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Un sussurro fra le stelle

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Valerio D'Elia, fantascienza. XXIX secolo. La razza umana è in piena era spaziale e sfrutta le risorse energetiche e minerarie del Sistema Solare interno. È perfino riuscita a spingersi verso le stelle più vicine e a colonizzare un pianeta abitabile distante più di dieci anni luce grazie al progetto ADEC, un’impresa titanica durata diverse centinaia di anni. Ma un pericolo si annida nello spazio. Una misteriosa trasmissione radio viene intercettata da un satellite in orbita intorno a Nettuno. A ciò fa seguito una serie di guasti inspiegabili al sistema che trasporta l'energia solare prodotta su Mercurio verso la Terra. Saranno Garin, uno specialista del progetto ADEC, e Alayna, un tecnico della centrale solare di Mercurio, a indagare su questi fenomeni. Mentre le principali personalità politiche si palleggiano le responsabilità per ciò che sta accadendo, i due ragazzi affronteranno da soli un rischioso viaggio attraverso il Sistema Solare per cercare le cause e porre rimedio a una cate

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In uscita il 30/11/2015 (15,70 euro)

Versione ebook in uscita tra fine dicembre '15 e inizio gennaio '16

(6,99 euro)

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VALERIO D’ELIA

UN SUSSURRO TRA LE STELLE

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UN SUSSURRO TRA LE STELLE Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-930-2 Copertina: immagine di Eleonora D’Elia

Prima edizione Novembre 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Prologo La sonda automatica Neptune III raccoglieva informazioni sul piccolo satelli-te, distante poco più di ottanta chilometri dalla sua attuale posizione. Il corpo celeste orbitava a circa cento milioni di chilometri da Nettuno, seguendo una traiettoria circolare quasi perpendicolare al piano di rivoluzione dei pianeti del Sistema Solare, l’Eclittica. La durata dell’orbita era di oltre settantacinque anni e in quel momento il satellite naturale si trovava quasi esattamente al di sotto del polo sud di Nettuno. La faccia che il pianeta mostrava al satellite era illuminata per metà dalla luce solare, più debole di quasi mille volte rispetto a quella che raggiungeva la Terra. Da lì Nettuno appariva di colore azzurrino e aveva un sesto delle dimensioni della Luna vista dalla Terra. La sonda era stata lanciata dalla Luna quarant’anni prima e ne aveva impiega-ti sette per raggiungere la sua destinazione. Da allora scandagliava i dintorni del gigante gassoso per studiare il suo sistema planetario in miniatura. Aveva già scoperto otto piccoli satelliti non noti prima dell’inizio della missione e ne aveva determinato tutte le caratteristiche. Il veicolo pesava quasi dieci tonnel-late ed era dotato di molti rivelatori per studiare i satelliti di Nettuno. Il suo sistema di antenne consentiva di emettere impulsi e ricevere i segnali di ritor-no, analizzando i quali era possibile mappare la morfologia dei corpi celesti e anche individuare eventuali cavità al loro interno. Le fotocamere e gli spet-trometri ottici permettevano di studiare in dettaglio la composizione e la di-stribuzione degli elementi più leggeri. Rivelatori di alta energia erano utiliz-zati per determinare presenza e posizione di materiali radioattivi. Come il nome lasciava intuire, la Neptune III non era l’unica sonda a essere stata inviata presso quel pianeta. Ne esistevano infatti altre due, lanciate con-temporaneamente. La Neptune II, in orbita perpendicolare a quella della Nep-tune III e perciò sul piano dell’Eclittica, si occupava anch’essa della ricerca e dello studio di nuovi satelliti naturali. La Neptune I aveva invece il compito di studiare in dettaglio il pianeta e i satelliti già noti. La Neptune III aveva finito di determinare i parametri orbitali e di rotazione del satellite, che aveva un diametro massimo di appena trentasette chilometri, e si apprestava a studiarne in dettaglio morfologia, densità e composizione chimica. I dati che avrebbe inviato sulla Terra sarebbero stati usati nel breve termine a scopo scientifico e, su tempi più lunghi, come punto di partenza per decidere su eventuali sfruttamenti di natura mineraria. In quel momento le sue antenne ricevettero un segnale anomalo. Non era un segnale radio di ritorno dei suoi strumenti. Non era neanche un segnale pro-

