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Un caso

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Concetto Strano, Giallo

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Concetto Strano

UN CASO

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UN CASO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Concetto Strano ISBN: 978-88-6307-316-4

In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2010 da Digital Print

Segrate – Milano

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I Il trillo mi sorprende mentre sono immerso in un sonno grave e appiccicoso come un vestito fradicio. Allungo meccanicamente la mano in direzione della sveglia e pigio sul tasto della suoneria, sicuro di zittire il rumore molesto. Ma non succede niente, lo squillo non cessa. Non è la sveglia. Cosa può essere? Il cuore mi batte all’impazzata ma il rumore persiste, intermittente e cadenzato, proprio come quello di un telefono. Poi capisco: il cellulare della reperibilità. Cerco il telefono a tentoni, mi sembrava di averlo messo sul comodino. Eccolo. Strozzo l’ultimo squillo e mi preparo a rispondere, non prima di essermi schiarito un poco la voce. “Pronto…” il risultato non è un gran che, ma è quanto di meglio mi consente la mia bocca pastosa. “Pronto... dotto’, mi dispiace disturbarvi, ma è successo un fatto grave... non potevamo non chiamarvi...” Riconosco la voce. È il maresciallo Alcaro, uno che non stimo per niente, uno che mi ricorda i carabinieri delle barzellette. Mi avrà chiamato per una cazzata, per il solito poveraccio beccato con qualche grammo di marijuana. “È che c’è un morto...” Non è proprio una cazzata: “Ma morto come, maresciallo... morto ammazzato?” “Mah... più che altro... sparato...” “Alcaro, si spieghi, come sparato? Intende dire che qualcuno gli ha sparato?” “Boh... qua dicono che si è sparato da solo... effettivamente anche a me pare un suicidio... comunque posso dire che è sopra un letto e che ha un buco nella tempia”. “Ah, quindi è successo all’interno di una abitazione... ho capito. E chi altro c’è in questa casa, oltre al morto?” “Beh, oltre a me c’è l’appuntato Berlingieri, quello che... voi lo avete conosciuto la scorsa sera...”

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“Ma no Alcaro, che mi interessa? Intendevo chi c’è oltre a voi carabinieri”. “Ah, scusate dotto’. Qua c’è una donna, la moglie del morto, almeno così ci ha detto. Poi ci sono un medico e un infermiere del ‘118’ e nessun altro... oltre a noi, naturalmente!” Ma quanto è scemo Alcaro, ha pure voglia di fare il precisino a quest’ora. Gli intimo secco: “Alcaro non tocchi niente, non faccia spostare niente, soprattutto il cadavere... e non faccia allontanare nessuno, mi raccomando. Non facciamo cazzate come l’altra volta eh, che mo’ arrivo. Ah, chiami il medico legale, il dottor Dattilo... il numero lo sa, giusto?” “Sì, sì, dotto’ ”. “Ah, maresciallo, un’ultima cosa, l’indirizzo dell’abitazione e il nom...” “Aspettate, dotto’. Berlingieri, chiedi alla signora in che via sta la casa...” sento un brusio indistinto di suoni, ma in mezzo a quella cacofonia riesco a distinguere una voce femminile. Sembra calda e sensuale. “Allora maresciallo?” chiedo impaziente. “Ecco dotto’... via Pitagora venticinque. A più tardi”. “Il cognome, maresciallo. Per la miseria, chi abita nella casa?” “Il nome della famiglia è Rotundo, senz’altro li conoscete”. “No, non li conosco. Comunque, maresciallo, tra un attimo sono lì anch’io, il tempo di arrivare. Lei stia lì intanto”. “Non volete che mando una vettura a prendervi?” Guardo l’ora. Le cinque e mezza. Il turno dell’autista della Procura è appena iniziato. “Ma no, grazie. Chiamo l’autista”. “Allora io aspetto qui. Non preoccupatevi, dotto’ ”. So invece di avere tutti i motivi per preoccuparmi. Conosco bene Alcaro. Poco intelligente, poco elastico, molto presuntuoso. La cazzata a cui mi riferivo era successa non più di un mese prima, durante un controllo stradale. Alcaro aveva fermato due giovani che trasportavano, nel cofano dell’autovettura, più o meno un chilo di polvere biancastra. I due, incensurati come due bimbi, avevano cercato invano di spiegare che erano pasticcieri e che quella era vaniglia per dolci: niente da fare. Alcaro li avevi portati in caserma e, dopo aver effettuato il narcotest sulla sostanza, li aveva arrestati: la polvere biancastra era cocaina. Anche allora ero di turno. Leggendo gli atti dell’arresto qualcosa non mi tornava e così, prima di chiedere al giudice la convalida, avevo incaricato un chimico di analizzare la sostanza. Poche ore dopo il consulente mi aveva chiamato trafelato, dicendomi che chi aveva

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eseguito il narcotest era un imbecille e che il reperto era effettivamente vaniglia. Dopo aver scarcerato immediatamente e con tante scuse i due avevo chiamato Alcaro: “Maresciallo, ma come ha potuto scambiare vaniglia per cocaina? Ma si rende conto? Abbiamo messo in galera due innocenti!” “Dotto’, che vi posso dire? A me sembrava proprio cocaina e poi avevano un fare sospetto... a che gli serviva mai un chilo di vaniglia?” “Maresciallo, di mestiere fanno i pasticcieri. Guardi che se capita un’altra volta sarò costretto a segnalare l’accaduto alla gerarchia”. “No dotto’. Per carità, che quelli mi vogliono male, pensano che sono un idiota, non succederà più”. È per questo che le assicurazioni di Alcaro non mi tranquillizzano per niente. Mi devo sbrigare, devo arrivare quanto prima sul posto, prima che Alcaro combini qualcuna delle sue. Chiamo l’autista e gli chiedo di passare tra quindici minuti. Ho calcolato i tempi. Abito vicino alla Procura, all’autista basterebbero meno di dieci minuti per arrivare. Ma conosco bene la mia lentezza, non mi abbandona mai, nemmeno nei momenti di maggior fretta, nemmeno se c’è un morto. La mattina impiego un tempo esagerato per essere pronto. In Procura, tra i colleghi, gira il detto che arrivare al lavoro dopo di me significa essere in ferie, non in ritardo. Decido subito di saltare il caffè e di buttarmi in doccia. E faccio bene, sotto l’acqua mi risveglio completamente, riacquisto forze ed energie. Per guadagnare qualche minuto evito le lenti a contatto e inforco gli occhiali da vista. Una volta uscito dal bagno osservo sconsolato il guardaroba. Non ci sono camicie stirate, le uniche due pulite sono così spiegazzate e aggrovigliate tra di loro che considero subito velleitario ogni tentativo di renderle presentabili con una veloce passata di ferro. E adesso, come faccio senza una camicia? Mica posso andare al sopralluogo in maglietta. Disperato, apro tutti i cassetti e trovo, semisepolta sotto le mutande, una camicia dall’aspetto decente. La prendo e la guardo meglio. È una camicia elegante, da abito intero. Mi toccherà indossare, alle cinque di mattina, giacca e cravatta. Suonano al campanello. Carmine, l’autista, è già qui. Sono ancora in mutande. Maledico la mia lentezza e invito Carmine ad aspettare un momento. Mi infilo la camicia e cerco di annodarmi la cravatta. L’operazione, però, non mi riesce. La parte sottile della cravatta spunta fuori sotto quella larga. Rifaccio il nodo mentre,

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silenziosamente, impreco. Alla fine esce un nodo più o meno decente. Infilo il vestito, prendo la borsa, ci ficco il cellulare del turno e finalmente esco di casa. Devono essere passati cinque minuti buoni da quando Carmine ha bussato. “Buongiorno dottore... elegantissimo anche di prima mattina” commenta l’autista. Ringrazio, senza precisare che è stata una scelta obbligata. Carmine è un giovane sui trent’anni, tarchiato, con un’incipiente calvizie che gli rende radi i capelli castano chiari. Non è stupido ma lo sembra, perché la mascella e il labbro inferiore molto pronunciati lo condannano a un’espressione perennemente ebete. Tra di noi c’è un rapporto cordiale. È il più simpatico tra gli autisti e poi mi invita sempre a giocare a calcio, anche se non sono un granché. Non ho fatto ancora in tempo a entrare completamente nell’autovettura che Carmine mi rammenta: “Dotto’, guardi che domani sera si gioca. Voi ci siete, vero?” “Sì, conto di esserci, sempre che non mi capitino altri morti durante il turno”. Gli comunico l’indirizzo ed è tutto, per me la conversazione potrebbe essere già conclusa. Tra noi non c’è mai stato un gran dialogo. Oggi, poi, proprio non mi va di parlare, sto pensando a cosa potrò trovare a casa Rotundo. È Carmine, però, a prendere l’iniziativa: “Che è successo, dotto’? Morto semplice o morto ammazzato?” chiede, guardandomi con il suo sorriso ebete. “Non si sa, è per questo che sto andando a vedere, speriamo bene”. Ma, in fondo, non c’è molto da sperare. Che il morto sia morto non ci sono dubbi. Resta solo da vedere se sto per mettermi in un casino oppure se è una cosa che si può concludere in fretta, per poi andare a godersi gli ultimi spiccioli di estate e di mare. Mi chiudo in un silenzio cupo che Carmine non tenta nemmeno di violare. Non è solo perché mi hanno buttato giù dal letto, è che, mentre mi avvicino alla casa, ho una brutta sensazione, come un presagio di sciagura, e non riesco a scacciarlo via. “Dotto’, eccoci arrivati”. Carmine ferma l’autovettura davanti a un cancello semiaperto, grande e scuro. Noto il numero venticinque inciso su una delle due colonne che sostengono il cancello. Il disagio non accenna a diminuire. Anzi, aumenta. Sono teso e non capisco perché. Non è la prima volta che vado a vedere un morto. E allora, perché mi sudano le mani? Scendo dall’auto e mi volto verso Carmine. Gli chiedo

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di aspettare fino a quando non avrò finito. Carmine non protesta. Gli autisti sono abituati ad aspettare. Fa parte del loro lavoro, come vedere i morti fa parte del mio. Respiro e mi avvio con passo deciso verso la grande cancellata in ferro battuto. L’inquietudine sale a ondate, violente come una marea oceanica. Mi avverte, senza una ragione, che da ciò che sta al di là di quelle sbarre di ferro non uscirà nulla di buono. Domino questi pensieri, li ricaccio nel ventre, perché è da lì che sono nati ma, giusto un attimo prima di varcare il cancello, mi viene in mente come anche un altro presagio, un giorno di marzo vecchio di oltre due millenni, fosse stato ignorato. Rabbrividisco, ma vado avanti.

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II Sposto leggermente una delle due ante del cancello ed entro nel grande giardino che circonda la villa. Si vede che questa è la casa di gente che ha i soldi. Marmo, materiali pregiati, una piscina grande ed elegante: non potrei mai permettermi una dimora così. Passo veloce attraverso il giardino: il grande portone di ingresso dell’abitazione è aperto e io, lesto, mi ci infilo dentro. La luce è accesa nell’andito, ma il piano terra sembra deserto. Dal piano superiore, invece, provengono dei singhiozzi sommessi coperti, a tratti, dalla voce roca e grave del maresciallo Alcaro. Mi affretto a salire le scale e mi dirigo verso la stanza da cui provengono gli unici rumori della casa. Decido di non entrare subito. Per un po’ rimango fermo sulla soglia e osservo la scena, quasi fosse un quadro. La prima cosa che mi colpisce è la grossa pozza di tempera rosso carminio sul pavimento a fianco del letto. Non è fatta solamente di sangue. Si capisce che c’è dell’altro. Brandelli di cervello, probabilmente. A volte, dopo il colpo, la testa praticamente esplode e spara pezzi di cervello e di cranio da tutte le parti. Alzo gli occhi e vedo altro sangue misto a materia cerebrale sul letto e sul muro: lì lo sparo ha convogliato degli schizzi che sembrano macchie di colore su di un quadro astratto. Solamente adesso vedo il cadavere sul letto e il dottor Dattilo e Berlingieri che gli stanno accanto e lo osservano minuziosamente. Ma il mio sguardo si ferma e corre, quasi involontariamente, verso il lato opposto della stanza. Affondata in una poltrona c’è una donna in lacrime, senza dubbio la vedova, anche se non riesco a vederla bene perché la figura corpulenta e molle di Alcaro, chino sopra di lei, la nasconde quasi completamente. Se il maresciallo, come sembra, si sta prodigando a consolarla, sicuramente la donna è giovane e bella, altrimenti Alcaro non si affannerebbe più di tanto. Alla fine mi decido a entrare e mi dirigo verso il letto, proprio mentre il dottor Dattilo solleva la testa dal cadavere. Lascio andare il mio

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sguardo oltre il letto, oltre Dattilo, fino alla scrivania addossata al muro e al computer portatile appoggiato su di essa. Poi il mio sguardo ritorna al dottor Dattilo. Lui è una istituzione in Procura, quasi tutte le autopsie vengono fatte da questo cinquantenne segaligno, talmente alto e magro che tutto, in lui, pare estendersi in lunghezza, non solo il corpo ma anche il viso, il naso, le braccia, persino i capelli. Grazie a questa sorta di coerenza dimensionale la sua figura ha persino una certa armonia, sebbene sia più simile a una pertica che a un essere umano. Una volta accortosi della mia presenza si muove verso di me e così ci incontriamo circa a metà della stanza. Ci salutiamo cordialmente ma senza stretta di mano: quelle del medico sono già coperte da guanti di plastica biancastra. “Allora, che mi dice dottore?” rompo il ghiaccio mentre, con un cenno del capo, saluto Berlingieri che, proprio in quell’istante, ha sollevato il capo dalla salma, senza però smettere di buttarci, di tanto in tanto, un’occhiata. Forse teme che il morto possa levarsi dal letto. Ha il viso bianco come un cencio e la cosa rende ancora più evidenti i numerosi nei che, come dei neri parassiti, si sono impossessati della sua faccia smunta e glabra. “Dottore, il giovane è morto per un colpo di pistola, l’arma però non l’ho ancora vista. Ma anch’io sono arrivato da pochissimo. Il foro di entrata è sul lato temporale sinistro del cranio, e non mi sembra vi siano altri segni visibili di ferite…” Dattilo mi parla con un tono piatto e asettico, scevro da qualsiasi tensione emotiva. Credo sia per questo che le sue parole mi giungono così lontane che le sento appena. In questo momento sto pensando al numero di morti, ammazzati e non, che deve aver visto Dattilo nella sua carriera di medico legale. Corpi che una volta erano persone e che lui, per lavoro, ha ridotto a semplici contenitori di umori biologici, di liquidi, di parti molli. Sono sicuro che vede anche i vivi con gli stessi occhi. Immagino si sia già fatto un’idea, bene o male, di cosa potrebbe trovare al mio interno se dovesse farmi un’autopsia. Magari ha già scommesso sull’ingrossamento del mio cuore o sulla incipiente sclerosi delle mie vene. La voce di Dattilo mi scuote: “Ritengo che il giovane, al momento dello sparo, dovesse trovarsi così come lo vedete. Del resto il medico di guardia mi ha assicurato che non ha spostato il cadavere”. Costretto da Dattilo presto finalmente attenzione al motivo per il quale siamo tutti in questa stanza. Il corpo occupa il lato del letto più lontano

