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Introduzione
Questo lavoro descrive un fenomeno che sembra racchiudere, a parere di chi
scrive, l’insieme degli aspetti propri del corso di studi da me frequentato: quello
delle “scienze politiche”. Queste ultime sono caratterizzate proprio
dall’interdisciplinarità, fondamentale per capire fenomeni così ampi e così
complessi, come quelli riguardanti lo studio dei fenomeni politici.
Il tema che sarà trattato è quello riguardante la corruzione diffusa che
investe parte delle istituzioni alla base degli ordinamenti di tutto il mondo e, in
particolare, quella che si determina nei legami, sempre più stretti e sempre più in
vista, fra le istituzioni politiche e quelle economiche.
In questo periodo la questione è oggeto di grande attenzione, soprattutto in
seguito alla recente crisi finanziaria e, poi economica, scoppiata dopo il fallimento
della banca Lehman Brothers.
Negli USA il termine per sintetizzare questo fenomeno di corruzione diffusafra le varie sfere di potere è Crony Capitalism.
Il Crony Capitalism è il termine usato per definire e criticare il mercato dei
capitali emerso nella Russia di Eltsin dopo le privatizzazioni, dove intrecci tra
manager e politica, incertezza delle regole, assenza di trasparenza e di tutela per
azionisti e creditori hanno generato oligarchie e enormi arricchimenti, a scapito
dello sviluppo e del mercato. Da allora il termine è stato usato per tutti i casi
perversi di intrecci tra politica, banche e imprese1
. Nel primo capitolo verrà dapprima fornita una traduzione del termine,
provando anche a definirlo meglio, in ragione del fatto che da poco in letteratura ci
si è occupati con precisione di questo tema. Il fenomeno verrà analizzato inoltre
selezionando nello specifico i soggetti che prendono parte a questi “circoli” di
corruzione che molto spesso vengono descritti come piaghe della società.
Nel secondo capitolo verrà messa in evidenza un’analisi economica del
1 D. Siniscalco (17/01/2006), La Stampa, p. 1.
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fenomeno e verranno forniti alcuni dati sulla corruzione. Questa analisi mostrerà
come ormai, anche l’economia, si sia avvicinata alla ricerca di una spiegazione e di
possibili soluzioni al problema della corruzione. In particolare verrà analizzato il
lavoro di Gary Becker e la sua analisi dei comportamenti criminali e delle possibili
scelte che lo Stato, nella condizione di repressore, potrebbe eventualmente adottare
per contrastare tale fenomeno.
Nel terzo capitolo verranno invece esposti due casi di Crony Capitalism, più
specificatamente, quello negli USA di Enron, e quello in Italia di Parmalat, due
autentici modelli di corruzione/compenetrazione fra sfere politiche e sfere
economiche. Verranno inoltre messe in rilievo le responsabilità e le differenze dei
soggetti istituzionali implicati nelle due vicende.
Nel quarto capitolo verrà applicato il modello esposto da Gary Becker ai due
casi analizzati in precedenza, cercando di sottolineare le possibili soluzioni ma,
soprattutto, descrivendo come, a nove anni da tali scandali, i governi dei due paesi
in causa, si siano adeguati affinchè non vi sia un reiterarsi di tali, spiacevoli,
situazioni.
Nell’ultima parte infine verranno esposte delle riflessioni conclusive.
Capitolo 1.
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Il Crony Capitalism: definizione e descrizione dei soggetti
partecipanti al fenomeno.
1. Cos’è il Crony Capitalism?
Il Crony Capitalism è l’espressione con accezione negativa che descrive
un’economia capitalistica in cui il successo negli affari dipende da stretti rapporti
tra ufficiali di governo e uomini d’affari. Può manifestarsi nel favoritismo della
distribuzione dei permessi legali, delle concessioni di governo, delle riduzioni delle
imposte speciali, ecc.
Nonostante che in Italia si parli poco nello specifico di tale fenomeno,
questa espressione è stata tradotta con il termine “capitalismo degli amici” o
“capitalismo basato sulle amicizie strumentali”2. Una traduzione più appropriata
potrebbe essere “capitalismo cronico”, in modo tale da porre l’accento sulle forme,
“perverse”, che il capitalismo può raggiungere nelle società, inducendo, sia i
proprietari di grosse imprese, sia uomini di governo, a cercare di aumentare il
proprio patrimonio creando situazioni illecite che, alla lunga finiscono per
provocare, come minor male, fallimenti di grosse imprese, ma molto spesso, anche
crolli finanziari a discapito di tanti piccoli risparmiatori.
Nella maggior parte dei casi di frodi finanziarie che si sono susseguiti nel
corso degli ultimi anni, le classi dirigenti hanno fatto in modo, forse implicitamente,
di creare, alle suddette, un volto “poco sporco”, facendole apparire come atti illeciti
non gravissimi, o consentendo ai malfattori di ritornare alla guida di altre importanti
imprese o istituti di credito3. Questo forse perché, molto spesso, gli ideatori di
2 P. Ginsborg (2006) p. 40.3 In puglia, ad esempio, Vincenzo De Bustis ha diretto per anni la Banca del Salento(poi ribattezzata Banca 121). Tra il 1999 e il 2000 raccoglie quasi 3miliardi di eurovendendo i prodotti “ My Way” e “ For You”. Risultato: 90mila risparmiatori si
ritrovano in mano dei contratti dai quali è impossibile recedere senza rimettercitutto il capitale. Per questo, nel dicembre 2006, De Bustis verrà condannato a
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queste colossali truffe si trovano a ricoprire alte cariche aziendali o politiche,
quindi, posizioni sociali di rilievo, che difficilmente si possono accostare,
nell’immaginario collettivo, alla figura del delinquente.
Tante volte abbiamo assistito in Italia, nel cprso della Prima e della
“Seconda” Repubblica, al libero dispiegarsi di queste situazioni. Ad esempio uno
dei partiti italiani più rappresentativi dell’epoca contemporanea, che affondava le
sue radici addirittura a prima della creazione dell’attuale sistema partitico (il Partito
Socialista), ha pagato a caro prezzo il comportamento illecito degli allora leader ,
con la quasi totale perdita di consenso nei confronti degli italiani.
É il caso di “Mani Pulite”, la sconcertante inchiesta giudiziaria che ha
portato alla scoperta di un imponente sistema, in cui senatori e deputati ricevevano
bustarelle da speculatori in cambio dell’affidamento di redditizi appalti.
O ancora: il caso Parmalat, che ha coinvolto la famiglia Tanzi, le scalate
Unipol e BNL, o ancora, il caso americano della Enron. Si potrebbe citare molti
altri esempi, ma si finirebbe in un’analisi vuota che non coglie la portata profonda
di queste vicende.
Nei successivi paragrafi verranno analizzati i siggetti che prendono parte in
questi “circoli della corruzione”, in modo tale da comprendere la realtà economica esociale del fenomeno trattato e di creare una base concettuale per l’analisi del
modello “Beckeriano” sull’economia criminale.
2. I partiti politici: dalla società ai gruppi di potere.
Come detto nel paragrafo precedente, inizierò ad analizzare la situazione dei
Teramo con decreto penale del gup Giovanno Cirillo a sei mesi per truffacontrattuale (poi convertiti in pena pecuniaria). La Consob gli infliggerà unasanzione di 144mila euro. Una sanzione rimasta solo sulla carta, a causa di unaclamorosa svista del Ministero del Tesoro, che attende più di novanta giorni previstitra la proposta della Consob e l’irrogazione del provvedimento. Inoltre De Bustis,nel 2003, in pieno scandalo finanziario per “ My Way” e “ For You”, lascia laMontepaschi di Siena, che aveva inglobato la Banca 121 e della quale era direttore
generale, e viene nominato numero uno di Deutsche Bank in Italia. G. Barbacetto,P. Gomez, M. Travaglio (2007) pp. 221-222.
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soggeti che prendono parte alla corruzione, cominciando, per l’appunto, con i partiti
politici.
Comunemente, i partiti politici sono considerati come espressione delle
preferenze e della volontà delle classi sociali nelle moderne democrazie.
Ma cos’è una democrazia? Essa è stata più volte teorizzata, ma certamente è
difficile accostare il suo aspetto reale a quello puramente teorico.
In teoria essa viene descritta facendo riferimento a otto punti:
1. libertà di costruire organizzazioni e di aderirvi;
2. libertà di espressione;
3. diritto al voto;
4. eleggibilità alle cariche pubbliche;
5. diritto dei capi politici di competere per il consenso;
6. fonti alternative di informazione;
7. elezioni libere e corrette;
8. istituzioni che rendano il governo dipendente dal voto e dalle altre
forme di preferenza politica4.
Se ci soffermiamo anche solo su alcuni punti, notiamo che alcuni di
essi non sono rispettati a pieno nei paesi considerati democratici. Perciò
viene spontaneo chiedersi “La democrazia è qualcosa di reale o ideale?”. O
ancora “è un’utopia?”. A queste domande “esistenziali” ha dato una risposta
Robert A. Dahl, professore emerito di Scienze Politiche presso l’università
di Yale, che ci propone un modello “depotenziato”, ma incredibilmente
reale, di regime democratico, ovvero la Poliarchia.Come osserva Dahl “la Poliarchia è un regime relativamente (ma
incompletamente) democratizzato”5.
Questa al contrario “dell’utopica” democrazia, ci permette di
comprendere in maniera empirica tutte le complessità sociali che avvengono
nei regimi democratici. Come sostiene Angelo Scivoletto (nell’introduzione
del libro del professor Dahl, tradotto in italiano) “la visione dello Stato
4
Robert A. Dahl [1986] (1973) p. 29.5 Ibidem p. 32.
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come organizzazione di gruppi e non di individui si va affermando anche in
società politiche diverse da quella nord americana. Nelle democrazie
europee, in particolare, alla rousseauiana “volontà generale” si va
sostituendo una visione che assimila sempre più “il bene comune” al
compromesso tra i leader dei vari gruppi politici e sociali, portatori di valori
e interessi presenti in quelle complesse organizzazioni che sono le società
industriali e post-industriali”6.
Secondo Charles E. Lindblom “il nucleo centrale della poliarchia è
costituito da un nuovo, specifico modello di comportamento richiesto da un
particolare e complesso insieme di norme autoritarie. (…) Sono le norme
che limitano la lotta per l’autorità, specificando un processo ordinato e
pacifico particolare che sostituisce il conflitto armato, la minaccia della
forza e altre rozze contese (…) l’aurotità massima viene nominata in
risposta di un’indicazione regolare dei desideri dei cittadini – vale a dire
attraverso le elezioni – (…) non c’è da sorprendersi se gli uomini che creano
le poliarchie preserveranno anche i sistemi di mercato (…), gli uomini non
ricercano altro che la libertà di impegnarsi nel commercio; quindi la libertà
di spostarsi, di tenere i propri beni e guadagni, di essere al sicuro daestorsioni arbitrarie”7.
In sostanza la poliarchia riflette la peculiarità delle contemporanee
democrazie occidentali, ovvero, quella di avere un sistema partitico
profondamente influenzato dai poteri economici, in particolare, dalle grosse
imprese e dal mondo della finanza.
Ciò potrebbe derivare dal passaggio storico-politico, che si è avuto
con la progressiva scomparsa dei partiti di massa (in cui la società civileconcorreva nel finanziamento e nell’appoggio delle idee di partito),
all’emersione di nuovi partiti che, per continuare a sopravvivere, in
mancanza del suddetto appoggio, hanno bisogno di trovare nuovi
finanziatori.
Giulio Sapelli, in un suo libro, spiega che “Lindblom, ci fa notare nel
suo famoso libro, Politics and Markets, le contraddizioni che il rapporto tra
6
Ibidem p. 10.7 Charles E. Lindblom (1977) pp. 143-144-174.
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politica e mercato porta con sé allorchè lo si intenda come un rapporto di
potere e tra poteri”. “Il centro di queste contraddizioni risiede nel ruolo
svolto dall’impresa”. “Infatti in qualsiasi sistema poliarchico una vasta area
di decisioni è affidata agli imprenditori, piccoli o grandi che siano, che
operano essendo sottratti in misura più o meno grande al controllo
governativo, a differenza di quanto accadeva nell’era degli stati assoluti”.
“Una vasta sfera di decisioni, che hanno spesso pubblica rilevanza, vengono
in tal modo sottratte al controllo poliarchico, che si limita o a ratificare tali
decisioni o a emendarle attraverso la prassi della pubblica
regolamentazione”. “Questo perché tra controllo poliarchico e controllo
delle imprese c’è uno stretto rapporto che si configura come una
predominanza deo controlli delle imprese rispetto a quelli della poliarchia”.
“I gruppi d’interesse, l’attività elettorale finanziata dagli imprenditori, sono
strumenti di influenza delle imprese sul governo, attraverso cui i controlli
poliarchici vengono adattati ai controlli privilegiati degli imprenditori”8.
Riguardo ciò Lindblom afferma che “i fondi che passano nelle (…)
mani dei dirigenti delle imprese possono essere devoluti, senza grandi
sforzi, alle attività di partito, dai gruppi di interesse ed elettorali per perseguire qualsiasi obiettivo i dirigenti stessi si propongono. La facilità con
cui i dirigenti possono usare dei beni delle società per sostenere questa
attività è una caratteristica della politica nelle poliarchie basate sul mercato,
che non trova nessun fondamento razionale nella teoria democratica”9.
In quest’ottica i partiti sono, almeno in parte, nelle mani dei
finanziatori (imprenditori, dirigenti di istituti di credito) e non al servizio
degli elettori.Scrive Ginsborg, illuminandoci in un suo recente libro “la politica
democratica è diventata sempre più dipendente dal grande o grandissimo
capitale. (…) Le competizioni elettorali moderne non si combattono a pari
livello e le spese elettorali in quasi tutte la democrazie sono aumentate
vertiginosamente senza alcun controllo. In presenza di enormi sovvenzioni
private, il processo democratico è fortemente esposto a quello che viene
8
G. Sapelli (1994) p 46.9 Charles E. Lindblom (1977) p.205.
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chiamato crony capitalism un capitalismo basato sulle amicizie strumentali.
Si vincono le elezioni così da poter assegnare redditizi appalti o per
collocare gli amici e, in molte democrazie, i familiari, in posizioni di potere
e di prestigio. Il sistema dei partiti incontra grande difficoltà a restare
immune da questi processi, né in molti paesi riesce a sviluppare anticorpi
sufficienti a resistere alla corruzione”10.
Tutto ciò viene confermato da Raffaella Coppier che sostiene che “il
legame tra politica e corruzione è tanto più forte quanto maggiori sono i
costi della politica, e in questo caso i politici possono cercare di ottenere
dagli imprenditori finanziamenti con cui sostenere le sempre più onerose
campagne elettorali, finanziamenti che devono essere ricambiati con
favoritismi da parte del politico rieletto”11.
2.1. L’impresa come gruppo d’interesse: il potere di influenzare
l’agenda politica.
A questo punto, dopo aver analizzato la questione sotto il profilo di
coloro che gestiscono le risorse pubbliche, vale a dire i partiti, la nostraattenzione non può non cadere sul ruolo svolto, nei sistemi di corruzione,
dalle aziende.
