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Spedizione in Abbonamento Postale 70% - Filiale di Savona IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XIX, N.2, 2011

TRA PRASSI E TEORIA APPUNTI DI VIAGGIO QUATTRO PASSI PER … · disturbi del comportamento alimentare, ai disturbi da attacco di panico ... nella mia anima o nella mia ... nella sua

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* Omaggio a Hermann Zapf *Progetto informatico di Tiziano Stefanelli

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IL VASO DI PANDORADialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XIX, N.2, 2011

TRA PRASSI E TEORIA

APPUNTI DI VIAGGIO

QUATTRO PASSI PER STRADA

OLTRE...

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane

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<<Il Vaso di Pandora>>

Copyright © 1992 by REDANCIA Iscrizione per il Tribunale di Savona N° 418/93 – ISSN 1828-3748 Direttore Responsabile: Giovanni Giusto Direttore Scientifico: Carmelo Conforto

Comitato Editoriale: R. Antonello (Genova) G. Ba (Milano) G. Berruti (Savona) A. Bonfanti (Cuneo) M. Carnovale (Savona) G. Rebolini (Genova) P. De Fazio (Catanzaro) P. Destefani (Genova) L. Ferrannini (Genova) G. Ferrigno (Genova) A. M. Ferro (Savona) M. E. Morsucci (Cuneo) M. Marcenaro (Genova) E. Maura (Genova) A. Oelker (Genova) P. Melo (Savona) C. Mencacci (Milano) A. Narracci (Roma) D. Nicora (Savona) B. Orsini (Genova) P. F. Peloso (Genova) P. Pisseri (Savona) P. G. Semboloni (Genova) E. Robotti (Genova) A. Salsa (Savona) R. Valdrè (Genova) V. Valenti (Savona) La pubblicazione di ogni articolo è subordinata al parere positivo di referee esterni al Comitato Editoriale. Referee: E. Aguglia (TS) F. Borgogno (TO) R. Brunacci (GE) G. Cassullo (TO) P. Ciancaglini (GE) S. Inglese (CZ) C. Merlo (AL) L. Rinaldi (NA) D. Sacchi (TO) F. Scarsi (GE) R. Speziale-Bagliacca (GE) C. Vecchiato (CN) Comitato di redazione: Luca Gavazza, Paola Bartolini, Lorenzo Vita, Simona Magliani, Antonella Ferro Redazione: Via P. Boselli, 3/5 - 17100 Savona (SV) Amministrazione: Via Montegrappa, 43 - 17019 Varazze (SV) - P. IVA 00507810091 http://www.redancia.it - http://www.publinet.it/pol/ital/riviste/pandora/index.htm e-mail: [email protected] Stampa : CappelloCom - Via Guidobono, 11 - 17100 Savona - [email protected] La rivista è pubblicata in quattro volumi all'anno. Per abbonamento: C/C Postale n° 10483170 intestato a La REDANCIA S.r.l. - Via Montegrappa, 43 - 17019 Varazze (SV) Abbonamento annuale: Italia privati Euro 50,00 Enti Euro 55,00 Estero privati Euro 80,00 Enti Euro 100,00 Fascicolo singolo Euro 20,00 Arretrato Euro 25,00

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XIX, N°2, 2011

Sommario Editoriale Marco Massa

pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA Il pensiero di Giovanni Jervis sulla relazione d‟aiuto:

un importante contributo nella formazione degli operatori in Psichiatria

Antonio Maria Ferro pag. 11

APPUNTI DI VIAGGIO La psicosi di Laio e il transgenerazionale

Cesare Romano pag. 31

La solitudine dell‟operatore e il ruolo dell‟équipe

Enrico Varrani pag. 69

QUATTRO PASSI PER STRADA Centro Psicoanalitico di Genova, 12 marzo 2011 Ricordo di Lina Generali Clements. “Sincerità”

Riccardo Brunacci pag. 85

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XIX, N°2 2011

Table of contents Editorial

Marco Massa pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA Giovanni Jervis‟ thought about helping relantionship:

an important contribution to mental health professionals‟ training Antonio Maria Ferro

pag. 11

APPUNTI DI VIAGGIO Laio‟s psychosis and the trans-generational

Cesare Romano pag. 31

The feeling of loneliness of the psychiatric operator and

the psychiatric équipe‟s role Enrico Varrani

pag. 69

QUATTRO PASSI PER STRADA Centro Psicoanalitico di Genova, 12 marzo 2011 Ricordo di Lina Generali Clements. “Sincerità”

Riccardo Brunacci pag. 85

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Editoriale Accolgo con entusiasmo l‟invito della redazione a scrivere l‟editoriale di questo numero, sia perché è per me occasione di approfondimento culturale sempre gradito, sia perché mi offre l‟opportunità di collaborare con una rivista cui sono professionalmente e personalmente legato. Il secondo numero di quest‟anno si caratterizza per un apparente squilibrio nella corposità degli articoli. Infatti, se il raffinato contributo di Romano sembra dominare (quantomeno per il numero di pagine), il livello qualitativo e i risvolti in termini di applicabilità ad una prassi clinica e operativa degli altri interventi sono senza dubbio elevati. Ferro e Varrani ci invitano a riflettere sulle nostre esperienze quotidiane di operatori della psichiatria, con analisi e osservazioni di grande utilità che hanno per oggetto prevalente la pratica terapeutica e la figura dell‟operatore. Romano e Brunacci ci riportano verso contesti più teorici, dove però il ricercato utilizzo della metafora del mito nell‟uno, e l‟intensa partecipazione emotiva nell‟altro, ci consegnano l‟opportunità di ragionare su importanti ipotesi esplicative riguardanti la complessità della relazione terapeutica. L‟appassionato contributo di Ferro, ricordando l‟insegnamento ricevuto da Jervis, illustra come la capacità di attuare una buona relazione d‟aiuto abbia ripercussioni in almeno due ambiti: quello della relazione “classica” e immediatamente comprensibile fra operatore e paziente, e quello del rapporto fra operatore e istituzione. Nella prassi quotidiana della psichiatria istituzionale – quella cui si riferisce Ferro - non esistono confini fra i due ambiti, e le relazioni, comprese quelle d‟aiuto, si realizzano in un “milieu” complesso dove preservare l‟integrità psichica di chi, individuo e/o gruppo, fornisce aiuto è fondamentale quanto lo è il dar corso al mandato istituzionale della cura. Non si discosta da queste tematiche l'articolo di Varrani che descrive, sempre in un‟ottica legata alla psichiatria istituzionale, lo stretto collegamento fra il sentimento di solitudine dell‟operatore psichiatrico e lo svilupparsi di condizioni di rischio per la sicurezza

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dell‟operatore stesso e dei servizi in cui lavora. Anche in questo caso si valorizza l‟importanza del gruppo per la prevenzione di tali rischi, gruppo di lavoro che deve dotarsi di particolari caratteristiche di coesione, integrazione ed elasticità, ma anche di trasparenza gestionale e “democrazia”. Addentrarsi nella lettura del mito come se si trattasse di un caso clinico potrebbe essere da taluni considerato criticabile sotto il profilo tecnico (se ci pensiamo bene è sostanzialmente un‟operazione che contiene elementi di ricorsività), ma Romano, grazie a questa operazione, ci conduce, attraverso una puntuale analisi delle figure di Edipo e di Laio, all‟approfondimento di alcuni paradigmi fondamentali della costellazione edipica, con particolare riguardo alla trasmissione transgenerazionale di specifiche organizzazioni psicopatologiche legate all‟odio e alla dimensione psicotica. La “psicologizzazione” del mito resta un‟operazione fondamentale della psicoanalisi che ha reso con ciò possibile la rappresentazione narrativa di vicissitudini emotive difficilmente esplicabili in altro modo; sotto questo profilo l‟elegante articolo di Romano certamente non delude, guadagnandosi inoltre il merito di rivalutare la questione edipica in un‟epoca in cui, per ragioni diverse e non sempre legate all‟evoluzione della teoria psicoanalitica, è talvolta (e probabilmente a torto) eclissata. Chiude questo numero lo scritto di Brunacci in ricordo di Lina Generali. La particolare modalità di stesura in forma di note e di appunti relativi alla propria esperienza clinica di psicoanalista dà valore ad un contributo che si prefigge di definire un concetto contemporaneamente semplice nella sua definizione esplicita, ma complesso, per la difficoltà di percepirne la presenza come stato della mente (proprio o – come nell‟esperienza della psicoterapia – del paziente). Lo stato mentale di sincerità scaturirebbe, secondo un‟interessante ipotesi dell‟autore, dal realizzarsi di una relazione oggettuale libidico-dipendente fra il Sé e la realtà psichica e rappresenterebbe una fondamentale condizione preliminare rispetto al contatto emotivo col paziente ma anche elemento aggiuntivo di vitalità nella relazione terapeutica. Marco Massa

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Tra prassi e teoria

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Antonio Maria Ferro1

Il pensiero di Giovanni Jervis sulla relazione d’aiuto: un importante contributo nella formazione degli operatori in Psichiatria. Nel “Manuale critico di psichiatria” (1975) Giovanni Jervis scrive: “Volevamo verificare se, e fino a che punto, fosse possibile un lavoro psichiatrico alternativo, non più nel manicomio, nell’Ospedale, ma nei quartieri, nei paesi, tra la gente, nel vivo del tessuto sociale”. Il Manuale evitava risposte definitive, esaustive ai problemi che sollevava …che la psichiatria, ma soprattutto le sofferenze umane – anche nelle forme più cristallizzate della psicopatologia – sollevavano e continuano ancora oggi a sollevare. Jervis scrive ancora: “Un mio scopo è stato dimostrare che dietro ai tecnicismi, dietro alle classificazioni ed alle infinite diagnosi e sottodiagnosi di malattia, si nascondono altri problemi e questi sono problemi umani” di vite quotidiane dolorose, vuoi per come queste vite si sono andate strutturando dai primissimi anni di vita, vuoi per come queste abbiano avuto la sorte di incontrare, poi negli anni, gli eventi della vita. I nuclei psicopatologici più profondi probabilmente non sono molti e sono più costanti nel tempo di quanto immaginiamo, ma le loro forme espressive sono invece estremamente cangianti in funzione delle epoche e delle culture – come ricorda Xavier Pommereau in “Psichiatra a Bordeaux” (1997) - e, se si fa eccezione almeno in parte per le schizofrenie e la melanconia, si plasmano in relazione proprio con la cultura, le abitudini, le sofferenze della Polis: pensate per tutti ai disturbi del comportamento alimentare, ai disturbi da attacco di panico che sono aumentati in modo esponenziale in questi anni.

1 Direttore Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze – ASL 2 Savonese

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A questo proposito Eugenio Borgna (2010), commentando la prossima pubblicazione della nuova edizione del manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali dell‟A.P.A. - si interroga: “Come posso giungere alla diagnosi in psichiatria – se non riesco a fare sgorgare dalla vita interiore dei pazienti le ragioni ferite dei loro cuori, …se non ho mai conosciuto queste esperienze umane, prima ancora che nella psicopatologia, nella mia anima o nella mia immaginazione?” E‟ il concetto di Empatia che Edith Stein – nella sua tesi di laurea del 1916 – sintetizza come “il fondamento degli atti in cui viene colto il vissuto altrui”. Allora, come ora, la psichiatria è fortemente in relazione con “problemi politici”, ovvero della Polis, del modo in cui la edifichiamo, la abitiamo o piuttosto la mortifichiamo immiserendola delle potenzialità vitali. Ricorda K. Dorner (1975) in “Il borghese e il folle”: “La psichiatria si trova nella situazione dialettica di essere nello stesso tempo al servizio dell’emancipazione dell’uomo sofferente ma anche al servizio della sua integrazione sociale …una dialettica continua tra promesse emancipatrici e pretese di stabilizzazione”. Parafrasando Freud e la sua “Psicopatologia della vita quotidiana” Giovanni Jervis scrive allora della “Politica della vita quotidiana”. In realtà credo che per tutto il gruppo che ebbe la fortuna di essere allievo di Jervis a Reggio Emilia il “fare in psichiatria” abbia sempre comportato, pur nelle diversità culturali e caratteriali di ognuno di noi, un costante confronto con la Polis e il suo divenire così cangiante. Rileggendo dopo tanti anni la sua introduzione al “Manuale Critico”, ho compreso meglio come sia nato, dopo anni di lavoro a Savona, il progetto della “Bottega della Psichiatria”, al quale Jervis partecipò con una generosità che mi stupì, sostenendomi poi nella pubblicazione del testo “La Bottega della Psichiatria” (1999), testo di cui accettò volentieri di essere autore con me. Il riferimento ideale era appunto la Bottega d‟Arte che ebbe inizio nell‟Italia dei Comuni ed ebbe il suo massimo sviluppo nel rinascimento.

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Essa era un luogo di confine, sul “limite”, ma di collaborazione e confronto tra produttori e fruitori, tra molteplici conoscenze e mestieri. Nella “Bottega” risaltavano inevitabilmente le esperienze, la sensibilità e il talento individuale dell‟artigiano. Il libro evidenziava queste caratteristiche come “una conditio sine qua non” anche per l‟operare psichiatrico. Un buon operare in psichiatria avviene quando si sviluppa una prassi di lavoro clinico dove, come nella Bottega d‟Arte, pratica e teoria non procedono mai disgiunte e possono sempre confrontarsi con l‟esterno, la Piazza, che in psichiatria è rappresentata di volta in volta dalla popolazione, dai fruitori dei servizi, dai modelli culturali e scientifici, dalle altre discipline mediche, dagli altri saperi “laici” non psichiatrici. Credo che questo sia stato il mio modo di comprendere e, con tutti i miei limiti, realizzare il suo insegnamento a proposito della stretta relazione tra l‟operare in psichiatria e la politica della vita quotidiana. Mettere in relazione, fare assumere a soggetto ed oggetto, ad osservato e osservatore, nuovi rapporti e nuovi modi di porsi e di comunicare; riflettere sulle procedure, sulle strategie, sulle teorie che via via utilizziamo; essere disponibili a mutare le nostre teorie e/o credenze, quando esse si rivelino non più adeguate nel confronto con la pratica clinica, di lavoro e di studio: questo ha fatto parte della relazione d’aiuto che io ho avuto con Giovanni Jervis. E‟ stato un insegnamento discreto, talvolta così parco da apparirmi –soprattutto negli anni di Reggio Emilia - mancante. In realtà ho compreso poi come proprio questa particolare coloritura della sua relazione d‟aiuto, rispettosa, non invadente, comunque fiduciosa con discrezione realistica, abbia permesso che la nostra relazione umana perdurasse così bene nel tempo. Credo di aver percepito sempre una dimensione di reciprocità, di genuino interesse per la mia esperienza clinica e di Direttore di un Dipartimento di Salute Mentale, accettando senza alcuna difficoltà che potessi anch‟io in-segnare a lui.

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Richiamo ora le definizioni di “relazione d‟aiuto” e “psicoterapia” proposte da Giovanni Jervis. Egli in “Psicologia Dinamica” (2001) scrive: “Per relazione d’aiuto si intende qualsiasi rapporto fra due o più persone quando sia caratterizzato da una particolare divisione di ruoli, una delle due chiede aiuto, qualsiasi tipo di aiuto, e l’altra è disposta a fornirlo”. La dimensione della reciprocità, pur nell‟inevitabile assimmetria, garantisce una sufficiente salute ad una relazione d‟aiuto, anche a quelle professionali, anche a quelle particolari relazioni d‟aiuto che sono le psicoterapie psicodinamiche. In “Il problema delle psicoterapie nei Servizi Psichiatrici” in “La Bottega della Psichiatria” (1999) scrive: “La psicoterapia è qualsiasi forma di trattamento, o anche di aiuto a chi è in disagio psicologico, che sia basata sulla parola e sul rapporto reciproco. Anche la psicoanalisi è una psicoterapia. …Potremmo dire, in una maniera un po’ più precisa, che la psicoterapia è comunque un’esperienza di incontro, di incontro fra due (o più: terapie famigliari e di gruppo) persone, di incontro teorizzato, ma pur sempre un incontro”. In “Analisi psicologica delle risorse nella relazione d‟aiuto” (2007) Jervis esaminerà come si possa strutturare una relazione d‟aiuto professionale, affrontando i temi del “dono”, delle motivazioni di chi porge aiuto, delle basi neuropsicologiche dell‟empatia stessa. Egli scrive: “le nostre tendenze naturali…sono un insieme di tendenze sia egoistiche, sia altruistiche …ed anzi sono più altruistiche di quanto credessimo”. Tuttavia perché l‟altruismo non s‟inquini, non si ammali, occorrono riconoscimenti, risarcimenti per chi porta aiuto – ricorda ancora Giovanni Jervis. Questo tema è molto importante, ed apre al delicato ma essenziale problema della formazione, del sostegno psicologico costante agli operatori impegnati in relazioni d‟aiuto professionali, dove spesso la dimensione della reciprocità non è evidente e la vicinanza a pazienti così gravi è fonte di rischio di non poca sofferenza per gli operatori. Questo emergeva in modo chiaro già nel Seminario “Psichiatria, Comunità, Socio Terapia” svoltosi a Milano nel 1970, un anno prima

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che mi laureassi. La lettura di quegli atti è stata per me una vera “illuminazione sulla via di Damasco” e lo scritto di P.C.Racamier “Verso una concettualizzazione della Socioterapia ossia della cura istituzionale degli psicotici” divenne poi per me una specie di piccola Bibbia che ancora oggi consulto (2008). In un commento a quegli scritti Paolo Ferraresi (2008) scrive: “Sembra insomma opportuno che l’operatore sia sempre più sensibile e avvertito al fenomeno della comunicazione ed abbia in ogni istante presente il contesto in cui viene ad inserirsi la transazione comunicativa con il fine di porre costantemente e pazientemente l’Io del paziente a confronto con la realtà che lo circonda”. Molto tempo prima J.Connolly nel 1856 nel “Trattato del malato di mente senza mezzi costrittivi” (1976) scriveva: “E’ importante che i medici dimentichino le preoccupazioni personali, allorchè ha inizio la giornata, e siano pronti ad ascoltare con pazienza, ad investigare con imparzialità, a soccorrere con gentilezza, a sopperire infine a tutte le piccole o grandi cause di insoddisfazione cosicchè i pazienti si sentano tranquillizzati e il personale non si irriti o si scoraggi perdendo la gentilezza e la comprensione verso i pazienti…così giorno dopo giorno si avvertiranno i risultati della azione benefica di questo ritmo; giorno per giorno i disturbi mentali scompariranno e il sospetto verrà dissipato, i pensieri melanconici svaniranno, la fiducia crescerà e si rafforzerà, le propensioni naturali rinasceranno e la guarigione non sarà più lontana”. Evidenzio come Connolly sia qui sorprendentemente vicino a Bion, che parla di “reverie” come quello stato mentale della madre che le permette di accogliere il terrore proiettato del neonato. I nostri due psichiatri sono molto vicini quando Bion (1979) sottolinea come l‟oggetto delle proiezioni - la madre, ma anche il terapeuta e l‟istituzione di cura – deve possedere la capacità di accogliere e trasformare gli elementi proiettati senza lasciarsi travolgere, restituendoli al soggetto sottoforma di oggetti interni più stabili e funzioni mentali mature (funzione Alfa). Così Racamier (2008) scrive nel 1970: “La cura istituzionale si connota per la sua natura sia collettiva, sia psicologica: inevitabili peculiari aspetti di essa, rivolti alla collettività, derivano dal fatto che nel campo istituzionale è un insieme di

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persone dalle diverse competenze che amministrano la relazione col paziente, come per altro spesso i pazienti interagiscono come gruppo nella relazione con i curanti. E’ la comprensione psicologica dei rapporti e dei legami intersoggettivi nella cura istituzionale, con gli strumenti che la psicoanalisi ci offre, che ci permette di leggere, talvolta decifrare, i modi con cui questi nostri pazienti abitano, colorano, plasmano, trasformano il mondo e quella parte di mondo che è la realtà istituzionale con i suoi intrecci relazionali”. Uno dei compiti della terapia istituzionale è proprio quello di rendere possibili gli spazi fisici e mentali dove ospitare i nostri pazienti e dove mettere in opera relazioni di aiuto soddisfacenti con chi si trova in una situazione di bisogno. Edmond Jabes in “Il libro dell‟Ospitalità” (1991) scrive della possibilità di lasciare in noi (preservare) uno spazio fisico e mentale, al tempo stesso per l‟ospite e per essere ospitali: infatti l‟essere ospitali è cosa che riguarda sia l‟ospite che lo straniero che possono o non possono essere ospitali reciprocamente (2007). Lo straniero, e per straniero qui intendo proprio i nostri pazienti più complessi e le situazioni famigliari che ci appaiono impossibili, possono presentarsi ospitali al nostro incontro e noi al nostro incontro con loro, ma possono altresì presentarsi del tutto inospitali perché l‟angoscia che proviene dalla loro condizione di sradicamento e di alienazione spesso non consente loro, di esprimere la loro ospitalità, la loro possibilità di chiedere aiuto, costringendoli a rimanere chiusi, troppo estranei, talvolta irritanti. In realtà per ospitare in noi pazienti gravi come quelli psicotici, come quelli che presentano disturbi di personalità con importanti turbe comportamentali, come quelli affetti da disturbi del comportamento alimentare, da gravi melanconie o da importanti decadimenti cognitivi, è necessario rendere possibile in noi operatori e, nelle istituzioni in cui operiamo, lo spazio, soprattutto mentale, per ospitarli. Per evidenziare come questa non sia una prassi facile voglio farmi aiutare qui da Dostoevskij che ne “I fratelli Karamazov” (1879) fa dire ad Ivan, il secondo dei figli di Fedor Pavlovic, al più giovane Alesa:

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“…non ho mai potuto capire come si possa amare il prossimo. E’, appunto, chi ti sta vicino che, secondo me, è impossibile amare, chi è lontano forse si…” “Eppure vi è anche molto amore nell’uomo, ed è quasi simile all’amore di Cristo, io lo so bene, Ivan” risponde Alesia. Ivan così gli risponde: “Beh, io questo per il momento non lo so e non posso capirlo e come me l’infinita maggioranza degli uomini: l’interrogativo è questo, se dipenda dalle cattive qualità degli uomini oppure dal fatto che così è la loro natura…noi però non siamo dei. Supponiamo, per esempio, che io possa soffrire profondamente ma un altro uomo non potrà mai sapere fin dove arriva la mia sofferenza perché lui è altro da me e soprattutto perché di rado una persona è disposta a riconoscere una sofferenza altrui…i poveri, soprattutto i poveri per bene, non dovrebbero mai mostrarsi ma chiedere l’elemosina attraverso i giornali. Si può ancora amare il prossimo in astratto, e talvolta persino da lontano, ma da vicino quasi mai”. Allora sostenere la mente di chi, individuo e/o gruppo, fornisce aiuto è fondamentale perché il nostro lavoro clinico non rimanga prigioniero dell‟oggettivazione del paziente, dove egli non esiste più come persona, come “altro in relazione con noi” ma solamente come un insieme di sintomi, privo di una storia individuale, per la quale peraltro non si ha più interesse. Fa parte quindi del nostro lavoro tutelare le nostre menti di operatori anche perché - come ricorda Massimo Maraffa – in “Precarietà e malafede: note sull‟antropologia filosofica di Giovanni Jervis” – il “sentirsi esistere…il sentimento dell’unità dell’Io, della presenza di Sé a se stessi…” non sono una facoltà psicologica garantita una volta per sempre, ma sono un‟acquisizione precaria, ogni giorno faticosamente costruita. Insomma, chi è ingaggiato in una relazione d‟aiuto professionale è perennemente assediato dalla minaccia di essere riassorbito in una dimensione di precarietà dove prevale il sentimento di “non essere” . “La costruzione del benessere psichico è processo dinamico che prosegue per tutta la vita” scrive Giovanni Jervis (1993). Questo riguarda il superamento dei disturbi mentali, ma anche la tenuta mentale di un D.S.M. e dei suoi operatori.

