere la portata di un fenomeno integrante della cultura del
nostro paese. Questa è la pervasività di un fenomeno nazionale: un concetto di semplice deduzione,
che però, nonostante la sua lenta ma reale trasformazione in impresa, la società di calcio non ha
17 A. Parisi, M. Rossetti, “L'impresa sportiva come impresa di servizi: il supporter-consumatore”, Tempesta editore.18 Fonte: “Report calcio 2013”, in collaborazione con “Arel” e “Pwc”.
31
dimostrato ancora di sapere assimilare nella giusta misura. Il problema forse sta in una congenita
forma di squilibrio.
L'evoluzione della società di calcio in Italia infatti potrebbe essere facilmente rappresentata da una
linea ai cui estremi si trovano due principi capitali: l'etica e la pratica. Ebbene, la gestione dei nostri
club è tale da spingerli costantemente ad oscillare tra questi due poli estremi, in una condizione di
costante incertezza, con il risultato che essi difettano in entrambi i casi. Da un lato, infatti, resta
irrealizzata l'istanza di un calcio trasparente a tutti i suoi livelli:
• scandali giudiziari su presunte gare truccate
• ricerca forsennata del risultato a tutti i costi
• società che infrangono costantemente i parametri di una sana gestione finanziaria
• esasperazione comunicativa montata ad arte per creare inutili tensioni
Questi sono tutti elementi che pregiudicano la portata etica di uno sport che perde sempre più molti
dei suoi appassionati.
D'altra parte, e anche per effetto di queste evidenti fonti di instabilità appena elencate, nemmeno
l'esigenza pratica di una fruttuosa spettacolarizzazione viene soddisfatta. Se il modello americano è
pura utopia, è altrettanto vero che l'inerzia delle istituzioni politiche e sportive sta contribuendo a
dilapidare l'ingente patrimonio offerto da una passione popolarissima, il cui principale protagonista,
il tifoso, viene ingenuamente messo in secondo piano. E invece sta proprio in questa figura la
risposta. Questo calcio che è alla ricerca continua di un equilibrio tra le sue dimensioni può
rimodularsi con successo grazie alla possibilità di soddisfare le esigenze represse di coloro ai quali
deve la vita, attraverso una rivoluzione che ricollochi il tifoso al centro delle attenzioni.
Una nuova prospettiva, quindi, capace di ridare dignità a colui che non è un semplice portatore di
interesse, ma un consumatore attivo atipico, autore e protagonista diretto dello spettacolo che decide
di seguire, le cui sollecitazioni non possono andare perdute. L'obiettivo strategico mira anzi a
colmare le distanze con il suo mondo, e per un motivo assai concreto: esaudirne i bisogni
significherebbe, infatti, colmare le lacune che attanagliano una realtà in crisi, che solo in questo
modo potrebbe recuperare valore (brand equity), a livello sistemico e di singola società.
32
Capitolo 3
L'impresa del tifo
3.1 Il tifoso come consumatore “sui generis”
La rivoluzione cui è stato fatto cenno già precedentemente implica che al centro di una determinata
strategia gestionale di qualsiasi società calcistica venga collocata la figura del tifoso, che
rappresenta innegabilmente la ragione d'essere di questo tipo di impresa. Condizione necessaria per
generare profitto è un legame particolare tra queste due entità, che assume connotati unici in virtù
della natura speciale del tifoso, precisamente duplice: esso è infatti allo stesso tempo consumatore
appartenente ad un bacino di utenza e parte integrante di uno spettacolo che egli contribuisce a
costruire. Il tifoso è dunque prosumer 19, in quanto influenza direttamente lo stesso prodotto di cui
fruisce, dandogli un determinato valore.
In tal senso deve essere dunque concepita l'importanza di una revisione strategica da parte dei nostri
club. Il tifoso non può essere considerato un semplice consumatore al quale si propone uno
spettacolo già formattato, cui assistere quasi passivamente. La straordinaria unicità del fenomeno
sta invece nella capacità che egli possiede di intervenire con una partecipazione che è integrata nel
prodotto sportivo e ne definisce il carattere. E' dunque impossibile, come in nessun altro settore,
emarginare dal processo di creazione di valore una figura che simboleggia la memoria, la speranza,
l'identità di una società di calcio.
C'è stato modo di imparare che nel calcio esistono dei punti di riferimento, come la dimensione
affettiva, che travalicano anche la perfetta gestione di un club. La ragione sta proprio nella
fondamentale presenza del tifoso, che è l'anima di uno spettacolo altrimenti privo di senso perché
autoreferenziale a tutti gli effetti. La missione principale consiste nel suo pieno coinvolgimento,
unica ma ardua impresa in grado di condurre una sana politica di gestione d'impresa attraverso il
soddisfacimento della precondizione necessaria della customer satisfaction. Una sfida complessa
che con timidezza il governo calcistico italiano sembrerebbe voler intraprendere. Risulta tuttavia
prioritario non avere la presunzione di rimanere a metà strada, lasciando incompiuto un progetto
integrale di rivoluzione “tifocentrica” che passa attraverso tre gradi di uguale valore che saranno tra
breve analizzati:
• Le esigenze fondamentali del tifoso in quanto consumatore attivo
19 Toffler A. , “The thierd wawe”, Collins.
33
• La codificazione dei valori dell'impresa calcio
• La riduzione delle distanze attraverso la comunicazione
• La corretta gestione tecnico-finanziaria
Solo grazie ad una politica gestionale così completa la realtà che una società di calcio rappresenta in
Italia potrà raggiungere livelli virtuosi, aumentando nettamente la sua brand equity, con effetti
favorevoli sull'intero sistema e sull'immagine da veicolare all'estero. Un prodotto che torna a godere
del pieno entusiasmo del suo target di riferimento è solo destinato a crescere e a conquistare nel
tempo anche oltre i confini nazionali quella capacità attrattiva attualmente sbiadita.
3.2 Le esigenze del tifoso
Il primo passo di una rivoluzione che si definisce “tifocentrica” consiste prevedibilmente nella cura
dei bisogni primari del destinatario del prodotto calcistico. Questi bisogni evidenziano le grosse
lacune di un sistema che ha perso i contatti con una realtà di appassionati sempre più frustrata da un
calcio che non sa ascoltarli, dove è solo la passione a mantenere l'inerzia delle attenzioni.
L'offerta di cui il pubblico sportivo oggi può godere è certamente più ricca che in passato: l'avvento
delle televisioni nella narrazione dell'evento ha valorizzato nettamente le sue potenzialità di
spettacolarizzazione regalando la possibilità di una partecipazione convinta alle vicende della
propria squadra del cuore. Ma la ricchezza di offerta ha generato un paradosso al quale oggi risulta
impossibile sfuggire.
Prima che gli spettatori del calcio venissero esposti ad una simile mole di contenuti, il quadro era
semplice. Lo spettacolo sportivo veniva seguito nella sua essenzialità, senza che fosse sviscerato nel
minimo particolare: puro divertimento. Estremamente singolare nella capacità di suscitare
attenzione, vista la sua immensa portata sociale, rimaneva comunque ancora estraneo alle
esasperazioni odierne. La crescita degli interessi economici e la spettacolarizzazione hanno seguito
poi un cammino comune, tessendo una complessa trama di bisogni indotti che con il tempo è
diventata un pericoloso vincolo. Il sistema che è stato creato, infatti, rende il calcio una occupazione
quotidiana che catalizza l'attenzione dei media fino allo stremo, quasi dissolvendone del tutto
34
l'anima primordiale di pura passione nazionale. E dunque, per uno strano effetto muta anche la
percezione comune, che viene assorbita dalla richiesta di standard sempre più elevati. Nonostante le
emozioni suscitate rimangano sempre le stesse, è innegabile questo fenomeno: un evento così
fortemente spettacolarizzato abitua il tifoso ad un bisogno di fruizione che sia costantemente
all'altezza, ricco e aggiornato, e non ammetta difetti. Ma le condizioni di consumo dell'evento
cambiano: all'opulenta offerta televisiva fa da contraltare l'arretratezza strutturale degli impianti che
ospitano l'evento senza il filtro mediatico. Una sperequazione evidente che reprime l'appassionato,
allontanandolo dal suo habitat naturale, e crea una pericolosa voragine emotiva che rischia di
privare gradualmente il calcio della sua anima. Ci sarà modo di analizzare con precisione il rapporto
tra il ruolo della televisione e quello dello stadio come fulcri di interessi complementari.
Questo paradosso evidenzia piuttosto l'incapacità di conciliare la legittima strategia di promozione
di questo sport (attraverso l'utilizzo degli strumenti mediatici) con le esigenze più genuine del suo
consumatore. Come a dire: arricchire la spettacolarità dell'evento mediato ha un senso relativo se
non si rispettano le sue necessità di base.
L'analisi si concentra a questo punto sulla descrizione delle risorse principali cui il sistema calcio
non può rinunciare per essere definito finalmente virtuoso.
3.2.1. Lo stadio: il punto di partenza
Se volessimo paragonare le esigenze del tifoso di calcio alle esigenze esistenziali dell'individuo, lo
stadio assumerebbe senza dubbio i tratti di una necessità fisiologica, prioritaria su qualunque altra
ed inscindibile rispetto all'evento sportivo, ospitandone l'atmosfera e le suggestioni.
C'è stato modo nel capitolo precedente di valutare l'impatto negativo della questione stadi sull'intero
sistema nazionale. I dati hanno palesato l'esistenza di strutture obsolete e spesso desolate, che
finiscono per rappresentare un vero fardello da un punto di vista economico per i club che le
gestiscono. Salvo rare eccezioni, si è ricordato che gli stadi italiani sono proprietà comunale, e
dunque soffrono ulteriormente la crisi del settore pubblico, che difficilmente sopperisce alle
gravissime carenze impiantistiche normalmente non contemplabili nel resto d'Europa.
