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N.3 SETTEMBRE 1998 LA RIVISTA DELLA DSC PER LO SVILUPPO E LA COOPERAZIONE Un seul monde Eine Welt Un solo mondo La Bosnia e la pace La realtà dal vivo, la ricerca di una riconciliazione nazionale, l’impegno della Svizzera Ritratto della Palestina Il sogno di un proprio stato Il modello svizzero, prodotto d’esportazione ? Ne dibattono un ghaneano e due svizzeri

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N.3SETTEMBRE 1998LA RIVISTA DELLA DSCPER LO SVILUPPO E LACOOPERAZIONE

Un seul mondeEine WeltUn solo mondo

La Bosnia e la pace

La realtà dal vivo, la ricerca di una riconciliazione nazionale,

l’impegno della Svizzera

Ritratto della PalestinaIl sogno di un proprio stato

Il modello svizzero, prodotto d’esportazione?

Ne dibattono un ghaneano e due svizzeri

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Sommario

Un solo mondo n.3/settembre 1998

Alla fine della strada, la scuolaRagazzi di strada in Albania

21In barba agli embargoPerché l’aiuto umanitario della Confederazione aiuta glistati vittime di embarghi

22Dietro le quinte della DSC

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La democrazia svizzera: un modello da esportare?Ne dibattono Wolf Linder, Ebenzer Mireku e PeterVollmer

24Carta biancaMichel Bühler, cantautore, racconta di sviluppo ecooperazione e di un prete vudù

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Nuruddin, Bessie, Tajjib e noi SvizzeriLa letteratura del sud e i suoi lettori in Svizzera

28Editoriale 1Periscopio 2Cos’è... il gender? 23Servizio 31Agenda 33Impressum e tagliando d’ordinazione 33

La direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC), l’agenziadella cooperazione internazionale in seno al Dipartimentofederale degli affari esteri (DFAE), è l’editrice di «Un solomondo». La rivista non è una pubblicazione ufficiale in sensostretto ; presenta infatti anche opinioni diverse. Gli articoli nonesprimo no pertanto sempre il punto di vista della DSC e delleautorità federali.

DOSSIER

SVILUPPO E COOPERAZIONE SVIZZERA

BOSNIAL’ignoto in agguatoChi torna, trova una paese straziato - numerosi progettitentano di dare un’opportunità alla normalità

4La vita continua - con i ricordiIn Bosnia-Erzegovina svariati progetti psicosociali aiutano le persone a superare le improntedella guerra

10Il giornalismo contro odio e sobillazioniL’importanza dei media in Bosnia-Erzegovina

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Palestina - fra sogno e realtàLili Labib Feidy parla della sua patria

14Nostalgia di un proprio statoLa Palestina e la sua lotta per un futuro

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Nel rispetto della responsabilità verso i più poveriWalter Fust, direttore della DSC, sull’aiuto allo sviluppo e i test nucleari

19E via col piccolo leasing!In Pakistan i crediti leasing sostengono le aziende piùpiccole

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GENTE E PAESI CULTURA

FORUM

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1Ne abbiamo sentito il bisogno urgente. Il bisogno di scrivere di pace. Questo valore incommensurabilecostituisce una sorta di filo, talvolta rosso, talvolta trasparente, che percorre questo numero di «Un solomondo».

Una pace duratura è l’obiettivo che la comunità internazionale vuole raggiungere in Bosnia-Erzegovina, dove l’odore acre della polvere da sparo ancora ferisce le narici. La Svizzera, subito inprima linea, dà un contributo robusto alla ricostruzione politica, economica e sociale del paese: 123milioni di franchi nel giro di soli due anni dalla fine del 1995, momento della firma degli accordi diDayton. Tuttavia una pace solida e duratura non dipende solo da strategie, programmi, azioni, soldi,ma e soprattutto dalla volontà politica degli ex belligeranti. Che lo vogliano o no, l’unica alternativapossibile al ritorno alla cieca barbarie è la riconciliazione nazionale e la convivenza multietnica.Nel nostro speciale Bosnia, da pagina 4, l’autrice evidenzia pure il divario esistente tra un interventoelvetico che non trova eguali nella storia e la dura realtà locale.

La rubrica paesi e genti è riservata alla Palestina. Più che un paese, pezzetti di paese e una diasporanumerosa, che in parte vegeta nei campi di rifugiati. Da cinquant’anni. Gente la cui antica frustrazioneè resa ancora più insopportabile da una speranza di pace, quella accesasi dopo gli accordi di Oslo,che si affievolisce a vista d’occhio. Per colpa di estremismi opposti, di certe debolezze dell’Autoritàpalestinese e di un governo, quello israeliano, che tende ad ascoltare più i falchi dei politicipreveggenti e coraggiosi che l’hanno preceduto.Il ritratto e una voce sono presentati alle pagine 14-18.Un antidoto, anzi l’antidoto a prevaricazioni, domini, discriminazioni, marginalizzazioni, quindi unagaranzia di pace, è la democrazia. Quella autentica, cioè quella che garantisce un’effettivapartecipazione di tutti ai processi decisionali. Nel mondo non sono pochi coloro i quali ci invidianodemocrazia diretta e federalismo.Il nostro è un modello esportabile? Questo è il tema del dibattito contraddittorio, che pubblichiamo apagina 24

Buona lettura!

Marco Cameroni, capo media e comunicazione DSC

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metri. Con l’aiuto di una tecnicasemplice e raffinata –l’«acchiappanebbia» messo apunto da ricercatori canadesi ecileni – si è riusciti a estrarredall’aria acqua potabile e acquaper l’irrigazione. La resa inacqua di questi sistemi, che sipresentano come reti dapallavolo sovradimensionate, ègrande. Nei villaggi costieri lecoltivazioni di frutta e verdura sistanno infatti sviluppando benee si è potuta aumentare laproduzione agricola. Gli abitantidella zona possono inoltreprelevare l’acqua potabiledirettamente dall’aria. Gli espertiritengono che il sistemadell’acchiappanebbia possaprocurare ulteriore acquapotabile in altri 30 paesi dalclima secco, contribuendo in talmodo a migliorare la situazionesanitaria.Tratto da: Entwicklung + ländlicherRaum 1/98

I guaritori superano la medicina classicaIn Uganda è opinione diffusache molte malattie siano daricondurre a stregonerie. Perquesta ragione, in un progettounico nel suo genere, guaritoritradizionali, medici diformazione classica e enti statalihanno unito le forze percombattere l’AIDS. Durante ilprimo anno, otto guaritrici diKampala – dove ufficialmente il30 percento della popolazionesessualmente attiva è portatricedel virus HIV – hannodistribuito ai malati di AIDS deipreparati a base di erbe perlenire sintomi quali le diarreecroniche e l’herpes zoster. Nelcontempo, un altro gruppo dimalati è stato trattato secondo icanoni della medicina classica.Entrambi i gruppi hanno fattoregistrare buoni risultati.Tuttavia, i guaritori tradizionalihanno ottenuto dei risultatidecisamente migliori nella lotta

Turismo contro povertàL’idea dell’albergatore egizianoMoustafa El Gendy è chiara,semplice e, dopo l’attentato diLuxor, di grande attualità, anchese in verità la coltivava già damolto tempo. Di che si tratta?Gli albergatori egiziani versano 2 dollari USA in un fondo per lalotta contro la povertà per ognipernottamento nei lorostabilimenti. Il denaro raccoltodeve servire a creare strutture acarattere sociale, quali le scuole, icentri sanitari o gli impianti dismaltimento dei rifiuti. Glialbergatori dovrebberoimpegnarsi a prelevare questatassa sul loro margine, senza inseguito addebitarla ai clienti o aidipendenti. Quale contropartitariceverebbero il marchio«Tourism against Misery», checomprova il loro impegnosociale. Moustafa El Gendy sperache altri paesi confrontati con glistessi problemi – quali il Sud-Africa, l’India o il Brasile –seguano la sua idea.Tratto da: Arbeitskreis Tourismusund Entwicklung 2/98

L’acchiappanebbia del CileSulla costa cilena settentrionaleche si affaccia sul Pacifico leprecipitazioni sono poche.Sull’arco di un intero anno, unafitta nebbia avvolge per contro lacatena montuosa costiera cheraggiunge in alcuni punti gli 800

contro i dolori associati ai nervigenerati dall’herpes. Si prevededi studiare ora l’applicazionedelle cure tradizionali ad altreaffezioni, quali il diabete, l’asmae i disturbi psichici.Tratto da: Südwind-Magazin 4/98

Hammam voraciAffinché i clienti possano lavarsie riposarsi nelle sale invase daivapori, gli hammam marocchininecessitano di grandi quantitàd’acqua calda. La lororeputazione dipende d’altrondedall’alta temperatura dell’acqua.Questi bagni pubblici tradizionalisono purtroppo dotati di sistemidi riscaldamento spesso arcaici.Ognuno dei 2’500 hammam delpaese consuma mediamente unatonnellata di legna al giorno,concorrendo in tal modoall’allarmante riduzione delleriserve forestali. Un progettopilota ha consentito di mettere apunto una caldaia più efficace edi ridurre le perdite di energiamediante un migliore isolamentotermico. I proprietari deglihammam di Marrakech hannogià dimostrato un grandeinteresse per il nuovo sistema.Tratto da: Développement etCoopération 3/98

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Le noci in viaggioL’industria mozambicanadell’anacardo ha soffertomoltissimo a seguito dellaprivatizzazione decisa nel 1995.Circa 7’000 contadini hannoperso il lavoro e molte fabbrichehanno dovuto chiudere ibattenti. In precedenza, lefabbriche che trattavanol’anacardo impiegavano 9’000persone, in prevalenza donne, il

cui lavoro consisteva nelrompere i gusci con il seghetto oil martello. Una voltaprivatizzate, queste aziende nonhanno retto di fronte allaconcorrenza delle società indianeampiamente meccanizzate esussidiate. Su raccomandazionedella Banca mondiale (BM),Maputo ha esportato le sue nocigrezze in India, affinchévenissero sgusciate. Alla fine del1997, la BM ha riveduto la suapolitica, allineandosi sulleposizioni dell’industria e deisindacati. Oggi, una parte dellalavorazione è di nuovo assicuratain Mozambico.Tratto da: New African 2/98

Un bagliore disperanzaLa lotta contro la povertà non èforse del tutto persa. Basandosisu dati estremamenteframmentari e non semprerecenti, l’Organizzazioneinternazionale del lavoro hanondimeno tentato di valutarel’efficacia delle misure attuate nelSud. Ha rilevato segni dimiglioramento in taluni paesidell’America latina e dell’Africa.In Ghana, per esempio, lapovertà è diminuita dal 1984 al1986 nelle aree rurali, mentre è

sensibilmente regredita dal 1981al 1991 in ambiente urbano. InKenya si è registrato un leggeromiglioramento nelle campagnedal 1982 al 1992, mentre lasituazione stava invecepeggiorando nelle città.Tratto da: Développement etCoopération 2/98

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agguato

Alla fine di agosto scadrà il termine di rimpatrio per i rifugiatidi Bosnia e Erzegovina. Molti sono già rientrati in patria, ma le

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loro esperienze non sono affatto incoraggianti. Con tutta unaserie di progetti di varia natura e con un impegno fuori dalcomune, la Svizzera fa di tutto affinché il paese mutilato dallaguerra possa ritrovare la normalità. Questa primavera,Gabriela Neuhaus si è recata in Bosnia per un reportage.

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«Sono veramente felice diessere finalmente a casamia. La nostra abitazioneera stata completamentedistrutta dal fuoco edurante la guerra abbiamovissuto in una casa serbaun po’ discosta dal fronte.Ma non ci apparteneva,non ci sentivamo a nostroagio. Qui coltiviamo un po’di verdura e possediamodue mucche, un paio dipecore e diverse galline.Così riusciamo a tirareavanti, noi e i nostri quattrofigli. Per chi rientradall’estero le cose sono unpo’ più facili. Almeno irifugiati dispongono di unpo’ di denaro. Mal’importante per me èessere di nuovo a casa.»Sakiba Kolus, Dubravica.

Una patria sconosciutaChi ritornerà quest’estate lo farà sotto la spada diDamocle: in questo periodo scade infatti il terminedi rimpatrio. Molti hanno però lasciato il nostropaese già fra il ‘96 e il ‘97. Per esempio LejlaIbrahimovic, più fortunata di Azra, che dopo oltrequattro anni di esilio nel canton Zurigo ha potutofare rientro a casa - nella sua casa, nel suo villaggio.A vent’anni, la giovane donna sarebbe potuta resta-re più a lungo in Svizzera, grazie a un visto che lepermetteva di completare la sua formazione. Maquando madre e fratello hanno raggiunto il padrenon ha voluto restare senza famiglia. Perciò,dall’agosto del 1997 anche lei è di nuovo qui, sep-pure con sentimenti contrastanti: «La città è cam-biata, le persone sono differenti - per me inizia unavita completamente diversa», afferma oggi, aggiun-gendo che vi è un enorme divario fra le persone chehanno vissuto la guerra nella sicurezza dell’esodo ecoloro che sono rimasti in patria. «I colleghi sonogentili, ma non c’è più quella confidenza di untempo. La gente non capisce certe cose... Ti guar-da dall’alto in basso e crede che abbiamo le taschepiene di soldi.»In parte forse è vero. Chi ha vissuto all’estero haavuto spesso l’opportunità di guadagnare qualchesoldo. Durante la guerra, molti hanno così potutofinanziare parenti e amici rimasti in patria.Nell’ambito del sostegno al rimpatrio, chi lascia ilnostro paese riceve inoltre un aiuto finanziario perripartire da zero (vedi riquadro). Lejla ha avutomolta fortuna: ha trovato un lavoro ben pagato pergli standard bosniaci ; dopo la scuola lavora a tempopieno nell’ufficio per il rimpatrio della Direzionedello sviluppo e della cooperazione (DSC) diSarajevo. L’intera famiglia vive dei guadagni di Lejla,l’unica ad avere entrate regolari.DSC - Biro za povrednike. La targa appesa nellaJosipa Stadlera, nel centro di Sarajevo, indica il luogodi lavoro di Lejla. Qui sfila chiunque venga rimpa-triato dalla Svizzera e desideri ricostruirsi un’esistenzanel proprio paese. Qui, Lejla e le sue colleghe ri-trovano ogni giorno le storie, difficili e tragiche, deiloro compatrioti. L’euforia e la gioia del primo mo-mento si trasformano velocemente in frustrazione erassegnazione. «Quando vengono a riscuotere laprima rata degli aiuti, le persone sono piene di gioiae di ideali», dice Aida Kazic, un’altra profuga inSvizzera ad avere momentaneamente trovato unimpiego presso la DSC. «Quando, dopo sei mesi, ri-tornano per riscuotere la seconda parte del sussidio,sono invece tristi e frustrati. Non hanno un verotetto sulla testa, non trovano lavoro e non vedononessuna via di uscita. Con i soldi svizzeri sono forse