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dalla porta e indossa un bel pigiama di seta verde scuro, perfettamente stirato. Il tessuto, liscio e piano, stride grottescamente con il viso tumefatto e stravolto dallo sparo e dalla emorragia. Non è la prima volta che vedo qualcuno ammazzato da un colpo di arma da fuoco. Ad alcuni colleghi, dopo un po’, non fa più né caldo né freddo. Personalmente non sono ancora riuscito ad abituarmi. Distolgo volentieri gli occhi dal cadavere e mi concentro sul letto. Dall’altra parte il lenzuolo non presenta né affossamenti né pieghe, è liscio come il pigiama. Quando Rotundo si è sparato era solo sul letto, la moglie non ha dormito al suo fianco. Dattilo intanto continua monocorde la sua esposizione: “Non si notano bruciature sul foro di entrata. Evidentemente il giovane si è sparato tenendo la pistola a una certa distanza dalla tempia... strano però per un suicida”. È strano sì. “E poi un’altra cosa: il giovane doveva essere mancino, dato che il foro di entrata è sulla tempia sinistra…” “Da quanto tempo è morto, dottore?” chiedo. “Credo da circa un paio di ore, due ore e mezza forse, a giudicare dalla rigidità del cadavere e dallo stato di coagulazione del sangue”. Guardo l’orologio. Le sei e trentacinque. È trascorsa poco più di un’ora da quando Alcaro mi ha svegliato. Ma la moglie dov’era quando questo qui si è sparato? Si stava smaltando le unghie o cosa? Sento l’adrenalina salire. Mi dirigo deciso verso il lato opposto della stanza. Adesso dico ad Alcaro di levarsi dalle palle che voglio parlare con la vedova. Alcaro inizia la sua recita: che stupido, fa finta di essersi accorto solo ora della mia presenza. La stanza è grande, ma non fino a questo punto. La rabbia mi sale, ma non sfoga. Qualcuno ci mette subito un tappo: infatti, adesso che Alcaro, finalmente, si è scostato, posso vedere la donna. Per una volta sono d’accordo con il maresciallo. La donna è giovane e bella, molto bella. Subito il mio sguardo corre alle gambe. È la prima cosa che guardo in una donna e quelle della vedova sono splendide, diritte e lunghe, con le ginocchia sottili e leggermente sporgenti, proprio come piacciono a me. Deve essere un bel po’ più alta di me. Non so se sia studiato o meno, ma la donna tiene le gambe sensualmente accavallate. Il vestito corto mi consente di vedere buona parte della coscia; anche il seno, bruno e turgido, non è adeguatamente coperto dall’abito estivo. I capelli, lunghi, ricci e scuri, incorniciano un ovale perfetto in cui spiccano labbra carnose e sensuali; il naso è sottile

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e leggermente allungato. Non c’è un motivo preciso, ma la associo subito a Pentesilea, la leggendaria regina della amazzoni. Forse mi ricorda un disegno che avevo visto da bambino con una guerriera a cavallo, i capelli ricci e scarmigliati, che impugnava l’arco, le gambe nude, un seno reciso. Quell’immagine non l’ho più dimenticata. Anche la vedova si è accorta della mia presenza, ma attende ad alzare gli occhi. Quando lo fa scorgo, nonostante le lacrime, due dardi nerissimi e fieri. È troppo per me e abbasso lo sguardo. È bella Pentesilea, ma la sua bellezza non rasserena, piuttosto disturba, inquieta. Saluto e mi presento senza guardarla negli occhi, con lo sguardo basso. “È il magistrato di turno” si intromette Alcaro. Per una volta la sua invadenza mi è utile. Mi aiuta ad alleggerire il disagio che, inspiegabilmente, mi mette addosso l’amazzone. La donna si alza e stringe macchinalmente la mia mano, debolmente protesa verso di lei. Pensavo di riuscire a dominare il mio istinto che mi spinge a tenere quella mano ambrata chiusa nella mia. Ma mi sbagliavo. Un attimo dopo sento la mano della donna che, con un leggero strattone, si libera della presa. “Buongiorno, sono Michela Procopio. Sono, anzi ero la moglie di...” la frase rimane a metà. La donna si affloscia sulla poltrona e riprende a singhiozzare. Forse mi sbaglio, forse non è così amazzonica come sembra. Alcaro non aspettava altro: mi guarda con fare accusatore, come a dire “Visto, cosa le avete fatto” si gira e riprende con impeto la sua attività di consolatore. Adesso le sta offrendo il suo fazzoletto. Fossi in Pentesilea non lo accetterei, Alcaro non mi è mai sembrato un professionista dell’igiene. Strattono il buon samaritano per ottenere attenzione e gli chiedo come sono arrivati lì. È scocciato. La mia curiosità molesta lo obbliga a interrompere ciò che più lo interessa. Comunque la risposta di Alcaro mi gela: “Dotto’, non è che qualcuno ci ha chiamati, è che stavamo facendo servizio di pattuglia notturna e, passando di qua, abbiamo notato un’ambulanza ferma davanti alla villa. Ci siamo fermati così, tanto per dare un’occhiata; dopo dieci minuti vi ho chiamato sul numero del turno”. Quindi la signora non ha chiamato la polizia. Non riesco più a trattenermi. Le domande che mi assillano sono troppe e, a pochi centimetri, c’è chi può darmi tutte le risposte. Le parole mi sgorgano quasi involontariamente dalla bocca:

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“Mi scusi signora, comprendo che il momento non è proprio il migliore, ma sono costretto a farle alcune domande. È stata lei a chiamare l’ambulanza, vero?” “Sì, sono stata io, quando ho telefonato al ‘118’ Francesco era ancora vivo”. “Quindi lei era presente quando suo marito...” “Sì, cioè no… ero appena rientrata a casa e stavo salendo le scale per andare in camera; avevo notato la luce accesa, ma pensavo che Francesco si fosse addormentato senza spengere la luce. Ho poi sentito il rumore, uno solo, forte e assordante e mi sono precipitata nella stanza dove ho visto mio marito sul letto che perdeva sangue a fiotti dalla tempia; era ancora vivo... rantolava... c’era sangue dappertutto...” “Vedo che lei non è sporca di sangue, non ha pensato di aiutare in qualche modo suo marito?” “Non sapevo cosa fare, la cosa più logica mi è sembrata quella di chiamare un’ambulanza…” I singhiozzi sono divenuti più violenti ora e non le consentono di parlare. Alcaro disapprova ma non può fare nulla e, per protesta, si è allontanato; lo sento confabulare a voce bassa con Berlingieri. Sono rimasto l’unico vicino alla donna. Bofonchio due o tre frasi consolatorie, stupide e banali, e appena vedo che si è calmata un poco riprendo caparbiamente a interrogarla. “Signora, mi perdoni, si ricorda a che ora ha chiamato l’ambulanza?” “Mah… potevano essere all’incirca le quattro e mezza, non ricordo con precisione”. “Ma ha chiamato con il cellulare o con il telefono di casa?” “Con il cellulare”. Mentre parla si asciuga le lacrime con il fazzoletto che tiene nelle mani e che continua, nervosamente, a spiegazzare. Dio mio, è bellissima. Non è un problema verificare quanto ha detto. Basta controllare i tabulati delle telefonate partite dal cellulare della signora. Mi sto riprendendo. Divento incalzante e minaccioso. Come è giusto che sia un investigatore. “Signora, mi deve scusare, ma come mai non era in casa a quell’ora?” “Sono stata in discoteca. Era il compleanno della mia migliore amica e lo abbiamo festeggiato al Blue Sixties”. Conosco il posto. È una terrazza naturale sul mare, lì si balla sugli scogli, forse la più bella discoteca all’aperto che mi sia mai capitato di vedere.

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“Signora, mi perdoni un’ultima domanda, ma suo marito era mancino, vero?” I singhiozzi sono cessati. Ora mi sembra che l’amazzone abbia il pieno controllo di sé e stia calcolando le possibili conseguenze della risposta. “No, non era mancino” la risposta è asciutta come i suoi occhi. Ma come, un destrimane che decide di spararsi con la sinistra? Strano, molto strano. “Maresciallo, ha ritrovato l’arma?” chiedo alzando il tono di voce. Sono inquieto. “Ah... l’arma… dotto’, è che… non l’abbiamo cercata. Adesso provvediamo” balbetta Alcaro. Imbecille. Era troppo impegnato con la vedova per pensare a fare il proprio dovere. Vediamo se Pentesilea, magari, mi dà una mano: “Signora, ma suo marito teneva delle armi in casa? E se sì, dove?” “Sì, avevamo una rivoltella in casa. Mio marito l’aveva comprata, non molto tempo fa, dopo che due ladri avevano cercato di entrare in casa per rubare. Da allora la teneva nel comodino, accanto al suo lato del letto, quello lì” sussurra Pentesilea e indica, senza guardare, la parte di letto dove giace il marito. Poi aggiunge: “Però, per quanto ne sappia, non era carica. Francesco non amava le armi”. Faccio un cenno a Berlingieri. Ha capito che la situazione è delicata e si dirige subito verso il comodino. Lo seguo con lo sguardo mentre si infila un paio di guanti di plastica e apre il cassetto. Dopo un attimo mi informa: “Dotto’, c’è una scatola di proiettili, è aperta. I proiettili ci sono tutti… tranne uno. E poi c’è la custodia di una pistola, ma è vuota. E un caricabatteria per cellulare”. “Va bene, ho capito, lasci tutto lì”. Volgo di nuovo lo sguardo verso la donna. Lei capisce subito: “Non lo so dove possa essere la pistola, lui la teneva lì”. Ha la voce ferma e sicura, adesso; soltanto il frenetico muoversi della mani sul fazzoletto non è cessato. Sottolineo ciò che è evidente a tutti: “Non è più lì perché l’ha usata per spararsi. Ma se è così, la pistola deve essere nella stanza”. “Maresciallo” mi rivolgo perentorio ad Alcaro, che intanto si è riavvicinato a Pentesilea, “facciamola saltare fuori questa benedetta

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pistola perché, se è un suicidio, capisce bene che l’arma deve essere per forza qui. Quindi vediamo di trovarla, ma con attenzione, senza spostare niente”. I due militari si danno da fare con inaspettata prontezza. Speriamo che la pistola salti fuori in fretta altrimenti, se è un omicidio, abbiamo tutti contaminato la scena del delitto e forse cancellato impronte decisive. Ormai il danno è fatto. Dattilo, per agevolare la ricerca, si è fatto da parte. I due militari si guardano attorno, osservano attentamente le lenzuola zuppe di sangue. Sembra il luogo più ovvio per trovarvi la pistola, ma sopra ci sono soltanto il bossolo brunito della pallottola omicida e un telefono cellulare. Della pistola, però, nessuna traccia. Gli occhi dei due vanno anche sul pavimento a fianco del letto, ma per terra non c’è nulla tranne l’enorme macchia rosso carminio e un indumento lordo di sangue. Mi volto in direzione della Procopio per vedere se è interessata alla ricerca, ma la donna ha gli occhi bassi e sembra non curarsi di noi. È Berlingieri a rompere il silenzio nervoso che si è creato. Vedo che è carponi e guarda sotto il letto: “Eccola Dotto’, sta qua sotto” esclama trionfante. Decido di controllare: la pistola è proprio lì, sotto il letto, all’incirca all’altezza del centro. Mi chiedo come la pistola abbia potuto finire là sotto. Immagino che il signor Rotundo, dopo essersi sparato, sarà stato occupato da cose più importanti che piazzare l’arma sotto il talamo nuziale. Deve essere stata un’altra persona a metterla lì. E poi che senso poteva avere sistemare l’arma là sotto? Strano, è tutto molto strano. Guardo l’orologio posto sopra la cassettiera di fronte al letto: sono quasi le otto. Devo interrogare un detenuto, la custodia cautelare è prossima a scadere e non posso rimandare l’interrogatorio. Devo andare. Ragiono velocemente. Anche a voler pensare che il suicidio è una messa in scena, non credo che la vedova possa scappare. Anzi, forse è meglio farle credere di aver abboccato. Chissà che magari, intercettandola, non si possa scoprire qualcosa di interessante. La cosa importante è fare tutti rilievi. Berlingieri mi ha assicurato che gli esperti del Racis arriveranno a momenti. Sono stati bloccati da un disguido. Mi convinco a lasciare la stanza. Do ad Alcaro le necessarie disposizioni. “Mi raccomando, non spostate nemmeno un capello, che già abbiamo contaminato fin troppo la scena del crimine, e fate uscire tutti dalla stanza fino all’arrivo della scientifica. Dopo che saranno stati fatti tutti i rilievi si potrà procedere a rimuovere il cadavere per

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l’autopsia. Ah, e mettete la stanza sotto sequestro, anzi no, meglio l’intera casa”. Alcaro mi guarda perplesso. Non condivide: “Ma dotto’, ma c’è bisogno di sequestrare tutta la casa? Mi pare chiaro che questo poveretto si è sparato”. “Ah sì? E allora la pistola come è finita sotto il letto, c’è l’ha messa il morto dopo essersi sparato?” “Ma, dotto’, vedrete che ci sarà una spiegazione logica per quello, basterà sentire con calma la signora”. Un sorrisino di superiorità gli increspa le labbra sotto i baffi sottili e brizzolati. Anche gli occhi, porcini e scuri, sembrano guardarmi dall’alto in basso. Faccio fatica a dominarmi, così fatica che non ci riesco: “Alcaro, senta, le indagini le conduco io e si fa come dico io, chiaro?” Ho alzato il tono di voce. Berlingieri e Dattilo che stavano parlando tra di loro si girano con aria interrogativa. Pentesilea invece sembra assente, sprofondata nella poltrona. Il suo sguardo è fisso contro il muro. Alcaro tace, finalmente. Ho sbagliato e mi vergogno un po’, è che Alcaro mi tira fuori sempre il peggio. “E un’altra cosa maresciallo” aggiungo più pacato “dica a quelli del Racis di fare lo stub sulle mani del ragazzo, in modo da vedere se vi sono residui dello sparo... e anche sulle mani e sui vestiti della signora Procopio”. Il cognome l’ho quasi sussurrato. Eppure ho la sensazione che la donna mi abbia sentito. Del resto non si diventa regina delle amazzoni per niente. Bisogna avere un fiuto, un istinto particolari. Mi azzardo a cercare gli occhi di Pentesilea: è un errore, sono fissi su di me, ed è come se mi volessero penetrare. Uno squillo. Ancora il telefono del turno. Lo accolgo come si abbraccia un salvagente in piena tempesta. Si tratta di un’altra morte. Ma, questa volta, nulla di cui preoccuparsi. Anni novantacinque, morta in casa per attacco cardiocircolatorio. Il cuore aveva deciso che era giunto il momento di smettere di pulsare e ha tolto il disturbo. Do l’autorizzazione alla sepoltura. Prima di chiudere faccio in tempo a sentire una voce che comunica il via libera a qualcuno, forse un interessato impresario di servizi funebri o un familiare. Scelgo mentalmente, e senza che vi sia un motivo particolare, solo perché mi piace di più, la prima ipotesi. Prima di andarmene osservo con attenzione tutta la stanza, il pavimento, il letto, il corpo, le lenzuola, i due comodini, per