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La Terapia Istituzionale, mantiene quindi questo doppio obiettivo “maturativo”, con realismo e senza illusioni idealistiche ma anche senza indulgere a pessimismi sulla natura umana e sulla inguaribilità, pessimismi che, se assoluti, e posti come verità indiscutibili, hanno sempre avuto una funzione autogiustificatoria per il non fare nulla o fare male. Luc Ciompi (1999) mi ricordava come fattore fondamentale di guarigione, o comunque di cambiamento, sia la capacità individuale ed istituzionale di preservare nelle nostre menti di operatori lo spazio della speranza, una speranza che non chiede risarcimenti o riscontri grandiosi ma che continua ad esistere ed è tutelata, in questa sua funzione, da un lato dalle conoscenze scientifiche che sono peraltro in mutamento continuo e dall‟altro, dalla nostra capacità di tenuta, tenuta paziente, tollerante, che sa riconoscere i nostri limiti umani ma che non si inquina nell‟esercizio di un giudicare senza apprendere e conoscere. Ricordo qui come Diego Napolitani (1991) abbia analizzato due possibili dimensioni della relazione di aiuto: quelle del “prevedere con” e del “provvedere a”, entrambe presenti anche in quelle particolari relazioni d‟aiuto che sono gli interventi terapeutici ed assistenziali in psichiatria e nelle psicoterapie. Per Napolitani “Pre-vedere” indica una capacità di vedere ciò che è davanti a se stessi in termini spaziali ed in termini di sviluppo temporale dell‟evento, all‟interno della gestione della propria personale esistenza, mentre provvedere indica una capacità di distinguere le cose “a favore di” o “al posto di” qualcun altro. La dimensione del “pre-vedere” con il paziente presuppone un processo terapeutico di bi-conoscenza, in cui non c‟è un livello gerarchico di importanza nell‟attenzione data alle dinamiche transferali e contro-transferali che si sviluppano nei due sensi della relazione (1991). Trovo utile qui richiamare ancora P.C. Racamier che da un lato evidenziava la natura comunque psicologica di ogni forma di aiuto in psichiatria, non solo in psicoterapia e dall‟altro invitava a ridurre al

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minimo, anche temporalmente - quando clinicamente corretto - la dimensione “provvidenziale” nella cura, per restituire prima possibile il volante e la guida della propria vita ai pazienti. Se riflettiamo quindi ancora sulla relazione di aiuto professionale resta una certa innaturalità in questa “disponibilità quotidiana” che, soprattutto nei pazienti affetti da patologia di lenta risoluzione o croniche, può divenire senza tempo o rischiare di essere legata al tempo angoscioso del morire. E‟ facile quindi che nell‟operatore nasca un “costo psicologico” per la sua mente. Gli antidoti più semplici a questa sofferenza restano quelli che avevo appreso già tanti anni fa lavorando con Giovanni Jervis a Reggio Emilia : a) la possibilità di lavorare in gruppo (è utile agli operatori ed ai curati in egual misura); b) una costante attività di formazione ed aggiornamento che aiuti a tollerare il patimento che nasce inevitabilmente dall‟empatia nella relazione di cura. Dobbiamo quindi saper valorizzare:

a) il sentire di essere membri di una squadra che può fare bene b) l‟avere un forte senso della propria professionalità percependo

come ogni ruolo di una equipe sia necessario per creare una relazione di aiuto integrata, necessaria ormai nella maggior parte delle nostre terapie con pazienti gravi

c) ottenere il riconoscimento, per quanto si fa positivamente, attraverso premi e miglioramenti della propria professionalità

d) infine sentire di lavorare in una istituzione efficiente ed efficace per sentire noi stessi di poter essere efficienti ed efficaci.

Avere il senso della propria efficacia e sentire che essa è riconosciuta dagli altri colleghi di staff è essenziale per sostenere la relazione di aiuto che forniscono di rado risultati felici o che comunque non li forniscono in tempi brevi. Penso allora a relazioni d‟aiuto che tollerino di non essere mai esaustive, pur nell‟attenzione empatica al paziente ed eventualmente al

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suo entourage, che mirino quindi a permettere ai nostri pazienti di muoversi più liberi e meno sofferenti nel mondo. Per fare questo, ripeto ancora, ho imparato da Jervis come sia necessario che un responsabile di staff eviti nel lavoro istituzionale lo squilibrio percepito tra il “dare” e il “ricevere”. Questa è una funzione etica, di sostegno e protezione mentale, non solo per i collaboratori, ma anche per gli assistiti, i pazienti che devono essere preservati dalle azioni iatrogene di una errata relazione di aiuto. Insomma, ricordava ancora Jervis nella sua relazione al Convegno sulla “Relazione d‟Aiuto” a Savona nel 2003, “l’operatore deve essere aiutato a riconoscere quando rischia di non subordinare più i propri bisogni a quelli della persona che sta aiutando ed a riconoscere quando tende a gratificarsi di un proprio potere sul paziente: ad esempio essere aiutato a riconoscere quando rischia di essere aggressivo, quando manifesta grosso fastidio o addirittura maleducazione nei confronti dei pazienti”. Harold Searles (1988) nel 1979 scrive “nella relazione con il paziente schizofrenico il terapeuta stesso può contribuire a fare impazzire…o comunque a mantenere piccolo, dipendente, persino non pensante il paziente…Si tratta – ricorda ancora Searles - dell’induzione nel paziente di pensieri ed azioni o della sottomissione del paziente ad un pensiero, un progetto non condiviso, di cui non è a conoscenza, sebbene gli operatori o lo psicoterapeuta coinvolti ritengano invece di intervenire con modalità terapeutiche”. Sandor Ferenczi (1932), riflettendo sulla complessità di questi movimenti emotivi che esistono in psicoanalisi, ma anche nel lavoro istituzionale ed in ogni relazione di aiuto, definiva allora il controtransfert come “l’insieme dei movimenti psicologici immaginari del terapeuta relativi all’esperienza psicologica che il paziente trasferisce su di lui,esperienza peraltro influenzata da ciò che il terapeuta gli trasmette”. Vivere allora le esperienze di essere aiutati ed anche di essere curati, introiettare e metabolizzare bene queste esperienze, permette poi relazioni d‟aiuto professionali non astratte, non fredde o dannosamente provvidenziali, per poter anche vivere e lavorare meglio.

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CONCLUSIONI Queste mie riflessioni originano tutte, comunque, dall‟esperienza personale nell‟essere stato aiutato da Giovanni Jervis a sviluppare le mie competenze professionali. Posso dire che questo “imprinting tardo”, ha in-formato il mio stile di lavoro, il mio modo di strutturare relazioni d‟aiuto professionali e modelli organizzativi di operare in psichiatria. P.C. Racamier (1999) avrebbe scritto di “Azioni parlanti” che sono in grado di promuovere cambiamenti creativi, proprio a partire dalle “azioni relazionali vissute”. Io credo di avere imparato questo modo di essere d‟aiuto ai pazienti ed alle tante equipes con le quali ho lavorato negli anni, accettando peraltro di essere continuamente aiutato da loro, riflettendo – via, via mi sembra con maggiore chiarezza – su come Jervis avesse mantenuto sempre una speranza realistica sulla mia possibilità di migliorare …dai tempi in cui mi conobbe a Reggio Emilia, allora medico ventisettenne, forse troppo certo delle mie poche conoscenze, fino ai giorni odierni. Anche a distanza, egli mi ha sempre aiutato modulando distanza e presenza, in un modo mai esaustivo, e senza occupare mai in modo pre-potente il mio spazio mentale. Mi stupisce ancora, dopo tanti anni di lavoro, come, nonostante la mia frequente inconsistenza, i miei inconsapevoli meccanismi di difesa rispetto allo spazio dell‟incontro empatico con i pazienti, sia riuscito e riesca, comunque, non di rado, ad aiutarli e ad accettare di essere aiutato da loro, garantendo quella vicinanza, talvolta anche intimità, che, soprattutto con i pazienti gravi, è difficile e spesso dolorosa. Si tratta di rimanere “presenti”, ovvero continuare a sentirsi di esistere nella vicinanza spesso bruciante o paralizzante (la medusa) con l‟altrui esistere, ancor più se è un esistere sofferente, addirittura molto sofferente come nelle psicosi, nella melanconia ed ora nell‟incontro con la sofferenza di giovani turbati da gravi disturbi di personalità. C‟è di che demoralizzarsi: eppure la storia della psichiatria è fatta anche di sorprendenti e positive “relazioni di aiuto”, positive perché se non

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danno la felicità o la guarigione, sono comunque in grado di lenire il dolore, di attutire o trasformare le nostre, pur presenti, spinte egoistiche ed aggressive. Scrive P.L. Scapicchio (2007) “dobbiamo quindi augurarci che ci ha la funzione di aiutare possegga anche la funzione del comprendere, che significa capire assumendosi il carico dell’Altro perché l’assenza del com-prendere rende false tutte le relazioni d’aiuto e potenzia la nostra tendenza all’egoismo”. Per noi operatori della psichiatria si tratta, allora ed oggi, di accettare quella “condizione erratica del camminante sine cammino” che si muove ai limiti di più campi disciplinari trasgredendo frontiere e lavorando terreni che altri hanno trascurato o usato come discarica per liberarsi di problemi che appaiono non risolvibili e quindi non scientifici. Si tratta di essere come il “Cavaliere del secchio” di Kafka di cui così ci parla Italo Calvino (1988) “…Uscire alla ricerca di un po’ di carbone, in una fredda notte del tempo di guerra, si trasforma in “quiete” di cavaliere errante, in traversata di carovana nel deserto, volo magico, al semplice dondolio del secchio vuoto: ma l’idea di questo secchio vuoto che ti solleva dal livello dove si trova l’aiuto e anche l’egoismo degli altri…apre la via a riflessioni senza fine” . Penso infine che l‟eroe di questo racconto di Kafka non sia dotato di poteri sciamanici o stregoneschi, nè che il regno al di là delle montagne di ghiaccio sia quello in cui il secchio vuoto potrà trovare di che riempirsi, tanto più che se fosse pieno non permetterebbe di volare.

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ALCUNE NOTE SU GIOVANNI JERVIS Giovanni Jervis nacque a Firenze nel 1933 ed è morto a Roma nel 2009. Conseguì la laurea in Medicina a Firenze nel 1957 e la specializzazione in Neurologia e Psichiatria a Roma nel 1960. Nel 1968 ottenne la libera docenza in Psichiatria. Dal 1959 al 1963 collaborò con l'etnologo Ernesto De Martino in ricerche sul tarantismo pugliese e sul tema culturale e psicopatologico della fine del mondo. Dal 1966 al 1969 lavorò con Franco Basaglia a Gorizia. Fece parte del primo nucleo della rivista Quaderni piacentini, con Berardinelli, Bellocchio, Fofi, Grazia Cherchi. Fu il promotore del libro che rivelò Basaglia e le sue battaglie, e cioè il volume a più voci dove si raccontava l‟esperienza di Gorizia, titolo L‟istituzione negata. Dal 1969 al 1977 fu direttore dei Servizi psichiatrici territoriali di Reggio Emilia. Fino al 2005 insegnò come ordinario di Psicologia Dinamica nella Facoltà di Psicologia dell‟Università la Sapienza di Roma. Membro del Consiglio Editoriale della casa editrice Einaudi negli anni sessanta, della casa editrici Bollati Boringhieri negli anni duemila, consulente per la Feltrinelli e la Garzanti. Mantenne una dimensione critica rispetto al modo in cui venne attuata La Legge 180, soprattutto all‟inizio. Fu comunque un clinico ed intellettuale, impegnato nello sviluppare e proporre sempre una lettura riflessiva e positivamente critica della della psicologia, della psicoanalisi, psicopatologia e dei fenomeni sociali. OPERE Le pubblicazioni principali di Jervis comprendono, oltre a numerosi articoli, e voci di enciclopedie, molti libri tra i quali: Manuale critico di Psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1975; Il buon rieducatore, Feltrinelli, Milano, 1977; Presenza e identità, Garzanti, Milano, 1984; La psicoanalisi come esercizio critico, Garzanti, Milano, 1989; Fondamenti di psicologia dinamica, Feltrinelli, Milano, 1993; Il secolo della psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999; La bottega della psichiatria: dialoghi sull'operare psichiatrico a vent'anni dalla legge 180, Bollati Boringhieri, Torino, 1999 (con Antonio M. Ferro); Pensare dritto, pensare storto: introduzione alle illusioni sociali, Bollati Boringhieri, Torino, 2007; La razionalità negata: psichiatria e antipsichiatria in Italia,: Bollati Boringhieri, Torino, 2008; (con Gilberto Corbellini).

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RIASSUNTO L‟autore descrive il pensiero di Giovanni Jervis sulla relazione d‟aiuto a partire dalla propria riflessione su come egli sia stato aiutato da Jervis stesso a sviluppare un modo di fare psichiatria che fosse sempre attento e rispettoso per “l‟Altro da noi” e per la politica della vita quotidiana. L‟obiettivo della costruzione del benessere psichico è un processo dinamico che prosegue per tutta la vita: questo riguarda anche il nostro modo di operare, da un lato per superare o almeno lenire i disturbi mentali, dall‟altro per preservare la tenuta mentale di un Dipartimento di Salute Mentale e dei suoi operatori. La terapia istituzionale mantiene quindi questo doppio obiettivo “maturativo” con realismo e senza illusioni idealistiche ma anche senza indulgere a pessimismi sulla natura umana e sull‟inguaribilità: pessimismi che troppo spesso hanno avuto ed hanno una funzione autogiustificatoria per il non fare nulla o il fare male. PAROLE CHIAVE: Relazione d‟aiuto, empatia, politica della vita quotidiana, la bottega della psichiatria. ABSTRACT The author describes Giovanni Jervis‟ thought about helping relationship starting from considering how he received inspiration from Jervis himself in developing a way of practising psychiatry which could be always careful and respectful of others and of everyday life policy. The aim of mental well being is a dynamic process that is pursued all life long: it concerns the way we work as well, on the one hand to overcome or at least to mitigate mental disorders, on the other hand to preserve the mental endurance of a Mental Health Department and its workers.

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Institutional therapy therefore maintains with realism and without idealistic illusions this double “maturity” goal, and consequently without indulging on pessimism on human nature and on incurability: these pessimisms too often have had and still have an auto-justifying function for doing nothing or doing wrong. KEY WORDS: Helping relationship, empathy, everyday life policy, the psychiatrist‟s workshop.

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Appunti di viaggio

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Cesare Romano2

LA PSICOSI DI LAIO E IL TRANSGENERAZIONALE

In questo scritto proseguirò la lettura del mito di Edipo iniziata in un precedente lavoroi, nel quale mi ero occupato prevalentemente dell‟infanzia di Edipo come “bambino mal accolto”; qui mi occuperò anche di Laio, individuando nella sua storia passata l‟espressione di una psicosi latente che la nascita di Edipo porterà drammaticamente alla luce inducendolo al comportamento infanticida. Continuerò a leggere il mito come se si trattasse di un caso clinico e tenterò di rivisitare le vicende di Laio ed Edipo alla luce della nozione di trasmissione transgenerazionale. Questo comporterà necessariamente uno slittamento dal registro intrapsichico della interpretazione freudiana classica del mito a quello interpersonale. Del resto, come ha osservato bene Nicolò Corigliano (1996), l‟interesse crescente della psicoanalisi per le dimensioni transgenerazionali ha comportato «uno spostamento radicale dell’ottica da una dimensione intrapsichica allo studio dei rapporti tra l’intrapsichico e l’interpersonale» (p. 1). Nel corso di questo scritto farò più volte riferimento ad Aulagnier (1975), la quale considera la realtà storica come «quell’insieme di eventi realmente accaduti nell’infanzia del soggetto e che (…) hanno svolto un’azione specifica sul destino della psiche» (p. 295), ma riconosce anche che il «posto dato alla realtà storica non implica nessuna svalutazione del ruolo svolto dall’originario e dal fantasma inconscio (…)» (p. 345). Il mito di Edipo, con il suo intreccio di generazioni, con il segreto che grava sulle origini di Edipo, con le due famiglie di Tebe e di Corinto, con un padre, Laio, ed un figlio, Edipo, adottati in tenera età, mi ha

2 Psichiatra e psicoterapeuta del D.S.M. dell‟A.S.L. 16 del Veneto.

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suggerito la possibilità di vedervi rappresentato il paradigma della trasmissione psichica tra le generazioni piuttosto che quello del conflitto nevrotico. Tale possibilità appare ancora più evidente adottando l‟interpretazione anamorfica che della tragedia ha dato Maiullari (1999), ove per “anamorfico” si intende il doppio registro sul quale viene giocata l‟intera tragedia e la lettura di questo “doppio”, come avviene nel sogno per il contenuto onirico manifesto e per quello latente. Nell‟ambito della mitografia è stato più volte evidenziato il doppio messaggio contenuto nella tragedia greca, e Vernant (1975) ha sottolineato come l’Edipo Re di Sofocle sia la tragedia più rappresentativa di questa anfibologia. Anche in ambito psicoanalitico Nicolò Corigliano (1996) ha riconosciuto nel campo del transgenerazionale questo «doppio registro rappresentativo i cui effetti più rilevanti riguardano l’identità del soggetto, dato che uno dei due è in relazione con il segreto e con la realtà sequestrata che esso rappresenta. La continua parallela convivenza di questi due registri dentro la famiglia e dentro il soggetto crea il perpetuarsi di uno stato di scissione difficilmente superabile perché un’integrazione presupporrebbe la possibilità per il soggetto di integrare un aspetto alienante e sequestrato che non appartiene alla sua storia e che egli non ha mai conosciuto personalmente» (p. 6). L‟ipotesi formulata da Maiullari (1999), è debitrice di una erudita critica testuale, e ci conduce a ritenere che «la tragedia non sia da considerare doppia solo in numerose sue espressioni, ma sia da considerarsi doppia nel suo insieme, cioè è come se si trattasse di un racconto con una doppia cifra di lettura, di cui quella superficiale è esposta in piena luce, mentre l’altra profonda è nascosta in piena luce: la prima cifra parla del non-sapere dei personaggi, la seconda cifra parla del sapere dei personaggi» (p. 2). L‟autore sottolinea a più riprese il ruolo dell‟omertà nella tragedia, di cui si fa interprete soprattutto Giocasta, e conclude che «nell’Edipo Re tutti sanno molto, molti sanno tutto, tutti fanno finta di non sapere» (p. 3). Farò spesso riferimento a questa interpretazione anamorfica perché è quella che meglio di ogni altra si accorda con la mia lettura della tragedia e del mito nell‟ottica