Sarajevo, venerdì sera. La diciannovenne AzraRizvanovic è fuori con gli amici. Passeggiano per levie ormai sgombre dalle macerie, eleganti e moder-ne. Nei bar e nelle discoteche la musica è a pienovolume e la gente si ammassa nei locali saturi di pro-fumo. La vita pulsa laddove fino a poco tempo fa re-gnavano paura e terrore. Guerra e distruzione fannoormai parte di un altro mondo. Davvero? Il giornodopo, nelle stesse vie, un vecchio con il suo basto-ne bianco cerca di vendere qualche accendino se-duto sul bordo di un marciapiede. Al mercato dellafrutta e della verdura, per un paio di marchi tedes-chi uomini e donne mercanteggiano magliette, borsedi plastica e vestiti cuciti in casa. Cercano di so-pravvivere. Poi, all’arrivo della polizia, si dileguanonel nulla.La guerra ha lasciato tracce indelebili anche nella vitaquotidiana di Azra. Vive a Sarajevo soltanto dalmese di ottobre del ‘97, in un quartiere non anco-ra così pulito come il centro. Una grossa parte diDobrinja è ancora minata. Malgrado ciò, i bambinigiocano fra le rovine, e si torna a rivivere un po’ovunque. La gente vive in case risistemate allabell’e meglio, in alloggi provvisori a malapena abi-tabili. Anche Azra vive qui, insieme a uno zio ; i suoigenitori e il fratello sono ancora in Svizzera. «Conil permesso per rifugiati F non avevo nessuna possi-bilità di intraprendere un apprendistato. Almenoqui posso continuare la mia formazione». La giova-ne donna giustifica così il ritorno solitario nel suopaese, abbandonato all’età di 12 anni. La sua fami-glia proviene da un villaggio del sud della Bosnia-Erzegovina, ma un ritorno laggiù resta, almeno peril momento, impossibile. Il territorio appartiene allaRepublika Srpska, e i Bosniaci musulmani non osanomettervi piede.La famiglia di Azra non è un caso isolato, anzi.Rientrati nel proprio paese molti continuano ad es-sere dei rifugiati: ormai, il loro villaggio, la loro cittàfanno parte dell’«altra metà» dello stato. Ciò vale siaper i Bosniaci croati e musulmani originari dei ter-ritori appartenenti oggi alla Republika Srpska, sia peri Serbi bosniaci che occupavano una volta il territo-rio dell’odierna Federazione. Le più recenti stati-stiche parlano di un milione e mezzo di «rifugiati in-terni», mentre si stima che un altro milione risiedaall’estero. Molti di loro saranno costretti a rientrarein patria entro quest’anno, poiché deciso così daglistati dell’Europa occidentale, Svizzera inclusa. Solodalla Germania si stima un esodo di 100-150’000persone ; in Svizzera sono circa 12’300 le persone an-nunciate per il programma di rimpatrio dellaConfederazione.

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riusciti ad effettuare qualche riparazione urgente, ilresto è servito a pagarsi di che vivere.»

L’ultima speranza: emigrareFerid Salja ha appena ritirato la seconda rata delcontributo svizzero presso l’ufficio della DSC. È fu-ribondo e amareggiato: «Già me lo sentivo, ma orane ho la certezza: qui non siamo i benvenuti.» «Nonriusciamo nemmeno a trovare un impiego stabile»,spiega sua moglie Enisa Salja. Gli aiuti sono stati in-vestiti nelle riparazioni della loro abitazione, dan-neggiata dai tiri di mortaio. Presto i soldi saranno fi-niti e non vedono alcun futuro a Sarajevo né per sestessi né per loro figlio. Perciò stanno valutando lapossibilità di emigrare in Canada o in Australia. Fahrudin e Stana Meskovio hanno già inoltrato tuttii documenti necessari per emigrare in Australia.

Stana, 31 anni, ci confida brevemente la sua storia.Mentre suo marito combatteva nell’armata bosnia-ca, per quasi quattro anni lei e la figlia piccola hannovissuto come profughi a Bjelina. Quando i suoi duefratelli vennero uccisi, Fahrudin, ultimo discenden-te maschio della famiglia, venne dimesso dal servi-zio militare. Fuggì in Svizzera, dove inoltrò una do-manda di asilo, e poco più tardi moglie e figlia loraggiunsero a Dietikon. Quasi subito dopo la finedella guerra l’intera famiglia si trasferì di nuovo aTuzla, loro città di origine. «Avevamo sentito direche qui le cose andavano molto meglio, e grazie agliaiuti della Svizzera speravamo di ricominciare unanuova vita.» Così Stana giustifica la loro volontà dirientrare in patria. Oggi rimpiange però quella de-cisione: «No, qui non va per niente bene», ridacchianervosamente. A tutt’oggi la famiglia non è riuscita

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«Per sopravvivere inquesto paese ènecessario un grossoSMILE.»Lejla Ibrahimovic, 20 anni,Sarajevo

«È impossibile rimpatriarele persone in questiluoghi. Non vedete cometutto è distrutto? Nelprimo trimestre diquest’anno, nella solaDobrinja abbiamo scovatosu 20’000 metri quadri di terreno 49 mine e 125 granate.»Jan Kölbel, artificiere,Sarajevo

«In Svizzera mi sonopreparatopsicologicamente alrientro in patria. Mirendevo conto chespesso qui non avreiavuto né acqua, néelettricità, che il 1° delmese non avrei ricevutosoldi e che sarebbe statofaticoso raggiungere undottore.»Fikreta Hadzimusic, 60 anni, Sarajevo

«Sono rientrato dallaSvizzera l’estate scorsaperché voglio morire nelmio paese.»Munira Alhumbabic, 72 anni, Tuzla

a riavere la propria casa, occupata durante la loro as-senza da profughi di un’altra regione del paese.«Potrebbero rientrare, ma preferiscono rimanere incittà, a Tuzla», dice Stana. «Abbiamo provato ditutto. Ci siamo rivolti al municipio, all’Alto com-missariato delle Nazioni Unite per i rifugiati(UNHCR), alla Polizia internazionale Task Force(IPTF) ; non hanno fatto che mandarci da una portaall’altra, e alla fine il denaro svizzero (una benedi-zione, dice Anna) è finito in spese giudiziarie e benidi prima necessità.» Fino ad oggi, malgrado lunghericerche e la loro disponibilità ad accettare qualsiasilavoro, né Stana, né Fahrudin sono riusciti a trova-re un impiego.

Opportunità di lavoro pressoché nulleChi ritorna in patria difficilmente trova lavoro. Lacosa non sorprende, se si pensa che la percentualedei disoccupati sfiora il 60 percento nellaFederazione ed è ancora più alta nella RepublikaSrpska. I rari bandi di concorso favoriscono inoltrecoloro che durante la guerra sono rimasti in patria.Economicamente non si muove quasi nulla, ma so-prattutto non vi è praticamente alcuna produzione.Le poche grosse industrie che prima della guerra of-frivano numerosi posti di lavoro nella campagna dellaBosnia-Erzegovina non hanno ripreso la loro atti-vità. C’è urgente bisogno di investimenti, che peròvengono bloccati da uno stato che non è ancora riu-scito a mettere in atto una politica di privatizzazio-ne. Le organizzazioni di aiuto mettono a disposizionecrediti per piccole industrie, e la DSC partecipa alprogramma della Banca Mondiale. Per poterne usu-fruire vengono richiesti progetti validi e una gran-de volontà di affermarsi. A volte è già chiedere trop-po ; creare un’impresa in condizioni così difficilicome quelle presenti in Bosnia-Erzegovina non ècosa da tutti.«Sono un buon operaio, un buon meccanico ; po-trei fare molte cose», dice Mladen Vukelic, rientra-to nella città natale di Banja Luka nella primaveradel ‘97. Anche lui non ha trovato nessun impiegonel suo ramo, l’elettromeccanica. Una propria azien-da con qualche dipendente resta per il momento sol-tanto un sogno: manca il capitale necessario, «alme-no 50’000 marchi». Benché rientrato da oltre unanno e senza molte prospettive, Banja, trentaquat-trenne padre di famiglia, resta fiducioso: «È la nostrapatria, e dobbiamo ricominciare da zero. Abbiamosolo bisogno di più coraggio. Ogni inizio è difficile.»Per alcuni sin troppo difficile. Come Mladen, ancheBranko appartiene all’etnia serba della popolazionebosniaca. Ha lasciato il paese subito dopo lo scop-pio del conflitto: «Questa guerra non mi ha mai in-teressato, e nemmeno tutto questo nazionalismo.Sono serbo, ma non ho mai avuto nessun motivo

per sparare a qualcuno». Con queste parole Brankogiustifica la sua fuga verso la Svizzera. Dopo un annopassato in un campo di accoglienza, Branko trovalavoro e un appartamento a Sempach. Qui conosceDragica, sua moglie, serba bosniaca in fuga dalconflitto. Loro figlio Aleksander ha appena quattromesi quando giunge l’avviso di espatrio per mammae bambino.

Fra speranza e rassegnazioneSfruttate tutte le possibilità di ricorso, nell’ottobredel ‘97 la giovane famiglia è costretta a congedarsidalla nuova patria, dove si sentiva perfettamente asuo agio. Impossibile rientrare a Vitez, città natia diBranko ; oggi come allora, per un Serbo è impossi-bile vivere in questa regione della Federazione.«Sono già stato cacciato una volta, e non voglio chela cosa succeda di nuovo.» Con la sua famiglia,Branko ha cercato di ricominciare una nuova vita aSvodna, città natale di sua moglie. Li hanno caccia-ti anche da qui, accusando Branco di diserzione, diavere abbandonato il suo paese nel momento in cuiaveva più bisogno di lui.Ora tutta la famiglia vive a Brcko, dove una busta-rella ha permesso loro di ottenere il permesso di do-micilio. «Sopravviviamo grazie al mercato nero.Acquisto sigarette e simili e rivendo la merce al mer-cato. È un’attività illegale.» Prima della guerra, du-rante l’estate Branko dirigeva un bar nel Monte-negro. In quel periodo se la cavava piuttosto bene.Oggi ha 34 anni, sua moglie 27. Sono stati cacciatidall’esilio ; in patria non vedono nessun avvenire.Anche loro pensano ormai di emigrare.«Molti dei nostri giovani si sono rassegnati. Nonhanno nessuna speranza, nessuna prospettiva.» Cosìsi esprime Miodrag Zivanovic, professore di filoso-fia e giornalista a Banja Luka. «Nella sola RepublikaSrpska sono state inoltrate oltre 20’000 richieste diemigrazione. La parte migliore della nostra popola-zione vuole andarsene: i giovani fra i 20 e i 40 anni,gli scolari, gli studenti, il ceto medio. Vogliono par-tire per l’America, la Nuova Zelanda, l’Australia.»Ma Miodrag Zivanovic ha ancora un barlume di ot-timismo. «Il tempo è la migliore delle medicine epermetterà a una nuova società di nascere. Il pro-cesso è molto lungo, e il cammino richiede moltaprudenza. L’importante è che la gente ritrovi il suoposto nel paese, soprattutto i profughi interni ; quel-li all’estero restano in secondo piano. Abbiamo bi-sogno di tempo», sottolinea Zivanovic. «Spero chela comunità internazionale concederà questo tempoa noi come ai rifugiati in occidente, che sarebbe me-glio non rimpatriare in massa già quest’anno. Nonsiamo ancora pronti.»

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Un impegno eccezionaleContribuendo con un aiuto globale di 61 milioni difranchi (pagamenti), la Svizzera si sta impegnando inmisura eccezionale per la ricostruzione della Bosnia-Erzegovina. Eccezionale non è soltanto l’ammontaredella somma, ma anche la stretta cooperazione dellediverse organizzazioni. Sotto l’occhio attento dellaDSC, innumerevoli istituzioni della Confederazione e

in Bosnia-Erzegovina: la prima all’arrivo nel paese,la seconda dopo sei mesi. Per ottenere gli aiuti, irimpatriati devono recarsi all’ufficio della DSCcompetente della loro regione e presentare idocumenti che attestano la residenza.La stessa somma messa a disposizione dall’«aiutoper il rientro volontario» (attualmente 30,5 milioni difranchi) viene stanziata per sostenere progetti alivello di strutture. Nei comuni che accolgono iprofughi provenienti dalla Svizzera vengono adesempio costruiti (o ricostruiti) ospedali, scuole eabitazioni. Ciò rappresenta un importante contri-buto alla ricostruzione di un paese distrutto dallaguerra. In questo modo si cerca anche di ridurre ladisparità di trattamento fra coloro che sono rimastie i profughi rientrati dalla Svizzera. Con altri progettisi cerca di agire a livello politico, di sostenere leelezioni, di incentivare la libertà di espressioneattraverso i media e di difendere i diritti dell’uomo.Progetti di tipo psicosociale intendono inoltrefavorire la reintegrazione sociale degli invalidi diguerra (vedi pagina 10). Oltre a ciò si cerca dimigliorare la situazione sul mercato del lavoro conprogrammi per la creazione di impieghi (soprattuttonel settore agricolo) e con la distribuzione di piccolicrediti.

organizzazioni non governative collaborano negliambiti più disparati in modo così stretto che si può,senza ombra di dubbio, parlare di programmagenerale gestito dal nostro paese. Gli aiuti sono voltia sostenere lo sviluppo di una società democratica,a migliorare le infrastrutture, a creare spazi abitativi eimpieghi e a migliorare l’accesso all’educazione ealla sanità.Una forma particolare di sostegno è l’«aiuto per ilrientro volontario». Durante la guerra circa 30’000profughi hanno trovato un rifugio provvisorio nelnostro paese. Oggi queste persone devono rientra-re. La Svizzera li sostiene però finanziariamente,consegnando loro un piccolo capitale di partenza,indispensabile per ricominciare una nuova vita. Ogniadulto riceve 4’000 franchi, i bambini 2’000. Ognifamiglia o persona sola riceve inoltre un contributounico di 1’000 franchi per il suo sostentamento. Ildenaro viene corrisposto in due rate, direttamente

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L’orrore ha radici profonde e non ti lascia tregua. Disperazione,angoscia, in un presente nel quale non ti ci raccapezzi più. Dal1996, la DSC sostiene in tutta la Bosnia-Erzegovina svariatiprogetti psicosociali volti a sdrammatizzare le conseguenzedella guerra. Due esempi.