Per comprendere a pieno la funzione svolta, nel tema di tesi, dalle
aziende, mi sembra necessario inquadrare questi soggetti sotto il punto di
vista di poteri economici, che organizzano i loro interessi. Come molte
teorie e correnti sociologiche sostengono, la società, specialmente quella
industriale e post-industriale, organizza i suoi interessi configurandosi comeun insieme di gruppi che concorrono all’accaparramento di risorse, facendo
“pressione” sui decisori pubblici. È proprio per questa pressione che viene
esercitata sui leader politici, che i gruppi d’interesse vengono anche
chiamati “gruppi di pressione” o, in inglese, lobby.
Baumgartner e Leech hanno sostenuto che “i gruppi rappresentano
allo stesso tempo la libertà di unirsi ad altri per presentare domande ai
10
Ginsborg (2006) p. 40.11 R. Coppier (2005) p. 31.
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leader politici e la minaccia che coloro che già possiedono risorse
importanti possano mobilitarsi più efficacemente di altri, rafforzando così le
disuguaglianze nel potere politico”12.
Il tema dei gruppi è anche terreno di conflitto tra due diverse visioni
dell’interesse generale. A questo proposito Fisichella sostiene che “vi è la
visione pluralista del bonum commune che assume che quest’ultimo possa
derivare dall’interazione dei gruppi, i quali perciò partecipano sia alla piena
realizzazione dell’individuo, sia alla formazione del bene comune; una
seconda visione giudica gli interessi dei gruppi e delle “associazioni
particolari” come altrettanti ostacoli e pericoli per l’interesse generale”13.
L’intervento dei gruppi sul/i Partito/i, secondo M. Cotta, D. della
Porta e L. Morlino, può avvenire concretamente nei seguenti modi: “a
livello elettorale (ad esempio nel momento delle candidature, della
campagna vera e propria e dell’appoggio a certi candidati); a livello interno
del partito (ad esempio con la presenza di esponenti del gruppo negli organi
o nelle assemblee de partito); a livello delle dichiarazioni programmatiche
(magari attraverso informazioni e posizioni suggerite dai gruppi ai relativi
organi del partito); a livello decisionale, sia parlamentare, in aula e incommissione, che governativo (ad esempio con interventi diretti di
esponenti del gruppo su parlamentari e ministri)”14.
Questa situazione, che molto spesso viene a crearsi nei moderni
sistemi partitici, il più delle volte, porta alla creazione di clientele
strumentali. Questo fenomeno, è stato brillantemente descritto in passato da
Vilfredo Pareto, ingegnere, economista e sociologo degli inizi del XX
secolo: “abbiamo ora, sotto diversa forma, una nuova feudalità che, in parteriproduce la sostanza dell’antica. Ai tempi di questi, i signori adunavano i
vassalli per fare la guerra, e, se conseguivano vittoria, li ricompensavano
con il bottino. Oggi i politicanti, i capi dei sindacati, operano allo stesso
modo e adunano le loro truppe per le elezioni, (…) e conseguire per tal
modo utili che la parte vittoriosa si gode. (…) I privilegi di cui godevano i
12 Baumgartner e Leech (1998) p. 44.13
Fisichella (1994) p. 443.14 M. Cotta, D. della Porta, L. Morlino [2001] (2004) p. 156.
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quel tempo i nobili hanno riscontro nei privilegi finanziari, fiscali, e altri di
cui godono ora i deputati, e in piccola, ma non trascurabile parte, anche i
loro elettori”15.
A fronte di questa breve introduzione sul tema dei gruppi
d’interesse, bisogna però capire perché, proprio le aziende, all’interno di
questo complesso sistema, sono fra i soggetti più frequentemente interessati
nel giro della corruzione.
2.2. Mercati come comunità chiuse e monopoli illegali.
Comunemente siamo portati, pensando alle teorie liberiste di Adam
Smith, a considerare il mercato come un sistema perfetto, capace di
autoregolarsi e in cui vige la concorrenza e non il monopolio. Questa
visione del mercato può essere condivisibile ma, come per la concezione
della “democrazia perfetta” descritta nel 2° paragrafo, non sempre
rispecchia la realtà.
Infatti, se le aziende ricorrono a mezzi illegali per accrescere il
proprio capitale, ciò è perché, molto spesso, non riescono a farsi stradautilizzando gli ordinari canali d’ingresso nei mercati. Come ci fa notare
Sapelli “la protezione di comportamenti illegali gestita e regolata da
organizzazioni criminali, può essere paragonata alla creazione di un
monopolio. Esso consente di dar vita a un vero e proprio sistema fiscale di
prelevamento metodico di regolari tributi, limitando protezionisticamente
l’accesso a nuovi potenziali imprenditori criminali. Le quote di tassazione
giungono ad essere standardizzate e costituiscono il pegno da pagare per l’ammissione al mercato regolato, che diviene in tal modo auto
amministrato e autogestito, ossia garantendo una “pace di mercato”
altrimenti impossibile da raggiungersi”16.
E ancora “gli imprenditori, trovandosi ad agire nei
mercati in condizioni svantaggiate, richiedono l’uso della
forza per superare le barriere all’entrata e aumentare il
15
V. Pareto [1917] (1964) pp. 277-27816 M. Weber (1964) p. 623 citato da Sapelli (1994).
10
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proprio potere competitivo”17.
Come sostengono Della Porta e Vannucci “gli episodi di corruzione
coinvolgono almeno due attori: un attore pubblico che offre accesso
privilegiato allo Stato e un agente privato che lo riceve, fornendo in cambio
risorse di cui dispone, in genere denaro”18.
A questo proposito mostrerò un esempio in cui si presuppone che un
attore B (individuato in un pubblico funzionario) controlla in forma
monopolistica la distribuzione di risorse che dovrebbero essere assegnate
attraverso “gare di mercato” che impegnano le imprese C, D ed E.
Queste ultime possono o decidere, tutte o in parte, di competere per
evadere la “gara di mercato” attraverso l’offerta di premi a B, che così
distribuisce in forma monopolistica le risorse. Oppure C, D ed E possono
concordare l’erogazione di un premio per B, suddiviso tra tutti e tre, a fronte
di una consensuale ripartizione dell’utilizzo delle risorse che B controlla (e
ciò è più probabile che accada quando il rapporto con B si prevede sia non
occasionale ma continuativo e altrettanto lo sia l’erogazione delle risorse).
Come sottolineava Weber “i soggetti capitalisticamente interessati,
continuano ad essere interessati al progressivo ampliamento del mercatolibero finché alcuni di essi riescono, per via di acquisto di privilegi dal
potere politico oppure semplicemente grazie alla forza del loro capitale, a
conquistare monopoli per il loro smercio o anche per l’acquisizione dei loro
mezzi di produzione materiali, chiudendo così a loro volta il mercato” 19.
A volte, gli imprenditori, entrano quasi involontariamente a far parte
di questi “monopoli allargati”, non avendo altre alternative, ma soprattutto
non essendo tutelati dalle istituzioni di competenza che dovrebbero impedireil crearsi di queste situazioni di assenza di concorrenza. Ciò avviene proprio
perché, “i controllori”, non espletano al meglio il loro dovere, oppure come
nel caso Enron, non lo fanno semplicemente perché facenti parte, anche
loro, del sistema corrotto.
17 G. Sapelli (1994) p. 32.18
D. Della Porta, A. Vannucci (1994).19 M. Weber (1964) p. 622.
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2.3. Il ruolo delle banche nel sistema della corruzione.
All’interno del quadro della corruzione, fin qui descritto, c’è bisogno
di aggiungere il ruolo svolto dal mondo della finanza e più in particolare,
dalle banche e dai grandi gruppi finanziari.
Infatti, le grosse Imprese che hanno compiuto colossali truffe
finanziarie nel corso degli anni, erano quotate in borsa. Il più delle volte la
loro situazione di bilancio era drammatica ma, nonostante tutto, hanno
continuato a tenere alto il valore del titolo in borsa, facendosi anche aiutare
dagli istituti di credito. I bilanci venivano sistematicamente truccati (come
nei casi Enron e Parmalat), ma chi avrebbe dovuto manifestare
preoccupazione per la situazione della/e società, non si è più di tanto
allarmato. Come può uno specialista del settore non accorgersi che qualcosa
non va nei bilanci di una società, investendo capitale su di essa? Ma
soprattutto, come può un istituto tranquillizzare i risparmiatori, vendendo
loro azioni e sapendo già che queste in realtà non rispecchiano il valore
delle quotazioni? Semplice: mentendo.
Ecco che allora si unisce al quadro finora delineato, un altrosoggetto, che prende parte nel fenomeno fungendo da finanziatore sia per i
partiti, sia per le imprese.
Questi gravi atti illeciti sono avvenuti in entrambi i casi che
verranno analizzati in seguito. Sia negli U.S.A., con Enron, che in Italia, con
Parmalat, troviamo casi in cui, le società di revisione dei bilanci e le banche,
garantivano sostanzialmente a queste due imprese, la presenza sul mercato
finanziario a danno dei risparmiatori.Riguardo al caso Enron, Paul Volcker, presidente, in passato, della
Federal Reserve (la banca centrale degli Stati Uniti) , ha commentato “il
predominio delle attività bancarie d’investimento ha corrotto la professione
legale e quella contabile: le loro retribuzioni erano salite a livello tale da
esercitare pressione sulle categorie professionali degli avvocati e dei revisori
dei conti”20.
20 Finacial Times (2002) p. 21.
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O ancora, l’ex direttore finanziario di Parmalat, Fausto Tonna,
raccontò ai magistrati che “il gruppo Parmalat otteneva spesso dalle banche
crediti non assistiti da garanzie reali o di firma. L’unica garanzia era
rappresentata dalla società che esibiva i relativi bilanci alle banche che
effettuavano le loro valutazioni. I bilanci da noi presentati alle banche, pur
contenendo dati non veritieri, non erano sufficientemente idonei a ingannare
una persona esperta in quanto sarebbe bastato che quest’ultima confrontasse
il debito lordo con quello reale, ricavabile dai dati pubblici (tutte le
emissioni di bond sono rese pubbliche) o comunque accessibili alle banche
attraverso la Centrale Rischi, per rendersi conto delle differenze e quindi
delle falsità contenute nei bilanci medesimi (…). Nessuno ha mai
manifestato preoccupazioni. Le banche, al contrario, proponevano molto
spesso alla Parmalat le emissioni di bond sulle quali percepivano laute
commissioni, con conseguenti bonus a fine anno ai funzionari che
partecipavano all’operazione”21.
Da notare che, tra il 2001 e il 2003, sono state vendute 130mila
obbligazioni della Parmalat, che alla fine sono risultate essere solo carta
straccia.A fronte di queste dichiarazioni, possiamo quindi concludere che è
necessario includere nelle responsabilità generali di questo tipo di vicende,
anche quella dei soggetti finanziari.
21 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio (2007) p. 237.
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Capitolo 2.
La corruzione nell’analisi economica.
Dopo aver descritto i soggetti che prendono parte nel fenomeno denominato
Crony Capitalism, passiamo ora ad un’analisi economica dello stesso.
Nel seguente capitolo verranno forniti alcuni dati sulla corruzione nel
mondo e verrà sottolineato che la letteratura di stampo economico, solo da pocotempo ha iniziato a studiare questo fenomeno, concentrandosi sulle possibili
soluzioni che potrebbero concorrere ad arginare il problema.
Gli economisti infatti hanno sviluppato negli anni una forte attenzione
rispetto al tema della corruzione, ritenandola sempre più un elemento di notevole
impatto sulle condizioni economiche di un paese.
In seguito verranno descritti alcuni approcci sullo studio della corruzione e
saranno elencate alcune importanti agenzie che forniscono datri sulla corruzione.
14
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Questi dati, a quanto afferma Raffaella Coppier “hanno permesso di
evidenziare che il fenomeno della corruzione non riguarda solo i paesi in via di
sviluppo e che anche i paesi sviluppati non ne sono immuni”22.
Infine verrà analizzata la teoria di Gary Becker della scelta di compiere un
atto criminale e la possibili misure che lo Stato Può adottare per aumentare la
deterrenza verso il fenomeno.
1. Alcuni dati sulla letteratura riguardante la corruzione.
La corruzione è uno dei fenomeni chiave a cui è associata la qualità delle
istituzioni e dai cui dipende la dinamica economica di crescita di un paese.
Negli anni recenti l’analisi della rilevanza delle istituzioni come
determinante della crescita economica ha trovato un crescente spazio, sia a livelloteorico che. empirico e, con l’attenzione alla qualità delle istituzioni, la letteratura
attribuisce alla corruzione una importanza economica cruciale.
Il fenomeno cessa d’essere oggetto esclusivo degli studi sociologici ed entra
all’interno della moderna analisi economica.
Poiché può produrre o distorcere l’azione delle istituzioni, la corruzione è
stata sottoposta a un vaglio crescente da parte degli studiosi. Nell’agosto del 2000 è
stata fatta da Transparency International una raccolta di tutti gli articoli scientifici etutti i testi (riferiti al periodo 1990-1999) che avevano per oggetto la corruzione :
sono stati individuati 4.000 titoli di libri e giornali23.
Da questa classifica è emerso che il 74% del materiale era diretto all’analisi
dell’amministrazione pubblica, il 10% era di carattere storico, il 9% legato
all’ambito giuridico, il 2% ad analisi etnico-culturali, l’1% all’etica degli affari e
solo il 4% all’ambito economico (vedi la Figura 1).
22
R. Coppier (2005) p. 15.23 Ibidem
15
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Figura 1. Fonte: Transparency International, Global Corruption Report(2001) p. 229.
Quindi l’ambito economico nel decennio passato era un settore non ancora
molto indagato in quanto non veniva data una grande rilevanza alla corruzione
come fenomeno economico, mentre oggi la maggior parte degli studiosi economici
è consapevole che la corruzione, come rilevato dei dati, ha un notevole impatto
sulle condizioni economiche di un paese.
Come afferma Mauro, “un paese che riduce il suo livello di corruzione
passando da un indice di corruzione 6 a 8 (0 è il più corrotto, 10 il meno corrotto)
sperimenterà un incremento di quattro punti percentuali del tasso di investimento e
di mezzo punto percentuale nel suo tasso di crescita economica”24.
Questa maggiore consapevolezza del ruolo della corruzione nell’influenzare
le condizioni economiche di un paese è attribuibile secondo Raffaella Coppier,
anche ad altri fattori “quali una crescita del fenomeno che ha raggiunto un picco
negli anni Novanta, un incremento dei paesi democratici, un maggior peso della
libera stampa nel determinare un clima favorevole alla diffusione dell’informazione
e un processo di globalizzazione economica che ne ha amplificato la risonanza e gli
effetti internazionali”25.
Inoltre bisogna aggiungere che la maggiore attenzione rivolta alla
corruzione è da attribuire al fatto che oggi sono disponibili su di essa dati completi
che permettono un confronto sia temporale sia tra diversi paesi (vedi il Corruption
Perception Index, CPI, fornito da Trasparency International). Tuttavia, il primo
24
P. Mauro (1998) pp. 263-279.25 R. Coppier (2005) p. 15.
16
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problema che si deve affrontare quando ci si avvicina a questo tema nell’ambito
economico è la difficoltà di definire la corruzione. Il modo più comune di definire
la corruzione è quello di un “abuso del pubblico ufficio per un guadagno privato”26.
