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3 Tutti i diritti riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a: Mimmo Marando e-mail: [email protected] Telefono 333 6621669

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Tutti i diritti riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate

a: Mimmo Marando

e-mail: [email protected] Telefono 333 6621669

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A mio padre

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Commento di Sara Giambalvo

Cagliari, 05. 05.2012 Un linguaggio “arcaico” che racconta una storia appartenente ad un passato dove la vita è scandita da ritmi lenti, lo stile è povero e le priorità sono stabilite dalla fede e dalle primarie necessità; dove tra uomini e donne c’è una distanza infinita. Il bianco è bianco e il nero è nero, non c’è spazio per le sfumature. Un mondo in cui l’esigenza quotidiana è procurasi il cibo per sfamare se stessi e i propri cari. In un mondo in cui tutto è un lusso che non ci si può permettere, basta poco per lasciare bambini e adulti letteralmente a “bocca aperta”; è sufficiente un pacco di doni che arriva dai parenti d’America, una caramella regalata, un film nel cinema del paese, una festa religiosa con tutti i preparativi, l’abito nuovo per la prima Comunione, il circo con gli artisti girovaghi che arriva da, chissà quali, paesi lontani. Il rispetto per le cose è assoluto, tutto ciò che arriva in più è per la vita e non solo non si scorderà mai, spesso non si butta mai e ci si ritrova adulti con la stessa cartella che si utilizzava alla scuola elementare, magari con i manici ricuciti alla buona. Tutto è semplice, tranne le EMOZIONI. I protagonisti di questa vicenda sono pervasi da infinita benevolenza e solidarietà e quando a qualcuno capita un destino più sfortunato, tutti si prodigano per rendergli la vita meno difficile. Anselmo, colpito sin da piccolo dalla poliomielite, ha imparato quanto sia prezioso l’aiuto altrui,

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senza il quale non avrebbe potuto compiere nemmeno le azioni quotidiane più semplici. La famiglia e gli amici sono per lui un pilastro, nel vero senso della parola, di sostegno fisico e psicologico. Grazie a questo supporto Anselmo è cresciuto, è diventato adulto e come un uccellino che si lancia dal nido verso l’indipendenza, ha preso il VOLO. Ma ben presto Anselmo scopre di essere passato dal caldo e accogliente nido, alla gabbia dei leoni. Quel calore, quel sostegno, quelle attenzioni che l’hanno portato sin li piano piano si sgretolano, non fanno parte di questo nuovo mondo e si ritrova in balia di un sistema che non prevede imperfezioni. Lui è una macchina “uscita male” e non esiste un meccanico che possa aggiustarla. Più strada percorre più il danno peggiora, in questa strada tutti sono più veloci di lui, suonano perché è lento, lo superano, lo spintonano, si piazzano davanti, frenando il suo cammino. Ma lui riparte, non accetta di fermarsi nella piazzola di sosta, finché avrà carburante continuerà imperterrito. Qualcuno si offre di aiutarlo, vogliono permettergli di andare veloce come gli altri, ma lui non accetta di essere spinto per andare più veloce. Anselmo vorrebbe una strada più larga dove ci sia spazio per un’altra corsia, una corsia dedicata alle persone che come lui non possono permettersi l’alta velocità, ma che gli permetta, semplicemente, di arrivare a destinazione. Con infinita amicizia Sara

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Commento di Antonella Bottari Messina, 12.12.2011 Un passero sul ramo di un albero fronzuto osserva il mondo e canta; inizia con la stessa ingenua leggerezza

di un piccolo alato la storia di Anselmo e del mondo piccolo che lo circonda.

Siamo in un borgo di Calabria, Belfiore (Platì), incastonato tra i monti aspromontani, perla tra i

numeri che ornano il territorio aspro e antico.

Fin dalle prime pagine siamo accolti e diventiamo co - protagonisti, della vicenda.

Assistiamo e viviamo con il piccolo Anselmo l’emarginazione e il dolore, la ferita e il senso di

privazione di autonomia che dovrebbe essere dono gratuito proprio della vita; mai a testa china, ma

allegro a volte, pensoso in altre, piangente, mai stucchevole.

C’è il percorso scolastico tratteggiato con mano di chi ha frequentato la scuola deamicisiana; il buon maestro,

il baldanzoso giovane delle classi a seguire, la dolce delicata maestra-madre, e i compagni, li ritroviamo

tutti, come leggere il libro Cuore alla rovescia, con tutti i suoi personaggi. Siamo in Calabria e non nella

dotta Torino e il padre del protagonista non gli

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trasmette il suo insegnamento per lettere nel diario, ma

con l’esempio di una operosità che non si abbandona allo sconforto, pur consapevole (fino a che punto?)

della sconfitta e della tragedia che avvolgono il primogenito; osserviamo la delicatezza della madre,

dalle nere trecce, tipiche delle popolane del tempo, intenta ai più umili lavori, come la cardatura della

ginestra o le piccole faccende, esiliata nella ignoranza ma non nel cuore che tutto attraversa, pur non

capendo il perché di certi accadimenti, ma sorretto dalla fede semplice e dall’amore .

In un caleidoscopio continuo conosciamo gli amici, i parenti, gli affetti e la fede di questa gente fiera della

propria onestà e saldezza di principi, pur nella triste epopea dell’immigrazione che è tipica del periodo.

Giova ad Anselmo la capacità di adattarsi, acquisita con non pochi sforzi, alla sua vita di ULTIMO, della

quale la percezione drammatica avverrà in età scolare; un maestro insensibile lo abbandona in classe per una

gita organizzata a misura degli altri e lo chiude per tutto il giorno in classe.

Anselmo non può autogestirsi e rimane chiuso e solo in un acerbo pianto e in una sofferenza che è fisica ma

anche drammaticamente umana, e riceve il conforto e il sostegno del padre che in quella scuola ha riposto le

speranze per il futuro del figlio.

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Aleggia a tutto campo la figura paterna, protettiva,

vigile e per certi versi delicata nei confronti del dolore di un “figlio imperfetto” la cui imperfezione è dovuta

ad un dramma che coinvolge l’umanità e dal quale nessuno può più di tanto.

Occorre qui citare Sabin “ebreo” ghettizzato per retaggio, generoso fino al punto di non brevettare il

suo vaccino per farne dono ad una umanità ingrata e avversa per destino e disequilibrio storico-sociale.

Egli ha il rimedio per il “male” ma tale rimedio non giunge a tutti con egual misura, a dimostrazione che

essere ebrei negli anni ‘50 è ancora una colpa; discriminante l’apporto di Salk ma per il nostro sarà

troppo tardi. La mala pianta del male radica in lui. Ma il male che è il male del mondo, è narrato in tono

sommesso, dando rilievo alla vita altrui che il nostro

vive attraverso l’aspettativa gioiosa e l’ottimismo di fondo che sono parte del suo carattere. Ha molti sogni

e aspirazioni, vuole giocare a pallone come un qualsiasi bambino della sua età. È affascinato dal

cinema e i pochi solidali amici lo sorreggono e lo supportano nell’immensa fatica che per lui è la vita.

S’intersecano in questo percorso le narrazioni delle vite degli altri, avendone della sua l’esatta dolorosa

dimensione che gli fa dire”… soffro come il mare.”. Il mare è il mezzo e il divario tra un popolo fiero e il

resto di una Italia che sopporta con difficoltà gli esiti

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di una guerra recente; così, separati dal mare,

diventano migranti della propria esistenza, trascinata altrove da un avverso destino, i suoi amici ed egli

stesso, per il quale si tenta un doloroso intervento che non produrrà gli esiti sperati.

Mal si adatta, ma capisce che la sua vita è così, smette di credere al miracolo e si concentra su ciò che può

dargli un briciolo di felicità: come il passero si ciba di un granello di miglio o di una briciola di pane, così il

nostro protagonista nutre il suo spirito di briciole di gioia infantile per quello che riesce a strappare ad una

vita che lo vede solo, mentre gli altri corrono felici nei cortili, dietro un pallone, per i boschi alla ricerca dei

“ghiri” o dei “vovalaci” La necessità di un mondo ritagliato sulla dimensione

del dolore è manifesta in ogni attività del

protagonista, che non demorde, anche se le delusioni e i raggiri sono dietro l’angolo.

Gode, nella fanciullezza, di ciò che può senza pensare troppo al domani e ce la racconta con tratti

deamicisiani la sua scuola, i compagni, mentre ritroviamo nella dimensione domestica i tratti netti di

un romanzo verista di fine ‘800. La parola si realizza il quadro e ci sovviene “La

condizione umana” di Magritte: il pittore surrealista non vuole fare emergere l’inconscio dell’uomo, mira

piuttosto a svelare i lati misteriosi dell’universo,

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rappresentato ma non svelato, nel cavalletto che ritrae

il mondo esterno senza nulla aggiungere in un rapporto di mancata analisi di un mistero, di una

disperante solitudine tra uomo e universo, la cui realtà deve essere accettata ma non rivelata.

Sono gli anni della ricerca di sé attraverso la vita degli altri, alla Magritte appunto, tracciando con abili

pennellate il mondo parallelo senza connotarlo. Emerge l’arguzia e lo stile ironico e per certi versi

istrionico dello scrivente, che fa del dialetto una misura e un’estensione di colore, mai coloritura, per meglio

descrivere la realtà dei luoghi e i volti, le azioni, il quotidiano di chi gli scorre accanto.

La lingua come mezzo per giungere al fine di una conoscenza diretta di una realtà che sembra

lontanissima, con tradizioni millenarie; il popolo nel

suo Erlebte Rede, si racconta senza sovrapposizioni nella vicenda umana del protagonista che s’incastra,

come tessera di un mosaico ancora tutto da costruire e in continua evoluzione.

La vita come una documentazione alla Taine che fissa i nuovi programmi dell’opera d’arte; non gioco di

fantasia o partecipe realismo ma copia dei documenti umani, nei quali le componenti essenziali sono la “race”

il “milieu” e il “ moment”. Il romanzo acquista una scientificità dovuta alla ricerca di tali componenti e il

nostro autore, consapevolmente, si fa carico di un

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momento storico- letterario ormai lontano e lo

attualizza in uno stile personalissimo, con cadute nell’introspezione e nella ricerca di una forma

espressiva che renda giustizia alla sua condizione umana.

Lo studio, la ricerca della traccia di un’esistenza possibile attraverso lo studio e l’analisi della

dimensione del dolore non trovano risposte nella fede ingenua di un bambino, ora che non lo è più.

Sommersa dalle pressanti esigenze della vita che gli urge intorno e dalla dimensione del “ Dolore

colpevole”, il capitolo intorno al quale ruota la vicenda umana dell’autore, è la ricerca, con slancio e con

momenti di tragico sconforto, di una risposta che contemperi fede e ragione senza che l’una predomini

sull’altra.

Teosofia, la nuova ipotesi per la comprensione di un dolore colpevole che rimarrebbe priva di risposte

plausibili che si concretizzano invece nella frase del Grande di Tagaste, “ama e capirai”.

Così la vita ha senso e riscatto e ogni ipotesi di integrarsi totalmente appaiono possibili con una laurea

che consente l’esplorazione della Giustizia; la risoluzione, nelle aule di Tribunale dove “La legge è

uguale per tutti” i casi umani che la sua carriera di avvocato gli permetteranno di sondare e risolvere, gli

daranno risposte amare e deludenti.

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Il suo è un vero casus belli.

Rimane impastoiato tra i pelaghi di quella burocrazia figlia di una politica ancora da redimere, di un

clientelismo che fa gola e diviene agio e platealmente pretesto per non rispondere alla necessità di esistere

dignitosamente e senza inutili favoritismi e pietismi, in una ferma denuncia simile a quella di Zola nel suo

“J’accuse”……..” “…Ed è volontariamente che mi espongo. Quanto alla gente che accuso, non li

conosco, non li ho mai visti, non ho contro di loro né rancore né odio. Sono per me solo entità, spiriti di

malcostume sociale. E l'atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l'esplosione della

verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome dell'umanità che ha tanto

sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta

infiammata non è che il grido della mia anima...” Questo è il senso di una lettura che non si ferma alla

diaristica e all’evoluzione di una vicenda che non ha conclusione felice e nemmeno un finale tragico, che

trova la sua conclusione nella quarta di copertina. Chi è Michele?

“Avvocato non vi faci friddu?” Michele è quello che oggi definiremmo con un francesismo che non ci fa

onore un clochard, il cielo come tetto e i colloqui accanto al nostro. Il quale ascolta i discorsi coloriti e

sconnessi di un Ultimo che lo sfiora col suo lezzo e con

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la dialettica stringente, con le nenie del Natale, con la

sua fede che è, nonostante gli anni e le peripezie, innocente.

E’ scaltro, malizioso, ingenuo, burlone, saggio amministratore dello scarto, utile alla sua piccola vita

di cui non fa mistero; ha pensieri profondi che restano inarticolati e intrappolati dall’ignoranza ma non per

questo meno importanti. Per questo l’autore gli dedica un intero capitolo in cui

si scusa per non avere compreso subito, fin da giovane, il messaggio ultimo di Michele; la sofferenza,

la solitudine nella quale vede ghettizzato l’ultimo è il male del nostro secolo, in cui l’ultimo rimane sempre

tale. Ci manca il coraggio dell’azione verso i più deboli,

non ci facciamo messaggeri delle loro istanze, non

raccogliamo di loro che poche frasi imperfette, lasciando che la fucina delle idee smetta di produrre

una giustizia sociale cui ogni essere che popola la Terra ha diritto.

Per questo Michele ci osserva dalla quarta di copertina, la sua vita oltre l’ostacolo che è la vita

stessa, in un commiato che si fa di nuovo quadro surrealista, alla Magritte, che non risolve, ma come

documento vive una sua vita propria e un iniquo destino.

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Il monito è chiaro, non scivola via dalle nostre menti

viziate dai libri inutili con i quali cibiamo le nostre ore d’ozio, diventa parte del nostro scaffolding.

Chi di noi anche se trasversalmente ha percorso il dolore e quanti di noi hanno avuto il coraggio di

chiedersene il perché o porre riparo, là dove possibile all’insinuarsi dell’ingiustizia sociale che il dolore, ogni

dolore reca con se? Leggiamo con attenzione e ciò che non capiremo ci

verrà innanzi come onda anomala che sovverta le nostre coscienze; ma facciamo sì che questo

cambiamento possa essere innesto e nuova linfa vitale per non lasciare inascoltato il messaggio.

La nostra percezione del dolore altrui non diventi oggetto di morbosa curiosità, ma attenzione verso che

ci sfiora con la sua sofferenza, a volte platealmente

visibile, molto spesso, insita e inascoltata. Buona lettura e non dimenticate la dimensione del

dolore che è retaggio del genere umano.

Mail 24 settembre 2009, di Elisabetta Un racconto semplice, limpido ,venato di nostalgia e di

contenuta tristezza. Un ricordo di tempi in cui la vita scorreva lenta,dove la sofferenza veniva lenita dall’amore dei cari e

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da una fede semplice in grado di riscaldare il cuore di chi, a

fatica, viveva la vita.

22 maggio 2011, di Antonella "si parla di dolore e di torti subiti in una misura di saggezza e

di grande dignità; si narra di un bambino che fattosi uomo deve lottare per reperire ciò che gli spetta di diritto, si parla di emarginazione tra simili; si parla di amore per il prossimo

nonostante sia impossibile vivere il quotidiano senza sofferenza. La vita di ogni giorno come una conquista e la

terribile realtà del dolore manifesto con semplicità e senza inutili compiacimenti e sdolcinature. Impariamo, amaramente,

attraverso una severa e pur schietta analisi della nostra società, come si piega un uomo, come si fa del male

nell’ignoranza cieca di chi non prende posizioni, di chi non si schiera a favore dei sofferenti, anzi li usa come mezzo per compiere le proprie atrocità e malversazioni, pago di

esercitare una funzione discriminante che umilia; ma lo scrivente sa che è il suo dolore, la sua dignità ad elevarlo al

di là del bene e del male"

Trieste, 15 dicembre 2008, di Luana

Ciao Mimmo, esprimo una mia opinione sulla famosa frase scritta nelle aule di giustizia "La legge è uguale per tutti", non

ci credo tanto e pongo un perché su un argomento importante quale la pensione, se un professionista ha pagato un certo numero di anni di contributi e vuole andare in pensione per un

determinato e valido motivo perché non ci può andare,

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mentre altre persone non hanno dovuto affrontare problemi e

non avendone di personali sono andati in quiescenza? Qualcuno ha detto il potere logora chi non ce l’ha ma chi lo

ha cosa non può fare....? Discriminazioni, valide conoscenze, favoritismi e altro ancora? Si può solo lottare per poter avere lealmente le cose che ci spettano di diritto, crederci sempre,

non arrendersi mai. Luana

Locri, 24 novembre 2008

Caro Mimmo, anche se con ritardo Ti invio il mio commento. Certo si rimane senza parole per la bellezza dolorosa di questi stralci di vita vissuta, ma ancora di più, per la crudeltà

che ancora regna sovrana in quei "bambini" ormai diventati adulti. Mi riferisco alla allegra brigata del "buon appetito"

che pensa solo ai fatti suoi, impegnata ed indaffarata ad accumulare, a "cibarsi" senza ritegno alcuno per le necessità

degli altri, lanciando di tanto in tanto, ormai sazi, qualche briciola per sopire le proprie coscienze; mi riferisco alle

briciole dei "favori" quando invece in gioco c’è il pane dei sacrosanti diritti. Alla logica del favore, che ormai regna sovrana nella terra dei "promessi sposi", bisognerebbe

sostituire la ragione del diritto, facendo sentire le voci di chi vorrebbe volare un po’ più in alto, non per le proprie singole

aspettative ma per il bene comune, sganciandosi dai servilismi e dal così fan tutti perché oggi nella nostra terra e nella

nostra storia c’è bisogno di nuovi personaggi per una nuova storia chiamata speranza. Concetta Leone

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Roma, 29 ottobre 2008

Caro Mimmo, grazie di aver condiviso con noi queste tue vicissitudini di vita vissuta. sappi che anche io ti ricordo come

un bambino di grande dignità , che non chiedeva mai favoritismi e che sapeva tenere testa con tenacia a chiunque

di noi quando scoppiavano gli inevitabili piccoli litigi di bambini della scuola elementare. ti auguro di trovare tutta la

solidarietà che meriti perchè sei un esempio per tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerti - ma anche per quelli che da poco tempo hanno cominciato ad apprezzarti. grazie

ancora mimmo e con immutato affetto ti abbraccio. Ciccio Catanzariti (compagno della scuola elementare).