«Ci avessero ammazzatesubito: almeno nonavremmo dovutosopportare tutto ciò!»Ireta Alihodzio, Simin Han

(gn) Le rovine sulle quali una volta sorgeva laBiblioteca Nazionale di Sarajevo sono un avverti-mento che ricorda l’inconcepibile. Chiazze rossesull’asfalto del centro commerciale in ricordo alle vit-time. Targhe, corone, candele, luci ovunque... IretaAlihodzio non avrà mai bisogno di simili monu-menti. Con altre 21 donne e 56 bambini vive in uncentro a Simin Han, nel sobborgo di Tuzla. Qui haimparato e continua lentamente ad imparare a convi-vere con il ricordo della guerra, a superare quei mo-menti e a costruirsi un nuovo presente, nel limitedel possibile. Ireta è soltanto una fra le migliaia didonne di Srebrenica a non avere più notizie del ma-rito e dei figli dall’estate del 1995. Sono sicuramen-te stati uccisi, massacrati - ma oggi ancora Ireta nonne ha la certezza. Continua perciò a sperare, proba-bilmente contro ogni logica. «Se ripenso a ciò cheè successo, so che non potrei sopportarlo una se-conda volta», dice un’altra donna, fuggita con Iretada Srebrenica e che oggi vive a Simin Han. «Vediuccidere tuo marito, deportare i tuoi figli - e nonpuoi fare nulla.» Ireta aggiunge che oggi, dopo tuttoquello che hanno vissuto, non si considerano piùdegli esseri umani normali: «Sarebbe stato meglio seavessero ucciso subito anche noi.»Le donne affermano di essere state molto aiutatedallo psichiatra, dall’assistente sociale, ma soprattut-to dalla direttrice del centro cofinanziato dalla CroceRossa Svizzera (CRS) e dalla DSC. Durante il primoanno lo psichiatra era impiegato dal centro a tempopieno e ogni giorno le donne disponevano della suaassistenza. L’obiettivo del progetto era quello di ela-borare le basi per una nuova esistenza, in un am-biente completamente diverso e con ruoli socialinuovi. Michaela Dzendo, collaboratrice della CRS,descrive la difficile situazione delle donne diSrebrenica: «Non conoscevano che la loro vita dicontadine e si identificavano soltanto rispetto al ma-rito e nella famiglia. Improvvisamente si sono ritro-vate sole con i figli, senza un uomo e in un ambienteurbano.» La seconda fase del progetto comprende ilreinserimento accompagnato di queste donne in unarealtà quotidiana indipendente da istituzioni. Entrola fine del ‘98 il progetto dovrebbe concludersi, econ esso terminerà probabilmente anche il sostegnosvizzero.

Il centro offre corsi per imparare a intrecciare tap-peti e un apprendistato per parrucchiere. Benché lapartecipazione delle donne sia molto attiva, e mal-grado il grande interesse dimostrato, la maggior partedi loro sono oggi ancora ben lungi dal poter affron-tare il quotidiano senza il sostegno di terzi. MichaelaDzendo esprime la sua preoccupazione: «Oggi comeoggi, se abbandonate a se stesse, probabilmente que-ste donne si ritroverebbero in poco tempo nelle stes-se condizioni dalle quali sono riuscite a sfuggire fa-ticosamente in questi due anni.» Michaela Dzendonon osa nemmeno immaginare quello che potreb-bero divenire le 21 donne del centro se il progettodovesse effettivamente essere concluso alla finedell’anno.

Congedati e perdutiNell’odierna Bosnia-Erzegovina i ricordi di guerratraumatici, le incertezze e gli sradicamenti sono moltodiffusi. Persino chi non ha vissuto situazioni così e-streme, come i profughi di Srebrenica, è vittima delleconseguenze della guerra, che non riesce a gestire dasolo. Numerose istituzioni e organismi offrono per-ciò un sostegno psicosociale. Oggi le persone più arischio sono i soldati dimessi dal servizio militare.Molti di loro considerano la situazione peggiore chedurante il conflitto. Lo psicologo Salih Rasavac parladi un «trauma da pace»: i soldati, spesso molto gio-vani, hanno messo in gioco la loro vita per un obiet-tivo che non hanno raggiunto - e si sentono perciòtraditi e ingannati. Molti di loro hanno interrotto glistudi o una formazione e oggi si ritrovano di fronteal nulla, mentre chi rientra dall’estero ha migliori op-portunità per ricominciare, se non altro a livello fi-nanziario. Molti si ritrovano in famiglie completa-mente stravolte: la donna, che durante l’assenza delmarito doveva occuparsi di tutto, è ormai più eman-cipata. Al loro ritorno, i soldati si ritrovano senza unlavoro e non vedono alcuna prospettiva per il futu-ro. «Il numero dei suicidi è aumentato drasticamen-te», afferma Salih Rasavac, «così come l’alcolismo».Rasavac dirige il progetto Corridor, che offre un so-stegno psicosociale ai soldati smobilitati. La psichia-tra e gli psicologi lavorano con questi uomini sia interapie individuali, sia in terapie di gruppo, cui par-tecipa spesso anche la moglie o l’intera famiglia.

La vita continua -

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«Oggi la situazione è piùdifficile che durante laguerra: se non altro alfronte sapevamo chi era ilnemico, mentre oraviviamo in un’incertezzache non siamo in grado dicombattere.»Salih Rasavac, CorridorSarajevo

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Il cammino lungo una vita di tutti i giorni, nuova econdotta in una specie di normalità, è estremamen-te irto di ostacoli. In simili condizioni economichee sociali ogni nuovo inizio sembra destinato al falli-mento. Nell’attuale Bosnia-Erzegovina, ogni pro-getto psicosociale significa - e deve rendere possibi-le - la ricostruzione di vite distrutte, grazie a un’in-tensa assistenza e a un lungo accompagnamento

delle persone che hanno più difficoltà di altre in unpaese che incomincia soltanto adesso a riprendersidagli orrori della guerra.

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con i ricordiBosnia

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Pochi sono i media che in Bosnia-Erzegovina si impegnanoper l’unità politica del paese. Il loro messaggio raggiungeeffettivamente il pubblico mirato o rimane una voce neldeserto?

(gn) Musica e svago ; nulla di impegnativo, e so-prattutto niente politica. Basta tendere le orecchieun po’ ovunque per rendersi conto di cosa si aspet-ta la gente dai media in Bosnia-Erzegovina, in primoluogo da radio e televisione: distrazione e diverti-mento. «Dopo quello che abbiamo attraversato,questa è una reazione del tutto comprensibile» diceRale Tatarevic, direttore tecnico dell’emittente pri-vata Nezavbisna televijzia di Banja Luka. Su ciò nonha niente da ridire nemmeno Andrej Smudis, diret-tore dei programmi di Radio FERN. Benché sirenda benissimo conto che soltanto una piccola fettadella popolazione ascolta le sue trasmissioni, Andrejpunta consapevolmente su una via diversa e mettel’accento sull’informazione politica e su trasmissio-ni di fondo che trattano temi di stretta attualità, comeil processo di democratizzazione, i diritti dell’uomo,la ricostruzione o il problema dei rifugiati.

Un progetto elveticoLa sigla FERN sta per Free Elections Radio. Avviataa tempo record grazie a un’iniziativa svizzera e al so-stegno finanziario e di personale del nostro paese, dal

15 luglio 1996 FERN trasmette via etere in tutta laBosnia. L’obiettivo era quello di offrire un’infor-mazione onesta e neutrale in vista delle elezioni delsettembre 1996, e di dare a tutte e tre le parti (Croati,Musulmani e Serbi) la possibilità di esprimersi. Leelezioni locali sono poi state riportate di un anno,ragione per cui la DSC, in collaborazione conl’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazionein Europa (OSCE), ha deciso di prolungare il so-stegno al progetto Radio FERN. L’emittente è lasola a trasmettere praticamente in tutto il paese, sianella Federazione croato-musulmana, sia nellaRepublika Srpska. «È importantissimo offrire un’in-formazione neutra e professionale.» Così AndrejSmudis giustifica l’esistenza di Radio FERN che,nella giungla delle innumerevoli emittenti sorte inBosnia-Erzegovina alla fine del conflitto, non puòcerto contare su un elevato numero di ascoltatori.Per il suo direttore è però sufficiente che un pub-blico scelto e interessato sappia di poter contare suun’informazione affidabile ; la radio delle elezionidovrà perciò continuare ad esistere al di là delprossimo appuntamento con le urne. Entro la fine

Il giornalismo

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dell’anno l’emittente informativa dovrebbe passaresotto la responsabilità dei Bosniaci, e a lungo termi-ne Radio FERN essere privatizzata.

Carenza di giornalistiIl vero grosso problema cui deve confrontarsi nonsoltanto Radio FERN, ma ogni media della Bosnia-Erzegovina, è rappresentato dalla carenza di giorna-liste e giornalisti professionisti. I redattori capo si la-mentano della partenza all’estero di molti giornali-sti con un’ottima formazione - oppure della loroscomparsa. Il rinomato quotidiano Oslobodjenje(Libertà) è l’unica eccezione: nella Sarajevo occu-pata, in una situazione ostica, il giornale è stato pub-blicato tutti i 1367 giorni del conflitto, senza ecce-zione. Redattore capo della stessa équipe di allora,Mehmed Halilovic si sforza ancora oggi di diffon-dere in tutto il paese notiziari politici neutrali, e an-cora una volta le condizioni di lavoro sono estre-mamente difficoltose. Le conseguenze della guerrapesano sul quotidiano che, fortemente indebitato (ildisavanzo supera i 4 milioni di marchi), non paga glistipendi da oltre 3 mesi. La situazione preoccupamolto Halilovic ; il capo redattore teme che ancheil giornalismo professionale della sua redazione possaun giorno scomparire. Il problema non può essererisolto vendendo la testata, poiché non sono chiarii termini di appartenenza del giornale. SecondoHalilovic la situazione è drammatica, ma spera ancorain una rapida e positiva soluzione per il più vecchioquotidiano del paese.

Una voce nel deserto?Giornali e riviste non mancano di certo, soprattut-to nelle grandi città. Il boom ha investito anche imedia elettronici: sono circa 150 le stazioni radio e76 le TV che trasmettono in un paese che conta sol-tanto 3 milioni di abitanti. Ad esse si aggiungonomedia internazionali quali Radio Free Europe o laBBC, così come emittenti di stato e nazionalisticheche trasmettono dalla vicina Croazia e dalla Iugo-slavia. Nella grande massa pochi sono i media che,come Radio FERN o il quotidiano Oslobodjenje,si dedicano all’equilibrio politico del paese e si sfor-zano di migliorare la situazione, anche nellaRepublika Srpska. Miodrag Zivanovic, redattorecapo, ha cercato di sedare gli animi attraverso la suarivista Novi prelom, primo settimanale indipenden-te fondato a Banja Luka durante la guerra. Il concet-to della Novi prelom è quello di dialogare e diffon-dere la tolleranza per un futuro di normalità. «Facilea dirsi», relativizza Miodrag Zivanovic. «Le condi-zioni attuali della nostra società permettono difficil-mente di aprirsi un varco fra il pubblico. Per rag-

giungere la gente e trasmettere il proprio messaggiodobbiamo ormai fare ricorso a vicende impregnatedi populismo.» Zoran Kalinic, direttore fondatoredella Nezavisna televijzja, non deve confrontarsicon problemi del genere. La sua emittente è infattimolto seguita - e ha già anche dato il suo contribu-to alla storia. Durante le dimostrazioni tenutesi sullapiazza antistante la redazione, contro il vecchio go-verno della Republika Srpska, la Nezavisna televij-zia propose ore e ore di trasmissione in diretta.Kalinic ha anche ospitato in studio il politico dell’op-posizione e attuale presidente Dodik - per pocol’azione non costò al redattore in capo il posto di di-rettore di assicurazione. È però sempre pronto acombattere per la pace e ad assumersi ogni rischio:«Nelle nostre trasmissioni dobbiamo essere in gradodi discutere apertamente i problemi politici.Abbiamo parecchie responsabilità nei confronti deinostri telespettatori ; dobbiamo guardare avanti e faredi tutto affinché nel nostro paese la gente possa ri-trovarsi, invece di continuare a vivere in ghetti se-parati!». Per questo, Kalinic ha sottoscritto uncontratto di cooperazione e scambio di programmicon una stazione televisiva di Sarajevo: nelle condi-zioni attuali si tratta di una mossa coraggiosa, e nes-suno si è degnato di incoraggiare né lui né il suo part-ner contrattuale nella Federazione. La strada è an-cora lunga...

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per combattere odio e sobillazioni

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«Palestinese conpassaporto giordano ecarta d’identità diGerusalemme»: così Lili Labib Feidydefinisce la suanazionalità. Dottoressain linguistica, Lili LabibFeidy ha insegnato perotto anni e fino al 1996all’Istituto di lingua ecultura inglesidell’Università di Birzeit,in Cisgiordania, inqualità di professoreassistente. Dal 1996 èDirettrice Generale per lerelazioni internazionali eculturali al Ministerodell’educazionesuperiore di Ramallah.

Quando scoppiò la guerra del ‘67, avevo appena tre-dici anni. Quell’anno, dalla riva occidentale, Israeleoccupò la striscia di Gaza. Per me era difficile capi-re il perché e il percome della nostra sconfitta. I gran-di non riuscivano a dare una risposta alle nostre do-mande curiose riguardo alla situazione; le spiegazionierano sempre ambigue, come se si vergognassero diammettere - o di confessare - di avere fallito per bendue volte nell’arco della loro esistenza: nel 1948 enel 1967.Noi della giovane generazione decidemmo di por-tare a buon fine quello che la vecchia generazionenon era stata in grado di fare: la Palestina divenneper tutti noi un sogno e una realtà. Il sogno di unapatria doveva divenire realtà, doveva trovare la suaespressione in noi. Una parte di responsabilità degliinsuccessi era dovuta al fatto che, da sempre, noiPalestinesi siamo stati osservati, discussi e rappre-sentati da altri, in ogni occasione, forma o espres-sione, e che ci è sempre stato negato il diritto di rap-presentarci. C’è stato e c’è ancora il bisogno di crea-re uno spazio, un territorio libero o potenzialmentelibero, e di rappresentare noi stessi in un paese chesia in grado di difendersi politicamente e cultural-mente contro la dominazione straniera.La Palestina, sogno e realtà, è là fuori che parla dasé. Decenni di giustizia repressa e l’impossibilità direcuperare i nostri diritti non hanno né modificatola verità, né sono serviti a cambiare i fatti, e non sononemmeno riusciti a distruggere il sogno. I fatti sonolì da vedere ; bisogna affrontare una realtà che nonpuò essere né mutata né ignorata. Se oggi la realtà èun’altra, questo sogno è forse irreale? Se realtà equi-vale a fatti, questo sogno è forse una menzogna per-ché non è un fatto concreto?È molto doloroso pensare alla Palestina come ad unsogno e nel contempo ad una realtà, mentre la mag-

gior parte dei Palestinesi sono a tutt’oggi profughi,esiliati e ridotti al silenzio. Come posso, possiamo,possono pretendere di essere la voce autorevole dellanostra realtà? Incoronati senza regno, rischiamo divenire dispersi e messi a tacere come sotto il domi-nio di un patriarcato, come nel vecchio e nel nuovoordine mondiale. Le discussioni sul nuovo ordinemondiale - vittoria sull’Oriente compresa - rendo-no più difficile tracciare i limiti. Al di là «del bene edel male», in una simile telenovela politica è ormaipiuttosto difficile capire «chi è chi».Dobbiamo fare appello alla prudenza e percorrereuna linea sottile per non cadere nella trappola. Dobbiamo aumentare il nostro livello di consape-volezza e pensare in termini di creatività, ispirazio-ne, desiderio e critica, al fine di rendere sospetto ildiscorso dell’ordine dominante. Proporre modi al-ternativi di esprimersi e di vedere è segno inequi-vocabile di un’attività culturale e politica.Questa attività dovrebbe contribuire a sviluppare lacoscienza di ogni Palestinese, affinché ognuno di noiassuma una propria funzione attiva e produttiva nelmanifestare la verità e realizzare il sogno.