Come afferma R. Coppier, “poiché uno dei due agenti coinvolti nella transazione fa
capo allo Stato e ad esso risponde del proprio operato, nasce l’esigenza di studiare
suo ruolo come possibile fonte, diffusore e repressore della corruzione
nell’economia in un paese”27.
Gli economisti, da Stiglizt, Dixit e altri, hanno sviluppato una teoria circa il
funzionamento del mercato e circa il ruolo che lo Stato deve svolgere in questi
mercati.
Da questa analisi che poneva in evidenza i fallimenti di mercato, ne è
scaturito un ruolo normativo assegnato al governo, ruolo di correzione di tali
fallimenti quali esternalità28, beni pubblici29, asimmetrie informative30, mancanza
dei diritti di proprietà ecc.
Il governo, nello svolgere il suo ruolo di correzione dei fallimenti di
mercato, controlla l’assegnazione di benefici (sussidi ad esempio) e l’imposizione
di costi onerosi (tassazione e imposte). La gestione di questi benefici e costi è
generalmente sotto il controllo di un pubblico ufficiale dotato spesso di un poteremonopolistico e discrezionale. Individui e imprese private che vogliano godere di
un trattamento pubblico privilegiato possono essere disposti a pagare per ottenerlo.
Si commettono perciò, atti di corruzione essenzialmente per due motivi: per
26 A. Shleifer, R. Vishni (1993) pp. 599-617.27 R. Coppier (2005) p. 17.28 Per “esternalità” si intende quando le azioni di un individuo producono un“costo” o un “guadagno” ad un altro individuo. Ad esempio: se la mia fabbricainquina un corso d’acqua, io impongo un costo a tutti coloro che desideranoutilizzare lo stesso corso d’acqua a valle. R. Artoni [1999] (2007) p. 396.29 “Un bene pubblico” è caratterizzato da due proprietà: la “non rivalità”, (…)ovvero che il consumo del bene pubblico da parte di un individuo non riduce la
possibilità di consumo dello stesso bene da parte di altri individui; (…) la “nonescludibilità”, (…) che si verifica quando è impossibile (o estremamente costoso)impedire a un individuo di godere della presenza del bene pubblico una volta cheesso sia stato prodotto. Ibidem p. 407.30 Le “asimmetrie informative” si verificano quando gli agenti che operano sulmercato non hanno le stesse informazioni sul bene scambiato; esistono due tipi diasimmetria informativa: “selezione avversa” (o negativa) e “azzardo (rischio)
morale”. Ibidem p. 412.
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ottenere un beneficio e/o per evitare un costo31.
2. Due approcci per la definizione economica della corruzione.
Il fenomeno della corruzione può essere studiato sia a livello di sistema, nel
quale essa si sviluppa, sia a livello individuale.
Il primo è l’approccio funzionalista e il secondo è l’approccio di Political
Economy (Rose-Ackerman, 1978). Il primo approccio sviluppatosi negli anni
Cinquanta e Sessanta, all’interno delle scienze sociali, rifiuta la corruzione come
fenomeno patologico, come ostacolo allo sviluppo economico, ma ritiene che la
corruzione abbia radici strutturali e debba essere spiegata nello sviluppo storico ed
economico di un paese: la corruzione non deve essere vista come un problema
morale, ma come una “funzionalità” del sistema sociale e politico. La corruzione
piuttosto che da una specifica cultura politica, emerge qui come fenomeno naturale
in determinate fasi dello sviluppo economico e politico di un paese. In quest’ottica
la corruzione è “disfunzione funzionale”: infatti secondo i funzionalisti, la
corruzione ha le sue radici strutturali nello sviluppo sociale, economico e politico e
scompare quando lo sviluppo è stato raggiunto. La corruzione può avere un effetto positivo, in certe fasi del ciclo economico, permettendo agli imprenditori di
superare gli ostacoli burocratici, stimolando gli investimenti e l’attività
imprenditoriale.
Questo approccio che ha dominato durante gli anni Cinquanta e Sessanta, ha
successivamente subito notevoli critiche soprattutto per il ruolo non
necessariamente negativo attribuito alla corruzione, e inoltre, per l’idea che questa
potesse scomparire spontaneamente con l’evolversi delle fasi di sviluppoeconomico e politico di un paese32.
Diversamente da questo approccio, quello economico della Political
Economy, è basato sull’individualismo metodologico. Questo, infatti, vede la
corruzione come il risultato di un calcolo razionale che soppesa costi e benefici.
Secondo l’approccio economico singoli episodi di corruzione sono prodotti
dall’incontro di due individui che, sulla base di un calcolo di convenienza, decidono
31
R. Coppier (2005) p. .32 Ibidem p. 26.
18
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se ricevere o pagare una tangente (vedremo in seguito in modello sviluppato in
questo senso da Gary Backer per descrivere la “scelta di compiere un crimine”). Da
un lato il pubblico amministratore cercherà di massimizzare il proprio reddito e
dall’altro le controparti private pagheranno una tangete, se questa è più che
compensata dai benefici attesi33.
Dai lavori di Rose-Ackerman (1975, 1978) emerge una delle principali
definizioni di corruzione che analizza la transazione corrotta nell’ambito di uno
schema di Principal Agent (principale-agente). Perché si possa parlare di
corruzione, il corrotto deve essere l’agente di un altro individuo o di
un’organizzazione poiché l’obbiettivo della tangente è di indurlo ad anteporre i suoi
interessi personali rispetto a quelli del principale per cui lavora.
Per essere idoneo ad una transazione corrotta, chi si lascia corrompere deve
trovarsi necessariamente in una posizione di potere, creata da imperfezioni di
mercato o in una posizione istituzionale che garantisce un’autorità discrezionale.
Quindi, afferma l’autrice, per poter parlare di corruzione è necessario che vi
sia una relazione tra un soggetto delegato a prendere decisioni (agente) e il titolare
degli interessi (principale), in rappresentanza del quale egli opera.
É inoltre necessario l’intervento di una terza parte che influenzi a propriovantaggio la decisioni discrezionali dell’agente, offrendo risorse in suo possesso per
favorire, tramite uno scambio illegale, il perseguimento degli interessi privati
dell’agente stesso, potenzialmente a discapito di quelli del principale.
Tre attori sono coinvolti nella transazione corrotta: un principale (lo Stato),
che delega il raggiungimento di alcuni obiettivi a un agente in cambio di un salario,
un agente che può non applicare le direttive del principale, e un terzo che, dietro il
pagamento di una tangente, chiede a questi alcuni favori34
. Nella pagina seguente la Figura 2 presenta lo schema che sintetizza la teoria
di Rose-Ackerman.
33 Anche se l’approccio di Political Economy rappresenta un passo in avanti rispettoa quello funzionalista, esso stesso presenta alcuni limiti. Come notato da DellaPorta (1996), nonostante questo approccio sia molto “elegante” nella suaformulazione, questi modelli analitici presentano difficoltà nel trattare la diversitàdelle motivazioni individuali; infatti nonostante che venga inserita la variabile deicosti morali, la Political Economy continua a considerarla come una costante e
quindi poco rilevante ai fini di un’analisi più specifica. p. 350.34 R. Coppier (2005) p. 25-26
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Figura 2. Il modello Principal-Agent di Rose-Ackerman.Fonte: R. Coppier (2005) p. 27.
3. I dati sulla corruzione: alcune importanti agenzie.
Un ulteriore problema strettamente legato alla difficoltà di definire la
corruzione è quello di misurarla. Essendo la corruzione illegale per sua natura, è
difficile da misurare in quanto si svolge sempre in maniera clandestina e in
segretezza. Cercare dunque di dare una misura quantitativa della corruzione
comporta prima di tutto individuare cosa debba essere incluso nella misurazione e
poi cercare di quantificare ciò che si ha in mente.
Malgrado le notevoli difficoltà ci sono stati numerosi tentativi, soprattutto
negli ultimi anni, di misurare la corruzione.
Di seguito vengono riportate alcune delle fonti più frequentemente utilizzate
dai ricercatori nelle verifiche empiriche.La Business International Corporation (BI) pubblica un indice del livello di
corruzione per vari paesi. Questo indice è ottenuto dai dati raccolti attraverso una
rete di corrispondenti e di analisti sparsi nel mondo e sono stati pubblicati solo negli
anni 1981-83. Questo indice cataloga i paesi da 1 a 10 in accordo con il grado con
cui transazioni d’affari implicano corruzione o pagamenti discutibili.
Il Political Risk Service Inc. pubblica, a partire dal 1982, un resoconto
annuale International Country Risk Guide (ICRG) che include un indice di
20
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corruzione. Questo indice è basato sull’opinione di esperti e cerca di catturare la
facilità con cui alti funzionari pubblici chiedono pagamenti “extra” e con cui
pagamenti illegali sono richiesti da funzionari di basso livello nella forma di
tangenti legate a licenze per importare ed esportare, controlli cambi, accertamento
fiscale, politiche protezionistiche o prestiti.
Transparency International (TI) è un’organizzazione non governativa
finalizzata a combattere la corruzione nel mondo e misura la percezione della
corruzione nei differenti paesi. Elabora dal 1995 un indice che oggi è una media
ponderata di 18 indagini. Il TI fornisce ogni anno il CPI (Corruption Perceptions
Index, l’indice di percezione della corruzione). Il CPI misura il livello di percezione
della corruzione nel settore pubblico in 180 paesi e territori nel mondo. Il CPI è,
come descritto nell’home page del sito ufficiale, un “survey of surveys” (studi
basati su indagini) basato su 13 differenti indagini di esperti35.
Come si può notare dalla Figura n.3 i paesi che sono vicini allo 0 (quelli più
scuri nella mappa) sono i più corrotti, mentre quelli vicini al 10 (quelli meno scuri
nella mappa) lo sono poco. L’Italia quest’anno è al sessantatreesimo posto, dietro la
Turchia e Cuba.
Transparency International chiarisce comunque che questa graduatoria nondeve essere interpretata sostenendo che il paese con l’indice più basso sia il più
corrotto del mondo. Questi indici risultano da una valutazione soggettiva fatta da
uomini d’affari, tecnici e altri; essi non includono tutte le forme di corruzione e
coprono solo 146 paesi.
Chiaramente l’affidabilità dell’indice è fortemente correlata al numero delle
indagini disponibili per ciascun paese: la valutazione di un dato sulla base di 18
indagini sarà più affidabile rispetto a quella di un paese valutato sulla base di unnumero minore di indagini.
In più, come afferma Raffaella Coppier “il grado reale di affidabilità delle
informazioni fornite dagli intervistati è sconosciuto: gli intervistati direttamente
implicati in atti di corruzione possono avere degli incentivi a sottovalutare la loro
partecipazione mentre coloro che non ne sono partecipi direttamente possono avere
informazioni non accurate”36. Quanto detto fin’ora riguardo all’indice, può portare
35
Transparency International (2009).36 R. Coppier (2005) p. 28.
21
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ad una distorsione dello stesso, in favore dei paesi più sviluppati che probabilmente
avranno a disposizione un numero più ampio di indagini.
Quindi paradossalmente l’indice CPI è più affidabile per i paesi tipicamente
meno corrotti.
Figura 3. Fonte: Transparency International.
Il Global Competitiveness Report Index è basato su un’indagine effettuata
sui manager d’impresa a partire dal 1996. In questa analisi 2.381 imprese di 58
paesi rispondono alla domanda sulla corruzione fornendo un numero da 1 a 7 in
accordo con l’estensione di pagamenti illegali aggiuntivi, legati a permessi si
importazione o esportazione, licenze d’affari, controllo cambi, accertamento fiscale,
politiche protezionistiche o richieste di finanziamenti.
Infine l’ISTAT fornisce dal 1961, nell’ambito dell’annuario giudiziario e
statistico, un dato sui delitti denunciati dall’autorità e per i quali l’autorità
giudiziaria ha intrapreso un’azione penale. I delitti in oggetto sono delitti legati alla
corruzione e in particolare riguardo le fattispecie considerate dagli articoli 314, 322
e 324 del Codice Penale.
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4. Il modello sulla “scelta di compiere un crimine” di Gary Becker.
Uno dei modelli più noti sull’analisi del comportamento criminale è stato
elaborato dall’economista premio Nobel per l’economia 1992, Gary Becker.
Il premio gli è stato assegnato come scritto sul sito ufficiale “per aver esteso
il dominio dell’analisi microeconomica a un ampio raggio di comportamenti e
interazioni umane, incluso il comportamento non legato al mercato”37.
Becker, attualmente docente all’università di Chicago nelle materie di
economia e sociologia, nel corso dei suoi studi, inizia una ricerca sui
comportamenti umani utilizzando strumenti propri dell’economia. Nella sua
carriera accademica, infatti, scopre la passione per la microeconomia incontrando il
professor Milton Friedman ma, in seguito si avvicina agli studi sociologici ed anche,
fra gli altri temi, all’analisi del comportamento criminale.
Egli sostiene che alla base della decisione di commettere un crimine ci sia in
sostanza un elemento di calcolo, perciò l’atto criminale viene visto come risultato di
una decisione individuale basata su un’analisi costi-benefici, in cui il “prezzo” del
crimine gioca un ruolo rilevante.
Prima di analizzare il lavoro di Becker occorre introdurre due argomenti chestanno alla base dello stesso, ovvero, le teorie “della scelta del consumatore“ e
“l’avversione al rischio da parte dell’individuo”.
4.1. Nozioni microeconomiche di base per lo studio del modello
Beckeriano: “La scelta del consumatore”.
La teoria del comportamento del consumatore ipotizza che quest’ultimocompri dei beni per raggiungere un preciso obbiettivo: aumentare il suo benessere,
ovvero la sua soddisfazione, vale a dire, l’utilità.
Per semplicità, in questo modello il consumatore viene posto di fronte a due
o più panieri, composti da due tipi di beni, e ne sceglie uno. Il paniere scelto lo pone
su un “gradino” più alto nella scala delle proprie preferenze rispetto all’altro
paniere; se è indifferente tra i due, se li ritiene ugualmente desiderabili, allora li
37 Nobel Prize.org (1992).
23
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pone sullo stesso gradino. Nell’ordinare le preferenze nasce però, dal punto di vista
pratico, l’esigenza di rappresentare in qualche modo, i diversi gradini di preferenze.
A tale scopo vengono utilizzate le “curve di indifferenza” (si veda la Figura 4).
Figura 4. "Le curve di indifferenza".
Fonte: Erasmo Papagni.
Come si evince dall’esempio nella figura 4, le “curve di indifferenza”
possono essere dunque definite come il “luogo” delle combinazioni delle quantità
dei beni Vestiario e Cibo che il consumatore ritiene indifferenti. Le curve
(raffigurate come iperboli) U 1, U 2 e U 3, rappresentano i gradini di preferenze dei
vari panieri che il consumatore ha di fronte a sé.
A questo punto, sappiamo che il consumatore (se è razionale) sceglie un
punto che massimizza la sua utilità nel punto di tangenza fra una delle curve di
indifferenza e la propria linea di bilancio (detta anche “vincolo di bilancio”)38.38 Il vincolo di bilancio corrisponde al reddito (R) del consumatore. Quest’ultimo,
24
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Ma qual è questo punto? Ci può aiutare la seguente Figura 5.