La situazione è sotto gli occhi di tutti. Molti addetti ai lavori invocano un intervento legislativo che
riesca a disciplinare una materia assai delicata, favorendo l'intervento del settore privato che tuttora
è fortemente ostacolato dalla tempistica burocratica, scoraggiando ogni forma embrionale di
progetto edificatorio. Chi ha superato questo ostacolo ne ha però raccolto con successo i frutti.
35
Come visto, nell'analisi dei bilanci societari, la Juventus, rarissimo caso di proprietaria di un
impianto privato, spicca per la più consistente riduzione del passivo nell'ultima stagione, superiore
al 40%. La spinta decisiva è arrivata manco a dirlo dal felicissimo indotto generato grazie allo
“Juventus Stadium”, con un aumento degli spettatori del 63% ed una triplicazione dei ricavi da
botteghino, balzati ai 31,8 milioni di euro20.
Questi dati ripropongono con prepotenza la funzione strategica dello stadio, che con l'avvento
dell'impero delle pay-tv ha iniziato ad entrare in declino. In un paese che dipende moltissimo dal
contributo economico dei diritti televisivi il sistema calcistico si è fossilizzato su una visione
monolitica che ha emarginato il tifoso, senza pensare alla quantità enorme di risorse potenziali da
sfruttare per valorizzare ogni singolo brand di squadra. E' facile dimostrarlo con un esempio di
respiro internazionale, una capitale calcistica come solo Londra può essere.
Lo stadio “Emirates” è la casa calcistica dell'Arsenal, uno dei club più prestigiosi della Premier
League inglese. Costruito in un tempo record di poco superiore ai quattordici mesi, ha comportato
un costo totale di circa 390 milioni di sterline21. Inaugurato nel luglio del 2006, conta una capienza
massima di oltre sessantamila persone ed è tuttora il secondo stadio del campionato inglese. Questa
opera sembra unica, ma è uno dei tantissimi stadi di proprietà esistenti in Inghilterra, paese nel
quale, prima di tutti, si è compreso che la cura diretta degli impianti da parte delle società può
generare un proficuo circuito economico. L'obiettivo di un impianto realizzato secondo questo
criterio è renderlo una struttura polivalente, fruibile per ogni giorno dell'anno, in grado di generare
nuovi ricavi derivanti dai servizi e dalle attività commerciali collaterali, e soprattutto dalle immense
opportunità di sponsorizzazione. Sono molti i paesi europei, oltre il Regno Unito, dove si è diffusa
la tendenza a costruire lo stadio in compartecipazione finanziaria fra club e colossi del mercato
internazionale. E non fa eccezione infatti l'Arsenal, il cui impianto è stato finanziato dalla
compagnia aerea “Emirates”, secondo un ricco contratto che prevede la denominazione
dell'impianto in “Emirates Stadium”, in cambio di un versamento di circa dieci milioni di euro
l'anno per un periodo di quindici anni.
Dotarsi di una struttura di grande livello permette una diversificazione delle entrate che esula dal
semplice evento sportivo. Lo stadio diventa la casa del club, ma allo stesso tempo sede delle
iniziative più variegate: hospitality, eventi, musei della storia della squadra, tour guidati. Le aree
funzionali vengono ottimizzate attraverso un utilizzo quotidiano della struttura: ristoranti,
parcheggi, negozi, fitness center. In quest'ottica, lo stadio non dura novanta minuti, ma sette giorni
su sette per tutto l'anno, garantendo una crescita finanziaria di spessore ed un netto rafforzamento 20 Fonte: “Deloitte Football Money League 2013”21 Fonte: “www.arsenal.com”
36
della brand awareness del club. Gli effetti positivi di una strategia “stadium oriented” sono
dimostrati a tutti i livelli, anche quando ci si allontana dalle piazze più importanti. Si pensi
all'incredibile caso di Coventry, cittadina mineraria delle West Midlands inglesi senza apparenti
fonti di interesse turistico. Questa ospita dal 2005 la “Ricoh Arena”, che ogni anno riesce ad attirare
al suo interno quasi un milione di visitatori. Oltre ad essere la casa della squadra del “Coventry
City”, infatti, questa struttura è all'occorrenza una enorme sala espositiva di 6000 mq, un centro
ricreativo, un albergo ed un casinò22. Sono cifre impressionanti, che dimostrano l'incredibile impatto
socio-economico che un moderno impianto può esercitare su un territorio, anche nei casi in cui
questo non sia polo di attrazione turistica.
Laddove l'investimento privato viene incoraggiato si possono facilmente conoscere gli effetti
benigni che la costruzione di uno stadio comporta. Ma nel nostro paese esistono tanti dubbi legati al
rapporto tra pubblico e privato, il cui intervento non viene favorito da una burocrazia lenta e
complessa che ostacola qualsiasi progetto. La necessità primaria riporta ad una legge che snellisca i
tempi e convogli maggiori responsabilità sulle società di calcio, che al momento sono solo
depositarie di una concessione rilasciata dai Comuni, che vivono comunque una crisi profonda e
continuano ad avere pesanti oneri. Infatti la condizione arretrata delle strutture sportive comporta
interventi di manutenzione costanti che rappresentano un costo elevato da sostenere. La vera svolta
sta qui: lo stadio di proprietà potrebbe costituire un affare per le società, ma anche per gli stessi
comuni, che verrebbero sgravati di una spesa troppo pesante per le casse pubbliche, incassando
oneri di urbanizzazione e tasse come l'Ici. Senza contare i ricavi derivanti dalla riqualificazione del
territorio che ospiterebbe la struttura, unitamente al guadagno in termini di immagine dell'intera
città.
Alla luce di quanto finora esposto, urge ricapitolare quale potrebbe essere allo stato attuale delle
cose lo scenario offerto dal progetto di costruzione di un nuovo ed efficiente impianto sportivo per
una società di calcio italiana, sulla falsariga della scelta operata dalla “Juventus F.C.”.
Utilizzando la matrice “SWOT” come strumento di pianificazione strategica è possibile delineare
uno schema che valuti potenziali punti di forza, di debolezza, minacce e opportunità derivanti da
questo tipo di scelta.
Punti di forza
• rafforzamento del senso di marca e dell'immagine del club : un impianto moderno ha
22 Fonte : “www.ccfc.co.uk”
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certamente effetti positivi sul brand value
• aumento dei ricavi provenienti dalla vendita dei biglietti
• aumento dei ricavi provenienti dalle attività complementari comprese tra le
funzionalità dello stadio (ristoranti; cinema; aree svago...)
• aumento dei ricavi provenienti dalle altre attività che uno stadio può ospitare
(concerti e altri eventi di rilievo)
• crescita del patrimonio societario tramite possesso di immobile
• adeguamento agli standard europei in termini di sicurezza
• regolamentazione dei rapporti tra società e Comune di appartenenza della squadra,
tramite il pagamento delle tasse di proprietà
• Riduzione degli oneri economici a carico del settore pubblico (manutenzione)
Opportunità
4. fidelizzazione del tifoso grazie ad una ritrovata positiva fruibilità dell'evento sportivo
5. possibilità di intercettare nuove tipologie di target, come le famiglie
6. possibilità di compartecipazione finanziaria con uno sponsor internazionale, in grado di
sostenere l'oneroso impegno di costruzione
7. crescita del valore in termini di immagine televisiva, che può tramutarsi in un incremento
futuro dei diritti di trasmissione
8. Implementazione delle politiche
Punti di debolezza
4. assenza di una legge sugli stadi che disciplini la materia favorendo l'investimento privato
della società
5. l'ostacolo di una burocrazia ancora complessa, che allunga i tempi tra una concessione e
l'altra, scoraggiando l'investimento
Minacce
• Elaborazione di un progetto che non valuti la posizione dei tifosi interessati, ed in misura più
38
allargata della cittadinanza e degli organi amministrativi pubblici
• Dipendenza della struttura dal progetto societario e dalle vicende del club proprietario
La teoria, dunque, suggerisce molteplici opportunità connesse alla costruzione di uno stadio privato,
di diretta gestione societaria. Il problema fondamentale però è quello della realizzazione pratica. Per
quanto un'opera simile richieda particolari sforzi economici, la versa sfida sta nella rimozione di un
blocco socio-culturale che attanaglia la gestione sportiva italiana, unitamente all'immobilismo
politico. Urgono segnali concreti di svolta. E' impensabile ragionare in termini di conversione
parziale degli assetti attuali: se cambiamento ci deve essere, sarà totale, senza mezze misure. La
rivoluzione “tifocentrica” presuppone la restituzione del calcio al suo vero proprietario. Questa
missione diviene impossibile, però, se lo si priva da principio del suo habitat naturale.