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veniente dalla Terra, con istruzioni per la strategia di esplorazione della son-da; le direttive dalla Terra viaggiavano su una frequenza diversa. Un algoritmo del processore centrale della Neptune III calcolò una cifra di merito associata al segnale ricevuto, che confrontò con quella associata alla ricerca che stava attualmente conducendo sulla struttura del satellite di Nettu-no. Il primo valore risultò superiore al secondo, dunque il processore valutò più importante indagare sul segnale ignoto e puntò automaticamente i ricevi-tori della sonda nella direzione del fronte d’onda. Il debole segnale durò per dodici minuti e quattordici secondi, dopodiché si interruppe bruscamente. La sonda fu in grado di calcolare solo approssimati-vamente la direzione di provenienza dell’impulso, circoscrivendola entro un cono di circa quattro gradi di ampiezza. Il cono opposto, quello di propaga-zione, puntava verso l’interno del Sistema Solare e intersecava un unico cor-po celeste: Saturno. Il processore centrale “decise” che il segnale andava ritrasmesso con la mas-sima urgenza alla Terra. Quest’ultima in quel momento si trovava quasi esat-tamente dalla parte opposta del Sole, quindi non c’era modo di inviarle diret-tamente il segnale. Tuttavia, in un caso di emergenza come quello, un mes-saggio poteva essere indirizzato verso uno dei novanta ripetitori che condivi-devano l’orbita che essa percorreva intorno al Sole. La catena di ripetitori a-vrebbe ritrasmesso il messaggio a destinazione.

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Capitolo 1 Anno 2825, 36mo giorno dell’anno - Punto L1 del sistema Terra-Luna Garin Menefer scese le scale che immettevano all’interno della navetta attra-verso il portello superiore. A prua, nella cabina di pilotaggio, i due piloti ave-vano già preso posizione. L’uomo diede una rapida occhiata alla zona pas-seggeri, predisposta per ventiquattro persone. Percorse il breve corridoio che separava le due colonne di sedili e si sistemò sull’ultimo posto a destra, l’unico disponibile. I display in cabina indicavano le diciotto e quindici, ora del meridiano zero terrestre; era tempo di far ritorno a casa. Sfiorò un pannello posto sul soffitto del veicolo, sopra la sua testa. Le quattro placche metalliche della tuta, sotto le cosce e nella zona lombare della schie-na, aderirono al sedile. Il pannello si illuminò di un colore verde pallido, con-fermando l’attivazione degli elettromagneti che avrebbero tenuto il suo corpo in sicurezza durante il viaggio. La navetta si staccò dai ganci di attracco e Garin avvertì immediatamente una lieve nausea, dovuta alla repentina perdita di peso. Piegò la schiena in avanti, per quanto gli era consentito dal sistema di sicurezza e guardò attraverso l’oblò alla sinistra del sedile. Volgendo lo sguardo verso quello che fino a poco tempo prima era stato “l’alto”, intravide il profilo del LABS, la stazione spaziale dove lavorava, che tutti i suoi colleghi definivano in maniera spiritosa la “Nursery”. Man mano che la navetta si allontanava dalla stazione, la sagoma di quest’ultima si offrì allo sguardo in tutta la sua interezza. Si trattava di un e-norme anello del diametro di circa trecento metri. Il Sole si trovava quasi e-sattamente nella direzione del pavimento della navicella, quindi illuminava completamente la stazione. Dalla distanza che avevano raggiunto la si vedeva solamente di taglio, ma se ne apprezzava la rotazione intorno al proprio asse. Era quella stessa rotazione che aveva fornito il peso alle persone che si trova-vano nel veicolo. Prima della partenza la navicella era infatti ancorata all’anello e la forza centrifuga schiacciava verso il pavimento i suoi occupan-ti. Per il momento il lancio non aveva comportato altro che lo sgancio dei pat-tini d’attracco. La forza d’inerzia del veicolo aveva fatto il resto, allontanan-dolo in direzione radiale dalla stazione. La prima conseguenza del distacco era stata la perdita di peso che aveva appena avvertito, con l’associato senso di nausea. Garin fu riportato alla realtà dal suo vicino.

