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Nessuno può incontrare l’America (Latina) se prima non sputa quel nodo di sangue fermo in gola. Questo è il senso di un verso di Manuel Scorza, poeta e scrittore peruviano. Questa è la sen- sazione che si ha entrando nella storia e nella terra del Guatemala. Centroamerica. In mezzo tra due continenti, Paesi piccoli e stretti da due oceani. Terra di uragani e di vulcani. Guatemala, un ventaglio infinito di colori. Montagne e vulcani. Vulcani e laghi. E i mercati, le chiese coloniali, la natura di un verde fitto. La maggioranza della popolazione è indigena, discendenti dei nativi che videro il genocidio della Conquista. Una data che da queste parti si celebra in forma di lutto. Un nodo in gola, il primo forse di questa storia. La storia Anni 60. Come molti altri Paesi in quell’epoca, il Guatemala è stretto anche dalla guerra fredda tropicale che ha visto contrapporsi la dottrina anticomunista filostatunitense alle rivendicazioni di guerriglie popolari e contadine. Lo zio Sam dal Nord allerta le giovani e imprudenti democra- zie del Sud sulla minaccia di un ideologia che se trapiantata su quelle terre, e può succedere, come un virus può contagiare i valori liberali ed intralciare il saccheggio in corso della dispensa latinoamericana. E per il bene di pochi questo non si può permettere. Un presidente democrati- camente eletto, Jacobo Arbenz, moderatamente riformista, ma tanto, troppo vicino a punti nevralgici quali la riforma agraria, altro nodo che, dalla Conquista ad oggi, è fermo nelle gole dei contadini, viene violentemente messo alla porta. Non in linea col modello dominante, quindi comunista. Quindi una minaccia. I marines intervengono e l’ordine è ristabilito. L’epoca buia Da quel momento si fa risalire l’inizio dell’epoca più buia che dal genocidio del XVI secolo il Gua- temala abbia mai vissuto. Niente è più importante che il mantenimento dello status quo, ora che gli affari vanno bene, che UN NODO DI SANGUE Il recupero della memoria storica in Guatemala www.gabrieledimascolo.com gabriele di mascolo | photographer 1

UN NODO DI SANGUE - gabrieledimascolo.com · Le strade che lasciano defluire milioni e milioni di dollari ... Allora si passa alla lezione Tierra arrasada, tabula rasa, che è quello

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Nessuno può incontrare l’America (Latina) se prima non sputa quel nodo di sangue fermo in gola. Questo è il senso di un verso di Manuel Scorza, poeta e scrittore peruviano. Questa è la sen-sazione che si ha entrando nella storia e nella terra del Guatemala. Centroamerica. In mezzo tra due continenti, Paesi piccoli e stretti da due oceani. Terra di uragani e di vulcani. Guatemala, un ventaglio infinito di colori. Montagne e vulcani. Vulcani e laghi. E i mercati, le chiese coloniali, la natura di un verde fitto.La maggioranza della popolazione è indigena, discendenti dei nativi che videro il genocidio della Conquista. Una data che da queste parti si celebra in forma di lutto. Un nodo in gola, il primo forse di questa storia.

La storia

Anni 60. Come molti altri Paesi in quell’epoca, il Guatemala è stretto anche dalla guerra fredda tropicale che ha visto contrapporsi la dottrina anticomunista filostatunitense alle rivendicazioni di guerriglie popolari e contadine. Lo zio Sam dal Nord allerta le giovani e imprudenti democra-zie del Sud sulla minaccia di un ideologia che se trapiantata su quelle terre, e può succedere, come un virus può contagiare i valori liberali ed intralciare il saccheggio in corso della dispensa latinoamericana. E per il bene di pochi questo non si può permettere. Un presidente democrati-camente eletto, Jacobo Arbenz, moderatamente riformista, ma tanto, troppo vicino a punti nevralgici quali la riforma agraria, altro nodo che, dalla Conquista ad oggi, è fermo nelle gole dei contadini, viene violentemente messo alla porta. Non in linea col modello dominante, quindi comunista. Quindi una minaccia. I marines intervengono e l’ordine è ristabilito.

L’epoca buia

Da quel momento si fa risalire l’inizio dell’epoca più buia che dal genocidio del XVI secolo il Gua-temala abbia mai vissuto.Niente è più importante che il mantenimento dello status quo, ora che gli affari vanno bene, che

UN NODO DI SANGUEIl recupero della memoria storica in Guatemala

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il subcontinente sembra promettere molto al mercato con le sue ricchezze di materie prime e la fertilità dei suoi campi. È l’epoca delle Multinazionali che acquistano tanto potere da essere para-gonate a degli Stati dentro lo Stato. La loro voce conta, assai, e il loro via vai non può essere disturbato da una rivolta campesina. Le strade che lasciano defluire milioni e milioni di dollari di merci verso il consumatore bulimico del Nord devono restare sgombere, e uno sciopero ritarda le consegne. Poi qualche ufficiale dell’esercito comincia ad essere meno esercito e più popolo, così la forza armata sembra essere l’unica risposta alla forza armata, e la guerrilla la forma migliore. In montagna si organizza la clandestinità e l’opposizione ad uno Stato che è già diventato un regime.