3.2.2 L'importanza della cornice: il marketing mix da stadio
La passione verso la propria squadra del cuore ed il risultato sportivo sono i punti di riferimento del
tifoso che orientano qualunque decisione strategica di una società di calcio. Come introdotto, sono
elementi imprescindibili nella valutazione del servizio offerto, in grado di influenzare certamente le
possibilità di fidelizzazione. La società sa infatti di avere a che fare con un settore prevalentemente
anomalo, in quanto “emotivo”. Se è vero che esiste una tifoseria “pura”, la cui fede difficilmente
può essere intaccata nel tempo, una pianificazione strategica lungimirante ha il dovere di alimentare
l'amore verso i colori sociali con costanza, considerando l'impatto che una ottimale combinazione
delle leve di marketing può generare sul target più “suscettibile”. Gli scandali giudiziari, le
scommesse che coinvolgono i tesserati, stipendi al limite della moralità: queste cose sono
ampiamente sufficienti ad offrire la percezione di un calcio che sta perdendo il suo vero valore, e
dunque contribuiscono a deludere una parte di pubblico, che se ne sente esclusa. Tra questi fattori di
allontanamento si erge la fatiscenza degli stadi. Questa piaga scava un solco ancor più profondo nel
rapporto tra tifoso e sistema calcio, perché pregiudica la visione pura dello sport, quella di una
esperienza sociale di condivisione e di divertimento indipendente dal risultato finale. O almeno non
completamente vincolata ad esso. E a risentirne è anche la cultura sportiva stessa, in una spirale di
influenze reciproche. Come a dire: è possibile migliorare il senso etico della partecipazione ad un
evento come una partita di calcio, se le strutture che la ospitano, ed i servizi ad esse complementari,
39
contribuiscono a reprimere i comportamenti, concentrando tutto sul risultato di una squadra?
Questo ragionamento è delicato, e può subire facili strumentalizzazioni. E' palese che la cultura
sportiva di un popolo sia indissolubilmente connessa alla sua istruzione, alla sua educazione, alla
sua crescita civile. Ma forse, in minima parte, una crescita morale basata sull'insegnamento dei
valori più importanti (sacrosanta) potrebbe essere aiutata dalla possibilità di vivere pienamente
un'esperienza assoluta di divertimento, comoda, rilassante e sicura. Una distrazione priva di
tensioni, dove la vittoria della propria squadra del cuore rappresenterebbe un gigantesco valore
aggiunto ad un già molto appagante momento sociale.
Immaginando la diffusione di un sistema impiantistico moderno e polivalente nel nostro paese, tale
da ammodernare la situazione degli stadi italiani, le società di calcio del professionismo nostrano
avrebbero carta bianca nel calibrare l'offerta migliore possibile al proprio target di riferimento.
L'offerta del servizio sportivo agli spettatori, o meglio al pubblico che fruisce delle potenzialità
vastissime di un impianto all'avanguardia, viene proposta attraverso una combinazione dei fattori di
marketing in un insieme virtuoso che coincida con la strategia del club. Questo dosaggio razionale
risponde all'esigenza di fornire un prodotto variegato ma allo stesso tempo adeguato rispetto ai suoi
destinatari. La logica del marketing mix concorre a ricreare con efficacia il risultato ottimale
dell'esperienza: Inghilterra e Germania, con i loro luminosi esempi, insegnano concretamente che il
valore della “cornice” rappresenta un'entità organica indiscussa capace di donare nuovo significato
all'evento sportivo, senza che si possa rinunciare più ad essa.
I fattori di marketing da considerare in una analisi approssimativa potrebbero essere così espressi:
Fattori relativi al prodotto/servizio
• partita di calcio
• emozioni
• atmosfera
• sicurezza
• modalità di accesso all'impianto
• numerazione posti
• visibilità
• parcheggi
• servizi di ristoro
• servizi igienici
40
• servizi tecnologici (display, connessione wi-fi...)
• …
Fattori relativi al prezzo
• prezzi dei biglietti
• differenziazione dei prezzi (settore, fascia d'età, sesso...)
• tempo di pagamento
• modalità di pagamento
• …
Fattori relativi alla comunicazione
• personale di contatto con il pubblico
• relazioni pubbliche
• pubblicità
• promozione
Fattori relativi alla distribuzione
• località di svolgimento della partita
• …
Ogni strategia di questo tipo implica una gestione dei costi che vanno proporzionati all'importanza
che una singola risorsa da offrire al target di riferimento riveste in relazione al contesto.
Anche una analisi approssimativa come quella appena condotta, ad ogni modo, permette di
evidenziare la spettacolare funzione di valorizzazione che uno stadio moderno sarebbe capace di
41
mettere in atto. Valorizzazione dello spettacolo sportivo e delle attività complementari;
valorizzazione delle funzioni d'impianto; valorizzazione dell'atmosfera; valorizzazione dell'
esperienza. Un unico processo che ingloba le aspettative di un pubblico desideroso di riconciliarsi
con il calcio, rompe le barriere esistenti e, dunque, valorizza il tifoso come consumatore attivo.
3.2.3 Stadio contro televisione: una lotta forzata
La nostra analisi è stata già in grado di evidenziare la forte dipendenza del sistema calcistico
italiano dalle iniezioni economiche delle pay-tv. Il valore dei diritti televisivi infatti ha raggiunto
livelli tali da soverchiare tutte le altre forme di ricavo tradizionali. Un sistema antico come il nostro
quindi presenta una pericolosa, eccessiva dipendenza da una forma di guadagno che viene
distribuita tenendo conto di logiche di ascolto (la famosa ampiezza dei bacini d'utenza), e dunque
non favorisce nemmeno l'equilibrio della competizione sportiva. Negli ultimi anni si è acuita la
forbice che separa gli incassi di trasmissione da quelli legati alla fruizione diretta dello spettacolo
sportivo. Lo dicono i numeri: nel calcio professionistico le medie dicono di impianti pieni per metà.
Da una parte, il mezzo delle pay-tv, che ha creato certamente una interessante possibilità di
consumo a distanza della partita di calcio, favorendo l'ubiquità del tifo e la spettacolarizzazione
diffusa dell'evento; dall'altra, la forma tradizionale dell'esperienza da stadio. Saremmo
semplicemente di fronte a due prospettive diverse connesse ad un medesimo fenomeno, se non
fosse per l'anomalia del nostro sistema, che ha abituato all'idea di una contrapposizione netta tra
esse. La percezione di una netta dicotomia tra le parti trae origine dall'asimmetria del loro rapporto,
troppo sbilanciato a favore dell'impero mediatico. Mentre aumenta la ricchezza di offerta del mezzo
televisivo diminuisce la qualità del servizio impiantistico, che sprofonda in un baratro tale da
allontanarvi gli appassionati. Le condizioni degli stadi italiani bastano da sole ad aumentare questo
enorme divario. Il risultato è che mentre negli altri paesi, come la Germania e l'Inghilterra, il tifoso
si trova di fronte ad una piacevole alternativa di scelta, in Italia l'esperienza calcistica tende con il
tempo a diventare televisiva, accantonando gradualmente le suggestioni da stadio.
In questo quadro colpisce anche, tra gli innumerevoli difetti strutturali che affliggono la quasi
totalità delle società che non possono vantare un impianto attrattivo, la decisione frequente di
speculare sulle politiche di ticketing: accade quindi spesso che a causa dei prezzi troppo alti gli stadi
si riempiano solo in parte. Un simile fenomeno denota quanta poca importanza possa essere data al
valore della cornice di pubblico, e come certe strategie di gestione quasi favoriscano il divario di cui
42
stiamo parlando.
Eppure, solo vent'anni fa i club di calcio puntavano sulla campagna abbonamenti per rientrare negli
investimenti realizzati in estate, avvalendosi del sostegno economico diretto della tifoseria senza
contributo d'altra natura. Le realtà evolute dell'Europa lo dimostrano, come lo dimostra l'eccezione
nazionale dello “Juventus Stadium” che nell'ultima stagione ha incassato 31 milioni di euro totali. Il
calcio parte dallo stadio, perché a crearvi l'interesse sono i tifosi. In un circuito virtuoso di gestione
questo genera ricchezza, con effetti benigni per tutti gli agenti che ne fanno parte, emittenti
comprese.
3.3 La codificazione dei valori nell'impresa calcio: il “team brand”
Il sistema calcistico italiano necessita di una drastica opera di conversione strategica, viste le sue
evidenti lacune. Questi difetti generano una nefasta dispersione del valore, che limita le potenzialità
del brand di squadra. La missione principale di una società deve consistere allora nella capacità di
convogliare questo valore in logiche di identificazione con il tifoso, esaltandone la passione,
l'immenso patrimonio di cui egli è titolare.
Ogni singola squadra vanta una storia differente, pubblici di sostenitori più o meno radicati in un
singolo territorio e quindi anche una specifica capacità di rappresentanza. Sulla base di questi
elementi è possibile individuare i valori che orientano ed ispirano tutti coloro che sostengono dei
colori. Questi sono valori non scritti, ma spesso altamente condivisi perché riconosciuti
legittimamente, in grado di rendere organica la passione di un pubblico che vuole riconoscersi in
una immagine di squadra coerente con le sue aspirazioni.
Un club sportivo ha il dovere di veicolare questi valori, codificandoli, rendendoli ufficialmente
criterio di riferimento della sua condotta, tessuto connettivo che lo avvicini al mondo del tifo.
L'impresa calcistica ha l'occasione di avvicinarsi al suo pubblico di riferimento attraverso la
costruzione di un'immagine che ruoti attorno a principi condivisi. Anche i grandi marchi
internazionali conoscono bene l'importanza comunicativa di una salda “brand image”. Il contesto è
diverso, ma la dinamica è simile, e preziosa, visti gli obiettivi che realizza:
• condivisione/identificazione con il pubblico di riferimento
• conseguente crescita in termini di “brand equity”
43
Lo scenario italiano però è attualmente condizionato da una scarsa sensibilità in tal senso. La ricerca
dell'identità è ancora lunga. Sui portali internet delle maggiori realtà professionistiche non esiste
traccia alcuna sulla loro caratterizzazione storica, territoriale, etica o d'altro tipo. Eppure il primo
passo utile a costruire un “team brand” che si rispetti è definirne la mission, o quantomeno fissarne i
valori fondanti. Parliamo di un fenomeno sociale che investe totalmente la nostra nazione, da molto
tempo e con capillarità estrema: è facile tracciare un quadro ipotetico.