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«Ecco una cosa a cui si fatica ad abituarsi» disse «il passaggio dall’essere pe-santi alla gravità zero e viceversa!» Garin studiò l’uomo. Era sicuro di averlo già visto. Alla fine il volto gli riaf-fiorò alla memoria: era un addetto alla manutenzione degli impianti della sta-zione. «Cort, giusto?» chiese, sforzandosi di ricordarne il nome. A un cenno affermativo, si presentò. «Mi chiamo Garin e lavoro nella squadra di supervisione dell’assemblaggio dei propulsori.» L’altro strinse la mano che gli veniva porta. «Lieto di fare la tua conoscenza.» «Piacere mio. Anche io continuo a ritrovarmi lo stomaco sottosopra ogni vol-ta che salgo su questo macinino» disse Garin riprendendo l’argomento «eppu-re sono già sei mesi che sono qui e questo è il mio terzo turno.» «Non penso che ci si abitui mai del tutto. Io sono qui da sette anni e ancora avverto dei fastidi.» Quell’uomo era dunque da più tempo di lui nello spazio. Naturalmente non erano sette anni consecutivi, poiché a ogni anno di lavoro a bassa gravità do-veva seguire un periodo di almeno due mesi sulla Terra. Certo, la medicina spaziale aveva fatto passi da gigante dall’epoca delle prime missioni al di fuo-ri dell’atmosfera terrestre. Numerosi farmaci aiutavano a ridurre drasticamen-te il fenomeno dell’osteoporosi in microgravità. Le protezioni presenti nelle moderne tute spaziali assorbivano gran parte delle radiazioni che, in assenza della schermatura atmosferica, inibiscono l’eritropoiesi, cioè la formazione dei globuli rossi. Infine le strutture per allenare la muscolatura in ambienti a gravità nulla o ridotta, onde evitare l’atrofizzazione, erano estremamente dif-fuse, così come l’informazione e la cultura che spingevano a farne un giusto uso. Tuttavia i medici imponevano comunque di alternare ai turni di lavoro nello spazio dei periodi di permanenza sulla Terra. Garin avvertì una pressione che lo spingeva all’incirca in direzione del corri-doio. La navetta aveva terminato la fase di allontanamento inerziale che l’aveva portata a poco meno di un chilometro dalla stazione LABS e i piloti avevano attivato il sistema di propulsione. L’uomo guardò nuovamente verso l’esterno mentre il panorama cambiava. Il veicolo stava percorrendo un’ampia curva e l’anello che costituiva la Nursery era visibile non più di ta-glio, ma mostrava anche le sue sezioni centrali. La struttura era composta da due anelli concentrici di cui solo quello esterno ruotava, fornendo una gravità pari a quella lunare. Lì erano ubicate le officine e i laboratori dove venivano costruiti e assemblati componenti elettronici e parti meccaniche. C’erano an-che gli uffici degli ingegneri che supervisionavano i processi di produzione e quelli degli scienziati che svolgevano lavori di ricerca e sviluppo legati al progetto. Infine c’erano le sezioni logistiche come la mensa, l’impiantistica per il supporto vitale e gli alloggi del personale tecnico, che doveva garantire