P a l e s t i n aF r a s o g n o e r e a l t à

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La Palestina è anzitutto il sogno sfocato di un popolo senzaun preciso futuro. Infatti cos’è o, meglio, dov’è la Palestina? Esoprattutto: a chi appartiene la Palestina? E ancora: qualePalestina? Uno sguardo al passato e alla situazione attualepuò forse darci qualche indicazione. Di Diego Yanez*.

«Dio sia con te» – l’anziana donna sollecita lo stra-niero a entrare nella sua modesta capanna. Le suemani nodose frugano nella cassapanca colma di ri-cordi dolorosi, lettere, documenti, fotografie ingial-lite. E cercano soprattutto una chiave, una chiavelunga venti centimetri e molto pesante. «Guarda unpo’ qui», dice mostrando la chiave che come nientealtro al mondo simboleggia il suo destino e il desti-no del suo popolo. «Me lo ricordo come se fosse ieri.Cadevano le bombe. Le case crollavano. Si respira-va la morte. Per un attimo ho pensato: ora tocca ate! E poi un frastuono infernale. Mi pareva che fossestata colpita la casa vicina. Dovevo fuggire, e subito.Ma non senza prima aver chiuso la porta. Ecco: que-sta è la chiave», dice con una voce dal tono grave.Tutto ciò successe ben cinquant’anni fa, quando erauna giovane madre e gli israeliani attaccarono il suopiccolo villaggio a nord di Ashkelon durante la primaguerra arabo-israeliana. Ha già raccontato la sua sto-ria migliaia di volte, sempre con la stessa affermazio-ne conclusiva: «Magari mi riterrete matta, ma ungiorno ritornerò nella mia casa. Aprirò la porta e dirò:eccomi di nuovo qua.» Da quei giorni vive con i suoifigli e i suoi nipoti nel campo profughi Jabalia, nellastriscia di Gaza. Qui, dove l’esodo fa parte del trau-ma collettivo, sono in molti a sognare il rientro neipropri villaggi: tutte località situate entro i confini,internazionalmente riconosciuti, di Israele.

Anche la vecchia donna racconta del suo villaggio.Ma non menziona il fatto che non esiste più dacinquant’anni. Dove una volta si trovava la sua casa,oggi crescono gli eucalipti. La stessa sorte si abbatté sualtri quattrocento villaggi: furono rasi al suolo ecentinaia di migliaia di persone conobbero il destinodegli esiliati. Questo fu il prezzo che i palestinesipagarono per la nascita di Israele.

Un trauma collettivoLa perdita della patria, connessa con la nascita diIsraele, è chiamata «nakba», catastrofe. Solo chi l’hadinnanzi agli occhi può capire che cosa significhi laPalestina, può tentare di definire anche geografica-mente il paese. La Palestina è tuttora soprattutto unsogno collettivo dai contorni sfocati, anche perchéi palestinesi hanno da lungo cessato di essere un po-polo unito. Gli 800’000 palestinesi residenti in Israelehanno poco in comune con gli 1,7 milioni dellaWestbank (inclusa la Gerusalemme orientale). Anchei legami tra gli oltre 900’000 della striscia di Gaza ei 4,7 milioni sparsi ovunque nel mondo si indebo-liscono di anno in anno. Il sogno di un proprio statoè diventato così il minimo comune denominatore.Ma allora: com’è questa Palestina, dove incomincia,e dove sono le sue frontiere? L’anziana donna diJabalia direbbe: «La Palestina è lì dove hanno vissu-to i nostri avi.» Ciò corrisponderebbe alla Palestina

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Fatti e cifre(per Palestina si intende laWestbank con la Gerusalemmeorientale e la striscia di Gaza)

Superficie totale:6’170 km2

Popolazione:2,7 milioni– sotto i 15 anni 44 percento– crescita demografica

5 percento/anno– densità della popolazione

370 individui per km2(striscia di Gaza: 4’152/km2)– mortalità infantile circa

33 per 1000 nascite– tasso di analfabetismo circa 25

percento– distribuzione della popolazione

50 percento in aree rurali36 percento in città e agglomerati urbani14 percento in campi profughi

Religione:– islam 97 percento– cristianesimo 3 percento

Economia:– reddito pro capite

1’800 dollari all’anno– struttura economica

agricoltura 35 percentoedilizia 13 percentoautorità 11 percentoindustria 7 percentoaltro 34 percento

– esportazioni270 milioni di dollari all’anno

– importazioni1’094 milioni di dollari all’anno 16

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sotto il mandato britannico fino al 1948, l’anno difondazione dello stato israeliano. Ma questa è al mas-simo una visione romantica, ben lontana dalla realtà.Laddove le case dei palestinesi ci sono ancora, vi-vono oggi degli ebrei immigrati dallo Yemen, daNuova York o dalla Polonia. E sui campi dei pale-stinesi lavorano oggi i trattori dei kibbutz. Israele,nelle frontiere internazionalmente riconosciute, siestende sui tre quarti dell’originale Palestina. Per ipalestinesi rimane oggi al massimo un quarto del ter-ritorio, comprendente la Westbank e la striscia diGaza. Ma anche di questo non hanno certezza.Contro il completo sgombero di questi territori,Israele fa valere la propria sicurezza e la presenza dioltre 150’000 coloni ebrei. Oggi i palestinesi godo-no di autonomia amministrativa solo per circa il 30percento dei territori occupati da Israele, ossia perla Westbank e la striscia di Gaza. Yassir Arafat e lasua Organizzazione per la liberazione della Palestina(OLP) controllano perciò nettamente meno del 10percento della Palestina originale.E non è tutto. I territori palestinesi autonomi si pre-sentano come dei pezzetti dispersi sopra la Westbanke la striscia di Gaza. Chi vuole recarsi da Ramallaha Nablus oppure da Betlemme a Hebron deve at-traversare terre occupate dagli israeliani. Quando ibisogni di sicurezza di Israele lo richiedano, gli is-raeliani sbarrano l’accesso ai territori o limitano iltraffico. Con le frontiere chiuse, il risultato è che iprodotti agricoli deperiscono prima di essere espor-tati e che i floricoltori danno in pasto alle capre lerose e i gladioli destinati al mercato europeo. Maanche il lavoro sui cantieri si arresta per mancanzadi mattoni e di cemento.Neppure a farlo apposta, sono l’agricoltura e la co-struzione ad essere colpite, ossia i settori chiavedell’economia palestinese, quelli che contano il mag-gior numero di persone occupate. Per la sopravvi-venza dei palestinesi l’aiuto internazionale diventadunque sempre più importante. Questo denaro è in-vestito prevalentemente in progetti infrastrutturali esociali. Una sospensione dell’aiuto produrrebbe in-evitabilmente un collasso, con conseguenze impre-vedibili per tutta la regione.

Le frustrazioni uccidono la speranzaCiò che vale per i prodotti e le materie prime, valeanche per le persone. Chi vuole recarsi da Gaza allaWestbank può farlo solo con l’autorizzazione degliisraeliani. Anche chi si muove all’interno dellaWestbank può farlo solo se è tollerato dagli occu-panti. In simili circostanze, i territori autonomi pa-lestinesi altro non sono che degli immensi ghetti conuno standard di vita in caduta libera e una disoccu-pazione al rialzo (40 - 50 percento). Il risultato ditali sviluppi è devastante: rafforza infatti la fazione

radicale degli oppositori alla pace. Gli hamas islamistipolemizzano apertamente contro il dialogo conIsraele e sabotano con micidiali attentati dinamitar-di quanto ancora rimane del processo di pace. Lefrustrazioni dei palestinesi sono tuttavia alimentateanche dall’incapacità dei loro propri leader. Sonoormai lontani i giorni in cui Yassir Arafat rientravada eroe trionfante in Palestina dopo l’esilio inTunisia.Le ex carceri militari israeliane, situate nelle città oggiautonome, sono nuovamente sovraffollate. Le guar-die israeliane hanno ceduto il posto a quelle pale-stinesi. Qual è la differenza? Le nuove guardie ri-spettano ancor meno i diritti umani e i loro metodidi tortura sono ancora più brutali. Una persona gra-vemente maltrattata ha detto: «Sai, se ti tortura unisraeliano ne vai persino un po’ fiero. Racconti atutti: guardate in che modo mi hanno conciato. Mase ti tortura tuo fratello provi un dolore che non sicancellerà mai.»Il fatto che i liberatori di ieri siano diventati gli op-pressori di oggi ha privato molta gente della speran-za in un futuro migliore, facendola piombare in unaprofonda depressione. Ai tempi dell’Intifada, neiterritori occupati c’erano loro (gli israeliani) e noi (ipalestinesi), il bianco e il nero, e la diffusa speranzache la lotta di strada condotta dalla gioventù pales-tinese sfociasse nella liberazione e nella nascita di unproprio stato nella Westbank e nella striscia di Gaza.Oggi non vi è più né il bianco né il nero, ma solotoni di grigio. L’unica formazione capace di scuo-tere le masse nel loro torpore e di entusiasmarle conla sua visione nazionalista e sanguinaria è Hamas: unpessimo presagio per il futuro della Palestina.

* Diego Yanez è redattore del programma informativo«10 vor 10» e fu corrispondente da Gerusalemme per laTelevisione svizzera di lingua tedesca fino alla fine del1997.

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la nostalgia di un proprio stato

Giordania

Palestina(Westbank)

Mediterraneo

Tel Aviv

Gerusalemme

Gaza

Egitto

Siria

Libano

Israele

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(bf) Durante il suo viaggio nel Vicino oriente, com-piuto nel maggio di quest’anno, il presidente dellaConfederazione Flavio Cotti ha visitato anche i ter-ritori autonomi palestinesi. La Svizzera vi sta realiz-zando dal 1993 un programma quinquennale, chedurerà ancora fino alla fine di quest’anno, per unaspesa di 60 milioni di franchi. Essa prevede già difornire ulteriori aiuti all’incirca della stessa entità.Dal 1994 la DSC dispone di un ufficio di coordina-zione, rispettivamente di un ufficio di collegamen-to con le autorità autonome palestinesi. Di comuneaccordo sono stati fissati i settori prioritari e si sonoidentificati i progetti da realizzare per l’attuale pro-gramma. La visita di Flavio Cotti ha rafforzato la col-laborazione e ha consentito di inserire taluni pro-getti (profughi, acqua, ambiente) in un piano re-gionale e in un processo di pace multilaterale.

I punti essenziali della cooperazione svizzera allo svi-luppo sono:- Cooperazione con le autorità autonome pa-lestinesi. La Svizzera cura, insieme all’Unione eu-ropea (UE), un programma per il reinserimentoprofessionale di ex prigionieri politici. Il progettodeve sostenere circa 20’000 palestinesi nello sforzodi ritrovare una loro collocazione nella società. Altriprogetti vengono realizzati nei settori: formazioneprofessionale, statistica della popolazione, acqua po-tabile e acque luride, protezione dell’ambiente e cen-tri giovanili.- Cooperazione con la Banca mondiale. I pro-getti sostenuti comportano il finanziamento di peri-ti tecnici che preparano e realizzano progetti, la ga-ranzia di copertura dei costi correnti nella fase ini-ziale e il miglioramento delle infrastrutture allo scopodi migliorare le condizioni di vita della popolazio-ne palestinese.- Programma delle ONG abbinato a proget-ti per promuovere il rispetto dei diritti umani.La Svizzera collabora da anni in modo proficuo conorganizzazioni palestinesi attive nel settore dei dirit-ti umani, nella cooperazione tecnica e nell’aiutoumanitario. L’obiettivo primario è creare una societàpluralistica.- Progetti multilaterali regionali. Nell’ambitodel processo multilaterale regionale di pace, laSvizzera finanzia un piano d’azione per la lottacontro la desertificazione (Palestina, Giordania,Israele). In base al mandato affidato alla Svizzera, chele chiede di far valere nei gruppi di lavoro esistentila nozione della «dimensione umana», la Divisionepolitica IV del Dipartimento federale degli affariesteri (DFAE) cerca di identificare possibili progetti.

Svizzera e Palestina: moltiprogetti inseriti in unprocesso di pace multilaterale

Storia

63 a.C.

324 d.C Dominazione romana.

324-638 Dominazione bizantina.

636 Inizio della conquista islamica della Palestina.

1099 I crociati conquistano Gerusalemme e si stabili-

scono in vaste aree della Palestina.

1265 I mammalucchi invadono la Palestina e

incominciano a scacciare i crociati.

1516 La Palestina è conquistata dai turchi e viene

integrata nell’Impero ottomano. È parte della

provincia di «Siria».

1882 Prima ondata di immigrazione ebraica in

Palestina.

1904-1914 Seconda ondata di immigrazione ebraica in

Palestina.

1917 L’Impero ottomano viene smembrato. La

Società delle Nazioni pone la Palestina sotto

il mandato britannico.

1919-1948 Aumentano le immigrazioni generalmente

illegali di ebrei.

1936 Rivolta della popolazione araba della Palestina

contro gli immigranti ebrei.

1947 Le Nazioni Unite presentano un piano secondo

il quale la Palestina dovrebbe essere divisa in

uno stato ebraico e in uno stato arabo. Mentre

gli ebrei accettano tale piano a debole maggio-

ranza, esso è respinto con decisione dagli arabi.

1948 David Ben Gurion proclama in Palestina lo

stato di Israele. Scoppia la prima guerra arabo-

israeliana. Israele esce da questa guerra con le

sue frontiere odierne, riconosciute dalla

comunità internazionale. La Westbank e la

Gerusalemme orientale sono assegnate alla

Giordania, la striscia di Gaza all’Egitto.

