5
Un palinsesto foscoliano in Carducci Prendiamo Il bove di Giosue Carducci 1 . T’amo, o pio bove; e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi, o che solenne come un monumento tu guardi i campi liberi e fecondi, o che al giogo inchinandoti contento l’agil opra de l’uom grave secondi: ei t'esorta e ti punge, e tu co ’l lento giro de’ pazïenti occhi rispondi. Da la larga narice umida e nera fuma il tuo spirto, e come un inno lieto il mugghio nel seren aër si perde; e del grave occhio glauco entro l’austera dolcezza si rispecchia ampio e quïeto il divino del pian silenzio verde. È un sonetto indubbiamente celebre, uno dei più celebri della letteratura italiana in generale, e della produzione letteraria carducciana in particolare. Ha, per così dire, un’aria di famiglia. Ma la sua aria di famiglia non proviene solo dall’oggettiva familiarità che abbiamo con esso -risalente per qualcuno ai tempi della scuola (ma da almeno una quindicina d’anni praticamente nessun insegnante lo propone più agli studenti), per qualcun altro a un “sentito dire” o a letture personali-, ma da qualcosa di più profondo, di meno conscio, tanto poco conscio che, a quanto mi risulta, nessuno lo ha messo in luce, lo ha portato alla coscienza, se non propria personale, almeno della comunità dei lettori. Ma andiamo per gradi. Il sonetto, incluso nelle Rime nuove, è stato composto il 23 novembre 1872, e perciò si inscrive all’inizio della stagione matura del poeta toscano, che iniziava ad allontanarsi dalle giovanili accensioni che ad esempio lo portarono a comporre l’ Inno a Satana, e, segnato da lutti personali e delusioni storiche, procedeva, non senza ripensamenti e oscillazioni, verso la sua futura “vocazione” di poeta-vate della nuova Italia. Non è assolutamente mia intenzione addentrarmi nell’interpretazione contenutistica che ha dato adito a disparate letture (per Luigi Russo documenta il “gusto borghese della vita georgica, direi quasi padronale” 2 ; Giovanni Getto, in polemica con Russo, ci legge un sentimento universale, parlando di “una umanità di sempre, una georgica che può essere fatta risalire tranquillamente a Virgilio”, e il bove è “il simbolo di una vita al poeta negata, di una vita forte e serena, di un’esistenza condotta in sanità e in pace” 3 ; Benedetto Croce elogia il sonetto -a parte l’infelice, a suo dire, silenzio verde- in quanto vi sente “l’amore per l’opera umana e per la natura che le è collaboratrice con la sua terra feconda, col suo aere sereno, con le forze e le disciplinate attitudini dei suoi animali, e il benessere che da questa collaborazione si diffonde di vigore, di pace, di fiducia, di letizia” 4 armonicamente compattati in un sonetto), e nemmeno esprimere un giudizio sull’eventuale bellezza di questo sonetto (ad esempio, Natalino Sapegno lo annovera nelle pagine “più grige e fredde del Carducci letterato” 5 ; invece Giuseppe 1 Cito da: Giosue Carducci, Opere scelte, vol. I – Poesie, a cura di Mario Saccenti, UTET, Torino 1993, pp. 423-424. 2 Carducci senza retorica, Laterza, Bari 1957 (cito dalla ristampa 1999), p. 245 (lo spazieggiato è del Russo). L’articolo da cui traggo la citazione è del 1954, e condensa la stroncatura del Russo verso questo sonetto già espressa l’anno prima nell’articolo Di alcuni sonetti celebri del Carducci , apparso su “Belfagor” (VIII, 4) e ristampato nel succitato volume alle pp. 289-295. 3 Giovanni Getto, Carducci e Pascoli, Zanichelli, Bologna 1957, pp. 39-40 (l’esame del presente sonetto è contenuto nelle pp. 37-40). 4 Il sonetto «Il bove» (1941), in Benedetto Croce, Giosue Carducci. Studio critico, Laterza, Bari 1961 6 , pp. 151-153, citazione da p. 151 (la prima edizione è del 1920; le pagine su Il bove sono state incluse a partire dalla quarta edizione, del 1946). 5 Natalino Sapegno, Storia di Carducci (1949), ora in Ritratto di Manzoni e altri saggi , Laterza, Bari 1961 (cito dalla ristampa 1992), pp. 205-225; la citazione è da p. 219.