Figura 5. "La scelta del consumatore".Fonte: Erasmo Papagni.
É chiaro che, a parità di reddito, e di prezzi, i vari consumatori faranno
scelte diverse. Questo perché ogni consumatore ha proprie preferenze, diverse, in
genere, da quelle di tutti gli altri. Tuttavia, dato l’ordinamento delle preferenze,
esiste un criterio generale che ci consente di identificare la scelta. Esse avrà sempre
la caratteristica di rendere massima l’utilità del consumatore, cioè di trovarsi sulla
curva di indifferenza più alta tra quelle raggiungibili.
Il punto di tangenza (A) identifica il paniere scelto dal consumatore; esso
contiene le quantità (40 di cibo e 20 di vestiti) dei due beni che sono appunto le
quantità che il consumatore decide di acquistare col suo reddito. Qualsiasi altro
nell’impostare la sua scelta (in termini di acquisto), di beni (siano V e Crispettivamente, vestiti e cibo) sul mercato, deve distribuire la sua spesa in modotale da rispettare il seguente vincolo: R = Qv Pv + Qc Pc (dove Qv e Qc sono
rispettivamente, la quantità di vestiti e la quantità di cibo e, Pv e Pc il prezzo deivestiti e il prezzo del cibo). G. Rodano, E. Saltari [1989] (2006) p. 69.
25
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punto della retta di bilancio (come B) darebbe al consumatore un’utilità minore,
perché si trova su una curva di indifferenza più bassa.
Esistono ovviamente punti che darebbero al consumatore un’utilità
(soddisfazione) maggiore (come D) ma non sono raggiungibili, perché sono al di
sopra della retta di bilancio39.
4.2. “L’avversione al rischio”.
A questo punto, dopo aver mostrato come l’individuo sceglie nel mercato,
per migliorare la propria soddisfazione, passeremo a descrivere l’assunto di
Hirschleifer e Riley, ovvero, l’avversione dell’individuo nei confronti del rischio.
Si afferma che un “individuo è avverso al rischio allorché, dovendo
scegliere fra un reddito certo e una prospettiva (o una lotteria) che garantisca a
parità di valore atteso, o un reddito superiore o un reddito inferiore, sceglierà il
reddito certo”40 (vedi la Figura 6 nella pagina seguente).
39
Ibidem pp. 80-81.40 R. Artoni [1999] (2007) p. 225.
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Figura 6. "L'avversione al rischio".
Fonte: Erasmo Papagni.
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Nei grafici, supponiamo che un individuo guadagni 15.000 euro da un
lavoro certo, e ne ricavi da esso un’utilità pari a 13. Potrebbe però passare a
un’attività che rende 30.000 euro con probabilità del 50%, ed avere un’utilità pari a
10. L’individuo quindi, secondo questo assunto, preferirà non rischiare e mantenere
il lavoro certo.
Come vedremo, in base ai fatti accaduti nella realtà, e nella teoria di Becker,
non sempre ciò è vero, anzi molto spesso avviene proprio il contrario.
A questo punto ci si può chiedere: perché accade ciò?
Verrà data una risposta al quesito utilizzando il modello messo a punto da
Gary Becker che ha il pregio di riuscire a spiegare, in termini di calcolo alcune
dinamiche dell’agire umano con estrema semplicità, suggerendo fra l’altro delle
soluzioni che, per quanto possano risultare scontate, sono alla base di una
prospettiva volta verso l’abbattimento radicale del fenomeno della corruzione.
4.3. “La scelta di compiere un crimine” di Gary Becker.
In Crime and punishment: An economic approach41 Gary Becker, riesce ad
elaborare una teoria economica sulla scelta criminale e, conseguentemente, della possibile scelta che lo Stato può compiere per rinforzare la legislazione e le pene
contro vari tipi di crimini.
Per quanto riguarda la “scelta di compiere un crimine”, si utilizzerà un
esempio molto semplice tratto dall’articolo di Becker.
Supponiamo che un individuo goda di un reddito legale certo pari a W e da
cui ricava un’utilità U(W). Se compie un reato può ottenere in più G e godere di
un’utilità pari a U(W + G), se non viene preso dalla polizia.Se viene scoperto, sarà punito con una multa L e la sua utilità si riddurrà a
U(W – L). Come si potrà immaginare, il crimine è un’attività incerta.
Se si definisce P, la probabilità di essere arrestati e, 1 – P, la probabilità di
farla franca, l’utilità attesa da un reato sarà:
EU = P * U(W – L) + (1 – P) * U(W + G).
41 G. Becker (1968).
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Quindi, come possiamo notare, l’individuo sarà più propenso a compiere un
crimine se:
EU > U(W).
Se l’utilità attesa del reato è maggiore dell’utilità senza il reato, l’individuo
sceglierà di commettere un reato42.
Figura 7. "La scelta di compiere un crimine".Fonte: Erasmo Papagni.
Come si evince dalla Figura 7, la scelta criminale dipende: innanzitutto dalladiversa attitudine al rischio di ciascun individuo; poi dall’utilità attesa dal crimine.
In particolare, questa utilità cresce se: si riduce la pena (L); si riduce la
probabilità di essere arrestati (P)43; se cresce il ricavo del reato (G).
5. Il punto di vista dello Stato: come scegliere la severità della pena e la
spesa nella investigazione.
42
Ibidem p. 184.43 Se poniamo P = 0 si avrà: EU = U(W + G).
29
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Come sosteneva Becker, combattere la criminalità aumentando la
probabilità di cattura (P) e la pena (L) presenta dei costi per la collettività quindi
occorre bilanciare benefici e costi della lotta al crimine44.
Lo Stato sceglie i valori di P e L minimizzando la perdita di benessere
sociale derivante dai reati che è data dalla somma di tre elementi:
1. danno netto sociale dei reati (D)45;
2. costi di cattura e di condanna (C);
3. costo sociale delle punizioni (S)46;
Si definisce R il numero dei reati commessi come funzione di P e di L, e Z
la perdita del benessere sociale, avremo:
Z = D + C + S.
Allora:
Z(P, L) = D(R) + C(P, R) + S(P, R, L).
La scelta di P e L rende minima la perdita di benessere sociale.
Bisogna aggiungere che, nella scelta ottimale, l’effetto repressivo della
probabilità di cattura è maggiore di quello della severità della pena ma è anche
quello più costoso, poiché come si vede rientra nei “costi di cattura e di condanna”
e nel “costo sociale delle punizioni”.Per concludere secondo il modello di Becker, sia la scelta criminale
dell’individuo, sia le misure repressive dello Stato per impedire che vengano
commessi crimini, dipendono entrambi da due variabili: “la probabilità di essere
arrestati” e la “severità della pena”.
44 G. Becker (1968) p. 174.45 Per danno netto sociale dei reati si intende il danno causato alle vittime meno il
guadagno.46 Ad esempio le spese carcerarie. E. Papagni (2005)
30
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In seguito, dopo aver analizzato i casi Enron e Parmalat si cercherà di
verificare sulla base dei fatti, se gli stati in cui sono avvenute le truffe, abbiano
preso in considerazione un incremento delle due variabili P e L per contrastare i
fenomeni di corruzione47.
Capitolo 3.
Il caso Enron.
47 In particolare: “la probabilità di essere arrestati” (P), consisterebbe nell’aumentodelle spese di investigazione (e quindi tutti i mezzi necessari per tenere sottocontrollo eventuali soggetti sensibili al fenomeno che ricoprono grossi incarichi e
quindi grosse responsabilità nell’interesse di milioni di risparmiatori); “la pena da pagare” (L) (quindi le sanzioni).
31
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Nel presente capitolo verranno analizzate le vicende che si svilupparono
pochi anni fa negli USA, con l’impresa energetica Enron, e in Italia, con il crack
Parmalat, due delle imprese più quotate nei rispettivi paesi, che hanno causato gravi
dissesti finanziari.
Gli scenari che andremo a osservare hanno quasi dell’incredibile, e forseancora oggi ci si chiede come è stato possibile che professionisti apparentemente
qualificati, abbiamo potuto “architettare” a tavolino queste truffe colossali.
Pe ognuno dei casi verranno descritte le responsabilità dei singoli soggetti
istituzionali provando a far uscire fuori i “guasti” che si creano nei sistemi di
governance delle grosse imprese, ma soprattutto degli stessi governi degli stati.
Successivamente verranno analizzate le differenze fra le vicende “Enron” e
“Parmalat”, terminando con l’applicazione alle stesse delle possibili scelte che loStato può utilizzare in riferimento al modello di Becker. Non solo, verranno anche
analizzati sinteticamente, gli eventuali provvedimenti che i governi dei due Stati in
questione hanno provveduto a decretare successivamente per la risoluzione del
problema della corruzione.
Infine, verranno esposte alcune possibili soluzioni per arginare il Crony
Capitalism in tutte le sue sfaccettature e forme, senza la presunzione di trovare una
soluzione definitiva, ma provando piuttosto a fornire delle riflessioni che possano
concorrere ad aumentare maggiormente l’attenzione sul fenomeno.
1. I fatti.
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La Enron nasce nel 1985 a seguito della fusione tra la piccola Houston
Natural Gas (fondata da Kenneth Lay, lo “storico” presidente della Enron) ed una
delle maggiori società mondiali di costruzione e gestione di gasdotti, la Internoth of
Nebraska.
L’attività svolta principalmente dall’impresa è, almeno in fase iniziale,
quella di estrazione, raffinazione e trasporto/distribuzione di petrolio e gas naturale.
In questi anni la Enron rileva a Houston la prima e unica società privata creata dal
giovane George W. Bush, la fallita “Arbusto”. Da questo momento in poi, si creerà
uno stretto rapporto fra Lay e Bush che nel 2001 si trasformerà in un enorme
conflitto d’interessi.
Si deve infatti ricordare che, d’ora in poi Lay, e quindi Enron, finanzierà le
campagne elettorali di George W. Bush e costituirà perciò la cosiddetta “ Houston
connection”48.
L’anno successivo alla fusione delle due società, Kenneth Lay, CEO (Chief
Executive Officer 49) del Huston Natural Gas, scalzava Samuel Segnar, CEO della
Internorth, assumendo la guida del nuovo gruppo, mentre a capo della presidenza
Enron vi era Richard Kinder. Nello stesso anno di nascita della Enron, con
l’emanazione dell’Order 436, la Federal Energy Regulatory Commission (Ferc,commissione federale per la regolamentazione dell’energia), dava una forte spinta
al processo di deregolamentazione dei mercati energetici: la revisione delle regole
intensificava la concorrenza fra imprese, indebolendo la posizione delle società di
trasporto, e fra queste la Enron.
I produttori di gas naturale avrebbero potuto contrattare direttamente con gli
utilizzatori di gas naturale, senza quindi dover più stabilire contratti di fornitura con
le società di trasporto. Queste ultime, di contro, avrebbero potuto cedere la propriacapacità distributiva a tutti gli operatori che ne avessero fatto richiesta, a tariffe
stabilite e sulla base del first-come first-served (chi prima arriva, prima alloggia),
fino alla saturazione dei gasdotti.
A questo punto, la Enron, decide di reinventare il proprio business
48 “I dipendenti ricevettero una circolare che li invitava a contribuire alle casse delcandidato Bush, 500 euro per gli impiegati, 5.000 per i manager ”. V. Zucconi
(2002).49 L’equivalente, in Italia, dell’amministratore delegato.
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approfittando della deregolamentazione. Pian piano, sia Lay, che i vertici più alti
della Enron, iniziarono a far pressione sui politici negli U.S.A., cercando di
liberalizzare il più possibile il mercato energetico nel Nord America50.
In tre anni (1985-1988), la società decide di avviare un processo di
spostamento/diversificazione del proprio business: dalla tradizionale attività di
produzione e distribuzione di energia, all’ ”immateriale” commercio su contratti di
approvvigionamento di elettricità, gas naturale ed acqua, proiettandosi dunque,
verso il mercato globale.
Tuttavia, i primi anni di vita della Enron non furono agevoli. Un audace
speculatore di borsa di nome Irwin Jacobs, aveva acquisito una quota del capitale
della Internorth prima della fusione, ed avanzava ora una minaccia di scalata ostile.
Per salvare la società, e anche la propria personale posizione di potere, Kenneth Lay
non esitò ad attingere al fondo pensione dei dipendenti per un ammontare di circa
230 milioni di dollari; non essendo tale somma sufficiente, ricorse anche a un forte
indebitamento.
Il 1990 è l’anno della svolta: Jeffrey Skilling dopo aver lasciato la
McKinsey & Co., viene assunto alla Enron a capo di una nuova divisione, la “Enron
Capital and Trade”, che si occuperà di commercio e operazioni finanziarie. Aquesto punto, Skilling propose una nuova idea: la creazione di una “banca del gas”
e di un nuovo modo di commerciare l’energia. Con l’ideazione di Gas Bank, la
società si poneva sul mercato come intermediario fra produttori e utilizzatori,
offrendo contratti futuri e servizi finanziari di copertura, contro il rischio che
emergeva dalla volatilità dei prezzi e dalla incertezza nelle forniture, due fenomeni
molto critici nel mercato del gas naturale51.
Come scrive Nicola Borzi, nel libro sulla storia di Enron, “il progetto“banca del gas” rappresentò una vera e propria rivoluzione per la Enron: la società
di Houston imboccava però la strada senza ritorno che l’avrebbe trasformata
radicalmente da impresa che gestiva metanodotti in un gigantesco intermediario, un
vero e proprio broker ”52 che, oltre a commerciare commodities (materie prime di
largo consumo come elettricità, gas e acqua), offriva anche vari servizi di logistica
50 N. Borzi (2002) p. 30.51
G. Farrel (2006).52 N. Borzi (2002) p. 33.
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delle risorse energetiche in tutto il mondo. “Dall’economia reale si passava
all’economia di carta”53. Infatti con la successiva creazione di “Enron Online”54
(1999), si poté addirittura acquistare risorse o concludere contratti per forniture
energetiche in tempo reale tramite internet”. “Questo comportò di riflesso, anche un
altro tipo di evoluzione, una sorta di “selezione naturale”: insieme alla struttura
industriale, sarebbero stati accantonati i protagonisti di quell’attività”. “L’era degli
uomini della InterNorth stava per concludersi: i vecchi dirigenti sarebbero stati
rapidamente soppiantati da nuovi voraci predatori”55 ( tra cui Skilling e Fastow).
Mentre al situazione si evolveva, Skilling venne nominato prima CFO (Chief
Financial Officer 56 ), e poi, CEO. Nel momento in cui la “banca del gas” prese il via,
subito si presentò il problema legato al finanziamento e alla gestione del rischio che
il progetto poneva. La soluzione, fu offerta dalla finanza. Scrive Borzi “a trovare la
mossa adeguata per rompere lo stallo in cui versava il piano Gas Bank fu Anrew
Fastow, braccio destro di Skilling. (…) Il giovane manager creò uno schema
innovativo. Il reperimento dei finanziamenti, per pagare pronta cassa l’acquisto
delle riserve di metallo alle società estrattrici, fu realizzato attraverso una rete di
“entità societarie” esterne al bilancio della Enron”57.