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un servizio notturno per affrontare eventuali emergenze o per svolgere manu-tenzioni e riparazioni senza interrompere le normali attività. L’anello esterno avvolgeva quello interno, sul quale scorreva per ruotare for-nendo la gravità. Quattro ascensori esterni collegavano le due sezioni. Erano in pratica dei veicoli automatici che si adattavano al moto relativo dei due a-nelli, trasportando il personale dalla zona abitabile a quella più centrale, priva di gravità. Quella sezione forniva un supporto per la rotazione della parte abi-tata e comprendeva un cilindro centrale, da cui partivano quattro bracci orto-gonali che si agganciavano all’anello interno. Questo e i bracci contenevano i magazzini richiesti dalle grandi quantità di materiali grezzi e sistemi finiti, necessari per gli assemblaggi eseguiti nella Nursery. Erano privi di gravità, ma dotati di un’atmosfera respirabile per facilitare gli spostamenti del perso-nale. Due camere di equilibrio in ciascun braccio, a una cinquantina di metri dal centro della stazione, una di fronte all’altra, si affacciavano nella direzio-ne dei due bracci adiacenti. Erano i passaggi che permettevano di uscire all’esterno o di raggiungere le strutture che venivano assemblate sulla Nursery. Garin aguzzò la vista. La traiettoria curvilinea percorsa dalla navetta li stava portando proprio di fronte al centro della stazione spaziale. Dalla distanza a cui si trovavano era difficile scorgere le strutture in costruzione per il loro co-lore nero, pressoché identico allo sfondo dello spazio. Era più facile identifi-carle quando si venivano a trovare davanti a una parte della stazione, che in-vece era prevalentemente di colore bianco sporco. Due di queste strutture e-rano al momento ancorate ai bracci della stazione. Una di esse era costituita da un’intelaiatura metallica sulla quale erano state fissate alcune lastre di un nero lucente. Una serie di instancabili robot, coordinati dal computer di as-semblaggio nella stazione e controllati a vista da pochi addetti, stavano coo-perando nel portare i pannelli, sagomarli e saldarli, per completare l’involucro esterno. La seconda struttura aveva già assunto la sua forma definitiva e i lavori pro-seguivano al suo interno, dove era stata pompata un’atmosfera per consentire ai tecnici di lavorare senza l’ingombro delle tute spaziali. Si trattava di una piramide nera a base quadrata, alta, lunga e larga trenta metri. Su una delle facce laterali campeggiava la dicitura: “ADEC - Automatic Device for Extra-solar Colonization”. «“Nursery” è certamente un nome molto più simpatico per questo posto» dis-se Cort «LABS, o peggio “Lunar ADEC Building Site” è troppo formale! Credo che proporrò alle alte sfere una mozione per cambiare ufficialmente il nome del nostro posto di lavoro.» «Già! Con un nome così altisonante sembra quasi che stiamo facendo qualco-sa di importante!» scherzò Garin. «Mah, importante è una parola grossa. Perdonami, ma io veramente non capi-sco il senso di tutto questo» continuò Cort «voglio dire, voi fate queste enor-mi piramidi nere. Per prima cosa c’è voluto più di un secolo solo per ideare e