1967 Guerra dei Sei Giorni. Israele occupa la

Gerusalemme orientale, la Westbank e la striscia

di Gaza, le alture del Golan e il Sinai.

1973 Guerra del Yom Kippur.

1987 Inizio dell’Intifada.

1993 Riconoscimento reciproco di Israele e dell’OLP

nel cosiddetto Trattato di Oslo. Il processo di

pace prende avvio.

1994-1997 I terroristi islamici si oppongono al processo di

pace compiendo attentati dinamitardi contro la

popolazione civile israeliana. Parti della striscia

di Gaza e della Westbank diventano territori

palestinesi autonomi.

1995 Un ebreo fanatico uccide Itzhak Rabin allo

scopo di arrestare il processo di pace.

1996 Benjamin Netanyahu esce vincitore dalle

elezioni israeliane con la promessa di impedire

la nascita di uno stato palestinese.

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Un oggettosignificativo nella vitaquotidianaKefiyah – simbolo diribellione e accessoriodi modaChi non conosce la ke-fiyah, il copricapo che, alpari della barba, accom-pagna immancabilmente ilpersonaggio di YassirArafat? Ciò che da noi si èimposto soprattutto neglianni Settanta quale ac-cessorio di moda politica-mente corretto, ossia ilpanno dei palestinesi,nella Palestina stessa èben più di un semplicecopricapo o foulard. Chiporta una kefiyah profes-sa con consapevolezza eorgoglio la sua apparte-nenza. Certamente indi-menticabili sono rimastele immagini dei ragazzidell’Intifada che, sprez-zanti della morte, affronta-vano i soldati israeliani ar-mati di pietre e camuffatisotto la kefiyah. Di questopanno hanno fatto il sim-bolo della ribellione.Giovani e vecchi, in città ein campagna, molti pales-tinesi portano ancor oggila kefiyah con la natura-lezza con la quale noiindossiamo la sciarpa.

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L’opinione della DSC

Lo scorso mese di maggio, India e Pakistan hannocompiuto diversi test nucleari. Da allora è lecitochiedersi se lo stato debba sostenere paesi in viadi sviluppo in possesso di armi atomiche. Una cosaè certa: fondi destinati all’aiuto allo sviluppo nondevono essere forviati a fini militari. A prescin-dere dal fatto che ciò è garantito per gli aiuti pro-venienti dalla Svizzera, le seguenti riflessioni fannoda filo conduttore alla nostra decisione di pro-lungare la cooperazione con entrambi i paesi. In primo luogo, sia in India che in Pakistan, la po-vertà è ancora oggi estremamente diffusa: una per-sona su tre vive nella miseria più assoluta. Se venis-sero a mancare gli aiuti esterni, i più colpiti sareb-bero principalmente coloro che comunque nongodono di nuove opportunità. Ciò concerne se-gnatamente l’Aiuto svizzero allo sviluppo: il 90 per-cento viene infatti distribuito a organizzazioni al ser-vizio dei meno abbienti, oppure a sostegno di pro-getti di stati membri. Se la Svizzera si tirasse indietro,a risentirne non sarebbero né i governi centrali, néi militari, bensì i più poveri.In secondo luogo è necessario riflettere sul seguen-te punto: nei paesi industrializzati, i contribuenti chegrazie al loro sostegno solidale aiutano ad alleviarela miseria si aspettano (è loro pieno diritto) che i go-verni si assumano appieno la responsabilità neiconfronti delle categorie sociali più deboli. La co-munità internazionale deve rammentarlo incessan-temente ai paesi beneficiari, i cui sforzi dovrebbero

essere commisurati alla volontà di assumersi le pro-prie responsabilità. La Svizzera si impegna anche inquesto senso.La decisione del Consiglio Federale di ridurre, peril periodo 1998/99, di circa 3 milioni di franchil’aiuto allo sviluppo in favore dell’India e di 1,5 miodi franchi quello in favore del Pakistan deve esserevalutata in quest’ottica. Inoltre, DSC e UFEE stan-no riconsiderando gli obiettivi dei loro programmie non accettano per il momento nessun nuovo pro-getto in collaborazione con i governi centrali. Inquesto modo diamo loro un segnale ben preciso - enel contempo permettiamo alle società civili diconsolidare a lungo termine le basi delle loro de-mocrazie. In questo senso lavoriamo a stretto contat-to con altri paesi e con organismi internazionali.Congelare la cooperazione allo sviluppo non è unarisposta sufficiente a risolvere i problemi di sicurez-za di una regione. Ci vuole di più, ci vuole un dia-logo internazionale e molta forza di persuasione.L’obiettivo della cooperazione allo sviluppo è e restala responsabilità nei confronti dei più bisognosi, siada parte dei paesi partner sia da parte nostra.

Walter FustDirettore della DSC

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Nel rispetto delleresponsabilitàverso i più poveri

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Una società pakistana di leasing si è lanciata in un settorereputato a rischio: quello delle piccole e piccolissime imprese.Ha iniziato nel 1995 nel porto di Karachi, finanziando l’acquistodi pescherecci. Con l’aiuto della DSC estende ora la propriaattività nel Nord del Pakistan. Di Jane-Lise Schneeberger.

Dopo aver servito i pescatori di Karachi, la NetworkLeasing Corporation (NLC) ha stipulato contratticon 500 altri piccoli imprenditori di quella regione.Tra questi, Jahanzeb aveva bisogno di una motoci-cletta per andare a vendere i suoi utensili d’occasio-ne di mercato in mercato, Javaid d’un frigorifero perconservare il latte indispensabile per la sua piccolabancarella del tè. Tariq ha invece sostituito il vec-chio tornio della sua officina di meccanica. La NLCha fatto uno sforzo particolare per promuovere l’im-prenditoria femminile. Ha consentito così a Salmadi aprire un salone da estetista e da parrucchiera, no-leggiando le attrezzature basilari e il mobilio. Jamila,che gestisce un negozio di alimentari, ha potuto pro-curarsi un frigorifero per conservare le derrate de-peribili e i medicinali.Il Pakistan conosce il leasing da soli undici anni, masono già 33 le società attive in questo settore. Quasitutte diffidano dei piccoli contratti, troppo costosiin termini di spese amministrative e, apparente-mente, troppo rischiosi. La NLC ha dimostrato cheuna società poteva reggersi bene sul mercato ancheoperando con una clientela più che modesta. Il suotasso di rimborsi supera infatti il 98%.Questa società vuole pure rafforzare un settore vi-tale dell’economia. La maggior parte dei piccoli im-prenditori sono analfabeti, non hanno alcuna for-mazione tecnica e il loro reddito è derisorio. La NLCconstata nondimeno nel suo rapporto annuale che

forniscono beni, servizi e anche lavoro alla stragrandemaggioranza della popolazione.Per tradizione, i piccoli imprenditori in cerca di fi-nanziamenti si rivolgono a creditori privati, arri-schiando magari di pagare fino al 180 percento diinteresse all’anno. Non hanno praticamente nessu-na possibilità di ottenerli presso le banche commer-ciali, le quali non si interessano del micro-credito eper di più chiedono garanzie finanziarie che questotipo di clientela non è in grado di fornire.Nel 1996 la DSC ha concesso alla Network LeasingCorporation un prestito di 750’000 franchi e undono destinato all’assistenza tecnica. «Il sostegno diuna società privata è qualcosa di veramente innova-tivo», nota Jean-Marc Clavel della DSC. «Le nostreprime esperienze con la NLC sono molto incorag-gianti. Abbiamo deciso di rinnovare la collabora-zione per i prossimi tre anni allo scopo di aiutare laNLC a estendere le sue attività al Pakistan setten-trionale.» E alla DSC si pensa già di realizzare unasimile operazione in altri paesi.

E via col piccolo leasing!

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Le équipes di Terre des Hommes cercano di scola-rizzare questi bambini, continuando a aiutare le lorofamiglie. Se i genitori si impegnano a mandare i figlia scuola ogni giorno, ricevono regolarmente dellederrate alimenti, ma anche appoggio materiale, psi-cologico e sociale. «Facciamo in modo che i geni-tori ritrovino la loro dignità», spiega la delegata.Classi di ricupero accolgono i bambini troppo avan-ti negli anni o troppo in ritardo sugli altri per esse-re inseriti direttamente nell’insegnamento normale.La DSC ha messo a disposizione un credito di490 000 franchi per il periodo dal 1996 al 1998.Finanzierà in seguito per due anni l’operato dellafondazione «Per la tutela dei bambini», che quest’an-no assume la responsabilità per l’intero progetto. Laconsegna s’è svolta in agosto. «Ora io mi siedo su unsasso, mentre loro prosguono il cammino» com-menta Marie-Thérèse Steffen, prima di rientrare nelBelgio natale, dove l’accompagnerà il ricordo di quelmigliaio di bambini che ha strappato alla strada.

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Migliaia di piccoli albanesi ammazzano il tempo nelle stradeinvece di frequentare la scuola. Taluni sono stati abbandonati,altri devono contribuire al mantenimento della famiglia.Mendicano, svolgono qualche lavoretto, oppure finiscono nelgiro della delinquenza. Un progetto svizzero aiuta i genitori piùpoveri ad assumersi i propri compiti.

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(jls) «La crisi economica che ha seguito la caduta delcomunismo ha costretto le famiglie senza risorse, ri-dotte a una vita da barboni, a abbandonare i proprifigli», constata Marie-Thérèse Steffen, la delegata diTerre des hommes (Tdh) in Albania. A Korça, unprogramma gestito dalla fondazione locale «Per la tu-tela dei bambini» combatte tale fenomeno.Si cerca così di fare tutto il possibile affinché i ge-nitori possano continuare a tenere con sé i figli.Ricevono dunque derrate alimentari, abiti, semi (sehanno una parcella di terreno), ricevono aiuto pertrovare un alloggio, consulenza in materia di pue-ricultura, di pianificazione familiare ecc. Se neces-sario, il bambino è trasferito per un breve periodoin una famiglia di accoglienza.Nelle città di Korça, Elbasan e Berat un altro pro-getto è dedicato ai bambini della strada. Questi nonsono fanciulli abbandonati. «La sera rientrano a casa,anche se per casa si intende una stanza di 2 metriper 3 in cui dormono otto persone», spiega Marie-Thérèse Steffen. «Ma il cibo manca, gli abiti e lescarpe non sono più sostituiti, la scuola altro non èche un sogno.» Il loro lavoro fa talvolta vivere l’in-tera famiglia. Lucidano scarpe, lavano automobili,vendono sacchi di plastica o semi tostati. Alcuni ven-gono acciuffati dalle bande clandestine, che man-dano questi piccoli albanesi in Grecia o in Italia,dove li costringono a mendicare, prostituirsi, ruba-re o lavorare in nero.

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L’Aiuto umanitario della Confederazione non tiene in consi-derazione gli embargo. È presente nella ex Jugoslavia e nellaCorea del Nord. Sostiene le organizzazioni partner in Irak, inIran, a Cuba e in Birmania. Tutti paesi accomunati dal fatto diessere sottoposti a sanzioni internazionali.

(jls) La sanzione è uno strumento previsto dalla Cartadelle Nazioni Unite per spingere uno stato a adot-tare un comportamento accettabile agli occhi dellacomunità internazionale. Essa può interessare varisettori (economico, commerciale, cerealicolo, tec-nologico, aereo, sportivo ecc.), prima di sfociare inmisure militari qualora lo stato in questione non sod-disfi i requisiti.In questi ultimi anni, l’ONU ha pronunciato san-zioni contro l’Irak dopo l’invasione del Kuwait,contro la Repubblica federale di Jugoslavia (RFJ)implicata nella guerra in Bosnia e contro i militarigolpisti a Haiti. L’embargo può anche essere decre-tato da organizzazioni regionali o da un solo paese.Gli Stati Uniti se ne sono serviti contro l’URSS,Cuba, la Corea del Nord, l’Iran e, il mese di mag-gio scorso, contro l’India e il Pakistan.A lungo refrattaria a simili boicotti, la Svizzera nonli giudica più incompatibili con la sua neutralità. Siè pertanto associata alle sanzioni decretate control’Irak e la RFJ. Questa evoluzione non ha tuttaviacomportato cambiamenti per quanto riguardal’Aiuto umanitario, che per definizione si vuoleneutro e apolitico. I suoi esperti sono presenti nellaRFJ, dove costruiscono alloggi per i profughi, inCorea del Nord, dove distribuiscono derrate ali-mentari, concimi e sementi a una popolazione gra-vemente danneggiata dalle intemperie. Finanzia or-ganizzazioni partner in altri paesi sottoposti a un em-

bargo. È il caso di un progetto per la produzione difarmaci a Cuba, come pure dell’aiuto alimentare esanitario in Irak.Secondo la legge federale del 1976, l’aiuto umani-tario deve contribuire «a preservare la vita umana inpericolo e ad alleviare le sofferenze». Esso è conces-so quando sussiste una situazione di urgenza ed è de-stinato esclusivamente alle vittime. «Non teniamoconto delle decisioni politiche sugli embargo. Se cisono vittime siamo tenuti a intervenire, non importain che paese», afferma Franklin Thévenaz, membrodello stato maggiore dell’Aiuto umanitario, una delledivisioni della DSC.Scoprendo il dramma delle penurie che si registra-no in Irak, il mondo ha preso coscienza degli effet-ti perversi legati alle sanzioni. «Prima si misurava sol-tanto il loro impatto finanziario, economico o mi-litare», ricorda Thévenaz. «Oggi ci si preoccupaanche delle conseguenze sulla popolazione, segna-tamente sui gruppi più fragili della società: i bambi-ni, le donne, le persone più svantaggiate, gli anzia-ni.»

In barba agli embarghi

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Cooperazione svizzera con il Sud e l’Europa dell’Estdal 1999 al 2002(km) Durante le prossime sessioni

il Parlamento discuterà i nuovi

messaggi su collaborazione tecnica

e aiuto finanziario in favore dei

paesi in via di sviluppo e su

collaborazione con l’Europa

dell’Est e la Comunità di Stati

Indipendenti (CSI). Ogni quattro

anni, governo e Parlamento

devono decidere se continuare ad

assumersi tali impegni: si tratta in

pratica di concedere aiuti di tipo

finanziario. Entrambi i messaggi

offrono una visione retrospettiva,

informano sull’impiego previsto

per i crediti futuri e definiscono le

grandi linee di questo importante

settore della politica estera svizzera.