Accanto ad una mission squisitamente sportiva, connessa agli obiettivi fissati da una squadra in una
data stagione di campionato, esiste una componente strategica da rispettare. Queste due dimensione
possono anche intrecciarsi, e contraddistinguere il sistema gestionale di una società come l'Udinese,
che potrebbe ad esempio:
“Garantire ai propri tifosi la partecipazione ripetuta al massimo campionato professionistico
italiano, con la possibilità di raggiungere la qualificazione a competizioni di livello europeo,
attraverso un sistema di gestione virtuosa che valorizzi giovani talenti dall'elevato valore
potenziale”
Questo è il caso di una delle pochissime società in attivo di bilancio del nostro panorama, che
investe molte delle sue risorse nel settore dello scouting e grazie alla cessione sistematica dei talenti
scovati produce ingenti plusvalenze; di una gestione equilibrata che incontra il favore dei risultati,
essendo presente in serie A da quasi vent'anni la rende il riferimento sportivo del territorio friulano;
di un ambiente lontano da esasperazioni, che valorizza le capacità sportive ed umane del singolo; di
una realtà che entro breve potrà anche vantare uno stadio di proprietà.
Un caso concreto di pianificazione strategica lungimirante che potrebbe identificarsi attorno ad
alcuni fondamentali “brand values”, territoriali, tecnici o d'altro genere:
• orgoglio
• creatività giovanile
• purezza
• tranquillità
• lungimiranza
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La comunicazione dei valori di un'impresa poi passa attraverso altri strumenti, come il logo, che
spesso include il simbolo storico della squadra, che ha un grande valore identitario. Si pensi al
Torino, sul cui stemma campeggia il tradizionale toro: tenacia, cuore, generosità nella competizione
sono considerati da sempre la vera fonte d'orgoglio del popolo granata. Abbiamo dunque a che fare
con un patrimonio condiviso di principi, che potrebbe certamente aumentare il grado di
immedesimazione della società calcistica nella figura sacra del tifoso. La questione è
semplicemente unica: metterli “per iscritto” come una impresa tradizionale sa fare da tempo.
3.3.1 Storia, solidarietà e territorio: il caso Barcellona e la filosofia “mes que un club”
“Lo slogan “mes que un club” è una proposta sportiva e sociale insieme, una proposta sportiva per un calcio
offensivo, entusiasta e leale, e una proposta sociale che trascende il calcio e lo sport per accostarsi alla gente...”23
Esistono casi esemplari nel mondo delle imprese calcistiche, nei quali una felice combinazione di
fattori contribuisce a fortificare la “brand image” di una società conferendole un'identità piena,
distinta dalle altre e capace di imporsi oltre i confini nazionali. Così ha operato l' “F.C. Barcelona”,
raggiungendo risultati eccellenti che la rendono tuttora un modello da seguire. La struttura
organizzativa catalana è quanto di più vicino alla realizzazione ideale dell'impresa calcistica. La
particolarità del contesto in cui opera ha favorito indubbiamente uno stato totale di identificazione
tra club, territorio ed abitanti di una regione della Spagna tradizionalmente contraddistinta da un
forte senso di appartenenza alle proprie radici. Ma sono tanti gli ingranaggi che hanno reso possibile
la costruzione di una macchina così ben funzionante.
• Funzione di rappresentazione del territorio catalano
• grande importanza della tradizione storica
• spirito di solidarietà e responsabilità sociale
• offerta di un gioco leale e offensivo che favorisca la condivisione delle esperienze
• carattere glocal del brand
23 Editorial de Barcelona Fc Camp Nou, Diario Oficial FC Barcelona, 2006, n. 17.
45
Queste sono le peculiarità che rendono il marchio “F.C. Barcelona” unico in tutto il mondo, e che
facilmente permettono di distinguerne i colori rispetto alle altre potenze del calcio europeo.
Questi valori, che come avviene per ogni impresa di servizi, sono espressamente indicati sul sito
ufficiale della società, compongono una filosofia aziendale di respiro internazionale. La crescita del
“modello Barcellona” negli ultimi anni è stata vertiginosa, e ha potuto avvalersi di una originale e
premeditata connessione tra l'aspetto tipicamente sportivo e quello etico. Se infatti questo è “più che
un club” lo si deve ad una felice alchimia di elementi che ha saputo combinare l'indiscusso
significato della squadra nel suo territorio con istanze di ampio raggio.
Durante il regime franchista il Barcellona rappresentava l'unica forma di libera espressione che i
cittadini catalani potevano esprimere, in opposizione alla centralità del regno. Gli eventi storici
hanno dunque generato una affascinante simbiosi tra la squadra di calcio ed i suoi tifosi, che in essa
ancora oggi vedono lo strumento prediletto per esprimere la loro culturale la loro eredità storica.
L'interesse sociale è alla base della “mission”. Da un lato, ha saputo incarnare lo spirito catalano
penetrando l'anima della comunità locale; dall'altro ha fondato le sue strategie di marketing sulla
promozione di cause globali quali i diritti umani: è rinomato l'impegno congiunto con l'UNICEF in
opere di beneficenza e solidarietà. La filosofia è fedele ai dettami della “corporate social
responsibility” che permettono di realizzare gli innumerevoli obiettivi di natura sociale sostenuti
dalla “Fondazione Barcellona”, una nobile costola della società destinata a coinvolgere attivamente
la cittadinanza in programmi benefici, culturali e sportivi. Sono stati organizzati, nel tempo: progetti
umanitari per l'Africa; centri educativi per bambini; donazioni di medicinali e prodotti sanitari;
campagne promozionali contro l'Hiv; incontri e tornei di integrazione etnica 24.
Ma un ulteriore fattore di specializzazione della “impresa Barcellona” risiede certamente nel core
business, ovvero l'evento sportivo offerto alle migliaia di appassionati, che è frutto di una
concezione unica del gioco del calcio. I valori territoriali e sociali infatti si esprimono pienamente
nella squadra e nella filosofia di cui è oramai testimone massima. I giocatori scelti per difendere i
colori “blaugrana” incarnano con le loro caratteristiche tecniche la promessa di spettacolarizzazione
insita nella mission. Il gioco del calcio è innanzitutto divertimento per le persone che vi si
avvicinano, perché offre la possibilità di condivisione delle esperienze e quindi genera valore
sociale. Questa concezione edonistica del calcio è in linea con la destinazione etica cui mira il club.
La strategia di esportare un modello così coinvolgente di gioco non dipende esclusivamente dalla
ricchezza di questa società, che anzi raccoglie oggi i risultati di un lavoro cominciato decenni fa,
concentrato sulla forza del vivaio locale. La dimensione tecnica è inestricabilmente connessa a
24 Baglioni S., Bof F., Fusetti C, “Il Management del calcio. La partita più lunga”, Franco Angeli.
46
quella imprenditoriale. Ad esse si aggiunge però una preparazione culturale dei giovani catalani che
sin dall'inizio della loro carriera calcistica, vengono educati ai principi calcistici ed etici della loro
scuola. L'effetto straordinario di questo fenomeno ha favorito l'esplosione di una generazione di
fenomeni mondiali nati e cresciuti nell'accademia del Barcellona: figli di uno stesso orgoglioso
territorio hanno saputo imporre una meravigliosa cultura del calcio ed esprimere i valori della loro
società anche al di fuori della Catalogna, in tutto il mondo.
Questo passaggio permette di comprendere che l'identità del club viene diffusa con successo sui
mercati internazionali. Il marchio “Barcellona” è molto efficace sui mercati asiatici; le televisioni
sportive degli altri paesi europei investono milioni per trasmetterne le partite nel campionato
spagnolo; le iniziative benefiche organizzate dalla “Fondazione” raggiungono e coinvolgono l'
Africa; sono stati aperti dei campus anche in Inghilterra. Il brand è ubiquo, e nel corso degli ultimi
dieci anni ha raggiunto il massimo grado di esposizione. Tuttavia, mantiene intatta l'identità
primordiale che riesce a risultare attrattiva anche al di fuori dei propri tradizionali confini
territoriali. La “FC Barcellona” rappresenta senza dubbio il più fulgido esempio di “glocalità” nel
mondo dell'impresa sportiva.
Il caso appena esposto dimostra le incredibili potenzialità insite all'interno di una società gestita
secondo i criteri puri del management. E in particolare fedele ai principi della responsabilità sociale.
Diversi sono i punti di forza che rendono questo un caso peculiare. Ma il calcio italiano può trarvi
ispirazione per rendere questo modello importabile: le potenzialità di sviluppo sociale e materiale
sono troppo importanti per non provarci. Anche le nostre squadre possono cucirsi addosso i propri
valori, e costruire un'identità che le rappresenti ovunque con orgoglio. Come un vero brand.
3.3.2 La responsabilità sociale nell'impresa calcio
Abbiamo appena descritto le peculiarità che rendono il Barcellona un'eccellenza nel campo della
gestione di impresa calcistica. Tra i valori strategici della società catalana spicca certamente
l'attenzione all'aspetto sociale, che trova riscontro, come osservato, sia nella concezione dello
spettacolo sportivo che nella globalizzazione strategica di iniziative benefiche in tutto il mondo.