Un palinsesto foscoliano in Carducci

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Il Bove di Carducci nasconde una memoria foscoliana?

Citation preview

Page 1: Un palinsesto foscoliano in Carducci

Un palinsesto foscoliano in Carducci

Prendiamo Il bove di Giosue Carducci1.

T’amo, o pio bove; e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi, o che solenne come un monumento tu guardi i campi liberi e fecondi,

o che al giogo inchinandoti contento l’agil opra de l’uom grave secondi:ei t'esorta e ti punge, e tu co ’l lentogiro de’ pazïenti occhi rispondi.

Da la larga narice umida e nera fuma il tuo spirto, e come un inno lieto il mugghio nel seren aër si perde;

e del grave occhio glauco entro l’austera dolcezza si rispecchia ampio e quïeto il divino del pian silenzio verde.

È un sonetto indubbiamente celebre, uno dei più celebri della letteratura italiana in generale, e della produzione letteraria carducciana in particolare. Ha, per così dire, un’aria di famiglia. Ma la sua aria di famiglia non proviene solo dall’oggettiva familiarità che abbiamo con esso -risalente per qualcuno ai tempi della scuola (ma da almeno una quindicina d’anni praticamente nessun insegnante lo propone più agli studenti), per qualcun altro a un “sentito dire” o a letture personali-, ma da qualcosa di più profondo, di meno conscio, tanto poco conscio che, a quanto mi risulta, nessuno lo ha messo in luce, lo ha portato alla coscienza, se non propria personale, almeno della comunità dei lettori. Ma andiamo per gradi.

Il sonetto, incluso nelle Rime nuove, è stato composto il 23 novembre 1872, e perciò si inscrive all’inizio della stagione matura del poeta toscano, che iniziava ad allontanarsi dalle giovanili accensioni che ad esempio lo portarono a comporre l’Inno a Satana, e, segnato da lutti personali e delusioni storiche, procedeva, non senza ripensamenti e oscillazioni, verso la sua futura “vocazione” di poeta-vate della nuova Italia.

Non è assolutamente mia intenzione addentrarmi nell’interpretazione contenutistica che ha dato adito a disparate letture (per Luigi Russo documenta il “gusto borghese della vita georgica, direi quasi p a d r o n a l e ”2; Giovanni Getto, in polemica con Russo, ci legge un sentimento universale, parlando di “una umanità di sempre, una georgica che può essere fatta risalire tranquillamente a Virgilio”, e il bove è “il simbolo di una vita al poeta negata, di una vita forte e serena, di un’esistenza condotta in sanità e in pace”3; Benedetto Croce elogia il sonetto -a parte l’infelice, a suo dire, silenzio verde- in quanto vi sente “l’amore per l’opera umana e per la natura che le è collaboratrice con la sua terra feconda, col suo aere sereno, con le forze e le disciplinate attitudini dei suoi animali, e il benessere che da questa collaborazione si diffonde di vigore, di pace, di fiducia, di letizia”4 armonicamente compattati in un sonetto), e nemmeno esprimere un giudizio sull’eventuale bellezza di questo sonetto (ad esempio, Natalino Sapegno lo annovera nelle pagine “più grige e fredde del Carducci letterato”5; invece Giuseppe

1 Cito da: Giosue Carducci, Opere scelte, vol. I – Poesie, a cura di Mario Saccenti, UTET, Torino 1993, pp. 423-424.2 Carducci senza retorica, Laterza, Bari 1957 (cito dalla ristampa 1999), p. 245 (lo spazieggiato è del Russo). L’articolo da cui

traggo la citazione è del 1954, e condensa la stroncatura del Russo verso questo sonetto già espressa l’anno prima nell’articolo Di alcuni sonetti celebri del Carducci, apparso su “Belfagor” (VIII, 4) e ristampato nel succitato volume alle pp. 289-295.

3 Giovanni Getto, Carducci e Pascoli, Zanichelli, Bologna 1957, pp. 39-40 (l’esame del presente sonetto è contenuto nelle pp. 37-40).

4 Il sonetto «Il bove» (1941), in Benedetto Croce, Giosue Carducci. Studio critico, Laterza, Bari 19616, pp. 151-153, citazione da p. 151 (la prima edizione è del 1920; le pagine su Il bove sono state incluse a partire dalla quarta edizione, del 1946).