Queste società erano le Special Purpose Entities (Spe, entità destinate ascopi speciali), chiamate anche col nome di “veicoli per scopi speciali” o Special
Purpose Vehicles (Spv)58.
“Queste società a orologeria presentavano caratteristiche che le rendevano
estremamente attraenti agli occhi di Fastow e degli uomini della Enron. Proprio
53 Ibidem.54 Società operante nell’e-commerce (commercio elettronico).55 N. Borzi (2002) p. 33.56 Figura equiparabile, in Italia, al direttore finanziario.57 N. Borzi (2002) p. 42.58 Attraverso le Spe-Spv imprese di maggiori dimensioni possono associarsi inmaniera non stabile per portare a termine un affare predeterminato: una volta chequesto sia stato concluso, le Spe-Spv possono essere sciolte senza ulterioricomplicazioni. Il paragone con i mezzi di trasporto rende bene le caratteristiche diqueste società che vengono usate come dei taxi: quando due imprese vogliono fareaffari insieme senza essere notate gli basta “salire” su uno di questi veicoli; unavolta a bordo, possono abbassare le tendine di questa sorta di auto pubblica eorganizzare i propri scambi a riparo da occhi indiscreti; arrivati a destinazione dopo
aver saldato i reciproci conti possono lasciarsi con una semplice stretta di mano.Ibidem p. 43.
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perché gli amministratori delle Spe-Spv potessero sciogliere a una data prefissata
senza dover sottostare a procedure burocratiche, i legislatori avevano previsto che
non fosse tenuto a inserirle nel bilancio consolidato della sua impresa chi, pur
possedendo fino al 97% del loro capitale, potesse dimostrare comunque di non
esercitare il controllo manageriale su di esse. Era la quadratura del cerchio: la
società di Houston avrebbe potuto condurre affari attraverso queste “entità
finanziarie” senza riportarle nei propri conti purché avesse trovato un socio disposto
a entrare in una Spe-Spv, della quale avrebbe avuto il controllo investendoci appena
il 3% del capitale”59.
Fu proprio costruendo questo castello di carte che la Enron si dirigeva verso
il tracollo. In pratica, i debiti della Enron venivano riversati nelle Spe e quindi non
apparivano nei bilanci presentati alla società di revisione. Inoltre, come spiega
Sapelli: “Enron contabilizzava non solo la quantità delle commodity, ma altresì, i
servizi resi, generalmente non valutabili con le stesse regole indiscutibili in uso per
gli scambi di quantità fisiche”. “La loro sopravvalutazione gonfiava i profitti e
induceva alla redazione di bilanci lontani da ogni fedeltà contabile”60. “Il
meccanismo però sembrava funzionare a perfezione: nel 2001 i dirigenti avevano
intascato bonus a profusione per decine di milioni di dollari e tutto sembrava andare per il meglio”61.
“In verità come emerge dalle inchieste giudiziarie e giornalistiche, i revisori,
in questo caso l’Arthur Andersen, avevano iniziato a manifestare preoccupazioni al
consiglio d’amministrazione, riguardo ad alcune SPE. Il consiglio di
amministrazione avvertì la minaccia che incombeva, ma non diede luogo a
un’inchiesta autonoma dei revisori, come sarebbe stato dovere degli amministratori
indipendenti, ma lasciò al menagement l’onere e la discrezionalità di svolgere icontrolli interni senza esercitare quel potere di sanzione, che probabilmente avrebbe
potuto salvare la società e impedire l’espandersi della corruzione”62.
Ma il ciclo economico mondiale entrava in una fase di stagnazione e il
prezzo dei titoli delle società quotate in Borsa iniziava il suo lento ma inesorabile
59 Ibidem.60 G. Sapelli (2004) p. 12.61
Ibidem p. 13.62 Ibidem.
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distacco da quelle valutazioni “isteriche” e senz’altro anomale che avevano
caratterizzati gli anni precedenti. Se le azioni di Enron e delle SPE fossero cadute
sempre più il rischio di dover svelare l’arcano diveniva ineludibile. E l’arcano era il
fatto che le SPE erano state create allo scopo di costituire un velo che evitasse
l’iscrizione a bilancio di perdite sempre più preoccupanti (superarono i cinquecento
miliardi di dollari). Ma via via il rischio dell’assunzione di future perdite sui corsi
dei titoli tecnologici e sui derivati diveniva sempre più insostenibile.
Anche il complesso d’investitori istituzionali (J.P. Morgan Chase e
Citigroup in primo luogo, mentre la Mc Arthur Foundation e il fondo pensioni degli
insegnanti dell’Arkansas esercitavano naturalmente un ruolo minore) fu interessato
da questo turbine di operazioni al confine dell’illecito e della creazione degli
incentivi all’illecito: gli investitori non solo partecipavano alla capitalizzazioni delle
SPE, ma continuavano a occultare le difficoltà in cui versava di fatto Enron dietro il
velo del non consolidamento di bilancio. Con la caduta continua del prezzo delle
azioni la situazione si fece drammatica.
L’amministratore delegato Skilling, diede le dimissioni, pur pronunciando
parole rassicuranti dinanzi alle platee degli investitori e degli azionisti minori. Tra i
dipendenti cominciò a diffondersi il panico, mentre le voci secondo cui numerosidirigenti procedevano alle dimissioni – previa vendita d’ingenti quote di pacchetti
azionari – iniziarono a farsi sempre più insistenti. E, come emerse in seguito alle
inchieste promosse dal Congresso e dal dipartimento della Giustizia, non si trattava
di voci prive di fondamento.
In questo contesto, lo storico presidente-fondatore di Enron, Kenneth Lay,
assunse ad interim la carica di amministratore delegato e iniziò un percorso di
apparente trasparenza fondato sull’appello diretto ai dipendenti e ai dirigenti che può essere riassunto nella seguente battuta: “Qualcosa non va? Rivolgetevi
direttamente a me”. Un appello senz’altro efficace, ma che tuttavia scavalcava gli
organismi di controllo e sprofondava nel caos il delicato meccanismo di
bilanciamento dei poteri che sempre dovrebbero esserne alla base. La conseguenza
fu una valanga di lettere anonime. Tra queste spicca la dettagliatissima missiva
scritta da Sherron S. Watkins.
Otto anni prima Sherron aveva protestato contro la gestione “creativa” delle
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SPE ed era stata per questo indotta alle dimissioni. Nel giugno 2001 era stata però
richiamata a ricoprire la carica di capo contabile di Enron, nel momento in cui la
compagnia avvertì la necessità di rimettere mano alla contabilità aziendale in modo
meno avventuroso. Ma ormai era troppo tardi. La protesta di Sherron indusse
Kenneth Lay a rivolgersi, su suggerimento dell’ufficio legale della società, a uno
studio di avvocati per procedere a un’analisi tanto della situazione della SPE quanto
dell’operato dei revisori63.
Dagli avvocati vennero parole rassicuranti: non c’erano problemi rilevanti e
tutto andava per il meglio. Del resto la compagnia aveva nella grande società di
revisione, negli investitori istituzionali che sostenevano le SPE, nello stesso studio
legale che ora lanciava messaggi così tranquillizzanti, un interlocutore e un partner
di fedeltà indiscussa, oltreché di prima grandezza: dunque perché dubitare?
Presto però, dubitare divenne necessario soprattutto quando le strategie di
Andrew W. Fastow, il direttore finanziario che dal 1997 aveva dato vita alla
precaria ma rifulgente costruzione delle SPE, iniziarono a sfarinarsi come un
castello di sabbia (nell’ottobre 2002 Fastow è stato arrestato dalla Corte di Giustizia
per i reati di falso in bilancio e appropriazione indebita). Nell’ottobre 2001 il titolo
ebbe un tracollo fortissimo e ciò segnò l’inizio della fine. Anche il fondo pensionidei dipendenti era in pericolo. Si iniziarono le operazioni per vendere le azioni, ma
il destino volle che proprio in quel periodo fossero in corso le operazioni
assembleari necessarie per consentire il passaggio da un gruppo di amministratori
del fondo a un altro e questo impose il congelamento dei conti dei dipendenti. Era
alla fine; il titolo precipitò ai suoi livelli più bassi: quindici dollari (all’inizio dello
stesso mese ne valeva trenta).
Nel frattempo il Wall Street Journal aveva evidenziato il fatto che ben35milioni delle perdite Enron erano imputabili alle Spe e questo dopo che gli
amministratori erano stati costretti, il 15 ottobre 2001, ad annunciare che, per la
prima volta dopo quattro anni di folgoranti successi (“Fortune” ripetutamente
indicava in Enron la compagnia di maggior successo nel mondo!), il bilancio si
sarebbe chiuso con delle perdite.
Il tentativo di mascherare in extremis i danni attraverso una fusione con la
63 Ibidem p. 16.
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Dynegy non diede i risultati sperati. Nulla si occultò e tutto, invece, esplose: nei
giorni in cui si siglava l’accordo di massima per la fusione (che non avvenne) Enron
bruciò due miliardi di dollari di liquidità. Era la fine: il titolo crollava a 6,99 dollari.
Il 1° dicembre 2001 il consiglio di amministrazione dichiarava il fallimento della
società, con una deliberazione che rimarrà nella storia della governance e della
bribery (corruzione) internazionale64.
2. Le responsabilità dei partiti politici nel caso Enron.
Dopo aver ricostruito in breve, le vicende della bancarotta di Enron, si
passerà ad analizzare le responsabilità, ormai provate, dei soggetti istituzionali, vale
a dire principalmente dei partiti e della classe politica in generale.
Senza il loro apporto l’imponente liberalizzazione dei mercati energetici,
che in modo non indifferente ha contribuito all’espansione della Enron, non avrebbe
potuto avere luogo. Dai fatti risulta che la classe dirigente statunitense, da una parte,
e la FERC dall’altra, hanno approvato atti, sotto le pressanti dichiarazioni di
Kenneth Lay e Skilling, che negli anni hanno agevolato enormemente la crescita del
gruppo.Come ci racconta Borzi “sulla deregulation dei mercati dell’energia negli
Stati Uniti, sulle sue cause e i suoi effetti, sono stai versati fiumi d’inchiostro.
Vogliamo riportare solo qualche esempio riguardanti le pressioni dei lobbisti e dei
dirigenti texani sul parlamento e sul governo di Washington per abbattere le
barriere che separavano la Enron dal lucroso mercato al dettaglio dell’elettricità,
quello che riguarda le forniture a tutti i piccoli clienti, dalle famiglie agli esercizi
commerciali”65
.Il 10 febbraio 1997 Kenneth Lay faceva diramare dall’ufficio stampa della
Enron un comunicato con il quale salutava come opera meritoria la presentazione
alla Camera e al Senato di disegni di legge gemelli per “modernizzare” il settore
elettrico degli Stati Uniti: “I commenti positivi dei leader di entrambi i partiti
dimostrano il consenso crescente alla ristrutturazione del sistema obsoleto delle
regole nazionali sul mercato elettrico”. “La legislazione in discussione consentirà
64
Ibidem pp. 14-18.65 N. Borzi (2002) p. 72.
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agli stati di entrare velocemente in una nuova era di concorrenza e di possibilità di
scelta per i consumatori”66.
Il 6 Marzo seguente era la volta di Jeffrey Skilling: il manager tenne una
relazione a un convegno realizzato dal comitato per l’energia e le risorse naturali
del Senato degli USA. Il suo messaggio ai politici di Washington era semplice:
occorreva fissare una scadenza precisa entro la quale liberalizzare completamente il
mercato dell’elettricità al dettaglio, consentendo ai consumatori statunitensi di
risparmiare sulla bolletta 200 milioni di dollari al giorno, pari a un taglio dei costi
del 30-40% sulla spesa elettrica complessiva, che negli Stati Uniti all’epoca si
aggirava sui 200 miliardi di dollari l’anno.
Per ottenere questo grande risultato i parlamentari avrebbero dovuto
appoggiare i progetti di legge in materia, già presentati in entrambi i rami del
Congresso. Nella seconda metà degli anni novanta, così, il settore dell’elettricità
statunitense diventava un vero e proprio cantiere legislativo a ciclo aperto.
Si susseguivano con un ritmo incalzante norme che accelerarono la
liberalizzazione del mercato. La legge fondamentale, quel Pubblic Utility Holding
Company Act (legge sulle società di pubblici servizi, Puhca) che risaliva al 1935 fu
completamente emendata nelle parti che potevano frenare la competizione. Sirivisito dalle fondamenta anche un altro testo fondamentale, il Pubblic Utility
Regulatory Policies Act (legge sulle politiche regolatorie dei pubblici servizi,
Purpa) del 1978.
Nel 1992 veniva introdotto l’Energy Policy Act (Epact), la riforma del
mercato dell’energia che aprì alla concorrenza il mercato all’ingrosso. Nel 1996
l’ordine 888 della FERC, diede ai privati libero accesso alla rete di trasmissione
dell’elettricità; sempre nel 1996, il 24 aprile, un nuovo ordine della FERCintrodusse nuove tariffe sulle riserve di capacità di energia destinate alla
trasmissione sulla rete ad accesso libero, con un modello innovativo delle regole
sulla trasmissione di elettricità su connessioni “liberate” che fu salutato con
entusiasmo dalla Enron.
Nel 1999 la Commissione federale per la regolamentazione dell’energia
emanò l’ordine 2000, il cosiddetto “Ordine del Millennio”, che dava il via alla
66 Ibidem.
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riorganizzazione della rete elettrica statunitense introducendo le Organizzazioni per
la trasmissione di energia su scala regionale, che negli Stati Uniti significava su
base interstatale. L’ultimo diaframma per la piena competizione era stato abbattuto.
I desideri della Enron, portati al Congresso di Washington dai lobbisti e, quando
serviva, direttamente da Lay e Skilling, avevano trovato piena soddisfazione67.
Su politici e amministratori pubblici i manager di Houston spinsero a fondo
la loro influenza, grazie a crescenti e ininterrotte iniezioni di denaro, nelle forme
consentite dalla lacunosa legge statunitense sulle attività di lobbying .
Il risultato finale fu quello di “dare la scossa” ai legislatori statunitensi e di
sensibilizzare le autorità di controllo sulle necessità delle industrie del settore”68.
Infine, occorre sottolineare il fatto che, la maggior parte della squadra di
governo di George W. Bush era fra gli azionisti della Enron, ciò dimostra
palesemente che si era in una situazione di enorme conflitto d’interessi.
A questo proposito Vittorio Zucconi scrisse per “La Repubblica” nel 2002: “
Dagli anni 80, quando proprio la Enron rilevò a Houston,
comprandola a prezzi d'affezione, la prima e unica società privata creata dal
giovane Bush, la fallita "Arbusto" (bush, in spagnolo), il cavo si è irrobustito, fino a
diventare un cordone ombelicale.Il presidente e fondatore, Kenneth Lay, intuì molto presto che puntare su
quel giovanotto scapestrato, ma di eccellente famiglia avrebbe dato frutti succosi e
la Enron divenne la sponsor, l'amica, la massima elemosiniera delle sue ambizioni
politiche.