L’allarme

È così che il Capo del Nord riceve l’allarme, e mentre continua ad inghiottire voracemente i pro-dotti del suo cortile, vomita la ricetta migliore per correggere qualsiasi devianza ne disturbi la tranquillità. Se il comunismo è il male, l’anticomunismo sarà l’antidoto migliore. Questo sarà il nome d’ogni nefandezza compiuta a questo scopo. Manda giù i maestri più severi, e fa costruire una scuola proprio in quell’America Centrale così sconquassata ed in preda ai fumi di un marxi-smo, che è sempre stato accolto e tradotto per quel che prometteva di buono ai contadini impove-riti, agli indigeni sfruttati del Terzo Mondo, della Seconda America, del Primo nemico. La Escue-la de las Americas, dove la controrivoluzione prende forma. Dove tecnici e militari istruiti met-tono sui libri il terrore della guerra. L’orrore della guerra sporca, quella che per raggiungere i propri fini non si ferma davanti a nulla. Si insegnano agli eserciti dei Paesi del Sud le tecniche più efficaci per distruggere il nemico. Capitolo dopo capitolo, da manuale. Ucciderlo, ma non solo. Costruirlo, isolarlo, catturarlo, a capo, legarlo, torturarlo, disumanizzarlo, tagliarlo a pezzi, virgola, umiliarlo, sequestrarlo, imprigionarlo, sterminarlo, massacrarlo, di seguito, farlo “desa-parecer”, e solo dopo, ucciderlo. Suona la campanella e si va in campo a mettere in pratica la lezione. Una dittatura militare permette tutto ciò. I diritti umani sono parole ancora troppo lontane e se qualcuno le pronuncia diventano remote.

Il genocidio

I maestri del Nord sanno che i ribelli si nascondono sulle montagne e che dalle comunità indige-ne e contadine traggono quel poco che serve loro per sopravvivere nei boschi. Nel migliore dei casi una tacita complicità. Allora si passa alla lezione Tierra arrasada, tabula rasa, che è quello che succede a vaste porzioni del suolo guatemalteco ove sono presenti dei villaggi, per lo più indi-geni di etnia maya. Tabula rasa. Significa che dopo l’intervento dell’esercito si può camminare sulla terra di un villaggio senza accorgersi che questo sia mai esistito. Sparito. Cancellato. Donne, bambini, civili. Qualunque forma di vita, oggetto e struttura rasa al suolo. Sotto il suolo. Sepolti chissà dove. Spesso lasciati così come il cadavere rimane dopo esser rotolato giù da un burrone. Che il tempo provvederà ad una minima sepoltura. Nodo in gola. E non si può sputare perché la guerra continua e se sputi sarai il prossimo ad essere cancellato e dimenticato.Dei morti non si parla. Non si reclamano i loro resti. Non si possono neanche piangere, quando si ha la certezza del loro assassinio. Ci si chiede perché. Una domanda inevasa per trent’anni. Nodo in gola. Quando non si sputa da tempo, si è imparato ad ingoiare.

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Gli accordi di pace

Nel 96 gli accordi di pace tra guerriglia e governo, con la mediazione dell’ONU promettono di inaugurare una nuova epoca. Una commissione governativa, così come già successo in altri Paesi dell’America Latina dal destino tristemente simile a quello del Guatemala, indagherà su quello che è stato, sui 36 anni di guerra civile, cercando di analizzare razionalmente quell’incubo da cui tutti speravano di svegliarsi prima o poi. Si chiamerà Commissione per il chiarimento storico (CEH).

Tutti sapevano che mettere il naso in quell’orrenda tragedia in maniera sistematica e con un chiaro intento di documentare la verità dei fatti, avrebbe restituito una coscienza dell’accaduto da cui non si sarebbe potuto più prescindere. Paura legittima dei carnefici, speranza fondata delle vittime. In gran parte frustrate entrambe.

La verità storica

Il Paese si fermò, per un attimo, e decise che per continuare ad andare avanti, che per anche solo immaginare un futuro di pace, avrebbe dovuto fare i conti col suo passato, e con quanto era acca-duto. Affinché venisse scongiurata la possibilità che la storia si ripetesse. Migliaia di guatemalte-chi vennero intervistati dalla Commissione.