28 ottobre 2008

Caro Mimmo, il tuo racconto è davvero molto bello e toccante (nulla a che vedere con le fredde "comparse" del nostro arido

mondo lavorativo!). Continua a scrivere e denunciare, non sarai mai comunque solo! Sono fiero di essere tuo amico e

sono pronto a sostenerti. Enzo

26 ottobre 2008, di Lina

Ciao mimmo... sono passata da queste parti per vedere l’effetto che fa la tua storia letta da qua... mi è piaciuta

ancora di più.... la prof approva in pieno... :o) bacioni e a presto

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Prefazione ………….Gli “ultimi”, gente semplice

e umile, non uomini piccoli in

contrapposizione a uomini potenti,

sono i personaggi dei miei racconti.

Gente fortemente religiosa che si

affida quasi sempre alla Provvidenza

Divina perché, l’Unica “garante” della

vera giustizia. L’abbandono in Dio, ricolma di tutto. Gli

“ultimi”, agli occhi del mondo, sono i costanti perdenti,

subiscono ingiustizie, egoismi e sopraffazioni, ma agli occhi di

Dio, sono i veri ed eterni vincitori. Gli “ultimi” non sono figure

passive, hanno consapevolezza di essere nel giusto, ma, non

sfidano le leggi e i potenti. Aspettano in silenzio: “Dio lascia

fare, ma non sopraffare”. Questa certezza li rende sereni.

Gesù ha vinto sulla e con la croce; loro vinceranno con la

Fede. “Michele u giamba”, “Micu l’orbu”, “mastru Micuzzo i donna

Grazia” e gli altri, sono gli “Ultimi”, del mio natio borgo, ma vivono oltre la morte, nel cuore di tutti coloro che l’hanno

conosciuti ……. (continua)

Mimmo Marando

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Il bambino che non poteva camminare Belfiore Alle falde dell’Aspromonte, sul

versante ionico, c’era una volta un

paese che si chiamava Belfiore. Era

un paese che assomigliava tantissimo

ad un presepe con le casette sparse

sulle colline circostanti, le montagne

imbiancate di neve durante l’inverno,

il rosso della sulla sui campi, i pastori con le pecore, gli

agnelli, le capre e le mucche; il fornaio, il mugnaio, il sarto,

il calzolaio e così via. Insomma c’era tutto quello che si

può trovare in un presepe (vecchio stile) che si rispetti.

Tutti amavano il paese dove erano nati e nessuno, e per

nessuna ragione al mondo, avrebbe voluto lasciarlo. Erano

talmente affezionati, che si chiedevano cosa mai ci potesse

essere di più bello in Paradiso. Solo la morte li poteva

separare da quel luogo.

Le vie di Belfiore erano piuttosto strette e non tutte

asfaltate, ma, a quei tempi, non c'erano le automobili di

oggi. I muli e gli asinelli che trasportavano carichi di legna

ci passavano tranquillamente. Le persone passeggiavano e,

incontrandosi, si salutavano. "Buongiorno, signor Antonio.

Tutto bene?". "Tutto bene, grazie don Filippo. E così spero

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anche per Voi". In altre parole, tutti erano parenti, compari

o amici e tutti si rispettavano vicendevolmente. Tanti

bambini bene educati, nelle ore destinate alla ricreazione,

riempivano d'allegria ogni strada. Le mamme e i papà

potevano stare tranquilli perché i loro figli non correvano

alcun pericolo. I giochi erano liberi e tutti potevano godere

di quei divertimenti, c'erano anche tante piazzette e viuzze

dove i bambini potevano rincorrersi e divertirsi.

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La polio La magia del paese racchiudeva

anche il dolore di un bimbo. In una

casetta sulla piazza principale, vive-

va un bambino che non poteva

camminare per via della polio che

una vecchia strega gli aveva sommi-

nistrato in un bicchiere di latte.

A quel tempo la polio girava per

paesi e per città e veniva distribuita, in confezione regalo,

soprattutto ai bambini al di sotto dei tre anni. Il virus veniva

confezionato con raffinata arte e veniva sponsorizzato con

il marchio accattivante di: “paralisi infantile”. La polio era

una malattia molto contagiosa e veniva distribuita con

grande furbizia. La si nascondeva ovunque: nel latte, nei

cibi, nell’acqua contaminata, nella saliva, nelle gocce dello

starnuto e così via. Aveva l’ardire di chiamare “fans” le sue

vittime e quando ne catturava una nuova, trovava subito un

nascondiglio e restava nascosta per giorni e giorni prima di

mostrarsi in pubblico. Spesso si affacciava con l’abito dell’

innocua influenza e dopo uno, due giorni se ne andava

lasciando il segno indelebile del suo passaggio. Insomma,

come tutti i suoi antenati e parenti, era un fantasma che

sapeva apparire, colpire e sparire e da cui era difficile

starne lontano. ………. (continua)

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Il papà Sei anni prima (dalla nascita di

Anselmo), finita la guerra, reduce da

una lunga prigionia sofferta nei cam-

pi di concentramento d’India, il

papà, soldato semplice, umile servi-

tore della Patria, aveva fatto ritorno a

casa. Attaccato al sacro Dovere, ave-

va combattuto in Africa Settentrionale ed Orientale, nelle

più avverse condizioni climatiche di quel tormentato e

spinoso fronte. Fu catturato.

Alle sofferenze prodotte dal clima africano, alle privazio-

ni di ogni genere, alle tremende prove superate in combatti-

menti di asprezza inaudita, si era aggiunto il calvario della

prigionia, durato sei lunghi anni. Per quattro anni prima, sui

campi di battaglia, aveva sopportato sofferenze indicibili,

trascorsi tra l’aridità infinita delle desolate e inospitali di-

stese di quell’infernale deserto. Le avanzate e i ripiega-

menti militari su quel campo di battaglia dove il terreno

aveva leggere ondulazioni uniformi, che con il bel tempo,

la vista poteva spaziare a grande distanza, ma, per contro,

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aumentava la difficoltà d’occultamento, con innegabile

vantaggio per le forze nemiche: non si poteva affrontare un

carro armato con un fucile!

La battaglia si svolgeva tra postazioni seminterrate,

anguste marce e buchi scavate nella terra rossa e nella

sabbia infuocata. Anche una sosta di poche ore richiedeva

l’interramento degli uomini e delle armi.

Quell’uomo, come tanti, sognava una vita serena, nono-

stante la guerra lo avesse ridotto ad un brandello di corpo

umano. Aveva visto in faccia la morte: in un campo di

battaglia, nel deserto, accasciato per terra e senza armi

stava per essere schiacciato dall’avanzare di un carro

armato nemico.

Ebbe la visione della Vergine Maria e trovò la forza di

alzarsi e di scappare, in mezzo al fuoco incrociato delle

cannonate. ……. (continua)

L’handicap

L'handicap di Anselmo, a dispetto di

qualsiasi teoria o ragionamento, era,

per forza di cose, anche l'handicap

della famiglia. Il lavoro, la lotta quoti-

diana per la sopravvivenza, l’accudire

il bambino, la mancanza di mezzi di

sostegno materiali ed economici ester-

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ni, consumava di giorno in giorno quei genitori che rinun-

ciavano a tutto pur di non far mancare le medicine di cui

Anselmo aveva bisogno, pagare il medico di famiglia e gli

specialisti.

Anselmo, involontariamente, era la palla al piede di

quella famiglia, segnata dalla povertà. Di tanto in tanto,

qualcuno spendeva qualche parola affettuosa, ma nulla di

più. I genitori di Anselmo vivevano il calvario con religiosa

rassegnazione. La loro era una doppia occupazione a tempo

pieno: una rappresentata da Anselmo e un’altra rappresen-

tata dall’insieme delle occupazioni ordinarie. Per non sot-

trarre tempo materiale ed affettivo, al loro bambino, smise-

ro di frequentare amici e conoscenti. ……. (continua)

Il sogno Il piccolo Anselmo, amava raccon-

tare il sogno della notte. Era sempre un

sogno di angioletti che giocavano con lui

e con i quali si rincorreva e la sua gam-

betta malata non c’era. A volte gli appa-

riva un bambino più piccolo di lui o un

uomo di delicata bellezza.

Sentiva che stava sognando, ma non voleva svegliarsi,

voleva godere di quel mondo immaginario, camminare e

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stare accanto a quelle persone che lo riempivano di tutto.

Una notte sognò il bambino più piccolo e quasi per gioco,

sorridendo gli chiese: - Chi sei?

Il bambino rispose: - Sono il tuo fratellino che abita in

Cielo.

- Ah sì? Posso dirlo alla mia mamma? Lei ti conosce?

La mattina, quando si svegliò, la mamma entrò nella

stanza e gli chiese: - Mio angioletto, cosa hai sognato que-

sta notte?

Anselmo raccontò del sogno del bambino e la mamma

sorrise.

Il giorno dopo sentì dei vagiti provenire dalla stanza dei

genitori: era nato il suo fratellino.

Zia Caterina arrivò subito e, dopo aver salutato la nuova

creaturina venuta al mondo, andò in camera di Anselmo per

vestirlo e portarlo a vedere il fratellino, ma, scherzosamen-

te, gli disse che era nata una sorellina. Il piccolo Anselmo

si arrabbiò e gridò forte: - E’ maschio, è maschio, è

maschio!

Avere un fratellino lo compensava di tutto, lo guariva dal

suo handicap.

Contrariamente a tanti bambini, non puntò mai ai privilegi

dei genitori, non volle mai essere considerato il più biso-

gnoso e il più amato. Anselmo voleva che tutto l’amore

familiare venisse riversato sul fratellino, perché solo così

egli si sentiva felice.

- Dio mi ha dato di più! – ripeteva con serena convinzione.

- Un fratellino vale molto molto di più di una gamba sana.

Più tardi, quando egli compì otto anni e il fratellino

quattro, gioiva quando lo cercava, si rattristava quando

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scappava. Con lui non cercò mai la competizione e non ci

fu mai rivalità. Il gioco era sempre vivace e sempre nuovo.

Vi erano finti atteggiamenti ostili, grandi risate con il

prendersi in giro a vicenda, piccoli bronci di ricatto…

insomma, una felicità innocente e contagiosa che faceva

dimenticare il dolore.

Sarino partecipava ai lavori di Anselmo, che consiste-

vano principalmente nella riparazione di giocattoli rotti.

Prendeva e porgeva il martello, i chiodi, la tenaglia, i tappi

delle bottiglie e tante altre piccole cose. Prestava attenzione

al lavoro e poi diceva: - Ora faccio io. ……. (continua)

I giochi Il piccolo Anselmo, passava interi

pomeriggi seduto sui gradini esterni

della porta di casa. La mamma, che

pur doveva eseguire le faccende

domestiche, e il papà, che lavorava

nel locale della porta accanto,

stavano sempre vigili per ogni neces-

sità del bambino. Anselmo osservava tutto quello che

accadeva nella piazza e teneva con sé quasi sempre un

sacchetto di ceci abbrustoliti che poi distribuiva ben

volentieri a tutti gli amici che si avvicinavano per tenergli

un po’ di compagnia.

I bambini più sensibili gli volevano un gran bene e non

lo escludevano mai dai loro giochi. Gianni era l’amico

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prediletto, il punto di riferimento. La mamma preparava la

merenda (una fetta di pane con olio e zucchero, oppure con

olio, pomodoro strofinato sulla fetta di pane e un pezzettino

di formaggio o delle noci, olive, salsiccia ed altro) sempre

per due: per il suo bambino e per Gianni.

Le domeniche, appena finito di pranzare, si correva al

cinema, richiamati dalle note melodiose di una canzone

(generalmente dell’ultimo festival di San Remo) che veniva

diffusa da due altoparlanti posti sul campanile della chiesa,

echeggiava nell’aria e si espandeva fino alla periferia del

paese. ……. (continua)

A fare compagnia al piccolo Anselmo di tanto in tanto

arrivavano anche Ninì, Ciccio, Totò, Saro, Michele e

Rocco.

Il pallone lo ammaliava. Voleva giocare a calcio come

tutti gli altri bambini. Ma come faceva a calciare, a rincor-

rere la palla se non stava in piedi? Nonostante tutto si

trovava la soluzione. I compagni lo facevano stare in porta

e quindi egli aveva pieno titolo per gioire delle vittorie o

soffrire per le sconfitte.

In quegli anni, nel paese nacquero due squadre di calcio

che ricevettero subito il riconoscimento ufficiale di tutta la

popolazione e vennero battezzate con il nome di Folgore e

Garibaldina. Maglia bianconera la prima e rossa la

seconda. Era l’anno 1960. “Vigneto” e “Macello” erano le

due località adattate a campi da gioco: il primo più

morbido, ma fangoso quando pioveva, il secondo sabbioso

e più resistente alla pioggia. I giocatori delle due squadre

presero i nomi dei loro beniamini, degli assi del calcio

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italiano d’allora e si chiamarono: Ghezzi e Buffon (i

rispettivi portieri della prima e della seconda squadra), poi

Maldini, Castano, Rivera, Altafini, Hamrin, Sivori,

Boniperti, Trapattoni, Mazzola, Corso ed altri). ……. (continua)

Quando non partecipava ai giochi, Anselmo stava seduto

sui gradini esterni del portone di casa sua a guardare i suoi

coetanei correre o giocare a piedi scalzi e in mutandine per

imitare Tarzan. Nei giorni che precedevano la Pasqua,

voleva “u garici” (carrucola della settimana santa), ma poi,

quando l’aveva, non riusciva a farlo rumoreggiare e lo

affidava ad altri bambini perché lo facessero al suo posto.

A Natale, c’erano le noccioline, le bombette, ma non aveva

la forza di scagliarle contro un muro per farli scoppiare.

Con le nocciole si giocava principalmente alla fossetta

(buco per terra) e a castello, poi colpirle con un’altra

nocciola più grossa chiamata “baio” e farli cadere. A

Carnevale arrivava, puntualmente, la mascherina di

cartoncino dello Sceriffo o quella di Zorro e nell’arco dell’

anno mille altri giochi: la trottola, “il cerchio” (di biciclet-

ta o delle “botte di legno”) per farlo rotolare in strada con

una bacchetta di legno o fil di ferro, u surichicchiu (notto-

lino di legno appuntito alle due estremità). Il gioco

consisteva nel far saltare u surichicchiu, battendolo con un

bastone e quindi nel percuoterlo al volo per mandarlo il più

lontano possibile. Poi, ancora, c’era anche il carrettino a tre

ruote sul quale si saliva e si poteva fare un giro, per godere

del trasporto in discesa, poi ancora “i tappi delle bibite

appiattite” e tanti tanti altri. “Spazi” di divertimento erano

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tutte le vie, viuzze e piazzette.

I giocattoli in buona parte erano “made in istrada”, cioè di

produzione locale. ……. (continua)

E fra i giochi di abilità non si può non ricordare il

battimuro e non associarlo a Rocco Borane, altro ragazzino

disabile. Terreno di gioco era un qualsiasi spazio aperto o

chiuso, anche di dimensioni non grandi, delimitato per un

lato da un muro. E per Rocco il “terreno” di gioco era quasi

sempre il muretto del banco del mercato coperto. Si

giocava di solito con monete da dieci lire. Un po' perché

erano leggere, un po' perché costituivano l’unica ricchezza

dei ragazzini di quel tempo (avere cento lire era essere

ricco), mentre le cinque lire indicavano povertà. Rocco era

sempre giocatore attivo, impegnato a giocare o in attesa di

qualche avversario e lo si incontrava sempre sotto quella

tettoia di quel mercato coperto che d’inverno si prestava

come tettoia per ripararsi dalla pioggia. Rocco era presente

in tutte le stagioni e a tutte le ore. Giocava con qualsiasi

compagno disponibile e qualche volta veniva infastidito e

ingiuriato dagli stessi compagni di gioco o da altri

ragazzini. La sua unica arma di difesa era: “Adesso

riferisco a mio fratello Domenico (per farti punire)” (ora su

ricu i me frati Micu). Vinceva, perdeva, ma quel gioco in

particolare gli dava vitalità. Qualche volta doveva pur

ripiegare verso altri giochi come ad esempio a testa e croce

o con le carte: briscola, scopa, ma principalmente

“mazzetto”.……. (continua)

Uscire in strada, muoversi, gli costava fatica, ma, sin

d’allora Anselmo, pensava che anche lui un giorno avrebbe

potuto dare agli altri; voleva alzarsi, uscire dal paese e

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andare per il mondo a cancellare il dolore dagli occhi degli

uomini e non essere di peso per la società.