Sei facce nuove(rm) La Commissione consultiva

del Consiglio federale per lo

sviluppo e la cooperazione si è

ampliata. Negli ultimi anni

l’intensificarsi della cooperazione

con i paesi dell’Europa dell’Est e la

CSI ha reso necessario allargare il

mandato della commissione. Sei

nuove personalità provenienti da

Parlamento, settori economici e

scientifici, dalla ricerca e da

organizzazioni non governative

hanno preso posto all’interno dell’

organismo. Si tratta di: Trix

Heberlein (consigliera nazionale

ZH), Franco Cavalli (consigliere

nazionale TI), Branco Weiss

(imprenditore), Friedrich K. von

Schwarzenberg (settore bancario),

Stephan Kux (Università di

Basilea) e Jürg Krummenacher

(Caritas). In qualità di

rappresentante dei mass-media,

Flavia Baciocchi (Radio della

Svizzera italiana) prende il posto

di Eric Hoesli.

Premio Hannah Arendt 1998assegnato al New EuropeCollege di Bucarest(vor) Lo scorso 9 giugno, il New

Europe College (NEC) di Bucarest

è stato insignito del premio

Hannah Arendt, dotato di 300’000

marchi. Fondato nel 1992,

l’istituto rumeno si occupa della

formazione superiore in lettere e

sociologia. Esso favorisce inoltre i

contatti fra i suoi studenti e la

comunità di ricerca internazionale.

Ogni anno, 10 ricercatrici e

ricercatori rumeni ottengono

l’opportunità di dedicarsi per un

anno a un lavoro di ricerca. Il

premio ricompensa la politica di

ricerca interdisciplinare sostenuta

dal NEC e la qualità dei lavori di

ricerca sovvenzionati dal college.

Da anni il rinomato istituto viene

cofinanziato dalla DSC e dalla

fondazione Landis&Gyr, e

appoggiato da fondazioni con sede

in Germania, Francia, Olanda,

Svezia, Stati Uniti e Svizzera.

Che cos’è......gender?(vgu) La lingua inglese definisce il «sesso» con due termini dif-ferenti: «sex» per il sesso biologico, definito dalla natura e im-mutabile ; c’è poi la parola «gender», che descrive i ruoli e lerelazioni fra i sessi dettati dalla società e definiti dalle condi-zioni economiche, sociali, politiche e culturali. Contrariamenteal sesso biologico, i ruoli e le relazioni fra i sessi mutano neltempo, seguendo i cambiamenti dell’organizzazione sociale edei valori culturali di volta in volta predominanti. Gender ècosì parte integrante del sistema sociale e - come ad esempioil ceto sociale o l’età - un fattore importante che determinaruolo, diritti, attività, responsabilità e opportunità di donne euomini. La maggior parte delle società limitano alle donne l’ac-cesso alle risorse ; esse hanno così meno opportunità e menopotere decisionale. Attraverso il concetto di «gender balanceddevelopment» (sviluppo equilibrato uomini-donne) si cerca direagire consapevolmente a queste condizioni e di assicurare adonne e uomini un’integrazione equa nel processo di svilup-po.Secondo la DSC, tutto questo e la presa in considerazione, inogni ambito e su tutti i piani, delle necessità legate al sesso rap-presentano la condizione indispensabile a uno sviluppo effica-ce e durevole, sia per motivi di giustizia sociale, sia perché ilfatto di svantaggiare le donne si ripercuote negativamente sullosviluppo. I principi di questo approccio figurano nella politicadella DSC per uno sviluppo equilibrato tra donne e uomini.

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In 150 anni la Confederazione svizzera è diventata una societàeconomicamente forte, politicamente stabile, dotata di unanotevole capacità di risolvere i conflitti. Altrove le tensioni trastati e all’interno di stati sono spesso devastanti. Perché alloranon esportare la nostra democrazia come modello? Questapossibilità è stata discussa con Ebenezer Mireku (1), Ghana,consulente in economia e imprenditore, Wolf Linder (2), giuristae politologo, professore all’Istituto di scienze politiche dell’-Università di Berna e Peter Vollmer (3), consigliere nazionale.Un dibattito diretto da Marco Gehring.

Un solo mondo: Professor Linder, conosciamosufficientemente il nostro paese per poterne indivi-duare i fattori di successo?

Wolf Linder: Noi amiamo considerarci un caso par-ticolare (Sonderfall), alludendo al federalismo e allademocrazia diretta. Penso tuttavia che non siamo af-fatto un caso particolare: disponiamo di un modellodi democrazia, basata sul consenso e il negoziato, inseno alla quale tutte le minoranze - siano esse lin-guistiche, culturali o regionali - sono rappresentate.È un modello classico che si oppone alla democraziamaggioritaria di origine anglosassone. Occorre inoltresottolineare che la Svizzera è nata come stato multi-culturale. Quando la Confederazione moderna fufondata nel 1848 non vi era una maggioranza etnica- siamo stati nostro malgrado costretti a riunirci. Altripaesi sono ancora legati al modello di nazione civilecon un’unica lingua, religione o tradizione che a voltegenera addirittura un’ideologia «sangue e paese». LaSvizzera è invece una nazione nata da un atto poli-tico volontario.

Peter Vollmer: Io sposterei gli accenti. La Svizzeraè prima di tutto uno piccolo stato, fondato in cir-costanze piuttosto ostili. Secondo me questa carat-

terizzazione è importante. E nel 20° secolo arriva ilbenessere che va difeso dall’intera comunità controterzi - ciò che cementa ancor più la cooperazionepolitica.

Ebenezer Mireku: Ascoltandovi mi sento di pro-porre due riflessioni: i diversi gruppi che compon-gono la Confederazione non erano comunque ingrado di sopravvivere singolarmente. Vi sono in-oltre stati dei precisi motivi storici che hannocondotto all’attuale benessere. Se si vogliono pro-porre a un paese come il Ghana determinati risul-tati di queste esperienze storiche, occorre prima ditutto chiedersi se nel proprio paese esistono i pre-supposti.

Un solo mondo: Signor Mireku, come percepi-sce la Svizzera, come l’ha scoperta?

Mireku: Per me la Svizzera rimane un fenomeno,un piccolo stato in seno al quale non vi sono lottedi ripartizione. È stato realmente creato un ampioconsenso, lo si nota nel corso delle votazioni - è stu-pefacente! Secondo me il popolo non va a votareperché pensa che comunque le cose andranno per ilverso giusto.

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La democrazia svizzera: un modello da esportare?

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Promuovere lademocrazia (rm). La promozione dellademocrazia è uno deiprincipi fondamentali - in un’ottica concettuale e pratica - su cui poggiala collaboraborazioneinternazionale della DSC.Le misure applicatespaziano dall’aiuto direttonell’ambito di votazioni, al sostegno di gruppidiscriminati fino al dialogopolitico - ad esempio sui diritti umani - con igoverni.In questo settore l’operadella DSC si avvale dellaconsulenza e dellericerche in atto a livellonazionale. Per la tematica«Caratteristiche dello statogiuridico e strutturazionedecentrata dello stato», la DSC coinvolge adesempio l’Istituto per ilfederalismo dell’Universitàdi Friburgo.

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Linder: La nostra fortuna risiede nel fatto che a nes-suno è mai interessato distruggere la Svizzera e cosìil benessere ha potuto svilupparsi. Ma che genere diesperienze siamo in grado di offrire? Alcuni anni faho cercato di vendere la Svizzera, esempio di solu-zione efficace dei conflitti multiculturali. Penso in-fatti che i prossimi decenni saranno caratterizzati daconflitti interni ai paesi, che scaturiscono anche dagiganteschi flussi migratori. E in questo contesto sidimentica spesso che la democrazia maggioritaria ditipo anglosassone non è stata creata per risolverequesto genere di conflitti ; i risultati sono disastrosi,lo si vede nell’Irlanda del Nord e in Africa. Il fattoche culture diverse possano convivere pacificamen-te in un unico paese è una sfida alla democrazia. Ein questo senso la Svizzera, con il suo principio dellaripartizione del potere e del federalismo, è un buonmodello!

Vollmer: È una visione completamente idealizza-ta. Penso invece che non abbiamo proprio nulla davendere. Il nostro piccolo stato, la nostra democra-zia è sorta in determinate circostanze e sono contra-rio all’idea secondo cui noi avremmo qualcosa daesportare. Possiamo forse offrire punti di vista omezzi, ma non il modello svizzero. Non idealizze-

rei neppure la nostra società multiculturale. Se è veroche è costitutiva della Svizzera, non è comunque piùmulticulturale di altre società, ad esempio dell’-Olanda o degli Stati Uniti. Noi siamo purtroppoanche una società xenofoba. Gli aspetti multicultu-rali rimangono assai modesti e si riducono soprat-tutto al di qua e al di là del Gottardo, alle regionilinguistiche!

Linder: Sono in parte d’accordo. In Svizzera vi sonotuttavia pur state anche quattro guerre di religioneprima del 1848, e non ci siamo comportati in mododiverso dall’ex-Jugoslavia. No, non si tratta qui diesportare un modello svizzero, ma del principio diripartizione del potere, della democrazia basata sulconsenso. In Africa del Sud è stato un olandese, sor-retto dall’esperienza della democrazia del suo paese,a proporre un modello di ripartizione dei poteri traneri e bianchi per risolvere pacificamente il conflit-to. Ma pure noi possiamo offrire ad altri simili aiutie lo facciamo nel quadro di svariati progettinell’Europa dell’Est, come pure in Nepal.

Vollmer: Altri paesi possono purtroppo permettersidi emarginare singoli gruppi etnici, senza rischiarela distruzione interna.

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«Il nostro eccellente svi-luppo politico è senz’altrolegato al nostro benesse-re. In quest’ottica non sipuò applicare il modellosvizzero al mondo ;quest’ultimo salterebbe inaria! Possiamo invece im-parare dai paesi del Sude scoprire ad esempiocome una cultura riescea svilupparsi ed evolverecon risorse minime.Anche noi dobbiamo im-parare.»Peter Vollmer, consiglierenazionale«in modo pro-fessionale.»

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Linder: Certo, ma ciò che importa è che vi sianopaesi cui la nostra esperienza è utile.

Mireku: C’è poi l’esempio della Liberia. Anche sehanno in comune la lingua inglese, le culture sonodue. Occorrerebbe verificare se l’istituzione delConsiglio agli stati non sarebbe utile anche in altripaesi.

Vollmer: Sì, ma il nostro sistema federalistico a duecamere è di ispirazione americana, anche se è veroche qui da noi funziona addirittura bene.

Linder: Abbiamo raccolto determinate esperienzestoriche e dovremmo chiederci quali forme potreb-bero assumere in altre società. Nella società tribaleafricana la chiacchierata (palaver) è una forma affer-mata di ricerca del consenso. Ma occorre chiedersiin che modo questa istituzione possa essere applica-ta globalmente in seno a uno stato.

Un solo mondo: Signor Mireku, le linee direttri-ci Nord-Sud del Consiglio federale prevedono purela promozione della democrazia e della giustizia inpaesi politicamente instabili. In che modo vienerealizzata in Africa, vi sono dei risultati?

Mireku: Come ganese, la prima cosa che mi vienein mente è la decisione del Parlamento svizzero difornire un aiuto finanziario al mio paese.

Un solo mondo: E dove è confluito questo aiutofinanziario?

Mireku: Direttamente nel budget dello stato, persostenere ad esempio lo svolgimento delle eletionidel ‘96.

Vollmer: Esatto. In questo ambito anch’io mi sonoimpegnato personalmente in Africa.

Mireku: Inoltre la Svizzera invita parlamentari afri-cani a osservare le istituzioni dal vivo ; è una buonaidea, insomma si muovono parecchie cose.

Linder: Sono spesso invitato a parlare della nostrademocrazia, ma vedo che questi contatti non godo-no purtroppo di un gran sostegno. E il motivo sta

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nel fatto che siamo i primi a non essere consapevo-li del fatto che abbiamo delle idee - non dei pro-dotti d’esportazione - che agli altri possono esserealtrettanto utili del denaro. Si potrebbe pure pen-sare a una cooperazione allo sviluppo basata su pres-tazioni e controprestazioni - gli Americani baratta-no già da anni i diritti dell’uomo contro dollari. Ciòpresuppone tuttavia una collaborazione tra diplo-mazia (compresa la diplomazia commerciale) espertiin sviluppo, università e consulenti politici. Unastrategia di garanzia della pace e di intermediazionepreventiva, che possa essere operativa prima che unconflitto interno devasti un paese, come ad esem-pio la Bosnia.

Vollmer: Sì, in pratica si tende chiaramente a cer-care di rinforzare la società civile. A che servonoinfatti i migliori progetti per costruire pozzi inRuanda, se non ci si cura dei potenziali pericoli diesplosione a livello sociale? Ma questo aspetto

compete piuttosto alla comunita internazionale ;occorre intervenire facendo capo all’esperienza ditutti i paesi democratici. Questo lavoro comuneassumerà un importanza crescente. Anche noi pos-siamo proporre importanti strutture che, per altro,già esistono in particolare nei paesi scandinavi.

Parliamo di Institution buil-ding. Per questo occorro-no specialisti con una for-mazione e un’esperienza adeguata. E noi non li abbiamo.Cinque anni fa ho propo-sto un curriculum di studisui problemi dello sviluppoma, malgrado il forte inter-esse degli studenti,l’Università non l’ha rite-nuto prioritario. Qui da noisono poche le istituzioni ingrado di affrontare laquestione dello sviluppoWolf Linder, autore di,Swiss Democracy.Possible Solutions toConflict in MulticulturalSocieties, The MacmillanPress Ltd., 1997

«In Africa spesso non sipossono valutare sponta-neamente i benefici o idanni di ciò che ci vieneofferto dal Nord. Perquesto è molto importan-te che gli studenti africanipossano confrontarsisempre più spesso e sulposto con le istituzionisvizzere e farsi in seguitouna propria opinione.»Ebenezer Mireku, consu-lente in economia, Ghana

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Michel Bühler, 53 anni, èun grande personaggiodella canzone romanda.Dal 1969, anno in cui uscì il suo primo disco, ilcantautore ha pubblicato13 album. Artista impegnato, Bühler svolgeparallelamente un’attivitàdi scrittore. Autore di 5 libri e di diversi spetta-coli di cabaret, nel 1988ha ottenuto il premio«Lipp-Genève» grazie alsuo romanzo «La Parolevolée».