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imprimermi nella memoria la scena. Raccomando poi ad Alcaro di fare una perquisizione accurata una volta che quelli del Racis avranno concluso i rilievi. Sono quasi stupito dal non sentirlo protestare. Non mi chiede nulla e si limita ad annuire. Mi avvicino a Pentesilea: “Signora, quanto prima sarà convocata in Procura… ci sono alcuni particolari che sarebbe utile chiarire. Nei prossimi giorni riceverà l’invito a comparire, allora... arrivederci”. Questa volta non oso porgere la mano. La donna non risponde, si limita a guardarmi dal basso come se volesse prendermi le misure e poi fa un cenno con la mano. Lo classifico come un saluto, ma potrebbe anche voler dire altro, tipo si levi dalle scatole adesso e mi lasci sola. Nel prendere congedo da Dattilo lo invito a venire in tarda mattinata in Procura per il conferimento della consulenza autoptica. Mi assicura la sua presenza. Posso finalmente allontanarmi da questa stanza che sa di morte. Mi tornano in mente le parole di mio padre, che di mestiere ha fatto lo sbirro e che di morti ammazzati ne ha visti parecchi: una morte strana in casa puzza spesso di omicidio, e il colpevole va cercato in famiglia, non altrove. Ma qui occorre capire se si tratta veramente di un delitto. Magari Alcaro ha ragione ed è solo un suicidio un po’ strano. Esco dalla villa mentre stanno per arrivare i reparti speciali della scientifica. So che sanno fare il loro mestiere e quindi posso non aspettarli. Carmine è fuori dalla vettura, in attesa. Appena mi vede butta per terra la sigaretta, mi apre la portiera e mi fa salire. “Dotto’, ma che è successo nella villa dei Rotundo?” mi chiede ancora prima di accendere il motore. “Un ragazzo si è suicidato, almeno così parrebbe. Ma come fa a sapere chi abita in quella casa?” chiedo stupito. “Dotto’, tutti in città sanno che quella è la villa del figlio di Pantaleone Rotundo. Don Pantaleone è uno degli uomini più ricchi in città, è il proprietario di buona parte degli hard discount della regione. Pure io compro nei suoi negozi e magari pure voi. Adesso poi è pure entrato in politica: alle ultime elezioni è stato eletto senatore”. Pentesilea aveva fatto un gran matrimonio, dunque. Se non proprio il re dei Mirmidoni, comunque, quanto di meglio ci fosse sul posto. “Allora è proprio lui, voglio dire il figlio, che è morto. E della moglie... che si dice in giro?” chiedo maliziosamente. “Dotto’, che è bellissima, ma altro non so dirvi”.

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Niente pettegolezzi su di lei, quindi, o comunque niente che Carmine abbia voluto dirmi. Eppure è strano che in un posto di provincia come questo, in cui non c’è mai niente da fare, una donna così bella non sia chiacchierata. Anche solo per invidia. Arriviamo a destinazione in un attimo. La città non si è ancora ripresa dalla sbornia estiva ed è ancora mezza vuota, senza traffico. Saluto Carmine, scendo dall’auto e, con passi lenti e svogliati, mi avvio verso l’atrio dell’edificio. Di fronte a me si erge maestoso, e a suo modo inquietante, il Palazzo.

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III Prima di entrare mi fermo, senza saperne il motivo, a guardare il Palazzo. Forse è perché non ho voglia di entrarci. L’edificio non è niente di che. La tipica costruzione a cavallo tra ottocento e novecento, direi, in stile neoclassico. In altre parole è un grosso parallelepipedo di cemento e mattoni con un ingresso colonnato che ricorda la facciata di un tempio greco. Può sembrare strano, ma all’inizio mi perdevo con straordinaria facilità all’interno del Palazzo. Non riuscivo a orientarmi in quei corridoi interminabili che paiono non condurre da nessuna parte. Lo ammetto, ci ho messo un po’ a capire che il parallelepipedo è cavo: al suo interno c’è un cortile e quindi, se si continua a camminare lungo i corridoi, si torna al punto di partenza. Anche con gli ascensori del Palazzo ho un rapporto di fiducia limitata. Prendo con sicurezza solo quelli nell’atrio al piano terra, quelli che si affacciano sui corridoi laterali preferisco evitarli, ho sempre paura mi conducano in qualche zona del Palazzo che non conosco. Quando finisco nel corridoio sbagliato mi capita spesso di vedere porte aperte su scale secondarie, polverose e abbandonate, con i gradini stipati da mobili, fotocopiatrici e computer ormai dismessi. Altre porte danno su archivi antidiluviani, sommersi dalla polvere e dal tempo. Si tratti di antri segreti, noti solo ai cancellieri più anziani. Lì giacciono liti di persone che non esistono più, sono custoditi atti di processi il cui esito non importa ormai a nessuno, riposano fatiche divenute inutili di giudici, assistenti e avvocati. Restano solo le carte, montagne di carte, prigioniere all’interno di fascicoli e faldoni, a ricordare che fine fanno gli sforzi di chi ha a che fare con la giustizia. Mi scuoto e decido di varcare la soglia del palazzo. Per recarmi nel mio ufficio devo attraversare l’atrio e raggiungere gli ascensori. L’atrio è costituito da un grande salone con al centro un’imponente scalinata di marmo che fa accedere al piano ammezzato dove si trovano gli empirei uffici della Corte d’Appello. Su due lati della grande sala vi sono sei statue con le fattezze di insigni giuristi locali del passato. Non ricordo di aver mai visto una statua di un giurista con un’espressione che non

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fosse, quanto meno, grave e severa. E anche questi non fanno eccezione: i loro visi sono tetri, pensosi e assorti, le mani occupate da grossi codici di pietra, i gesti in cui sono stati scolpiti, teatrali e ieratici. Al centro della sala vi è un altro gruppo di due statue: sono due figure femminili. Una tiene nelle mani una stadera, l’altra una spada. Sul basamento del gruppo si può leggere la frase “Giustizia e Verità, ultime dee superstiti”. In questo periodo dell’anno la grande sala è quasi deserta. Di solito, invece, l’atrio è gremito da un gran folla di persone che, come per incanto, sparisce verso l’ora di pranzo, quando le udienze terminano e le cancellerie chiudono. Questa folla è composita e varia, ma assai facile da catalogare. Basta osservare l’abbigliamento e l’atteggiamento di ciascuno per capire dove collocarli e cosa ci fanno nel Palazzo. Grosso modo si possono distinguere quattro gruppi di persone. A dire il vero ci sono anche delle sottocategorie, ma non ho la passione aristotelica per la tassonomia, quindi quattro gruppi direi che possono andare. Primo gruppo. Sono i dipendenti pubblici che lavorano nel Palazzo. Solitamente sono vestiti in modo modesto e sciatto, camminano senza fretta, rilassati, e si fermano spesso a parlare con le persone che incontrano. Frequenti sono le virate verso il bar, alloggiato all’interno di una grossa nicchia dell’atrio. Un discorso a parte meriterebbero i colleghi, pur essi dipendenti pubblici, ma su di loro preferisco non addentrarmi. Secondo gruppo. Il cosiddetto pubblico. Sono i poveretti costretti ad avere a che fare con Giustizia e Verità. Fanno pena mentre si aggirano smarriti per l’atrio e lungo i corridoi: in tutto il Palazzo le indicazioni sono rare e spesso fuorvianti e così i malcapitati si affannano cercando uffici, aule di udienza, cancellerie. Ogni tanto qualcuno prende coraggio e, dopo aver bussato, entra in una stanza, così, alla cieca, sperando di trovare un aiuto nel labirinto: è raro, però, che il postulante riceva risposte esaurienti. In genere il personale del Palazzo rilascia risposte scocciate e approssimative, con l’aria di chi è stato inopportunamente distolto da attività che hanno vitale importanza. Terzo gruppo. I praticanti, i neolaureati che iniziano a muovere i primi passi nel Palazzo. È facile riconoscerli. Sono giovani, si sforzano di apparire eleganti ma spesso non ci riescono. Si trovano per lo più assembrati in piccoli crocchi o sciamanti al seguito di qualche avvocato. Quando sono da soli, invece, camminano svelti, come uomini

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d’affari con qualcosa di importante da concludere. Ma non corrono per loro, corrono per conto degli appartenenti all’ultimo gruppo. Quarto gruppo. Gli avvocati. Spesso sfacciatamente eleganti per impressionare il cliente, si muovono nei meandri del Palazzo con aria da consumati conoscitori delle cose della giustizia e ostentano ai loro clienti una immancabile e certa sicurezza sul felice esito del processo. I poveretti ascoltano a bocca aperta, come si fa con un infallibile indovino, speranzosi e preoccupati al contempo. Alcuni miei colleghi ritengono che gli avvocati siano i nostri nemici. Non so se sia vero. Più vado avanti e più mi convinco che, in realtà, coloro da cui bisogna guardarsi siano soprattutto i colleghi. Ciò che invece non sopporto degli avvocati è il loro trasformismo; sono in grado di passare, nel giro di poche ore e senza nessuna vergogna, dal saluto più ossequioso alla più irriverente indifferenza. Dipende se puoi essergli utile o no. Considerano i dipendenti pubblici del Palazzo solo in funzione strumentale ai loro scopi. Io però mi urto, mi sento preso in giro. Per questo, da tempo, ho adottato la tattica di attraversare l’atrio rapidamente con gli occhi rivolti al pavimento, in modo da non prestarmi a questo gioco irritante. Anche oggi la mia strategia non cambia. Attraverso l’atrio quasi di corsa e mi infilo nell’ascensore. Una volta giunto al terzo piano saluto lo scarso personale in servizio e mi rifugio nel mio ufficio. Mi piace stare solo nella mia stanza, al riparo dal vociare e dalla frenesia del Palazzo. Ho ancora del tempo per riordinare le idee prima dell’interrogatorio. Riordino poco, però. Penso a Michela Procopio, a Pentesilea. Qualcosa in quella donna mi è rimasto conficcato dentro: è una donna pericolosa, questo è chiaro. Emana una indefinibile malia che va dritta allo stomaco come un pugno sferrato verso il bersaglio grosso, per colpire e fare male. Magari è stata lei a organizzare la messa in scena del suicidio. Il movente? Non è mai difficile trovarne uno. Il denaro, un amante, la vendetta. O tutte queste cose insieme. Bussano alla porta. Invito a entrare, alzando la voce in modo da farmi sentire. La porta si apre lentamente e sulla soglia compare una sagoma familiare. È Giuseppe Catricalà, ma tutti lo chiamano Peppino. Peppino ha quindici anni di più di me e adesso lavora in Corte di Appello. È il mio unico amico qui. Non sono stati pochi i pomeriggi in cui Peppino è rimasto con me a discutere su una richiesta di archiviazione o su come gestire le indagini. È geneticamente generoso, non può fare a meno di aiutare. È più forte di lui. Credo, poi, che in me riveda se stesso. Anche

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lui, come me, ha avuto il primo incarico lontano da casa. Anche lui ha iniziato in procura. E anche lui, come me, è un cane senza padrone. Una delle prime cose che gli ho chiesto era l’origine di quel cognome così strano. Mi ha risposto, orgoglioso, che l’etimo era greco, era il risultato della crasi di katharos e kalos. I nomi, a volte, corrispondono alle cose e Peppino puro e bello lo è per davvero. Nemmeno gli anni trascorsi a frugare nel marcio e nello sporco e la frequentazione assidua dei criminali gli hanno potuto lordare l’animo. Ed è anche un uomo affascinante: i suoi occhi azzurri, grandi ed espressivi, sono resi magnetici dal contrasto con il colore scuro, mediterraneo, della carnagione. I capelli brizzolati ne accrescono il fascino e lo rendono oggetto degli sguardi interessati delle donne. “E allora, come sta andando il turno?” si informa Peppino. Qui tutti sanno tutto di tutti, e forse Peppino mi può essere utile per avere qualche notizia su Pentesilea, un po’ per l’indagine, un po’ per soddisfare la mia curiosità. Lo informo di quanto è successo, ma solo alla fine sgancio la bomba con i nomi dei due protagonisti. “Minchia” sbotta “questa è una faccenda delicata, qui un sacco di gente ti romperà le palle. Hai capito chi è il morto?” “Sì, il giovane era il figlio di Rotundo, quello dei supermercati, ma lei...” “Lei” mi interrompe Peppino “ha partecipato giovanissima a Miss Italia e stava intraprendendo la carriera di fotomodella. Poi è successo un incidente…” “Che incidente?” chiedo ansioso. “È stata sfregiata. Un ex amante. Pare che l’abbia addormentata e poi le abbia tagliato il viso con un coltello. Non poteva sopportare il fatto di essere stato lasciato per un altro. Ma non ti ricordi? Se ne è anche parlato sulla stampa nazionale”. Non mi viene in mente nulla, ma non mi meraviglio: guardo poca televisione e leggo ancora meno i giornali. Obietto a Peppino che non ho notato alcuna cicatrice sul volto della donna. “Evidentemente i chirurghi plastici sono stati molto abili, ma qualcosa deve essere rimasto, perché ha dovuto abbandonare la carriera di modella. Fai molta attenzione, poi, al padre del morto: oltre a essere ricco sfondato, e deputato, è amico del Procuratore Capo”. “Bene, ci sono tutti gli ingredienti perché mi triturino i cosiddetti”. Per un attimo, poi, restiamo in silenzio. La mia mente, intanto, lavora freneticamente. Se i rilievi non confermano l’ipotesi del suicidio

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l’intera città, giornalisti in testa, parlerà del caso e quindi ci saranno seccature a non finire. Per i giornali questo caso rappresenta una vera manna: dopo una estate molle e sonnacchiosa avranno finalmente qualcosa su cui scrivere. In più, se il padre della vittima è effettivamente amico del Procuratore, Romano cercherà senz’altro di ficcare il naso nell’inchiesta. C’è un picchiettio breve e ritmato sulla porta. Riconosco subito la bussata. Dico di entrare: la signora Fittante, l’assistente amministrativa che è stata assegnata al mio ufficio, appare sulla soglia. Mi avverte che il detenuto e l’avvocato sono arrivati e che, quando voglio, possiamo iniziare l’interrogatorio. Peppino ne approfitta per congedarsi. Ci salutiamo con l’accordo di vederci il giorno successivo a pranzo. Chiedo alla signora Fittante di comunicare che l’interrogatorio inizierà tra poco e apro il voluminoso fascicolo che ho sulla scrivania. Conosco già i fatti, voglio solo dare un’ultima occhiata prima di iniziare. Scorro rapidamente le pagine. Si tratta di una serie di estorsioni ai danni di commercianti. Una piaga antica per la zona e un reato particolarmente odioso. L’indagato ha chiesto di essere interrogato dopo la chiusura delle indagini. Non confido per nulla in questa audizione, è solo una perdita di tempo. Conosco il difensore. Appartiene alla categoria dei difensori di soli innocenti. Quando hai a che fare con questi avvocati, non capita mai che un loro cliente confessi o collabori. E come potrebbe del resto? È innocente, anche quando le prove della sua colpevolezza sono più che evidenti. In realtà questo tipo di avvocati spera sempre in qualche regalo, una amnistia, un indulto, una depenalizzazione. E hanno ragione, qualcosa prima o poi arriva sempre, basta avere pazienza. E se non arriva nulla, c’è sempre il tempo, il grande nemico di tutti i pubblici ministeri e prezioso alleato di avvocati e delinquenti. Una volta mi hanno applicato in Corte di Appello come pubblico ministero di udienza: non credevo ai miei occhi quando ho visto quanti reati erano già prescritti prima del processo di appello. Ho chiesto a un giudice della Corte se quella non fosse, per caso, una giornata eccezionale. “Giovane collega” mi ha detto, guardandomi dall’alto in basso “presto capirai che il nostro lavoro è, tranne in rari casi, del tutto inutile. Tutte le giornate sono come questa, alcune anche peggio. E pensa che ancora possono ricorrere in Cassazione. E lì, via altro tempo che passa”. Quel giorno è stato uno dei peggiori da quando sono entrato in magistratura. Non riuscivo a levarmi di dosso il senso di frustrazione che mi attanagliava.