5 Natalino Sapegno, Storia di Carducci (1949), ora in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Laterza, Bari 1961 (cito dalla ristampa 1992), pp. 205-225; la citazione è da p. 219.

Page 2: Un palinsesto foscoliano in Carducci

Citanna lo mette fra le “liriche perfette”6; e ancora Giovanni Getto lo definisce entusiasticamente “un magnifico quadro che rimane, indimenticabile, fra i più suggestivi del volume poetico carducciano” 7) perché non è questo che interessa, rientrando nel campo del soggettivo e dell’opinabile (ad ogni modo, personalmente, a me questo sonetto piace).

Occorre invece analizzarlo con un minimo di obiettività, nella sua struttura testuale: e allora proviamo a descriverlo. Esso si apre con un’affermazione perentoria, “t’amo”, seguita da un’invocazione al placido animale (e “placido” era infatti definito nella composizione iniziale, aggettivo subito sostituito dal polisemico, connotativo “pio”). Subito dopo il poeta (vv. 1-2) descrive gli effetti che la visione del bue produce nella sua anima, “mite un sentimento di vigore e di pace”, espressione in cui l’anastrofe mette in evidenza la qualità del sentimento (come sottolinea anche l’accento di sesta su una vocale acuta e perciò risaltante come la i), e la dittologia fra due termini grosso modo antitetici, vigore e pace, anticipa quella che sarà la doppia immagine, dinamica e statica, della figura del bue.

Dopodiché la figura del poeta, l’io lirico, sparisce, o meglio si occulta, non si palesa più esplicitamente, per lasciar spazio a varie scene o sequenze: il bue che contempla statico i campi, il bue che si sottomette docile e paziente al giogo impostogli dall’uomo che lo sprona e lo punge (e queste prime due sequenze completano quanto affermato nell’incipit: il sentimento di vigore e di pace è infuso nel cuore del poeta da qualsiasi immagine, statica o dinamica, dell’animale, sia quando contempla, sia quando ara), il bue che respira e muggisce, l’occho del bue che riflette “il divino del pian silenzio verde”. Non c’è realismo in queste sequenze, in quanto al bue sono ripetutamente attribuite connotazioni umane o riferibili alla sfera delle attività umane (“solenne”, v. 3; “contento”, v. 5; “pazïenti occhi”, v. 8; “spirto”8, v. 10; “austera dolcezza”, vv. 12-13), e in quanto tutto è visto attraverso il punto di vista del poeta, che, se come si è detto, smette di palesarsi al v. 2, informa di sé e del proprio sentimento tutto il sonetto, comparendo in absentia ad esempio nella similitudine “come un inno lieto” (v. 10), o nell’apparente apoditticità del verbo “si rispecchia” (v. 14), la cui soggettività, a mio modo di vedere, è denunciata in modo dissimulato attraverso il forte iperbato del v. 14, che mescola sinestesia (figura retorica per definizione soggettiva) e ipallage in quel “silenzio verde” che tanto fece storcere il naso a Benedetto Croce. L’aggettivazione, poi, è molto ricca, e l’aggettivo è usato in tutte le sue possibilità sintattiche e stilistiche: dalla funzione predicativa (“contento”, v. 5), alla dittologia attributiva; dall’uso (evocativamente?9) sinestetico (“silenzio verde”) a quello ossimorico sottolineato dall’enjambement (vv. 12-13).

La musicalità del sonetto si esplicita nel massiccio impiego di fonemi nasali10 (particolarmente importante la presenza di un fonema nasale nelle rime delle quartine, -ento e -ondi, che crea un effetto di richiamo che va al di là della semplice consonanza, conferendo al dettato una cadenza fonosimbolicamente molle e dolce), nel sapiente uso degli accenti ribattuti di 6ª e 7ª (vv. 6, 8, 9, 11, 13; al v. 12 abbiamo accenti ribattuti di 3ª e 4ª, e 6ª e 7ª, con effetto di grande e solenne lentezza, consono all’impiego dell’aggettivo “grave”, peraltro già presente al v. 6, e anche lì colpito da un accento primario, sulla settima sillaba, e perciò ribattuto), nell’assonanza tonica che lega ben quattro rime su cinque ( -ento, -era, -eto, -erde), nella presenza di rime ricche (“sentimento” - “monumento”, vv. 1 e 3; “fecondi” - “secondi”, vv. 4 e 6; “lieto” - “quieto”, vv. 10 e 13), e nell’assenza di asprezze all’interno dei versi (fonemi “aspri e chiocci”, per dirla con Dante, ce ne sono, ma sono armoniosamente uniti con la dominante dolcezza fonica). Variano questa per così dire uniformità tonale i due enjambements ai vv. 7-8 (“lento / giro”) e 12-13 (“austera / dolcezza”), entrambi molto rilevanti per motivi differenti, il secondo perché è una callida iunctura per giunta ossimorica, come si è già notato, il primo per una ragione che mi riservo di chiarire in seguito.