La compagnia teatrale

Era primavera, frequentava la se-

conda classe della scuola elementare,

quando, anche a Belfiore, arrivò il

teatro. Era una compagnia girovaga,

povera, a conduzione familiare che

scarrozzava di paese in paese.

Trasportava tutto su due carri trainati

da un vecchio autofurgone. La tenda era la loro casa e il

loro palcoscenico. Quel giorno il paese ospitava qualcosa di

nuovo e con essa un’altra faccia della cultura. Fecero in-

gresso parole fino allora sconosciute: commedia, maschere

dell’arte, dramma.

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La tenda per lo spettacolo fu allestita in una piazzuola a

poca distanza del cinema parrocchiale. Anselmo fu portato

a cavalluccio sulle spalle, da Gianni, per gustarsi l’opera-

zione di impianto della tenda. In quell’occasione ebbe mo-

do di vedere anche un’ attrice della compagnia con le un-

ghie dei piedi smaltati di rosso: uno scandalo per la menta-

lità del tempo.

Nei giorni che seguirono sembrò che il teatro volesse

sfidare il cinema parrocchiale: una sfida tra il sacro e il

profano.

Il papà di Anselmo, che sapeva leggere i desideri del suo

piccolo, la sera di due giorni dopo, lo fece cenare prima

del solito e, poi, lo portò a teatro. Lo spettacolo fu una

breve farsa a contenuto comico burlesco, di tono popolare e

in lingua dialettale. Seguirono numeri comici e di ballo,

sketch e monologhi basati principalmente su questioni di

fame e di contrapposizione fra quanti mangiavano e quanti

saltavano i pasti. Al bambino piacque molto la frase:

“Dormo e sogno a bocca aperta e a stomaco vuoto”, frase

che gli sembrò molto significativa e curiosa e che il giorno

dopo ripeté a familiari e amici.

Quella sera, lo spettacolo continuò con un varietà, con il

comico, il cantante, il mago, l’illusionista (interpretati dallo

stesso attore), un contorsionista che girava il collo alla Totò

e due ballerine che cantavano e maliziosamente tiravano la

gonna fin sopra il ginocchio.

Le buffonerie di quegli artisti lo divertirono molto, ma

arrossì e tremò quando il comico, scavalcando il palco e

cercando fra gli spettatori, disse: - Ed ora un bambino che

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mi segua sul palco – e così dicendo indicò Anselmo a

seguirlo.

- No, non è possibile, è un bambino malato, non può cam-

minare – intervenne il papà. ……. (continua)

La speranza Con il coraggio della speranza, la

vita lentamente riprese la sua forza e il

suo spazio, quello che la malattia, sem-

brava averle usurpato.

Vinta la disperazione, si rimbocca-

rono le maniche e si incamminarono

verso una lunga via crucis, verso il cal-

vario loro assegnato. Cercarono qualcuno che potesse aiu-

tarli ad alleggerire il peso di quella croce, ma tutti gli

uomini erano impegnati in altre faccende ed i “volontari

della consolazione” erano in missione in terre lontane.

Ciò nonostante loro continuarono ad andare avanti.

Lo portarono dai migliori specialisti del tempo. Spesso

non riuscivano a ritornare a casa la sera e dovevano

pernottare in albergo. Non c’era l’assistenza sanitaria e

tutto gravava sulle magre finanze di quel povero papà.

Anselmo aveva quattro anni quando fu ricoverato in

ospedale, ingessato e riconsegnato come un pacco postale.

La prima notte era stata terribile, da incubo. Una volta,

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adagiato nella culla e spenta la luce, i bambini della

camerata, in coro, avevano gridato contro Anselmo, una

cantilena struggente, che sembrava non volesse mai finire:

“tua mamma è morta”. Anselmo pianse a dirotto, senza che

nessuno potesse abbracciarlo, senza che nessuno potesse

asciugargli le lacrime ed ebbe molta paura. I bambini sanno

essere cattivi con le parole, con i gesti e con gli

atteggiamenti e approfittano delle debolezze altrui per

divertirsi! È una cosa davvero molto triste e

demoralizzante! Il papà aveva trovato posto per la notte

presso una pensione nei pressi dell’ospedale, ma dormì solo

qualche ora. Si alzò alle cinque del mattino e andò a

piazzarsi su una collinetta di fronte all’ospedale, in un

punto da dove poteva vedere, attraverso la finestra, la

stanza del suo bambino, ma dovette attendere circa due ore,

prima che l’infermiera aprisse le persiane. Poi, nervoso, si

mise a passeggiare avanti e indietro, davanti all’ospedale in

attesa che il tempo scorresse e si facesse l’ora delle visite.

Si fece forza per non piangere quando fu accanto al lettino

del bambino.

- Perché hai quegli occhi così tristi? – domandò subito il

papà.

Anselmo lo guardò con aria innocente, coi suoi occhi

malinconici e cercò protezione. ……. (continua )……,

quando Anselmo si svegliò nel suo letto d’ospedale,

l’infermiera si avvicinò a lui e gli diede una carezza sul

viso. Più tardi quando gli portò il latte, gli sostituì il panino,

con i biscotti che gli aveva lasciato il papà. Quel giorno

Anselmo non ebbe alcuna visita se non il sorriso

dell’infermiera e della suora. Il papà tornò di nuovo il

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giorno dopo e per un’ora gli fu accanto. Nel corridoio fuori

s’imbatté in un ricco signore di sua vecchia conoscenza, il

quale si trovava in quel posto per una frattura alla gamba.

Mastro Peppino gli disse che aveva ricoverato il bambino.

Prima di uscire dall’ospedale, avvicinò ancora l’infermie-

ra, le dette un’altra mancia e la incaricò di fargli sapere

quando il bambino sarebbe stato operato.

Alcuni giorni dopo Anselmo fu portato in sala operatoria.

Una luce molto forte lo accecava, ma durò solo pochi

minuti. Intorno a lui tanti uomini con il camice bianco. Lo

legarono. Uno di loro gli mise qualcosa sulla bocca, sem-

brava volesse soffocarlo, poi gli disse: respira profonda-

mente. Sentì un brutto odore (di cloroformio), cercò di

divincolarsi, ma era immobilizzato, girò la testa, chiamò

mamma, papà e s’addormentò. ……. (continua)

Quando venne dimesso il papà gli comprò anche una

piccola chitarra di legno pregiato, la più bella e la più

costosa che trovò nel più grande negozio di giocattoli della

città.

Tornarono a casa. Non poteva assolutamente muoversi.

Le mamma, poté abbracciare solo un pacco di gesso e una

testolina che s’affacciava come quella di una tartaruga. Gli

occhi le si riempirono di lacrime.

La buona cugina Maria era lì a somministrare coraggio a

tutta la famiglia; a prendersi cura dell’altra bambina, a pre-

parare qualcosa da mangiare. Consolava la madre, conso-

lava tutti dicendo che, dopo qualche tempo, gli avrebbero

tolto quella corazza e che il bambino, col tempo, sarebbe

tornato a camminare.

E invece no. Il bambino non avrebbe avuto più la forza

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nelle sue gambine.

- Dio affligge, ma non abbandona. La Provvidenza Divina è

grande. – continuava a ripetere Maria.

Ma a cosa era servita quella operazione? Nessuno lo ha

mai saputo, neanche i medici che l’avevano operato.

In quel giorno e nei successivi, le visite dei parenti, degli

amici e dei conoscenti si susseguivano. Venivano a visitare

il dolore che aveva il volto di un bimbo. In quella piccola

comunità quel dolore contagiava e apparteneva ad ogni

animo buono.

Per il piccolo la cosa più difficile da sopportare era l’asso-

luta mancanza di movimento alla quale era condannato.

Appena restava solo, si metteva a piangere, ma smetteva

appena sentiva la mamma arrivare: non voleva affliggerla

con la sua sofferenza. Una ricca signora gli regalò un

tamburino che però non gli procurò alcuna gioia. Una notte

suo padre si svegliò, anzi si alzò dal letto perché non

dormiva e andò al buio nella stanza del bambino: - Dove ti

preme il gesso? Fammi vedere dov’è che ti fa male!

Non riuscì a rispondere subito: - Non ne posso più – disse

con un filo di voce.

Il papà accese la luce e vide gli occhi del bimbo, pieni di

lacrime, che luccicavano come diamanti. Gli sentì il polso e

gli promise che lo avrebbe liberato dalla sua corazza non

appena si fosse fatto giorno. Restò seduto accanto al lettino

per tutta la notte. Intanto anche la mamma si era alzata in

punta di piedi e anche lei restò accanto alla sua creatura in

silenzio. Quando si fece di nuovo giorno papà scese in

negozio, prese il trincetto (coltello da calzolaio) e con

molta cautela incise ed aprì il gesso in vari punti, permet-

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tendo così, al bambino, di respirare e di riposare un po’.

Quando quella corazza, dura come il ferro, gli fu allenta-

ta, provò una sensazione di beatitudine, credette di essersi

liberato da una prigione. ……. (continua).

La morte di Totò Don! Don! Le campane suona-

vano a morte. Infondevano una in-

tensa tristezza. Totò, il caro cugi-

netto, aveva finito il suo cammino

terreno: aveva solo nove anni. Iddio

lo aveva chiamato a sé. Anselmo,

fino all’ultimo istante, aveva sperato

nel miracolo. Le sue preghiere non

erano state esaudite.

Al rintocco delle campane, fu il papà ad annunciargli la

triste notizia: - Totò è ritornato dalla mamma. Ora sarà lui a

pregare per te. Domani ti porterò a salutarlo.

Zia Caterina, cinque mesi dopo la nascita del fratellino di

Anselmo, era tornata al Creatore, raggiunta, sei mesi dopo,

dalla cognata e dai suoi sei bambini, affondati con

l’Andrea Doria proprio quando il loro papà li stava aspet-

tando sul molo del porto. Ora anche il suo Totò, era tornato

da lei, in Paradiso. Un lutto dietro l’altro e la morte colpiva

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sempre l’innocenza. Il sostegno era la fede, l’ab-bandono in

Dio.

Zio Peppino si era risposato per dare una nuova mamma

ai suoi orfanelli, ma ora era ricaduto in un nuovo lutto. La

morte del figlio più giovane, aveva portato via anche tutti i

suoi sogni e le sue speranze.

Totò s’era ammalato in collegio. Dopo una partita a

pallone, sudato, aveva fatto una doccia fredda e questo gli

aveva provocato una forte febbre che, in poco meno di un

anno, lo aveva portato alla morte. Sapeva che la moglie del

suo papà aspettava un bambino ed egli desiderava che lo

chiamassero Rocco. Il suo desiderio fu esaudito, ma non

visse abbastanza per vederlo nascere, per gioire del nuovo

fratellino.

Totò era affascinato dei racconti sugli angeli e in quel

letto di morte aspettava che il suo venisse a prenderlo per

condurlo a Dio e alla sua mamma.

Al sacerdote che gli aveva portato il sacramento dell’Un-

zione dei malati, chiese: - Quando sarò in Cielo e Iddio mi

farà diventare angioletto, potrò tornare sulla terra, restando

invisibile, a giocare con i miei amici per poi ritornare la

sera a dormire con la mia mamma in Paradiso? ……. (continua)

Franca e Saro non riuscirono ad inghiottire che qualche

cucchiaio di minestrina che Maria aveva preparato per loro.

Intanto a casa di zio Peppino, donna Anna, la nonna

materna, non riusciva a darsi pace. In meno di tre anni

aveva perso la figlia ed ora anche il nipote più amato.

Quella sera Saro e Franca, i fratelli di Totò, restarono a

dormire a casa di zia Rosina.

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In mezzo a quel dolore, l’unico a festeggiare era Sarino,

ma aveva solo quattro anni e lui non poteva capire.

Il giorno dopo di buon mattino, Anselmo fu vestito, preso

in braccio dal papà e portato a rendere l’ultimo saluto al

caro cuginetto e compagno di giochi.

Totò giaceva in una bara aperta nella stanza più grande

della casa, circondata da gigli, crisantemi e rose bianche.

Era vestito di bianco e ricoperto da un velo su cui erano

sparsi tanti petali di rosa. Con una mano teneva dei gigli e

con l’altra la coroncina del rosario.

Anselmo restò in silenzio, quasi meravigliato di vederlo

posto in quella bara. Lui, lo aveva immaginato in Cielo

anche con il corpo, secondo il racconto di Maria.

Sollecitato dalla mamma, si chinò e gli baciò la manina.

- Il tuo cuginetto non verrà più a scuola e non giocherà

più con te – disse singhiozzando lo zio – mentre lacrime di

dolore gli solcavano tutto il viso.

Reso l’omaggio, Anselmo fu riportato a casa.

Nel pomeriggio tutti gli scolari del paese parteciparono al

corteo funebre, con un giglio o una rosa bianca in mano.

Totò era morto senza eccessive sofferenze, nel suo letto,

circondato dall’affetto dei suoi cari. Era stato preparato ed

aveva fatto una buona morte, una morte cristiana, secondo

l’insegnamento evangelico. ……. (continua)

La porta di casa venne coperta con una striscia obliqua di

stoffa nera che si lasciò sdrucire da sé, col tempo. Zio

Peppino fu invaso da una tremenda depressione e, col

pensiero, spesso ripercorreva il ciclo della sua sofferenza.

Per mesi desiderò ardentemente sentire il bambino accanto

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a sé e la notte si svegliava avendo la sensazione di sentire

la sua voce.

Per un lungo periodo la stanza di Totò rimase intatta:

nessuno osò violarla.

Da quel giorno, a casa di Anselmo, tutte le sere, quando

si recitavano le preghiere, Totò ebbe un posto d’onore e il

suo ricordo continuò a lungo nel tempo.

- La morte non è niente, noi siamo andati semplicemente

nella stanza accanto - diceva Sant’Agostino e Anselmo lo

ripeteva ogni volta che pregava.

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La mamma Chi voleva più bene ad Anselmo?

Non c’era unità di misura per calco-

lare l’amore e il dolore. Quei senti-

menti avevano colori e forme diver-

se. Il papà, la mamma, la sorella e,

più tardi, il fratellino stavano tutti

insieme e al primo posto.

La mamma era costantemente pre-

sente. La mattina bolliva il latte, lo metteva a tavola insie-

me alla sorella e poi facevano colazione con i biscotti in-

tinti nella tazza di latte fumante.

- Se mi vuoi bene, devi finirlo tutto – era il piccolo ricatto

del momento; oppure: - Devi mangiare qualcosa, altrimenti

non potrai guarire.

Anselmo, al pomeriggio e alla sera, s’addormentava nel-

le braccia della mamma che le canticchiava una ninna

nanna, per lui un po’ fastidiosa, ma che lo faceva addor-

mentare e, come tutti i bambini, lui non voleva dormire e

gridava: -Non voglio il mare, non voglio la marina - parole

contenute nella ninna nanna.

La sera il papà, prima di andare a dormire, faceva una

breve sosta davanti al suo lettino, gli sentiva il polso, gli

faceva fare il segno della croce e gli dava un cioccolatino,

dei biscotti, dei fru fru, un torroncino o altro dolcino e…. la

benedizione serale.

Era terribilmente triste a non vederlo più in piedi, a non

vederlo camminare. ……. (continua)

Usciti da quella clinica, a Messina, il papà chiese al

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bambino: - Ti ha fatto male, il dottore? E quanto male?

- Sì, molto - rispose il piccolo – Mi ha fatto tanto male,

quanto tutto il mare che abbiamo attraversato! (il mare

dello stretto di Messina).

A quel tempo la medicina non conosceva rimedi contro

quella malattia. Non restava che stare ad attendere il lento

scorrere del tempo che consumava tenere vite e prosciu-

gava i fiumi di lacrime versati dai poveri di ogni paese e

città. ……. (continua)

Il presepe Era da un bel po’ di tempo che

Anselmo desiderava un presepe tutto

suo, realizzato in casa e quell’anno si

mise all’opera per costruirlo.