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Chiamo la Fittante e li faccio entrare. Entrano tutti, il detenuto, l’avvocato, la Fittante e gli agenti di polizia penitenziaria. Iniziamo l’interrogatorio. Non mi sono sbagliato. Niente di utile. Solo pervicaci negazioni a dispetto di prove a volte schiaccianti. Come previsto l’avvocato Fedele difende solamente innocenti. Perdo più di due ore senza ottenere nulla. Verso la fine dell’interrogatorio mi limito a verbalizzare quello che mi dice l’indagato senza più preoccuparmi di contraddirlo. Fedele lo vede come un buon segno e, alla fine dell’interrogatorio, gongola soddisfatto: “Bene, a questo punto direi che il mio cliente ha chiarito la sua posizione…” “Dice?” lo interrompo “A me sembra che abbia detto un sacco di frottole”. “Quindi il suo parere sulla revoca della custodia cautelare sarà negativo?” “Avanzi la sua richiesta, poi valuterò…” “Sì, ma volevo, come dire, un sorta di sua anticipazione sul parere…” si lamenta, ma poi rassegnato esce dall’ufficio, non prima di aver biascicato qualche parola verso il suo assistito. Escono tutti in fila indiana dalla stanza, la Fittante per ultima. Sono di nuovo solo. È un piacere. Gli interrogatori stancano e ho bisogno di rilassarmi un poco. Mi cade l’occhio su di una rivista che sta sul tavolo, ancora avvolta nel cellophane, “Magistratura e Mezzogiorno”, un periodico scritto e finanziato da un gruppo di magistrati meridionali. Spacco la plastica e inizio a sfogliare la rivista. All’interno vi è un articolo dedicato a Salvuccio Paino, già Sostituto Procuratore della Repubblica di Gela. È riportato anche un suo discorso. Quelle di Paino sono le parole di un morto. A circa un anno da quel discorso Paino era stato ammazzato, non dalla mafia, ma da uno che aveva arrestato e che invece altri colleghi avevano liberato non ritenendolo pericoloso. Appena uscito di galera il “non pericoloso” aveva fatto fuori Paino. L’articolo ricordava il primo anniversario, così era scritto, dal suo estremo sacrificio. Povero Paino, credo non fosse sua intenzione arrivare fino a quel punto. È un mestiere difficile quello del magistrato, soprattutto se vuoi farlo bene. Comporta dedizione, impegno e, a volte, anche qualche rischio, e non è che si guadagni questo granché. Giusto quanto basta per fare una vita dignitosa e nulla di più. Lavoro ancora un poco ma sono svogliato, non combino molto. Quando guardo di nuovo l’orologio scopro che è quasi l’una.

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Ho promesso a Daniela di andare a mangiare da lei. Mi devo sbrigare altrimenti farò tardi, e lei è così assurdamente puntuale. E pensare che è una delle persone più sbadate che conosca. Spengo il computer ed esco sul corridoio. È deserto. Chiudo a chiave la porta della stanza, prendo l’ascensore, attraverso l’atrio e sono finalmente fuori dal Palazzo. Mi giro un attimo a guardare la sala: a eccezione degli uscieri, immobili davanti alla porta, sprofondati nella loro perenne noia, le statue dei giuristi sono rimaste sole nell’atrio. Oggi, poi, mi sembra che abbiano delle espressioni più gravi del solito, forse non gradiscono la compagnia degli uscieri. Al centro della grande sala anche Giustizia e Verità si ergono solitarie. Mi fanno quasi pena. Per questo strizzo loro l’occhio prima di allontanarmi.

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IV Fuori dal Palazzo la giornata è bellissima. Il sole è radioso e spadroneggia, da monarca assoluto, su un cielo brillante e privo di nuvole. È la prima cosa che ho notato quando sono arrivato qui: i colori sono diversi, più vivi, sono a tuttotondo. Fa caldo ma non c’è afa, l’aria è secca e asciutta. La casa di Daniela è vicina al Palazzo e la passeggiata mi risulta piacevole; lungo la strada mi fermo in una pasticceria e compro del gelato. Raccomando alla scialba ragazza che sta al bancone di mettere, dentro a una vaschetta, un bel po’ di gusti, con prevalenza per quelli alle creme. Sono quelli che Giulia, la figlia di Daniela, preferisce. Riprendo il mio cammino verso la casa di Daniela. So già cosa mi aspetta là. Per un po’ ne sono stato attirato, ma ora non più. Mi è rimasta la tenerezza e poco altro. All’inizio, ovviamente, non era così. All’inizio, ovviamente, con Daniela ci sono andato a letto. Non che mi piacesse particolarmente, ma lei si era praticamente offerta e io era molto tempo che non avevo una donna. Anzi, a dir la verità, una vera donna non l’avevo mai avuta. Prima di Daniela i miei rapporti erano stati con ragazze, mai con donne. Daniela è stata la mia prima donna. Divorziata, con una figlia, era diversa dalle ragazzette che avevo conosciuto sino ad allora. La prima differenza venne fuori a letto: era lei a condurre il gioco e per me era una cosa nuova. Lei dettava tempi e regole e io facevo solo la comparsa, la spalla. Finalmente scoprivo che la donna è anche carne, sangue, istinto. La nostra prima volta era stata su di un dondolo, durante una festa in una villa: tutti erano andati in spiaggia per un falò e noi eravamo rimasti soli nella grande veranda. Daniela era rientrata un attimo in casa e, poco dopo, ne era uscita con una strana luce negli occhi. Senza dire nulla aveva sollevato l’ampia gonna e si era seduta a cavalcioni sopra di me che ero infossato nel cuscino del dondolo. Era andata a levarsi le mutande. Ero così sbalordito che ci misi un bel po’ a essere pronto, tanto che stavamo diventando entrambi nervosi. Daniela venne quasi

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subito, senza curarsi del mio piacere. Non mi diede nessun bacio, né mi chiese alcuna tenerezza, cercava solo il piacere del corpo, quasi si trattasse dell’assolvimento di una necessità corporale. Era la prima volta che mi capitava. Poi le cose sono cambiate, poi anche Daniela ha cercato di esigere il suo conto. Intanto sono giunto alla porta della casa di Daniela. Non faccio in tempo a bussare che la porta si apre. Vengo travolto dai baci e dagli abbracci di Giulia. Mi stava spiando dalla finestra. La piccola è così somigliante alla madre che ne è la miniatura. Entrambe hanno occhi scuri, grandi e intensi e un naso perfetto, dritto e sottile. Gli zigomi sfuggenti e il colore scuro della carnagione e dei capelli le fanno sembrare due squaw. Ciò che non mi piace di Daniela è il corpo: è tarchiata, con gli arti che spuntano corti fuori dal corpo, come quelli di una tartaruga. Mi addentro in casa sino alla cucina scortato da Giulia. Daniela è indaffarata ai fornelli. “Guarda che se quello che ti ho preparato non ti va bene, te ne puoi andare a casa tua” mi avverte senza neppure girarsi e mantenendo lo sguardo fisso su di una pentola bombata posta sul fuoco. Teme il mio eterno criticare. Ma che colpa ne ho? L’insoddisfazione non dipende dalla volontà, la si prova e basta. Taccio e, dopo aver messo il gelato nel congelatore, mi siedo a tavola. Giulia è contenta di avere un uomo a tavola. Io, invece, sono preoccupato. Daniela non è capace di cucinare. Strano per una donna del sud. Ancora più strano per una donna che è stata sposata. L’odore che proviene dalla misteriosa pietanza, che viene rimestata dentro alla pentola, non promette nulla di buono. Sono però disposto a essere accomodante: la mia giornata è iniziata presto e sono affamato. Daniela, con gesti rapidi, versa il contenuto nei piatti, non cerca nemmeno di classificarlo. Mangio e basta, senza fare domande: il sugo non ha alcun sapore e la pasta è praticamente cruda. Perso ogni interesse nel pasto, ne approfitto per divertirmi con la piccola: non appena Daniela abbassa lo sguardo sul piatto spalanco la bocca, mostrando a Giulia il cibo appena masticato. Lei manda dei gridolini di disgusto e invoca l’aiuto della madre ma, quando Daniela si volta, io sono intento a mangiare, compito come un baronetto. Giulia ride e lo scherzo le dà il coraggio per criticare la madre: “Mamma, ma questa pasta fa proprio schifo, non sa di niente!” Condivido su tutta la linea. Ma Giulia va oltre. È ormai decisa ad abbandonare la pasta nel piatto e, dopo un breve braccio di ferro con

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Daniela, si alza, prende un po’ di gelato, va in soggiorno, accende la televisione e si eclissa nel suo mondo. Daniela, dal canto suo, continua imperturbabile a mangiare. È soddisfatta: “Be’, a me è piaciuta. Sì, forse un po’ al dente, ma comunque buona”. Io intanto la osservo. Ha addosso un bel vestito bianco che lascia scoperte le spalle. Le sta bene, il colore si sposa con la carnagione scura del suo viso. Peccato che il candore dell’abito sia lordato da due macchie di ruggine poste all’altezza dell’ascella. Daniela non ha più molti soldi; l’ex marito è benestante, ma non le dà molto denaro per il mantenimento di Giulia. Non che sia avaro. È piuttosto una questione di strategia. Vuole mettere pressione sulla bambina, farle intravedere un futuro migliore accanto a lui, e convincerla a lasciare la madre. Prima o poi vincerà il tiro alla fune e Daniela rimarrà sola. Credo che lei lo sappia, sta solo lottando per ritardare l’inevitabile. Fa tenerezza vederla fare tante rinunce, nella speranza di vincere una battaglia impari. Anche perché lei appartiene a una famiglia molto agiata ed è stata abituata a vivere in mezzo al lusso e alle cose belle. Ma con la sua famiglia di origine i rapporti si sono sfilacciati. Non le ho mai chiesto il perché. Forse la gravidanza quando ancora Daniela non era sposata, forse il divorzio, l’hanno resa estranea e lontana ai suoi stessi parenti. Fatto sta che Daniela è rimasta sola con la sua bambina. È per questo che, da molto tempo, non acquista un vestito nuovo. Lo si vede dagli abiti che indossa. Un tempo erano belli e di classe, ma ora sono frusti e lisi. Io, intanto, ho ancora fame. Apro lo sportello del frigorifero, evitando lo sguardo interrogativo di Daniela, e scorgo una provvidenziale porzione di prosciutto e un po’ di pane. Non me li lascio scappare, almeno così tappo il buco nello stomaco. Daniela approfitta del silenzio per riempirlo, lamentandosi del lavoro di praticante commercialista e dei pochi soldi che ne ricava. Deve essere in una situazione particolarmente difficile, perché è la prima volta che lo fa così apertamente: “Questo mese non ho visto un soldo. Meno male che a giugno le cose sono andate bene con le dichiarazioni dei redditi e ho messo qualcosa da parte. Speriamo che vada in porto la domanda che ho fatto per un posto in provincia”. “Di quale lavoro si tratta?” chiedo incuriosito.