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costruire le prime di queste macchine. Poi ci vogliono altre centinaia di anni per arrivare alle stelle più vicine. Inoltre non c’è nessuna garanzia che si trovi un pianeta abitabile per la colonizzazione. E poi, come se non bastasse, anche se trova un luogo adatto per l’atterraggio, che cosa fa questa piramide? Svi-luppa gli embrioni congelati al suo interno e abbandona la loro discendenza su un mondo potenzialmente ostile, senza le minime conoscenze e tecnologie logistiche, mediche e militari per sopravvivere. Ora, ammettiamo anche che questa gente riesca a sopravvivere tra mille difficoltà e soffrendo le pene dell’inferno. Per quale motivo dobbiamo investire enormi quantità di tempo e denaro solamente per spedire quei poveracci laggiù ad affrontare l’ignoto ri-partendo da zero? Solamente per comunicare con loro ci vogliono svariati an-ni. Già mi immagino una conversazione con loro: “Ehi, ciao abitanti delle stelle, come va?” Pausa di dieci anni. “Bene grazie! Voi come state?” altra pausa di dieci anni. “Scusate, la trasmissione era disturbata, non abbiamo ca-pito!” altri dieci anni. “Volevamo sapere come state!” e indovina? Altri dieci anni di silenzio, e magari nessuna risposta, perché quello che doveva rispon-dere nel frattempo ha tirato le cuoia. Insomma, diamo vita a delle popolazioni con le quali nella migliore delle ipotesi potremmo scambiare quattro o cinque messaggi nell’arco di una vita, e nella peggiore ci odieranno per sempre. E il tempo speso! Le prime quattro piramidi sono state progettate più di seicento anni fa e sono partite da mezzo millennio. Gran parte della gente che le ha i-deate e costruite è morta da secoli, senza la possibilità di sapere se il loro la-voro sia servito a qualcosa o sia stato un fiasco completo.» Cort concluse il torrente delle sue argomentazioni e guardò con aria accondi-scendente il suo interlocutore. Terminò dicendo: «Ehi amico, senza rancore ovviamente!» Garin sorrise a denti stretti alla chiosa finale. Aveva ascoltato con scarsa at-tenzione e una punta di esasperazione il lungo discorso che l’uomo gli aveva propinato. Era un punto di vista condiviso da parecchie persone. Eppure era la prima volta che quel genere di parole gli venivano rivolte da una persona che come lui lavorava al Progetto ADEC. D’accordo, Cort era impegnato nel sup-porto logistico, dunque non era direttamente coinvolto nello sviluppo e as-semblaggio delle piramidi. Però, data l’enormità del progetto e i tempi della sua realizzazione, nessuna delle persone che vi lavoravano poteva definirsi indispensabile per la sua riuscita, nemmeno coloro che occupavano le posi-zioni di più alto livello. Allo stesso tempo, per come la vedeva lui, tutti quanti - da Cassian Gladwyn che aveva assunto la carica di responsabile del Progetto ADEC ormai da undici anni, all’ultimo degli inservienti - svolgevano un ruo-lo ugualmente minuscolo, se relazionato alla grandezza della missione, ma comunque importante. Per questo trovava difficile accettare lo scetticismo di chi, come lui, partecipava a quell’impresa grandiosa. Uno scetticismo ampli-ficato dal fatto che Cort non si sentiva parte di quello che stavano facendo, dato che aveva usato la seconda persona plurale nel suo discorso.