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transgenerazionale, smascherando i molteplici occultamenti di un segreto familiare che è all‟origine del destino tragico di Edipo. Uno degli elementi centrali della tragedia è costituito proprio da quei segreti familiari che molti conoscono ma di cui nessuno parla: l‟infanticidio, l‟adozione, il parricidio e l‟incesto, quest‟ultimo il più occultato, persino dalla risposta che l‟oracolo dà a Laio. Come osserva giustamente De Simone (2008) «Edipo è due volte orfano: la famiglia di Tebe e quella di Corinto mostrano ognuna quello che una famiglia non deve essere» (p. 65). Entrambe le famiglie occultano un dato originario fondamentale per il costituirsi dell‟identità di Edipo: la famiglia di Tebe occulta il rifiuto della filiazione e l‟infanticidio, quella di Corinto l‟adozione. De Simone (2008), prendendo a prestito un termine coniato da Racamier, definisce questi segreti “antilibidici”, poiché non si riferiscono alla sfera della sessualità ma «a fattori tenuti deliberatamente nascosti, lasciati a sé, non simbolizzabili e non elaborabili e che irrompono violentemente nella sfera psichica» (p. 65). Il concetto di segreto antilibidico mi sembra importante per far comprendere che Edipo non è bandito dalla sessualità dei genitori di Tebe o di Corinto, egli è bandito da una scena primaria ben più importante che ha a che fare con il suo stesso concepimento e con la filiazione, è bandito da quel sapere dei genitori che è costitutivo della sua genealogia e della sua identità e che gli consentirebbe di inscriversi all‟interno di una linea generazionale. Kaës (2008) ha sostenuto che «quello che si trasmette è un messaggio inconscio trasmesso, senza trasformazione, di generazione in generazione e depositato in quel bambino specifico sotto forma di un trauma cumulativo transgenerazionale. Questa trasmissione destinale prende la forma di una compulsione a trasmettere l’ineluttabile, e le figure della tragedia greca evocano qui, in modo particolare, quello che, in questa trasmissione implacabile, si appoggia sulla pulsione di morte. Il bambino destinale è l’agente di quel tragico di cui la famiglia, attraverso più e più generazioni, è stata l’attore. Le ricerche su questi bambini hanno messo in evidenza che, andando indietro nella catena della trasmissione, questi bambini catalizzano il male e svelano i traumi della storia familiare. La questione che si pone è di sapere

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che cosa predestina questi bambini ad essere i depositari e i portatori dell’ineluttabile e del tragico, a essere depositari e agenti di traumi» (p. 32). E‟ inutile dire che questo bambino destinale portatore di una tragica genealogia è per me Edipo, di cui ho mostrato altrove i rapporti tra la cattiva accoglienza familiare e il manifestarsi della pulsione di morte (Romano, 2009). Se nel mito il bambino abbandonato, il figlio non riconosciuto è depositario di un destino tragico e catalizza su di sé il male di tre generazioni per effetto di una profezia, nella mia lettura clinica del mito cercherò di mostrare come Edipo sia il portatore di una trasmissione generazionale attraverso la quale si trasmette il negativo, la psicosi paterna e la morte psichica. Per tale motivo mi soffermerò con una insistenza che potrebbe sembrare prolissa sulla genealogia di Laio e sulla stirpe dei Labdacidi. Il mio punto di partenza sarà la psicosi di Laio, riconosciuta da più di qualche autore (Ross, 1982; Dalle Lucche, 2002; Schmidt-Hellerau, 2008), e per sostenere le mie ipotesi mi avvarrò delle acute osservazioni cliniche di Micheline Enriquez (1993; 1993a) intorno ad alcuni casi clinici che mi sono sembrati particolarmente adatti a rileggere le vicende di Edipo in termini di trasmissione transgenerazionale della psicosi paterna. Comincerò pertanto a raccogliere, come in una accurata anamnesi, il maggior numero possibile di notizie riguardo agli antenati di Laio e alla stirpe da cui discende, i Labdacidi, come se dovessi ricostruire la genealogia familiare di un paziente. La genealogia di Laio «Nella genealogia di Edipo si incrociano delle linee maledette, che mescolano l’incesto, il cannibalismo, l’infanticidio, il parricidio, l’omosessualità. Tali azioni segnano definitivamente i discendenti e non possono essere cancellate dai sacrifici espiatori che costellano la loro storia» (Arfoilloux, 1993). Il destino tragico della stirpe di Laio cominciò con la discendenza di Cadmo e Armonia. Cadmo, il fondatore di Tebe, era uno straniero, un fenicio, figlio di Agenore, re di Tiro, e di Telefassa, i quali ebbero cinque figli. Cadmo, che avrà anche lui cinque figli come suo padre,

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aveva come fratelli Fenice, Cilice, Taso e la sorella Europa, che fu rapita da Zeus presentatosi in forma di toro sulla spiaggia di Tiro dove Europa stava passeggiando con le sue compagne. Il re di Tiro mobilitò tutta la sua famiglia alla ricerca della bella Europa, e dopo vane ricerche che costarono la vita alla madre Telefassa, Cadmo andò a consultare l‟oracolo di Delfi, che lo invitò a seguire una giovenca con due macchie di luna piena sui fianchi ordinandogli di fondare una città dove la giovenca, esausta per il viaggio, si fosse adagiata a riposare. Così nacque la città di Tebe. Ma ancor prima che questa sorgesse, la pianura dove Cadmo fonderà la città sarà cosparsa del sangue degli Sparti. Quando la giovenca si fermò indicando a Cadmo il luogo dove doveva sorgere Tebe, egli volle fare un sacrificio propiziatorio alla dea Atena sacrificando sul luogo la giovenca che l‟aveva guidato. Mandò i suoi compagni a prendere dell‟acqua alla sorgente di Ares, la quale però era custodita dal figlio del dio, un feroce drago che li sterminò. Rimasto solo, Cadmo affrontò e uccise il drago e Atena gli ordinò di seminare i suoi denti sulla pianura come fossero sementi. Da quelle sementi nacquero degli uomini armati di tutto punto, dei feroci guerrieri chiamati Sparti, gli “uomini seminati”ii, i quali si affrontarono l‟un l‟altro trucidandosi. Ne sopravvissero soltanto cinque, e furono i primi autoctoni tebani; Ctonio, Udeo, Peloro, Iperenore, Echione. Quest‟ultimo sarà lo sposo di Agave, una delle quattro figlie di Cadmo e Armonia, da cui discenderà Giocasta. Vernant (1999) dirà di loro: «Sono esseri mostruosi, terrestri, notturni, oscuri e guerrieri» (p. 145). I cinque Sparti sopravvissuti aiutarono Cadmo a costruire la città. Ma questa doveva venire popolata, e dunque Cadmo doveva avere una discendenza, pertanto gli fu data in sposa la dea Armonia, figlia di Ares e Afrodite, dalla quale ebbe quattro figlie e un figlio. Dal maschio Polidoro discese la stirpe di Labdaco, Laio ed Edipo, una “discendenza di zoppi”. La linea che discenderà da Agave ed Echione non sarà meno inquietante. Fin dalla sua fondazione la città di Tebe fu compromessa con presenze divine ambivalenti. Gli dei presenzieranno alle nozze di Cadmo con la

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divina Armonia ma porteranno al banchetto nuziale “doni malefici” che causeranno la rovina di coloro che li erediteranno (Vernant, 1999). Dioniso, figlio di Semele e di Zeus, dio errante che la madre non fece in tempo a dare alla luce perché fulminata da Zeus, il quale porterà a termine nella propria coscia la gravidanza del figlio, al suo rientro a Tebe, sua città natale, porterà solo calamità. Agave, zia di Dioniso in quanto sorella di sua madre Semele, aveva sposato Echione, uno dei Seminati sopravissuti, e da questi aveva avuto il figlio Penteo, che forse non conobbe il padre che morì poco dopo la sua nascita. Quando Dioniso rientra, da giovane adulto, nella città natale, coinvolgerà Agave e molte altre donne tebane nei suoi riti, che si svolgono sul famigerato monte Citerone, dove verrà esposto il piccolo Edipo. Penteo, figlio di Agave, è in quel momento il re di Tebe, e Dioniso è un suo cugino germano. Il dio convincerà Penteo a comportarsi da voyeur, come dice Vernant (1999), e lo condurrà nei boschi del Citerone per osservare di nascosto la madre Agave e le altre donne tebane e i loro riti dionisiaci. Ma la curiosità tradirà Penteo, il quale si farà vedere da Agave e dalle sue compagne, le quali, da tranquille officianti di un rito che le mette in sintonia con la natura, si trasformano in donne violente e sanguinarie, si gettano su Penteo e lo fanno a pezzi, e Agave esultante rientra a Tebe con la testa del figlio infilzata su un ramo di tirso. A nulla erano valsi i tentativi di Penteo di farsi riconoscere dalla madre, ormai invasata da una follia dionisiaca. Il vecchio Cadmo, che già aveva dovuto sopportare la morte della figlia Semele, dovrà affrontare anche la follia di un‟altra figlia e lo scempio del nipote. Quando Agave ritorna in sé e si rende conto del suo delitto, fugge dalla città in un volontario esilio, e Cadmo la segue in questo destino. Le altre due figlie di Cadmo e Armonia non ebbero un destino migliore delle loro sorelle. Autonoe dovette un giorno raccogliere le ossa del figlio Atteone, e Ino si gettò in mare assieme al figlio Palemone. Poiché Laio rimase orfano di padre all‟età di un anno, bisogna seguire anche la stirpe dei Pelopidi per avere un‟idea più completa dell‟infanzia del padre di Edipo, poiché egli fu accolto come figlio adottivo dal re

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Pelope. Athanassiou (1993) ha messo in evidenza la presenza di una omosessualità mal integrata nella discendenza dei Pelopidi che ha le sue lontane origini già in Tantalo, padre di Pelope, e osserva che Laio, quando arriva alla corte di Pelope, sarà nella posizione di ricevere e assorbire questa eredità omosessuale. Io credo, però, che si debba notare che l‟omosessualità che percorre anche la linea dei Labdacidi potrebbe essere l‟esito di una discendenza deprivata della figura paterna. Sia Labdaco che Laio sono precocemente orfani di padre e dunque non hanno potuto confrontarsi con la figura paterna. Se Laio fu allevato fin da giovane, o addirittura in età infantile, alla corte di Pelopeiii, non ebbe certamente nel re del Peloponneso un buon modello educativo, in quanto egli stesso fin dall‟infanzia fu fortemente traumatizzato e dominato in età adulta da una coazione a ripetere i suoi traumi infantili. Calasso (1994) afferma che la storia di Pelope e dei Pelopidi è «la fondazione di un dissesto insanabile, una sequenza di vendette familiari, maledizioni che si ripercuotono, gesti che ritornano coattivamente, inganni omicidi» (p. 202). Pelope fu fatto a pezzi dal padre Tantalo, cucinato e offerto in pasto agli dei, i quali si astennero dal consumare quella carne umana, tranne Demetra, che ne assaggiò la scapola. Zeus si infuriò per quel banchetto offensivo e ordinò a Hermes di raccogliere i pezzi del corpo di Pelope e alla moira Cleto di ricucirli insieme. Demetra rimediò al danno da lei ingenuamente causato donando a Pelope una scapola d‟avorio, e Rea gli restituì il respiro. Non fece in tempo a godere del trionfo di questa rinascita che Poseidone, conquistato dalla sua bellezza, lo rapì e fuggì con lui sull‟Olimpo per farne il suo coppiere e il suo amante. «Dopo aver soggiornato – non sappiamo quanto a lungo – presso Poseidone, Pelope si trovò alla testa del regno paterno» (Calasso, 1994, p. 203). Giovane adulto, Pelope attraversò il mare in cerca di moglie, e la trovò in Ippodamia (la “domatrice di cavalli”), figlia di Enomao, re di Olimpia, che aveva con la figlia un rapporto incestuoso. Il futuro sposo di Ippodamia avrebbe dovuto superare in velocità i cavalli che Ares aveva donato a Enomao. Le teste dei tredici pretendenti che avevano preceduto Pelope

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accompagnavano come un severo monito chi entrava nel palazzo di Enomao. Pelope, che aveva superato l‟attacco omicida e cannibalico del padre Tantalo e aveva sopportato per anni la pedofilia di Poseidone, affrontò la prova con quella megalomania che gli derivava dall‟aver superato un trauma impossibile da affrontare senza il favore degli dei, e nella gara mise a frutto l‟arte dell‟inganno appresa dal padre. Convinse Mirtilo, l‟auriga di Enomao, a manomettere il carro del suo padrone promettendogli in cambio il corpo di Ippodamia. Invocò il suo passato abusatore, Poseidone, perché gli donasse i suoi cavalli alati, e una volta vinta la gara con la complicità di Ippodamia, uccise Mirtilo, che morendo maledisse la sua stirpe. Ippodamia diede ventidue figli a Pelope, ma questi ebbe un figlio anche dalla ninfa Axioche, ed era il bellissimo Crisippo, rapito a sua volta da Laio. Ippodamia, gelosa di questo figlio bastardo che il padre preferiva alla schiera dei legittimi, istigò i propri figli preferiti, Atreo e Tieste, a uccidere Crisippo, ma poi fu lei stessa a trafiggerlo con la spada di Laio nel letto del suo amante. Laio appare dunque non solo l‟erede di una omosessualità mal integrata, ma anche l‟erede di una violenza altrettanto mal integrata e di un rifiuto della filiazione inscritto nel corpo stesso del suo genitore adottivo Pelope, in quella scapola d‟avorio che sarà il marchio della violenza e del rifiuto paterno, così come in seguito Edipo porterà nelle sue caviglie il segno di un analogo rifiuto. C‟è una strana assenza delle madri in questi misfatti paterni, o una loro silenziosa complicità. Se Giocasta accetta che il piccolo Edipo venga esposto alle fiere del Citerone dopo averlo portato in grembo per nove mesi, dove era Eurianassa, la madre di Pelope, mentre Tantalo ne faceva un bollito per gli dei? All‟origine di queste generazioni che si incrociano di genitori biologici e di genitori adottivi c‟è la trasmissione transgenerazionale della maledizione nei confronti della generazione successiva. All‟inizio c‟è la maledizione di Zeus nei confronti del proprio figlio Tantalo per il banchetto umano, poi quella di Enomao contro Mirtilo per il suo tradimento mortale, quella di Mirtilo contro il suo assassino Pelope,

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quella di Pelope contro la moglie Ippodamia e i figli, Tieste e Atreo, per l‟uccisione di Crisippo, e secondo altre versioni del mito, anche quella di Pelope contro Laio per il rapimento di Crisippo e la sua morte. Questa maledizione di Pelope verso Laio è addirittura antecedente alla maledizione e alla predizione dell‟oracolo delfico. Secondo una delle tante versioni del mito, l‟oracolo di Delfi che preannuncia a Laio la nascita di un figlio parricida non è altro che la ratifica, da parte di Zeus stesso, di quella prima maledizione lanciata da Pelope (Kerényi, 1963, vol. 2, 99).iv E infine c‟è la maledizione di Edipo verso i propri figli maschi, Eteocle e Polinice, destinati a concludere con la morte reciproca la stirpe dei Labdacidi. Maledizioni, dunque, che si trasmettono di padre in figlio ma che attraversano anche generazioni diverse, che passano dai padri adottivi ai figli adottivi, come quella di Pelope verso Laio, maledizioni che passano da una stirpe all‟altra, dai Pelopidi ai Labdacidi.

Parricidio e incesto come eredità della psicosi paterna. Questa specie di anamnesi familiare ci induce a mettere in relazione gli aspetti patologici del carattere di Laio con fattori genealogici ed esperienze di vita. Faimberg (1993) afferma che se «si esamina il mito di Edipo nella sua totalità, e non parzialmente, si vede chiaramente che l’atto del parricidio perpetrato nella realtà da Edipo è l’esito di un processo complesso» (p. 185), e per spiegare tale processo introduce il concetto di configurazione edipica, termine con il quale si riferisce non solo alla relazione del bambino con i genitori, ma anche a quella dei genitori col bambino. Il concetto di configurazione edipica comprende: a) il complesso edipico in senso stretto con i desideri inconsci (di morte e incestuosi) verso i genitori; b) l‟organizzazione dei conflitti edipici dipendente dall‟interpretazione che il paziente dà nel suo mondo interno del «modo in cui i genitori hanno riconosciuto la sua “alterità” e che cosa significa per loro il fatto che egli sia maschio o femmina […] Il concetto di configurazione edipica include appunto questa costellazione filiale, questa relazione tra le generazioni» (p. 186).

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Seguendo questa linea di pensiero, cercherò di mostrare come il comportamento parricida e incestuoso di Edipo possa essere interpretato quale conseguenza della trasmissione transgenerazionale della psicosi paterna e della violenza infanticida di Laio occultata da un segreto familiare che la trasforma in un trapianto estraneo alienante rispetto alla storia personale di Edipo. Vari autori, che pur non fanno riferimento ad interpretazioni psicoanalitiche del mito, hanno sottolineato con costanza l‟aspetto della confusione e della trasgressione generazionale (Vernant, 1986; Paduano, 2009; Guidorizzi, 2004). Nella stirpe dei Labdacidi, sia Labdaco che Laio saranno precocemente orfani di padre, ed Edipo potrà considerarsi orfano di entrambi i genitori. Queste precoci scomparse delle figure paterne non possono essere senza conseguenze sui discendenti. Innanzitutto dovremmo chiederci in che modo Laio elaborò il lutto per la morte del padre. La precoce perdita del padre privò Laio di una persona da amare e dalla quale essere amato. Possiamo immaginare che il lutto sia stato qualcosa di non rappresentabile per un bambino di un anno, e che il piccolo Laio non abbia manifestato allora reazioni di dolore o sentimenti di disperazione, ma semplicemente un «sentimento di non esistere, di non avere significato per altri, di non contare niente», vivendo in un “lutto sospeso” (Vallino, 2007, p. 186). Si potrebbe allora supporre che il ratto di Crisippo da parte di Laio sia stata la sua modalità, seppure tardiva e patologica, di elaborare il lutto per la morte del padre, ritrovando in Crisippo una persona da amare e dalla quale essere amato, identificandosi in un ruolo paterno, di educatore del giovane, e riparando così in qualche modo la perdita. La tragica fine di Crisippo caricò Laio di un altro lutto, sicché entrambe le perdite potrebbero essere state all‟origine dell‟ambivalenza di Laio rispetto a paternità e filiazione. Il lutto per la morte di Crisippo potrebbe avere riattivato anche il lutto per la morte del padre probabilmente mai elaborato prima. Il piccolo orfano Laio sviluppò forse la convinzione che la sua nascita avesse determinato la morte del padre, trovandosi quindi a fare i conti

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con quello che Freud chiamava il senso di colpa del sopravvissuto?v Questa ipotesi potrebbe essere plausibile, se pensiamo che nel momento in cui Laio dovette affrontare la propria paternità sviluppò quello che potremmo definire un delirio persecutorio il cui contenuto era che il figlio nascituro lo avrebbe ucciso e avrebbe preso il suo posto presso la madre. Questo delirio era tanto più credibile in quanto si era manifestato tempo prima attraverso l‟autorevole voce dell‟oracolo di Delfi. Nel momento in cui Laio dovette affrontare il problema reale di una paternità inattesa è come se si fosse riattivata la fantasia infantile che la nascita di un bambino determina la morte del padre, per cui la sua futura paternità venne gravata da un pericolo mortale. La Enriquez (1993) riporta due casi clinici nei quali «la nascita di un figlio ha provocato nel genitore dello stesso sesso un effetto di rottura catastrofica nel senso della continuità storica che eccede di molto gli effetti di sconvolgimento libidico e identificatorio inerente a ogni nascita. Questa, infatti, ha precipitato il padre del bambino in una psicosi manifesta e l’ha indotto a costruire un delirio. Ciò dice che l’incontro con la paternità si realizza allo stesso tempo nell’espressione proiettiva di un desiderio di morte nei riguardi del bambino e nell’emergere di una minaccia di morte per il padre che emana da una potenza paterna (o affine) primitiva, che interdice ogni successione generazionale» (p. 109). Potremmo assumere che nella vicenda di Edipo la nascita del bambino abbia precipitato Laio in una catastrofe psichica che è all‟origine dell‟infanticidio, catastrofe che si insedia in un soggetto già psichicamente perverso come testimonia la sua precedente esperienza pedofila con Crisippo. Dobbiamo inoltre tenere presente che Laio visse la sua adolescenza, se non addirittura anche l‟infanzia, presso Pelope che aveva subito traumi che avevano lasciato nella sua personalità tratti sadici e omosessuali e, diremmo oggi, un narcisismo patologico. Laio, poi, ripeterà sul proprio figlio Edipo quel gesto infanticida che Tantalo aveva perpetrato nei confronti del figlio Pelope. Seguirò per un po‟ le considerazioni della Enriquez sui suoi casi clinici perché le concordanze con la storia di Edipo sono stupefacenti e ben si adattano alla mia lettura del mito come un caso clinico. Afferma ancora

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la Enriquez: «Mi sembra impossibile che il bambino, che come ogni bambino possiamo immaginare alla ricerca delle proprie origini, non abbia sentore, una volta o l’altra, degli avvenimenti della sua nascita e che non si trovi incastrato in una posizione identificatoria che lo coglie sul fatto come causa della follia genitoriale, fosse pure, nel migliore dei casi, passeggera. Fino a che punto la critica in materia può essere spinta, dal momento che la posizione tenuta dal bambino, ossia di avere avuto il potere di rendere folle l’altro, comporta un innegabile granello di verità?» (1993, p. 109). Edipo ha vissuto la propria infanzia all‟interno di una famiglia adottiva che gli ha celato la verità sulle sue origini, e che ha mentito quando l‟adolescente Edipo, insultato da quel commensale che gli aveva rinfacciato di non essere figlio del re Polibo, ha voluto interrogare esplicitamente i genitori sulla propria nascita. Ma in quel momento un dubbio riguardo alle proprie origini si insinua nella mente di Edipo, che andrà a interrogare l‟oracolo. Edipo descriverà con parole ambigue la propria infanzia, dicendo (vv. 1394-1397):

Ah, Polibo e Corinto e antiche case, paterne

solo di nome, quale stupendo malefico bubbone avete dunque nutrito, allevandomi con cura.