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“Mah, dovrei occuparmi del bilancio comunale. Sarebbe un bel lavoro, è che il concorso è per un posto solo...” “È difficile, lo sai come funziona” la interrompo senza garbo “se c’è un posto solo, si sa che è già assegnato. In comune poi, proprio qui, nella città degli amici, figuriamoci…” “Vedrai che le cose andranno come devono andare, ne sono certa. Dio vede e provvede...” “Ah sì? E come fai a essere così sicura?” Tento di dominarmi, ma il fatalismo di Daniela mi irrita. Già so che non potrò fare a meno di addentrarmi in una discussione. È più forte di me. È la mia ossessione. Come i compulsivi non possono fare a meno di mettere ogni cosa in ordine, così io non riesco a stare zitto, quando si parla di dio e di destino dell’uomo. Tutto quello che riesco a concedere a Daniela è una piccola pausa poi, quasi inconsapevolmente, parto: “Lo sai come la penso: non c’è nessuna provvidenza, e solo quando mi spiegherai perché il tuo dio non ha mosso una sola delle sue onnipotenti dita ad Auschwitz o Hiroshima sarò pronto a cambiare idea. Perché non ti scrolli di dosso questo ciarpame fatto di colpa e di peccato e non ti liberi da questa catena che ti fa sembrare ogni briciola di pane una grazia di dio e ogni disgrazia un castigo sacrosanto?” Daniela mi guarda. Non è la prima volta che tocchiamo questo argomento: “Tu non puoi capire. Io ho la fede mentre tu non hai questa grazia, sei condannato a dubitare sempre. E poi pensare alla provvidenza mi aiuta, mi rende sopportabili anche le cose più tristi. E questo ciarpame, come lo chiami tu, non mi pesa, perché io sono capace di amare Dio e di accettare la sua volontà”. Ovvio che non demordo: “Già, ma la provvidenza è una compagna pericolosa. E pretenziosa. Scommetto che, quando il tuo matrimonio è finito, tu lo hai sentito come la giusta punizione per qualche cosa che avevi fatto, per qualche colpa da espiare. Anche se non sapevi bene quale. Perché sei convinta che il male nasca dal male, e il bene dal bene”. Daniela dilata gli occhi e rimane come bloccata. Forse ho esagerato. Questa del divorzio potevo risparmiarmela: “Sì è vero” ammette, tenendo lo sguardo basso “ho pensato che fosse un castigo per aver concepito Giulia al di fuori del matrimonio, per non aver seguito…” La interrompo trionfante: “Ed è naturale pensarlo per chi crede nel tuo dio, che tutto può, che dà o leva a suo piacimento, con l’unico obbligo

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di restituire tutto nell’aldilà, nell’eterno giardino di delizie. Vedi, colpa e peccato sono la linfa vitale del tuo dio. Senza di essi che bisogno c’era di scendere sulla terra e farsi uomo? Il racconto del peccato originale sembra una storiella per bambini eppure, se levi al tuo dio il giardino dell’Eden e l’albero della conoscenza, non si capisce quale senso avrebbe la venuta sulla terra di suo figlio. Se tu invece ti liberassi dal senso del peccato, vedresti le cose per quello che sono, pura fatalità senza giustizia, senza retribuzione, senza un senso. E in più saresti libera, senza un giudice ultimo a cui dover rendere conto…” “Ma così” replica Daniela “senza il freno del peccato e della punizione, non ci sarebbe più limite alla violenza e all’odio. Il senso del peccato, come lo chiami tu, e la punizione divina servono a farci superare i nostri lati più bui. Senza il peccato non c’è pietà, non c’è compassione, c’è solo utilitarismo senza freni”. “Guarda che chi è spietato, è il tuo dio…” “Basta, ti prego, stai bestemmiando…” “E io invece ti dico che il tuo dio ha le mani che grondano di sangue, perché il suo è un messaggio violento che non ammette alternative. Ha la pretesa di essere l’unica verità e di non dover essere messo in discussione. Se non sbaglio, l’unico peccato che non può essere rimesso, è proprio quello di non credere. Per giunta il tuo dio, il dio cristiano, ha pure voglia di proselitismo, di convincere. Pensa un po’ che miscela esplosiva…” Mi fermo un attimo. Lo so, divento pedante e noioso. Purtroppo è sempre così, non appena si parla di certi argomenti mi sento come posseduto e non riesco a tacere, anche se poi, a discussione finita, mi resta solo un senso di vuoto, di inutilità. Non convinco, lo so, lo vedo, ma non capisco il perché. A me sembra tutto così chiaro. Daniela intanto sta per replicare. Anche se per lei è diverso, lei usa il cuore. Io non ne sono capace. Me lo dice sempre. E nonostante questo riesce ad accalorarsi di meno. È strano. Dovrebbe essere il contrario. Forse, più semplicemente, non vive la mia ossessione. Ma la risposta di Daniela non arriva: Giulia è appena entrata in cucina. Si stropiccia gli occhi, si deve essere addormentata davanti alla televisione e la mia voce da predicatore l’ha svegliata. “Ma cosa avevate da gridare, non sapete che è maleducazione parlare a voce alta?” Mentre ci redarguisce si arrampica, ancora insonnolita, sulla madre per essere presa in braccio. Ma fa appena in tempo ad appoggiare il capo sulle spalle di Daniela che si addormenta di nuovo. La aiuto a sistemare a letto la piccola e le osservo mentre la madre

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mette il pigiama alla figlia. Poi mi siedo sul letto, di spalle rispetto a loro due. Non voglio condividere tanta intimità, mi sento a disagio. Giulia si deve essere svegliata, perché Daniela ha intonato una nenia che sembra vecchia di secoli, di millenni. Anche la sua voce pare provenire dalle voragini del tempo. Chissà da chi l’avrà imparata. Non dalla madre, perché è morta quando Daniela era piccolissima. Forse da qualche vecchia che le ha fatto da balia e che le ha tramandato questa aria ancestrale. Ora il canto è terminato. Mi giro e vedo che madre e figlia sono entrambe stese sul letto, l’una di fianco all’altra. Daniela è sveglia e mi guarda intensamente. Mi sbaglio o il suo sguardo ha la stessa luce maliarda e lubrica di quella volta sul dondolo? In ogni caso non provo alcun fremito e né ho intenzione di verificare se le promesse di cui sono carichi quegli occhi verranno mantenute. Non sento più alcuna attrazione per Daniela. Potrei vederla nuda e non provare nulla, come quando si vedono i corpi nudi in un programma di medicina. Abbasso lo sguardo e lascio cadere il suo muto invito. Mi alzo in piedi e faccio il giro del letto. Sono ancora lì, distese, Daniela ha socchiuso gli occhi ma so che mi vede. Mi piego verso di loro e do prima un bacio in fronte alla bimba e poi un altro, eloquente, sempre sulla fronte, alla madre. Daniela non mi guarda più. Ha gli occhi serrati. Bofonchio un paio di frasi stupide dicendo che, se dovesse avere bisogno di soldi, non ha che da chiedere. Non so se è stata una buona idea, potrei aver aggiunto umiliazione a umiliazione. Lei rifiuta, precisando che è abituata a farcela da sola. Poi con algida cortesia, scusandosi, mi chiede se può fare a meno di accompagnarmi sino alla porta. Non si sente troppo bene. Annuisco, comprensivo, ed esco dalla casa piano piano, come un ladro. La casa di Daniela è bella ma buia e così, quando sono fuori, sono sorpreso di trovare tanta luce e il sole ancora alto nel cielo estivo. Fa caldo. Percorro rapidamente il tratto di strada che scende fino al Palazzo. Non sono soddisfatto. Ma perché sono andato a buttarmi in quella stupida discussione? Che bisogno c’era? Daniela voleva solamente rendermi partecipe di un suo progetto, avrei dovuto sostenerla e appoggiarla, non trascinarla nei miei deliri. Poi tutto questo si stempera e lascia il posto a una strana euforia: sono entusiasta all’idea di essere libero, all’aperto, fuori dalla portata dei pesanti drappi e dell’oscurità della casa di Daniela. Entro nel Palazzo e l’edificio mi sembra deserto: nell’atrio vuoto i miei passi risuonano pesanti e gravi, amplificati dall’enorme ambiente. Prendo l’ascensore e arrivo al terzo piano: in Procura sono rimasti

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soltanto l’usciere e Giuseppe, l’altro autista. Mi accolgono con il saluto annoiato di chi lavora aspettando. Uscieri e autisti aspettano sempre. Che qualcuno entri, che qualcun altro esca, che un altro ancora chieda di essere accompagnato. Rispondo con un cenno del capo e mi dirigo svelto nel mio ufficio. Guardo la posta che la signora Fittante mi ha messo sul tavolo. Nulla di importante. Solo il fax di Alcaro che comunica ufficialmente alla Procura il decesso di Rotundo, qualificandolo come “probabile suicidio”. Scommetto che, mentre lo scriveva, aveva in mente le tette di Pentesilea. Allontano il messaggio e prendo a sfogliare, quasi rabbiosamente, un voluminoso fascicolo che giace su di un mobile di servizio accanto alla scrivania. Almeno qui le indagini le ha fatte la Guardia di Finanza e non devo leggere gli stupidi rapporti di Alcaro. Si tratta però di un caso complesso, una truffa per diversi milioni di euro e un pomeriggio estivo, dopo una notte insonne, non è il momento migliore per capirci qualcosa. Infatti rimango per un bel pezzo a guardare le carte, senza approdare a nulla. Poi mi arrendo. Incomincio a precostituirmi l’alibi. Primo. Sono stanco, perché questa notte non ho praticamente dormito. Secondo. I risultati degli stub e i rilievi della polizia scientifica per la morte di Rotundo non arriveranno prima di domani mattina. Terzo (ed è quello principale): in questo mestiere, se un giorno non hai voglia di lavorare, è meglio lasciar perdere e andare a casa. Tanto, anche se stai in ufficio, non riesci a combinare nulla. La coscienza è sistemata, e posso quindi concedermi una mezza giornata di riposo. Ho già deciso, vado al mare. Ma non in spiaggia. Mi è appena venuto in mente che qualche tempo prima, viaggiando sulla litoranea, avevo scorto al di sotto di un piccolo cavalcavia, a pochi metri dal mare, delle antiche rovine. Il luogo, deserto e incustodito, mi era rimasto nella memoria e avevo chiesto informazioni a Peppino che, non senza orgoglio, mi aveva spiegato che si trattava delle rovine di una città antica, una colonia achea fondata più di duemila e cinquecento anni addietro. “A quei tempi, dalle parti tue ci stavano soltanto paludi e palafitte” aveva aggiunto ironico. Guardo l’orologio: sono le quattro del pomeriggio. Con la moto posso essere là in poco più di mezz’ora. Ripongo il fascicolo della truffa da dove l’avevo prelevato ed esco dall’ufficio. Chiudo a chiave la porta, mi guardo in giro e mi dileguo.

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V “We are the one. The two are now made one. We are the one. Demi-god and nymph are now made one. Both had given everything they had. A lover's dream had been fulfilled at last, forever still beneath the lake”. Canto a squarciagola dentro alla doccia. È una vecchia canzone dei primi anni settanta, quando andava di moda il cosiddetto rock sinfonico. Il testo riprende un antico mito greco, il mito dell’amore della ninfa Salmace per Ermafrodito. Un amore non ricambiato, ma così profondo e disperato che gli dei decisero di fondere in un solo corpo amante e amato e di creare così un essere dalla doppia natura, parte maschile, parte femminile. Rimango a cantare a lungo sotto l’acqua calda. Non so perché mi sia tornata in mente questa canzone. È un pezzo che non la ascolto. Ripenso a quanto mi è successo oggi. I ricordi della giornata si affastellano tra loro, ma subito dopo scivolano via, non diversamente dalle gocce d’acqua che corrono lungo il mio corpo. Solo l’immagine amazzonica di Pentesilea resta, insistente, inquietante, non mi dà pace. Chiudo l’acqua, devo sbrigarmi se voglio viaggiare con la luce. Da un po’ di tempo ho preso l’abitudine di indossare l’abbigliamento tecnico anche se è piena estate. Almeno per la parte superiore. Così, sopra la maglietta, metto la protezione per la schiena e poi il giubbotto di pelle con le protezioni per spalle e gomiti. Per i pantaloni concedo al caldo i jeans. Ma sotto metto gli stivali. Più che per ragioni di sicurezza, perché mi piace l’abbigliamento da motociclista. Mi dà un senso di forza, di potenza. E poi spersonalizza, rende misteriosi. E ora il casco, ne ho più d’uno, ma prendo il modulare tedesco, il mio preferito. Finalmente sono pronto per uscire: scendo in garage e accendo la motocicletta. Il potente bicilindrico boxer mi saluta con il suo ruggito corposo e rassicurante. È strano il piacere che si prova a guidare la moto. Accelerare, decelerare, staccare, piegare. La moto, in fondo, è tutta qui. Sembrerebbe qualcosa di monotono, che alla fine stufa pure. E invece non è così. Ogni curva ha la sua storia. Ogni traiettoria può essere migliorata. Ogni staccata portata un po’ più avanti. E poi quando sei

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stanco, quando ti vuoi rilassare e non tirare troppo, c’è sempre il paesaggio. E che paesaggio. Qui la natura è aspra, selvaggia, capace di alternare, nel raggio di pochi chilometri, paesaggi montani, con laghetti e foreste di conifere, a scenari quasi tropicali con spiagge alberate, sabbie bianchissime e mare cristallino. Appena esco dalla città la strada statale si snoda, tortuosa, accanto alla costa, seguendone l’irregolare contorno per chilometri e chilometri. Per chi viaggia in direzione sud, a oriente si staglia la distesa del mare, di un intenso colore blu che diventa più chiaro in prossimità di certe cale dalla sabbia bianca. Al centro vi è una piana, larga non più di cinque chilometri, coltivata per lo più a uliveti e interrotta da torrenti e fiumare. A occidente la piana è limitata dalla linea spezzata delle colline, disposte alla rinfusa, a macchia di leopardo, mentre ancora più a ovest vi sono delle vere e proprie montagne, dalle cime aguzze e appuntite. Arroccati sulle cime si vedono, simili a presepi, antichi paesini con le case fitte fitte, raccolte intorno all’unico campanile. Per raggiungere il tempio devo, per l’appunto, andare verso sud. Guido senza fretta, con la mentoniera del casco modulare alzata, in modo da godermi la calda aria estiva che mi viene incontro. Interminabili uliveti hanno già iniziato a scortarmi. È qui vicino che, nascosta dagli alberi sacri ad Atena, mi era capitato di scoprire, a dispetto della scarnissime indicazioni, una città antica. Ho letto, non ricordo dove, che era stata prima una colonia greca e poi municipio romano. Il luogo, frequentato da rari turisti, mi aveva impressionato perché gli archeologi, forse per non irritare la dea, avevano evitato di abbattere gli alberi di ulivo che erano cresciuti sopra la città antica. Così adesso rovine e piante secolari si spartiscono equamente, in armoniosa convivenza, la signoria sul luogo. Ci sono tornato parecchie volte, sempre con qualche ragazza, convinto di impressionarla, ma i commenti sono sempre stati del tipo: “Tutto qui? Ma sono quattro pietre. E poi, non si capisce niente, si vedono appena le basi di qualche edificio... forza, dai, che ce ne andiamo”. Sconfitto, rinuncio a qualsiasi obiezione e mi lascio trascinare via. Io invece resterei ore seduto su quei sassi squadrati che si danno la mano con gli ulivi, a godermi la quieta simbiosi di piante, pietra, natura e storia. Adesso sto costeggiando proprio l’uliveto che ospita le rovine, e per un attimo sono tentato di fermarmi. Poi ci ripenso. Sarà per un'altra volta. Oggi voglio andare al tempio. Dopo qualche chilometro, all’uscita da una galleria, proprio nel punto dove la strada è più tortuosa, mi raggiunge un altro motociclista. Accelero. Anche lui fa lo stesso.