L'approccio connesso alla responsabilità sociale di impresa, il cosiddetto “CSR”, merita un ulteriore
approfondimento perché la sua rilevanza nelle scelte aziendali accomuna il mondo manageriale
classico a quello sportivo. L'importanza crescente e la necessità pressante di un'etica forte anche nel
mondo del calcio, la cui integrità di immagine è dilaniata nel nostro paese da costanti attacchi,
47
costituisce una esigenza ormai radicata che i club non possono sottovalutare. Un fenomeno di massa
di simile portata deve per forza generare al suo interno comportamenti che assecondino le
aspettative comuni, attraverso l'adozione di una strategia trasversale che investa i principali agenti
coinvolti con decisione: tifosi, in primis; media; opinione pubblica; territorio.
Rispetto ad una tradizionale impresa di servizi, è bene chiarire che l'impresa sportiva è portatrice
per definizione di una forma di responsabilità sociale, visto il ruolo che un fenomeno come il calcio
assume nei confronti di tutti i suoi appassionati. Diventa quindi obbligatoria una pianificazione
mirata: una società che voglia ridefinire come si conviene la sua “corporate image” non potrà
prescindere dalla portata etica delle sue decisioni, prima di specificare i principi che la rendono
differente da un'altra. I settori di intervento sono i più disparati. Per citarne alcuni, ad esempio:
• un codice di comportamento degli atleti e dei tesserati in generale
• una maggiore propensione a promuovere certi valori presso il pubblico di riferimento
• creazione di programmi ed iniziative di solidarietà non casuali (come il Barcellona)
• la possibilità di fissare un codice economico che fissi un limite alle pretese degli atleti
3.3.3. Lo sfruttamento commerciale del “team brand” : il merchandising
La costruzione di una forte “brand image”, che è poi precondizione necessaria alla valorizzazione
dello stesso marchio, trova un valido sostegno in una grande area di sviluppo del marketing
sportivo, che è il merchandising. Questa pratica permette la vendita ai tifosi dei prodotti ufficiali
contrassegnati dal marchio di squadra, ed appartenenti alle categorie più disparate:
dall'abbigliamento di gara all'oggettistica, fino ai prodotti per la casa. Questa forma di attività è
tuttavia troppo poco sviluppata nel nostro paese, a dispetto dell'incredibile sfruttamento cui si
assiste negli altri paesi europei, volendo attenerci esclusivamente al calcio. Stilando una classifica
che comprende i principali campionati del vecchio Continente25, infatti, la serie A si trova al di sotto
di Liga spagnola, Premier League inglese e Bundes tedesca.
Il campionato iberico, che in questi anni sta basando molto, anche troppo sull'attrazione
rappresentata dal duello che oppone le superpotenze Barcellona e Real Madrid, domina la
graduatoria con 190 milioni di euro di ricavi. In questo paese hanno fatto storia i casi di star del
calcio le cui magliette ufficiali sono state vendute in misura tale da il costo del cartellino, come
25 Fonte: Sport+Markt AG
48
avvenne per David Beckham quando fu acquistato dal Real. Nel luglio del 2003, infatti, erano state
già vendute un milione di casacche alla somma di 78 euro l'una26. In questi casi il calciatore diventa
un affare ancor prima di scendere in campo.
La Premier segue con 168 milioni di euro. Manchester United, Liverpool ed Arsenal guidano la
classifica delle entrate. Ma questo campionato si impone per la capacità di vendere con relativa
omogeneità i marchi dei club di appartenenza, compresi quelli meno illustri.
Sopra i 130 milioni la vendita totale in Germania: una realtà in cui però si registra una dinamica di
crescita globale vertiginosa destinata a proseguire con stabilità nell'immediato futuro.
La panoramica europea introduce i limiti del nostro paese. Il risultato è vicino ai 77 milioni di euro
complessivi, ma gli ostacoli sono evidenti, e creano un solco particolarmente ampio rispetto alle
altre leghe. Tra i fattori principali spiccano indubbiamente :
• la presenza di un vasto mercato della contraffazione che limita fortemente la vendita
ufficiale
• la scarsa capacità di investimento in politiche di immagine che valorizzino il brand di
squadra anche attraverso la vendita di prodotti ufficiali
• una generale politica di pricing completamente inidonea a penetrare i mercati
La questione della fissazione dei prezzi è spesso sottovalutata quando si affrontano le criticità di
questo settore. Eppure basta visitare il portale internet delle società di calcio italiane per rendersi
conto della incredibile sperequazione che ci divide dalle altre nazioni.
Le squadre più “care” sono Lazio e Napoli, il cui sponsor tecnico comune vende la maglia ufficiale
alla cifra di 79 euro27. Il prezzo della casacca del Manchester City, d'altra parte, ammonta a circa 25
sterline. La differenza è netta, soprattutto se si considera l'indiscusso valore globale del marchio
“Premier” rispetto all'attuale “Serie A”. La massiccia presenza di un mercato nero dello sport non
aiuta nemmeno un settore che dovrebbe dunque convertire le strategie di vendita verso un'offerta
dei prodotti ben più economica, capace di avvicinare il tifoso al mercato della propria squadra
piuttosto che distanziarlo ulteriormente anche su questo versante.
26 Fonte: www.calciolab.com
27 Fonte: www.calciomercato.com
49
3.4 La riduzione delle distanze. Il ruolo della comunicazione “social” per combattere il
“football divide”
L'esigenza di una rivoluzione incentrata sulla valorizzazione della figura del tifoso quale massimo e
primario centro di interessi cui il sistema calcistico deve tornare con decisione a riferirsi, deriva
dall'attuale condizione di distanza tra le parti. Il fulcro della questione risiede proprio nel “football
divide”, nella incapacità da parte delle istituzioni nazionali di soddisfare i bisogni basici del
pubblico che garantisce la sopravvivenza di un campionato. Stadi arretrati, bilanci in rosso, scarso
investimento nella comunicazione di immagine: tutti questi fattori acuiscono la forbice società-
tifoso, e diffondono la percezione di una realtà che vive in una logica autoreferenziale ed
immobilistica, dimentica che “il calcio è la monetizzazione di un sentimento, mosso dalla passione
e dal tifo”28. Non è un caso che il predominio televisivo accentui questa tendenza, ponendo uno
schermo divisorio che filtra la genuina rappresentazione dello sport. Le ricadute sulla passione sono
evidenti, e cominciano a generare effetti devastanti che si traducono facilmente in una drastica
perdita economica, prima fra tutte quella legata agli stadi.
L'area dei tifosi è andata contraendosi in misura rilevante, ed in un lasso di tempo molto breve.
L'indagine “Gli italiani e il calcio” evidenzia innanzitutto il dato assai allarmante della sua
riduzione: tre punti in meno rispetto all'anno precedente, il 2011; nove punti in meno rispetto a due
anni prima; tredici addirittura rispetto a tre anni prima. Come risultato di questa parabola
discendente oggi quattro italiani su quattro si considererebbero tifosi di calcio. Solo una larga
minoranza risulterebbe dunque ancora fortemente appassionata alle partite di calcio, mentre
aumenterebbero i tifosi definiti “tiepidi”, cioè meno immedesimati nelle vicende sportive, e non più
vincolati ad esse da un rapporto viscerale. Seguendo un ordine decrescente, l'attuale configurazione
della passione italiana verso il calcio distinguerebbe tre ordini di tifosi: i militanti; i caldi; i tiepidi.
28 Rizzo S., “Se sciopera la passiome”, Corriere dello Sport, 13/03/2006
50
Le scorie di “Calciopoli” e gli scandali sulle scommesse hanno favorito una netta perdita di fiducia
nei confronti di uno sport la cui integrità viene minata da vicende giudiziarie senza sosta. Quasi un
tifoso su due, addirittura, ritiene che la questione che coinvolge il gioco d'azzardo non sia stata
risolta in modo completo nelle aule giudiziarie. La percezione che domina è quella di un calcio
macchiato da interessi economici troppo grandi (circa l'84% degli intervistati); persino la figura
dell'arbitro non gode della stessa autorità di qualche anno fa, visto che il 53% del campione rilevato
ritiene che i loro errori siano commessi in malafede.
Di fronte ad simile un scenario, l'unica prospettiva accettabile in una strategia davvero finalizzata al
cambiamento dello status quo, è quella della ricostruzione dei rapporti con il proprio pubblico. La
tendenza in atto mostra chiaramente che questa esigenza ha una matrice etica, ma è fondata anche
su motivi di lungimiranza gestionale: il tifoso regge l'impero del calcio, essendone consumatore e
allo stesso tempo parte integrante. Come già avuto di sottolineare all'inizio del nostro percorso, se è
vero che l'appartenenza ad un colore non cambia, è altrettanto ammissibile che il tifoso possa
perdere entusiasmo senza una adeguata opera di fidelizzazione. Per questi motivi cambiare diventa
necessario, e non più solamente preferibile: c'è in gioco la conservazione del sistema calcistico.
L'obiettivo strategico primario diventa quello di recuperare le distanza perdute con il pubblico. Ci
51
vogliono decisioni strutturali come quelle già descritte. Ma complementare ad una simile strategia è
l'azione dei mezzi di comunicazione, in particolar modo il contributo offerto dal mondo delle
tecnologie “social”, le cui potenzialità inespresse sono incredibili.
I social network più diffusi come “Facebook” e “Twitter” rappresentano una risorsa comunicativa di
grande livello, perché permettono di adempiere diverse funzioni, contemporaneamente:
• comunicare notizie ufficiali integrando o sostituendo il sito internet della società
• realizzare una comunicazione multidirezionale
• sondare l'emotività del target
La prima funzione attiene al campo delle esigenze attualmente realizzate. Infatti, sono ormai tutte le
società professionistiche di un certo grado a poter vantare un profilo social. Questi vengono
utilizzati soprattutto per pubblicare comunicati o notizie della giornata sportiva trascorsa: l'acquisto
di un calciatore; l'annuncio della prevendita di biglietti per una gara; gli orari previsti
dell'allenamento della squadra; le dichiarazioni del tecnico in conferenza stampa.