Nell’impresa fu aiutato da Gianni

e dai genitori. Per prima cosa, fece

spazio in un angolo della camera da

pranzo, preparò un piano con delle tavole, (alto circa un

metro). Cercò poi un po’ di legna che coprì con la carta dei

sacchetti di cemento e realizzò le montagne; poi fece un

fiume con la carta stagnola ricavata dai pacchetti delle

sigarette; poi ancora, un laghetto con dei sassolini piatti; il

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fuoco fatto con un po’ di carta velina rossa e piccoli pezzi

di carbone; infine fece le stradine con della sabbia e il

restante spazio fu coperto con del muschio che Gianni e

altri bambini avevano raccolto nei pressi del torrente.

L’opera proseguì con alcune scatole di cartone che

servirono per realizzare delle casette (ma non si tenne conto

delle proporzioni e alcune risultarono poco più grandi delle

statuine); un coperchio di cartoncino circolare servì per

costruire l’ ovile, che venne recintato con degli stecchini di

canna. Infine, la capanna fu costruita con delle cortecce

d’albero di faggio e fu un vero capolavoro. All’interno

(della capanna) venne realizzata una piccola mangiatoia,

molto carina, fatta con dei fili di paglia sistemati con cura.

Le montagne vennero innevate con dei sottili strati di

cotone e con della farina. Alcune statuine gli furono

regalate da zio Peppino, in memoria di Totò, ma erano

vecchie e di creta. La costruzione di quel presepe impegnò

Anselmo e Gianni per diversi pomeriggi. Finalmente il

ventitre dicembre la rappresentazione del paesaggio era

tutta pronta e ben fatta. Mancava solo la statuina di Gesù

Bambino e nei negozi di Belfiore non si trovava da

acquistare. Andò in suo soccorso il sagrestano del paese

con un Bambinello bello, con i riccioli d’oro, ma ahimè, di

grandi dimensioni e sproporzionato per quel piccolo

presepe: occupava tutta la capanna, ed aveva un solo

braccino, l’altro era rotto e mancante. Il papà di Anselmo

cercò di rimediare subito, ricostruendolo con della cera. Ci

riuscì, ma lasciava a desiderare. Anselmo sistemò il

Bambinello nella mangiatoia e coprì l’arto con dei fili di

paglia, per nascondere quell’ handicap.

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Con i colori acquarelli, colorò le statuine di creta e le

mise ad asciugare sul balcone. La notte piovve e l’acqua le

spappolò.

E così, il giorno dopo, il presepe di Anselmo, rappresen-

tava solo un paesaggio deserto. C’era solo il Bambinello

con il braccino “ricostruito”, senza genitori, senza mucca e

asinello e senza pastori. Era solo come lui, con un arto

paralizzato, ma sorrideva a tutti coloro che andavano a

visitarlo.

Quel piccolo Gesù adagiato nella mangiatoia, rappre-

sentava l’essenza stessa del cristianesimo, l’amico di tutti

quei bambini che, animati dalla loro innocenza, l’avevano

accolto nella casa di Anselmo.

Poiché il Bambinello era solo, soletto in quel presepe,

Anselmo e amici pensarono di tenergli compagnia ed in

allegria. Ebbero l’idea di procurarsi delle canne di bambù,

tagliarle e farne dei fischietti che chiamarono impropria-

mente: piffero, flauto, clarino e con quegli strumenti musi-

cali, si radunarono, il giorno di Natale, davanti al Presepe,

cantando e suonando stonatissime ninne nanne a Gesù

Bambino.

Sul finire dell’anno scolastico, Gianni, il caro amico, partì

per l’America, dove anni prima era emigrato il suo papà. ……. (continua)

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La preghiera a Gesù Bambino Il dolore fisico, specialmente quan-

do fu ingessato a tutte e due le gam-

be e al torace, trovava sollievo con

due gocce di olio benedetto del Santo

Bambino Gesù di Praga che la mam-

ma cospargeva sul gesso, sulla parte

che faceva più male. Ogni sera,

prima di andare a letto, recitava insieme alla mamma la

Preghiera dell'ammalato: “O caro e dolce Bambino Gesù,

ecco un povero sofferente che, sorretto dalla più viva fede,

caldamente invoca il tuo divino aiuto a rimedio delle sue

infermità.

Questo olio che io uso e che arde davanti alla tua santa

immagine sia, o Gesù, il lenimento dei miei dolori ed

affretti, se così a te piace, la guarigione dei mali che mi

affliggono.

In Te ripongo tutta la mia fiducia. So che Tu puoi tutto, e

che sei tanto misericordioso, anzi la stessa misericordia

infinita. Grande Piccino, per la tua virtù divina, per

l'immenso amore che porti ai sofferenti, agli afflitti, a tutti i

bisognosi, ascoltami, benedicimi, soccorrimi, consolami.

Amen”. Seguivano Tre: "Gloria al Padre...

Il piccolo Anselmo era fiducioso nella potenza e nella

bontà del Santo Bambino Gesù: la fede e la preghiera erano

di sollievo ai suoi dolori. Confidava in Lui ed aspettava il

“premio”.

Gianni, essendo di casa, si commuoveva più d’ogni altro

bambino e ben presto si unì alla preghiera umile e sincera

dell’amico, che era particolarmente sentita durante l’unzio-

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ne e che terminava con "Santo Bambino Gesù, benedicimi".

Passò la voce a Ciccio, Ntoni, Michele e Rocco e dopo

qualche giorno, si ritrovarono insieme con puntualità

d’orario. Ogni giorno, nel primo pomeriggio, prima di

iniziare a giocare, la stanzetta di Anselmo si trasformava in

luogo di preghiera. Pregavano con fede, animati dalla loro

innocenza. Ciccio si chiese quante volte avrebbero dovuto

recitarla prima che il Bambin Gesù concedesse la grazia ad

Anselmo. Michele pensò di coinvolgere tutti i compagni di

scuola per accelerare i tempi, mentre Rocco minacciava di

non pregare più e di non andare a messa la domenica se il

miracolo avesse tardato ad arrivare. Ntoni, meno impulsivo,

pensava ad una soluzione alternativa, diceva che da grande

sarebbe diventato medico ed avrebbe inventato lui le

medicine per far guarire l’amico.

Finita la preghiera, si passava al gioco, all'allegria. ……. (continua)

La Befana Le prime feste per il piccolo Anselmo

iniziarono all’età di quattro anni (cioè

quando incominciò a comprendere il

significato di festa) e furono: la

Befana, il compleanno, l’onomastico e

la caduta del primo dentino.

La sera, nel periodo natalizio, riuniti

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intorno alla ruota del braciere, mamma e papà gli

raccontavano mille fiabe e fra queste non poteva mancare

quella della Befana: la vecchietta bruttina che viaggiava a

cavallo di una scopa, volando sopra i tetti delle case.

Portava doni ai bambini buoni e, cenere e carbone a quelli

cattivi. Era puntualissima, arrivava sempre la notte tra il

cinque e il sei gennaio, quando i bambini stavano a

dormire, altrimenti non le era dato permesso di entrare nelle

case. Di lei si racconta che un giorno, i Re Magi partirono

dall'Oriente carichi di doni, diretti a Betlemme per portarli

a Gesù Bambino. In groppa ai cammelli, attraversarono

molti paesi, guidati da una stella. La gente salutava con

gioia il loro passaggio e, tanti li seguivano. Arrivati in un

paesino quasi disabitato, temendo di sbagliare strada,

chiesero informazioni ad una vecchietta che videro affac-

ciata alla finestra della sua piccola casa. Era una vecchietta

bruttina e arcigna, ma i Magi non ci fecero caso e la invi-

tarono, e con non poche insistenze, affinché li seguisse per

far visita al piccolo Re. La donna un po’ distratta e un po’

per pigrizia, non colse l’importanza dell’evento, non uscì di

casa e rifiutò l’invito. Il giorno dopo, pentitasi, dopo aver

preparato un cesto di dolci e tante altre cose buone, si vestì

alla svelta, indossò un gonna scura ed ampia, piena di toppe

colorate, un grembiule con due tasche, uno scialle, un

fazzoletto in testa e un paio di ciabatte consunte e uscì di

casa. Cercò di raggiungere i Re Magi, ma quelli erano

ormai troppo lontani.

Così si fermò ad ogni casa che trovava lungo il cammino,

donando dolciumi ai bambini che incontrava, nella

speranza che uno di essi fosse il piccolo Gesù, ma non lo

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vide né quella volta né mai più. Da allora la vecchietta

brutta ma dal buon cuore, nella notte fra il cinque e il sei

Gennaio, volando su una scopa con un sacco sulle spalle,

passa per le case ed entra attraverso le cappe dei camini o le

fessure delle finestre per portare ai bambini buoni i doni

che non è riuscita a portare a Gesù Bambino. Anselmo

restò incantato e affascinato nel sentire quella storia e volle

considerare la Befana una nonna buona.

La sera della vigilia dell’ Epifania, Anselmo, Gianni,

Pino, Ciccio ed altri bambini del vicinato, si riunirono e

tennero consiglio sul come prepararsi all’arrivo della

Befana. Per prima cosa bisognava trovare calze lunghe che

potessero contenere più roba possibile e poi attaccarle al

camino. La Befana, viaggiava carica di doni e conosceva il

cuore di ogni bambino.

- Ma le basteranno i regali per tutti i bambini di Belfiore? –

chiese Ciccio.

- La Befana passerà per tutti i paesi dove ci sono bambini e

non solo per Belfiore – rispose Gianni.

- Ma come farà a fare il giro delle case in una sola notte? –

chiese ancora Ciccio.

- La Befana, prima di diventare vecchia, era una fata ed ha

conservato la bacchetta magica, così il suo lavoro è più

facile – rispose Anselmo.

- Forse è meglio ritornare nelle nostre case, appendere le

calze e andare a dormire, altrimenti restiamo senza regali –

disse Gianni.

- Sì, sì – risposero in coro gli altri bambini e ognuno tornò

a casa sua

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S’era fatto tardi, e tutti andarono a letto in fretta, per

destarsi di buon'ora a vedere quel che la Befana avrebbe

messo loro nella calza. Anche Anselmo appese la calza ed

andò a dormire, ben sapendo che diversamente avrebbe

attirato le ire della vecchietta e non avrebbe ottenuto alcun

dono. Sognò una Befana vecchietta, ma carina, che gli

riempì la calza di caramelle, cioccolate, torroni ed altro.

Sentì un rumore e pensando si trattasse della Befana, si

raggomitolò convulsamente nel lenzuolo e si nascose sotto

le coperte. Poi sentì la voce della mamma che disse: - Non

aver paura, sono io, la tua mamma. La Befana è già passata

e la tua calza è piena, stracolma di tante cose buone:

dolcetti, caramelle, cioccolate, torroni ed altro.

Anselmo tirò fuori la testa da sotto il lenzuolo e s’affacciò

per vedere la calza piena che stava appoggiata ai piedi del

lettino.

La mamma le rimboccò le coperte, ma ormai Anselmo

voleva alzarsi.

Le luci dell’alba si accendevano e anche il papà si alzò e

andò nella stanzetta di Anselmo canticchiando una vecchia

filastrocca: “La Befana vien di notte, con le scarpe tutte

rotte, col cappello alla romana, viva viva la Befana!”

Oltre alle caramelle, cioccolatini e dolcini vari, quell’an-

no la Befana gli portò il trenino di latta, con la ferrovia

circolare, la stazione, il semaforo e la galleria. Il giocattolo

durò poco meno di un giorno in quanto Mario, il vicino di

casa, glielo ruppe.

Nonostante il male che l’aveva colpito, Anselmo fisi-

camente restava un bel bambolotto. Stimolava i compagni

ad una partecipazione attiva verso i bisognosi. Diceva che

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lui non era il solo malato del mondo e che bisognava

volgere l’attenzione ai bambini più malati di lui.

Sopportava con dignità le sue vicissitudini aiutando i suoi a

vivere più serenamente. Più di una volta aiutò mamma e

papà a superare momenti di "sconforto". In tale direzione

diventava un piccolo uomo e trasmetteva pace. Miracolo

dell'infanzia e dell’innocenza! Nell’oasi della solitudine,

l'innocenza era la fonte della sua felicità, un vestitino

profumato dalle sue parole.

Una festa tutta sua, a suo uso e consumo, oltre al com-

pleanno e l’onomastico, Anselmo la ebbe con la caduta del

primo dentino. Quando il dente incominciò a muoversi, in

famiglia tutti desiderarono partecipare all’evento e offrire i

propri consigli: papà temeva per il dolore e la mamma,

invece, sperava di essere proprio lei a strapparglielo.

Anselmo ogni giorno provava a muoverlo e voleva essere

proprio lui a strapparsi il dentino da solo. Arrivato il

momento tanto aspettato, fu la mamma a strappargli il

dentino, che, immediatamente, venne nascosto sotto una

cassa in cucina. Puntualissimo, la notte arrivò il topolino

dei dentini e gli portò cento lire.

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Le francesine

Quell’estate, a casa di Gianni,

arrivarono le cuginette francesi:

quattro graziose bambine magroline

e apparentemente un po’ timide

anche per via della difficoltà della

lingua.

Marie, Françoise, Stéphanie e

Sophie, così si chiamavano le

bambine, portarono in regalo, al cuginetto, un astuccio in

pelle di coccodrillo contenente dodici colori a matita, un

temperino in ferro, una gomma, un righello e un pezzetto di

gesso, mentre la nonna, dal canto suo, gli portò un

salvadanaio in legno e una busta di caramelle.

Quei regali, per Gianni, furono degli autentici tesori: li

mostrava con estrema delicatezza ai familiari e all’amico

Anselmo, ma non volle mai temperare i colori per non

consumarli.

Nel rione, la mamma delle bambine fu chiamata mamere,

la nonna grammere, e il papà, mompere, cioè italianizzando

e storpiando le espressioni francesi: ma mère, grand mère

e mon père.

Marie, la più grande aveva sei anni, aveva frequentato la

prima elementare ed era stata promossa in seconda, mentre

le altre sorelline avevano cinque, quattro e due anni, e

andavano all’asilo.

Marie era la più alta, bruna, magra, molto allegra e

carina. Appena arrivata, era sembrata molto chiusa, ma

dopo qualche giorno, appena spuntarono le prime amichette

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ed ebbe un po’ di confidenza, si rivelò una bambina tutta

pepe, piena di energie e con mille idee nel proporre i giochi

o per stabilire le regole quando venivano praticati. Il suo

carattere era più che solare, sempre sorridente, pronta a

scherzare e a scimmiottare con le parole dialettali che

riusciva a memorizzare. Un po’ troppo chiacchierona, come

diceva sempre la grammere, che molto spesso era costretta

a riprenderla. Marie faceva da “chioccia” alle sue sorelline

tanto nel guidarle, quanto nel proteggerle.

Fra le tante bambine che spuntarono da ogni angolo del

vicinato, Fina, la loro cuginetta, fece la capofila. Il gioco

preferito fu quello “della campana”.

Per la mentalità del tempo, le femminucce non potevano

giocare con i maschietti e quindi si stava ben attenti a non

invadere gli spazi di gioco degli uni o delle altre.

Tuttavia Gianni giocava assieme alle cuginette, ascoltava

Marie anche se parlavano lingue diverse: i gesti prendevano

il posto delle parole e il dialogo scorreva dolcemente come

un ruscello, assecondandola in tutti i suoi progetti, le

procurava l’occorrente per ogni nuovo gioco: un giorno gli

fu chiesto di raccogliere la carta argentata all’interno dei

pacchetti delle sigarette, un altro ancora aveva dovuto

trovare dei pezzettini di vetro colorato, un altro ancora

aveva dovuto aiutarla a costruire una collana di fiori…

Insomma, Gianni, oltre che cugino, era un amico perfetto

per Marie, una spalla su cui ella poteva sempre contare, un

ragazzo fidato, attento, pieno di idee pratiche ed utili,

spesso, anche a ridimensionare gli entusiasmi della

bambina.

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Ogni mattino si alzava prestino, ma aspettava sempre le

cuginette per far colazione. Di tanto in tanto c’era l’uovo

sbattuto con lo zucchero e poi allungato con il caffè d’orzo

e per tutti era gran festa.

Anselmo, nell’ascoltare pregare le bambine, aveva

imparato, a suo modo, l’Ave Maria in francese. Alcuni

giorni dopo la mamma lo sorprese che farfugliava parole

francesizzanti. Gli sorrise e gli chiese: - Come fai a pregare

in francese, se non conosci la lingua?

- Io non capisco, è vero - ammise Anselmo - ma la

Madonna capisce perfettamente. Non mi vorrai dire che

Bernadette parlava in italiano? La Madonna ascolta e non

risponde, ma se dovesse farlo, Marie tradurrebbe per me.

La mamma sorrise, ma si allontanò velocemente per

nascondere le lacrime che sgorgarono improvvise come un

temporale.

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CAPITOLO II

Prima Elementare Nel giardino di casa, Anselmo sta-

va sdraiato al sole, circondato da bel-

lissime rose di ogni colore, che la face-

vano da padrone, da tulipani, gladioli e

tantissimi altri fiori che lui curava di

persona.

Le lucertole correvano da una parte

all’altra del giardino, sulle pareti della

casa e sugli alberi. Di tanto in tanto si vedeva qualche

timido geco che, appena osservato, sentendosi in pericolo,

correva a nascondersi. Il geco o salamandra, come

impropriamente veniva chiamato, pur essendo innocuo, per

la brutta conformazione del suo corpo e in quanto rettile,

disturbava la tranquillità del nostro amico.