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Abbasso la mentoniera. La guida ora si fa più nervosa. Le cambiate più brusche, le staccate più lunghe. È stupido, lo so, ma, come dire, ci ingarelliamo. Guardo nello specchietto e cerco di capire di che moto si tratta. Sportiva, giapponese, credo un “600 cc”, non recentissimo. L’amico va, ma io riesco a non farmi passare. Non mi tiro indietro, anzi ci do dentro col gas. Curva dopo curva. Lui piega di più di me, ma io sono più rapido nell’inserimento in curva. O almeno così mi sembra. E se lui stesse giocando al gatto col topo? Cerco comunque di andare più forte che posso. Arriviamo a un bivio. Vedo che mette la freccia e si dirige verso le montagne. Io proseguo per la mia strada ma, prima di allontanarsi, mi saluta con il clacson. Sono soddisfatto, mi sono guadagnato il suo rispetto. Da motociclista, a motociclista. Rallento l’andatura e mi riapproprio del paesaggio. È così che vedo le ferite lasciate dall’uomo: grandi condomini sorgono a pochi metri dalla riva del mare, deturpando la costa come dei bubboni purulenti cresciuti su di una pelle candida e liscia. Le case, poi, spesso hanno solo un intonaco grigio e grezzo che dà uno sgradevole senso di povertà e di abbandono. Qua e là scorgo costruzioni iniziate e mai completate, in cui le colonne portanti restano inutilmente innalzate verso il vuoto, con le anime di metallo, ormai ossidato, che sporgono dalla sommità. Però, non appena supero i gruppi di case, la natura riprende il sopravvento e ricomincia il suo spettacolo mozzafiato. Ma ecco che riconosco il cavalcavia. Lo percorro a velocità ridotta e, sulla sinistra, al disotto della strada, vedo le scarse rovine. Parcheggio la moto alla fine del cavalcavia, dove la strada si allarga un poco, ripongo il casco e il giubbotto e, a piedi, senza fretta, mi avvio verso gli scavi. Trovo una scala ripida e stretta che conduce alla rovine. Prima di scendere mi guardo intorno. Alle spalle della strada, in cima a una collinetta alta non più di una cinquantina di metri, si erge un faro, mentre, al di là della statale, verso il mare, in mezzo all’erba alta, giacciono i resti dell’antica città. Alcuni tratti della cinta muraria, la base di un tempio e le fondamenta di quelle che potrebbero essere state abitazioni. Più in là, a pochissima distanza dal tempio ma più in basso di un paio di metri, si stende la piatta distesa del mare. Discendo con cautela la scala che si arrotola su stessa e percorro per una decina di metri un piccolo sentiero che taglia l’erba alta e fitta. Mi conduce a un cancello le cui ante sono chiuse da un lucchetto. Peccato, però, che attorno al cancello non ci sia alcuna recinzione. Il cancello chiude il nulla, chiunque può accedere all’area. Sopra a una delle due colonne quadrate che sostengono il cancello arrugginito è stata posta una lapide

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marmorea. L’incisione è in parte illeggibile: “Sovrintendenza Archeol… Tempio A”. Il sito, nonostante la stagione estiva, è completamente deserto. Solo il monotono e costante rumore delle automobili che transitano sulla statale rompe il silenzio incantato del luogo. Delle colonne del tempio non rimane più nulla e l’unico capitello superstite giace su un lato del tempio, al di fuori del perimetro della base. Sopra di esso qualcuno vi ha inciso un cuore dalla forma grottescamente allungata, se non vi fossero delle iniziali all’interno e una data, potrebbe sembrare qualsiasi altra cosa. Dentro il perimetro dell’edificio si può ancora vedere la base della cella per la statua del dio. Cerco di immaginare a quale divinità gli antichi abitanti della città avessero dedicato il tempio. Forse Apollo, oppure il potente Zeus, oppure ancora Poseidone, visto che il tempio sorgeva in riva al mare. O, chissà, una divinità femminile: Atena la guerriera oppure la gelosa Era. Adesso sulle rovine è salita una grossa lucertola che si ferma a prendere il sole. Mi è fin troppo facile ironizzare su come, da almeno un paio di millenni, la sacra dimora del dio sia diventata dominio di piante e animali. E pensare che questo luogo, come ogni luogo sacro, avrà ascoltato suppliche, lamentele, maledizioni, mute richieste al dio. Adesso è da molto tempo che tutto ciò non succede più. Piante e animali non hanno mai nulla da chiedere agli dei, vivono e muoiono senza aver nessun rapporto con un dio, senza porsi il problema. Sorrido al pensiero che quanto è accaduto a questo tempio potrebbe succedere alle chiese cristiane. Qualcuno, quando il dio di Daniela - prima o poi dovrà pur capitare anche a lui - sarà solo un dio dimenticato, senza più fedeli, passeggiando sulle rovine di una chiesa potrebbe guardare con sufficienza alle superstiziose credenze del passato e riflettere su come il tempo abbia smascherato quel falso dio e ridotto a polvere il suo santuario. Anch’io mi sdraio sul muro della cella, non troppo lontano dalla lucertola. Devo dire che ha avuto una buona idea e così ci godiamo tutti e due l’ultimo sole della giornata. Presto, però, la stanchezza ha il sopravvento e mi addormento quasi subito, cadendo in un sonno profondo. Mi ritrovo sulla spiaggia, seduto sulla sabbia, intento a riordinare delle reti da pescatore. Il sole è alto nel cielo e si riflette nel mare in una costellazione di riverberi dorati. Indosso un abito corto, allacciato su di

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una spalla sola, che mi lascia scoperti una parte del busto e l’altra spalla. Dietro di me, possente e maestoso, si erge il tempio del dio. La pesca è stata abbondante e, una volta sistemate le reti, ho intenzione di offrire al dio, in segno di ringraziamento, il pesce più grande. Mentre lavoro alle nasse, odo un canto, una melodia di voci femminili, in una lingua che mi è sconosciuta; alzo lo sguardo e mi accorgo che una processione avanza lungo la riva del mare in direzione del tempio. Il corteo si avvicina: sono tutte fanciulle abbigliate con un gonnellino di pelle di cerbiatto che lascia i seni nudi; i capelli delle giovani sono cinti da corone di edera e ciascuna di loro tiene, nella mano destra, un tirso. Le donne, sempre cantando in coro, mi passano accanto quasi sfiorandomi, noncuranti della mia presenza, e si dirigono verso il tempio; incuriosito, le seguo con lo sguardo. La processione si è fermata in prossimità dell’altare posto davanti al tempio. Là una giovane dai capelli ricci e neri che le scendono lungo la schiena le attende e, con gesti decisi, le invita a disporsi in due cerchi concentrici intorno all’altare. Mi alzo in piedi e vedo che sull’ara vi è un uomo esanime. Indossa degli abiti di foggia strana, perfettamente aderenti alla pelle e di un tessuto mai visto prima. A un cenno della sacerdotessa le fanciulle si prendono per mano e i due cerchi incominciano a girare vorticosamente, l’uno in senso opposto all’altro. Ora il canto non è più melodioso, è diventato ripetitivo e inquietante: evoe, evoe, evoe ripetono ossessivamente le donne, come invasate. I loro sguardi sono vitrei e le teste si alzano e abbassano ritmicamente. A un certo punto la sacerdotessa emette un grido altissimo, bestiale e terribile. La danza si interrompe, i cerchi si sciolgono e le donne si avventano come impazzite sull’uomo che giace immobile sull’altare, tirandolo da tutte le parti. Sembrano possedute da chissà quale demone e dotate di forza sovrumana, perché le carni dell’uomo iniziano a strapparsi finché il corpo viene fatto a pezzi. Osservo inorridito il macabro spettacolo, incapace di muovermi. Alcune di loro ora si baloccano con i resti di quel povero corpo, snudando, con le mani lorde di sangue, le ossa dalle carni. Altre invece si scarmigliano i capelli e, gridando, si rotolano per terra, agitando gli arti con movimenti spastici e innaturali. La sacerdotessa tiene per i capelli la testa mozzata dell’uomo e cerca di conficcarla nel tirso. Poi, una volta che vi è riuscita, si volge verso di me brandendo il macabro trofeo. Il viso dell’uomo, nonostante la testa sia stata spiccata dal busto, sarebbe intatto, se non fosse per la tempia sinistra che ha un largo squarcio dal quale sgorga copioso del sangue nero e grumoso. La sacerdotessa, con i lineamenti del viso contratti in

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una smorfia disumana, ora mi guarda fisso. Un indicibile terrore mi pervade quando emette un nuovo urlo, sguaiato e terribile quanto il primo, e mi addita. Tutte le donne si avventano immediatamente verso di me. Scappo, cercando di correre sulla sabbia bianca, ma per quanto mi sforzi non riesco a muovermi bene, sono lento e impacciato, e le miei inseguitrici sono ormai a un passo. La sacerdotessa è la prima a raggiungermi, avvinghiandosi con entrambe le braccia alla mia coscia. La presa, però, non è dolorosa. Provo una sensazione strana, come se qualcosa mi vibrasse sulla gamba a intervalli regoli e ritmati. Mi risveglio, finalmente, e mi guardo intorno preoccupato: ho sognato. Non c’è nessuna baccante, nessun altare con la vittima da immolare. Era solo un sogno. Resta però la vibrazione sulla coscia. Mi accorgo che si tratta del cellulare del turno, che prima di salire in moto avevo messo sul vibracall, in modo da potermi accorgere se c’era qualche chiamata. “Pronto, chi parla?” chiedo deciso. “Dotto’, sono il maresciallo Alcaro... qui ho fermato un giovane. In macchina aveva due spinelli. Lui dice che li teneva lì perché vive con i genitori e teme che, lasciandoli a casa, possano scoprirlo. Io però non gli credo, secondo me è uno spacciatore. Che faccio, lo arresto?” “Direi proprio di no. Ha dei precedenti per droga?” “No, Dotto’, è incensurato. Ma gliel’ho già detto, gli spinelli non erano uno, ma ben due” insiste Alcaro. “Ho capito perfettamente” replico indispettito “ma non vi sono elementi per dire che il giovane sia uno spacciatore. Due spinelli significano detenzione di droga per uso personale. E l’uso personale, le piaccia o no, non è reato”. “Mah, Dotto’, se lo dite voi…” risponde perplesso il maresciallo “certo che lasciare andare via così uno spacciatore… e se, e se io lo arrestassi lo stesso?” “Faccia come vuole, ma appena me lo mette a disposizione io lo libero e poi parlo con il suo comandante” lo avverto minaccioso. “E va bene, come volete voi. Ma permettetemi, state facendo un errore” si arrende querulo il militare. “Buongiorno, maresciallo” taglio corto. “Buonasera, buonasera”. Almeno su questo, Alcaro ha ragione. Il sole sta quasi per tramontare nascosto dalle montagne e mi conviene affrettarmi, se non voglio viaggiare con il buio. Eppure, seduto sulle rovine del tempio, esito. Ripenso all’incredibile sogno di poco prima. Un sogno fatto all’interno

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di un tempio dovrebbe contenere un messaggio da parte del padrone di casa. Ma cosa può dirmi questo dio ormai inutile, questo dio senza più fedeli? Mi sforzo di ricordare il sogno, ma il ricordo è già sfumato. L’uomo sull’altare era già morto quando sono arrivate le baccanti o è stato smembrato vivo? E come era la sacerdotessa? Mi ricordo solo che era bella, ma non il suo aspetto. Alla fine decido di ritornare a casa, ma prima di andarmene mi dirigo verso il mare per dare un’occhiata alla piccola spiaggia che si trova più in basso. Mano a mano che mi avvicino alla riva l’incessante, eppur vario sciabordio delle onde si fa più forte. La sabbia è punteggiata da rifiuti, ramoscelli, alghe e altri piccoli relitti gettati dal mare. Altri rifiuti sono portati sulla spiaggia da un rivo nel cui letto si trovano, interrati, alcuni vecchi copertoni di auto. Sto per allontanarmi quando mi accorgo che sulla spiaggia, a una cinquantina di metri di metri di distanza, c’è una donna che, immobile di fronte al mare, guarda l’orizzonte. Posso vedere la donna solo di spalle. Indossa il pezzo superiore di un bikini e un pareo che copre solo in parte le gambe. Sul capo ha un cappello di paglia con larghe tese che, a causa della brezza marina, tiene fermo con una mano. Sembra bella, almeno da lontano. Ora non guarda più il mare, si volta, prima a destra e poi a sinistra, guarda l’orologio e poi, sempre tenendo una mano sul cappello, ritorna a guardare davanti a sé. Preferisco continuare a vedere senza essere visto, così mi appiatto facendomi scudo dei resti delle antiche mura. La donna aspetta chiaramente qualcuno e vorrei capire di chi si tratta; si diventa ficcanaso a fare il pubblico ministero. La sconosciuta intanto si è seduta sulla sabbia e getta più volte qualcosa nell’acqua, forse dei piccoli sassi. Bene, pare non avermi visto. Improvvisamente dal mio nascondiglio noto un giovane dal fisico prestante che cammina spedito lungo la riva e si dirige verso la donna. Ora anche la sconosciuta l’ha visto, ma non gli si fa incontro. Con gesti stanchi, pesanti si alza in piedi, ma rimane ferma, girata verso il giovane, ad aspettarlo. Quando questi finalmente la raggiunge i due si limitano a guardarsi senza dire nulla, o almeno così mi pare. Si prendono per mano e incominciano a camminare lungo la riva, in direzione delle mura. Non parlano, hanno entrambi lo sguardo basso, sulla sabbia. Adesso riesco a distinguerli meglio: i tratti della donna mi sembrano familiari, mi ricordano un volto già visto ma non riesco a capire esattamente chi. I due proseguono ancora per un breve tratto e poi si fermano, ora si trovano l’uno di fronte all’altra. L’uomo, con delicatezza, toglie gli occhiali da sole e il cappello alla sua compagna. Una cascata di riccioli neri, finalmente

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liberati dalla loro prigione, scende lungo le spalle e la schiena della giovane. Acquattato alle spalle del muretto riconosco quei capelli corvini. La sorpresa è tale che sento una fitta al cuore così forte che devo sedermi, incredulo, in mezzo all’erba. La misteriosa e affascinante sconosciuta, che adesso mi pare somigliare sinistramente alla terribile sacerdotessa delle baccanti, è Pentesilea.