Le società ne hanno ormai colto l'importanza di strumento di mera riproduzione delle ufficialità, è
indubbio. Ma è anche riduttivo fermarsi a questo livello di valutazione, per un fenomeno in grado di
connettere migliaia di persone con enorme facilità. I social network hanno rivoluzionato il mondo
della comunicazione e le modalità di fruizione dei contenuti digitali. Nell'ottica di un'impresa
calcistica che evolva la sua managerialità questa realtà non può essere sottovalutata, perché ha un
potere enorme.
Questa è la sede ideale per colmare il divario con il tifoso. Un divario che è anche comunicativo e
che le società hanno il dovere di eliminare in quanto ostacolo al rapporto con il loro pubblico di
riferimento. Un mezzo come “Twitter” ad esempio, è contraddistinto dall'assenza di filtro. Un
sistema immediato, diretto e dinamico, senza sovraccarichi, dove ogni messaggio ha una lunghezza
massima di centoquaranta caratteri. E' qui che i calciatori vengono seguiti dagli appassionati, che
possono rispondere ai loro messaggi e condividerne contenuti. E' in questo luogo virtuale che si
realizza quel concetto di prossimità al quale le strategie di marketing del sistema calcistico devono
obbedire senza riserva. Il social network permette infatti un cambiamento basato sull'interazione, il
contatto diretto con i fan che è alla base dell'approccio relazionale. Le società di calcio hanno
l'occasione di entrare in relazione con i tifosi sfruttando una piattaforma privilegiata per la
ricostruzione di un rapporto compromesso sotto diversi aspetti. Il fenomeno “Facebook” come
52
quello “Twitter” ha un peso non irrilevante, ma nemmeno proficuo se le strategie dei club saranno
orientate esclusivamente ad una comunicazione chiusa e fine a se stessa. Qui sta il loro immenso
valore inespresso, non limitabile a mera riproduzione delle notizie, ma da estendere doverosamente
alla possibilità di coinvolgimento del fruitore appassionato. Questi strumenti rivestirebbero così un
ruolo decisivo per conciliare due parti troppo distanti l'una dall'altra, favorendo quel dialogo diretto
di cui tutto il sistema necessita. In particolare, la bidirezionalità comunicativa migliorerebbe il
processo di identificazione tra tifoso e società, orientata a giocare su alcuni aspetti cruciali. Ad
esempio:
• il club potrebbe inaugurare un rapporto di informazione trasparente del tifoso, cercando di
esplicitare con maggiore chiarezza obiettivi e scelte strategiche adottate, dando poi anche la
possibilità di discuterne. Questo passaggio è fondamentale. Moltissimi tifosi lamentano
l'atavica tendenza delle società calcistiche a nascondersi dietro le proprie barriere nel
momento in cui viene assunta una decisione difficile da accettare per la piazza. Motivare le
proprie preferenze e dare modo al primo vero interlocutore di comprenderne le cause rientra
nei doveri della moderna società “supporter oriented”. Un dovere etico e comunicativo, una
svolta che godrebbe certamente del loro unanime favore.
• Discutere le proprie sacre decisioni con il tifoso-consumatore rappresenterebbe un enorme
balzo in avanti per le società di calcio. Ma una strategia comunicativa più complessa
potrebbe portare il club ad investire di responsabilità piena i propri supporters su questioni
di minor rilievo: la scelta di un inno ufficiale o di un logo, quella del modello o magari del
colore di una divisa da gioco, per citare alcune possibilità.
• La promozione di iniziative da parte del club sarebbe facilmente assecondata con il bando di
concorsi periodici tra i tifosi disposti a condividere contenuti di ogni tipo per vincere premi
offerti dalla società, come un biglietto allo stadio o un invito agli allenamenti della squadra.
Simili strategie favorirebbero l'immagine del “team brand” e allo stesso tempo
accentuerebbero il carattere “familiare” del rapporto tra club e sostenitore.
• Anche gli sponsor ufficiali della società potrebbero trarvi vantaggi più netti, attraverso la
promozione di campagne congiunte che coinvolgano attivamente i propri consumatori.
53
• Prevedere l'interazione tra le parti permette di sondare la posizione assunta dal tifoso in un
dato momento della stagione, di fronte ad una specifica decisione della società o in seguito
all'acquisto di un calciatore: cioè valutarne lo stato emotivo. In quest'ottica il social network
diventerebbe un reale indicatore d'umore, un “termometro” capace di fornire utili
informazioni sulla condizione attuale della piazza e favorire un rapporto di empatia.
La partecipazione del tifoso sarebbe incentivata secondo differenti modalità. La società potrebbe
infatti offrire più opzioni di coinvolgimento: lasciare una scelta tra diverse alternative e valutare
quella decretata dalla maggioranza delle opinioni; proporre un'idea libera, come nel caso di un
concorso.
Nel processo di immedesimazione tra tifoso e società, dunque, il ruolo dei social network è
indiscutibile perché capace di garantire quella prossimità che tanto manca al mondo
autoreferenziale del calcio. Lo sfruttamento di questa tecnologia è obbligatorio per avvicinarsi con
efficacia ad un target sempre più attento alle novità della rete a al connubio tra sport ed
entertainment. Il segreto risiede nella corretta gestione di questi strumenti, dal momento che, come
appena descritto, le potenzialità esistono.
54
I numeri che illustrano la situazione italiana29 mostrano una crescita graduale, molto lenta, se si
eccettua la realtà del Milan, se confrontata ad altri importanti campionati europei. Si pensi che la
leadership è saldamente nelle mani del Barcellona (55.992.476 utenti), seguito dal Real Madrid
(43,6 milioni di utenti) e dal Manchester United, sul gradino più basso del podio (32,2 milioni)30.
Queste cifre spiegano un divario evidente che i nostri club devono colmare immediatamente, perché
il patrimonio offerto dal mondo social è inestimabile: esso integra e per certi aspetti sostituisce il
contributo eterogeneo derivante dalle community di tifosi, le cui istanze possono essere invece
intercettate con una strategia comunicativa adeguatamente calibrata.
29 Fonte: “www.sporteconomy.it”
30 Fonte: “www.sporteconomy.it”
55
3.4.1 Il knowledge management nel calcio.
Il nostro percorso ha finora sostenuto l'assoluta importanza di una modifica strutturale dei modelli
di gestione calcistici italiani verso la valorizzazione del ruolo del tifoso. Nell'ambito di questo
processo è stata evidenziata la funzione che le moderne tecnologie “social” avrebbero nel favorire la
riduzione delle distanze tra i club ed i suoi appassionati, attraverso un loro più deciso
coinvolgimento ai processi decisionali dei primi.
Una simile rivoluzione invoca il contributo del “knowledge management”, un approccio sorto più di
venti anni fa e finalizzato alla creazione, alla gestione ed all'efficace utilizzo della conoscenza per
ottenere “benefici a lungo termine per l'intera organizzazione”31. L'intero sistema di gestione ha
senso qui esclusivamente attraverso la condivisione delle informazioni, che favorisce dunque un
coinvolgimento globale degli agenti. La conoscenza è un vero e proprio asset aziendale: un sistema
strutturato di gestione di quest'ultima permette di migliorare la capacità e la rapidità
dell'organizzazione di gestire informazioni e generare così prodotti o servizi a beneficio del
consumatore, in maniera efficace ed efficiente.
Il tifoso, lo abbiamo visto, è soprattutto “prosumer”: egli incide cioè come in nessun altro settore sul
prodotto di cui sarà diretto fruitore, lo spettacolo sportivo. Un modello che centralizza il ruolo della
conoscenza non può prescindere da questa figura e dalle sue immense responsabilità nel processo di
produzione del valore. La condivisione delle conoscenze allora diventa strumento che permette di
avvicinare la società al suo primo interlocutore; allo stesso tempo rappresenta la precondizione
necessaria alla soddisfazione del consumatore finale. Il knowledge management inoltre fa leva sullo
sfruttamento delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, proprio come deve avvenire
nel calcio, che ha bisogno di implementare le strategie di identificazione con il suo pubblico grazie
alle potenzialità offerte dai social network. Una gestione lungimirante sarà quella in grado di
valutare e apprezzare idee, contenuti, proposte e consigli degli utenti che vadano poi ad integrare il
circuito virtuoso della conoscenza.
31 Darroch J., McNaughton R., “Developing a measure of knowledge management”, Buterworth-Heinemann, 2002.
56
4.1 La gestione tecnico-finanziaria. Fair play, salary cap e vivaio
Realizzare le aspettative del tifoso consumatore è il compito principale cui il sistema italiano deve
obbedire per risollevare le sue sorti. La società calcistica ha la necessità di seguire un approccio
manageriale per valorizzare il suo interlocutore diretto e quindi il processo di crescita del proprio
brand. Esistono però anche dei fattori indiretti di soddisfazione: essi rappresentano dei parametri da
rispettare in una gestione del club che si voglia considerare davvero virtuosa. Non sono connessi al
beneficio immediato del tifoso, ma allo stesso tempo contribuiscono a generare un circuito di effetti
favorevoli a tutti gli stakeholders, migliorando nettamente le prestazioni del marchio di squadra.
Questo discorso può essere condotto ad un livello tecnico e ad un livello finanziario.