Lo aiutarono a diventare governatore del Texas e, appena eletto, George
Bush cambiò le leggi del suo Stato esattamente come la Enron chiedeva fossero
cambiate.Quando il figlio dell'ex presidente decise di puntare alla Casa Bianca, la
Enron fu di nuovo al suo fianco, contribuendo quasi 800 mila dollari, un milione di
euro, alla sua campagna e diventando, come scrive uno studio nonpartisan sulle
elezioni del 2000, "il patron numero uno del candidato repubblicano". I dipendenti
ricevettero una circolare che li "invitava" a contribuire alle casse del candidato
Bush, 500 euro per gli impiegati, 5.000 per i managers.
67
Ibidem p. 73.68 Ibidem.
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E soldi arrivarono anche all'attuale ministro della giustizia John Ashcroft,
che proprio ieri dovuto rendere noto di volersi tirare fuori dall'inchiesta disposta dal
suo presidente, perché in presenza di un conflitto di interessi.
Così, mentre la California conosceva black out elettrici perché non era più
in grado di pagare i prezzi da riscatto chiesti dalla Enron, il presidente rifiutava di
intervenire per calmierare il mercato e quindi danneggiare gli amici di Houston. E
la riconoscenza di Bush non si è fermata qui.
Nel suo team di governo, gli "Enron Men" sono molti e in posizioni chiave.
Sono ex dipendenti Enron il rappresentate commerciale internazionale di Bush,
Robert Zoellick, il presidente del partito repubblicano Racicot, il sottosegretario alla
difesa responsabile per l'Esercito, White, mentre il principale collaboratore e
consigliere di Bush, Karl Rove, il Richelieu della Casa Bianca, possedeva 500 mila
euro in azioni della società.
Questi molti "occhi di riguardo" alla Casa Bianca hanno permesso alla
Enron di nascondere ai dipendenti, agli azionisti, alla Sec, le reali situazioni di
bilancio”69.
3. Le responsabilità dei revisori e delle bache d’investimento.
Nel caso Enron, anche la società incaricata a redigere i bilanci di revisione
contabile, la Arthur Andersen, è stata riconosciuta complice, e quindi colpevole,
della truffa organizzata dalla Enron. C’è da premettere che in un’economia di
mercato in cui le società attingono al risparmio di milioni di risparmiatori per
finanziare il loro sviluppo, la veridicità dei bilanci gioca un ruolo essenziale. Ilruolo delle società di certificazione è precisamente quello di fornire il necessario
“timbro” di qualità che garantisca ai risparmiatori l’acquisto di quel particolare
prodotto che consiste nelle azioni emesse da una società.
Oggi la certificazione è svolta da società private in regime di concorrenza.
Com’è stato notato da molti le norme sulle società di revisione erano (e sono ancora
in Europa) caratterizzate da un’intrinseca debolezza in quanto hanno operato finora
69 V. Zucconi (2002).
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in conflitto d’interesse, potendo offrire servizi di consulenza alle stesse società di
cui certificavano i bilanci: la tentazione di chiudere un occhio (o anche due) a fronte
d’irregolarità contabili era quindi insito nel disegno normativo delle società di
revisione70.
Anche Sapelli ce lo fa notare sostenendo che “i controlli tipici della balance
of powers anglosassone non scattarono. I revisori, per esempio non insistettero nella
loro analisi e di fatto si adeguarono ai voleri del management (…) tutto proteso alla
valorizzazione del titolo della compagnia sui mercati borsistici”71.
Tuttavia, anche le banche d’investimento furono complici del circolo
vizioso innescatosi con l’utilizzazione delle Spe.
Contribuirono alla capitalizzazione di queste ultime e fecero in modo di
occultare le condizioni di difficoltà in cui era la Enron.
Capitolo 4.
Il caso Parmalat.
1. I fatti.
Il caso Parmalat ha fatto esplodere anche in Italia la consapevolezza dei
pericoli interni in una struttura di governo delle imprese non trasparente.
Si parla spesso del caso Parmalat in relazione al caso Enron; in realtà si
tratta di vicende ben diverse.
70
L. Guiso (2002) www.lavoce.info.71 G. Sapelli (2002) p. 14.
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Non c’è dubbio infatti che il caso Parmalat, prima ancora di essere un
esempio di cattiva governance, ovvero di inefficacia dei sistemi di governo delle
imprese adottati internazionalmente per difendere i cittadini risparmiatori e
azionisti, si configuri come un vero e proprio episodio criminale. Ci troviamo di
fronte, cioè, ad una serie di pratiche di occultamento di dati finanziari reali, che ha
visto decine di persone impegnate per moltissimi anni a falsificare i bilanci e a
truffare i risparmiatori.
Come afferma Sapelli: “Il punto è che ci troviamo di fronte a un gruppo di
imprese che già alla fine degli anni ottanta versava in una crisi industriale assai
grave”72. Infatti, i tre pm milanesi, Francesco Greco, Carlo Nocerino ed Eugenio
Fusco, che hanno indagato sul caso, scoprono durante gli interrogatori che Parmalat
era fallita da almeno quindici anni.
Agli inizi degli anni Sessanta a Collecchio nasce l’azienda “Dietalat”
ribattezzata in seguito, “Parmalat S.p.a.”. Tra il 1973 e il 1983 l’azienda vede
aumentare il proprio fatturato da 10milioni di euro a oltre 249milioni. Questo grazie
a una duplice intuizione del patron Callisto Tanzi, che ha iniziato a utilizzare
contenitori di cartone Tetrapak per la vendita del latte e a servirsi della tecnologia
UHT, un sistema di conservazione che lascia inalterate qualità proteiche e i saliminerali del prodotto73.
L’impresa era entrata in crisi una prima volta nel 1986, in seguito al disastro
nucleare di Chernobyl che aveva fatto crollare le vendite di latte. Allora Parmalat
era un’azienda relativamente piccola.
In quel periodo, in più, stava finanziando il network televisivo Odeon Tv
(società presto fallita), voluto fortemente da Ciriaco De Mita (DC) per contrastare la
crescita delle reti Fininvest di Silvio Berlusconi, che invece era legato, comefinanziatore, a Bettino Craxi (PSI).
In questo contesto, s’innesca lo stretto legame tra Tanzi e De Mita, ovvero,
il legame tra il partito di riferimento del secondo e l’azienda del primo. Infatti, De
Mita fa da tramite tra Tanzi e il Monte Paschi di Siena, che concede prima a
Parmalat un prestito-ponte di 120 miliardi, poi la fa approdare in Borsa chiedendo
una mano al finanziere Giuseppe Gennari. Il gruppo di Collecchio (dove era nata
72
G. Sapelli (2004) p. 79.73 www.borsaitaliana.it.
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l’azienda) non aveva tre anni consecutivi di bilanci certificati che gli potevano
permettere di quotarsi.
Ma il problema viene aggirato facendo acquistare la maggioranza di
Parmalat Spa dalla Finanziaria Centro Nord (FNC) di Gennari, che è già in borsa, e
contemporaneamente cedendo le quote della FNC alla Coloniale, la finanziaria della
famiglia Tanzi.
L’operazione viene perfezionata nel secondo semestre del 1990, quando la
FNC annuncia un aumento di capitale in Borsa e cambia il nome in Parmalat
Finanziaria.
I debiti di Parmalat, quindi, vengono ripianati dagli investitori che
acquistano le azioni sul mercato in un collocamento curato dalla Banca Akros del
finanziere Gianmario Roveraro (sequestrato e ucciso nel luglio 2006).
Nel 1993 c’è un secondo aumento di capitale, che permette alla Parmalat
Finanziaria di rilevare le quote di Parmalat Spa ancora in mano a Tanzi e quelle
detenute dalla Banca Akros di Roveraro. Ma i soldi raccolti in Borsa non bastano al
gruppo per riprendersi74.
Nel 1996 è necessaria una seconda ricapitalizzazione sempre con l’aiutodelle banche.
La situazione, anche se il gruppo appare in piena espansione e continua ad
acquistare imprese, è disperata. Da allora i falsi in bilancio diventano sistematici.
Essendo quotata in Borsa, Parmalat doveva presentare le cosiddette “quattro
trimestrali”, vale a dire gli atti fondamentali di comunicazione finanziaria per il
mondo degli investitori e per il mercato.
Ebbene, ogni tre mesi, tutte le volte che si doveva rispondere a questiappuntamenti, si procedeva a verificare le criticità passive e a correggerle con dei
falsi contabili che avevano come strumento fondamentale la società Bonlat.
L’operazione consisteva nell’ascrivere tali passività al bilancio di Bonlat
imputandole come costo che, nella costruzione di transazioni infragruppo (ossia tra
Bonlat e Parmalat holding), era ricoperto con un’operazione attiva che consentiva di
scrivere a libro, fittiziamente, dei ricavi.
74 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio (2007) p. 235.
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La società compensava le perdite tramite falsificazioni vere e proprie che
venivano scientemente perseguite di volta in volta con sconcertante regolarità. Si
falsificavano le fatture e si fingevano i ricavi75.
Bonlat era una società off-shore76 , ossia costruita in modo da poter
consentire falsificazioni contabili. Aveva sede alle Isole Cayman, nel Mar delle
Antille, dove, alle società che lì hanno la loro sede legale è consentito non redigere
bilanci ma, semplici prospetti.
Già nel 1998, a quanto pare, Parmalat aveva costituito due società off-shore:
la Curcastle e la Zirpa. Nel 1999 si decise di agire con più determinazione: ed ecco
la costituzione di Bonlat.
Le operazioni di falsificazione dovevano anche sostenere il titolo in borsa ed
eludere le analisi di bilancio promosse dagli investitori, così da poter accedere ai
finanziamenti tramite bond 77 . Questi capitali consentivano di acquisire denaro senza
emettere azioni che avrebbero compromesso il controllo sulla società della famiglia
Tanzi (detentrice del 51%).
Il caso Bonlat ha pure un altro interessante risvolto. Come afferma Sapelli
“l’alterazione dei bilanci diveniva un problema che coinvolgeva l’intero gruppo
d’imprese e, credo, che non poteva non essere condiviso da un’estesa corte didirigenti”. “Le falsificazioni erano pertanto falsificazioni di gruppo, perché solo in
questo modo era possibile impedire che da un controllo incrociato emergessero
delle incongruenze e si svelasse il nodo della falsificazione”78.
Attraverso la falsificazione contabile di Bonlat si occultavano delle perdite e
ciò implicava che la falsificazione dell’intera contabilità, anche quella del rapporto
75 G. Sapelli (2004) p. 81.76 Le società off-shore sono imprese fittizie create in centri finanziari con un livellodi imposte molto basso, che di solito si trovano su isole (dette “paradisi fiscali”).Queste società sono spesso usate per nasconderne il beneficiario o il proprietario.77 Il bond (o obbligazione) è un titolo di credito. È un prestito concessodall’investitore all’emittente del bond : uno Stato, un Governo, un’OrganizzazioneInternazionale o una società privata. Quando emette un bond l’emittente si impegnaa: restituire il capitale scritto sul titolo alla scadenza del prestito; effettuare una seriedi pagamenti periodici (cedole) calcolate in base a un tasso s’interesse prestabilito.La differenza fondamentale tra un bond e un’azione consiste nel fatto chel’investimento azionario ha dei rendimenti incerti; al contrario, quando un emittenteemette un’obbligazione si impegna formalmente a ripagarne il capitale a scadenza e
gli interessi periodici. www.fineco.it.78 G. Sapelli (2004) p. 82.
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con le banche italiane ed estere, soprattutto di una di quest’ultime (Bank of
America), avrebbe avuto un ruolo decisivo nell’intera vicenda. Il tutto veniva
artificialmente prodotto sui computer aziendali, che divennero in tal modo i
contenitori delle prove delle falsificazioni e che per questo furono distrutti non
appena prese avvio l’inchiesta giudiziaria.
Di tali falsificazioni finora non si sono ritrovate tracce contabili, tanto è
stata precisa l’opera di distruzione del materiale informatico. E si trattava di
operazioni delle più elementari. Tutto costruito utilizzando carte intestate fasulle e
moduli fittizi.
É evidente che una simile opera di falsificazione doveva poter contare su
una rete di protezione che andava ben oltre il perimetro amministrativo
dell’azienda. I massimi dirigenti non potevano essere i soli artefici di un
meccanismo tanto complesso.
Tuttavia, come spiega Sapelli “le posizioni finanziarie iscritte nei bilanci
della Bonlat divennero insostenibili, perché inesigibili a fronte dell’esposizione in
bond che dovevano essere rimborsati e per il cui rimborso non si disponeva di
capitali, pur avendo iscritto a bilancio ingenti somme di liquidità”79.
A questo punto venne creato il “Fondo Epicurum” che, come spiegato inseguito dagli interrogatori, non consentiva di rendere liquidi i capitali ivi collocati e
quindi costituiva un ostacolo al rimborso dei bond .
“Innescato ormai il circolo non virtuoso, divenne necessario creare
artificialmente sempre nuovo denaro, oppure distrarlo dalle finalità giuridicamente
stabilite dalle regole contabili e dalle leggi. Si ricorse in tal modo al deposito
fiduciario regolato dal diritto nordamericano. Attraverso la Parmalat Finance
Corporation, si ponevano su conti fiduciari statunitensi, diversi milioni di euro chevenivano consolidati nel bilancio di gruppo”80. Come si vedrà in seguito, però,
questi soldi in realtà non esistevano, poiché legati a un complesso sistema di
finanziamenti fittizi attuati fra aziende di proprietà della famiglia Tanzi (società
Coloniale, Sata SRL, Bonlat).
Le operazioni di falsificazione e di distrazione finanziaria continuarono fino
a che il meccanismo si inceppò: a causa di un esposto presentato nel dicembre 2003
79
Ibidem pp. 83-84.80 Ibidem p. 84.
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da un’associazione di consumatori in occasione di un mancato rimborso di un bond
di 150milioni di euro. La Consob81 avviò un’inchiesta sulla Parmalat.
“Dalla relazione trimestrale del 2002 risultava che il gruppo disponeva di
una liquidità assai consistente, a fronte della quale l’impossibilità di rimborsare i
bond appariva inspiegabile. Anzi, era la stessa emissione di nuovi bond, di fronte a
tanta liquidità, ad apparire ingiustificabile. Dall’inchiesta cominciò a trapelare la
verità: la grande massa di liquidità del gruppo era concentrata presso la Bonlat e,
via via, tutte le altre pedine della complessa macchina finanziaria criminale vennero
alla luce: il Fondo Epicurum, le liquidità fittiziamente depositate sui conti di Bank
of America e via dicendo”82.
Come ci raccontano gli autori del libro-inchiesta “Mani Sporche” “la sera
del 17 dicembre 2003 un funzionario di medio livello della Bank of America di
New York infila 4 fogli nel fax per rispondere a una richiesta di notizie appena
giunta da Maurizio Bianchi, partner milanese della Grant Thornton, la società di
revisione della Parmalat. Questa, su sollecitazione della Consob, vuole conoscere
l’esatto ammontare dei fondi depositati da Parmalat a New York”83.
Ma la banca statunitense risponde che la Bank of America NY non ha alcun
rapporto con Bonlat e l’estratto conto del 6 marzo 2003 è falso e non proviene dailoro uffici.