Ecco che mi colgo marcio e dalle radici marce. vi

Maiullari (1999) afferma che Edipo, sotto la sua apparenza di nobiltà, nasconde «una piaga segreta: e questa piaga era non solo (in senso proprio) la deformazione alle caviglie, ma anche tutto il male che doveva maturare in lui» (p. 435). Questa piaga segreta è interpretata da Serra (1994) come la cicatrice che nasconde il marcio, per cui la sua «bella giovinezza nella reggia di Polibo» fu «bella in apparenza, ma segretamente marcia» (p. 18 nota 23). Questi versi, come molti dei versi sofoclei secondo l‟interpretazione di Maiullari (1999), si possono interpretare in due modi: secondo una lezione più “forte”, che è quella del Serra, secondo cui l‟educazione data da Polibo era segretamente marcia, il che confermerebbe quella genealogia traumatica che ho messo in evidenza più sopra; secondo

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una lezione più “debole” quelle “case paterne solo di nome” non andrebbe inteso in senso morale ma preso alla lettera, come famiglia adottiva, per cui la “piaga segreta”, il “malefico bubbone” sarebbe l‟eredità che proviene da Laio e dai suoi antenati (le “radici marce”), un lascito generazionale che l‟educazione nella famiglia adottiva non è riuscita ad evitare o ad attenuare. La megalomania inconscia di Edipo, che si manifesta a tratti nel corso della sua indagine e nell‟arroganza con cui tratta non solo i sudditi ma anche il cognato Creonte, è forse la manifestazione di una oscura e inconscia percezione di avere avuto il potere, con la sua nascita, di rendere folle il padre? «Questo potere malefico, percepito in modo confuso, richiamato magari in circostanze familiari tempestose, rischia di suscitare un senso di colpa sacrificale a tonalità espiatoria che nessun tentativo di riparazione potrà veramente appagare salvo il sacrificio della propria vita fisica o mentale» (Enriquez, 1993, p. 110). Qui potrebbe essere racchiuso un altro significato di quel gesto automutilante di Edipo che si acceca, il suo essere un gesto di espiazione non solo per la colpa del parricidio, ma per quella colpa ben più originaria e oscuramente percepita di avere reso folle il padre con la propria nascita. Seguo ancora le riflessioni della Enriquez (1993a) su questo tema: «Questi genitori folli e traumatizzanti favoriscono nel bambino l’esplosione, la frammentazione psichica. Il bambino, spinto dall’urgenza della vita, per far fronte (se ne è capace) alla situazione, tenta di recuperarsi come soggetto elaborando una posizione di desiderio e di colpevolezza ponendosi e identificandosi come la causa di. La confusione tra causalità e senso di colpa gioca in pieno nella speranza di salvaguardare il postulato della supposta innocenza dei genitori: sono io la causa della follia dei miei genitori, io devo riparare, ecc. Ciò è tanto più grave perché manifestamente è stata la loro nascita la causa scatenante, donde la comparsa di un senso di colpa vissuto in modo megalomanico e di un desiderio – ancora una volta megalomanico – di offrirsi in sacrificio» (pp. 158-159). Senso di colpa e autosacrificio megalomanici sono presenti anche in Edipo e basta rileggere qualche passo della tragedia sofoclea per averne una conferma.

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«Aver risvegliato nel genitore, con la propria nascita – prosegue la Enriquez (1993) – un desiderio di morte nei riguardi della generazione che oltretutto può esprimersi solo attraverso un delirio che lo imputa a un altro o a degli altri, crea – è il meno che si possa dire – una spaventosa confusione nelle concezioni che un soggetto può farsi sull’eredità e sulla trasmissione tra le generazioni» (p. 110). Allora qui possiamo supporre di poter rintracciare il vero motivo per il quale Edipo sposa la propria madre. Al di là del fatto che Edipo non manifesta alcun desiderio nei confronti di Giocastavii che, potremmo dire, ottiene alla stregua di tutti gli altri beni appartenuti al re Laio, suo padre, come premio per avere risolto l‟enigma della Sfinge,viii dobbiamo ammettere che egli è dominato da una estrema confusione riguardo alle generazioni che gli impedisce di riconoscere la propria madre. Parricidio e incesto sembrano essere allora la tragica conseguenza di questa confusione tra le generazioniix. Faimberg (2006), d‟altronde, osserva che l‟incertezza di Edipo riguardo alla propria genealogia è decisiva per il compimento della profezia (p. 100). Se seguiamo ancora la Enriquez, possiamo affermare che questo padre delirante che concepisce un desiderio di morte nei confronti del figlio e lo imputa a un altro o ad altri è proprio Laio, che concepisce l‟infanticidio ma lo imputa alla volontà di un altro, alla voce oracolare del dio che gli predice la morte per mano del figlio, che è anche la voce delirante persecutoria di quella follia nella quale l‟ha gettato la nascita di un figlio. Se, come osserva ancora la Enriquez, il bambino si trova preso in un «incontro precoce con un delirio di persecuzione in cui dominano i temi di distruzione di una generazione da parte dell’altra […], il bambino verrà messo a confronto con una teoria delirante sull’origine che contraddice i legami simbolici della parentela e i desideri di trasmissione e di genealogia. È di gran lunga il caso più micidiale giacché il discorso che veicola enuncia che il solo fatto di venire al mondo risveglia in un altro o in altri, di un’altra generazione ma nella stessa famiglia, un desiderio di uccisione nei riguardi del bambino e del suo genitore appunto perché diventato genitore di quel bambino» (p. 113). Se rileggiamo le vicende di Edipo alla luce di queste considerazioni e come se anche il mito fosse una storia clinica, allora le dinamiche che

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legano Laio ed Edipo in una relazione in cui ognuno concepisce la morte dell‟altro come correlata alla nascita di un bambino che rende folle il genitore dello stesso sesso non ci appaiono più come la metafora del conflitto nevrotico, ma come la metafora di una “eredità delirante”, della trasmissione transgenerazionale del delirio dal padre psicotico al figlio. Se adottiamo il concetto di configurazione edipica coniato da Faimberg, con il quale questa autrice, come abbiamo visto, ampliando il concetto freudiano di complesso edipico, si riferisce non solo alla relazione del bambino con i genitori ma anche a quella dei genitori con il bambino, allora nel mito di Edipo non sarà messo in luce solo il parricidio e l‟incesto, ma anche il tentato infanticidio dei genitori. Con la nozione di configurazione edipica Faimberg mette in luce quell‟aspetto che nella nozione di complesso edipico rimaneva occultato, così come, in fondo, rimane occultato anche nella tragedia di Sofocle. Il complesso edipico pone l‟accento soltanto su un lato della configurazione edipica, quello che riguarda la relazione del bambino con i genitori e i suoi desideri di morte e incestuosi. Ma «dall’altro lato, il paziente ha nel suo mondo interno una certa versione di come i genitori hanno riconosciuto la sua “alterità” e il significato che ha avuto per loro che il paziente sia un maschio o una femmina. Questa versione ha conseguenze sul modo in cui il paziente organizza i suoi conflitti edipici» (p. 77). La paranoia di Edipo Piera Aulagnier (1975), parlando della paranoia, ha cercato di «mostrare in che modo un “odio percepito” segni il destino di questi soggetti e diventi il perno intorno al quale si elabora la loro teoria sull’origine. Odio che, come una strega, si china sulla loro culla fin dal loro ingresso nel mondo: il resto della loro esistenza non sarà che una lotta ad armi impari contro quel maleficio che li perseguita inesorabilmente» (p. 307). Non credo si potrebbe trovare modo migliore per alludere alla storia e al destino di Edipo dalla sua nascita ai suoi ultimi giorni.

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Seguendo la teorizzazione di Aulagnier (1975), la coppia genitoriale del paranoico esclude ogni forma di godimento, sostituita dall‟erotizzazione di un conflitto e di una animosità che arriva fino all‟odio. Pertanto, per il soggetto paranoico, più «sulla scena esterna compaiono manifestazioni simili all’odio, più la loro equivalenza e la loro identità con quel vissuto ch’egli conosce bene saranno accentuate e quindi difficili da rimettere in discussione» (p. 333). Questo è esattamente quanto accade ad Edipo nell‟incontro con i suoi principali interlocutori, Creonte e Tiresia. Il figlio di una coppia genitoriale nella quale «provare il desiderio, provare il conflitto, provare l‟odio» si equivalgono, si percepisce come generato dal conflitto e dall‟odio. «Se l’origine dell’esistenza – di sé come del mondo, mai separabili fra loro – rimanda allo stato di odio, ci si potrà preservare vivi e si potrà preservare il mondo come esistente solo finché persiste qualcosa da “odiare” e qualcuno che vi “odia”» (p. 334). Edipo, forse generato solo dal desiderio materno e frutto di un inganno o di un malinteso, dovette sperimentare su di sé fin dai suoi primi giorni che l‟origine della sua esistenza rimandava all‟odio, odio del padre innanzitutto, ma prima ancora del suo concepimento l‟odio di Pelope e del dio Apollo che avevano maledetto il seme di Laio. Procedendo nella teorizzazione di Aulagnier (1975) non possiamo fare a meno di leggere le sue parole senza ripensare ad ogni passo al carattere e alle vicende di Edipo e scopriamo quanto si addica sempre più a questa figura tragica la definizione di “carattere paranoico”. «Esso designa quell’insieme di caratteristiche rappresentate da una certa rigidità, una certa diffidenza, dalla convinzione dei propri diritti e del proprio sapere, cioè quell’insieme di copertura del quale la cosa più rigida è l’apparenza e che lascia intravedere, dietro le quinte, l’abisso in cui ad ogni passo questi soggetti rischiano di cadere. Quando il passo si trasforma in passo falso si costituirà la sistematizzazione del pensiero delirante primario; il mondo diventerà così come il delirio paranoico lo rimodella, affinché la mancanza di senso della situazione in cui la sua nascita lo ha proiettato ritrovi un senso» (p. 337). In fondo, tutta la ricerca di Edipo, se guardiamo dietro l‟apparenza di quel processo indiziario che la percorre, non è forse finalizzata a ritrovare un senso a quella nascita rifiutata dai suoi genitori e vissuta da loro

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come persecutoria? Edipo forse, almeno inconsciamente, è orientato a ritrovare un senso a quella situazione nella quale un neonato che non doveva nascere si ritrova con i piedi trafitti e legati sul monte Citerone anziché trovarsi in una culla nella reggia del re Laio. Seguirò a più riprese la teorizzazione di Aulagnier (1975) poiché essa si rivela sorprendentemente efficace nel far luce su un aspetto del personaggio Edipo che la psicoanalisi non ha riconosciuto. Già dal prologo della tragedia emerge la struttura paranoide del pensiero di Edipo e la sua sospettosità, nonché la sua megalomania, quando egli stesso si definisce colui “che tutti chiamano Edipo famoso” (v. 8). Fin dalle prime battute emerge un sospetto verso Creonte, che prenderà corpo in seguito, quando Edipo sostiene che Creonte si attarda più del necessario nella sua assenza da Tebe per consultare l‟oracolo di Delfi, come se già si insinuasse nei suoi confronti il sospetto di qualche trama nascosta («…che cosa sta facendo? La sua assenza dura oltre il verosimile, più del tempo richiesto», vv. 74-75). Quando Creonte ricompare, dall’aspetto raggiante, anche questa constatazione assume per Edipo un significato ambiguo e venato di sospetto. Poco dopo Edipo formula il suo pregiudizio infondato che l’assassinio di Laio sia stato commissionato da qualche tebano che avrebbe pagato dei sicari («E come mai un brigante sarebbe giunto a tanto ardire, se la cosa non fosse stata preparata da qui con denaro?», vv. 124-125). Qui si delinea già la tesi del complotto, che verrà ribadita più avanti nei confronti di Creonte e di Tiresia. All‟ipotesi della paranoia di Edipo si potrebbe opporre la tesi che qualunque tiranno in una città greca del V secolo a. C. avrebbe potuto avere dei sospetti su qualche complotto finalizzato a destituirlo, ma le paure di Edipo sono così ricorrenti e pervasive e il suo linguaggio fa così spesso ricorso a termini ambigui e minacciosi, che il sospetto di paranoia diviene qualcosa di più consistente di una pura ipotesi. Inoltre la struttura del pensiero di Edipo condivide almeno due delle specificità individuate da Aulagnier (1975) nella paranoia: la tendenza a non concedere la minima possibilità di un dubbio nell‟interlocutore, e il posto accordato all‟odio

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nella teorizzazione del mondo, con la «necessità di rendere l’odio intelligibile, ragionevole e sensato» (p. 322). Un altro aspetto della paranoia di Edipo è dato dalla sua incapacità a condurre con Tiresia un dialogo finalizzato a raggiungere la conoscenza, poiché tra lui e Tiresia si è instaurato un regime discorsivo «non deputato all’acquisizione dell’informazione, ma allo sfogo della reciproca aggressività» (Paduano, 2008, p.34). Nel comportamento di Edipo si attua quel processo definito da Vellacott ritiro dalla verità verso l’onnipotenza (Steiner, 2002), che non lascia più dubbi riguardo agli aspetti paranoidi di Edipo. Dunque, in questo preludio di inchiesta giudiziaria, potremmo dire nella sua “istruttoria”, Edipo già esprime una serie di pregiudizi che non sono basati su fatti e testimonianze, che egli non ha ancora iniziato a raccogliere. Ancor prima di iniziare la sua indagine, Edipo ha abbracciato la tesi del complotto. La sua paranoia si palesa apertamente alla fine del prologo, quando, dietro la sua apparente sollecitudine verso i suoi sudditi, Edipo tradisce la preoccupazione per la propria vita, temendo che chi ha osato uccidere Laio possa attentare anche alla sua vita («per mio stesso vantaggio disperderò questa sozzura. Chiunque infatti fu ad uccidere lui, potrebbe voler colpire anche me allo stesso modo; curandomi di Laio, quindi, giovo a me stesso», vv. 138-141). Un altro esempio di diffidenza mascherata da sollecitudine per il popolo tebano ci è offerta all‟inizio della tragedia, quando Edipo va di persona a parlare con i supplici radunati davanti alla reggia, «non ritenendo giusto di essere informato da altri messaggeri» (vv. 6-7), ma in realtà diffidando di notizie riportate da altri, come avrà modo di dimostrare nel momento culminante della sua inchiesta. Dopo che Tiresia avrà indicato in Edipo l‟assassino di Laio e colui che contamina la città, la paranoia di Edipo diviene più scoperta e sarà alimentata dalla sua ira. Egli si rivolge allora a Creonte non più con vaghi sospetti, ma con accuse precise e chiede addirittura la sua morte. «Hai una faccia così impudente – lo apostrofa il re di Tebe – da venire nella mia casa, tu che apertamente vuoi uccidermi, manifesto ladrone del mio regno? Dimmi,

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per gli dèi, avendo visto in me viltà o follia meditasti di far questo? Pensavi che non avrei scoperto questo progetto che avanzava con inganno, oppure che, essendomene accorto, non mi sarei difeso?» (vv. 532-539). Creonte cerca invano di mostrare ad Edipo la sua “arroganza irragionevole”, poiché ormai il re di Tebe è avviato sulla strada del complotto che coinvolgerà Creonte e Tiresia, del quale dirà: «Se non fosse stato d’accordo con te, non avrebbe mai attribuito a me la morte di Laio» (vv. 572-573). Addirittura quando un nunzio comunica ad Edipo la morte del re Polibo, suo padre adottivo, il suo primo pensiero corre alla possibilità di un complotto: «Forse per un complotto? O per il sopraggiungere di una malattia?» (v. 960). Poco prima di questa notizia, Giocasta aveva descritto Edipo in termini che fanno intendere la sua predisposizione alla paranoia:

«Edipo si lascia trasportare oltre misura da ansie d’ogni genere e non sembra in grado di interpretare, da uomo assennato, i fatti presenti sulla base di quelli passati, ma è in balia

del primo venuto, purché gli prospetti delle angosce» (vv. 914-917).

Ad Edipo, ormai orientato alla ricerca di trame oscure, sfugge invece ciò che è più evidente e che doveva essere chiaro anche a ogni cittadino tebano, da quanto ci fa capire Creonte. Accusando quest‟ultimo di volergli sottrarre il potere, Edipo non si accorge che in realtà, se una complicità ci poteva essere stata, non era certo tra Creonte e Tiresia, ma più facilmente tra i due fratelli Creonte e Giocasta. Ma anche questa ipotesi appare poco credibile perché entrambi erano interessati a concedere ad Edipo un potere formale, mantenendo per loro un potere meno ostentato ma più reale, quel potere “senza affanni” che ben descrive Creonte. Anche al di fuori dell‟ambito psicoanalitico è stato riconosciuto il carattere iracondo e violento di Edipo (Bettini, Guidorizzi 2004; Paduano, 2009) che costituisce la cornice della sua paranoia. Seguendo nuovamente il pensiero di Aulagnier (1975) possiamo trovare una ragione alla paranoia di Edipo nella necessità di spiegare la violenza

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infantile subita e rinnovata poi nell‟incontro col padre e in quella situazione priva di senso in cui l‟ha gettato una nascita all‟origine della quale si trovava il desiderio e l‟odio dei genitori.x «Creare un’interpretazione sensata della violenza subita: questo è il compito che l’Io fa suo “delirando”. La problematica paranoica mostra come la psiche, facendo coincidere desiderio ed odio, riesca nell’impresa di dare senso ad una scena recitata da una coppia alla quale il soggetto deve l’essere stato generato, ma alla quale deve altresì l’aver incontrato nel fuori-sé un discorso privo di senso, in quanto mancante effettivamente della sola cosa che può garantire la sua logica e la sua funzione: un enunciato sui fondamenti, che parla del desiderio e della legittimità del piacere che si è in diritto di aspettarsi da esso» (p. 366). Una ulteriore riprova della paranoia di Edipo ci viene dal fatto che il suo odio si ritorcerà contro di lui. L‟editto di estradizione che Edipo promulga contro lo sconosciuto assassino di Laio alla fine colpirà proprio lui. «Il pericolo di ritrovarsi bersaglio del proprio odio è tanto più forte in quanto risveglia a mo’ di eco, e ritrova come alleata, una posizione originaria che i primi incontri con il fuori-sé hanno pericolosamente rafforzato: perciò è sempre presente il rischio di un passaggio all’atto suicidiario. E’ contro questo pericolo che il paranoico riesce (…) a preservarsi facendo appello ad un persecutore che possa deviare su di sé un desiderio di morte di cui egli resta, di fatto, l’oggetto privilegiato» (Aulagnier, 1975, p. 366). L‟accecamento di Edipo, in fondo, può essere inteso come un equivalente suicidiario, oltre che castrazione simbolica, e Aulagnier (1975) ha dimostrato come il paranoico possa agire il suo odio non solo sul persecutore ma anche su di sé.xi Secondo questa autrice, il tratto più decisivo della problematica paranoica riguarda la relazione del bambino con il padre, elemento che campeggia anche nel mito di Edipo, il quale dovrà confrontarsi per due volte con la violenza omicida del padre: «un padre reale è stato dotato dal bambino degli attributi dell’onnipotenza, e di un’onnipotenza di cui si trovava la conferma nelle manifestazioni di una violenza reale» (p. 342). Il neonato esposto sul monte Citerone non poteva non pensare al padre come figura onnipotente dotata di potere di vita e di morte su di lui. Giovane adulto incontrerà nuovamente il padre nella veste onnipotente del re di Tebe che gli

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intima di farsi da parte al suo passaggio, attentando nuovamente con violenza alla sua vita. La violenza reale del padre, dice Aulagnier (1975), impedisce l‟accesso alla “castrazione simbolica”: «la violenza del padre, se supera certi limiti, fonderà il termine di castrazione con l’immagine di una vera mutilazione; pertanto non è più possibile per il soggetto accettarla come una prova condivisa da tutti i soggetti, ma diventa un’inaccettabile mutilazione del corpo che non si può che rifiutare e sperare di far subire a colui che la minaccia» (p. 343).xii Al secondo attentato del padre il giovane Edipo reagirà con rabbia e violenza omicida giustificata dalla memoria di quel primo trauma inscritto nel suo corpo e al quale deve il suo stesso nome. Il romanzo familiare di Edipo e la sua teoria sull’origine: teoria delirante primaria o romanzo delle origini? Il bisogno di conoscere le proprie origini nasce in Edipo dalla necessità di contestare la verità di quell‟affermazione del suo coetaneo che lo qualificò come bastardo, falso figlio del re Polibo. I genitori adottivi di Edipo gli avevano nascosto con tenacia la verità sulle sue origini, continuando a dichiararlo loro figlio. La Enriquez (1993) sostiene che «se la “verità nascosta” sull’origine […] viene enunciata dal genitore sotto forma di una certezza incompatibile con ogni messa in discussione, il giudizio, l’attività fantasmatica e la pulsione epistemofilica del bambino, che normalmente congiungono le forze per dargli una forma romanzesca, addirittura rocambolesca, verranno inibiti nel loro intento creativo. […] L’attività fantasmatica […] rischierà di fissarsi in una teoria più o meno delirante della generazione. Quanto alla pulsione di sapere, […] rischierà di trovare appagamento solo nel suo aspetto sadico distruttivo del pensiero di un altro» (pp. 112-113). Partiamo da quest‟ultimo punto. In tutto il dialogo con Creonte e Tiresia, Edipo dà prova di questa sua volontà di distruggere sadicamente il pensiero dell‟altro, attaccando con arroganza le verità che gli vengono enunciate da entrambi e continuando a sostenere le sue tesi preconcette. A più riprese insulta entrambi e li minaccia di morte, manifestando in questo modo quella dismisura (űβρις) che è all‟origine della tirannide, e dimostrando come per lui attaccare il pensiero dell‟altro significhi attaccare anche la sua

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stessa persona. Riferendo il caso di un delirio di persecuzione in un genitore, la Enriquez (1993a) afferma che per il figlio «il fantasma di uccisione e di distruttività è sempre latente, pronto a manifestarsi in ogni paranoia, fosse pure la più generativa possibile» (p. 165). Ritornerò tra breve su quel primo punto, sottolineato da Enriquez, su quell‟attività fantasmatica che rischia di fissarsi in una teoria più o meno delirante della generazione e delle origini. La Enriquez (1993) riferisce il caso di una paziente che ha vissuto la sua infanzia con una madre psicotica che le ha trasmesso un delirio secondo il quale il padre avrebbe voluto ucciderla appena nata, delirio che permise alla paziente «d’intravedere qualcosa del desiderio di morte di sua madre nei suoi riguardi» (p. 131), e si chiede se si può veramente guarire da questa esperienza in cui qualcuno ha ucciso qualcosa. «Si può rinunciare un giorno a volerne conoscere le ragioni? Fino a che punto è possibile rielaborare e superare pienamente la convinzione che c’è stato un assassinio? Non potere e non volere affatto guarirne può eventualmente contribuire a fare delle cicatrici mutilanti che essa ha iscritto nel corpo e nella psiche dei marchi identificanti che per quanto masochisti e masochistizzanti, declinano tuttavia un’identità, iscrivono in una genealogia» (p. 131). Il richiamo all‟infanzia di Edipo sembra inevitabile. Edipo porta inscritta nel proprio corpo quella cicatrice che è divenuta per lui a tal punto marchio identificante che ne ha ricevuto il suo stesso nome, che lo assegna a una genealogia perversa, una genealogia zoppicante non solo fisicamente ma anche moralmente, come ha osservato Vernant. In fondo, a ben vedere, tutta la ricerca di Edipo anziché essere orientata alla verità sembra orientata all‟evitamento della verità, in accordo con l‟ammonimento di Giocasta sull‟inutilità di scavare nel proprio passato. Edipo arriverà, masochisticamente, condottovi dall‟oblio che ancora ricopre il suo trauma infantile e sul quale egli non sembra intenzionato o capace di fare luce, a riconoscere soltanto la propria colpa verso il padre, il suo parricidio, ignorando che all‟origine del gesto parricida vi fu ben prima, alla sua nascita, la volontà infanticida del padre.