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VI Ci metto un po’ per riprendermi dalla sorpresa e dallo stupore. Mi chiedo per quale motivo Pentesilea sia venuta proprio lì e chi sia il ganzo che la accompagna. Abituato come sono ad avere a che fare con la feccia, penso subito male. Pentesilea e il suo ganzo hanno inscenato un suicidio, ma in realtà Francesco lo hanno ammazzato loro. Tutto molto scontato e ovvio, no? Voglio vederli meglio. Per farlo mi sporgo al di fuori di ciò che resta delle mura, anche se così rischio di farmi scoprire. I due giovani, però, sembrano non essersi accorti di nulla. Sono ancora l’uno di fronte all’altra, anche se più distanti. Non distinguo le parole perché la brezza marina le disgrega in suoni privi di senso, ma dai loro gesti si capisce che stanno litigando. O comunque discutono animatamente. Lei, soprattutto, muove incessantemente le mani e le braccia con gesti secchi e nervosi. L’uomo, ritto innanzi alla sua compagna, cerca, per quel che capisco, di tranquillizzarla. Adesso lui si è fatto più deciso e le ha preso le mani che erano rimaste, per un istante, sospese in aria. Poi le guida con dolcezza lungo i suoi fianchi, l’abbraccia e la bacia. Trasalgo come un liceale che scopre che la ragazza che ama è già fidanzata. Ma non sono più un liceale e così, mentre li guardo, faccio anche qualche rapido ragionamento. Punto primo: Pentesilea ha un amante. Punto secondo: il marito è morto da poche ore e non si può dire che la vedova si stracci le vesti per il dolore. Mi fa quasi pensare che questa mattina abbia recitato. Punto terzo: provo un assurdo miscuglio di gelosia e invidia nel vederli. Lo ammetto, vorrei esserci io al posto del ganzo. Dopo un poco, però, Pentesilea allontana l’amante. Vuole riprendere la discussione. Lo capisco dagli ampi gesti disegnati dalle sue mani. Cerca addirittura di andarsene dalla spiaggia, ma il giovane la rincorre e, una volta raggiunta, la abbraccia da tergo, cingendole le spalle e il petto. Lei si volta e si baciano ancora. Direi con maggiore trasporto di prima. Ho come un brivido che mi corre lungo tutto il corpo, ma che si ferma poi nello stomaco. Per riprendermi mi alzo quasi in piedi e poi mi abbasso

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nuovamente. È un attimo. Giurerei che i due non mi abbiano visto, però subito dopo smettono di baciarsi e si incamminano svelti verso la statale, per fortuna in direzione opposta a dove mi trovo. La coppia percorre non più di un centinaio di passi, poi vedo che si fermano e, con un gesto di saluto rapido e quasi furtivo, si separano. L’uomo prosegue lungo la riva mentre Pentesilea svolta verso sinistra. Da lì deve essere possibile raggiungere la statale. In un attimo escono dal mio campo visivo che, adesso che sono accucciato, è più limitato, ma non oso, per paura che mi scorgano, alzarmi in piedi per vedere meglio. Dopo un po’ decido di lasciare il mio nascondiglio e di raggiungere la moto. Il sole è già tramontato e incomincia a diventare scuro. Raggiungo la moto e riparto. Guido molto tranquillo, però. Non solo per la luce che incomincia a venire meno, ma soprattutto perché non riesco a concentrarmi sulla guida. Penso a quello che ho visto. Da quanto tempo va avanti tra i due? Magari questa scoperta può segnare una svolta nell’indagine. Già vedo Pentesilea e amante che, dopo aver ucciso il povero Rotundo, inscenano il suicidio. A questo punto per trovare il movente non occorre nemmeno fare troppa fatica. La moto scarta un poco, colpa dell’asfalto rovinato, ma anche del fatto che ho la testa da un’altra parte. Cerco di stare più attento. Per di più il traffico è aumentato e le luci dei veicoli che procedono in direzione opposta si riflettono fastidiosamente sulla visiera del casco, abbagliandomi. Una volta giunto in città mi metto alla ricerca di un posto dove poter mangiare rapidamente qualcosa. Non ho voglia di cucinare. Passo sul corso e vedo che il “Caffè del Centro” è già chiuso. Non mi resta che andare dal Professore. Imbocco con decisione la traversa alla fine del corso e, dopo neanche un centinaio di metri, vedo l’insegna: “DAL PROFESSORE. PIZZA A PORTAR VIA”. La scritta, in realtà, è al contrario, da destra verso sinistra. Prima di venire qua non avevo mai visto insegne con scritte sinistrorse. Il motivo me lo ha spiegato Peppino: con la scritta al contrario l’imposta sull’insegna è più bassa. Devo dire che la pizza del Professore è senza discussione la più buona della città. Alta, morbida, piuttosto cruda, proprio come piace a me. Francamente, non saprei dire se il titolare è effettivamente un professore. Sta di fatto che chiunque entri nel negozio lo chiama, e con rispetto autentico, “Professore”, e non vedo ragione per non adeguarmi. Quando entro nella pizzeria il Professore sta quasi per chiudere. Saranno passate da poco le nove e mezza, ma il locale non ha un orario

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fisso. A volte sta aperto fino a dopo le undici di sera, altre volte alle otto la saracinesca è già abbassata. Chiedo se c’è ancora un po’ di pizza. Il Professore, serissimo, mi risponde di sì, anche se è rimasta solamente quella meno piccante, a suo giudizio quella meno buona. Per me, invece, va bene così. Poco piccante per lui vuol dire molto piccante per me. Il Professore mi parla stando seduto, sbracato, sull’unico sgabello del locale. Indossa come al solito un camice bianco sul quale le macchie di pomodoro si sono ormai stratificate. Sotto il camice si intravedono un paio di pantaloni corti, mocassini di pelle intrecciata e calzini bianchi alla caviglia. Potrà avere una sessantina d’anni ed è piccolo e magro. Il naso, camuso, sostiene degli occhiali con delle lenti spesse e grandi, lenti da miope. Che siano loro la ragione del soprannome? Non è la prima volta che prendo la pizza dal Professore, ma la nostra conversazione non è mai andata oltre lo stretto necessario per acquistare, dal mio punto di vista, e per vendere dal suo, la pizza. Questa volta però, inaspettatamente, mi chiede: “Ma voi di dove siete, di Milano?” Rispondo quasi con deferenza: “No Professore, non sono lombardo”. Lui mi scruta pensoso, ma non mi chiede ulteriori informazioni. Io, intanto che aspetto la pizza, ne approfitto per osservare le foto appese ai muri del locale. Sono vecchie istantanee della città agli inizi del novecento. Dalle foto si capisce come il centro storico, allora, fosse più bello e caratteristico, con il corso principale alberato e attraversato dal tram. Su di un’altra immagine vi sono delle contadine di allora, nel loro tipico abito bianco e nero. Poi, visto che lui ha rotto il ghiaccio, mi decido a togliermi la curiosità: “Scusi, ma lei è davvero professore?” Prima mi squadra severo, e poi, inaspettatamente, mi rivela il suo segreto: “Certo che sono professore. Lavoravo all’università di Firenze come assistente di letteratura latina, ma poi mi innamorai di una ragazza inglese venuta a studiare in Italia e la seguii a Londra. Per lei abbandonai tutto, una promettente carriera, gli amici, la mia famiglia. Ci sposammo, poi, dopo un paio di anni meravigliosi, si stancò di me e mi lasciò. Tornai in Italia deluso e amareggiato. Non avevo più voglia di riprendere, di tornare a frequentare l’ambiente universitario, così mi rifugiai nella mia città natale. Per un po’ vegetai, poi, con gli ultimi soldi rimasti, mi aprii questa piccola attività che mi consente di

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campare. Certo non è come una cattedra all’università, ma ormai va bene così. Voi, però, che siete ancora giovane, non fidatevi dell’amore e delle sue promesse. Sono scritte sulla sabbia: Iuppiter ex alto periuria ridet amantum”. Annuisco convinto. Mi sa che questo qui era veramente uno studioso di latino. Potrebbe essere un tipo interessante. Devo venire più spesso a mangiare da lui. Mi chiedo se abbia in serbo altre sorprese. La pizza intanto è pronta e il Professore, dopo averla incartata, me la consegna con la stessa cura con la quale maneggerebbe un ordigno, mentre gli mostro la birra che ho appena preso dal frigo. “Cosa devo?” “Cinque euro di tutto” risponde il latinista. Gli porgo la banconota. Lui la prende in mano e poi la guarda come se fosse una reliquia sacra. Poi, sempre con gli occhi fissi sulla banconota, la tiene tesa tra le mani, la avvicina al viso e la bacia con trasporto. “Bisogna sempre essere grati per il pane quotidiano” si giustifica il Professore mentre io lo guardo allibito. Poi chiedo: “Ma grati a chi?” Mi guarda serrando gli occhi, poi decreta: “Ai nostri genitori, il Caso e la Pena”. Tipo interessante questo Professore, devo venire più spesso a mangiare la pizza qui. “Buonasera Professore” lo saluto uscendo dal locale. In passato l’ho chiamato così più per celia che per convinzione, ma ‘stavolta, invece, ci metto il massimo rispetto. Ed è come se lo avesse capito. Infatti non mi risponde, si limita a fare un cenno con il capo e, mentre tiene lo sguardo fisso sulla banconota, sentenzia amaro: “Dat census honores: curia pauperibus clausa est”. Il buono di questa città è che tutto è vicino. Così, dopo cinque minuti, ho già messo la moto in garage e sono a casa. La sera qui non fa troppo caldo, c’è sempre un piacevole venticello che viene dal mare. Non è come in pianura. Mi levo l’abbigliamento da moto e mi sbraco sul divano. Sul tavolino che mi sta davanti ho messo la pizza del latinista e la birra. Accendo lo stereo usando il telecomando. Non ho voglia di alzarmi per scegliere il CD. Ascolterò quello che è già inserito. Non mi è andata male. Il suono chiaro e solenne degli archi della Passione secondo San Matteo di Bach avvolge la casa di mistico mistero. Dopo un poco alla musica si aggiunge il coro: le voci si armonizzano perfettamente con la musica, non dominano, né sono dominate. Le voci maschili, più gravi, e quelle femminili, più alte, si

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alternano e si mischiano tra loro in un insieme perfetto e magico. Anzi, le parole del coro, a volte, cessano di essere suoni intellegibili e diventano musica anch’esse, si sublimano in pura armonia sonora:

Seht! Wohin? Auf unsere Schuld. Sehet ihn aus Lieb und Huld Holz zum Kreuze selberger tragen

A volte trovo schizofrenica questa mia passione. È però un fatto innegabile che il misticismo e la tensione verso l’eterno della musica sacra mi attraggano irresistibilmente. E pensare che dovrei aborrirla, dovrei considerarla il prodotto malato della più grande follia dell’uomo. Mi capita spesso di cambiare opinione. La cosa si verifica con una frequenza tale da sorprendere anche me. Mi chiedo se anche su questo punto cambierò idea. Voglio dire, se la considererò sempre una follia. Insomma, adesso sono nel pieno della vigoria fisica, in quello che dovrebbe essere il periodo migliore della mia vita, è facile non avere bisogno di un dio. Ma più avanti, nel crepuscolo della mia esistenza, quando il fiume sarà vicino alla foce, cambierò idea? Forse, con la morte che bussa alla mia porta, sarà facile cedere a un dio, piegare il capo, accettare il giudice e sperare nella sua clemenza. Un mio amico, più ateo di Marx, come ama definirsi lui stesso, mi ha raccontato di come, sorpreso in montagna da un violentissimo temporale, avesse ceduto alla paura e, tra le lacrime, avesse iniziato a pregare in mezzo al fragore dei tuoni, accovacciato al riparo di una roccia, implorando Dio per aver salva la vita. “Ma allora hai ritrovato la fede?” gli avevo chiesto. “No, che c’entra, resto della mia idea, resto ateo. Ho solo ceduto per un attimo alla paura poi, una volta che mi sono riavuto, ho ripreso a ragionare come sempre. È stato un po’ come tradire la propria moglie per poi tornare da lei più innamorato di prima”. Il coro intanto continua a cantare con voci potenti e soffuse al tempo stesso:

O Mensch bewein dein sunde groB Darum Christus seins Vaters ScoB AuBertmund kam auf Erden; Von einer Jungfrau rein und zart Fur uns er hie geboren ward Er wolt der Mittler werden

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Colpa? Peccato? Salvezza? Ma qual è la colpa dell’uomo? Il suo peccato non è hybris, non è aver sfidato dio. La sua vera colpa è il non saper accettare i suoi limiti. La sua arroganza è il non voler accettare che tutto cambia e si corrompe, che non c’è niente di eterno. La sua follia è la pretesa di avere una giustizia empirea che pareggia i conti e ripara i torti subiti. Ma è proprio così insopportabile accettare che adesso siamo e che, prima o poi, non saremo più, che l’eternità non fa per noi, che non siamo niente di più che materia prodotta dall’ultimo respiro di stelle in agonia? Ridicola pretesa quella umana di essere un’eccezione nell’universo, di avere un’anima immortale. Se persino le stelle muoiono, perché noi non dovremmo fare altrettanto? Di tutte le inutili prediche domenicali che ho ascoltato da bambino solo una mi è rimasta dentro, tanto che ancora la ricordo. L’omelia suonava più o meno così: “Vive nel peccato, non è un buon cristiano, chi ama sopra ogni cosa la propria famiglia. L’amore più grande, l’amore totale deve essere riservato a Dio e a Lui solo”. Forse è proprio per questo che la musica sacra mi affascina. Percepisco che si tratta di un monumentale, stupendo atto d’amore. L’uomo, questo misero mucchietto d’atomi erranti, è stato capace, in virtù di un atto di amore, di produrre suoni unici. È per questo che la musica sacra è diversa dalla musica classica, non è solo arte. In fondo è come una lettera d’amore scritta a un amante che non esiste. Non per questo risulta meno bella, non per questo ciò che prova chi la scrive è meno autentico. Tolto dio resta pur sempre l’uomo. Non è poco. La stanchezza della giornata inizia ad avere il sopravvento e, mentre disteso sul divano mi si chiudono gli occhi, riesco appena a percepire le ultime, sommesse, parole del coro:

Wir setzen uns mit Tranen nieder Und rufen dir im Grabe zu: Ruhe sanfte, sanfte ruh! Ruht, ihr ausgesognen Glieder! Ruhet sanfte, ruhet wohl! Euer Grab und Leichnstein Soll dem angstlichen Gewissen Ein bequemes Ruhekissen

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Und der Seelen Ruhstatt sein. Ruhet sanfre, sanfte ruht! Hochst vergnugt Schlummern da die Augen ein.

Faccio in tempo a pensare che un dio è appena morto e, in silenzio, mestamente, viene calato nella solitudine del sepolcro. Poi crollo.