Stava aspettando il nipotino che non vedeva da oltre un

anno. Arrivò da lì a qualche minuto. Nell’abbracciarlo gli

sembrò cresciuto di altri tre anni. Romy, figlio del fratello

ed unico nipotino che portava il suo cognome, gli

assomigliava moltissimo, messo a confronto con la vecchia

foto di Anselmo bambino, sembrava la stessa persona,

sembrava che Iddio avesse voluto far riaffiorare una

bellezza perduta.

Romy amava stare con lo zio per amor parentale, ma

anche perché lo zio, per lui, rappresentava “il sapere”, lo

poteva interrogare su tutto e trovava sempre una risposta ai

suoi “perché” ed anche la soluzione ai suoi piccoli

problemi.

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Anselmo riparava i suoi giocattoli rotti, gli insegnava a

costruire gli aerei, i missili, le barchette e i cappelli di car-

ta, sistemava per bene l’album delle figurine, incollandole

con ordine e, inoltre, gli permetteva di fare tante cose,

come ad esempio giocare con il computer o a gioire a star-

sene seduto al posto di guida nella macchina parcheggiata

in giardino.

Quella volta Romy preferì sedersi accanto allo zio e con-

versare con lui. Avevano tante cose da raccontarsi, nono-

stante si fossero sentiti telefonicamente quasi tutti i giorni.

Romy prese una sedia a sdraio e la sistemò accanto a quella

dello zio. Senza perdere tempo gli chiese: - Mi racconti un

po’ di quando eri piccolo come me?

Anselmo si alzò dalla sdraio, abbracciò nuovamente il

nipotino e affettuosamente con le mani, gli grattò la

testolina, spettinandogli i corti capelli.

Incominciò a raccontare degli anni del suo passato, quando

era piccolo come lui e doveva iniziare ad andare a scuola.

- Era martedì primo ottobre dell’anno millenovecentocin-

quantasette, il mio primo giorno di scuola. Allora l’anno

scolastico incominciava a ottobre e finiva a giugno. Ricor-

do quel giorno con molta emozione. Il nonno mi aveva

accompagnato in braccio sin dentro il corridoio dell’edifi-

cio e stette con me sino a quando il bidello non ci indicò

l’aula. L’emozione di quel giorno fu così forte che mi

sembrò di svenire – disse Anselmo. ……. (continua)

- Per la prima volta – continuò Anselmo - indossai il

grembiule nero con colletto bianco e fiocco celeste grande

e vistoso. Per la prima volta entrai in un’aula scolastica:

uno stanzone, ben illuminato da due grandi finestre che

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s’affacciavano sul giardino posto al piano di sotto. Sulla

parete, alle spalle del maestro, in alto, c’era un crocifisso,

più in basso una carta geografica dell’Italia politica, e poi

tutt’ intorno, numerosi cartelli con le lettere dell’alfabeto e

raffiguranti gli oggetti che indicavano la lettera: B

bandiera, D dado, C casa, S sole e via continuando. Le

pareti e il soffitto erano bianchissime e tutto era pulito. I

banchi, biposto, di legno robusto, erano messi in ordine e

disposti in tre file. Il piano del banco era leggermente

inclinato, comodo, ma bisognava stare attenti al calamaio,

perché, se messo male, l’inchiostro scivolava addosso e ci

si sporcava tutto. Poi ancora: la lavagna, il gesso, il

cuscinetto, il cestino, la cattedra, la bacchetta. …….

(continua)

Dopo le vacanze di Natale, a scuola, fu attivato il

servizio di refezione gratuito, riservato agli alunni più

poveri. Pasta, con il sugo, riso o minestrone e poi un panino

con formaggio, marmellata, tonno e qualche volta pure

mortadella. Gli scolari facevano a gara per parteciparvi,

anche se i loro genitori non volevano, perché la

partecipazione alla refezione significava, nell’immaginario

collettivo del tempo, la povertà; e nessuno voleva essere

considerato ufficialmente povero. Ma i ragazzi, per

golosità, aspettavano, volevano il “panino”. La mensa era

situata al piano di sotto dell’edificio scolastico, con le

finestre che davano sul giardino. A sinistra, sullo stesso

piano, abitava il bidello e famiglia. Si facevano due turni di

quindici giorni ciascuno, e le ore di ricreazione, restano i

ricordi più chiari e vivi. ……. (continua)

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Seconda Elementare In seconda elementare ebbe come

insegnante la signorina Concetta

Parisi, divenuta signora Gentile nel

corso dell’anno, una giovane donna,

magrolina, alta, capelli ed occhi neri,

un viso quasi angelico e un compor-

tamento affettuoso verso ogni alun-

no, ma severa nell’ insegnamento.

Si sposò in quell’anno e ai suoi alunni portò i confetti.

- Voglio anch’io un’insegnante che si sposa e che mi porta

i confetti quando vado a scuola – interruppe Romy,

avvertendo un po’ di acquolina in bocca.

- Ma tu di confetti ne hai tanti, replicò Anselmo.

- Io voglio quelli della maestra – continuò Romy.

Si era fatto tardi, si doveva uscire per la passeggiata

serale. Anselmo smise di raccontare.

In seconda classe, Anselmo ebbe anche una nuova

cartella, sempre in cartoncino, che nel mese di dicembre

sostituì con un’altra di cuoio vinta con le figurine punti

della “Ferrero”. Occorsero ben duemila figurine, che

corrispondevano al consumo di ben duemila pezzi di

cioccolata. Ma la cosa curiosa fu che con quella cartella,

Anselmo, compì l’anno scolastico, finì la terza, la quarta,

la quinta, i tre anni della scuola media, i cinque anni del

liceo e poi, ancora, gli anni di università. Come se non

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bastasse, era rimasta ancora nuovissima e faceva parte dell’

arredo del suo studio professionale. ……. (continua)

Nel paese di Belfiore, quell’anno accadde un evento

molto speciale, ricordato ancora oggi, come l’anno del

pentimento e della conversione delle anime. Tre Padri

predicatori redenzionisti dell’Ordine di S. Alfonso M.

Liguori arrivati da molto lontano, “scossero” le coscienze e

coinvolsero tutti gli abitanti del paese.

Tutto iniziò la settimana prima delle Palme, con l’inizio

delle prediche pasquali. Come fosse trainata da una

misteriosa ed invisibile forza soprannaturale, la gente ogni

sera assiepava la Chiesa matrice, per ascoltare la parola di

Dio.

Dall'alto del pulpito posto sul lato sinistro dell’altare, i

“Padri predicatori” tenevano le prediche, incantando e affa-

scinando i fedeli, con le loro suadenti loquacità, senza mai

stancare. Grazie alla semplicità dei discorsi inframezzati da

motti, barzellette e battute spiritose, la partecipazione susci-

tava allegria.

Quelle prediche creavano un’atmosfera di commozione e

contrizione, da Purgatorio. Quando parlavano delle pene

dell’ inferno, i fedeli sentivano quasi bruciare le loro carni,

e il pentimento dei peccati era molto profondo e sentito,

come se la fine del mondo fosse imminente. ……. (continua)

La gente cantava: "Sono stati i miei peccati, Gesù mio

perdòn pietà”. Parole semplici, ma sentite molto forte a

livello intimo, tutti e ognuno responsabili senza complici

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dei mali che il mondo viveva e di tutte le spine inflitte a

Gesù Cristo.

La predica era sempre ardente e commossa e i fedeli

intonavano i canti della passione. Al ritorno, nuove

funzioni in Chiesa.

Le case restavano vuote. Dolore e speranza, si alternava-

no. Le parole dei padri predicatori per la morte atroce di un

Innocente, immolatosi per la salvezza dei propri figli

peccatori, erano l’argomento di riflessione in ogni casa. Il

Sabato Santo poi la messa di Risurrezione (il Gloria). "I

guti" (i voti, il dolce pasquale tradizionale): il

“pappagallo”, con l'uovo sodo per i maschietti e la

“bambolina" per le femminucce. ……. (continua)

Alla fine dell’anno scolastico, la maestra nel salutarli ed

augurar loro buone vacanze, li baciò uno per uno, sulla

fronte. Molti di loro restarono commossi e lei, con l’affetto

di una mamma, li abbracciò ancora tutti insieme e dovette

tirare fuori dalla tasca un fazzoletto per asciugare le lacrime

sue e quelle dei bambini.

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Terza Elementare In terza elementare arrivò il mae-

stro Attilio Sacco, insegnante molto

superficiale e con il quale i progressi

scolastici di Anselmo subirono una

battuta d’arresto. Di quell’anno, due

sono le cose che ricordava in partico-

lare: i libri, che furono due, e il suo

“abbandono” nell’aula.

In terza classe al libro di lettura si aggiunse il

sussidiario, segno di passaggio, dalla prima alla seconda

fase della scuola elementare.

Avere nella cartella il sussidiario, lo faceva sentire più

grande. Sussidiario significava, ingresso nel mondo del

conoscere, dividere gli argomenti di storia, di geografia, di

scienze, di matematica ed altro.

Fino alla seconda elementare aveva avuto a disposizione

un solo testo: il libro di lettura.

Di quell’anno Anselmo ricordava un episodio molto triste

che lo aveva segnato profondamente e che non riuscì mai

più a dimenticare.

Una mattina del mese di aprile, l’insegnante Sacco decise

di portare a passeggio i suoi alunni. Felicità dei compagni

di classe e risate cattivelle indirizzate ad Anselmo, che non

po-teva andare con loro. Il professore Sacco ebbe la felice

idea di “chiuderlo solo nell’aula” e portare il resto della

classe, a passeggio: un “sequestro” di persona in piena

regola e senza attenuanti, se non la cretinaggine e la

superficialità di quel povero insegnante.

Anselmo si ritrovò rinchiuso in un’aula scolastica per

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colpa esclusiva del suo handicap. ……. (continua)

Anselmo, nonostante il suo handicap, in periodi diversi,

frequentò la bottega del falegname, del calzolaio e del

sarto.

E’ di quegli anni un ricordo speciale di Anselmo, quello

della venditrice di uova.

La gnura Peppina arrivava da Cire, era una donna

semplice, magrolina, vestita in nero, e svolgeva quell’umile

lavoro con molta dignità. La signora Rosina, la stimava

molto e ogni volta che la vedeva, le teneva pronto un

regalino da portare via. La gnura Peppina partiva da Cire,

(frazione di Belfiore), attraversava la collina che separava i

due paesini e dopo due ore circa di cammino a piedi,

arrivava a destinazione. Si dedicava prima alla raccolta

delle uova dalle campagne sia di Cire che dei centri vicini,

portandole in ampi panieri ed in canestri, retti sulla testa

per vari chilometri, poi le rivendeva ai privati cittadini e

quando le restavano invendute, c’era sempre il baratto. Si

contavano le uova, si faceva il conto e si dava l’equivalente

in merce del negozio: pasta, zucchero, sapone o altro.

La gnura Peppina spesso portava un uovo di giornata per

il bambino malato, oppure a volte della cicoria che

raccoglieva lungo la strada per raggiungere il paese, o

ancora una busta di lumache a secondo della stagione.

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Quarta Elementare In quarta elementare, altro nuovo

insegnante, fine della “pacchia” del

“poco insegnamento” e delle “molte

passeggiate”.

Il nuovo insegnante, il maestro

Alfredo Malerba, era gentile e permis-

sivo e inoltre non utilizzava metodi

punitivi severi.

In quarta, le varie materie si distaccavano le une dalle

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altre in modo più netto e più chiaro. La grammatica, quella

brava signora, pignoletta, che insegnava a parlare e a

scrivere in maniera corretta; la morfologia che invitava a

studiare le parti del discorso e a coniugare esattamente i

verbi; la sintassi che consentiva di costruire le proposizioni,

i verbi transitivi e intransitivi, che poi veniva comunque

dimenticata ad ogni occasione, lo studio delle nove parti del

discorso, con le sue cinque variabili (nome, verbo,

aggettivo, articolo, pronome) e le quattro invariabili

(avverbio, preposizione, congiunzione, interiezione).

Il maestro simpaticamente spiegava l’accrescitivo e il

diminuitivo e diceva: “ragazzone, scarpone, casone, ma una

grossa botte non è un bottone e un grosso matto non è un

mattone e una piccola rapa, non è una rapina!”. ……. (continua)

Da qualche anno Anselmo, come tanti altri ragazzini,

aspettava il mese di dicembre per tutto quello che portava

con sé. Il presepe lo affascinava e a scuola se ne parlava

con i compagni. F. Moaro era forse il più bravo ed era a

capo di un gruppetto di ragazzini che lo ossequiavano e sui

quali poteva contare per tutte le occorrenze. Nei momenti

di ricreazione si parlava di muschio dove e come trovarlo,

di come realizzare le montagne e del come realizzare il

paesaggio natalizio.

Nella chiesa matrice c’era Mimmo Oddo che al tempo

realizzava il tutto. Anselmo ed altri bambini andavano

spesso in chiesa per entusiasmarsi dei lavori giornalieri che

portavano al capolavoro finale.

Nel paese si potevano contare quattro o cinque famiglie

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che si dedicavano all’arte del presepe e quell’anno

Anselmo voleva aggiungersi alla lista.

I bambini per andare a scuola uscivano dalle case

infreddoliti, i più piccoli portati in braccio, i più grandi

raccolti, a due o a tre, coperti da un mantello comune,

spesso di tela cerata che rendeva difficile il cammino.

Degli uomini, qualcuno correva, quasi volesse schivare la

neve, sgusciando tra falda e falda, qualche altro camminava

tranquillo e non curante, come se i fiocchi di neve

cadessero lontani dal suo passaggio e quasi a sfidare la

neve, diceva tra sé: “Posso pur gelare, ma la soddisfazione

di farmi correre, quella proprio, non gliela do!”.

E poi tutto un campo bianco e soffice invaso dai ragazzi per

disputare nuove partite di gioco con palle bianche.

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Quinta Elementare In quinta elementare arrivò un nuo-

vo insegnante: il maestro Dicembre.

La classe fu trasferita in una suc-

cursale poco distante dall’edificio sco-

lastico.

Era una casa privata con due stanze

a piano terra. In quella nuova sede si

allestirono due aule, la quinta classe

del maestro Dicembre e la terza classe della signorina mae-

stra Eliana. Le due aule erano sprovviste di riscaldamento e

quell’inverno si usarono le stufe elettriche che scaldavano

poco e male: infatti i ragazzi avevano, quasi tutti, i geloni

alle mani e ai piedi.

Il maestro Francesco Dicembre non perse tempo ed

iniziò subito a corteggiare la giovane insegnante della porta

accan-to: una donna carina che vestiva sempre con accurata

semplicità.

Gli affari di cuore ebbero priorità sul lavoro d’insegnante

e le “lezioni”, sin da subito, si ammorbidirono.

Il governo della classe passava di mano al capoclasse. Il

maestro Dicembre trascorreva intere mattinate in dolce

con-versazione con la signorina Eliana e, ogni mattina,

appena entrati, prima di chiamare l’appello, visto che non

c’era alcun bar vicino, dove poter fare colazione, egli

capovolgeva la stufa elettrica e la trasformava in fornellino,

sul quale metteva un pentolino con del latte per farlo

bollire, che poi serviva all’innamorata. ……. (continua)

Un giorno mentre in classe i missili di carta volavano in

ogni direzione, l’attenzione dei ragazzi fu catturata dal

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suono delle note musicali di una fisarmonica che

provenivano da fuori, lungo la strada. La festa in classe si

accese maggiormente, i ragazzi corsero a vedere e

s’accalcarono alla finestra e alla porta; videro un girovago

che in quel momento passava da quelle parti con una

piccola fisarmonica e una gabbietta con un pappagallino.

I ragazzi uscirono in istrada e lo circondarono, incuriositi

da quell’uccellino che beccava i bigliettini della “fortuna”,

da un cassetto della gabbietta e vollero provare. ……. (continua) anche Anselmo volle interrogare la dea bendata. C’era

scritto: “camminerai”, ma non era la verità! ……. (continua)

L’ ombrellaio Gli inverni erano anche più piovo-

si, più freddi e più lunghi e ogni

anno, puntualmente si aspettava la

neve.

L’ombrello era l’oggetto personale

di cui si aveva più cura. Quando lo

si prestava ad un familiare o ad un

amico, si facevano mille raccoman-

dazioni: “stai attento a non dimenticarlo”, “stai attento al

vento”, “è un ombrello nuovo” e via di questo passo. Poi

quando una raffica di tramontana rovesciava la cupola di un

ombrello o sconnesso qualche stecca si aspettava di sentire

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la voce de l'”umbrellaru” (ombrellaio). Questo era un uomo

che si faceva vedere, in periodi ben precisi e cioè prima e

durante i periodi delle piogge.

Vestiva male, forse per stare in sintonia con il “mal”

tempo.

Quel modo di vestire serviva a proteggerlo nelle giornate

brutte, ma gli permetteva anche di lavorare in modo più

libero.