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Commentando il suo caso clinico, la Enriquez (1993) fa rilevare come «la conoscenza, la presa di coscienza della patologia genitoriale, per quanto dolorosa possa essere, nella cura si riveli un’alleata preziosa per il rimpasto delle confusioni e delle identificazioni spaventose che crea nella mente di un soggetto una troppo grande vicinanza psichica con la psicosi del genitore. L’assenza di diniego, sia pure relativa, della realtà ne permette nondimeno un’elaborazione psichica parziale. Facilita un lavoro di lutto e riduce i meccanismi proiettivi. Le rappresentazioni che si collegano alla violenza infanticida dei genitori non vengono messe fuori della topica psichica. Possono quindi essere lavorate, riflettute, interpretate, ricollocate nella storia dei genitori stessi, e integrarsi nella storia propria del soggetto» (p. 133, grassetto aggiunto). Edipo non ha potuto compiere questo lavoro del lutto perché ha denegato completamente la “violenza infanticida dei genitori”, ha denegato il proprio trauma infantile e nella sua inchiesta, nella quale Freud ha creduto a torto di vedere un corrispettivo dell‟autoanalisi, egli è pervenuto soltanto a prendere coscienza del proprio gesto parricida. Per tale motivo, potremmo dire, sono anche così intensamente presenti elementi proiettivi nella sua indagine, che fanno pensare ad una paranoia. Si potrebbe obiettare che in realtà anche il tentativo di infanticidio dei genitori viene alla luce nella ricerca di Edipo, ma mentre egli perviene autonomamente alla consapevolezza di avere ucciso il proprio padre, il tentativo di infanticidio dei genitori gli viene narrato da altri ed Edipo non perviene ad una integrazione di questo elemento traumatico nella sua storia personale. Il trauma rimane come un corpo estraneo incistato nella sua storia infantile. Sebbene egli pervenga alla consapevolezza di essere «figlio di nefandi genitori» (v. 1360) e «sventurato nato da sventurati» (v. 1397), questa consapevolezza non produce rabbia verso i genitori o una progressione nella elaborazione del proprio trauma infantile, ma dà origine solo a colpa e vergogna. Anche più avanti, quando questa consapevolezza si afferma in termini più espliciti, che faranno rievocare ad Edipo «il mio Citerone, che il padre e la madre, quando ancora vivevano, mi fissarono come tomba» (vv. 1452-1453), egli non farà alcun passo nella direzione di un tentativo di

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comprendere la violenza dei genitori. Appena venuto a conoscenza del proprio trauma infantile («Tremendo oltraggio ho ricevuto ancora in fasce», (v. 1035), Edipo sembra interessato a conoscere quale dei due genitori lo destinò ad una morte precoce, da quale dei due provenne il tremendo oltraggio (“In nome degli dei, dimmi! Dalla madre o dal padre? (v. 1037)xiii. Nel seguito, come ho detto, questa ricerca viene lasciata cadere e l‟interesse di Edipo si rivolge più a comprendere la propria colpa che quella dei genitori. Al pari di un paziente di Faimberg (1993), Edipo «ignora in che misura la storia segreta dei suoi genitori lo riguarda (…) storia che ha preceduto il suo concepimento» (p. 82), e non arriva a comprendere che il proprio destino è segnato dalla «intrusione tirannica di una storia che riguarda il padre» (p. 84), e che questa storia segreta è “organizzatrice” della sua vita psichica. Faimberg (1993) ha indicato col termine telescopage generazionale questa “condensazione di tre generazioni” nel corso delle quali si sviluppano quelle funzioni di appropriazione e di intrusione che sono all‟origine delle identificazioni alienanti che sottendono la patologia del paziente. E‟ appunto attraverso tre generazioni (Labdaco, Laio ed Edipo) che si produce la vicenda tragica di Edipo, vicenda attraversata, come dice Sofocle in Antigone, dal «dolore / ripetuto per tre generazioni, / il destino di tutti noi, / i nobili Labacidi» (vv. 858-861, cit. in Del Corno, 2001). Il diniego del proprio trauma infantile, della violenza infanticida dei genitori, porterà Edipo a rivolgere contro di sé quella violenza che non è stato capace di riconoscere nei genitori, in una coazione a ripetere il trauma non riconosciuto. L‟accecamento che Edipo si infligge non è solo oscuramento della percezione fisica, è allo stesso tempo sinonimo di una cecità mentale, di una volontà di interdirsi l‟elaborazione psichica del proprio passato traumatico. È in questo gesto autolesivo che potremmo vedere la testimonianza, seguendo la lezione della Enriquez (1993), della trasmissione transgenerazionale della psicosi paterna, in quanto «organizzata attorno al suo diniego, diniego di cui conosciamo

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gli effetti, a lungo termine distruttivi, sull’attività psichica, sulla capacità di sognare, pensare, investire…» (p. 134). L‟aver avuto un genitore psicotico che in un delirio persecutorio ha vissuto la nascita del figlio come una minaccia alla propria vita (e questo fu il vissuto con il quale Laio accolse la nascita del piccolo Edipo), comporta per il figlio di questo genitore, una volta divenuto adulto, non poche difficoltà nel momento in cui deciderà di avere una discendenza. Sembra, afferma Enriquez (1993a) «che la trasmissione delle teorie deliranti primarie (…) sia in grado di ostacolare nel bambino la costituzione di un mito individuale delle origini elaborato partendo dai miti familiari (…) Non voler sapere nulla di questa teoria genitoriale, negare la sua realtà, ingegnarsi a distruggerla, a decostruirla con la messa in gioco di un desiderio di sapere e di appropriazione, sono modi diversi di farvi fronte o di girarvi le spalle. Ad ogni modo, essa peserà e risorgerà quando il soggetto si troverà di fronte, in età adulta, al progetto di avere una discendenza, e di generare un figlio che sia per lui, allo stesso tempo, lo stesso e un altro. E’ noto quanto in ciascuno di noi l’esperienza della nascita e del generare comporti sconvolgimenti identificatori e libidici, faccia risorgere la rimozione e renda psichicamente fragili» (p. 165). Sorprendente è la sovrapponibilità tra la citazione della Enriquez e le parole che Sofocle fa indirizzare ad Edipo da Tiresia:

E non percepisci una moltitudine di altri mali

che ti faranno divenire uguale a ciò che sei e uguale ai tuoi figli (vv.424-425)xiv

Edipo si troverà a fare i conti proprio con questo problema della discendenza, col problema di generare un figlio che sia per lui, allo stesso tempo, lo stesso e un altro. Non dobbiamo pensare che, per il fatto di avere generato quattro figli, Edipo non abbia incontrato difficoltà con il tema della procreazione. Ma queste nascite sono anche la testimonianza della grande confusione che domina l‟area generazionale, poiché i discendenti di Edipo gli sono allo stesso tempo figli e fratelli. La Enriquez afferma che «la teoria delirante primaria del genitore enuncia al figlio un assassinio o una relazione omicida sia tra i sessi che tra

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le generazioni, e lascia sempre un ricordo, un marchio che crea in lui uno stato di grande confusione» (p. 171). Da questa confusione Edipo cercherà di uscire attraverso la creazione di un romanzo delle origini che è anche una teoria delirante sulle origini. Giunto al punto cruciale della sua inchiesta, Edipo vuole conoscere le proprie origini: «anche se è misero, voglio vedere il mio seme» (v. 1077, trad. Maiullari, 1999). Il suo romanzo familiare inizia nel momento in cui, fantasticando sulle proprie umili origini, si considera «figlio del Caso (Tyche)» (v. 1080). Con questa affermazione, da un lato, Edipo sembra non smentire quel commensale che lo aveva definito bastardo, ma, dall‟altra, attraverso la personificazione del Caso in Tyche, egli si attribuisce una genealogia meno umile di quanto si potrebbe credere. Tyche, osserva Grimal (1979), «è il Caso divinizzato, o personificato da una divinità femminile» (p. 612). Sebbene la prosecuzione della narrazione sia poi affidata al Coro, viene proposto un tipico romanzo familiare secondo il quale Edipo sarebbe figlio di una Ninfa che si sarebbe accoppiata col dio Pan, o con lo stesso Apollo, oppure con il dio Hermes o con Dioniso, gli dei più vicini agli uomini, come ha notato Maiullari (1999).

Quale, figlio, quale tra le ninfe longeve ti generò, congiunta con Pan che vaga per i monti? O forse unitasi in amplesso con il Lossia al quale invero le agresti piane son care; ovvero il signore di Cillene, o Bacco divino, che abita le vette dei monti, ti ebbe da qualcuna delle Ninfe Eliconie, con cui spesso si svaga? (vv. 1098-1108).

Questo, che potremmo anche chiamare mito delle origini, avrebbe la funzione, rifacendomi alla teoria di Aulagnier (1975), di scrivere quel primo paragrafo della storia di Edipo che non fu mai scritto dal

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momento che la sua vita fu affidata ad una precaria sopravvivenza sul monte Citerone, e andrebbe ad occupare quel silenzio, quell‟assenza di enunciati con cui Laio e Giocasta accolsero la nascita del piccolo Edipo. Riferendosi al discorso che il bambino incontra nel suo primo contatto con la coppia genitoriale, Aulagnier (1975) afferma: «Comprendere le conseguenze dell’assenza di un enunciato concernente l’origine nella tessitura di questo discorso, o della presenza di un enunciato che rimanda al bambino una significazione inaccettabile per il suo Io, obbliga a considerare altrimenti il ruolo che bisogna accordare alla teoria sessuale infantile e, soprattutto, a cosa nasconde e condensa quella domanda, apparentemente così semplice, posta da ogni bambino: “Come nascono i bambini?”» (pp. 249-250). Questa domanda, in fondo, equivale a chiedere: “Come nasce l‟Io?” ed anche “Quali sono le mie origini?” A questa domanda «l’Io aspetta che la risposta fornisca il testo di un primo paragrafo della storia in cui deve potersi riconoscere, poiché solo essa può dare un senso alla successione delle posizioni identificatorie che di volta in volta può occupare (…) Per questo, nel registro della storia dei soggetti, si può dire che ogni mito, che è sempre mito di un’origine, ha la funzione di garantire l’esistenza di questo primo paragrafo» (Aulagnier, 1975, p. 250). Nel libro di famiglia del re di Tebe questo primo paragrafo non fu mai scritto, poiché era previsto che le pagine dovessero rimanere bianche, e non fu scritto neppure nel libro di famiglia del re di Corinto, dove solo in seguito fu trascritta una menzogna riguardo alla nascita di Edipo. «Il primo paragrafo – dice Aulagnier (1975) – non può presentarsi come una successione di righe vuote: se così fosse, l’insieme delle altre si troverebbe sospeso al rischio che un giorno una parola, iscrivendovisi, le dichiari un puro falso» (p. 250). E‟ proprio quanto avvenne nella storia di Edipo, quando, divenuto adolescente, quell‟unica parola bastardo pronunciata da un compagno sotto l‟effetto del vino bastò a dichiarare falsi tutti i successivi paragrafi che la famiglia adottiva di Corinto aveva scritto sull‟infanzia felice di Edipo. «Nel registro della storia di un soggetto – scrive ancora Aulagnier – questo primo paragrafo non può restare vuoto» (p. 250), esso potrà essere riempito solo grazie al discorso di quegli altri che possono sapere e ricordare che

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cosa il soggetto ha vissuto nel tempo lontano in cui si scriveva un «io sono nato…». «Di questo primo momento necessario per scrivere la storia l’Io non può sapere nulla, ma non può neanche fare a meno della garanzia che un sapere possa essergli fornito dal discorso dell’Altro e degli altri» (p. 251). Il discorso della madre «ha dunque il compito di offrire al bambino un primo enunciato circa questa origine della storia: questo basterebbe a dimostrare il pericolo che fa correre all’Io una mancata risposta a questo interrogativo, o una risposta inaccettabile» (p. 251). Proverò a vedere se questi enunciati consentono di considerare in una nuova prospettiva il destino tragico di Edipo. Se quel primo paragrafo nella storia del soggetto non può restare vuoto e se il soggetto non può venirne a conoscenza che attraverso il discorso di un altro, allora dobbiamo dire che Edipo conobbe quel primo paragrafo della sua storia solo attraverso la menzogna raccontatagli dai suoi genitori adottivi che lo dichiarano loro figlio, paragrafo che quella parola bastardo rivela come un enunciato falso. Per cercare la verità su quel primo paragrafo della propria storia Edipo si rivolge all‟oracolo di Delfi, ma Sofocle non ci dice quali domande pone ad Apollo. Molti autori hanno dato per scontato che egli chieda chi sono i suoi genitori, da chi è nato, ma si tratta di una supposizione arbitraria, come del tutto arbitrario è il famoso indovinello della Sfinge, di cui Sofocle non fa alcuna menzione.xv Possiamo immaginare che egli chieda, anche, quale sarà il suo destino, come se volesse conoscere quale influenza avrà sui paragrafi successivi della sua storia quel primo paragrafo che egli conobbe solo attraverso la menzogna dei genitori adottivi. «Edipo sta cercando inconsciamente le sue origini, qualcosa che è già accaduto. Egli considera un problema del futuro ciò che in realtà è un problema del passato» (Faimberg, 2006, p. 96. Corsivo nel testo).xvi Ma dall‟oracolo egli riceve una profezia minacciosa, “sposerai tua madre e ucciderai tuo padre”xvii, risposta inaccettabile per l‟Io e che sembra foriera del destino tragico di Edipo, a conferma del pericolo che corre l‟Io, come diceva Aulagnier (1975), di fronte ad una mancata risposta a questa domanda (quel paragrafo lasciato vuoto da Laio e Giocasta), una risposta menzognera

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(quella fornita dai genitori adottivi) o una risposta inaccettabile (la profezia dell‟oracolo). La risposta dell‟oracolo mette in evidenza un ulteriore inciampo nella interpretazione freudiana del mito. E‟ lo stesso Edipo a riportare le parole di Apollo il quale gli predisse che

«…era destino per me accoppiarmi con la madre perché mostrassi

agli uomini una stirpe intollerabile da vedere, inoltre che divenissi assassino del padre che mi aveva generato.»

(vv. 791-793, traduz. Maiullari, 1999).

Da come Edipo riferisce l‟oracolo, si desume che il parricidio non è finalizzato al possesso sessuale della madre, bensì parricidio e incesto sono due eventi contestuali legati alla predizione oracolare. Nominando prima l‟incesto e poi il parricidio, l‟oracolo pone i due eventi sullo stesso piano tragico, non indicando quella consequenzialità che Freud ha voluto vedervi, considerando il parricidio come finalizzato all‟incesto e al possesso erotico della madre. Inoltre l‟oracolo, indicando nell‟incesto l‟origine di una “stirpe intollerabile da vedere”, sembra accentuare quell‟aspetto generazionale che ho voluto sottolineare nel corso di questo scritto, sicché il parricidio sembra quasi divenire atto meno colpevole rispetto a quello di tramandare, attraverso l‟incesto, una stirpe orrenda. Maiullari (1999) ha osservato anche, con sottile acume, come quella che nella versione tradizionale della tragedia potrebbe sembrare una semplice “tautologia” («assassino del padre che mi aveva generato»), nella lettura “anamorfica” assume un significato ben più pregnante. In sostanza, Apollo avrebbe indicato chiaramente ad Edipo, con una tautologia solo apparente, che egli avrebbe ucciso il padre che lo aveva generato, e non il padre “presunto” per cui quel commensale ubriaco lo aveva apostrofato come “bastardo”. Dunque Apollo, alludendo a “due padri” avrebbe risposto anche ad un possibile quesito di Edipo sulle proprie origini, risposta che Edipo dimostrò di non comprendere allontanandosi da

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Corinto, e con ciò andando incontro proprio al “padre che lo aveva generato”. «In altri termini – afferma Maiullari – è come se l‟oracolo desse due indicazioni alla domanda di Edipo: la prima è un‟allusione a “più di un padre”, mentre la seconda è un‟indicazione precisa circa l‟uccisione “del padre che l‟aveva generato”: tragicamente, dei possibili padri, egli avrebbe potuto scoprire quale fosse il padre vero solo uccidendolo! E allo stesso modo si potrebbe dire della madre: Edipo avrebbe scoperto sua madre solo giacendovi assieme e generando dei figli con lei.» (pp. 270-271 nota 431, corsivo nel testo). Proseguendo su questa linea di interpretazione, poiché la domanda che il soggetto si pone riguardo alla propria origine implica anche, per Aulagnier, una domanda sul desiderio della coppia genitoriale e sul piacere o il dispiacere rispetto alla filiazione, allora potremmo dire che Edipo, probabilmente, non interroga l‟oracolo solo sulla propria genealogia ma anche sul suo destino perché ormai consapevole che «il suo sistema filiale è offuscato dall’inganno» (Faimberg, 2006, p. 96). La filiazione, dice Kaës (2008), «è il riconoscimento di un desiderio genitoriale che è venuto prima dell’esistenza del bambino e, per i genitori, quella di un preciso posto del bambino nella continuità narcisistica di cui essi stessi sono un momento. La filiazione è il riconoscimento della propria specifica posizione nell’ordine delle generazioni» (p. 29). Ad Edipo mancavano questi punti di riferimento che gli permettessero di collocarsi nella catena generazionale. «La dinamica della differenza generazionale interroga il desiderio, i sogni irrealizzati e i sistemi di difesa di coloro che vennero prima (…) Dalla differenza generazionale nasce la domanda fondamentale sull’origine del soggetto» (p. 28). Edipo è ignaro di tutto ciò e pertanto non può porsi quella domanda fondamentale sulla propria origine, la cui risposta «dovrebbe stabilire una relazione fra nascita-bambino-piacere-dispiacere» (Aulagnier, 1975, p. 251). Allora potremmo dire che Edipo non formula una domanda sulle proprie origini poiché dopo la rivelazione del commensale che lo chiama bastardo, svelando con ciò che gli unici genitori che Edipo conosce non sono quelli reali, biologici, egli appare più interessato a conoscere