Per quanto riguarda l'aspetto economico della gestione di un club, è sufficiente considerare i dati già
elencati sulle gravi perdite del sistema nazionale. La fonte di maggiore preoccupazione è senza
dubbio quella relativa al costo del lavoro, il cui peso schiaccia subito le società che non riescono a
mantenersi a grandi livelli. Le grandi speculazioni realizzate negli anni novanta nel campionato
italiano, sfociate in diversi casi nel fallimento dei club, unitamente alla crisi strutturale di un
57
modello che mira ora alla riconversione totale, hanno reso indispensabile l'assunzione di alcune
regole di contenimento, come il salary cap ed il fair play finanziario.
Il salary cup risulta essere un sistema di limitazione delle spese destinate alle retribuzioni degli
sportivi da parte delle società. Il meccanismo che si pone alla base di questo vincolo consiste nella
fissazione di un tetto limite oltre il quale i compensi dei tesserati non possono andare. Questa
strategia ha origine dal modello americano, fondato sulla spettacolarizzazione dell'evento sportivo,
dunque sulla sua profittabilità e di conseguenza su un elevato grado di efficienza interna.
Addirittura, i campionati professionistici statunitensi distinguevano un “soft” ed un “hard”32 salary
cap. Nel primo caso, la squadra che infrange il vincolo è costretta al pagamento di una penale; nel
secondo invece, esiste una imposizione tassativa che provoca una eventuale squalifica dalla
competizione. Il modello americano, che prevede delle leghe “chiuse”, utilizza questo meccanismo
per aumentare l'equilibrio competitivo. Ma la sua graduale adozione in Europa è legata soprattutto
alla possibilità di operare uno stringente controllo sugli ingaggi.
Nel nostro paese il salary cap rappresenta una novità. Verrà adottato per la stagione 2013/2014 in
serie b. La seconda serie professionistica non a caso, raccoglie al suo interno le criticità dei club
retrocessi e di altre realtà precarie, che pesano in modo cruciale sul patrimonio globale della
categoria. Nella fattispecie la Lega ha deciso di fissare un tetto individuale di 150.000 euro, con la
possibilità di sforare questa regola purché il totale degli ingaggi di tutto lo staff non superi il 60%
del fatturato, senza le plusvalenze ed i prestiti onerosi33.
Alla luce di un indebitamento totale medio pari ai 20,2 milioni ed a costi del personale tesserato pari
al 70% della produzione34, la scelta di intraprendere la direzione del “salary cup” risulta finalizzata
allo scopo principale della riduzione delle perdite. Piuttosto che disincentivare gli investimenti la
strategia è quella di un risanamento mirato che riduca il divario con la massima serie. Controllare il
valore del costo del lavoro permette di ottenere risultati positivi di varia natura:
• miglioramento medio della situazione patrimoniale delle singole società
• possibilità di destinare nuove risorse all'investimento strategico
• risanamento globale del campionato, con un conseguente, facilitato ammortizzamento delle
perdite derivanti dalle squadre retrocesse
• Evidente crescita in termini di “team brand equity” e quindi dell'intero campionato.
32 Rosner S., Shropshire L., “The business of sports”, Jones e Bartlett, 2004.
33 Fonte: “www.Legaserieb.it”
34 Fonte : “Report calcio 2013”, in collaborazione con “Arel” e “Pwc”.
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Un'altra misura di natura economica da prendere in considerazione è quella del “Fair play
finanziario”. Questa soluzione mira alla realizzazione di obiettivi strategici fondamentali che
rispondano all'esigenza di equilibrio gestionale delle società di calcio. Il benessere del sistema
infatti dipende dalla volontà di:
• introdurre più disciplina e razionalità nelle finanze dei club calcistici
• ridurre la pressione su salari e trasferimenti e limitare gli effetti dell'inflazione
• incoraggiare i club a contare solo sui propri profitti
• incoraggiare investimenti a lungo termine sul settore giovanile e sulle infrastrutture
• tutelare la sostenibilità a lungo termine nel calcio europeo
• assicurare il tempestivo pagamento dei debiti da parte dei club35
L'attuale scenario, che non risparmia nemmeno le associazioni sportive di massimo livello, delinea
una situazione di crisi diffusa dovuta alla cattiva gestione finanziaria che ha corroso i patrimoni,
portando molte di esse a dichiarare debiti ripetuti, cali di liquidità, con ritardi nel pagamento ai
propri tesserati, alle altre società e alle autorità fiscali. Per questo motivo la Uefa ha stabilito dal
2009 misure adeguate che regolassero il settore della spesa nel mondo del calcio europeo, come
l'obbligo di chiudere i bilanci in parità o in attivo per un determinato periodo. In base a ciò i club
hanno l'obbligo di pagare tempestivamente e non ripetutamente in misura superiore a quanto
guadagnino. La valutazione del loro operato agisce su un periodo di tempo pluriennale, ed è affidata
all' “Organo di controllo finanziario dei club”, che dal 2012 può anche arrivare ad infliggere misure
disciplinari nel caso non vengano rispettati i requisiti elencati. Tra queste possibilità, l'esclusione
dalle coppe europee, come successo alla squadra turca del Besiktas.
Nonostante siano ancora molte le società indebitate o comunque fuori dai parametri previsti da
questa regola, il concetto di partenza del “Fair play finanziario” si fonda sulla convinzione che
solamente una riduzione dei costi potrà eliminare debiti e perdite, favorendo l'azione diffusa di
investitori e sponsor in un calcio sano e sostenibile. Il segreto risiede in una sua applicazione
trasversale.
Accanto alle misure tipicamente economiche è necessario considerare l'importanza strategica di
quelle tecniche, che ad esse sono inestricabilmente collegate.
Un club che decida di stabilire una linea di gestione sana come quella dettata dalle misure appena
35 Fonte: “www.Uefa.com”
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elencate non può prescindere ad esempio dalla valorizzazione del proprio settore giovanile, che
rappresenta una risorsa dalle potenzialità straordinarie. Il nostro paese sta cercando con fatica di
adeguarsi ai livelli delle potenze europee che nei loro campionati investono con coraggio sulla linea
verde. La crisi economica ha favorito l'avvio di un lento processo di conversione verso
l'abbassamento dell'età media delle squadre, anche nei club di punta. Ma è ancora troppo poco,
perché il sistema necessita di una massiccia manovra di investimenti sui singoli settori giovanili, in
grado di garantire effetti benefici:
• contenimento dei costi (un atleta del vivaio costa di meno in termini di stipendio)
• miglioramento delle prestazioni dei singoli giovani calciatori, quindi crescita del loro valore
• possibilità di realizzare notevoli plusvalenze dalla eventuale cessione
• possibilità di costruire un'identità di squadra attorno ad un gruppo di talenti cresciuti insieme
• crescita del movimento calcistico nazionale di riferimento, in termini tecnici e di immagine
L'investimento sul settore giovanile permette un risanamento economico della società, più attenta a
contenere le spese di ingaggio e di cartellino di costosi calciatori stranieri. Spesso queste scelte sono
dovute anche ad un blocco culturale: capita che ai talenti nostrani si preferisca la suggestione
esotica, destinata in non pochi casi a deludere. La ricerca sfrenata del risultato immediato inoltre
continua a limitare le prospettive di evoluzione strategica del professionismo italiano, che manca di
coraggio nell'affidare responsabilità ai giovani.
I benefici di una solida iniziativa di sostegno al proprio vivaio sono trasversali. Ci sono club di
medio livello che riescono a mantenersi ai vertici del calcio grazie all'allevamento dei talenti che
poi vengono venduti alle piazze più importanti, garantendo preziose plusvalenze; ci sono però realtà
internazionali, come Barcellona e Bayern Monaco, che riescono ad imporsi in Europa grazie ad una
rosa composta da tantissimi atleti provenienti dalla propria accademia calcistica.
Il settore giovanile rappresenta una risorsa cui guardare con attenzione, perché nel suo sviluppo
risiede la possibilità di una evoluzione tecnica ed allo stesso tempo economica delle società. Queste,
investendo sui talenti di casa, dimostreranno di voler guardare al futuro, assumendo quella giusta
prospettiva che il calcio italiano ha troppo a lungo accantonato.
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Capitolo 4
Segnali di svolta: il Sorrento Calcio
4.1 Tentativi di conversione all'azienda calcio
Il percorso sinora tracciato ha evidenziato le gravi lacune di un sistema calcistico italiano, ancora
poco imprenditoriale, refrattario ai veri cambiamenti strutturali ed ancorato a pochi, limitati punti di
riferimento. In una seconda fase sono state descritte invece le caratteristiche principali dell'impresa
“supporter oriented”, indicata quale antidoto perfetto alla precarietà del nostro modello. Realizzare
una politica gestionale completamente tarata sulle esigenze del tifoso, figura emarginata, alla quale
è necessario restituire la dignità, permetterebbe di colmare il gap con gli altri paesi europei,
lavorando nel contempo sui punti di debolezza che minacciano il calcio italiano, a tutti i livelli.
Sono stati fatti anche alcuni esempi internazionali di società che hanno trasformato la propria
squadra in un brand rinomato, in grado di esportare con successo, nel mondo, i valori di
responsabilità sociale e di condivisione, come ha fatto il Barcellona Fc. Un club incarna le passioni
di una tifoseria intera. Dunque, il suo obiettivo mira a costruire una forte identità attorno alla quale
convogliare queste passioni, comunicando i principi che possano riconciliare il pubblico allo
spettacolo sportivo, e farlo sentire parte integrante di un progetto sportivo.
La situazione italiana è chiara. La decadenza del settore professionistico risiede nella sua incapacità
di aggiornarsi. E' certamente strutturale, ed economica: stadi obsoleti e politiche poco accorte nella
gestione dei conti hanno minato la sopravvivenza di un sistema che si alimenta con poche risorse.