L'”umbrellaru” portava con sé un'attrezzatura costituita

da pinze, filo di ferro, stecche di ricambi, pezzi di stoffe,

aghi, filo, spaghi di vario genere tutto in una cassetta di

legno sulla quale si sedeva durante il lavoro che non era né

facile, né breve. ……. (continua)

La struttura dell'ombrello era facile da incepparsi all'altezza

dell’ anello di scorrimento.

Le cattive condizioni economiche non permettevano

l'acquisto di più di un ombrello per tutta la famiglia, così

per le basse tariffe di riparazione e non ultima, per la men-

talità del tempo di non buttare via nulla o distruggere quello

che poteva ancora servire permettevano a questo mestiere

di sopravvivere.

L'ombrellaio girava per il paese a piedi alla ricerca di

eventuali clienti e gridava: "umbrellaru - umbrellaru".

Quando era impegnato dimostrava che tutto era riparabile.

Ci voleva solo pazienza e bravura.

Arrangiava sulla tela, l’aggiustava o la cambiava del tut-

to; armeggiava con la pinza su pezzi metallici, sul manico

finché l’ombrello non tornava a funzionare come prima.

A casa di Anselmo anche per lui c’era un’accoglienza

particolare.

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Era rozzo nel vestire, ma sicuramente molto colto. Un

giorno mentre riparava l’ombrello di donna Rosina, con

saggezza e semplicità raccontò la storia dell’oggetto del

suo lavoro. Incominciò a raccontare mentre sceglieva un

pezzo di stoffa nera che doveva servire da toppa per

l’ombrello. Una diecina di persone facevano ruota attorno a

lui. Il suo racconto, che fu una singolare e bella lezione su

quell’oggetto che tutti usavano, ma di cui nessuno cono-

sceva la provenienza. In pochi minuti le sue parole lo

elevarono culturalmente al di sopra di tutti i presenti e fu

bravo quanto un professore di letteratura italiana. Quei

cenci che indossava in un attimo si illuminarono e

apparirono come le pagine ingiallite di un vecchio libro,

che custodivano pagine di cultura, un vecchio libro delle

migliori biblioteche. Anselmo ebbe l’istinto di chiamarlo

professore, e lui, alzando la testa, con gli occhi sorridenti,

gli rispose:

- No, io sono Matteo l’umbrellaru, solo un ombrellaio, un

uomo povero che non conosce il mondo, ma solo la miseria

e il tempo cattivo. Io racconto dell’oggetto che riparo, che

mi fa guadagnare un pezzo di pane e domani questo bel

bambino, racconterà di me.

Anselmo ebbe come una fitta al cuore, Matteo gli stava

dicendo che la vita li avrebbe divisi e che lui sarebbe finito

di vivere prima di lui. Voleva rivederlo sempre, magari ad

ogni temporale e pregare sua madre di farlo sedere a tavola

con loro quando si mangiava ancora della buona verdura

con i fagioli.

Matteo iniziò la sua lezione dicendo: ……. (continua)

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Il nonno paterno Il nonno paterno era mugnaio ed

aveva il mulino sul Corso

Garibaldi, a pochi metri dal posto

del telefono pubblico e a poca di-

stanza dalla casa di Anselmo.

Nei mesi invernali in certi

periodi e nel primo pomeriggio

Anselmo veniva portato dal papà al

mulino per stare un po’ col nonno e fargli un po’ di compa-

gnia. Dal suo canto Anselmo amava passare delle ore con

il nonno perché questi gli faceva dei complimenti, spesso

gli diceva: “ Oh Madonna mia, quanto è intelligente questo

bambino!” Ma, amava andare dal nonno soprattutto perché

in un angolo del mulino, chiusi in una sorta di recinto, c’era

una coppia di conigli che a lui piaceva tanto per cui stava

ad osservarla per ore.

Come tutti i conigli, anche quelli del mulino, erano timi-

di, ma lentamente diventavano socievoli ed affettuosi, così

ogni giorno cercava di toccarli, di accarezzarli per conqui-

stare la loro fiducia anche se la cosa era molto impegnativa.

Sapeva che a loro non piaceva essere presi in braccio e

coccolati, perciò si limitava a toccare la loro testolina. Ogni

tanto, per renderlo felice, il nonno che sapeva maneggiarli

con sicurezza, prendeva uno dei due coniglietti e glielo fa-

ceva toccare, mentre tutto impaurito passava di mani in

mani. Ad Anselmo bastava toccargli un po’ il musetto e le

orecchie, per gioire.

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Non ci volle molto tempo che quei coniglietti capissero

ed accettassero l’amicizia del bambino, comunicandogli a

loro volta e a loro modo, un infinito amore.

Ogni volta che andava al mulino, portava un pezzettino

di carota o di banana, o un po’ di erbe fresche, special-

mente delle cicorie e li teneva in mano fino a quando i

coniglietti non uscivano dalla loro tana. Bisognava avere

tanta pazienza ad aspettare. Era dolcissimo vederli affac-

ciati sull’uscio con cautela. Poi si avvicinavano per

annusarlo e constatando che non vi era alcun pericolo

cercavano di afferrare il cibo e scappare per mangiarselo di

nascosto, ma ben presto si convincevano che ciò non era

possibile e si fermavano a rosicchiare la loro leccornia, che

Anselmo teneva stretta ad una estremità. C’erano anche due

coppie di colombe che vivevano in piena libertà, volavano

per tutto il giorno e per tutto il paese e poi, la sera, torna-

vano al mulino dove avevano il nido. Infine, c’erano anche

delle galline e dei pulcini. Ma galline e pulcini non manca-

vano neanche a casa sua, per cui l’interesse verso i volatili

era meno sentito. Chissà perché i bambini hanno molto

feeling con gli animali? ……. (continua)

Un giorno, arrivato al mulino, il nonno disse al nipotino

che c’era una sorpresa: erano nati ben otto coniglietti e tutti

in buona salute, ma che non avrebbe potuto toccarli,

accarezzarli se non dopo due settimane. Quei coniglietti lo

distolsero un po’ dallo studio, dal mangiare, dal gioco. Da

quel giorno non vedeva l’ora di andare al mulino per vedere

i coniglietti. Li contava e li ricontava tutti i giorni, gli dava

dei nomi e intanto aspettava che passassero i quindici

giorni per potere tentare di giocare con essi. Quei

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coniglietti per Anselmo erano una nuova fonte d’amore e il

nonno gli promise, che dopo lo svezzamento, quando non

avevano più bisogno della mamma, gli avrebbe regalato

una coppia. Continuò ad andare ogni giorno dal nonno con

sempre maggiore entusiasmo e gli portava il pranzo che la

mamma preparava per lui e un po’ di erba per i coniglietti.

Spesso il nonno stava imbronciato con i suoi genitori e con

tutti gli altri suoi figli, ma quando arrivava Anselmo con il

cestino del pranzo, poteva contenere un piatto di minestra o

di maccheroni fatti dalla sua mamma, il nonno gli diceva

che avrebbe consumato il pranzo solo perché glielo aveva

portato lui. In quel modo egli riconosceva il suo affetto e lo

ricambiava con il suo. Intanto era passato un mese dalla

nascita dei coniglietti e Anselmo attendeva il momento del

regalo. Un pomeriggio, quando andò al mulino vide che

all’appello mancavano ben sei coniglietti; ……. (continua)

Il giorno dopo, a scuola, stava distratto, il pensiero era su

quelle graziose bestiole e non vedeva l’ora che passasse la

mattinata.

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Il banditore Un altro personaggio di “casa”

era il “banditore” colui che annun-

ciava notizie di vario genere: avvisi

dell’autorità pubblica, manifesta-

zioni pubbliche, vendite, arrivi di

commercianti ambulanti, ecc..

Il banditore passava per le vie

del paese e gridava ad alta voce il

suo bando. All’anagrafe era Sergio Tanni, ma era sopranno-

minato “il chiamagente” ed è stato l’ultimo banditore di

Belfiore. Sergio aveva occhi piccoli e stanchi come quelli

di una persona anziana, barba bianca e guance infossate,

era minuto, piccoletto e molto riservato nelle sue cose.

Aveva sposato Bettina, la figlia della “Madamme” e, nel

tempo, divenne padre di dieci figli. Viveva in una casetta

con un vano a piano terra ed altro vano al primo piano, in

Via Delle Stalle, ma lui, con ironia, diceva “Stelle”.

Quando doveva gridare il bando, iniziava da via XXIV

Maggio, poi passava per piazza Mercato e, via via sino a

salire lungo la via Ariella, per poi scendere attraverso altra

via fino ad arrivare in contrada Giardinello. Gridava:

“pesce fresco”, “pomodori”, “cocomeri” e ogni altro tipo di

frutta, verdura, cereali ecc. da comprare al Mercato. Spesso

portava in mano un campione della merce bandita: un

pomodoro, una manciata di fagioli o due sarde. Chiunque

voleva vendere o trovare qualcosa lo pagava e lui divulgava

l'annuncio per le strade.

A volte faceva da guida alle bande musicali per le vie del

paese durante le feste patronali. Quando passava dalla

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piazza del Mercato, si fermava alla bottega di mastro

Ntonuzzu, si sedeva ad un tavolo in un angolo del locale e

beveva un bicchiere di vino che gli veniva offerto ora da

uno, ora da un altro avventore o dallo stesso oste.

Ringraziava i presenti, si alzava ed andava via a proseguire

il suo lavoro di banditore. Il vino lo aiutava, a schiarirsi la

voce. Era una persona molto umile, d'altri tempi, una figura

che oggi è stata rimpiazzata da manifesti e megafoni. A

quel tempo tutti gli annunci, sia delle autorità che dei pri-

vati per scopi commerciali, venivano diffusi dal banditore.

Se l'oggetto del bando era di carattere ufficiale, e comun-

que di una certa importanza, egli ritmava la voce allo sco-

po di richiamare l'attenzione dei cittadini; in altre occasioni,

comunicava la notizia accompagnandola con frasi "fiorite"

o scherzose.

Sergio Tanni aveva una voce tenorile e ben intonata,

melodiosa e piacevole da sentire, ma stonatissima quando

annunciava la chiamata alle armi. Sebbene il suo fosse un

lavoro umile, il banditore assumeva un ruolo indispensabile

data l'assoluta mancanza di qualsiasi altro mezzo d’ infor-

mazione a carattere di massa. Poi il comando: “Ordine del

Sindaco, tutti coloro che hanno somari in casa, sono invitati

a recarsi presso l’ambulatorio veterinario per essere vacci-

nati contro l’influenza suina. Non s’accettano somari vec-

chi e senza cavezza”. ……. (continua)

Il “chiamagente” vestito in quella maniera, incuteva

paura e difficilmente i bambini lo sfidavano. Quella attività

gli procurava piccoli guadagni per poi poter comprare un

po’ di pane per la famiglia.

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Nel primo pomeriggio partecipava sempre ai giochi e

alle gare popolari: il piatto degli spaghetti da mangiare con

le mani legate dietro la schiena, una metà di un grosso

cocomero da mangiare alla stessa maniera. Vinceva chi

finiva prima. E poi l'albero della cuccagna, il tiro alle

pignatte, la gara dei sacchi.

A sera inoltrata era ancora lui, a dare spettacolo. Sergio

Tanni concludeva i festeggiamenti con il ballo del “caval-

luccio di fuoco”. Veniva presentato un rudimentale caval-

lino, costruito con canne bucate riempite di polvere pirica

intervallate con piccole bombe che venivano rivestite di

carta e, successivamente, abbellite con carta velina di diver-

si colori.

Sergio si caricava sulle spalle il cavalluccio e incomin-

ciava la danza al suono del tamburo di Gianni, portandosi

avanti e indietro sulla pista prescelta per il ballo, mentre la

polvere accesa diffondeva fumo e fiamme che si alternava-

no a spari. La danza si protraeva fino all'ultima scintilla di

polvere, quando esplodeva la girandola della coda. Il ballo

del cavalluccio di fuoco chiudeva la manifestazione festiva.

Per Anselmo e gli altri bambini era proprio un privilegio

conoscere un personaggio del genere, osservarlo, intervi-

starlo come fanno i bambini, chiedergli una fotografia o un

autografo per poi sentirsi rispondere, scherzosamente, che

ancora non era stata inventata la macchina capace di

fotografare la sua bruttezza e che le penne nelle sue mani

pesavano più di una trave.

Sergio Tanni voleva molto bene ad Anselmo e vedendolo

spesso triste, si fermava a conversare con lui dandogli del

“Voi”. ……. (continua)

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Simone “Settembre, andiamo, è tempo

di vovalaci”. Parafrasando la poe-

sia di D’Annunzio, “Simone il sim-

patico”, con l’approssimarsi delle

prime piogge autunnali e presa-

gendo la comparsa delle lumache,

invitava gli amici a recarsi nelle

campagne circostanti alla ricerca

dei prelibati molluschi. La chioc-

ciola, un tempo apprezzata in tavola dai greci e dai romani,

era ora la ghiottoneria di Simone e se l’annata era buona,

poteva raccoglierne tante, venderne un po’ e guadagnare

qualche soldino.

Le lumache in un alternarsi di fortune e di mode, ora

piatto popolare, ora cibo per mense raffinate abbinato ai

vini migliori, erano apprezzate anche per la loro valenza

beneaugurante e mettevano in agitazione Simone.

La sapienza contadina voleva che l'abbondanza di luma-

che in primavera fosse segnale di buona annata e proficui

raccolti e in autunno, osservando la loro profondità sul ter-

reno, si presagiva il rigore dell'inverno.

Ci si chiedeva: sono carne o pesce? Si possono mangiare

il venerdì?

E poi il dilemma diventava linguistico: si chiamano

chiocciole o lumache? ……. (continua)

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Il sediaio Un’ altra attività artigianale che si

svolgeva a domicilio era quella del

sediaio.

Anselmo lo aspettava con periodi-

ca ricorrenza, come se aspettasse

l’arrivo di una festa o di un caro

amico. Il sediaio, mastro Giacomo,

in realtà era un amico. Arrivava in

piazza e prima che arrivassero le donne con le sedie da

impagliare e che lui si mettesse al posto di lavoro, andava

a salutare il suo piccolo amico che stava sempre ad aspet-

tarlo sui gradini del portone di casa. Il sediaio si sistemava

accanto a dov’era seduto Anselmo.

Quell’artigiano iniziava a lavorare e a raccontare spez-

zoni di vita e di storia del suo mestiere, che veniva traman-

dato quasi sempre da padre in figlio, e che richiedeva abili-

tà e molta pazienza.

– Voi conoscete quest’arte meglio di qualsiasi artigiano, lo

si vede nei vostri occhi, ma le vostre mani non hanno la

forza per tirare la corda – con queste parole il mastro

Giacomo si rivolgeva al caro piccolo amico e poi aggiun-

geva: - Ma nelle Vostre mani, il buon Dio ha messo la

penna e non le corde.

Anselmo abbozzava un sorriso e tirava dalla tasca un po’

di “calia” (ceci abbrustoliti) e gliela offriva con gioia e con

tanta tenerezza.

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Il sediaio, continuava: - La “calia” è buona, ma il Vostro

sorriso è migliore. Io dovrò impagliare per Voi la più bella

e comoda sedia e poi poterVi guardare seduto comodo,

come un re sul suo trono.

A quel tempo i telai delle sedie si facevano in tutte le

misure: larghi per le persone grosse, piccoli per i bambini.

La materia prima era l’avura, che cresceva lungo le sponde

dei fiumi e veniva raccolta all'inizio dell'estate.

Anselmo osservava l’artigiano che prendeva la corda di

canna d'India, la tagliava e la introduceva nei fori del telaio

della sedia, poi prendeva i “ferretti” e cominciava a intrec-

ciarla fino a formare disegni geometrici e di fantasia. Conti-

nuava con precisione, finché la sedia era pronta. …….

(continua)

Il sarto Belfiore pullulava di attività arti-

gianali e nel raggio di venti metri

dalla casa di Anselmo vi erano ben

quattro botteghe di sarto. Lavoro

ce n’era per tutti, ma mastro Gianni

vantava il titolo d’essere il più

bravo e nella sua sartoria si pote-

vano trovare anche sette, otto ra-

gazzi, che andavano ad imparare il mestiere. Spesso erano

ragazzi irrequieti, del calibro di quelli come Mimmo, il

fratel-lo di Gianni, che non riuscivano a star fermi neanche

cinque minuti, eppure in quella bottega non si sentiva

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volare una mosca; gli unici rumori che rompevano il

silenzio erano la macchina per cucire e lo sfrigolìo

dell’acqua sotto il ferro da stiro. Quando entrava un cliente,

nessuno osava alzare lo sguardo verso di lui, insomma

vigeva una disciplina ferrea. Mastro Gianni non gridava

quasi mai: bastava il suo sguardo severo per intimidire tutti.

Mastro Gianni, con il metro al collo, che Anselmo lo

indi-cava come il “mastro con la collana”, svolgeva il suo

lavoro dietro ad un lungo banco su cui tagliava, imbastiva,

stirava, oppure, seduto alla macchina da cucire. Appesi a

chiodi e a un palo, pendevano cappotti, giacche, pantaloni.