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se fu un bambino bene accolto dai suoi genitori, chiunque essi siano stati.xviii Kaës (2008a), nell‟ambito della sua teoria delle alleanze inconsce che sottendono i legami intersoggettivi e i processi di trasmissione, utilizza il concetto di contratto narcisistico creato da Aulagnier (1975). Il contratto narcisistico è un‟alleanza inconscia strutturante in base al quale ogni soggetto nella successione delle generazioni si assume il compito di assicurare la continuità dell‟insieme sociale di cui fa parte. «Il contratto narcisistico fornisce oggetti e processi di identificazione: assicura la trasmissione della vita psichica fra le generazioni e l’iscrizione genealogica del soggetto. Proietta il bambino nel futuro (…) Si possono facilmente immaginare le catastrofi prodotte da un contratto narcisistico carente o inesistente» (p. 961). Io credo che il destino tragico di Edipo e dei suoi due figli maschi, che si uccidono vicendevolmente precludendo la possibilità di una discendenza e di una continuità generazionale, sia proprio un esempio della mancanza di un contratto narcisistico che consentisse al nuovo nato di essere accolto nella continuità della stirpe dei Labdacidi, per quanto questa stirpe fosse impura e deviata. Note 1 Romano C., “Edipo: un bambino mal accolto e la sua pulsione di morte”, in: Borgogno F. e Vigna-Taglianti M., Identificazione e trasmissione psichica fra gli adulti e il bambino, Quaderni di Psicoterapia Infantile, n. 57, Borla, Roma 2009, 127-144. 1i Se volessimo dare una interpretazione psicoanalitica della lotta di Cadmo con il drago e della successiva nascita degli Sparti dai denti del drago, leggendo questi eventi come se fossero immagini oniriche, potremmo vedervi facilmente un riferimento sessuale. Il drago in forma di serpente, che Euripide descrive con una rossa cresta, non può che essere un fallo, e i denti del drago che vengono sparsi nella terra come sementi fanno pensare alle gocce del seme che esce dal pene. Allora si potrebbe pensare che i primi autoctoni tebani siano nati da un atto masturbatorio di Cadmo che sparse il proprio seme sulla pianura dove sarebbe sorta Tebe. Questa ipotesi si

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accorderebbe con la visione di Levi-Strauss il quale interpreta l‟autoctonia come nascita da un solo uomo. Ho trovato una conferma a questa ipotesi in Athanassiou (1993), il quale riferendosi alla fondazione di Tebe da parte di Cadmo e alla lotta con il drago evidenzia la «connotazione masturbatoria [che] può essere associata a quella dell‟autoctonia» (p. 563). 1ii La varie versioni del mito non specificano a quale età Laio sia stato alla corte di Pelope né chi si sia occupato di lui dopo la morte del padre. Neppure Apollodoro dà indicazioni in proposito. 1v Su questo punto non condivido l‟affermazione di Vernant (1975) che Edipo sia vittima di una «maledizione divina altrettanto gratuita quanto la preferenza di cui beneficiano altri eroi della leggenda» (p. 84). Edipo porta su di sé il peso della maledizione di Pelope contro Laio e la sua discendenza per la violenza omosessuale su Crisippo, maledizione antecedente a quella pronunciata dall‟oracolo e che designa una colpa che si trasmette di generazione in generazione. v Ricordo che Fliess, come reazione tardiva alla perdita prematura della sorella, aveva costruito una teoria delirante sugli eventi biologici, che Freud aveva per un certo periodo di tempo condiviso, secondo la quale vi era una concordanza e un legame temporale tra la data della morte di un membro di una famiglia e quella di una nascita nella stessa famiglia. v1 Cito qui la traduzione di Maiullari (1999). Ove non specificato, mi rifaccio alle traduzioni di Laura Correale (Sofocle, Edipo Re, Feltrinelli, Milano 2007) e di Franco Ferrari (Sofocle, Antigone, Edipo Re, Edipo a Colono, Rizzoli BUR, Milano 1989). vi1 Nel secondo episodio dell‟Edipo a Colono, nel corso del dialogo con Creonte, Edipo riferendosi alle sue nozze con Giocasta dice: «ma io non volendo la sposai, e non volentieri ora ne parlo» (vv. 986-987). Anche Vernant (1975) definisce il matrimonio di Edipo con Giocasta un «matrimonio senza inclinazione» (p. 83). Sassanelli (2008) ha anch‟egli sostenuto che «per quanto riguarda l‟incesto manca (…) qualunque emozione erotica» e il matrimonio fra Edipo e Giocasta è «una transazione non amorosa ma di potere» (p. 59). Del resto Edipo parla anche di «questo regno che la città mise nelle mie mani come dono, non come qualcosa di richiesto» (vv. 383-4). Anche Faimberg (2006) riconosce che «lo statuto erotico di Giocasta appare molto incerto» (p. 101). Del resto, c‟è una curiosa inversione nella trasmissione del potere regale da Giocasta ad Edipo che fa appunto escludere che tale trasmissione sia la conseguenza di una relazione erotica che si è conclusa con le nozze, e di conseguenza con l‟acquisizione del potere regale da parte di Edipo. Questi ottiene il trono non in conseguenza del matrimonio con la regina Giocasta, ma ottiene il regno prima del matrimonio, come premio alla “lotteria della Sfinge”, e la regina appartiene di diritto ad Edipo come qualunque altro bene del regno. Giocasta ci appare quindi defraudata della dignità di sovrana e declassata a “bene” del regno di Tebe che passa nelle mani di Edipo al pari di qualunque altra proprietà del regno. Se Freud avesse letto anche l‟Edipo a Colono, forse avrebbe avuto maggiori esitazioni nel proporre la teoria del complesso edipico. vii1 Riguardo all‟enigma della Sfinge, Vernant (1986) osserva che la risposta di Edipo «lo identifica con quel mostro evocato dalle parole della Sfinge: l‟essere che è di volta in volta e contemporaneamente a due, tre e a quattro piedi, l‟uomo che, nella progressione della sua età, non rispetta ma mescola e confonde l‟ordine, sociale e cosmico, delle generazioni. Edipo, l‟adulto a due piedi, è infatti identico a suo padre, il vecchio i cui passi si aiutano con un bastone, questo “tre piedi” di cui ha preso il posto alla testa di Tebe fino nel letto di Giocasta – identico anche ai suoi bambini che camminano a quattro zampe e che sono simultaneamente suoi figli e suoi fratelli» (pp. 40-41). 1x Dobbiamo sottolineare che questa confusione generazionale doveva essere presente anche nella mente del piccolo Sigmund Freud, come ha dimostrato Marianne Krüll (1979), essendo per il bambino più naturale accoppiare l‟anziano padre con la sua “Nannie” piuttosto che con la giovane madre Amalia, che vedeva più facilmente come moglie del fratellastro Philipp. Non si

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può escludere che una motivazione inconscia dell‟interesse di Freud per la tragedia di Sofocle fosse anche questa confusione generazionale. x Sofocle non fa capire se la nascita di Edipo sia stata inizialmente desiderata da Giocasta, ma questa appare l‟ipotesi più plausibile, data la paura di Laio per la predizione dell‟oracolo, nei confronti della quale, invece, Giocasta manifesta incredulità. Una prova ulteriore mi sembra venire dal fatto che, in seguito, Giocasta cerca di nascondere il proprio misfatto indicando Laio come unico responsabile materiale dell‟esposizione del bambino. x1 Nella concezione di Aulagnier (1975) la zona erogena e l‟oggetto preposto alla sua stimolazione costituiscono un‟unità inscindibile chiamata zona-oggetto complementare, che costituisce la rappresentazione primordiale dell‟incontro tra la psiche e il mondo. «Il desiderio di distruggere l‟oggetto sarà sempre accompagnato, nell‟originario, dal desiderio di annientare una zona erogena e sensoriale, nonché l‟attività di cui questa zona è sede: l‟oggetto visto, in questa fase, può essere rigettato soltanto rinunciando alla zona visiva e all‟attività che gli è propria. In questa mutilazione di una zona-funzione fonte di piacere, si ritrova il prototipo arcaico della castrazione che il primario dovrà rimodellare. Nell‟originario, ogni organo di piacere può diventare quello di cui ci si mutila per annullare il dispiacere di cui si mostra tutto a un tratto responsabile» (pp. 92-93). xi1 Anche sotto questo profilo sembrerebbe alquanto impropria, da parte di Freud, l‟utilizzazione del mito di Edipo quale metafora del conflitto sessuale infantile. xii1 Persino Sofocle sembra incerto su questo punto, come ha fatto notare Harold Stewart (1961), poiché offre due versioni diverse dell‟esposizione di Edipo. Nel racconto di Giocasta, questa attribuisce il gesto a Laio (vv. 717-719), mentre nel racconto fatto ad Edipo dal servo, probabilmente più obiettivo di quello di Giocasta, risulta che fu quest‟ultima a consegnargli il bambino affinché lo esponesse sul Citerone (vv. 1173-1175). x1v Citato da Maiullari (1999), p. 169. xv Maiullari (1999) lo ha detto molto chiaramente: «Come non si esplicita in nessun luogo della tragedia l‟enigma (indovinello?) della Sfinge, così non si esplicita “ciò per cui Edipo si recò a Delfi”» (p. 267, nota 428). xv1 Giocasta aveva sottolineato questa incapacità di Edipo di orientarsi temporalmente negli eventi quando dice che egli non giudica, come un uomo ragionevole, i fatti recenti alla luce di quelli passati (vv. 915-6). Mi sembra di poter intravedere nell‟affermazione della Faimberg quel significato più esteso che questa autrice ha dato al concetto freudiano di Nachträglichkeit. Ciò che accade ad Edipo nel presente è legato a ciò che è già avvenuto nel suo passato da una relazione di significato che egli ancora non riesce a vedere, ma che diverrà chiara nel momento in cui Edipo apprende la propria genealogia. Rifacendosi a Winnicott, Faimberg afferma: «Attraverso questo legame, il passato viene costituito come tale e il paziente acquista una storia» (p. 145). Il futuro di Edipo è spiegato, in termini winnicottiani, da quel «disastro che è già avvenuto quando non c‟era un oggetto a farne l‟esperienza» (p. 145), e questo disastro non si è consumato soltanto sul monte Citerone, ma ancor prima della nascita di Edipo, nei rapporti tra Laio e Giocasta e in quella mancanza di desiderio riguardo alla sua nascita. xvi1 Bisogna notare che nella sua profezia Apollo nomina prima l‟incesto e successivamente il parricidio, cosa che mi sembra sia stata spesso trascurata da vari commentatori, o non abbastanza sottolineata, mentre nel discorso di Giocasta (vv. 707-725) non si fa alcuna menzione dell‟incesto, ma solo della profezia del parricidio. xvii1 Per un approfondimento di questo aspetto rinvio al mio lavoro citato in nota 1.

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RIASSUNTO L‟autore rilegge il mito di Edipo, come raccontato da Sofocle nell‟Edipo Re, come se si trattasse di un caso clinico. In particolare, applica alla rilettura del mito la teoria transgenerazionale, utilizzando i contributi di Käes, Faimberg, Enriquez e dedica ampio spazio alle teorie di Piera Aulagnier che utilizza per illustrare la paranoia di Edipo, che l‟autore considera un lascito transgenerazionale della psicosi del padre Laio. Anche il parricidio e l‟incesto vengono considerati una eredità della psicosi paterna. La ricerca di Edipo riguardo alle proprie origini viene ricondotta nell‟ambito della costruzione di una teoria delirante delle origini. Rifacendosi anche alla lettura anamorfica della tragedia effettuata da Maiullari, l‟autore indica alcune incongruenze della lettura freudiana del mito. PAROLE CHIAVE: Edipo, transgenerazionale, genealogia, psicosi in eredità, paranoia, teoria delirante delle origini. ABSTRACT The author reviews the myth of Oedipus narrated by Sophocles, as if it were a clinical history, applying the trans-generational theory based on the contributions by Käes, Faimberg, Enriquez. A special consideration is given to the theory by Piera Aulagnier, which is used to illustrate the paranoia of Oedipus. The latter is assumed as a transgenerational heritage derived from the psychosis of Laio. The parricide and the incest are also prospected as an heritage of the father's psychosis. Oedipus search of his own origins is read as the construction of a delusional theory of the origins. Basing on the anamorphic reading of the tragedy by Maiullari, the author signals some of the inconsistencies of the Freudian reading of the myth. KEY WORDS: Oedipus, trans-generational, genealogy, inherited psychosis, paranoia, delusional theory of the origins.

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Enrico Varrani1

La solitudine dell’operatore ed il ruolo dell’équipe

Due ragazze diciassettenni si sono date appuntamento in una piazza di una grande città. Si erano conosciute la sera precedente a casa di un amico ed avevano scoperto di avere qualcosa in comune: per entrambe, qualche mese prima, si era interrotta la relazione che avevano col proprio ragazzo, di cui erano innamorate, ed entrambe ne avevano sofferto ed, in parte, continuavano a soffrirne. Arrivano puntualissime all‟appuntamento: si sorridono, si salutano. Andranno in centro a mangiare qualcosa da Mc Donald, e poi andranno al cinema a vedere un film d‟amore. Nella stessa piazza, alla fermata dell‟autobus, un giovane uomo pakistano aspetta: anche lui ha un appuntamento importante. Si incontra con un suo connazionale amico, che non vede da almeno due anni, ma il tam-tam fra amici è stato intenso negli ultimi tempi e oggi finalmente si incontrano. Dubito che andranno da Mc Donald e sicuramente non al cinema, ma passeranno senza dubbio qualche ora gradevole assieme. Una giovane educatrice che lavora in un Centro Psico-sociale vicino a questa piazza, è appena rientrata da una visita domiciliare “difficile” e chiede ad una collega di poterle parlare. Si danno appuntamento per poco dopo in uno studio libero del CPS. E‟ andata a casa di una paziente che conosce da qualche tempo e, durante la visita, la paziente le ha mostrato degli aspetti di sé che la giovane educatrice non

1 Psichiatra, ha lavorato per oltre trent‟anni nelle Istituzioni Pishciatriche Pubbliche in provincia di Milano, è membro associato dell‟Istituto Italiano di Psicoanalisi di gruppo e insegna alla Scuola di Milano dell‟I.I.P.G.

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conosceva; questi sono stati per lei molto inquietanti e le hanno fatto provare momenti di intensa paura, preoccupazione. Si è sentita troppo sola. Di che cosa parleranno queste persone tra di loro? Con grande probabilità le due ragazze parleranno di quanto si sono sentite sole dopo la rottura del loro rapporto con il ragazzo, del dolore provato e forse dei rimedi per consolarsi. Sicuramente i due giovani pakistani parleranno della loro terra e di come in Italia sia difficile vivere. Tutto è diverso: lingua, cibo, abitudini, cultura, religione, persone. Come ci si sente soli quando manca tutto ciò! La giovane educatrice ha bisogno di parlare con la collega per condividere il turbamento che ha provato e che in quel momento l‟ha spaventata. Parlando con la collega può sperimentare uno stato di minor solitudine. Le tre persone parlano della loro solitudine, anzi delle loro solitudini, sperimentando rimedi psicologici “naturali”. La condivisione di un sentimento penoso attenua la sofferenza avvertita. In questo caso le tre persone hanno un sufficiente grado di sicurezza di essere comprese in quanto anche le persone a cui si rivolgono sperimentano o hanno sperimentato lo stesso loro sentimento e quindi saranno in grado di farle sentire meno sole. Nell‟équipe psichiatrica è importante che venga garantita la possibilità di usare tali rimedi naturali e che non ci siano ostacoli all‟utilizzo di questi, così come di altri mezzi di tipo aspecifico. Oltre a questi però l‟équipe deve dotarsi di sistemi propri più specifici e specializzati che aiutino l‟operatore ad attenuare il senso di solitudine che può essere da lui avvertito nel corso della cura del paziente psichiatrico. Quest‟ultima, la cura, si verifica spesso in un terreno di frontiera dove gli assetti organizzativi e amministrativi più esterni all‟équipe (le alte dirigenze in senso stretto) vengono avvertiti come estranei alle problematiche della

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psichiatria e quasi mai appoggiano lo sviluppo e lo studio dei modelli di cura del paziente psichiatrico. Viene in mente una lettera che De Martis e Petrella inviarono alla Rivista di Psicoanalisi più di vent‟anni fa (1987). Ne riporto alcuni passi: “In tale situazione organizzativa, in assenza di qualsiasi interesse da parte delle dirigenze delle unità sanitarie locali quasi sempre attente solo alla ragione burocratica – oggi noi potremmo aggiungere aziendalistica – ogni progetto culturale risulta utopistico all’altezza della complessità degli interventi psicoanaliticamente orientati sulle psicosi e viene avvertito come una istanza vana e fastidiosa…..abbiamo appreso nel nostro lungo viaggio attraverso le istituzioni che esperienze autenticamente innovatrici in psichiatria possono realizzarsi solo in situazioni privilegiate, là dove un gruppo di lavoro coeso viene sostenuto amministrativamente e politicamente”. Visto da questa ottica si può parlare non solo di una solitudine del singolo ma anche della solitudine dell‟intero gruppo curante o senz‟altro della psichiatria come disciplina che per sua natura da sempre ha faticato a trovare interlocutori dialoganti e tantomeno interlocutori “amici” che la aiutassero a sentirsi meno sola coi suoi problemi sia all‟interno della società scientifica sia dentro la società civile. Vorrei ora entrare nel corpo della mia relazione ponendomi delle domande. Alcune di queste sono di grande portata. La prima: la questione della solitudine s‟inscrive nel più vasto tema della sicurezza nei servizi? La seconda: la solitudine nei servizi può produrre o essere corresponsabile di fenomeni che generano insicurezza nell‟operatore? La terza: quali sono le fonti da cui può nascere il sentirsi soli in un‟ equipe? La quarta: chi è chiamato ad intervenire al fine di attenuare il fenomeno o quantomeno la sofferenza che deriva dal sentimento di solitudine?

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Cominciamo dalla prima domanda: la solitudine dell’operatore s’inscrive nel più vasto tema della sicurezza nei servizi? Vorrei rispondere con un sì deciso, ma sono costretto a fare anche delle osservazioni a margine, che nascono dalla particolarità intrinseca alla relazione col paziente psicotico o col paziente psichiatrico tout-court. Questa relazione ed il campo emotivo in cui è inscritta, sono densamente pervasi di forze, emozioni, sentimenti e affetti a cui la necessaria attitudine identificativa del‟operatore porta continuamente linfa. Non si può curare un paziente senza identificarsi con lui e questa identificazione porta continuamente dentro la relazione un materiale emotivo spesso indifferenziato al quale l‟operatore è chiamato a dare un nome perché possa essere elaborato dentro di lui ed eventualmente utilizzato nella relazione terapeutica col paziente. Io preciso che parlo di relazione terapeutica indipendentemente dal ruolo e dal livello contrattuale, gerarchico che rivestiamo nell‟equipe. Nei confronti del paziente dobbiamo svolgere funzioni terapeutiche indipendentemente da chi siamo. È importante averne la consapevolezza. Un fatto molto presente negli operatori soprattutto all‟esordio del loro operare è rivestito da quello che essi chiamano la distanza da tenere dal paziente. Questa parola, distanza, è stata ed è tuttora molto presente nei discorsi dei debuttanti della nostra professione ed anche etimologicamente rispecchia innegabili bisogni difensivi che garantiscano sicurezza emotiva. Ma è quest‟ultima la sicurezza di cui dobbiamo parlare quando parliamo di sicurezza dello psichiatra o dell‟operatore sul posto di lavoro? Il discorso è veramente complesso. Facciamo un esempio: immaginiamo una situazione siffatta. Un operatore in un servizio ha una relazione di cura con un paziente psichiatrico: quest‟operatore decide di chiedere aiuto ad un supervisore esterno per muoversi meglio nei meandri della relazione col paziente. Affronterà, nella supervisione, anche temi che potranno essere in relazione alla sua sicurezza emotiva personale. Il supervisore potrà trovarsi nella condizione di dover maneggiare un materiale clinico che

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lo costringe ad entrare nel campo della sicurezza personale dell‟operatore ma non potrà avere strumenti concreti, operativi, materiali, pratici per garantire maggior sicurezza all‟operatore quando quest‟ultima tende a scemare. Sarà l‟operatore stesso, grazie anche al lavoro di sensibilizzazione avvenuto in lui nel corso della supervisione, a portare nell‟èquipe elementi che potranno contribuire alla ricerca di una maggiore sicurezza emotiva anche del gruppo curante che non esclude aspetti più pratici, concreti e calati nella vita reale del gruppo. Possiamo quindi parlare di un senso di sicurezza interno, personale, intimo e profondo dell‟operatore nella relazione col paziente e di uno più rivolto all‟esterno, dovuto al suo essere operatore nell‟équipe, in relazione con l‟équipe, con le sue gerarchie, con i luoghi e l‟ambiente dove l‟équipe opera. Tale distinzione è naturalmente a scopo esemplificativo e didattico, ma in realtà tali due forme di sicurezza sono strettamente compenetrate, si influenzano a vicenda e il senso di solitudine che l‟operatore vive è inversamente proporzionale al senso di sicurezza che sperimenta e che fa sperimentare al paziente Veniamo allora alla seconda domanda: la solitudine nei servizi può produrre o essere corresponsabile di fenomeni che generano insicurezza nell’operatore? Crediamo in buona parte di avere già risposto alla domanda: quanto più alto è il senso di solitudine avvertito tanto più basso è il senso di sicurezza reale dell‟operatore. Ma per tentare di rispondere forse da un altro vertice, possiamo dire che la forma più grave di solitudine avvertita dall‟operatore, è quella che produce in lui un‟inerzia, un blocco nelle attività mentali con un conseguente e dilagante senso di impotenza operativa. Esiste un parallelismo tra il senso d‟impotenza ed i sentimenti di solitudine che l‟operatore ben conosce, che sono stati magistralmente descritti da De Martis in una sua relazione dal titolo: “Il talismano inaccessibile” presentata ad uno storico convegno svoltosi