Torniamo dunque al discorso iniziale: il sonetto è celebre, è famoso, ma c’è dell’altro. Il bove, a una lettura non voglio dire attenta, ma quanto meno non distratta né superficiale, rivela qualcosa, fa scattare una molla inconscia che spinge a chiedersi «Dov’è che ho già sentito questa poesia?». La molla inconscia

6 Giuseppe Citanna, Giosuè Carducci, in AA.VV. Letteratura italiana. I maggiori, vol. II, Marzorati, Milano 1956, pp. 1161-1201 (citazione tratta da p. 1181).

7 Giovanni Getto, ivi, p. 37.8 Di cui già lo stesso Carducci ammetteva l’ambiguità semantica, potendosi interpretare come fiato e come anima (cfr. il

passo della lettera ad Adolphine Gosme citato in nota in Opere scelte, vol. I – Poesie, cit., a p. 424).9 Nel senso che potrebbe trattarsi, come già si è visto, anche di ipallage.10 Come fa notare Cosetta Seno Reed, Lettura de Il Bove di Carducci, “Italica”, 85, 1 (2008), pp. 76-87.

Page 3: Un palinsesto foscoliano in Carducci

è innescata dal fatto che Il bove è in realtà un palinsesto, nel senso genettiano11 del termine. Una riscrittura, in pratica. Il testo che c’è sotto la superficie bovino-carducciana è un testo che più antitetico non potrebbe essere: il sonetto alla sera di Ugo Foscolo, Forse perché della fatal quiete.

Leggiamolo12.

Forse perché della fatal quïeteTu sei l’immago a me sí cara vieniO Sera! E quando ti corteggian lieteLe nubi estive e i zeffiri sereni,

E quando dal nevoso aere inquïeteTenebre e lunghe all’universo meni Sempre scendi invocata, e le secreteVie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l'ormeChe vanno al nulla eterno; e intanto fuggeQuesto reo tempo, e van con lui le torme

Delle cure onde meco egli si strugge;E mentre io guardo la tua pace, dorme Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

Molto più dei settant’anni (il sonetto foscoliano si può approssimativamente datare 1802-03) che effettivamente intercorsero fra le due composizioni, separano questi due testi, espressione di due stati d’animo che non si potrebbero immaginare più opposti: da una parte il temperamento romantico, estroversamente inquieto e irrequieto del poeta veneziano, dall’altra il mite sentimento di vigore e di pace che troviamo presso il (comunque inquieto, forse anche più di Foscolo) poeta toscano. Eppure nel comporre quest’inno alla serenità Carducci aveva in mente proprio Foscolo.

Si tratta di un procedimento usuale in Carducci13, anche se non so in quanta parte conscio e in quanta parte inconscio, e d’altra parte non è nemmeno possibile stabilirlo, data la mancanza di prove documentarie inoppugnabili, che peraltro non sono nemmeno indispensabili, dato che la geniale noticina di Dante Isella su San Martino14 dimostra inconfutabilmente un richiamo di Nievo in Carducci senza bisogno di alcuna pezza d’appoggio esterna al testo. In ogni caso, Carducci ovviamente conosceva bene il testo foscoliano (e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di uno dei componimenti poetici più celebri della letteratura italiana), e per giunta lo aveva anche commentato, insieme agli altri componenti degli “Amici pedanti”, Ottaviano Targioni Tozzetti e Giuseppe Torquato Gargani, nel fascicolo numero 11, datato maggio 1856, del volume secondo dell’Appendice alle “Letture di Famiglia”, periodico fondato e diretto da Pietro Thouar.15