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Un solo mondo n.3/settembre 1998

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Qualche anno fa, l’organizzazione non governati-va Nouvelle Planète e la Radio Suisse Romandemi avevano incaricato di accompagnare ad Haiti deigiovani Svizzeri che avrebbero condiviso la loro e-sperienza professionale con quella di giovaniHaitiani. Per tre mesi ho dunque frequentato gli«Ateliers Ecoles» di Camp Perrin, 250 km a sud diPort-au-Prince. Concretamente, si è cercato dicontribuire alla ricostruzione degli edifici distruttida una piena della Grande Ravine du Sud. I mu-ratori, meccanici e pittori-decoratori edili prove-nienti dai nostri cantoni hanno inoltre potuto scam-biare conoscenze e tecniche con gli apprendisti hai-tiani.Alla fine di quest’esperienza ci siamo chiesti chiavesse appreso di più da questo tipo di contatto.Una cosa è certa: dopo avere condiviso un po’ dellapropria vita con un mondo di miseria e di soprav-vivenza di cui non sospettavano nemmeno l’esi-stenza, al termine del breve soggiorno la maggiorparte dei nostri compatrioti è ritornata trasforma-ta.Personalmente, questa è stata l’occasione per sco-prire due filosofie, due modi di avvicinarsi alla co-operazione, due strade possibili verso lo sviluppo diun paese.La prima è quella seguita dagli «Ateliers Ecoles»:All’inizio degli anni ‘70 il belga Jean Sprumont,padre fondatore di questo tipo di laboratorio,constatò che Haiti non possedeva alcuna piccola in-dustria, soprattutto nel settore della metallurgia, eche di conseguenza tutti i prodotti manufatti, anchei più elementari, dovevano essere importati. JeanSprumont pensò bene di rilevare macchinari anco-ra perfettamente funzionanti provenienti dalle in-numerevoli fabbriche europee che chiudevano inquegli anni, e di installarli nei suoi atelier.A distanza di vent’anni le sue officine contano unatrentina di collaboratori e producono innumerevo-li oggetti: bulloni, strutture metalliche, pale, carriole,pompe, mulini e focolari a energia solare, solo percitarne alcuni. Una produzione indigena solida e af-fidabile, che a volte si ritrova purtroppo a dovercompetere con prodotti d’importazione di qualitàinferiore.Per quanto concerne il lato «educativo» degli ate-lier, ogni lavoratore viene considerato come un ap-prendista che dovrà, nel migliore dei casi, lasciare ilaboratori soltanto quando avrà acquisito compe-tenze sufficienti. Piuttosto che rilasciare un diplo-ma - il che significherebbe immettere sul mercatoun altro disoccupato - gli «Ateliers Ecoles» forni-scono agli operai un laboratorio, attrezzi e materia-le, offrendo loro l’opportunità di creare un’attività

propria nel loro villaggio. Alcuni di loro sono cosìriusciti a inaugurare la propria fucina o il proprio mu-lino in vallate discoste.Creare nel paese un’industria propria che rispondaai bisogni diretti della popolazione (un processo,questo, iscritto nel tempo) e sostenere l’artigianato:il cammino mostrato da Jean Sprumont mi è sem-brato intelligente ed efficace.Altrettanto intelligente ed evidente mi è sembratauna seconda strada, indicatami questa volta da un«hougan», uno stregone vudù...Eravamo davanti alla sua abitazione nelle «mornes»,le montagne che dominano Camp Perrin e la pia-nura dei Cayes. Dopo avergli posto ogni sorta di do-mande, ho voluto sapere secondo lui quale fosse pernoi europei il modo migliore di aiutare il suo paese.L’«hougan» ha sorriso, e indicandomi alcuni sacchipanciuti ammucchiati ai piedi di un mango mi hadetto:- Vedi, là dentro c’è caffè prodotto da noi sulle nostrecolline. Dieci anni fa ero pagato dodici dollari ilsacco, mentre oggi ne ricavo soltanto cinque.Pagateci il caffè come dieci anni fa e riusciremo acavarcela da soli, senza bisogno né del vostro aiuto,né della vostra carità!Che dire di più? All’«hougan» era bastato un po’ dibuon senso per arrivare dritto al dunque. Instaurareun commercio più equo: non sarebbe questo il si-stema più efficace per contribuire allo sviluppo delTerzo Mondo?

Michel Bühler

Carta bianca

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PatrickBen

ArunTayeb SalihNato in Sudan nel 1929, TajjibSalich vive oggi in Inghilterra ed èconsiderato uno degli autori piùillustri del mondo arabo. Egli devela sua celebrità al romanzo «Lastagione dell’emigrazione a nord»,pubblicato negli anni ‘60. Ilsuccesso sensazionale del suolibro è dovuto in primo luogo allabrillantezza formale con la qualeSalich ha saputo dipingere uno deitemi salienti della letteraturaaraba: l’incontro fra intellettualiarabi e l’Europa, e l’influenzaesercitata dall’occidentesull’oriente.Tayeb Salih, La stagionedell’emigrazione a nord, ed.Sellerio, 1992

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Nuruddin, Bessie, TayRitenuta fino a una ventina di anni fa un fenomeno pret-tamente marginale, la letteratura dei paesi del Sud prendeoggi sempre più piede sia in Svizzera sia in Europa. Fatto nonmeno importante, essa è riuscita a liberarsi dall’immagine diterzo mondo e di politica di sviluppo e ad ottenere un giustoriconoscimento a livello letterario. Fridolin Furger*.

«The Empire writes back to theCentre» - Con questaaffermazione Salman Rushdiecreò negli anni ‘80 la formulapiù famosa e maneggevole di unatendenza ormai inarrestabile:l’avanzata di autrici e autori dipaesi del Sud nella cerchialetteraria degli antichidominatori coloniali.L’espressione forse piùspettacolare di questo fenomenoè rappresentata dall’attribuzionedi importantissimi premi letterarifrancesi e inglesi a PatrickChamoiseau (Martinique), a BenOkri (Nigeria) o a ArundhatiRoy (India), o l’attribuzione delpremio nobel al nigeriano WoleSoynika nel 1986, all’egiziano

Nagib Machfus nel 1988, e alpoeta caraibico Derek Walcottgià nel lontano 1922.Ma in Svizzera, a che puntosono la letteratura africana,asiatica e latino-americana?Trovano anche qui da noi ildovuto riconoscimento? La loropercezione è mutata dagli anni‘80? Ma dopotutto - saremmotentati di chiederci - laletteratura ha qualcosa incomune con la politica disviluppo?Lucien Leitess dell’Unionsverlagè senz’ombra di dubbio ilmaggiore esperto in materia.All’inizio degli anni ‘80pubblicò, in collaborazione conle case editrici Peter Hammer e

Lamuv, la collana «Dialog DritteWelt». Grazie a questa azione laletteratura del Sud, fino ad allorapoco pubblicata, ricevette unimportante impulso.L’Unionsverlag di Zurigo offreoggi un programmainternazionale in lingua tedescaunico nel suo genere, che dàgrande importanza non soltantoad autori affermati come NagibMachfus e Yasar Kemal(Turchia), ma anche a nuovitalenti del panorama letterario.

Una svolta significativaGuardando al passato, LucienLeitess parla di una «svoltasignificativa»: «All’inizio tutti sichiedevano se esistesse davvero

Tayeb Salih Nuruddin Farah Patrick Chamoiseau

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dhatiDerek

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una letteratura araba o africana.»Nel frattempo - ci confida LucienLeitess - la cosa è divenuta ovvia:«Oggi lottiamo non soltanto perun riconoscimento di fatto, maanche per un riconoscimento alivello letterario. A tutt’oggi c’èchi considera la letteratura di altreculture «etnologica», e si senteancora pronunciare l’orribileespressione «letteratura del terzomondo»! Grazie allo sforzo dipiccole case editrici, il pubblico dilettori di lingua tedesca disponefrattanto di un’ampia scelta diletteratura araba, africana e latino-americana. Restano però ancoraalcune lacune da colmare, inparticolare per ciò che concernela letteratura hindi o della Coreadel sud. È straordinario come gliautori del Sud non venganosoltanto tradotti, ma alcuni di lorotrovino anche una vasta cerchia dilettori, come ad esempio NagibMachfus. Più recentemente,grazie a recensioni entusiastiche il romanzo del sudanese Tayeb Salih «La stagionedell’emigrazione a nord» è stato

letteralmente catapultato nelleclassifiche dei best-seller (cf.colonna a margine).Potrebbe sorprendere il fatto chel’interesse per la letteratura dialtre culture è più marcato inSvizzera che ad esempio inGermania. Questo fenomeno èsenza dubbio il frutto degli sforziprofusi dalle case editricielvetiche. L’editrice Lenos diBasilea pubblica la collana piùinteressante e completa diletteratura araba, mentre nelprogramma delle edizioniAmmann figurano nomi illustriquali Wole Soyinka, NuruddinFarah e, da poco tempo, ancheAdonis, celeberrimo poeta arabo.Grazie alla collana «Baobab»,pubblicata da Nagel & Kimche,anche i bambini hanno un lorospazio.

Il ruolo particolare dellaSvizzera francese e italianaNella Svizzera francofona eitalofona la situazione èsensibilmente diversa. In questeregioni, la distribuzione di

letteratura del Sud avviene quasiesclusivamente attraverso caseeditrici italiane e francesi. IRomandi hanno però ilvantaggio dell’accesso diretto allaletteratura di lingua francesemagrebina, africana e caraibica.Inoltre, proprio in Francia, laletteratura di altre culture è presain grande considerazione,segnatamente con il suggestivoprogramma della casa editrice«Actes Sud». Nella Svizzeraromanda, le Editions Zoécostituiscono la principaleeccezione. Nel 1994, la casaeditrice incominciò con lacollana «Littératuresd’émergence», che ancora oggidedica molto spazio allasudafricana Bessie Head e allasomala Nuruddin Farah. Lacollana pubblica opere di autoridi altre culture che scrivono inuna lingua europea, ci spiegaMarlyse Pietri-Bachmann,collaboratrice in seno alla Zoé ;anche per lei, i criteri di sceltasono innanzitutto la qualitàletteraria, con un accento sulla

vitalità della lingua, d’altrondefacilmente riscontrabile in questotipo di letteratura.Oltre all’impegno profuso dallecase editrici, altri fattoricontribuiscono al successo dellaletteratura del Sud. In tal senso si pensi alla società per lapromozione della letteraturaafricana, asiatica e sudamericana(Gesellschaft zur Förderung derLiteratur aus Afrika, Asien undLateinamerika), fondata nel 1984e con sede a Francoforte che, incollaborazione con laDichiarazione di Berna (DB),stila delle liste di titoli chevarrebbe la pena tradurre, dirige«Der Andere Literaturclub» efinanzia, con la Pro Helvetia,una parte delle traduzioni. «Unaiuto prezioso», afferma LucienLeitess. «Spesso i costi originatidalle traduzioni pesano sulcalcolo del prezzo come unaghigliottina.» Grazie a singolitesti pubblicati in diverse linguenelle popolarissime collane«Literatur der Welt» e «Die Welterzählt», negli ultimi anni la DB

eb e noi Svizzeri28

29

Ben Okri Arundhati Roy Fridolin Furger 5Keystone 4

Derek Walcott

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Bessie HeadAccanto a Nadine Gordimer,Bessie Head è senz’altro l’autriceafricana più autorevole. Nel ‘64fuggì dal Sudafrica e si rifugiò nelBotswana, dove scomparve nel1986. La casa editrice romandaZoé ha da poco pubblicato unatraduzione del suo primoromanzo, «When Rain CloudsGather», che racconta di una fugadal Sudafrica verso il Botswana edella costruzione di unacooperativa agricola. In linguatedesca è appena statopubblicato «Maru», il cui tema èincentrato sui pregiudizi razziali inAfrica. Il suo terzo romanzo, «AQuestion of Power», può essereconsiderato uno fra i più insolitiromanzi africani: l’autrice se neservì infatti per elaborare il crollopsicologico vissuto personalmentenel Botswana. L’opera, edita daZoé, è ottenibile anche in linguaitaliana e tedesca.Bessie Head, Una questione dipotere, ed. Lavoro, 1994

ha fatto conoscere al nostropaese tutta una serie di autoriprovenienti dai cinquecontinenti. In quest’occasione ilpubblico è stato confrontato conforme letterarie piuttostoinusuali alle nostre latitudini,come la tradizionale narrazioneorale, o la «performance poetry»tanto cara ai poeti caraibici. C’èda notare che entrambe lecollezioni sono riuscite amodificare l’immagine di«letteratura legata alla politica disviluppo», grazie soprattutto allascelta di collaudati istituticulturali quali luoghi didiscussione su queste opere.

Dialogo culturale efficaceIl sempre crescentericonoscimento di questeculture si esprime ancheattraverso le giornate letterariedi Soletta, che nel 1993 hannoospitato Patrick Chamoiseau eGuillermo Cabrera Infante, nel1996 Wole Soyinka, equest’anno Tajjib Salich. Dietrosuggerimento della DB e della

fondazione Kultur undEntwicklung (che gode delsostegno della DSC), nel 1997Soletta ha per la prima voltamesso l’accento sulla quantità diautori del Sud che vivono inSvizzera e scrivono nella lorolingua. L’antologia «Küsse undeilige Rosen», apparsarecentemente nelle edizioniLimmat, offre una visioned’insieme di quest’altra facciadella letteratura svizzera.Considerando l’accresciuta stimadi cui gode ormai la letteraturadel Sud, il suo ruolo dimediatrice culturale è ormaiincontestabile. Il modo dipercepirla è mutato, rendendopossibile soltanto oggi un verodialogo culturale basato sulrispetto reciproco. Questo tipodi letteratura può aiutarcibenissimo a dischiudere lanostra coscienza, a capirel’ignoto, «a riconoscerel’estraneità», per citarenuovamente Lucien Leitess.Non soltanto la strutturaformale, ma anche le visioni

espresse dai contenuti danno aquesta letteratura un fascinoincontestabile - ciò chedovrebbe essere il caso per ogniletteratura e per ogni cultura.

* Fridolin Furger lavora a Zurigocome giornalista libero e criticoletterario.

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Naguib Mahfouz Wole SoyinkaBessie Head

Naguib WoleBessie

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Mus

ica

Film per UN SOLO mondo(bf) Dall’inizio dell’anno ilgruppo di lavoro Media TerzoMondo e la Commissione delfilm di KEM/ACES/Pane per iFratelli offrono i loro serviziriuniti. Il nuovo centro «Film perUN SOLO mondo» proseguel’operato della Comunità dilavoro degli organismi svizzeriper l’aiuto allo sviluppo e fungeda consultorio per l’impiegodidattico dei media e dei filmatiprovenienti dal Sud del pianetasu tematiche riguardanti il Terzomondo.Fachstelle «Filme für EINE Welt»,Monbijoustrasse 31, Casella postale6074, 3001 Berna, tel. 031 382 20 88, fax 031 398 20 87.