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nel ‟76 a Milano dal titolo “Psicoanalisi e Istituzioni” organizzato da Franco Fornari. Tale impotenza e solitudine causano un atteggiamento scarsamente autonomo e dipendente, che pesca nelle radici e nelle valenze depressive dell‟operatore, scoraggia la speranza, conferma il senso di incapacità e i sentimenti di inutilità e, chiudendo il cerchio, aumenta ancor più il senso della sua solitudine (“Nessuno può aiutarmi in questa situazione. Sono veramente solo”). I sentimenti d‟impotenza sono nell‟équipe e nei suoi membri al polo opposto di quelli di onnipotenza. Questi ultimi sono spesso non avvertiti o negati dall‟operatore, ma producono, attraverso meccanismi di separazione, scissione, isolamento, atteggiamenti di falsa e scomposta autonomia con un analogo aumento della solitudine dell‟operatore, con prevalenti sue interpretazioni proiettive sull‟équipe. (“Nessuno mi ha aiutato in questa situazione. Mi avete lasciato solo”). Il compito dell‟èquipe in questi casi è quello di stimolare e riaprire il dialogo favorendo l‟oscillazione tra le varie polarità impotenza/onnipotenza, solitudine/socialità, narcisismo/socialismo, dipendenza/autonomia, creando frequenti occasioni comunicative, formali e informali, per la ricerca di una terapeuticità del gruppo curante “la migliore possibile”. Terza domanda: quali sono le fonti da cui può nascere il sentimento di solitudine in un operatore? Una fonte importante è rappresentata dal paziente e dalla relazione che abbiamo con lui e, anche se non si può generalizzare, le patologie che più la inducono in noi sono quelle più gravi che ci confrontano con un pericolo di morte, un compito troppo grosso per poter essere affrontato da soli. Ne ricordiamo alcune: la depressione grave con rischio suicidario, il delirio paranoico, la dissociazione schizofrenica acuta grave. In questi casi l‟équipe, il gruppo diventa, anzi deve diventare “curante”: ed il gruppo curante è in grado di venire incontro

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ai bisogni di attaccamento del paziente. “La presenza stessa nel gruppo di più persone – dice Correale - facilita una suddivisione ed una maggior distribuzione del bisogno di attaccamento del paziente, rendendo la dipendenza di quest‟ultimo dai curanti molto più tollerabile, sia per il paziente stesso che per i membri del gruppo” (Correale 2004). Ma il paziente non è la sola fonte da cui può nascere un senso di solitudine: la stessa équipe può generare al suo interno tali malesseri quando essa stessa, non sottoposta e preventivo controllo, attenzione e cura, diventa un gruppo sofferente. Compare allora “una socialità sincretica” come la chiamerebbe J. Bleger, o un costante funzionamento in assunti di base direbbe Bion. In questo caso i suoi funzionamenti come gruppo di lavoro scompaiono, i suoi membri o qualche suo membro si ritrovano in balia di potenti meccanismi quali la scissione e soprattutto l‟isolamento che producono fratture profonde in seguito alle quali molti operatori risultano soli e isolati come naufraghi in isole vicine ma non comunicanti. Tali disfunzionamenti non sono i soli a generare solitudine: anche un‟ organizzazione del gruppo caratterizzata da meccanismi presenti nella perversione come l‟inversione degli scopi funzionali del gruppo, un continuo cambio degli obiettivi da raggiungere, l‟eccessiva presenza e incitamento a condotte trasgressive, o altro portano spesso l‟individuo ad allontanarsi attivamente da un gruppo di cui non si condividono le finalità etiche ultime. In questi casi, l‟isolamento è fonte di sollievo per l‟operatore e produce nel gruppo, paradossalmente, una conferma della bontà dei suoi meccanismi perversi. Ancora diverso è il funzionamento di quei gruppi in cui sono presenti modalità delinquenziali tout-court: la finalità è quella di ottenere vantaggi concreti dal proprio operare (oggetti, potere, denaro) e, tanto nel caso che chi delinque sia un individuo, quanto nel caso che sia un insieme di individui, le condotte sono caratterizzate dall‟agire di nascosto, in segreto con le stesse regole delle associazioni a delinquere di tipo mafioso. L‟operatore che lavora in un‟èquipe in cui siano presenti tali condotte, attiva un suo

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isolamento salutare che lo porta ad allontanarsi dalla fonte che delinque e ad avvicinarsi a potenziali “forze buone” che la possano isolare. Molto spesso queste situazioni perdurano per lunghi periodi prima di poter essere sanate. Quarta domanda: chi è chiamato ad intervenire al fine di attenuare il fenomeno o quantomeno la sofferenza che deriva dal sentimento di solitudine? La risposta è facile: tutti i componenti del gruppo curante e ognuno nelle competenze del proprio ruolo e della propria funzione sono chiamati a monitorare alcuni fattori di gruppo che, se presenti e stimolati, possono attenuare il senso di solitudine dell‟operatore. Tra gli altri ne citiamo alcuni importanti come la coesione, l‟integrazione e l‟elasticità. La coesione non solo garantisce la tenuta delle maglie nella rete curante soprattutto in occasione di emergenze particolarmente impegnative, ma rappresenta un facilitatore specifico dei legami e degli scambi interni all‟équipe e quindi un buon antidoto alla solitudine. L‟integrazione dà garanzia che le eventuali fratture o aperture nella rete curante non siano troppo ampie o incolmabili, ma si presentino sempre come sufficientemente giustapposte; inoltre il lavoro integrato definisce meglio i confini tra le varie funzioni terapeutiche svolte nei confronti del paziente dai vari operatori, che vedono in questo modo, agevolato e favorito nel gruppo, il lavoro di scambio reciproco. L‟elasticità permette quelle necessarie escursioni della rete contenitiva esterna e della rete relazionale interna, senza le quali mancherebbe un adattamento alla molteplicità degli individui che la compongono dall‟una e dall‟altra parte. Ma tutto ciò non è sufficiente: devono esistere nell‟équipe tensioni culturali ampie che non rappresentino nicchie nelle quali rifuggire dalle relazioni col paziente e con gli altri operatori, ma che siano, nei vari campi, terreno di confronto e scambio vero in riferimento alle varie problematiche presentate dal paziente. Le équipe psichiatriche

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dovrebbero creare permanenti occasioni di approfondimento e formazione per il gruppo e per il singolo. Anche se può essere inevitabile che dentro l‟équipe compaiano culture egemoni rispetto ad altre, è sempre preferibile una tensione verso la realizzazione di una “egemonia della cultura” intesa come spinta e interesse comune e condiviso a perseguire e realizzare quelle conoscenze che rendono il proprio ruolo e la propria funzione altamente significativi, specifici e compiuti. Un altro elemento fondante per l‟équipe è quello rappresentato dalla necessità di darsi un‟organizzazione interna ispirata a valori altamente democratici: la democrazia dovrebbe essere un‟entità che tutti devono poter respirare per condividere con gli altri gli aspetti e le risorse migliori di sé, e non il contrario. Le nostre equipe non nascono come organizzazioni o istituzioni politiche, nelle quali le cariche sono conferite con un sistema elettivo da parte dei suoi componenti, anche se potrebbe essere divertente verificare la validità di tali cariche conferendo poteri di voto ai singoli membri dell‟équipe. Ma così non può essere. Esistono ruoli e gerarchie date e con questi bisogna giocare. Anche e soprattutto per questa ragione la circolazione dentro l‟équipe di valori come la giustizia, la democrazia e la trasparenza gestionale si presenta come elemento animatore e facilitatore degli scambi e dei confronti interni e importante farmaco per il sentimento di solitudine. Infine un‟équipe che abbia ben presente a sé stessa il percorso e i punti nodali della propria storia, che abbia effettuato riflessioni che l‟abbiano portata ad un punto di vista sufficientemente condiviso, si troverà a verificare che esistono forze di fondo identitarie e di appartenenza, che hanno carattere continuativo e non occasionale, non solo tra i membri che la costituiscono, ma anche fra le varie componenti culturali che la compongono. Realizzare, o meglio, lavorare per realizzare équipe “democratiche”, percorse da correnti comunicative continue, prive di meccanismi troppo psicotici, o organizzazioni troppo perverse al proprio interno,

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con una propria identità riconosciuta, può portare lontano sul piano della tranquillità, della sicurezza e della disponibilità dei curanti e quindi della cura dei disturbi psichiatrici. Gruppi siffatti possono rappresentare per il paziente concavità nelle quali poter transitare senza il rischio di diventare per lui, oggetti di ulteriore disconoscimento, bensì occasioni relazionali alle quali proporre il proprio discorso. Forse anche noi oggi ci siamo dati appuntamento vicino ad una piazza di una grande città, come la ragazza diciassettenne, come il giovane uomo pakistano e la giovane educatrice del CPS, per incontrarci e scambiarci pensieri, considerazioni, riflessioni e perché no, emozioni e affetti. Ed abbiamo potuto darci quest‟appuntamento perché siamo riusciti a dare un nome ad un nostro turbamento: la solitudine. L‟abbiamo nominato nel titolo di questo seminario, nella mia relazione e nei casi che seguiranno. Non ne abbiamo avuto paura o vergogna ed abbiamo adesso forse una maggiore speranza che essa non duri Cent‟anni “… perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra”.

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RIASSUNTO

In questo scritto viene preso in considerazione il sentimento di solitudine che l‟operatore psichiatrico può vivere all‟interno dell‟équipe; tale sentimento può condurre ad un indebolimento del senso di sicurezza che l‟operatore prova nella sua relazione col paziente. La relazione terapeutica può essere grandemente danneggiata dall‟esistenza di stati emotivi come la solitudine ed il conseguente isolamento. Vengono prese in esame le fonti da cui esso origina ed i rimedi che il gruppo curante può adottare per attutirlo. PAROLE CHIAVE: sentimento di solitudine, équipe, sicurezza, coesione, integrazione. ABSTRACT In this article the feeling of loneliness that the psychiatric operator may live inside the psychiatric équipe is considered; this feeling may lead to a weakening of the sense of security which the operator lives within his relationship with the patient. The therapeutic relationship may be greatly affected by the existence of emotional states like loneliness that lead to a situation of isolation. The sources that originate the loneliness are examined and remedies that psychiatric équipe can adopt are considered KEY-WORDS: feeling of loneliness , équipe, security, cohesion, integration.

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Il presente scritto è stato presentato il 20 Giugno 2008 ad un Seminario promosso dall’Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo (I.I.P.G.) di Milano e dall’Associazione “Amici di Lorenzo”, nata successivamente alla tragica uccisione del dott. Lorenzo Bignami da parte di un paziente a sua volta psichiatra. Si è pensato di conservare l'aspetto originario dello scritto portato al Seminario in quanto maggiormente dotato di freschezza e vivacità.

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Quattro passi per strada __________________________________________________

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Riccardo Brunacci3

Centro Psicoanalitico di Genova, 12 Marzo 2011.

“Ricordo di Lina Generali Clements”

SINCERITA’ La lunga avventura dello psicoanalista è il rapporto con la propria realtà psichica e con quella del suo paziente. E‟ un impegno di vita: una ricchezza, un travaglio, un sollievo, una gioia e un dolore. E‟ qualcosa di molto complesso e insieme di molto semplice: ma la semplicità è l‟esito della complessità e le semplificazioni e le banalizzazioni non aiutano. Le vicissitudini della sincerità vanno a braccetto con le vicissitudini della propria giornata: dello psicoanalista, del paziente, di ogni persona. Della sincerità desidero occuparmi qui, in questo che non è un lavoro teorico, o clinico, o di tecnica. E‟ un insieme di appunti, un taccuino di annotazioni anche se è strettamente collegato alla mia attività clinica e al tentativo di rifletterci su, oltre che alla mia esperienza di vita. Queste note sono dunque programmaticamente frammentarie, ma nutro la speranza che nell‟insieme, come tessere di un mosaico, si avviino a delineare una fisionomia, ad evocare un centro unificante. Ha scritto Melanie Klein ( 1959):“E’ facile osservare l’influenza che esercita sulla gente un carattere realmente sincero e genuino. Perfino quelli che non posseggono queste qualità ne sono impressionati e non possono evitare di provare un certo rispetto per l’integrità e la sincerità. Perché tali qualità evocano in loro un’immagine di ciò che sarebbero potuti diventare o che forse ancora potrebbero diventare. Questo tipo di persone offre loro qualche speranza sul mondo in generale e una maggiore fiducia nella bontà”.

3 Psicoanalista S.P.I.

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Sono parole molto semplici, molto profonde, e molto vere nello stesso tempo. Su questa base, e sulla scorta delle evoluzioni più recenti, possiamo occuparci sempre di più della sincerità come stato mentale, come qualità emotiva di contatto con la realtà psichica, come esperienza non fissa, ma necessariamente transeunte anche se recuperabile e ripristinabile, o anche ampliabile. Quanto uno stato di sincerità può essere sopportato, e quanto a lungo? La sincerità può dunque riguardare sia una condizione psichica sia un modo di comportarsi, con vari collegamenti tra i due ambiti: componente basale del “contatto emotivo” e proprietà affettiva del “comportamento” sincero. Quando l‟incontro, con se stessi o con l‟altro, è „verticale‟ predomina la paura (rapporto verticale col Super-Io, soprattutto con gli aspetti ego distruttivi del Super-Io) o la superiorità (identificazione proiettiva in un oggetto interno superiore). Nel momento della sincerità prevale la dimensione orizzontale. E‟ un incontro che mette insieme la speranza in un oggetto presente sufficientemente buono e la gratuità dell‟atteggiamento che non attende un qualche tipo di ricompensa, di restituzione, o di gratificazione di ritorno e proprio per questo crea un (momentaneo) incanto di una genuinità non ripetibile. Un incontro così remunerativo per entrambi, chi dà e chi riceve, proprio in quanto al di fuori della logica della remunerazione: “date senza speranza di riavere”. Se compare la “speranza di riavere”, cioè se nella motivazione conscia ma soprattutto inconscia, inizia a affermarsi il desiderio di sedurre, controllare, manipolare, rabbonire, si finisce con l‟incamminarsi fuori da quest‟area. Si possono descrivere almeno tre componenti di espressione della sincerità, variamente combinate tra loro: il sentire, il dirsi e il dire. Il „sentire‟, innanzi tutto. E‟ un provare, un vivere: „to feel‟ in inglese. Il sentire può essere unito al „dirsi‟. Non tanto, necessariamente, un dirsi in parole, esposto al rischio dell‟autoinvestigazione onnisciente.

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Piuttosto un dirsi subliminale: un consentirsi di sentire. A volte il sentire va insieme al „far sentire‟, più che al dirsi. E‟ allora un contatto embrionale, non ancora compiutamente pronto per nascere, ma già disponibile per essere espresso con quelle identificazioni proiettive che non lacerano, non mutilano, definite, per la loro finalità, „comunicative‟ (Generali, 1983). Il sentire e il dirsi si dispiegano compiutamente col „dire‟ a un oggetto esterno. Questo dire può diventare un esibire, così come il non esporsi, il proteggersi, può portare al tacere. Un tacere imparentato con la riservatezza – collegata al rispetto di sé, compreso il rispetto degli aspetti deboli e fragili propri e dei propri oggetti - oppure con la segretezza, più riconducibile a strutture affettive di potere. Talvolta il sentire va insieme al dire, senza „dirsi‟ davvero, senza prendere sul serio. In altri casi c‟è un dirsi e un dire senza un sentire: è un „raccontarsela‟. Lo stato mentale di sincerità a volte nasce da una condizione di calma, di serenità, ma può promuovere inquietudine, persino un senso di vertigine interiore: perché una volta sinceri non ci si può fermare, se non cessando di esserlo. Per questo non è tanto facilmente sopportabile, e anche persone tendenzialmente sincere per carattere tendono a schermarlo per lo meno con una blanda e filtrabile organizzazione difensiva. E‟ uno stato mentale che si situa in un delicato crocicchio tra intimità (con l‟oggetto), (desiderio di) verità e (contatto con la) realtà (psichica). Mi domando se si possa sostenere che il Sé intrattenga con la realtà psichica una vera e propria relazione oggettuale e che lo stabilirsi – forse provvisorio - di una relazione libidico-dipendente verso questa realtà, intesa come oggetto collettivo interno, possa aprire a uno stato mentale di sincerità. E‟ stata spesso evidenziata la limitatezza della possibilità della condivisione. Penso che esistano due tipi di limitatezza: di chi non ha condiviso, e di chi ha condiviso, ne sente il limite e tuttavia riesce ad affrontare il lutto rispetto a un bisogno totale. In questo secondo caso

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la solitudine può essere mitigata dalla relazione libidico-dipendente (inconscia) con la realtà psichica. Questo può dar luogo non tanto a riflessioni, che sarebbero opache: superficialmente rassicuranti o onniscienti, ma a uno stato di spontanea relativa sicurezza centrata sulla sensazione profonda che la “verità” (con la v minuscola ma pur sempre verità) “esiste”: non verrà necessariamente resa in pensieri espliciti, tantomeno proclamata, ma potrà forse talvolta essere in parte riconosciuta. Questa sicurezza non è tuttavia permanente, e se riesce a non organizzarsi in una struttura difensiva, mantiene freschezza rimanendo permeabile a una potenziale fragilità e può attivare un‟aspirazione, un anelito sostenuto da una ricerca un po‟ ansiosa, talvolta quasi un‟invocazione: “inquietum est cor meum donec requiescat in te”. In certi casi il paziente emerge momentaneamente dall‟organizzazione presentando dolorosamente il senso profondo di non andare bene, e il vissuto dell‟analista è proprio l‟opposto: che il paziente va bene, con un controtransfert di accoglimento tenero dotato di una particolare valorizzazione emotiva. Forse è questo il Super Io della sincerità, che risuona nell‟analista, ma è stato attivo nel paziente. “Mi dispiace pensare sempre così, perché pensavo che lei potesse aiutarmi” dice C., con un tono di partecipazione autentica, dopo aver raccontato un sogno in cui subiva un danno dall‟analista ma esprimeva anche un aumento della consapevolezza inconscia delle sue difficoltà. L‟atmosfera è di vicinanza e io sono in uno stato d‟animo di sollecitudine, stupore e leggera commozione: non è per niente “sempre così”. Uno degli aspetti, forse il principale, della tragicità della condizione umana – di ognuno di noi, in una certa misura- è quanto sia difficile avere e mantenere un vero rispetto di sé. Le vicissitudini del rispetto di sé – nella complessità e inevitabile contraddittorietà della vita interiore – condizionano le oscillazioni della sincerità. Che non è affatto uno

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stato mentale di per sé cupo. Può esprimersi ad esempio con la gioia, e credo che uno dei suoi indicatori più affidabili sia la capacità di ridere, come ho cominciato a pensare a partire dal caso di un ragazzino che, attenuatasi un‟opprimente impalcatura di inibizione e pseudofascino, ogni tanto ride con freschezza gioiosa, anche in seduta. Se – è stato detto all‟interno di una discorso più articolato - nella situazione „come se‟ il paziente tenderebbe “a non consentire” all‟analista di funzionare come analista (Riesemberg, 1990), nel momento della sincerità permette all‟analista di essere quello che ha sempre desiderato essere. E quando questo momento compare, spesso in una sorprendente o inattesa uscita dal rifugio, oppure in modo più graduale, l‟analista prova una commozione discreta, a volte più intensa, unita a una partecipazione rispettosa e un po‟ attonita, come in un lieve e aurorale innamoramento. Si può riscontrare, nello stato mentale di sincerità, una peculiare combinazione d‟intensità e lievità, di spessore affettivo intrinseco e semplicità di espressione. Viene mantenuto il legame con quello che veramente importa, e – insieme - il legame col nucleo basale di sé capace di percepirlo e di dipenderne. Elena inizia una seduta “Oggi sono in orario perché mi ha accompagnata Alberto. Stamattina non mi ricordavo di dover venire qua e poi girando per i negozi non mi ricordavo neanche che giorno fosse. Ho fatto un sogno. Ero con Alberto e guardavamo qualcuno. Non mi ricordo cosa succedeva in questo sogno. (La voce è piuttosto annoiata). Ieri invece mi è successo che andando via da qua ho deciso di mangiare di più e di vomitare, per questo ho comprato delle brioches. Sono anche andata al mercato ad acquistare una maglietta di cotone e lana e dei fermagli per i capelli. (Sono leggermente irritato, mi sembra la solita solfa. Penso, dentro di me, che descriva cosa ha fatto, nella sua testa, dopo la seduta di ieri: ha vomitato e si è svagata comprando magliette. Così della seduta è rimasto molto poco). Mentre camminavo a fianco delle macchine parcheggiate un ragazzo mi ha

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sorpassato e mi si è fermato davanti: era Elio. Tante volte ho pensato di incontrarlo sull‟autobus. Continua ad uscire con la Carla. Alberto fa un lavoro più faticoso (qui il tono è più genuino). Abbiamo parlato un po‟ del tennis, poi mi ha detto di chiamarlo al telefono. Io gli ho risposto di chiamarmi lui e questo penso per la solita cosa che siano gli altri a cercare me e non io loro. Però alla fine gli ho detto che forse anch‟io può darsi che l‟avrei chiamato. Incontrarlo non me lo ha fatto cadere come idolo e nello stesso tempo mi dispiace per Alberto: non gliel‟ho ancora detto perché rivoltando la cosa, a me dispiacerebbe. Poi sento di volere bene ad Alberto, ha tante qualità importanti nel carattere, importanti per me (atmosfera riflessiva, un po‟ razionale: mi sembra solo in parte coinvolta davvero in quello che dice). Ne ho anche parlato con mio papa‟. Elio penso che non provi niente per me perché esce con Carla, però se ci incontriamo è sempre molto disponibile. Se uscissi con lui sarei molto gelosa. Alberto è più riservato e con le altre ragazze non si comporta così. Adesso mi viene da pensare a Elio. Ieri avevo pensato a lui prima di addormentarmi. (Fa una breve pausa e dopo l‟atmosfera cambia nettamente e il tono cessa di essere così descrittivo e anodino). Sento che queste cose sono molto importanti per me. Non sono tranquilla perché se penso a Elio vuol dire che con Alberto non sono completamente soddisfatta. Per stare bene con Alberto dovrei far cadere Elio dal piedistallo dove l‟ho messo e forse far cadere dal piedistallo il mangiare e vomitare” (queste ultime frasi sono dette più sottovoce, con un po‟ di ansia, come parlando tra sé. Ho l‟impressione che a poco a poco, quasi inavvertitamente, si sia avvicinata al cuore del problema. Sono sorpreso e anche emozionato). “L’emozione che prova la parte primitiva della mente dinanzi alla realtà nella sua essenzialità è il timore reverenziale e questo viene provato anche dinanzi ai fenomeni mentali profondi” (Di Chiara cit. da Oliva, 2010, pag.20). Contemporaneamente, le manifestazioni esteriori possono essere lievi e semplici. Quello che veramente importa è che il senso, o il non senso, delle cose venga profondamente sentito. Marcella, una paziente settantaduenne della Quinodoz (2008), racconta di quando aveva sei