Contemporaneamente alla CEH, la Chiesa guatemalteca, anch’essa coi suoi martiri sulle spalle, inaugurò un opera simile, cercando di sfruttare la sua capillare presenza sul territorio, per rafforzare ed integrare il lavoro appena iniziato. In una ventina di diocesi venne creato l’ufficio REMHI, per il recupero della memoria storica. I suoi promotori, zaino in spalla e registratore alla mano, cominciarono a registrare ore ed ore di testimonianze. Gli operatori della diocesi furono aiutati dai promotori della parola, volontari, catechisti, leader comunitari che vennero formati e a cui venne affidato il compito di dare ascolto ai propri compaesani che volessero dare una testimonianza.. Soprattutto vittime e testimoni del conflitto. Ma anche carnefici, qualche militare e funzionario.Uno sfogo grandioso. Un grande sforzo per tornare innocenti, per ricordare, trasmettere, ammo-nire, o per lo meno per piangere in santa pace. La semplice teologia (alcuni diranno della libera-zione) a cui questi volontari, a cui si deve la gran parte della faticosa raccolta, ancora s’ispiravano, non veniva più additata come messaggio sovversivo, e il progetto potè proseguire, non senza pro-blemi, soprattutto nei suoi primi anni. Il progetto doveva durare 8 mesi. Dopo 10 anni la verità del REMHI trova ancora pezzi sparsi in giro per il Paese che aspettano d’essere scritti.

La statistica del terrore

I dati così emersi parlano di 400 comunità cancellate, 200.000 persone assassinate, 40.000 desaparecidos, 120.000 rifugiati in Messico, 1.500.000 profughi interni, che hanno vissuto scap-pando sulle montagne. Numeri che sbalordiscono insieme alla fredda consapevolezza che il mec-canismo che le ha prodotte è stato disegnato a tavolino in qualche studio di Washingthon e poi tradotto per le mani che l’hanno messo in pratica contro i propri fratelli.

E dalla verità cosa? I crimini e i criminali. Le cause. Lo sterminio per l’appartenenza ad un deter-minato gruppo, quello maya. Un genocidio senza colpevoli, per nessun tribunale. Finora.

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Le parole vengono raccolte su volumi che sistematizzano le violazioni, cause e meccanismi dell’orrore. L’ultimo dei quattro volumi del rapporto Guatemala Nunca Más, il più alto, raccoglie i nomi delle vittime così divisi: vittime di massacro, desaparecidos, torturati.

Smuovere quelle braci di una memoria sotterrata, ancora ardenti anche se spente all’apparenza, era liberatorio ma anche pericoloso. I colpevoli di allora, ancora tranquillamente a spasso nei corridoi istituzionali, così come nelle caserme e nei villaggi, potevano ancora confidare in una ampia impunità, quando assassinarono il vescovo Juan Gerardi, che nella cattedrale di Città del Guatemala, aveva presentato il Guatemala Nunca Más, il rapporto del REMHI, restituendolo al popolo che ne era la voce, nelle mani della premio nobel per la pace, vittima e indigena, Rigober-ta Menchù Tum.

Un cimitero a cielo aperto

Il lavoro portato avanti negli ultimi dieci anni dalle Commissioni per la verità e dalle associazio-ni per i diritti umani, si propongono di riesumare i corpi delle vittime laddove possono essere individuati. I resti vengono riportati alla luce da equipes di antropologi forensi che dopo ore di cammino, sulle pendenze delle valli guatemalteche, scavano fino a trovare le ossa. Se la comuni-tà è abbastanza vicina, alcuni dei suoi abitanti accompagnano il gruppo ed assistono al ritrova-mento. Qualche candela si accende ai piedi degli scheletri che appaiono bianchi dopo essere stati spazzolati. C’è ancora il cappello di paglia, gli stivali di gomma e il fazzoletto al collo.

Qualcuno prega, qualche altro ritrova il coraggio di piangere. Negli occhi il giorno in cui tutto è successo, il sangue, gli spari, oppure il corpo ritrovato appeso ad un albero poco distante, o i suoi pezzi sparsi a terra.Il tutto viene raccolto in apposite scatole di cartone e portato in laboratorio. Dall’analisi s’arriva all’identificazione della vittima. La causa della morte è spesso evidente. Il cranio spaccato, o le corde attorno al collo, o un colpo d’arma da fuoco.

Un appuntamento fissa il giorno in cui i resti torneranno alla famiglia e alla comunità. Ci sarà un funerale, finalmente. Il cerchio si chiude. La processione fino al cimitero, qualche parola di com-miato del sacerdote, e di nuovo sotto terra dopo esser stato come purificato da un atto di giusti-zia. Ora è scritto. È morto. Ha smesso di respirare per un atto violento. Assassinio. Ora dovrebbe riposare un po piu in pace. Non troppo ci si immagina, quando i colpevoli non sono mai stati dichiarati tali. La riconciliazione che dovrebbe seguire alla verità, non può avvenire senza giusti-zia. Il cammino è lungo e il nodo di sangue in gola ancora non lascia respirare come si deve.

Simone Perini

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