Il cuore e la musica seguonoil ritmo – il tempo si ferma(gnt) Cuba va per la maggiore, e non solo da quando Castro ègiunto nel nostro paese. Lamusica cubana ci ha fattoscoprire quanto è grande inEuropa la nostalgia di suonisemplici e di musicisti virtuosi. I conoscitori ritengono inoltreche questa isola nasconda unvero tesoro per quanto riguardala storia della musicaafroamericana. Ora essi stannoriversando sul mercato questitesori, riuniti in CD antologici,in coproduzione

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Form

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«Zézé»(bf) Il ragazzino, i coperchi delle pentole e la favela: comeimmaginate una metropoli deltipo di São Paulo, con 17 milioni di abitanti e 1’200favelas? Come credete chesopravvivano i ragazzini in unodi quei «quartieri della miseria»?L’avvincente video e ilpieghevole a quattro colori suZézé, un ragazzino di una faveladi São Paulo in Brasile, viconsentono di trovare unaggancio diverso, più positivo, a questa difficile tematica. Lastoria, piena di brio, offre moltispunti per un lavoro diapprofondimento in classe sullavita dei ragazzi di una favela.Informazioni e ordinazioni:Fondazione Educazione e Sviluppo,Monbijoustrasse 31, 3001 Berna,tel. 031 382 80 80, fax 031 382 80 82. Ottenibile solo in tedesco e francese.

«Globale! Uguale?»(bf) Un giorno nella vita di Annee Roger fa da sfondo realistico aquesta cartella didattica per lescuole medie. Essa propone discovare che cosa si celi dietro letendenze della moda, la mobili-tà del tempo libero, la musica, i conflitti con gli stranieri, lapopolazione, l’alimentazione etant’altro ancora. Il percorsoattivo suggerito dalla cartellapermette di affrontare inparticolare la questione delleopportunità e dei rischi legati allaglobalizzazione, le inter-connessioni tra la vita quotidianaqui al Nord e la realtà di chi vivenel Sud, e che cosa significhi«sviluppo durevole».Informazioni e ordinazioni:Fondazione Educazione e Sviluppo,Monbijoustrasse 31, 3001 Berna,tel. 031 382 80 80, fax 031 382 80 82. Ottenibile solo in tedesco.

con lo studio Egrem, di proprietàdello stato. I 4 CD antologici di«Cuba – I am time» vengonopresentati maliziosamente in unaconfezione di sigari. Il contenutoè un sogno: raccoglie pezzimeravigliosi delle migliori artiste e dei migliori artisti che siriconoscono nelle quattro correntiprincipali degli ultimi 30 anni:musica da ballo, jazz, canzonette e musica rituale. Per pochi soldi si può ottenereuna panoramica simile anche sullaproduzione indigena: «Santeros YSalseros» del produttore basileseStephan Witschi illustra in modoesemplare il ventaglio e gli incrocidegli stili: da forme africane,spagnole e francesi sono nati iritmi attuali: rumba, mambo,bolero e son. Sull’isola dellozucchero il tempo sembra essersifermato: ancor oggi tutte le formemusicali convivono pacificamente.La stessa casa discografica presentain questi giorni il SeptetoNacional Ignacio Piñeiro,considerato il massimo esponentedel son cubano. Sul CD «Sonerosde Cuba» il gruppo suonacomposizioni sia tradizionali chenuove in uno stile inconfondibile:focoso e ricco di raffinatezzemusicali.«Cuba – I am time»(Blue Jackel / Rec Rec)«Santeros y Salseros»(Real Rhythm / COD)Septeto Nacional Ignacio Piñeiro:«Soneros de Cuba»(Real Rhythm / COD)

Melodie del Sahel chescorrono come il fiume(gnt) Durante la scorsaprimavera, Habib Koite è statopresente in molti giornali e sumolti palcoscenici. Questo artistamaliano sta infatti superando innotorietà i suoi fratelli e le suesorelle africane, servendosi dellastessa formula utilizzata daicubani: immediatezza emusicalità, anziché tecnologiesofisticate. L’ultimo CD di

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Habib Koite «Ma Ya» (umanita).Ha tutte le doti per mandare inestasi chi l’ascolta: dodicisemplici canzoni di grandeprofondità e intensità, capaci ditrascinare chiunquenell’inebriante flusso dellemelodie.Habib Koite: Ma Ya (Contre-Jour / Rec Rec)

Un anno intero racchiuso in un libro(bf) Per le persone desiderose diapprofondire le conoscenze suirapporti bilaterali e multilateralidella Svizzera con i paesid’Africa, Asia, America latina edell’Europa orientale,l’«Annuario Svizzera-TerzoMondo» si rivela uno strumentoindispensabile. Autrici e autorisvizzeri e esteri – e tra essi PaulEgger della DSC – spiegano laloro posizione sul dossier «Dirittidi proprietà intellettuale: la postain palio per i paesi in via disviluppo». Nella panoramicadell’anno sono riportate le variesfaccettature che hannocaratterizzato nel 1997 i rapportitra la Svizzera e i paesi in via disviluppo. Quest’operainformativa ben strutturata sichiude con le statistiche sulcommercio, i flussi finanziari el’aiuto pubblico allo sviluppofornito dalla Svizzera.Annuaire Suisse-Tiers Monde1998, IUED Genève

12, CH-3012 Berna, e-mail:[email protected]

Coccodrilli ovunque(vgo) «Il bambino e il pangolinonel paese dei coccodrilli» èscritto per bambini e bambinedagli 8 agli 11 anni. Loaccompagnano un quadernettocon tracce per la riflessione e unCD. Il racconto prepara in modoavvincente a capire la personalitàsegreta e i valori di un futurorifugiato in Svizzera. Lumina, ilgiovane africano, non riesce piùa sopportare la vista del suopopolo ridotto alla fame dalgrande coccodrillo e dalla suafamiglia. Con l’aiuto del suo

carissimo amico pangolino, va adire al coccodrillo che è propriolui a affamare il suo popolo.Questi si sente oltraggiato e loimprigiona. Il pangolino lo aiutaa cavarsi dai pasticci e gli procuraun biglietto di aereo per fuggirein esilio. Ecco allora Lumina inun paese europeo, che loaccoglie freddamente. L’uomoche lo interroga assomiglia algrosso coccodrillo... Lumina ètutto impaurito. Ma una personagentile si occupa in seguito di luie la storia ha un lieto fine.«L’enfant et le pangolin au pays des crocodiles», Ed. Zoé, Ginevra,1966Fondazione Educazione e Sviluppo,Monbijoustrasse 31, 3001 Berna

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La DSC e l’Unione delle cittàsvizzere quali promotrici(vor) L’Unione delle cittàsvizzere ha sostenuto per ottoanni su mandato della DSC leamministrazioni comunali inUngheria, Polonia e nellaSlovacchia. Si sono così createdelle strutture per ilperfezionamento professionaledel personale delleamministrazioni locali e per lerelative associazioni. I comunidispongono ora di comunitàd’interessi capaci di far valeresempre meglio il loro punto divista nelle capitali. L’autonomiacomunale, come per esempioquella proposta dal modelloelvetico, non è una cosascontata, ma occorre formarsi elottare per ottenerla. Unopuscolo creato per sottolinearela conclusione del progettoillustra i progressi compiuti. Saràpresentato a Berna il 2 settembre,ossia alla vigilia della giornatadelle città svizzere.Reperibile presso: Unione delle cittàsvizzere, Florastrasse 1, 3000 Berna 6, tel. 031 351 64 44, fax 031 351 64 50

Mandela a fumetti(vgo) Il libro a fumetti «Mandela,una vita, una lotta» stariscuotendo ampio successo nellaSvizzera romanda. Come fu ilcaso per Tintin, interessasoprattutto i lettori e le lettrici da7 a 77 anni e, a dipendenzadell’età, ognuno vi troveràqualcosa di suo gradimento.Tuttavia, per capire e apprezzareconvenientemente questi fumettioccorrono buone conoscenze distoria sudafricana, di cultura nerae boera, di espressionilinguistiche tipiche, e ciònonostante il glossario riportatoal termine. Talvolta ci si puòchiedere che cosa abbia motivatogli autori a privilegiare unaspetto piuttosto che un altrodella cultura nera e della storia

sudafricana. I fumettiripercorrono la gioventù diNelson Mandela, la sua vita distudente, i suoi primi impegnipolitici. I suoi 27 anni diprigionia sono illustrati mediantetavole descrittive sulla vitapolitica e sociale di quel periodo.I fumetti terminano con l’uscitadalla prigione e l’elezione diMandela alla presidenza del Sud-Africa. A titolo di complementosi consiglia la lettura del testoscritto dal suo guardiano diprigione (James, un boero!): «Leregard de l’antilope».Déclaration de Berne (a cura di):«Mandela, une vie, un combat»,Losanna, 1997 (solo in francese)

Le cisterne del XXI secolo(sbs) «Mountains of the World –Water Towers of the 21stCentury» è il titolo di unopuscolo di 32 pagine chedescrive l’importanza delleregioni di montagna perl’approvvigionamento idricodell’umanità. Questo è infattiuno dei problemi più assillantidel prossimo millennio. Dalle Alpi al Mount Kenya, dalle Ande all’Himalaya: gli studi evidenziano in modocircostanziato le importantifunzioni assolte dalle regioni dimontagna nell’ambitodell’approvvigionamento inacqua potabile. L’opuscolo è statorealizzato con il sostegno dellaDSC e dell’Istituto di geografiadell’Università di Berna.La pubblicazione è disponibile alprezzo di fr. 10.– più spese dispedizione presso: MountainAgenda, c/o Geographisches Institutder Universität Bern, Hallerstrasse

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«Un solo mondo»

Tagliando di ordinazione e di cambiamento d’indirizzo

• Desidero abbonare «Un solo mondo». La rivista della DSC esce quattro volte l’anno in italiano, tedesco,francese ed è gratuita. Desidero riceverne ... copia(e) in italiano, ... copia(e) in tedesco, ... copia(e) in francese.

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Editrice:Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) delDipartimento federale degli affari esteri (DFAE)

Comitato di redazione:Marco Cameroni (responsabile) Catherine Vuffray (vuc)Andreas Stuber (sbs) Maya Krell (km)Reinhard Voegele (vor) Stefan Kaspar (kst)Marco Rossi (rm) Beat Felber (bf)

Collaborazione redazionale:Beat Felber (bf – Produzione) Marco Gehring (mg) Gabriela Neuhaus (gn) Jane-Lise Schneeberger (jls)

Progetto grafico:Laurent Cocchi, Losanna

Litografia: City Comp SA, Morges

Stampa: Vogt-Schild / Habegger AG, Solothurn

Riproduzione:La riproduzione parziale o integrale dei testi èconsentita purché si menzioni la fonte. Si sollecital’invio di un esemplare all’editore.

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Giovane arte cubanaCuba è una terra fertile non solo perla musica. Anche le arti figurative vihanno un grande futuro. Unagiovane generazione di artiste e diartisti sta creando opere che suscitanoun notevole interesse sul pianointernazionale. È merito dellaSezione Nord-Sud di Pro Helvetia sesi potranno ora ammirare questeopere per la prima volta in Svizzera.Alcuni artisti avranno inoltre mododi conoscere il nostro paese: la Cittàdi Sion ha infatti invitato due di loroper un soggiorno di studio.Dal 2 settembre al 30 ottobre alloStadthaus di ZurigoDal 7 novembre al 3 gennaio 1999 al Musée des Beaux Arts di La Chaux-de-Fonds

Palazzo del mondoPer sottolineare la ricorrenza del 50°della sua creazione, la fondazione perlo sviluppo SWISSAID compie unatournée in Svizzera accompagnata dauna tenda spiraliforme. Il Palazzo delmondo, sostenuto dalla DSC, presentaun’esposizione e un ricco programmaculturale, invita a guardare, giocare,ammirare, riflettere e agire. Nelcontempo crea uno spazio perincontri, scambi, informazioni,divertimento e scoperte. Le visitatricie i visitatori possono per esempio«mettersi nella pelle d’altri» e dallaloro città osservare altri mondi,facendo esperienze indubbiamentesignificative.

Dal 3.9 al 6.9 a Lucerna, dal 10.9 al 13.9 a Zurigo, dal 17.9 al 20.9 a Briga, dal 24.9 al 27.9. a Losanna, dall’1.10 al 4.10 a Lugano

Forum cinfo 98Vi interessano le possibilità di lavoro,aggiornamento e perfezionamentoprofessionale oppure le possibilità dicollaborazione nell’ambito dellacooperazione internazionale edell’aiuto umanitario? Il centrod’informazione, consulenza eformazione specializzato in questocampo si chiama «cinfo». Al Forumcinfo 98 le persone interessatepotranno informarsi presso gli standdi 40 organizzazioni oppure avrannomodo di visionare programmi video,navigare su internet e seguireconferenze.5 settembre, dalle ore 10 alle ore 17, al Kongresshaus di BiennePresso la sede di cinfo (Rue centrale 121,Casella postale, 2500 Bienne 7, tel. 032 365 80 02) si tengono duegiornate di informazione:il 31 ottobre in lingua francese, il 28 novembre in lingua tedesca.

Forum 98 di BrigaL’etica e la responsabilità globale sonoi grandi temi del Forum 98 di Briga,organizzato dalla società civile persottolineare la ricorrenza del 150°della nascita dello stato federale. Ilforum, che gode di ampi appoggi – tra cui quelli di Comunità di lavoro

degli organismi svizzeri per l’aiutoallo sviluppo, DSC in collaborazionecon la Divisione politica IV del DFAE, Canton Vallese e altriancora –, propone conferenze,ateliers e tavole rotonde. Vuolemostrare che la società civile elveticaguarda al futuro con spirito diapertura e di solidarietà, essendodisposta al cambiamento e avendo la volontà riconoscere i problemi difondo, per affrontarli in modoconcreto alla luce delle sue visioni edei suoi progetti, ma anche della suaresponsabilità etica.18 e 19 settembre a Briga

Giornata mondialedell’alimentazioneIl 16 ottobre ricorre il giorno difondazione dell’Organizzazionemondiale dell’alimentazione (FAO).La data offre lo spunto persensibilizzare l’opinione pubblica inmerito alla situazione alimentaremondiale. «Le donne nutrono ilmondo» è il motto di quest’anno. Essosi tradurrà in varie iniziative, checoinvolgeranno tra l’altro anche lecontadine, allo scopo di evidenziare ilcontributo delle donne alla produzionemondiale di derrate alimentari. Varigruppi organizzeranno inoltreaudizioni, dibattiti e azioni varie.16 ottobre in Bärenplatz a Berna

Giornate sul cinema del mondo aThusisPer l’ottava volta verranno presentatea Thusis, nel Canton Grigioni,pellicole di tutto il mondo chetrattano la problematica Nord-Sud.Anche quest’anno saranno inprogramma da 20 a 25 pellicole diAsia, Africa, America latina. Siterranno inoltre dei colloqui sui filmcon la partecipazione di registe eregisti stranieri e svizzeri.Dal 4 all’8 novembre al cinema Rätia diThusis

Agenda

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