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anni e stava sgranando i piselli insieme a sua nonna che, allora, le sembrava molto vecchia. “Non ricordo di cosa fosse fatto il nostro chiacchierare, tuttavia sento ancora me bambina che le chiede „Se qualcuno ti dicesse che morirai fra un quarto d‟ora, che cosa faresti?‟ Mia nonna mi ha guardato intensamente e mi ha risposto: „Continuerei a sgranare i piselli insieme a te‟. (…) Queste parole le ricordo ancora nettamente; senza che io ci pensi veramente, mi hanno accompagnato per tutta la vita. Aprivano la porta su un mondo che allora non potevo percepire, e sul quale ora cerco di mettere delle parole”. Nel momento della sincerità si può percepire talvolta, come in filigrana, un bisogno di assoluto, circoscritto e garantito dal senso del limite. Risultano contemperate l‟aspirazione all‟assoluto e l‟accettazione della caducità. Qualcosa che ricorda il modo in cui, in termini del tutto generali, gli ideali risultano distinti dalle idealizzazioni. Anche un discorso sulla sincerità – come quello che qui vado tentando - può essere esso stesso sincero o insincero nella proporzione in cui si radica in un lutto sufficientemente elaborato rispetto a idealizzazioni, razionalizzate ma vigorose. Quanti lutti superati ci sono nel retroterra della sincerità: quante identificazioni proiettive (in oggetti esterni ma soprattutto interni) ritirate? Nel corso di un‟analisi ripetute e prolungate esperienze di comprensione e contenimento rendono progressivamente più nitida una situazione interna che non raramente si presentava come un amalgama confuso. Si stabilisce allora un maggior contatto e insieme una più elevata possibilità di sperimentare e sopportare il dolore mentale. Un nucleo di sofferenza profonda, a volte intensa, spesso sopravvive in un contesto meno oscuro e frastornato: la sua presenza è più circoscritta ed esercita un minor condizionamento sull‟intera personalità. E‟ in questo terreno che la sincerità affonda le radici. Il paziente può iniziare ad avere un qualche tipo di percezione, di vissuto intuitivo di quanto ha indicato Feldman (2004) in termini concettuali. Cioè che gli oggetti interni arcaici non sono tanto strutture fisse, ma

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piuttosto strutture dinamiche le cui caratteristiche e funzioni sono mantenute dal modo in cui sono trattate e da quello che è proiettato dentro di loro. In talune analisi si può notare l‟evolvere del “bisogno di sentirsi importante”, con un rimaneggiamento dell‟immagine di sé e un più pacificato rapporto con la propria piccolezza e la propria grandezza: tra il doloroso ma più accettabile riconoscimento della propria irrilevanza e la maggiore valorizzazione della propria effettiva importanza. Quando l‟organizzazione caratteriale si apre, e consente la rinuncia a blindare una condizione personale in un arroccamento protettivo, si liberano potenzialità di affetti, libertà e verità insieme. “Are you gay?” viene chiesto a un personaggio di un romanzo di David Leavitt “Sometimes I am gay, sometimes I am sad”. Essere in rapporto con la propria realtà emotiva agevola la creatività, ma – mi chiedo - la sincerità non può essere vista, già in sé e per sé, come una forma di creatività? Un libero „essere‟ – collegato a una (temporanea) sintesi integrativa - che non si identifica col dire la verità e neanche con la spontaneità, sebbene elementi di questo tipo possano risultare presenti. Saturo e insaturo nello stesso tempo (saturo nella vicinanza che esprime, insaturo nell‟apertura che promuove), questo stato mentale supera la dicotomia tra sincerità e insincerità intese in senso descrittivo-comportamentale. E se concordassimo che è già esso stesso „creatività‟ potremmo considerare la reazione descritta dalla Klein nella citazione all‟inizio come una forma di „emozione etica‟, la dove altre forme di creatività (artistiche ad es.) sarebbero più idonee a suscitare altre emozioni („emozioni estetiche‟ ad es.). Capita di cogliere un sentore di maniacalità nell‟atteggiamento insincero. Se l‟eziologia dell‟insincerità è varia, se le strutture che la sostengono sono a loro volta molteplici (lascio questi pur importanti argomenti ai margini di queste note), una tonalità maniacale ne caratterizza non di rado l‟espressività fenomenica. Dominio, o trionfo, o più spesso disprezzo, isolati oppure combinati, a volte espliciti, più

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spesso pervasivi ma in qualche modo dissimulati, o inglobati e resi costitutivi di nuclei di personalità che solo apparentemente li smentiscono (ad es. melanconici o ossessivi), comunque espressi in una relazionalità, a volte florida, più spesso larvata se non subliminale. Anche l‟analista viene cimentato con la sua stessa maniacalità: il porsi blandamente superiore come genitore ideale, interpretare in modo spavaldo il transfert negativo, affrontare la situazione sotto l‟egida falsamente protettiva di oggetti teorici idealizzati, spacciare la seduttività per empatia, varie forme di aggiramento semplificante: alcune tra le molte situazioni possibili, molto diverse tra loro ma accomunate dallo svilimento del paziente e della relazione con lui e con la realtà psichica di entrambi. Il discorso sulla maniacalità è contiguo al discorso sul potere: potere intrapsichico e potere relazionale, potere del paziente e potere dell‟analista nel loro complesso manifestarsi, intrecciarsi, evolvere. Se diamo una rapida scorsa alla letteratura, quanto di fenomenologia maniacale nelle descrizioni dell‟operare del controverso istinto di morte, tra ghigni beffardi (Segal) e giovani sprezzanti che deridono medici che soccorrono (Rosenfeld)! E qui, per inciso, ci si può domandare se un‟attenzione teorica puntuale, e radicale, sulla specificità, in termini di maniacalità maligna, di certi aspetti della distruttività, non possa contribuire a „laicizzare‟, e a rendere più affrontabile empiricamente, l‟oscuro discorso sull‟istinto di morte. Ma anche molto di maniacale possiamo trovare nelle cosiddette organizzazioni patologiche a partire da quei sistemi organizzati di difese che la Riviere iniziò a studiare proprio occupandosi della maniacalità. E quanto si potrebbero – in senso lato – definire maniacali le esperienze di seconda pelle descritte da E. Bick: una bambina iperattiva e aggressiva chiamata „il pugile‟ dalla madre, un adulto che nello stato definito di „ippopotamo‟ era sarcastico e tirannico, altre forme di corazza muscolare o di „abilità‟ ed „efficienza‟? Il tema della conversione mi è spesso venuto in mente come un punto decisivo mentre riflettevo su queste cose. Un cambiamento, insieme

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affettivo e di pensiero, che può riguardare l‟analizzando ma certo anche l‟analista, nel rapporto con se stesso e con il suo paziente. Un fuoriuscire da sovrastrutture distanzianti e un riaprirsi e ridisporsi al sentire e all‟ascoltare, prendendo sul serio. Una metanoia faticosa, travagliata, a un certo punto però sentita come ineludibile e sottoposta dunque a un moto di accelerazione, con esiti non globali, in parte forse stabile, ma sempre parzialmente reversibile. Per disporsi poi, potenzialmente ma non necessariamente, a nuove possibili parziali metanoie. L‟organizzazione depressiva di oggi è l‟organizzazione patologica di domani, sono le parole di Britton (2000) con cui mi trovo in piena consonanza. Mi sembra che ogni metanoia sia alimentata da: sincerità, coraggio, disponibilità a prendere sul serio. Rileggendo la vicenda dell‟Innominato ne „I promessi sposi‟, sono rimasto impressionato dalla grande finezza psicologica con cui viene descritto un fermento interiore di questo genere. Le premesse, la lenta maturazione, le incrinature, lo sgomento e gli spiragli di speranza, i dialoghi esterni che sono anche dialoghi interni, gli andirivieni con le aperture e gli irrigidimenti, l‟oppressione e la liberazione, la crisi dell‟uomo antico e la sua sopravvivenza nell‟uomo nuovo. Quali sono le vicissitudini della sincerità nel rapporto dell‟analista col suo paziente, seduta dopo seduta, nella lunga intimità di un‟analisi? Come si combinano e si amalgamano la sincerità come comportamento, la sincerità come componente preliminare, e in certo modo permittente, rispetto al contatto emotivo e la sincerità come gestione del Sé (dell‟analista) capace di contatto, un punto, quest‟ultimo, che può rischiare di essere sottovalutato, scomparendo tra le pieghe, in parte ingannevoli, della corretta elaborazione controtransferale? Intendo dire che la sincerità si pone come la premessa del contatto emotivo, ma anche come possibile elemento aggiuntivo e di vitalità nella relazione (di vitalità: non volontaristico o seduttivo). E‟ fondamentale distinguere tra il „fatto scelto‟ e „un‟idea sopravvalutata‟ dell‟analista (Britton, Steiner, 1994). Mi azzarderei a

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ipotizzare che il ‟fatto scelto‟ – correttamente sentito e individuato- non resti necessariamente tale indipendentemente dal contesto affettivo interno dell‟analista che ne ha consentito l‟emersione e da come viene „offerto‟ al paziente nella proposta interpretativa. Non c‟è il rischio che, pur colto in modo pertinente, il fatto scelto „diventi‟ un‟idea sopravvalutata se, in ipotesi, l‟analista, per un qualche motivo, in un determinato momento, tendesse a deanimare la sua relazione d‟oggetto col paziente, per esempio facendo un uso troppo „tecnologico‟ del controtransfert? Non sto parlando di intellettualizzazione, è qualcosa di molto più impalpabile e sottile, talvolta apparentemente molto raffinato. L‟analista può essere aiutato dal riprendere contatto con il se stesso capace di sentire e mantenere il senso della complessità. Va da sé che, così come il contatto con se stessi non è avere teorie psicoanalitiche su di sé o su altri, il senso della complessità è un modo di approccio spontaneo e preconscio, una fuoriuscita dalla ristrettezza mentale, non un deliberato bilanciamento tra opzioni diverse. Ci sono le teorie dell‟analista - esplicite o implicite, consce o inconsce - indiretto alfabeto di riferimento sullo sfondo del proprio intimo sperimentare e comprendere, e insieme piccola mitologia privata sempre sulla linea di confine tra verità parziale molto affettivizzata e rassicurante bugia. Ma al di là di tutto c‟è l‟analista con la sua fibra umana, la disponibilità a mettersi in gioco e a metterci l‟anima, i suoi limiti e la sua generosità. Con la possibilità di non essere troppo disturbato, o turbato, se deve affrontare ancora (un‟altra volta ancora!) i nuclei irrisolti della sua patologia attivati dalla relazione col paziente. L‟insincerità si presenta qui soprattutto come ostruttività, come disposizione opaca. L‟esperienza dell‟essere analista è ad un tempo semplice e intensa: “un‟audacia quotidiana” (D. Quinodoz, 2006). Ha scritto Conrad ne „Il negro del narciso‟ (citato da David Bell in esergo a „Psicoanalisi e cultura‟, 1999):

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“Afferrare, in un momento di coraggio nello spietato fluire del tempo una fase effimera della vita, non è che l’inizio del nostro lavoro. Esso, intrapreso con tenerezza e fede, consiste nel saper tenere risolutamente, senza tentennamenti e senza paura, questo frammento carpito, dinanzi a tutti gli occhi, nella luce di un atteggiamento sincero. Consiste nel mostrare la vibrazione, il colore, la forma, e attraverso il suo movimento, la sua forma, il suo colore, nel rivelare la sostanza della sua verità, nello scoprire il segreto ispiratore: la forza e la passione che sono al centro di ciascun momento decisivo…” Se in analisi il passato si invera nel presente, vi si incarna, e l‟interpretazione del qui e ora spesso risuona nel passato, qual è il senso del futuro nella mente dell‟analizzando e del suo analista? Quanto l‟analista, che vive l‟intensità del momento attuale nella relazione analitica riesce a non esserne intrappolato, non tanto perdendo il senso del passato del paziente, ma soprattutto smarrendo la visione prospettica della vita dell‟analizzando, il suo tragitto complessivo, il significato profondo, inconoscibile ma reale, del suo lungo percorso dalla nascita alla morte? Un qualcosa che non è presente ma fa da retroterra a tutto. Tempo della vita, tempo dell‟analisi, ma anche tempo della post-analisi, quel lungo periodo di vita successivo all‟ultima seduta. Ora i due protagonisti della scena analitica sono davvero reciprocamente soli.E quando si reincontrano, se si reincontrano, sperimentano nuove forme di vicinanza che portano in sé, come elemento caratterizzante, il lutto rispetto all‟intimità di un tempo, che adesso non può più esistere come allora, nemmeno se vengono toccati argomenti molto personali. E certe forme di incontro (come quella descritta da Flournoy -1985- in cui ex analista e ex paziente si imbattono reciprocamente per strada, parlano brevemente del più e del meno e si salutano) che potrebbero apparire il massimo della convenzionalità o dell‟inibizione imbarazzata, non è escluso che abbiano a che fare per entrambi – almeno in parte- con un lutto sopportabile e sopportato, che orienta una nuova forma di sincerità, declinata in termini molto restrittivi ma veri.

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Ritornato in Inghilterra molto anziano, Bion presentò alla Società britannica il suo ultimo lavoro dal titolo “Making the Best of a Bad Job” (significativamente tradotto “ Arrangiarsi alla meno peggio”,1987). Dice Bion: “…L’osare essere consapevoli dei fatti dell’universo in cui viviamo richiede del coraggio. Quell’universo può non essere piacevole e possiamo essere disposti a uscirne; se non riusciamo a uscirne, se per qualche motivo la nostra muscolatura non sta funzionando, o si dà il caso che non sia appropriato darsi alla fuga o ritirarsi, allora possiamo essere ridotti ad altre forme di fuga – come l’addormentarsi o il diventare inconsapevoli dell’universo di cui non desideriamo essere consapevoli, oppure l’ignorarlo o l’idealizzarlo (…). Quando siamo impegnati in una psicoanalisi, in cui l’osservazione deve svolgere un ruolo estremamente importante (...) non dobbiamo restringere la nostra osservazione a una sfera troppo ristretta (…). Quello che sto dicendo può apparire penosamente ovvio. La mia giustificazione è che molto spesso l’ovvio non viene osservato (…). Quindi penso che valga la pena di menzionare questi fatti ovvi – altrimenti non diverranno un oggetto di quello studio da cui dipende qualsiasi tipo di progresso scientifico. Quando dico “scientifico” in questo contesto, intendo il processo di real-izzazione, in contrasto col processo che avviene all’altro polo dello stesso concetto, l’ideal-izzazione, la sensazione cioè, che il mondo, la cosa, la persona, non sono adeguati a meno che non alteriamo la nostra percezione di quella persona o di quella cosa attraverso l’idealizzarla (...). Così dobbiamo considerare qual è il metodo di comunicazione del sé col sé” Sono convinto che affrontare i problemi di cui stiamo parlando possa aiutarci: aiutare noi e i nostri pazienti a vivere, a goderci la vita, a lavorare, e forse, quando sarà il momento, anche a morire.

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BIBLIOGRAFIA

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Bion W. R. (1962) Apprendere dall‟esperienza. Roma, Armando, 1972.

Bion W. R. (1987) Arrangiarsi alla meno peggio. In Seminari clinici, Milano, Cortina, 1989.

Britton R. (2000) Credenza e immaginazione, Roma, Borla, 2006.

Britton R. e Steiner J.(1994) Interpretation: selected fact or overvalued idea? In Int. J. of Psychoan., 1069-78.

Feldman M. (2004) Supporting psychic change: Betty Joseph. In In Pursuit of Psychic Change. The Betty Joseph Workshop. Edited by E. Hargreaves and A. Varchevker. Hove e New York, Brunner Routledge.

Flournoy O. (1985) L‟atto di passaggio, Milano, Cortina, 1992

Generali Clements L. (1983) I sogni a occhi aperti di Kathrina: identificazione proiettiva come attacco e come comunicazione. In Riv. di psicoanalisi, 213-226.

Klein M. (1959) Il nostro mondo adulto. Ne Il nostro mondo adulto e altri saggi. Firenze,Martinelli, 1972.

Oliva De Cesarei A. (2010) Alla ricerca del filo con la vita. Roma, Angeli.

Quinodoz D. et al. (2006) Being a Psychoanalyst: an Everyday Audacity. In Int. J. of Psychoan. 329-347.

Quinodoz D. (2008) Invecchiare, Roma, Borla, 2009.

Riesemberg Malcolm R. (1990) As-if: the experience of not learning. In Int. J. of Psychoan. 385-392.

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Caro Lettore,

lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed agevolare il dialogo tra i professionisti delle scienze umane, con particolare riguardo all’area della Psichiatria. A tale proposito, la Segreteria Scientifica e di Redazione invita i Lettori ad inviare elaborati, loro o dei loro collaboratori, dai quali poter trarre nuovi spunti di dialogo e riflessione e che possano contribuire ad un arricchimento dei temi trattati. La pubblicazione di un articolo sulla rivista è, in ogni caso, rigorosamente subordinata al parere positivo di referee esterni al Comitato Editoriale.

Note per gli Autori

1. Nel proporre il proprio scritto alla Segreteria Scientifica e di Redazione, l’Autore dovrà specificare che si tratta di un lavoro inedito e che intende pubblicarlo esclusivamente sulla rivista “Il Vaso di Pandora”.

2. Preferibilmente, l’elaborato proposto dovrà essere inviato tramite mail come file di WORD allegato agli indirizzi di posta elettronica: [email protected] e [email protected] Qualora ciò non fosse possibile, l’Autore potrà inviare il file WORD, salvato su CD, al seguente recapito: Segreteria de “Il Vaso di Pandora”, Piazza Mameli 5/7 – 17100 Savona (SV), all’attenzione del Dott.ssa Antonella Ferro.

3. Ogni testo dovrà essere accompagnato da:

Nome e Cognome per esteso degli Autori;

una breve nota biografica relativa ad ognuno (la Segreteria si fa carico di omettere questi dati dalle copie che invia ai referee per la valutazione);

almeno un indirizzo postale a cui i lettori possano inviare eventuali loro comunicazioni agli autori, un indirizzo di posta elettronica e un numero di telefono per eventuali comunicazioni della Segreteria;

titolo in italiano ed inglese;

alcune parole chiave in Italiano ed Inglese;

un breve riassunto in Italiano ed Inglese;

4. Qualora l’elaborato si sia ispirato ad una relazione presentata ad un Convegno (è questo il caso degli “estratti”), dovrà comunque essere accompagnato da un breve riassunto, sia in Italiano che in Inglese e dalle parole chiave.

5. Le note dovranno essere ridotte al minimo e numerate progressivamente.

6. Le citazioni, accuratamente controllate, dovranno apparire tra virgolette doppie (anche le virgolette usate per fini diversi dalla citazione dovranno essere doppie). I corsivi originali dovranno essere sottolineati (o meglio riportati in corsivo); i corsivi

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aggiunti dovranno essere indicati tra parentesi con: (corsivo aggiunto), oppure (sottolineatura mia). Ogni aggiunta dell’Autore dell’articolo dovrà essere posta in parentesi quadra; per esempio. “egli [S. Freud] intendeva”. Le omissioni nel testo verranno segnalate nel seguente modo: (…). Parole o frasi in lingua diversa dall’italiano saranno senza virgolette, ma sottolineate (o scritte in corsivo) e seguite, nel caso, dalla traduzione tra parentesi o in nota.

7. I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente con il cognome dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle pagine: (Freud 1921, p. 315), ma (Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve: (Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se gli Autori sono due, appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due: (Racamier et al. 1981, p.184).

8. I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di articoli apparsi in riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento bibliografico nel testo dovrà corrispondere una voce nella bibliografia finale.

9. La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve contenere unicamente gli Autori citati nello scritto. La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello: - Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford. Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo sottolineato, editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche la citazione del titolo della traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome dell’Autore, figuri la data di uscita del lavoro in originale. La data della traduzione va in fondo. Es.: - Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983. Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con ripetizione del nome dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica delle opere: - Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation. S.E., 19. - Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19. Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il primo seguito da: et al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore apparirà in primo luogo come Autore singolo. La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo questo modello: - Wittember I. (1975): “Depressione primaria dell’autismo. John”. In D. Meltzer et al., Esplorazioni sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977. Oppure, quando l’Autore è lo stesso: - Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In First Contributions to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952

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La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo modello: - Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp. 162-168.

10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su singolo foglio e numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in fogli singoli, dovranno essere numerate in cifre romane. Sia le tavole sia l’iconografia dovranno essere richiamate nel testo ed essere accompagnate da una legenda esplicativa.

La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori piccole correzioni, qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i testi stessi allo stile della rivista. Ogni qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà immediata comunicazione.