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VII Il mattino seguente mi alzo abbastanza presto. Oggi dovrebbero comunicarmi i risultati degli stub effettuati sugli indumenti e sulle mani di Rotundo e di Pentesilea. Vorrei arrivare presto in ufficio, ma prima devo compiere un percorso reso accidentato dalla mia lentezza e dagli ostacoli che devono essere superati ogni mattina: intestini e vescica da svuotare, doccia, barba, colazione, scelta dei vestiti. Questa mattina, poi, tutto mi sembra più difficile, forse è la smania che ho di arrivare presto che, assurdamente, mi blocca. Sin dal risveglio, infatti, un pensiero, insistente e fastidioso come un tafano, mi gira per la testa. Ma che ci faceva la pistola sotto il letto? Anche a voler pensare a una messa in scena, non è certo il miglior posto per mettere l’arma. Niente da fare, ho bisogno fisico dell’ufficio, delle sue carte, e di parlare con quelli del Racis. Quando riesco finalmente a entrare nel mio ufficio è passata più di un’ora e mezza da quando mi sono svegliato. La signora Fittante deve essere già entrata, perché trovo due colonne di fogli impilati sopra la scrivania. È la cosiddetta posta, vale a dire l’ammasso disordinato di fogli, lettere, seguiti, istanze, denunce, querele, lamentele che, quotidianamente, viene messa sul mio tavolo. E va detto che arriva veramente di tutto, dai reati gravi all’insulto durante la lite condominiale. Immancabili poi le querele per minaccia. Da queste parti quella che va per la maggiore è “Ti taglio la testa”. Non l’avevo mai sentita dire prima. Intendo dire come minaccia. “Ti spacco la faccia”, “Ti ammazzo”, “Ti rompo i denti” queste sì, ma mai ti taglio la testa, deve essere proprio uno specifico del mezzogiorno. Forse si tratta di un retaggio della dominazione araba, quando da queste parti le decapitazioni dovevano essere cosa di tutti i giorni. Bussano alla porta. Mi chiedo chi possa essere. Di certo non la Fitttante, non è la sua bussata. E allora chi? In genere la Fittante fa da filtro e mi annuncia chi vuole parlare con me. Ma stamattina deve essere in giro per i corridoi. Provo allora a non dire nulla. Magari lo

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scocciatore desiste. Ma dopo pochi attimi ecco una nuova bussata, più perentoria della prima. “Avanti” sospiro rassegnato. Non appena la porta si apre, la stanza viene inondata dalla luce del sole mattutino. La finestra, posta nel corridoio, crea uno effetto di riverbero che mi impedisce di capire chi sia l’ignoto visitatore. “Buongiorno dottore, posso?” chiede lo scocciatore, facendo finalmente un passo avanti e portandosi fuori dal cono di luce. Lo riconosco: è il luogotenente Paparo, un omone alto e robusto. In realtà è proprio la persona che stavo aspettando. È già un po’ che ci conosciamo, eppure non posso dire di averlo mai guardato negli occhi, perché sono perennemente occultati, con qualsiasi tempo, da un paio di occhiali da sole a goccia. Capelli lunghi raccolti in un codino, due orecchini, uno per lobo, viso da duro: più che uno sbirro sembra un buttafuori. Attenzione però, non è uno stupido, non è Alcaro. “Prego, prego” rispondo cordiale e lo invito ad accomodarsi su una delle due sedie che stanno di fronte alla scrivania. Nel mentre io mi alzo e mi appoggio al muro. Non parlo, ma Paparo ha capito che voglio sapere qualcosa sugli stub e va subito al punto: “Dottore, qua il caso si fa ingarbugliato: gli stub di Rotundo e della moglie sono risultati negativi. Capisce, anche quelli di Rotundo. E c’è dell’altro: ricordate quello straccio zuppo di sangue che si trovava ai piedi del letto?” Annuisco platealmente. “Ho eseguito lo stub anche sullo straccio: è risultato pieno di particelle di polvere da sparo. Secondo me chi ha sparato ha avvolto la mano con quello straccio e poi, solo poi, ha premuto il grilletto. Non capisco perché l’assassino abbia agito in questo modo. Se non voleva lasciare impronte, poteva usare dei guanti. Forse non voleva fare troppo rumore quando ha sparato, anche se è strano, perché la villa è piuttosto isolata e...” “Assassino, ha detto assassino?” lo interrompo “Quindi lei è convinto che non si tratti di suicidio?” “Francamente, sono quasi certo che Francesco Rotundo sia stato ucciso” risponde sicuro Paparo “avete mai visto un suicida mettersi uno straccio sulla mano e poi spararsi? Che senso avrebbe? E poi conoscevo un po’ Francesco Rotundo e non mi sembrava avesse qualche problema particolare. Anzi, la vita gli sorrideva: era giovane, ricco, sposato con una donna bellissima che lui, letteralmente, adorava. Per ammazzarsi ci vuole un motivo, una ragione particolare e Francesco Rotundo non mi pare che ne avesse nemmeno una”.

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Mi verrebbe da dirgli che una moglie infedele può essere un buon motivo, ma sto zitto, me lo tengo per me. “E poi un’altra cosa” continua Paparo “la pistola. Non vorrei che l’assassino avesse messo apposta l’arma sotto il letto per rendere più credibile la messa in scena...” Di nuovo lo interrompo: “Ma come... a me sembra, invece, che proprio la posizione dell’arma renda inverosimile il suicidio!” “Solo apparentemente” riprende Paparo “vedete, dalla pistola parte una sottile scia di sangue che arriva in prossimità della macchia di sangue più grande sul pavimento, a lato del letto. Secondo me l’assassino vuole farci credere che la pistola sia finita a terra dopo lo sparo e che qualcuno, magari accidentalmente, abbia poi spostato la pistola spingendola sotto il letto”. “Ma che senso avrebbe tutta questa messa in scena? Perché, dopo aver sparato, questo ipotetico omicida non ha messo la pistola per terra, a lato del letto?” I lineamenti del viso dell’ufficiale si contraggono in una smorfia dura, quasi cattiva: “Perché, secondo me, l’assassino, dopo aver sparato, non sapeva bene dove mettere la pistola: voglio dire, aveva paura di metterla in un posto in cui non doveva stare; l’assassino temeva che una perizia sul rinculo della pistola a seguito dello sparo avrebbe escluso che l’arma, se impugnata effettivamente dal suicida, avrebbe potuto finire lì dove aveva intenzione di metterla. E così l’assassino si è inventato uno spostamento accidentale della pistola che non consente di avere certezze sulla sua posizione originaria”. “E avrebbe qualche idea sul nome di questo assassino, o devo dire assassina?” Paparo non dice nulla, solo mi guarda come farebbe una sfinge. “Ovviamente, sulla pistola non vi sono impronte”. “Nessuna” risponde secco. “Senta luogotenente, lei mi ha detto che conosceva un po’ Rotundo; avrà avuto modo di conoscere anche la moglie. Che tipo di persona è?” Non mi sorprendo nel vedere Paparo irrigidirsi. Rimane un attimo in silenzio, come per soppesare quello che sta per dire, e poi finalmente risponde: “Sì, la conosco: e vi dico di fare attenzione, perché è una persona furba, calcolatrice, e che sa usare bene le sue armi. E la bellezza è solamente una delle tante…”

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“Certo che è proprio splendida…” chioso, anche se subito dopo mi pento, forse è meglio non lasciarsi andare a confidenze. Paparo mi sembra molto coinvolto in questa indagine, emotivamente coinvolto. “Ma mi scusi, lei è un amico di famiglia?” chiedo. “No, ma con Francesco giocavamo insieme a pallone e a volte, dopo la partita, si andava tutti insieme a mangiare. Lei invece la conosco meno bene, ma da più tempo, perché frequentavamo lo stesso liceo. Era la più bella della scuola e molti ragazzi perdevano la testa per lei. Cosa volete, la città è piccola, non c’è mai niente da fare, e poi quando si è ragazzi non si pensa ad altro. Molti la chiamavano Afrodite Nera per il colore dei capelli, ma io preferivo chiamarla Mantide per il suo modo di giocare con chi aveva la sfortuna di innamorarsi di lei. Poi, quando ho lasciato la città e sono andato alla scuola sottufficiali, l’ho persa di vista. L’ho rivista dopo una decina di anni, quando sono ritornato qui. Era già sposata con Francesco, e ogni tanto veniva alle cene che si facevano dopo il calcio con mogli e fidanzate, ma raramente devo dire. Il matrimonio non l’aveva cambiata: era sempre provocante, ma allo stesso tempo gelida, quasi crudele. Dottore, perdonate se insisto, ma è una donna pericolosa, alla quale non è facile resistere”. Mai visto Paparo così premuroso. E nemmeno così agitato. È da un po’ che la cosa mi frulla per la testa. Sono indeciso se buttargliela lì oppure no, ma poi alla fine lo faccio. Del resto una domanda su un possibile amante ci sta tutta: “Ma… che lei sappia, la Procopio ha, oppure ha avuto in passato, una relazione extraconiugale?” “Non saprei. Come vi ho detto, io la vedevo ogni tanto alle cene dopo le partite. Al di fuori di quelle occasioni, non ci frequentavamo. Ma quella donna è furba. Le sue cose se le sa gestire molto bene. Se qualcosa ha fatto, o sta facendo, è con qualcuno di fuori. Francesco e Michela erano una coppia troppo conosciuta, e il padre di lui troppo potente. Nessuno in città avrebbe osato tanto”. Pensavo che si fosse calmato, invece Paparo è ancora nervoso. È strano per un tipo freddo come lui. Evidentemente parlare di Pentesilea lo turba. Chissà, forse qualcosa gli brucia dentro, qualcosa di antico. Magari quando erano ragazzi lei lo ha respinto. Non penso gli sia accaduto molte altre volte, Paparo sembra uno abituato ad avere successo con le donne. “E del marito, di Francesco, cosa può dirmi? Che tipo era?” chiedo. “Per quel poco che lo conoscevo, sembrava una brava persona. Fin troppo buono forse: a calcio, per esempio, non ci metteva mai la dovuta cattiveria. Mi diceva sempre che, piuttosto di fare fallo, preferiva

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perdere la palla. Spesso, poi, si lamentava del suo lavoro che lo portava lontano dalla moglie. Comunque, non è che parlasse molto. Mi ha sempre fatto l’impressione di un tipo solitario e introverso, tutto moglie e lavoro”. Solamente adesso Paparo è tornato quello di sempre: un investigatore preciso ed efficiente. Forse mi sbaglio, ma se è successo qualcosa tra lui e Pentesilea, quel qualcosa lo ha marchiato per sempre. Magari la ferita si è rimarginata con il tempo, ma ogni tanto, come una vecchia frattura, fa ancora male. Lo vedo da come trasale quando parla di Pentesilea. “Va bene luogotenente, c’è qualcos’altro di importante che lei ha avuto modo di notare durante il sopralluogo?” chiedo, cambiando volutamente argomento. “No, non mi pare. La pallottola si è conficcata nel materasso. Dai primi rilievi pare che non ci siano dubbi sul fatto che sia stata sparata dalla pistola di Rotundo. La stanza è piena di impronte digitali, ma non ne sono state rilevate di diverse da quelle dei due coniugi. Sul letto, come senz’altro avrete visto, c’era anche un telefono cellulare. Credo sia il caso di acquisire i tabulati delle telefonate partite e ricevute dal cellulare quella sera nonché, ovviamente, delle telefonate sull’utenza fissa di casa Rotundo”. “Mi sembra una buona idea” approvo “oggi stesso farò il provvedimento e, luogotenente, mi lasci pure la sua relazione. Adesso vediamo cosa succede con questi tabulati, chissà che non venga fuori qualche utenza interessante; e, a proposito di telefonate, avete attaccato le utenze?” “Il Gip ha convalidato il suo decreto. Stiamo ascoltando, ma per il momento niente di interessante” risponde asciutto mentre mi consegna la relazione. Credo che per oggi possa bastare. Saluto il luogotenente e mi siedo sulla scrivania, intenzionato a far fuori un po’ di posta. Paparo raccoglie le sue carte e sia avvia alla porta, ma prima di uscire si volta verso di me e mi chiede: “Che dite dottore? Pensate sia stata lei?” Per l’effetto del gioco di ombre e luci dato dal sole, non riesco di nuovo a distinguere i lineamenti del suo viso, ma dal tono della domanda li posso comunque immaginare. Rabbia? Forse, ma non solo. È mischiata con qualcosa d’altro. Direi malinconia. Non ho mai sentito prima qualcosa del genere uscire fuori dalle labbra di Paparo. Francamente non so cosa rispondergli. Ancora non mi sono fatto un’idea. E poi in

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questa storia è meglio essere prudenti. È per questo che mi limito a dire: “Chi lo sa? Può darsi, oppure magari si è veramente ammazzato. È un po’ presto per tirare delle conclusioni, non trova?” Paparo non replica mentre esce dall’ufficio, forse è deluso. Sperava fossi più deciso. Devo però ammettere che le sue considerazioni non sono campate in aria. Un suicida può forse preoccuparsi di non far rumore e di non lasciare impronte sull’arma con la quale ha deciso di uccidersi? Il suicidio è un gesto ultimo, definitivo, che importa se si fa un po’ di rumore? Quando si è ormai saltato il fosso e si è deciso di gettarsi nelle braccia della morte, cosa altro può avere senso? Morte e nulla. Sono due parole sulle quali molto è stato detto, forse ancora di più è stato scritto. Qualcuno, nonostante fosse moribondo, addirittura ha avuto la lucidità di osservare che in realtà la morte è nulla per l’uomo, perché se noi esistiamo allora non c’è la morte e viceversa. Ineccepibile dal punto di vista logico, ma in pratica è difficile non considerare la morte come qualcosa che non ci riguarda, visto che con lei tutti, prima o poi, siamo chiamati a confrontarci. La morte e il nulla fanno parte del nobile ed esclusivo circolo delle leggi che governano la natura, sono il destino che attende la materia, gli atomi, tutto l’universo. Tutto, non solo le stelle, ma anche gli stessi atomi, i quark e tutti i mattoni di cui si compone la materia, ha un tempo: quindi anche la materia è destinata un giorno a morire, disgregandosi. Queste sono le regole del gioco e bisogna accettarle. Ma sono regole chiare, per questo non mi fanno paura. Ciò che è arbitrario e incomprensibile, invece, mi spaventa: è per questo che trovo inquietante il dio di Daniela con i suoi fini insondabili, la sua incomprensibile provvidenza, la sua invisibile bontà. Da quando il dio di Daniela spadroneggia, la morte ha assunto il sapore di una resa dei conti impari tra dio e l’uomo. E il giudizio finale ha il sapore di un processo senza regole e senza codici in cui il dio di Daniela si trova a giocare tutti i ruoli: legislatore, giudice, pubblico ministero, avvocato, giuria. Come si fa a non sentirsi a disagio? Il telefono suona e mi riporta dalle cose ultime alle emergenze quotidiane. Valuto se rispondere: il numero sul display non mi è familiare, ma se mi cercano sul telefono dell’ufficio deve essere qualcosa che ha a che fare con il lavoro. Meccanicamente sollevo la cornetta del ricevitore. Ho riconosciuto subito la voce biascicata che mi investe. Maledizione, a saperlo non avrei risposto, ma ormai è troppo tardi per tirarmi

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indietro. A parziale risarcimento mi concedo il lusso di fare una smorfia di disgusto. Tanto sono solo, è uno dei vantaggi che si hanno quando non si condivide la stanza con nessuno. Mi compiaccio così tanto a questo pensiero che mi permetto anche un gestaccio da stadio. Dall’altro capo del telefono c’è la voce sgradevole del maresciallo Giarretta, uno scherano della segreteria del procuratore Romano, che mi annuncia che Sua Maestà vuole parlare con me. Mi preparo, ma non mi aspetto nulla di buono. Del resto, come potrebbe essere diversamente? Romano chiama solo quando c’è qualche casino di mezzo. E non ci sono dubbi su quale sia il casino. FINE ANTEPRIMACONTINUA...