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Non avrebbe voluto sentire quel mare di critiche. Non nel LABS, dove il co-involgimento e l’appoggio al progetto avrebbero dovuto essere totali. Come era possibile non capire l’enormità e l’importanza di quello che stavano fa-cendo lì? “Dio mio, è delle stelle che stiamo parlando! Abbiamo finalmente trovato il modo di colmare gli enormi vuoti che ci separano dalle più vicine, di scoprire e di provare ad abitare nuovi mondi! Certo, ci vogliono secoli per raggiun-gerli viaggiando a poco più di diecimila chilometri al secondo, la velocità delle prime quattro piramidi inviate nello spazio. Quasi centocinquanta anni per le destinazioni più prossime, senza nessuna certezza di trovare pianeti abitabili.” Infatti la piramide inviata verso Alfa Centauri non aveva trovato nulla, ma in quel momento stava proseguendo verso stelle più lontane. Alla piramide in-viata verso Sirio era andata anche peggio. Era rimasta gravemente danneggia-ta e impossibilitata a continuare la sua missione a causa dell’impatto con un corpo minore di quel sistema stellare. Era una circostanza estremamente re-mota, ma faceva parte dei rischi che dovevano correre. Eppure, nonostante tutte le probabilità sfavorevoli, dopo un viaggio di duecentottantasette anni la piramide diretta verso Epsilon Eridani aveva trovato un pianeta adatto a so-stenere la vita umana e vi era atterrato. La notizia era di dominio pubblico e aveva riscosso un considerevole entusiasmo quando era stata divulgata. Ave-va dato nuovo impeto al progetto e la costruzione di nuove piramidi, quelle che attualmente erano ancorate al LABS, era stata avviata. «Cort» disse Garin, tanto per riempire il silenzio tra loro due «lo sai che il progetto ha avuto successo, vero? Intorno a Epsilon Eridani è stato trovato un pianeta abitabile.» «Certo che lo so» replicò l’altro «anche gli addetti alla manutenzione vanno alle elementari!» Cort non era offeso, voleva solo fare una battuta. “Tutto sommato” pensò Garin “è simpatico.” L’atterraggio su Epsilon Eridani, avvenuto duecentodue anni prima, era di-ventato un evento storico studiato nelle scuole. «E questo non ti rende orgoglioso di quello che sta succedendo qui? Voglio dire, ce l’abbiamo fatta, no? Ci siamo riusciti.» «Tutto ciò che so è che una delle piramidi è atterrata su un pianeta alieno e ha sviluppato e cresciuto con successo i suoi primi quattro embrioni. Dopodiché li ha abbandonati a loro stessi su un mondo probabilmente ostile, e chissà che fine hanno fatto quei poveri bimbi. Sono passati quasi duecento anni dalle ul-time informazioni divulgate dai leader del progetto. Quei quattro ragazzi po-trebbero essere morti senza aver sviluppato una discendenza. Purtroppo non riesco a condividere l’entusiasmo per qualcosa di così remoto.» Garin poteva comprendere quell’obiezione. Era naturale che l’eccitazione se-guita alla scoperta del nuovo pianeta abitabile e all’atterraggio della piramide scemasse col passare dei decenni tra coloro non direttamente coinvolti nel

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progetto. Tuttavia i contatti con Epsilon Eridani non si erano mai interrotti e i dirigenti del Progetto ADEC monitoravano quotidianamente i messaggi che arrivavano. Non c’erano state altre comunicazioni ufficiali perché non si vo-levano fare proclami di riuscita della missione fino a che non si fosse stati ra-gionevolmente certi del risultato. Garin stava dando un contributo notevole allo sviluppo del progetto e aveva avuto modo di conoscere personalmente il suo capo, Cassian, che lo teneva aggiornato su quanto accadeva su Epsilon Eridani. In breve, i primi coloni spaziali non solo erano sopravvissuti, ma a-vevano dato vita a una comunità numerosa e prospera. Tale comunità era co-stituita non solo dai loro discendenti biologici, ma anche dagli embrioni uma-ni che la piramide continuava a sviluppare al suo interno e ad affidare alle donne con prole, perché li nutrissero col loro latte materno e li allevassero. Quel processo era necessario per evitare che accoppiamenti tra consanguinei portassero alla nascita di individui con malattie genetiche, indebolendo la po-polazione e riducendo di conseguenza le sue possibilità di sopravvivere. Era di meno di un mese prima la strepitosa notizia che, anche secondo le più pes-simistiche previsioni, in dieci anni la prima colonia umana avrebbe superato le mille unità. Quella era la soglia che gli ideatori del progetto avevano stabi-lito per rivelare alla lontana comunità umana, ancora all’oscuro della propria origine, la funzione e la provenienza della piramide. Da quel momento in poi, inoltre, quella gente sarebbe stata abbastanza numerosa da non aver più biso-gno degli embrioni. In altre parole, sarebbe diventata del tutto autosufficiente dal pianeta madre e libera di costruirsi da sola un futuro. Il successo del Pro-getto ADEC era completo, e presto sarebbe stato annunciato al mondo. «Caro Cort» disse Garin, che era disposto a rischiare di farsi scappare qualche notizia riservata pur di donare un po’ di sano entusiasmo a quell’uomo «ti as-sicuro che il progetto va a gonfie vele e molto presto anche tu assisterai a un momento storico, che ti renderà veramente orgoglioso del lavoro che tutti noi stiamo facendo quassù.» Cort lo squadrò con un’aria interrogativa. «Perché, che cosa dovrebbe succedere?» «Lo scoprirai da solo. Devi solo pazientare ancora qualche settimana.» «Però non puoi lanciare il sasso e nascondere la mano!» si risentì Cort. «Credimi, ti ho detto anche troppo. Anzi, non ti ho detto proprio niente, inte-si?» Cort rise e annuì, capendo la richiesta di segretezza in merito alle rivelazioni dell’altro. Garin si rilassò sul sedile. Entro quindici giorni la riuscita del Progetto ADEC sarebbe stata di dominio pubblico. Alla conferenza stampa sarebbe seguito il collegamento video con la faccia nascosta della Luna, dove si trovava il più grande osservatorio astronomico esistente. Da lì il messaggio che Cassian stava già preparando sarebbe stato inviato su Epsilon Eridani. Tutto il mondo lo avrebbe visto in diretta.