A quei tempi, cappotti, giacche, vestiti e pantaloni

venivano tagliati, imbastiti con cura, preparati per la prova

e, infine, stirati, con il ferro a carbonella per non consumare

la corrente. Nel piccolo piazzale antistante la bottega, gli

apprendisti si alternavano a ventilare sul fuoco per tenere il

ferro da stiro sempre pronto. Mastro Gianni era un uomo

molto buono ed aveva rispetto per tutti: dalla persona più

umile, alla persona di rango più elevato. Aveva sempre

modi gentili per confortare, per aiutare. Per chi lo

osservava da lontano, si poteva pensare che il suo modo di

agire era in stretto legame alla convenienza del momento,

ma poi a conoscerlo in fondo, si arrivava ben presto a

scoprire che mastro Gianni non era un uomo al servizio

degli uomini, ma un uomo al servizio del “prossimo”. Per i

genitori era un privilegio affidare a lui i propri figli perché

oltre ad insegnare l’arte, mastro Gianni era maestro di vita

e poi vi era una sorta di pubblicità: “vestiti a pennello da

mastro Gianni”, che significava che tutti i clienti

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rimanevano molto soddisfatti del suo lavoro. Mai che biso-

gnava restringerli o allargarli.

I giovani sceglievano di fare il sarto per motivi

economici, perché la quinta elementare segnava la fine dei

loro studi.

Imparare un mestiere significava avere un nulla osta per

il lavoro e per sposarsi. E al tempo un po’ di lavoro vi era

per tutti: i vestiti confezionati non s’erano messi in mostra

dietro le vetrine dei negozi.

In un angolo della bottega, stava il 'banchetto' con gli

aghi, i ditali, i rocchetti di filo, i gancetti, i bottoni di varie

misure, le forbici. Appeso al muro, un grande specchio per

la prova. Momento triste quando il cliente andava a ritirare

l’abito. Molto spesso non c'erano soldi per pagare e mastro

Gianni, 'notava' nel suo libro, allungando i già lunghi conti.

Spesso, per piccoli lavori veniva pagato con un fiasco di

vino o con una ricotta, con una pezza di formaggio, con

qualche litro d’olio. Nella sua bottega si cantava spesso,

tutti insieme, molti amici tenevano compagnia nelle lunghe

sere in cui si doveva lavorare fino a tardi e qualcuno

andava a “spettegolare” sulle “cretinate” della giornata, una

sorta di “striscia la notizia” paesana: spettacolo gratuito!

Oltre a mastro Gianni, di sarti, c’erano tanti altri, fra cui,

mastro Saverino, zio di Anselmo. L’apprendistato durava

parecchi anni e l’allievo veniva impiegato in lavori

marginali: il “passamano” e il defilare. Nessuno mai

protestava, né a casa né alla bottega: la prima regola era

l’ubbidienza. ……. (continua)

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Nel mese di giugno dell’anno 1962, Anselmo fece la

prima comunione e gli occorreva il vestitino bianco. Il

regalo glielo fece zio Saverino. Il papà comprò la stoffa e

mastro Saverino la tagliò e la cucì. Naturalmente per

l’occasione ci mise più cura e il lavoro se lo ripartì solo con

Rosi, l’apprendista prediletto, il mastro in ‘seconda’. Quella

fu la prima volta che Anselmo indossò una giacca con gilet

e la “farfalla” al collo.

Quel vestito, poi, Anselmo lo indossò tantissime volte

perché con quello andava a ricevere il sacramento della

comunione. Fece dapprima le sette domeniche di San Luigi,

poi i quindici sabati del Cuore di Gesù e infime i nove

primi venerdì del mese, ma per questi gli occorsero circa

due anni perché una prima volta li interruppe all’ottavo e

una seconda volta al settimo. Solo al terzo tentativo riuscii

a farcela e tirò un sospiro di sollievo perché così aveva

conquistato il passaporto per il paradiso. Al catechismo gli

era stato insegnato che i nove primi venerdì sarebbero stati

un lasciapassare per il paradiso. ……. (continua)

Il povero Anselmo si spaventò a morte e lanciò un grido

disperato di paura. Mastro Gianni corse subito non sapendo

cosa fosse successo, ma il suo primo gesto fu di protezione

per il ragazzino. Lo prese in braccio e lo calmò. Pinotto fu

preso per un orecchio e portato all’interno della bottega e

ricevette una bella lezione: con quelle forbici, ben affilate,

gli vennero tagliuzzati tutti i capelli. La lezione servì. Da

quel giorno, Pinotto non osò più disturbare Anselmo.

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Prima comunione In quinta fece la prima comu-

nione. Era tanto contento di stare

assieme ai suoi compagni di scuo-

la: Adolfo, Michele, Ciccio, Pino e

tanti altri. Aveva undici anni.

La maestra di catechismo fu suor

Giuliana. Il primo confessore fu

don Ernesto.

Prima del giorno fatidico dovette frequentare un corso di

catechismo (la dottrina) presso l'asilo infantile che era

suddiviso in due gruppi: uno per i maschi e uno per le

femmine.

Dovette imparare a memoria: preghiere, comandamenti,

atti di dolore, di carità, precetti, virtù, opere di misericordia

e via di questo passo. Poi, alla fine del corso, tre giorni di

ritiro spirituale presso l'asilo.

La paura dell’Inferno e la gioia del Paradiso occupavano

ogni giorno la sua mente e condizionavano ogni azione

quotidiana.

Quando arrivò il momento di confessare i peccati, la

vergogna lo assalì, perché dovette confessare: bugie, paro-

lacce, capricci, disubbidienze, poca carità, cioccolatini ru-

bati nel negozio di papà.

Al termine della confessione Anselmo e amici si confi-

darono quanta penitenza era stata loro assegnata (Pater,

Ave, Gloria) e su quella quantità, si stilò la classifica del

più buono e del più cattivo. Ma non mancò qualche

episodio comico. Adolfo, provocato da un estraneo al

gruppetto, rispose con una parolaccia, ma si pentì e tornò

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indietro a confessarsi il nuovo peccato, ma trovando il

confessore occupato, andò da un altro che gli assegnò una

penitenza di cinque Ave Maria.

- E no – protestò il ragazzo, dimenticando l’atto peniten-

ziale – per una vita di parolacce (più di mille) e per tanti

altri peccati, don Ernesto mi ha dato dieci Ave Maria. E

adesso Voi per una sola parolaccia, cinque?

Il confessore gli sorrise e gli rispose: - Va bene, allora

mettiamo anche questa parolaccia nella pentola di prima,

insieme ai peccati già confessati. Chiedi perdono a Dio e

stai attento a non subire altre provocazioni. Domani, per te,

sarà un giorno speciale: riceverai il Corpo di Cristo e la tua

anima non deve avere macchia di peccato.

Anselmo, nell’attesa di confessarsi, si pentiva, ma sapeva

che il giorno dopo, la gola lo avrebbe portato a “rubare” un

nuovo pezzettino di cioccolata o una caramella. Peccati che

pesavano e chiudevano l’accesso al Paradiso.

Venne il giorno sospirato.

"Oh che giorno beato, il ciel ci ha dato..." Così cantavano i

ragazzi, della Prima Comunione, avviandosi in fila dall'

asilo alla chiesa e accompagnati da una cornice di parenti.

Anselmo, non potendo affrontare il lungo percorso dall’

asilo alla chiesa, si unì ai compagni solo all’arrivo.

Bambini e bambine vestivano di bianco. Al braccio dei

maschietti pendeva un bel fiocco bianco con frange dorate

e con il simbolo dell'eucarestia.

Nell’accostarsi per la prima volta alla Comunione, la

gioia fu immensa e gli inondò l'anima di profumo. Promise

al buon Dio di non commettere più peccati, di essere buono

con i genitori e sempre ubbidiente. La cerimonia religiosa

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fu molto suggestiva ed anche commovente. Per recarsi all’

altare fu aiutato da suor Giuliana. Non potendo inginoc-

chiarsi, ricevette all’in piedi il Corpo di Cristo.

Donna Rosina, come tutte le altre mamme, nonne, zie non

riusciva a trattenere le lacrime nell'attimo in cui il proprio

ragazzo assumeva per la prima volta l'Ostia Consacrata.

Il pranzo a casa fu piuttosto semplice: maccheroni col

ragù, una cotoletta e un po’ di frutta. Invitati solo gli zii

Saverino e Michele (i fratelli scapoli di papà). La sempli-

cità del pranzo doveva significare che il giorno della Prima

Comunione doveva essere principalmente una festa dello

spirito e non dello stomaco.

Quel giorno anche i più diavoletti diventarono dei man-

sueti angioletti. Il pomeriggio, finalmente libero dal vestito

cerimoniale, Anselmo ritornò a giocare con Gianni.

La Prima comunione segnò una tappa importante nel suo

cammino di crescita. San Domenico Savio divenne il mo-

dello da imitare e, pertanto, i primi e semplici proponimenti

furono: Confessarsi e Comunicarsi ogni Domenica ed ogni

altro giorno festivo, restare sempre in Grazia di Dio e non

peccare più.

Stare in armonia con il Signore significava: preghiera,

impegno nello studio, fare del bene agli altri, aiutare i suoi

compagni sempre, anche se gli costava sacrificio.

Nell’apprendere il percorso facile e gioioso di santità di

San Domenico Savio, Anselmo e gli amici della catechesi

furono invasi da tale desiderio.

Nel tempo libero, Anselmo si improvvisava animatore

del gioco. La sua maniera di comportarsi, di parlare,

piaceva a tutti. Sapeva raccontare mille storie allegre, ma

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sapeva anche discutere di argomenti di attualità.

La sua sofferente allegria, la sua mite vivacità lo ren-

devano caro anche ai ragazzi che in fatto di preghiera e di

chiesa la pensavano molto diversamente da lui.

Se qualcuno lo provocava, lo offendeva, non rispondeva

agli insulti, ma spesso non riusciva a trattenere le lacrime.

Non mancarono le volte che ragazzi cattivi e prepotenti lo

minacciassero per indurlo a rubare dei soldi nel negozio di

papà. Anselmo non cedette mai alle minacce e nel suo papà

trovò sempre la forza e il coraggio per vincere ogni aggres-

sione.

Nel tempo, conservò sempre quello stile di vita, di corag-

gio e tutte quelle buone qualità della sua crescita.

Dopo la Comunione divenne più giudizioso e sentì più di

prima il bisogno di pregare. Ben presto disse: “Quello è

stato per me il giorno più bello!”

Anselmo era un bambino coraggioso: soffriva senza la-

gnarsi, compiva tanti lavoretti ogni giorno per risparmiare

fatica alla sua mamma: sfilava vecchie maglie e poi racco-

glieva la lana a gomitoli o a matasse. Andava a tenere com-

pagnia al nonno imbronciato per farlo mangiare. Piccole

cose che nessuno vedeva e per le quali non cercava la

ricompensa. Anselmo accettava il dolore e diceva che esso

non doveva essere visto come una punizione, ma come un

privilegio che il Signore riserba agli uomini per il suo

Regno.

Per definirsi sano, normale, ragionava così: “Iddio mi ha

donato: vista, tatto, udito, odorato, gusto e soprattutto il

cervello. Tutto il resto conta poco”. Egli diceva che la

sofferenza è il seme della ricchezza. Solo gli “infelici del

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mondo” (in senso materiale), potevano dare speranza e

coraggio a chi non l’ aveva. Anselmo apriva il suo cuori-

cino e si mostrava quello che era. La sua saggezza scaturiva

dalla sua innocenza, dal puro cuore di fanciullo. Iddio vede

e provvede, non ci dà dolori che non si possano sopportare.

Quando ci sentiamo disperati, ecco che la sua mano leggera

ci risolleva, ci ridona speranza e fiducia, ci dà la forza per

sopportare la prova, ci conforta, in uno dei mille modi che

Egli solo conosce.

Anselmo era un ragazzo molto giudizioso. Da bravo

scolaro aiutava i suoi genitori facendo economia di tempo,

non sciupava fogli e quaderni, non lasciava mezze pagine

bianche quando eseguiva i compiti; aveva cura dei suoi

vestiti e delle sue scarpe. Non lasciava aperto inutilmente il

rubinetto del lavandino; spegneva la luce quando usciva da

una stanza; non buttava nulla di quello che poteva ancora

servire. La sua educazione era il pane dell’anima ed espri-

meva il suo carattere. Certamente sbagliava anche, ma lo

sbaglio serviva a migliorare la volta successiva.

- Sbagliando s’impara! – diceva qualche volta per scusarsi

di qualcosa non fatta bene.

Quello che lo caratterizzava era certamente la gentilezza,

quella cosa che non costava nulla e con la quale si compra-

va tutto. Non riusciva a guardare lontano, ma sapeva gioire

delle cose dinanzi a sé. Amava leggere, ma soprattutto

amava ascoltare quando a leggere era il suo papà o la sorel-

lina, così aveva più “spazio” per viaggiare con la fantasia,

senza prendere il treno. Era un ragazzo ordinato ed accorto,

giudizioso, rifletteva prima di rispondere, di scrivere, di

operare. La sua diligenza scrupolosa traspariva dai suoi

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vestitini, dai suoi quaderni, dai suoi libri ben tenuti, dalla

pettinatura, da tutto se stesso. Egli cercava di andare d’ac-

cordo con tutti e promuoveva il “volersi bene”, lo scam-

biarsi l’un l’altro piccoli favori. Non era un bambino ambi-

zioso. Riusciva a rendere lieti, a far contenti, chi gli stava

vicino con un sorriso, una parola buona, affettuosa, un pic-

colo atto di bontà. Amava definire l’Amore come “la

scaletta del Paradiso”. Senza amore il ricco è povero e con

l’amore il povero è ricco.

Contrariamente agli altri ragazzini i desideri di Anselmo

non erano tanti. S’accontentava di poco ed era felice. Era

felice quando vedeva la mamma porgere una scodella di

minestra ad un povero, che poi mangiava nell’atrio del

portone di casa o quando poteva dare la sua monetina che

stava nascosta in fondo alla tasca dei pantaloni e che

sarebbe servita per spenderla in lupino o in noccioline

americane. Secondo l’insegnamento catechistico, egli non

dava mai al povero, ma a Dio. Egli riusciva ad occuparsi da

solo delle sue piccole faccende, senza scomodare gli altri.

L’immaginetta della Prima Comunione e la bomboniera

gli permisero di raccogliere dei regali in danaro: tremila

lire! Quella somma bastava per la catenina d’oro con il

crocefisso e non prese pace finché la cugina Maria, incari-

cata dalla mamma, non andò alla gioielleria per comprarla.

La mondanità incominciava a contagiarlo e lo invase il

desiderio dell’orologio.

La mamma, per accontentarlo, scrisse alla sorella in

Australia confidandole il desiderio del ragazzo.

Tre mesi dopo arrivò la lettera della sorella che annunciava

l'avvenuta spedizione di un pacco contenente vestiario

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vario, l’orologio per Anselmo, alcuni pezzi di cioccolata,

un pacco di caffè non tostato, delle caramelle ed altre

leccornie.

Da quel giorno iniziò l’attesa: un clima di euforia

intervallato da giorni di apprensione dovuti al ritardo

dell’arrivo, invase tutta la famiglia.

- Vedrete che in questi giorni arriva, ci vuole del tempo –

diceva donna Rosina ai figli per calmare la loro ansia.

Intanto sul portone di casa o dietro la finestra, mattina e

pomeriggio qualcuno faceva la sentinella e aspettava il

passaggio del postino. Dopo i giorni d’attesa, la lieta no-

vella. "E' arrivato!" e un’atmosfera di gioia invase tutta la

famiglia.

Mastro Peppino lasciò tutto il suo da fare e corse alle Poste

per ritirare il pacco.

- Ti ha visto qualcuno? – domandò la moglie, al fine di non

dover rendere conto al vicinato e ai parenti. Poi l'apertura

del pacco, nella stanza da letto (la più sicura nel caso

arrivasse qualche estraneo) e in presenza dei soli familiari.

Il pacco era imballato con un lenzuolo ben cucito ad ogni

lato e con tanto di sigilli con ceralacca e piombini. Si scucì

delicatamente per recuperare il lenzuolo esterno sebbene

imbrattato con gli indirizzi scritti con la matita copiativa e

quindi indelebile: poteva servire per fare dei tovaglioli o

strofinacci per la cucina. Aperto lo scatolone si passò di

mano in mano ogni capo di abbigliamento e ognuno mise

da parte quello che gli apparteneva (una giacca, un paio di

pantaloni, una gonna, cappelli ed altre cianfrusaglie).

Ad Anselmo, nel vedere l’orologio gli brillarono gli

occhi, ma per lui c’erano anche un maglione di lana, un

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paio di guanti di lana, e poi cioccolate e caramelle. Per il

papà invece un vestito (giacca e pantalone) che dovevano

essere aggiustate perché di taglia più grande della sua.

Tutto il resto per donna Rosina e Lisa: gonne e giacchette

che mai avrebbero indossato. Comunque vennero messe da

parte lo stesso, potevano servire in futuro.

Quei gioielli lo quietarono e per lungo tempo non ebbe

altri desideri di rilievo. La catenina d’oro la mise solo una

domenica per andare a messa e poi per il resto del tempo fu

conservata in un cofanetto sul comò nella stanza dei

genitori.