“L’epitaffio sul colosso di Collecchio giace incustodito per tutta la notte
negli uffici della Grant Thornton, in Largo Augusto 7 a Milano. Poi al mattino
Bianchi lo spedisce alla Consob e alle procure di Milano e Parma. (…) In un attimo
tutto diventa chiaro. Quella che Parmalat sta patendo da mesi non è una semplice
crisi finanziaria: è una truffa, la più grande truffa degli ultimi cent’anni visto che
coinvolge oltre 130mila risparmiatori. Un sistema corrotto fino al midollo ha permesso a Tanzi e ai suoi uomini di falsificare documenti, bilanci, estratti conto,
senza mai alcun allarme.
81 L’attività della Consob ha come obbiettivi la tutela degli investitori e l’efficienza,la trasparenza e lo sviluppo del mercato mobiliare. Le sue funzioni si sono
progressivamente sviluppate nel tempo in relazione sia all’esigenza di estenderel’ambito della tutela del risparmio che al progressivo evolversi del mercatofinanziario e della legislazione in materia. www.consob.it.82
G. Sapelli (2004) p. 87.83 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio (2007) p. 233.
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Revisori dei conti, società di rating, banche, Consob, Bankitalia, magistrati,
politici: nessuno è intervenuto per tempo”84.
Nella pagina successiva si può osservare una tabella che descrive
brevemente la vita di Parmalat e i debiti che aveva accumulato con le bache italiane
ed estere.
84 Ibidem p. 234.
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2. Le responsabilità nel caso Parmalat.
Qui di seguito, come fatto per il caso Enron si analizzeranno le varie
responsabilità dei soggetti istituzionali anche per il caso che ha riguardato la
multinazionale “Parmalat”.
Come afferma Sapelli “anche nel caso Parmalat è crollato un sistema di
potere, ma l’impresa non è fallita e non è stata eliminata dal mercato come invece
dovrebbe accadere in un sistema politico-economico equo e non colluso.
A tale riguardo è sufficiente ricordare come i presidenti di importanti istituti
e fondazioni bancarie parmensi fossero legati da una rete di storiche relazioni al
gruppo Parmalat, e come la loro stessa promozione sociale potesse contare anche
sulle relazioni intrattenute dall’impresa con i partiti, attraverso una stupefacente
opera di equilibrio tra le forze politiche che negli anni ottanta dominavano la
politica italiana. Un intreccio che sarebbe proseguito anche nel decennio
successivo, in una logica di apparentamento bipartisan.
Anche Parmalat quindi, proprio come Enron, deve la sua ascesa a precise
protezioni politiche”85.
Sulla scorta di ciò che è stato affermato da Sapelli, c’è effettivamente darilevare lo stretto rapporto che legava il patron dell’azienda, Callisto Tanzi,
all’onorevole De Mita, facente parte del partito che proprio negli anni Ottanta
dominava la scena politica: la Democrazia Cristiana (DC).
Tanzi infatti come detto precedentemente, era stato spinto proprio da De
Mita a buttarsi nell’affare “Odeon TV” e proprio con l’aiuto di De Mita era riuscito
più volte a salvare l’azienda dalla crisi, con l’appoggio di banche anch’esse legate
al politico democristiano. Non solo, lo stesso salvataggio dell’azienda dopo il crack ,dimostra come ci sia un diffuso legame affettivo da parte della politica in generale,
rispetto alla stessa.
Passiamo ora ad analizzare cosa non è funzionato nei controlli interni
all’impresa ed esterni ad essa.
Per quanto riguarda i controlli interni, in Italia prima della recente riforma
del diritto societario, tutte le società quotate e non quotate in Borsa avevano
85 G. Sapelli (2004) pp. 88-89.
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l’obbligo di affiancare al consiglio di amministrazione il collegio sindacale nelle
vesti di controllore. Il collegio sindacale esercita un potere di controllo non solo sui
bilanci e sulla loro formazione, ma anche sull’architettura organizzativa della
società o sul gruppo di società.
Nulla di tutto questo, però, sembra sia avvenuto nel caso del gruppo
Parmalat. Dunque: il collegio sindacale non ha svolto il proprio ruolo.
Anche i mebri del consiglio di amministrazione non hanno agito al meglio.
Pare, infatti, che non si è proceduto alla separazione tra presidente e
amministratore delegato, per affidare al primo la responsabilità degli organi di
controllo. In altre parole, come spiega Sapelli “un rapporto di tipo familiare o di
sudditanza alla proprietà assoluto e indiscusso pare abbia spinto alcuni
amministratori e addirittura alcuni presidenti di società del gruppo, a firmare a
scatola chiusa atti societari di cui essi non avevano la benché minima idea del
contenuto”86.
Gli organi di controllo, in definitiva, quando esistevano non agivano.
Infine, anche il ruolo delle società di revisione è finito sotto inchiesta.
Alcuni dirigenti di una di queste società, che per lunghi anni ha proceduto al
controllo dei bilanci del gruppo, sono stati arrestati.Il caso “Parmalat”, però, ha chiamato in causa anche i sovra controlli esterni
alla società e al gruppo: innanzitutto la Consob (l’equivalente italiana della SEC),
che dovrebbe verificare tutte le comunicazioni date al mercato e operare affinché vi
siano meno asimmetrie informative possibili tra imprese, azionisti e risparmiatori.
Quale che sia, il giudizio sull’operato della Consob in questo frangente non può che
essere profondamente preoccupato. Il “macroregolatore” ha clamorosamente
manifestato tutta la sua debolezza nel caso Parmalat.Infatti, quando ha iniziato a indagare sulla multinazionale di Collecchio, era
già troppo tardi.
Infine, passiamo ora ad analizzare il ruolo svolto dalle banche nella vicenda
italiana.
Abbiamo visto come negli anni successivi al crack della Parmalat, siano
stati messi sotto accusa amministratori di importanti istituti di credito, nonché
86 Ibidem p. 90.
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l’allora governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio.
“La Banca d’Italia deve occuparsi della stabilità e quindi della tutela del
risparmio, pittosto che della difesa delle banche come organizzazione. La sua
azione e quindi rivolta agli istituti bancari e non alle imprese”87.
In una celebre audizione parlamentare del 27 gennaio 2004, il governatore
Fazio sostiene che, dalla legge bancaria del 1936 a oggi, nessun italiano ha mai
perso una sola lira dei suoi depositi. Sempre, quando gli istituti di credito sono stati
travolti da fallimenti o sono stati sul punto di saltare, è intervenuta la Banca d’Italia
a imporre alleanze e salvataggi, tutelando il risparmio. In realtà ciò è vero solo in
parte. Negli ultimi vent’anni le famiglie italiane hanno cambiato il modo di mettere
al riparo i loro soldi. Su consiglio delle banche, hanno cominciato a investire. E così
tra il 2001 e il 2003, 130mila obbligazionisti della Parmalat e 35mila della Cirio, si
ritrovavano in mano carta straccia88.
In più, come afferma nell’interrogatorio Fausto Tonna, ex direttore
finanziario della Parmalat “nei prospetti informativi di tutti i bond emessi da
Parmalat vi è un divieto al pubblico. I bond dovevano invece essere collocati presso
investitori istituzionali e banche. Pertanto, se parte di questi bond sono finiti nelle
mani di investitori privati, la responsabilità è solo delle banche”89.C’è da aggiungere che, erano le stesse banche a proporre molto spesso alla
Parmalat l’emissione di bond sulle quali percepivano abbondanti commissioni, con
conseguenti bonus a fine anno ai funzionari che partecipavano all’operazione.
3. Le misure prese dopo Enron e Parmalat: confronto fra le leggi
italiane e statunitensi.
87 Ibidem p. 92.88
G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio (2007) p. 221.89 Ibidem p. 237.
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A questo punto, dopo aver esaminato a fondo i due casi, ci avviamo ad
osservare quali misure abbiano preso gli stati, in cui le vicende pocanzi descritte
sono accadute, per cercare di non permettere il perpetuarsi di tali crimini in futuro.
Iniziamo con gli Stati Uniti. Dopo lo scandalo Enron nonostante lo stretto
legame fra Washington e l’azienda texana, le reazioni legislative furono clamorose:
il 30 luglio 2002 fu emanato il Sarbanes-Oxley Act , che introduceva sanzioni
severissime per colpire false informazioni e frodi nella gestione delle società
commerciali. Vediamo il contenuto della legge nello specifico.
Il Sabanes-Oxley Act , così denominato in quanto derivante dalla
combinazione della Serbanes Bill e della Oxley bill , prevede modifiche normative
in materia di consulenza e di revisione contabile delle società quotate in borsa.
Le modifiche riguardano:
1. la creazione di un board 90 indipendente che si occupi del
monitoraggio delle società di revisione;
2. la separazione dell’attività di consulenza da quella di revisione;
3. la certificazione da parte del senior corporate management 91dellaveridicità del bilancio annuale e delle relazioni finanziarie della
società quotata;
4. la piena discluosure (trasparenza) delle transazioni off-balance
sheet 92 e di altre obbligazioni che possano influenzare e mistificare
le condizioni finanziarie della corporation;
5. la concessione di maggiori finanziamenti alla SEC93.
A tal proposito, Eugenio Occorsio scriveva tre anni fa su Repubblica “ilSerbanesOxley Act è la più dura legge nella storia per reati finanziari. Pene
durissime (…) (multe che arrivano a 5 milioni di dollari per gli individui e, 25
90 Per board si intende una commissione o un comitato.91 Il Senior Corporate Management comprende presidente, amministratoredelegato, direttore generale, segretario generale, ecc.92 Le transazioni off-balance sheet sono caratterizzate dal fatto che non rientranonel bilancio delle attività dell’impresa e quindi, possono favorire la non trasparente
visione delle reali condizioni finanziarie di un’impresa quotata in borsa.93 www.irtop.com.
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milioni di dollari per le società) (…) e galera fino a trent’anni per chiunque
manipoli i bilanci delle società a danno dell’erario, degli azionisti, della comunità
dei risparmiatori. (…) Bernie Ebbers, capo della Worldcom, sta scontando una
condanna per 22 anni, Martha Stewart è appena uscita dopo tre anni di carcere per
insider trading , Kennet Lay è addirittura morto d’infarto nel luglio 2006 dopo
essere stato riconosciuto colpevole di truffe sul bilancio della Enron che
l’avrebbero portato ad una condanna di decine di anni”94.
Quindi, a fronte di quanto finora riportato, si può affermare che il governo
degli Stati Uniti, dopo il collasso di Enron, abbia dato una forte risposta alle frodi
finanziarie, ciò anche in relazione alle variabili prima analizzate nel modello di
Becker (in particolare: maggiori controlli, e quindi, maggiore “probabilità di essere
arrestati” (P), e poi, maggiori “multe o pene” (L), che come abbiamo visto sono da
considerare fra la più dure mai esistite, aventi perciò una forte carica repressiva).
Naturalmente, come sostiene Becker, l’adozione di tali misure ha
comportato imponenti costi sociali. Infatti come sostiene Occorsio “la legge è
accusata di aver provocato smisurati aggravi dei costi a carico delle aziende perché
introduce (come abbiamo visto) l’obbligatorietà di istituire un nuovo board con
funzioni di vigilanza e impone tali e tanti adempimenti da rendere obbligatorial’assunzione di decine di costosi avvocati”95.
In particolare, i costi sociali sono stati aumentati in entrambe le variabili
“beckeriane”, rafforzando sia la pena/multa, sia i mezzi per aumentare la probabilità
di essere arrestati (concessione di maggiori finanziamenti alla SEC).
In Italia, pochi mesi prima del Sarbanes-Oxley Act (luglio 2002), veniva
introdotta una riforma dei reati societari: il decreto legislativo 11 aprile 2002, n°61,
caratterizzata da una straordinaria indulgenza per la criminalità economica, con unaffievolimento della reazione penale nei confronti delle falsità nei bilanci e nelle
comunicazioni sociali spinta sino al limite della depenalizzazione di fatto.
Riduzione generalizzata dei livelli sanzionatori, accorciamento dei termini
di prescrizione, ulteriormente accentuato, a pochi anni di distanza, dalla riforma
introdotta con la legge ex-Cirielli96, ampio ricorso alla procedibilità a querela,
94 E. Occorsio (2007) www.larepubblica.it.95
Ibidem.96 L. 5 dicembre 2005, n. 251.
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postergazione97 dell’intervento penale all’effettiva verificazione di un danno
patrimoniale per i soci e i creditori e, soprattutto, l’inserimento di soglie di
punibilità quantitative per le false comunicazioni sociali, sono solo alcune delle più
significative novità di una riforma che si muoveva tutta nel segno di una accentuata
"patrimonializzazione" e "privatizzazione" della tutela penale, con tendenziale
emarginazione delle esigenze di protezione degli interessi generali del mercato e dei
risparmiatori.
In questo clima paradossale esplose lo scandalo Parmalat, che rese
finalmente evidente, a un’opinione pubblica giustamente allarmata dalla gravità
delle conseguenze degli illeciti societari, l’"insostenibile leggerezza" della politica
di contrasto alla criminalità economica seguita dal legislatore italiano degli ultimi
anni98.
A poco valeva sottolineare – come frequentemente si è udito affermare in
quei giorni, a cominciare dall’allora capo del governo Silvio Berlusconi – che la
riforma dei reati societari non poteva essere tacciata di responsabilità alcuna
nell’esplosione dello scandalo Parmalat, in quanto la radice del dissesto rimontava a
patologie gestorie verificatesi in anni sicuramente antecedenti.
Il punto, evidentemente, era ben altro, e cioè che la riforma rendevastraordinariamente più difficile perseguire penalmente gli autori di quelli e di
consimili reati, tanto sul piano sostanziale – per la quantità e la complessità dei
requisiti introdotti dal legislatore per la punibilità di tali illeciti – quanto sul piano
processuale , per aver trasformato l’esercizio dell’azione penale e il conseguente
accertamento giudiziario in una sorta di disperata corsa a ostacoli contro una
prescrizione sempre più incombente e inesorabile99.
Il caso Parmalat segnò dunque, un punto di svolta, reso manifesto dai primicenni di risposta legislativa, concretizzatasi nell’iniziale disegno di legge
governativo per la tutela del risparmio, presentato nel febbraio 2004100. Sotto il
97 La “postergazione” si ha quando uno o più creditoti, senza rinunciare al credito, permettono che il loro credito sarà soddisfatto solo dopo l’integrale soddisfazionedegli altri creditori che assumono, per effetto di ciò, un carattere di privilegioindiretto.98 L. Foffani (2006) www.lavoce.info.99
ibidem100 Atti camera, 16 febbraio 2004, n. 4705
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profilo sanzionatorio risaltava l’accantonamento della linea “morbida” nei confronti
degli illeciti societari.
“Cavallo di battaglia della nuova politica di rigore avrebbe dovuto essere
l’introduzione di un delitto di “nocumento al risparmio”, contrassegnato da una
pena draconiana (reclusione da tre a dodici anni) e da contorni normativi
assolutamente indefiniti: un’autentica mostruosità giuridica, peraltro puramente
simbolica e concretamente inapplicabile (oltre che palesemente incostituzionale),
che nascondeva dietro l’apparente mano dura nei confronti della criminalità
economica la reale volontà di non toccare la nuova disciplina del falso in bilancio e
degli altri reati societari, che difatti da questo primo progetto governativo non
venivano minimamente sfiorati.