Veniamo al dunque. Le quartine dei due sonetti sono strutturate in modo simile: a parte la presenza del vocativo (al v. 3 in Foscolo; al v. 1 in Carducci), notiamo analogie ben più evidenti e probanti. In entrambi i sonetti, infatti, ai vv. 3 e 5 ci sono particelle correlative (Foscolo: “e quando... e quando”; Carducci: “o che... o che”); ai versi pari dell’ottetto corrispondono parole-rima appartenenti alla stessa categoria grammaticale, sia in Foscolo che in Carducci: verbo alla 2ª persona singolare – aggettivo maschile plurale – verbo alla 2ª persona singolare – verbo alla 2ª persona singolare (vieni-sereni-meni-tieni; infondi-fecondi-secondi-rispondi). In entrambi i sonetti il verbo finale del v. 2 è preceduto da un pronome personale in dativo, che in Carducci si unisce con “al cor” recuperando la preposizione “a”; in entrambi i sonetti c’è un enjambement fra nome e genitivo ai vv. 1-2, ma a parti invertite (e molto meno

11 Ovviamente mi riferisco al saggio di Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997 (ed. originale Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Paris 1982).

12 Cito da: Ugo Foscolo, Opere, vol. I, Poesie e tragedie, a cura di Franco Gavazzeni, Maria Maddalena Lombardi, Franco Longoni, Einaudi – Biblioteca de la Pléiade, Torino 1994, p. 13.

13 Ad esempio lo nota di sfuggita Walter Binni, in Carducci e altri saggi, Einaudi, Torino 1972, a p. 50 nota 4, quando parla di “memoria poetica del Carducci” in cui il poeta pesca echi leopardiani più o meno chiari.

14 Due «lucciole» per San Martino, “Strumenti critici” I, 2 (1967), pp. 187-189.15 Traggo la notizia dal saggio di Roberto Tissoni, Carducci umanista: l’arte del commento, contenuto alle pp. 47-113 del volume

Carducci e la letteratura italiana. Studi per il centocinquantenario della nasita di Giosue Carducci. Atti del convegno di Bologna, 11-12-13 ottobre 1985, Antenore, Padova 1988 (si parla dei commenti a Foscolo alle pp. 58-59 e nella nota 32).

Page 4: Un palinsesto foscoliano in Carducci

marcato in Carducci); entrambi i v. 8 contengono, prima del verbo finale, un complemento di specificazione formato da aggerrivo e nome, (in Foscolo c’è però anche un avverbio, “soavemente”, fra il complemento di specificazione e il verbo). E soprattutto, in entrambi i sonetti il v. 7 ha una forte cesura dopo la settima sillaba, in sinalefe con la congiunzione “e” (“sempre scendi invocata | e le secrete”; “ei t’esorta e ti punge, | e tu co ’l lento”)16, e i vv. 7-8 sono legati da enjambement aggettivo-nome (“secrete / vie”; “lento / giro”).

Le terzine non sono così simili strutturalmente, a cominciare dallo schema rimico, che in Foscolo si avvale di due rime e in Carducci di tre; tuttavia è possibile evidenziare talune analogie (anastrofe in Foscolo al v. 9, “vagar mi fai”, e in Carducci al v. 10, “fuma il tuo spirto”, ambedue a inizio verso; enjambements marcati ai vv. 11-12 in Foscolo e ai vv. 12-13 in Carducci; in entrambi al v. 12 ci sono due sinalefi, in quarta e settima sede, e sulle stesse vocali, e-o in quarta sede, o-e in settima, oltretutto precedute dal fonema /k/ in un latinismo, “meco” e “glauco”).

Ma le analogie non si fermano qui. Metricamente notiamo minor presenza di accenti ribattuti in Foscolo (v. 5, v. 12, v. 14); ma vediamo che al v. 14 in entrambi i sonetti l’accento di sesta cade su parola troncata; inoltre è da rimarcare che i vv. 4 e 7 hanno la stessa struttura metrica (con accenti di 2ª, 4ª, 6ª e ovviamente 10ª al v. 4; di 1ª, 3ª, 6ª, 8ª e naturalmente 10ª al v. 7); il v. 12 in entrambi i sonetti ha un accento ribattuto di 6ª e 7ª (e in Carducci anche di 3ª e 4ª). E sempre a proposito di accenti ribattuti, troviamo due sintagmi simili con accenti ribattuti al v. 5 del sonetto foscoliano e al v. 11 di quello carducciano, “nevoso aere” - “sereno aer” (entrambi i sintagmi sono da computarsi come quadrisillabi, in quanto in Foscolo la parola “aere” è unita in sinalefe con la parola successiva, “inquïete”). Abbiamo dunque il pretesto per poter passare ad analizzare il livello lessicale e semantico dei due componimenti. Anche qui il gioco delle corrispondenze è impressionante. A fronte di pochi lessemi uguali (ma quanto significativi!), troviamo una fitta serie di termini affini, di sinonimi, di espressioni antitetiche ecc. Vediamo le parole uguali17:

• quïete (F1) – quïeto (C13); • liete (F3) – lieto (C10)18;• pace (F13 e C2);• cor (F8 e C2);• guardo (F13) – guardi (C4);• spirto (F14 e C9);• sereni (F4) – sereno (C11);• entro (avverbio in F14; preposizione in C12).

Le parole ed espressioni simili, affini o sinonimiche: • a me sì cara vieni (F2) – t’amo (C1);• pensier (F9) – sentimento (C1);• immago (F2) – monumento (C3)19;• invocata (F7) – esorta, punge (C7)• nevoso, inquïete, lunghe (F5-6) – larga, umida, nera (C9)20

• spirto guerrier (F14) – sentimento di vigore (C1-2)• dorme (F13) – silenzio (C14)• fatal quïete, nulla eterno (F1-10) – divino silenzio (C14)• rugge (F14) – fuma, mugghio (C10-11)

16 Inoltre la sinalefe in settima sede è in entrambi i sonetti preceduta da un’altra sinalefe, in quarta sede (“scendi invocata”; “esorta e”).

17 Per comodità userò le sigle F per Foscolo e C per Carducci seguite dal numero del verso.18 Tutte e quattro parole-rima, disposte chiasticamente nella mappatura dei due sonetti: in altre parole, Carducci ne ha

invertito l’ordine quale si trova in Foscolo; la stessa cosa, anche se non concerne più solo parole-rima, accadrà con il termine “pace”, in disposizione chiastica sia rispetto a “quïeto/e” che rispetto a “lieto/e”.

19 Entrambi hanno come comune denominatore il termine latino simulacrum.20 Si possono raggruppare a coppie per attinenza: lunghe – larga; nevoso – umida; inquïete – nera. Faccio altresì notare che

l’attacco del v. 9 del sonetto carducciano, con quella monotonia in “a”, può richiamare alla mente il Foscolo dei Sepolcri , v. 163 (“onde all’Anglo che tanta ala vi stese”).

Page 5: Un palinsesto foscoliano in Carducci

• fugge, si strugge (F 10-12) – si perde (C11)• zeffiri sereni, nevoso aere (F4-5) – sereno aer (C11)• soavemente (F8) – dolcezza (C13)

E le antitetiche:• inquïete e lunghe (F5-6) – ampio e quïeto (C13)• rugge (F14) – silenzio (C14)• spirto guerrier (F14) – mite un sentimento di pace (C1-2)• torme delle cure (F11-12) – austera dolcezza (C12-13)21

Una tale mole di analogie strutturali, echi, richiami, presenze foscoliane non può essere affatto casuale. Altro discorso è cercare di sondare l’insondabile, vale a dire azzardarsi ad asserire che questi richiami siano voluti oppure no. E non serve a dirimere la questione notare che sono due componimenti contenutisticamente separati da un abisso, abisso che formalmente si traduce, ad esempio, nell’abbondanza di verbi di movimento in Foscolo di contro a verbi di stasi in Carducci, o in una forte presenza della funzione emotiva nel preromantico Foscolo (il sonetto è pieno di pronomi e aggettivi di prima persona singolare), quasi assente nell’“impressionista” (e dunque non realista) Carducci. E altro ancora si potrebbe dire sulle differenze, ma sarebbe volersi affannare a portare vasi a Samo. Basti invece aver richiamato alla coscienza ciò che potremmo intuire a livello inconscio e mnemonico, la presenza di un sonetto celebre in uno altrettanto celebre.

Potere magico della poesia: riuscire a esprimere con mezzi simili e talora uguali, stati d’animo diversi e talora opposti!

Francesco De Martino

Questo saggio è dedicato al mio insegnante di greco del Liceo, Gabriele Loguercio, scomparso di recente.

21 Come già notato, entrambi i sintagmi sono in enjambement.