L’orologio, che era arrivato dopo la partenza di Gianni,

fu usato quotidianamente finché dopo tre anni, preso in

prestito da Sarino, finì il ticchettio dei minuti nel corso di

una partita di pallone.

Il “sapere” lo coinvolgeva completamente, ascoltava il

papà nelle lezioni di vita, il maestro, e stravedeva quando a

parlare era un intellettuale. Il medico di famiglia era un suo

buon amico, diceva: “un tesoro grande è una mente che sa”,

ma la scienza delle scienze è quella che serve a rendere più

virtuosi gli uomini e finiva con il detto: “un cuore buono

vale... più di tutti i cervelli del mondo”.

Aveva tessuto una sottile ragnatela attorno alla sua per-

sona, una “corazza” che gli permise di nascondere o

annullare, il suo handicap: non s’accorgeva più di avere una

stampella.

- Ci si abitua a tutto - diceva - ci si abitua alla fame, alla

sete, perfino al dolore.

La raccolta delle figurine lo vedeva in prima fila fra i

coetanei, ma egli raccoglieva anche francobolli, cartoline,

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punti di vari prodotti (detersivi, prodotti alimentari) al fine

di ottenere i regali. Da buon ragazzino un giorno comprò da

un coetaneo un autografo di Caterina Caselli, vero o falso,

non lo seppe mai, ma per lui fu “l’affare” del tempo. Altri

autografi li ottenne poi scrivendo direttamente ai cantanti.

Anselmo amava inventare regalini da offrire alla mam-

ma, al papà, alla sorellina e al fratellino specialmente in

occasione delle feste natalizie e pasquali, dei compleanni,

degli onomastici, ma erano regalini fatti e pensati da lui, un

pensiero che nasceva dal cuore. A Natale e a Pasqua c’era

sempre la letterina a tavola sotto il piatto del papà, letterina

che quasi sempre veniva scritta a scuola.

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Diavoli «Il diavolo fa le pentole ma non i

coperchi». Questo proverbio indica

che le malefatte di qualcuno finisco-

no sempre, prima o poi, per essere

scoperte. Meglio non architettare

azioni malvagie, o anche solo diso-

neste, perché è facile che si riper-

cuotano contro chi le ha pianificate o

commesse. Avendo fatto del male, insomma, i conti

finiscono col non tornare e il malfattore ne paga in qualche

modo le conseguenze. “Fai bene e scordatene, fai male e

ricordatene”, Anselmo non capiva, non poteva capire, ma

quel proverbio, gli piaceva. Lo recitava come fosse una

poesia, ma sapeva che custodiva una grande verità. A

Belfiore c’era un uomo che costruiva le pentole, lo stagni-

no, ma chi faceva poi i coperchi? Anselmo lo voleva

proprio scoprire.

In una viuzza poco lontana dalla piazza principale, un

altro uomo lavorava con il fuoco, il maniscalco, ma a

quanto si sapeva, non faceva i coperchi.

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La coperta di lana La piccola piazza del paese si

apriva, dal lato sud, con la farma-

cia, veniva poi la macelleria,

l’osteria, il negozio di generi ali-

mentari del papà di Anselmo e via

continuando. Fra le tante attività

commerciali ed artigianali anche

una piccola fabbrica di bibite.

Insomma, la piazza era il “centro

commerciale” del paese.

Le donne generalmente portavano i capelli lunghi raccol-

ti in trecce che coronavano il capo, ed avevano un comune

mestiere: erano casalinghe, niente salario e niente pensioni.

Lavoro gratuito al servizio di mariti e figli da accudire,

tavole da apparecchiare, letti da fare e rifare e stanze da

pulire. La donna era l’angelo della casa o, meglio, del foco-

lare. Scarsissime erano le occasioni di impegni culturali e

sociali.

Il tempo libero era dedicato alla preghiera, al cucito e, a

volte, al ricamo e al giardinaggio. Tutti erano poveri o qua-

si ed era abitudine fare la spesa per piccole quantità, ci si

limitava a coprire le necessità alimentari giornaliere, che si

accompagnavano all’uso del libretto su cui annotare i debiti

contratti col negoziante.

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La donna, lavava la biancheria lungo il fiume. Cucinava

al focolare a legna appoggiando le pentole sul “treppiedi”

vicino alla fiamma viva.

CAPITOLO III

Cosa vuoi fare da grande? Finite le scuole d’obbligo, si pensò

al futuro di Anselmo.

Progetti. Fare progetti su Anselmo,

sarebbe stato come comprare un

biglietto della lotteria Italia. La vita

di Anselmo a chi apparteneva? Chi

l’aveva in “custodia"? Quando sa-

rebbe stato in grado di prenderla nel-

le sue mani e di spenderla nella realizzazione dei suoi

progetti?

Era scoccata l’ora della resa dei conti. Tutto sembrava

crollare. Il suo avvenire. "Che farà da grande?" La doman-

da proibita per tanto tempo, ora veniva scandita ad alta

voce ed attendeva una risposta precisa, non più rinviabile.

Era una domanda che in primis si facevano i genitori

pensando al figlio, ed assumeva un significato tutto parti-

colare. Era un po' come se si chiedessero: ce la farà da

grande? Come farà quando non ci saremo più noi? Chi

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penserà a lui? Come lo tratteranno?

Il ciclone che si era abbattuto su quella casa sembrava ri-

tornare, come un vortice inarrestabile. Non solo il presente,

ma anche il futuro era segnato dall'handicap.

Si accorgevano che le attese, le speranze, i sogni,

desideri, tutto quello che poteva dare significato alla vita

degli uomini, ad Anselmo era come se fosse negato.

Nessuno, per lui, aveva grandi ambizioni. Il papà lo

avrebbe visto volentieri sarto, un mestiere non faticoso e

compatibile con il suo stato di salute. La madre, sempre

protettiva non sapeva cosa proporre, aveva solo paura di in-

vecchiare e poi di non essere più in grado di accudire il suo

ragazzino. Fu il papà che, un bel giorno, formalizzò la do-

manda, mentre stavano seduti a tavola a pranzare, chiese al

figlio: - Cosa vuoi fare da grande?

Anselmo ebbe un attimo di disorientamento e di crisi,

stette un po’ a pensare e poi rispose: - Non cosa voglio, ma

cosa posso fare?

Avrebbe voluto rispondere con le parole sentite dagli altri

bambini: medico, allenatore di calcio, professore, musici-

sta, ma sapeva che persino i sogni, a lui, non erano per-

messi. I ragazzini, con il passare degli anni, a quella do-

manda, cambiano cento volte risposta, spesso non cono-

scendo neanche l’attività del mestiere prescelto e, a volte,

tiravano fuori qualche “scemenza” tanto per essere origi-

nali. Simpatica la risposta di un bambino che disse: “Io da

grande voglio fare il pensionato o il disoccupato”.

Anselmo era molto confuso sul suo futuro, ma si con-

frontava realisticamente con le sue capacità fisiche. In

seguito, disse anche che non era importante quel che si

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volesse fare da grandi come mestiere, ma che l'importante

era come diventare grandi uomini e persone oneste.

Andare a scuola gli piaceva. Studiare non gli pesava,

anche se non brillava nelle materie letterarie, specialmente

nelle prove scritte. La sua accentuata timidezza gli causava

qualche effetto negativo. Le sue aspirazioni personali dove-

vano ancora formarsi e continuò a studiare senza inseguire

chimere o fantasie varie.

Elisa, la sorella, per la mentalità del tempo e del luogo,

dopo la licenza media inferiore dovette rinunciare agli studi

superiori, malgrado le grandi capacità lodate dai professori.

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Passarono gli anni Passarono gli anni e il miracolo,

inteso come guarigione della gamba,

non avvenne.

Anselmo crebbe, imparò tanti

mestieri o meglio imparò a fare tante

piccole cose: dal cucito, alla falegna-

meria, dall’elettricità, alla muratura.

Pur con notevoli sacrifici, non c’era-

no macchine, carrozzine o carrozzelle, il padre doveva por-

tarlo in braccio in ogni posto.

Arrivò lontano, conseguì una laurea e divenne avvocato.

Imparò a cucinare, a lavarsi la biancheria e a governarsi da

solo. Non chiese mai nulla a nessuno. Lavorò, pagò le tasse

e fu sempre una persona corretta ed onesta.

La domanda di pensione Anselmo si fece coraggio, a malin-

cuore e con molta timidezza fece

domanda al fine di ottenere la pen-

sione, quella pensione che fino ad

allora aveva sempre rifiutato di

chiedere per via di quel principio:

“Un lavoro per vivere e non una

pensione per mendicare”. E lui

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aveva lavorato ed aveva vissuto, senza mendicare. Aveva

sfidato i “sani” con la sua condizione di inferiorità e con il

pensare che il suo handicap fisico non avrebbe potuto mai

più umiliarlo.

Pane, amore e sanità Dopo una calda estate, arrivò

l’autunno e portò con se un po’ di

tristezza, le giornate si fecero più

corte, il vento iniziò a farsi più

gelido, le prime piogge bagnarono

l’aria e dettero più respiro alle

campagne e alle città.

Anselmo non aveva se non residue

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capacità lavorative, non era più un bambino e sapeva anche

che non poteva contare sul sostegno di alcuno.

Dolore colpevole

La “sconfitta”, l’umiliante sconfitta

portava Anselmo a studiare, a cerca-

re nei libri del sapere e della

saggezza universale, il motivo dell’

handicap nei confronti degli esseri

umani. Passava ore e ore davanti al

computer a cercare le risposte alla

sua angoscia.

Apprese così che la Terra aveva quattro miliardi e mezzo di

anni e che la vita, invece, arrivò un miliardo d’anni dopo.

Nel primo miliardo di anni sul Pianeta non ci fu la vita.

Ma come “nacque” la Terra e “Come” o “Da” dove

veniva la vita nessuno lo sapeva.

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La sconfitta Erano le sei del mattino e le strade

erano ancora deserte e silenziose.

Anselmo si sentiva così sveglio che

non tornò a letto.

Prese i suoi fascicoli con l’in-

tenzione di studiare, ma gli “articoli”

saltellavano da un codice all’altro,

davanti agli occhi che lacrimavano.

Nel suo cervello non c’era posto per la “giustizia”; una

consapevolezza angosciosa, non esprimibile a parole.

Aveva l’impressione di finire in strada a “mendicare”.

Sedeva con l’animo assente davanti alla finestra e con il

codice civile aperto. Girava e rigirava la sua cartella

clinica, le “documentazioni-autorizzazioni” dei vari tutori

ortopedici che calzava ormai da cinquanta anni, guardava

la stampella ai piedi del letto, la sedia a rotelle, senza capire

di cosa si trattasse. Si irritò per la propria «mancanza di

concentrazione» senza sapere a che cosa avrebbe dovuto

attribuirla.

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- Vado via, vado lontano, dimenticherò e sarò dimenticato,

forse troverò una mano amica – diceva con immensa

tristezza.

Scienza medica Anselmo stava seduto nel suo

giardino a pensare e non riusciva ad

ingoiare il peso della “sconfitta”.

Sapeva già da molto tempo

quanto fosse triste non poter

camminare e sapeva anche che nel

cammino della vita, tutte le cose di

cui aveva bisogno, gli sarebbero

costate più degli altri. Ma che portare quella croce fosse

una vergogna, che fosse un marchio per calpestare, ad ogni

occasione, i suoi sacrosanti diritti, per negargli la pensione,

una cosa che lo escludeva dalla società dei suoi simili, non

l’aveva mai pensato.

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Non s’era mai fermato a riflettere ad una meschinità

gratuita, senza logica, senza spiegazione se non la cattive-

ria, l'incapacità di essere civili ed onesti, la convinzione che

il più forte potesse schiacciare il più debole.

Un santo protettore Roma. Nel giardino di Piazza

Bologna, Anselmo conversava con

donna Rita, cittadina ucraina, figlia

di prete ortodosso, capelli biondi cor-

ti e mossi, occhi verdi leggermente a

mandorla; di media statura, minuta,

carnagione rossa-lattea.

Cresciuta solo col padre, perché la

madre li aveva abbandonati per un grande e travolgente

amore, quando Rita aveva appena due anni, aveva dimo-

strato straordinarie doti di adattamento ovunque andava.

Aveva frequentato la scuola dell’obbligo nella città natia

fino al quarto anno, poi fu seguita privatamente in un

collegio gestito dalle suore, dove il padre esercitava il

ministero sacerdotale con l’incarico di Padre Spirituale

delle religiose dell’istituto. Si diplomò più tardi infermiera

professionale.

L'attività di baby setter a Roma fu il suo primo vero lavoro

e ci era arrivata grazie alla raccomandazione di Valentina,

sua grandissima amica.

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Il barbone di Platì Si chiamava Michele, ma per tutti era

Michele u Giamba. Lo vedevo ogni

giorno e a tutte le ore vagabondare per le

vie del paese. Sempre per strada, sempre

in cammino, alla ricerca di un barattolo,

di un pezzo di legno, di una pietra o di

un qualsiasi oggetto abbandonato o

buttato nella spazzatura. Altre volte lo

vedevo seduto per terra a raccogliere avanzi di sabbia. La

raccolta non avveniva se non prima si fosse ben assicurato

che quel materiale era stato abbandonato, era un rifiuto.

Michele conduceva una vita poverissima ma molto

tranquilla, dignitosa e rilassata, non riusciva ad appropriarsi

indebitamente neanche di una briciola di pane. Per lui tutto

era utile. Un barattolino vuoto poteva servire a dar da bere

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ad un uccellino. Questa era stata la risposta e la spiegazione

alla mia domanda, nel vederlo raccogliere una vuota

scatoletta di tonno. Michele era un uomo minuto, asciutto,

capelli ricci brizzolati e scapigliati, spesso portava una

barba bianca lunga ed incolta.

Micu l’orbu

“Micu l’orbu” (Domenico il cieco),

dopo le orazioni quaresimali, recitate

per le vie del paese, si era attardato

“supra u puntuni di l’Arieja” (sul

punto più alto della contrada

Ariella), aveva consumato una

scodella di rape e fagioli presso i

“Beati” (soprannome di un’umile

famiglia) e si era incamminato per far ritorno a casa. Un

violento temporale lo colse già all’inizio del cammino,

dandogli il benvenuto. Si era fatta notte e Micu, riparato da

un resistente ombrellone nero, affrontò il cammino lungo

quelle viuzze strette e dissestate, sfidando l’oscurità della

notte e la violenza della pioggia. Non c’era illuminazione

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pubblica e il paese era molto scuro in quella notte senza

luna. Portava una lampada ad olio accesa che ben presto la

pioggia e il vento gli spensero. Dopo aver percorso solo

pochi metri della seconda ripida viuzza, si sentì chiamare:

-“Micu, Micu” – era una voce a lui familiare. La

riconobbe subito, era “Lunastorta”, un giovane “bastardo”

del posto che lo insultava in continuazione

Il professionista dell’igiene urbana Circa 20 anni fa, incontrai, dopo

tanto tempo, sulla Via XXIV

Maggio, un mio vecchio compagno

di giochi e forse di uno o due anni

della scuola elementare, “Ninu testa

i ferru” (Nino testa di ferro). Aveva

una scopa in mano, una carriola e

una pala a poca distanza. Lo

riconobbi e mi riconobbe subito. Ebbi un senso

d’imbarazzo nel vederlo impiegato in quell’umile lavoro.

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Pensavo che, emigrato a Milano, avesse fatto fortuna e

invece…. Nel salutarlo, con un po’ di rabbia, esclamai:

Spazzino?

Lui mi guardò e con un’aria da intellettuale, mi rispose:

“No, signor avvocato, devo correggerLa: “Operatore

Ecologico”. Divertito per il “lei” canzonatorio e per quella

risposta pronta ed ironica, chiesi scusa.

La bottega del barbiere: un

angolo di teatro Lo chiamavano “Giorgio” forse

perché amava i beatles e i Rolling

Stones. Per imitarli si era lasciato

crescere i capelli e indossò giacche e

pantaloni attillati di colore scuro. A

Platì fu il primo ragazzo a sfidare la mentalità del tempo e

a rompere con usi e costumi. Ebbe tutti contro: familiari,

amici, compaesani. I capelli lunghi lo resero unico e famo-

so. Ben presto i barbieri del paese, per riparare allo

“scandalo”, tennero consiglio e gli proposero il “taglio”

gratuito. Qualcuno si è spinto a prometterglielo anche per

un intero anno. Giorgio non si ravvide e nessuna promessa

riuscì a fargli cambiare idea. Continuò così a vivere il suo

sogno “musicale”. Quei capelli lunghi, per i suoi familiari,

costituivano quasi una vergogna. Pochi sapevano che era

iniziata l’era dei “capelloni” e il “movimento” aveva man-

dato un suo “ambasciatore” anche a Platì. Al contrario, a

quei tempi, quando si vedeva un ragazzo appena uscito dal

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barbiere, la domanda era retorica: “Ti tundisti?” (Ti sei

tosato?), ma in senso gioioso, quasi a significare: “ti sei

fatto bello”.