Si trattava tuttavia di un’iniziativa politicamente debole e di corto respiro,
ben presto sovrastata, nel successivo e tormentato iter parlamentare della
riforma,dal tentativo di costruire una soluzione politica bipartisan al problema di
fornire nuove tutele giuridico-istituzionali agli interessi dei risparmiatori-
investitori”101.
Il nodo del falso in bilancio giunse ben presto al pettine e fu proprio su
questo scoglio – oltre che sui ben noti problemi riguardanti la nomina e i poteri delgovernatore della Banca d’Italia – che si arenò definitivamente il testo unificato
della legge per la tutela del risparmio votato dalla Camera nel maggio 2004, che
avrebbe comportato una significativa “ riforma della riforma”102.
Il consenso inizialmente raggiunto in sede di commissioni parlamentari
riunite venne difatti ben presto travolto dalla constatazione, assolutamente
ineccepibile dal punto di vista dei fautori della riforma dei reati societari del 2002,
che una svolta così radicale e clamorosa sarebbe equivalsa ad una sorta di implicitaammissione, da parte del legislatore, che l’unico scopo perseguito con la precedente
normativa fosse quello di cancellare con un “ colpo di spugna” (provocando
l’effetto di una sorta di amnistia occulta) i procedimenti penali per i falsi in bilancio
commessi in epoca anteriore al 2002 e non ancora giudicati con sentenza
101 L. Foffani (2006) www.lavoce.info.102
Commissioni riunite VI (Finanze) e X (Attività produttive, commercio eturismo), seduta del 5 maggio 2004.
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definitiva103.
Si è giunti così, nel 2005, al varo definitivo della legge per la tutela del
risparmio (legge 28 dicembre 2005, n. 262), approvata dalla sola maggioranza.
Dal punto di vista penalistico, come afferma Foffani “la montagna ha
partorito un topolino: nessuna significativa riforma sostanziale, se non un generico
e indiscriminato aumento delle pene previste per gli illeciti penali e amministrativi
dei testi unici bancario e finanziario.
La legge conferma, nelle sue linee fondamentali, l’assetto normativo uscito
dalla riforma dei reati societari del 2002, aggiungendo nulla più che un modesto
ritocco delle norme chiave sul falso in bilancio, che si traduce in un insignificante
aumento della pena massima prevista per la contravvenzione di false comunicazioni
sociali ex articolo 2621 c.c. (da un anno e mezzo a due anni di arresto) e nella
previsione di nuove sanzioni amministrative (peraltro in gran parte inapplicabili)
per l’omonimo delitto di cui all’articolo 2622 c.c.; la novità della prevista
introduzione della fattispecie di “nocumento di risparmio” viene nettamente
ridimensionata e trasformata in una mera circostanza aggravante di quest’ultimo
delitto”104.
Ancora oggi però, in Italia, non si è riusciti a formulare una nuova legge per la tutela del risparmio. Il legislatore dovrà fornire senza dubbio una risposta
importante al fine di dare finalmente al nostro paese una disciplina penale ,
societaria ed economica ispirata a serietà ed equilibrio e al passo con le più
avanzate esperienze europee.
In particolare, la richiesta di sanzioni “adeguate , efficaci e proporzionate”
contro la falsità nei bilanci e nelle comunicazioni sociali, nell’interesse dei soci e
dei terzi, è già stata solennemente enunciata dalla Corte di Giustizia delle ComunitàEuropee, con una fondamentale sentenza del 3 maggio 2005105, che – ben lungi dal
salvare nella sostanza le scelte operate dal legislatore italiano del 2002 – afferma al
più alto livello della giurisprudenza europea una serie di esigenze di tutela rilevanti
per l’ordinamento comunitario – in materi a di trasparenza e veridicità
dell’informazione societaria – alla quale il nostro legislatore è chiamato finalmente
103 L. Foffani (2006) www.lavoce.info.104
Ibidem.105 CGCE, Grande Sezione, 3 maggio 2005, C – 387/02, C – 391/02 e C – 403/02.
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a dare adeguata e tempestiva soddisfazione.
Si deve sottolineare però, che provvedimenti come “ lo scudo fiscale”
porteranno all’impunità anche per i reati di falso in bilancio. Ciò sembra essere
confermato anche da Mario Sensini che afferma “il pagamento della sanzione del
5% per il rientro o la regolarizzazione dei capitali e dei patrimoni illeciti all’estero
renderà non punibili anche alcuni reati penali ,fiscali e societari, compreso il falso
in bilancio”106.
Non solo, anche la bozza di legge del processo breve, attualmente in
discussione, porterebbe addirittura proprio Callisto Tanzi ad uscire pulito dalla
vicenda Parmalat.
A questo punto, dopo aver mostrato un quadro alquanto dettagliato della
questione penale dei reati economici in Italia, si può concludere, con cognizione di
causa, che il governo italiano non ha per niente puntato su nessuna delle due
variabili analizzate nel modello di Becker.
Bisogna perciò sottolineare le differenze fra le misure prese negli Usa dopo
Enron, e in Italia dopo Parmalat, prima fra tutte il fatto che Parmalat è stata salvata
mentre ciò non è accaduto per Enron. “ Mentre la vicenda della compagnia di
Houston si conclude con la distruzione dell’impresa in virtù delle leggi di mercato,nel caso Parmalat, invece, l’impresa viene risparmiata e al tempo stesso si procede
all’immediata carcerazione dei suoi dirigenti”107. Vediamo perché ciò è accaduto.
La legislazione italiana sulle grandi imprese in crisi ha sempre preferito
proiettarsi verso un aiuto concesso dallo Stato. Infatti, fu approvata d’urgenza nel
1979, la cosiddetta “legge Prodi sull’amministrazione straordinaria delle grandi
imprese in crisi” (legge 95) che prevedeva la pura continuazione dell’attività delle
imprese insolventi in vista di un “miracolo” da attendere per anni a spese deicreditori. E’ stata abrogata nel 1999 , dopo un lungo contenzioso con le istituzion
europee, che a più riprese avevano condannato l’Italia per la violazione delle regole
sugli aiuti di stato alle imprese, e sostituita con una normativa più flessibile,
comunemente definita “Prodi-bis” (decreto legislativo 270).
La normativa del 1999 si applica alle imprese con almeno duecento
dipendenti e prevede alternativamente:
106
M. Sensini (2009) www.corrieredellasera.it.107 G. Sapelli (2004) p. 89.
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• la cessione dei complessi aziendali dell’impresa insolvente: in attesa
di trovare un acquirente vengono mantenuti in attività per un periodo
massimo di un anno;
• la ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa insolvente,
da completare entro un periodo massimo di due anni. Quale
obbiettivo debba essere perseguito viene deciso al termine di una
fase di analisi che dura da due a cinque mesi. Se nessuno dei due
obbiettivi sembra ragionevolmente raggiungibile (quando ad
esempio l’attività distrugge irrimediabilmente ricchezza, sì che non è
ragionevole sperare di trovare acquirenti), l’impresa viene dichiarata
fallita108.
Nel 2004, dopo il crollo di Parmalat, verrà emanato con decreto un
provvedimento che mira all’accelerazione dei tempi della procedura descritta nella
normativa del 1999: il cosiddetto “ decreto Parmalat”109.
Ecco dunque spiegato come il legislatore italiano ha sempre preferito il
salvataggio dell’impresa anche a costo di provocare grossi costi sociali.
Conclusioni.
A fronte dell’analisi sulla corruzione fin qui trattata, occorre cercare di
teorizzare alcune possibili soluzioni al problema del Crony Capitalism.
108
L. Stanghellini (2004) www.lavoce.info.109 Ibidem.
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Si proverà, a tal proposito, di scovare, per ognuno dei soggetti implicati,
nelle vicende di corruzione fra sfere economiche e sfere politiche, le ragioni e gli
ambienti sociali che portano tali individui a commettere crimini economici contro
un’ampia fetta della società.
Innanzi tutto, le banche dovrebbero eliminare ogni forma di conflitto di
interesse dovuto all’attività di raccolta del risparmio presso il pubblico e all’attività
di finanziamento alle imprese, comprese l’emissione e il collocamento dei titoli.
Secondo Sapelli “sarebbe sufficiente attivare nelle banche come nelle
imprese, efficaci sistemi di controllo incrociato e di bilanciamento dei poteri.
Naturalmente anche le pressioni sulla clientela per acquistare prodotti finanziari di
ogni genere ad alto rischio andrebbero sanzionate implacabilmente o prevenute
attraverso procedure di auto regolazione gestite dalle banche medesime in modo
trasparente e diffuso in tutta la catena organizzativa”110.
Perciò, in definitiva, per quanto riguarda gli istituti di credito, sarebbe più
auspicabile una maggiore trasparenza e un controllo interno soprattutto nei
confronti dei cosiddetti stakeholders111.
Per quanto concerne invece, il ruolo delle imprese, sono proprio queste
spesso a causare il mal funzionamento dei mercati. Come sostengono Raghuram eZingales “sono i capitalisti che hanno più da perdere all’espandersi del libero
mercato. Per questo esercitano la loro influenza per impedire l’adozione di regole e
leggi che ne permettano lo sviluppo corretto e per ottenere sussidi e protezioni dai
governi. Contrastare gli interessi costituiti, salvare il capitalismo dai capitalisti,
significa perciò rafforzare la consapevolezza che il mercato è il mezzo migliore per
promuovere la crescita e ridurre la povertà”112.
Come è noto, un mercato libero per funzionare correttamente necessita diuna infrastruttura di leggi e di regole . ”Il problema è che nessuno ha gli incentivi
giusti per sostenere politicamente queste infrastrutture. Tutti beneficiano dei
mercati competitivi, ma nessuno trae profitti dal renderli o mantenerli tali. Ironia
vuole che chi ha maggiormente da perdere dal promuovere il libero mercato siano
110 G. Sapelli (2004) pp. 93-94.111 Per stakeholders si intende: l’insieme dei soggetti che hanno un interesse neiconfronti di un’organizzazione e che con il loro comportamento possono
influenzarne l’attività. In questo caso i clienti.112 R.Raghuram, L.Zingales (2003) www.lavoce.info.
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proprio i capitalisti”113.
La conclusione al problema sollevato da Raghuram e Zingales appare
piuttosto interessante, “per salvare il capitalismo, la soluzione è di trasformare le
élite, da nemiche dei mercati a loro sostenitrici; far vedere loro che le opportunità
offerte da un mercato competitivo compensano più che mai il danno arrecato
dall’accresciuta competizione. La verità è che l’apertura dei mercati internazionali
dei beni e dei capitali ha allineato gli interessi delle élite con quelli del mercato.
Quando la competizione viene da una diversa giurisdizione che le élite locali non
possono influenzare, non c’è nessun vantaggio nel cercare di soffocarla distorcendo
il mercato interno. Al contrario, sotto la minaccia della competizione internazionale,
le imprese vogliono un’infrastruttura efficiente che permetta di competere ad armi
pari”114.
In conclusione: il libero scambio di beni e capitali è il meccanismo più
importante per promuovere mercati più efficienti e più competitivi.
A fronte di quanto sostenuto da Raghuram e Zingales, c’è però da
aggiungere, a mio avviso, una nota molto importante.
Nel momento in cui le grandi imprese agiscono in tutto il mondo (da
multinazionali), sfruttando quindi il mercato globale, nasce il bisogno, soprattuttoda parte dei risparmiatori o degli investitori, della creazione di un sistema di regole
globalmente riconosciuto.
A sostegno di questa visione, Sapelli commenta “ se le società si
mondializzano perché l’economia diventa globale, allora anche le regole, tutte le
regole che caratterizzano la trasparenza delle transazioni interne ed esterne alle
popolazioni degli attori economici, devono essere globali. (…) Ciò di cui abbiamo
bisogno, infatti, è un insieme di regole e procedure “globali” che valgano cioè dauna parte all’altra dell’ oceano, in una commistione crescente fra diritto privato di
ascendenza romana e tedesca e diritto della common law da un lato e fra regole
contabili europee e regole contabili anglosassoni dall’altro, poiché solo le aree di
non integrazione possono favorire gli occultamenti e le incomprensioni che
incentivano l’elusione e la frode”115.
113 Ibidem.114
Ibidem.115 G.Sapelli (2004) pp. 21-22.
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Infine, per quanto riguarda la politica, c’è da segnalare un imminente
bisogno di tagliare l’ormai consolidato “cordone ombelicale” esistente fra gli
interessi economici forti e i partiti, che rende questi ultimi “regolatori in conflitto
d’interesse”.
I partiti, come già accennato nel capitolo 1, hanno sempre più bisogno di
finanziamenti privati per le campagne elettorali. Se un tempo ci si lamentava del
finanziamento pubblico ai partiti, ora lo si fa anche per quello privato.
C’è da dire che forse il problema è un po’ più complesso di quanto sembri,
in quanto questi fenomeni, appaiono scaturire, invece, da una crisi interna ai partiti
stessi.
Molti giudicano i cambiamenti avvenuti nel modo di fare politica come un
inevitabile percorso cui si doveva approdare nel corso della storia dei partiti politici,
e in particolare di quelli europei116.
Si assiste, infatti, a una propensione verso i modelli americani di
competizione politica, caratterizzati proprio da enormi spese, e quindi
finanziamenti, per le campagne elettorali.
Il tentativo di imitare ciò che culturalmente non appartiene al contesto
italiano, non porta a niente di costruttivo poiché, appropriarsi forzatamente dimodelli sociali lontani da quelli europei (questi ultimi caratterizzati per esempio
dalle lotte di classe), vuol dire solo perdere del tempo prezioso nella ricerca di una
soluzione a noi più appropriata.
É indubbio che cercare di riappropriarsi dei desideri dei cittadini, rendendoli
partecipi realmente e non riducendoli a meri individui che hanno solo la facoltà
scegliere quale migliore prodotto elettorale sia più conveniente ma, soprattutto,
efficiente.Quale antidoto più potente ai crimini verso migliaia di cittadini commessi da
parte di chi dovrebbe rappresentarli ci sarebbe, se non quello di avere una
popolazione informata, cosciente e impegnata nell’azione politica?
Solo dei cittadini con una buona cultura ma, soprattutto dotati di un forte
senso civico, possono più di tutti far pressione sulla politica sovrastando qualunque
interesse forte, e denunciando, quindi, eventuali abusi.
116 Vedi O. Massari (2004) pp. 8-10.
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In definitiva, la partecipazione attiva alla vita politica dei cittadini è uno
strumento fondamentale per costringere, chi governa, a dare conto più agli interessi
diffusi che a quelli particolari di gruppi ristretti.
Su tale punto, concludo citando un grande pensatore liberale dell’Ottocento,
Benjamin Constant, che alla fine del suo intervento nel 1819 esortò i cittadini a
esercitare una vigilanza attiva e costante sui loro rappresentanti e ammonì in tono
profetico “il rischio della moderna libertà è che, assorbiti nel godimento della nostra
indipendenza privata e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, rinunciamo
con troppa facilità al nostro diritto di partecipazione al potere politico”117.
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