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La traiettoria della navetta aveva fatto comparire nell’oblò di Garin la Terra. Illuminata per più di tre quarti dal Sole, dalla loro posizione appariva quattro volte più grande di come appare la Luna vista dalla Terra. Il LABS si trovava a circa trecentoventimila chilometri dal pianeta, in un punto notevole del si-stema Terra-Luna detto punto lagrangiano primo. Lì l’attrazione gravitaziona-le della Terra e della Luna si bilanciavano. I due corpi celesti visti dal LABS occupavano quindi sempre la stessa posizione nel cielo. Le prime piramidi erano state assemblate più di cinquecento anni prima in un’orbita terrestre bassa, per ridurre i tempi per portare i materiali dal pianeta. Naturalmente era impensabile costruire quelle strutture sulla superficie; sa-rebbe servita una potenza immensa per farle decollare. Garin ripensò a quel periodo, che aveva studiato sui banchi di scuola. La co-struzione di quei veicoli era stata un’impresa pionieristica; doveva essere sta-ta esaltante. Successivamente lo sviluppo dell’industria mineraria spaziale a-veva messo fine alla dipendenza dalla Terra per i metalli necessari e aveva fatto della Luna il centro minerario più importante del Sistema Solare, dove venivano lavorati i materiali estratti non solo dal suolo lunare, ma anche da Marte e dalla cintura degli asteroidi. Il punto lagrangiano primo aveva il van-taggio di essere a soli sessantamila chilometri dalla superficie lunare e, dato che la Luna mostrava sempre la stessa faccia alla Terra, la base di lancio dei materiali sulla faccia visibile si trovava sempre nella stessa posizione rispetto alla stazione spaziale, semplificando logistica e piani di volo. Garin premette il volto contro il finestrino mentre la navetta stava ultimando la traiettoria curva per immettersi nella rotta di rientro. Verso prua si vedeva la Luna, dieci volte più grande di come appariva dal pianeta madre. Era illu-minata solo per un quarto dal Sole, ma anche il lato in ombra era visibile gra-zie alla luce riflessa dalla Terra. Era lì che si stavano dirigendo. La Luna non era solamente il principale cen-tro di smistamento dei materiali provenienti da e diretti nello spazio, ma ospi-tava anche il personale tecnico, scientifico e di supporto che lavorava sul LABS. La Luna era a tutti gli effetti la casa dove faceva ritorno alla fine del suo turno di lavoro.