Ma è soprattutto manageriale. Le società devono assumere un approccio volto alla valorizzazione
del tifoso e delle sue esigenze perché esso si traduce automaticamente in una sana politica di
governance. Rispettare la sua figura significa prima di ogni cosa rispettare i parametri di una
corretta imprenditorialità. Questo aspetto non è stato ancora assimilato dalle società di calcio
professionistico, che quasi galleggiano sulle criticità di un sistema inerte.
Bisogna convertirsi. La necessità risiede nel passaggio alla concezione del calcio come impresa, in
quanto tale rivolta ad un consumatore di riferimento, che non può essere emarginato come sta
avvenendo adesso. In attesa delle rivoluzioni più vistose, i club possono cominciare a mutare la
prospettiva strategica riconquistando quella relazione che è alla base della loro identità, e finalmente
proporsi come “brand” affermati.
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La caratterizzazione dello scenario attuale è tale da semplificare la ricerca di quelle realtà impegnate
a distinguervisi. Esse rappresentano il tentativo del calcio italiano di recuperare la capacità attrattiva
di un tempo, realizzando una preziosa identificazione con il proprio target di appassionati in nome
di “brand values” condivisi. Oggetto concreto di analisi di questo percorso è il “Sorrento Calcio”,
società che ha disputato l'ultimo campionato di Lega Pro in prima divisione. Attraverso uno studio
diretto del caso è stato possibile testimoniare da vicino l'inedita evoluzione di un modello di
pianificazione strategica “supporter oriented”. Se è vero che il club in esame ha riproposto in
piccolo le macro-criticità sistemiche (dallo stadio alla difficile gestione delle entrate, fino al peso
del risultato sportivo), è risultato altrettanto evidente un impegno ad avviare lente, graduali ma
concrete iniziative di valorizzazione del “team brand”. Gli elementi funzionali ad una simile
trasformazione ci sono tutti: dalla fidelizzazione del tifoso-consumatore, alla codificazione dei
valori condivisi come l'appartenenza territoriale e la responsabilità sociale, fino ai possibili sviluppi
legati alla vendita di un marchio che ha in dote un notevole potenziale “glocal”.
I successivi paragrafi saranno utili a descrivere con maggiore precisione il proficuo esame di una
società che mostra a tutti gli effetti l'intenzione di infrangere il carattere autoreferenziale del nostro
calcio, pur non trovandosi ai massimi livelli del professionismo. E forse questo non è un caso, visto
che in Lega Pro le risorse economiche non permettono più di adagiarsi su un sistema chiuso ai suoi
interlocutori, e anzi la loro penuria invita ad attivarsi in tal senso.
4.2 Un progetto di marketing
Il profilo economico della Lega Pro risulta fortemente influenzato dalla frequenza di bilanci in rosso
che costringono ogni anno molte società al limite del fallimento. Il tasso di crescita delle due
categorie che vi sono comprese nel quinquennio 2007-2012 è pari allo 0,7%, mentre l'incidenza del
costo del lavoro medio sul valore della produzione nella stagione 2012 è pari all'83% nella prima
divisione, al 63% nella seconda36.
I dati parlano di un mercato asfittico, contraddistinto dalla presenza di molte realtà in declino che
senza il sostegno del risultato sportivo trovano enormi difficoltà a sopravvivere nel calcio
professionistico. E' in questo contesto che milita la società analizzata nel percorso, il “Sorrento
Calcio”.
Il Sorrento, come detto, raccoglie nella sua situazione le stesse criticità che sono state riscontrate in
precedenza, valide per le squadre più importanti del nostro paese, a cominciare da uno stadio antico
36
63
e obsoleto, che, come in altre piazze, rappresenta tuttora una questione senza prospettive di svolta.
Anche i risultati sportivi hanno una loro cruciale importanza. La squadra, che solo due stagioni fa
aveva sfiorato una storica seconda promozione in serie b, è da poco retrocessa nella seconda
divisione, e come altre società dovrà saper gestire i rischi derivanti dall'insuccesso sportivo, i cui
effetti purtroppo non sono ancora “sostenibili”.
Nonostante questo, però, uno studio approfondito delle scelte di gestione adottate negli ultimi tempi
dal club permette di comprenderne l'assoluta diversità di approccio rispetto ai competitors “diretti”
ma anche rispetto a molti esempi più alti di professionismo. Pur con tutti gli ostacoli del caso, la
società ha impostato un lento ma concreto processo di pianificazione strategica fondato sulla
valorizzazione del tifoso, in linea con i principi del “customer relationship management”.
Per una società di calcio di Lega Pro la mission di riferimento deve essere quella di potenziare e
consolidare il valore della propria immagine (brand image), sganciandola entro i limiti possibili dal
risultato sportivo. Realizzare questo obiettivo però implica che al servizio principale fornito
(allestimento di una squadra, prestazione agonistica) ne siano affiancati altri “sussidiari” in grado di
soddisfare il proprio pubblico, ed accrescerne così il tasso di fedeltà, e allo stesso tempo di portare
del valore aggiunto per mezzo degli introiti pubblicitari. Ecco perché è obbligatorio assumere la
prospettiva dell'impresa sportiva: le società vanno gestite con criteri manageriali proprio dove c'è
molta concorrenza e poca liquidità. Comunicazione e marketing giocano un ruolo fondamentale.
Sono strettamente correlati sia per entrare nel segmento diretto alle aziende (business marketing) sia
per quello rivolto al pubblico di massa (mass marketing). Non sono dei semplici costi, sono risorse
da utilizzare per ottenere dei benefici reali. Il Sorrento Calcio si è imposto il fine di ottenere così
una maggiore visibilità ed esposizione mediatica, elevare il suo appeal e quindi il valore del suo
brand. In questo modo sarà poi capace di funzionare da mezzo di comunicazione prediletto per le
aziende che vorranno legare al club la propria immagine.
Il segreto è racchiuso in una sana visione strategica che pare quasi risentire dell'influsso dei modelli
internazionali descritti in precedenza. Anche qui esistono dei “brand values” che ne ispirano le
scelte:
• Il territorio: l'importanza del nome di Sorrento come città
• Promozione dei principi sociali, etici e di rispetto ambientale
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Conclusioni: la sfida più importante.
La nostra analisi ha avuto essenzialmente il carattere di una vera e propria sfida.
Il calcio è senza ombra di dubbio un fenomeno sociale che va al di là della mera forma di
distrazione settimanale. E questo è evidente ancora di più nel nostro paese. Tuttavia, nonostante la
sua pervasività e la sua innata capacità di riunire folle oceaniche di appassionati, risulta essere un
settore decadente, che negli ultimi anni addirittura perde di appeal. Come spesso succede in Italia,
anche questa realtà non è capace di aggiornarsi e stare al passo con i campionati europei di livello.
Le criticità descritte in questa sede hanno evidenziato la difficoltà del nostro sistema ad assimilare il
passaggio all'approccio imprenditoriale: carenza strutturale nella gestione degli impianti, mancata
costruzione di una seria “brand identity” , distanza totale dal pubblico di riferimento. Questi
concetti possono essere tranquillamente compresi nell'incapacità di relazionarsi al tifoso,
consumatore primo del prodotto sportivo, dalla cui soddisfazione deriva l'evoluzione di un intero
sistema di gestione. Se è vero che il calcio è impresa, bisogna realizzare le migliori condizioni
affinché garantisca un ritorno sugli investimenti. Questo è praticabile solamente se ognuna di tali
imprese valuterà seriamente l'ipotesi di accrescere la propria “brand equity” attirando nuovi mercati
e dunque nuova ricchezza. La prospettiva di proseguire sulla scia attuale è impraticabile, perché
l'impero dei diritti televisivi concede risorse diseguali alle società, sulla logica dei bacini d'utenza, e
non certo a tutte i club professionistici. Tuttavia, si intravedono alcuni segnali di una lenta svolta.
L'osservazione diretta operata nell'ambito di questo studio ha permesso di comprendere che nel
nostro paese anche le associazioni sportive di minore forza economica stanno cominciando a
comprendere i benefici di una svolta in senso manageriale e più specificamente verso una visione
orientata ai bisogni del tifoso. Il Sorrento Calcio, il caso assunto come oggetto dell'analisi, è da
poco retrocesso nella seconda divisione della Lega Pro. L'impegno ad allestire un brand di valore
però rimane concreto, lo abbiamo visto, attraverso una strategia fondata sui principi comuni da
condividere con i tifosi della squadra. In attesa di colmare le lacune più ampie questa appare l'unica
strada da intraprendere per ridare dignità al tifoso, a tutti gli altri interlocutori del club e quindi
all'intero movimento. C'è un patrimonio immenso di cui è necessario riappropriarsi, fatto di rara
tradizione e passione, risorse che rischiano di essere fatalmente compromesse. E' qui che sta il
passaggio cruciale. Il nostro calcio deve semplicemente convincersi di avere in dote una forte
identità: un potenziale inespresso che ne determini la rinascita in nome del suo primo fruitore,
l'indiscusso protagonista di uno splendido, unico, coinvolgente, affascinante spettacolo globale.
65
“La partita di calcio è quasi sempre un dramma completo. Come qualsiasi forma di teatro, può essere colta ed
interpretata attraverso le battute più sottili, o semplicemente con il risolversi di una scena particolarmente efficace,
fors'anche elementare. Sia chi gioca, sia chi assiste non può non rendersi conto di come veramente si attui il gesto
atletico, quali risultati consegua, a quali altri tenda: ciononostante la partecipazione agonistica e sentimentale è
sempre così intensa da non lasciar dubbi sull'attrazione propria del gioco”37.
37 Brera G., a cura di Raffaeli M., “Il più bel gioco del mondo”, Rizzoli, 2007.
66
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www.twitter.com
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