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Capitolo 2 Giorno 36 - Superficie di Mercurio «Base numero tre da scout due» disse Alayna «nulla da segnalare. Finisco il giro e torno a casa.» «Ricevuto» rispose l’altoparlante del piccolo mezzo da ricognizione «cerca di non metterci una vita come al solito, che l’energia costa cara. A meno che tu non voglia che te la detragga dalla busta paga!» «Ricevuto Daren» replicò Alayna «comunque non è carino da parte tua pre-sentare il conto a una ragazza!» «Sono responsabile del tuo comportamento e non intendo pagare di tasca mia alla Società Elettrica le tue sedute abbronzanti!» «Non preoccuparti, il tuo conto di credito è al sicuro» concluse Alayna «sarò di ritorno a breve. Scout due chiude!» La ragazza sorrise. Daren, il suo superiore da quasi due anni, sapeva dell’attrattiva che i paesaggi di Mercurio esercitavano su di lei. Quel giorno, poi, le era stato assegnato il controllo visivo degli impianti verso il Termina-tore, cioè quella linea fittizia e mobile che divide la parte illuminata dal Sole da quella in ombra. Era un’occasione da non perdere. Il suo piccolo rover correva controllato dall’autopilota lungo la strada che fiancheggiava le strutture costruite dall’uomo. Su quella strada liscia e pia-neggiante il mezzo poteva viaggiare a quasi quattrocento chilometri all’ora, una velocità impossibile sulla superficie naturale di Mercurio, costellata da ampi crateri. La strada scorreva nella direzione est-ovest, circa trecento metri a sud dell’equatore. Come la sua gemella, che si trovava trecento metri a nord del parallelo equatoriale, cingeva tutto il pianeta. Alayna andava a est, verso il Terminatore, distante meno di quaranta minuti. I riflettori laterali del veicolo erano puntati verso nord, per illuminare l’interminabile serie di pannelli fotovoltaici che tappezzavano l’equatore. Il sistema di intelligenza artificiale a bordo analizzava in tempo reale il loro sta-to, a complemento dei dati forniti da una costellazione di micro-satelliti in or-bita bassa. Quando uno di questi identificava un’anomalia, comunicava l’informazione a tutti gli altri che, nel passarvi sopra, aumentavano risoluzio-ne e frequenza di scansione dei sensori per un’analisi dettagliata, permettendo di identificare anche variazioni millimetriche. Tutti i dati venivano trasmessi immediatamente, ma con indicazioni di gravità e priorità, al sistema di con-trollo, dove algoritmi capaci di apprendere decidevano automaticamente se

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escludere gli elementi coinvolti dalla produzione di energia, preparavano pia-ni di interventi e avvertivano il personale. Non era certo la prima volta che vedeva quell’enorme distesa verde scuro co-stituita da lastre rettangolari di circa dieci metri quadrati ciascuna, giacché periodicamente le visitava per identificare anomalie che potevano sfuggire alla ispezione automatica. Tuttavia, ogni volta non poteva fare a meno di ri-flettere sull’enormità del complesso mercuriano e dell’importanza che aveva per tutto il genere umano. Diversi secoli prima si capì che i combustibili fossili non avrebbero potuto sostenere a lungo il fabbisogno energetico della popolazione umana. Essendo di origine biologica, non c’era neanche speranza di trovarne su altri pianeti. Le reazioni nucleari rappresentarono un’alternativa per un certo periodo di tempo. Tuttavia, anche i materiali necessari per la fissione non sarebbero du-rati in eterno, inoltre i reattori a fissione presentavano alcuni problemi di sicu-rezza e di smaltimento delle scorie. Per quanto riguardava la fusione, la pro-duzione dei reagenti necessari richiedeva già di per sé un notevole quantitati-vo di energia. Così ci si rivolse al Sole con interesse crescente. D’altra parte l’energia solare è la fonte di tutte le energie alternative, come l’eolica, l’idroelettrica o quella prodotta da onde o maree. Catturare un sempre maggior quantitativo di luce solare sulla Terra aveva però lo svantaggio di dover usare sempre più suolo, che invece andava destinato ad agricoltura e allevamento per far fronte all’incremento demografico. Inoltre la già bassa efficienza del processo è ul-teriormente ridotta dall’attenuazione dovuta all’atmosfera terrestre e a condi-zioni meteorologiche non sempre favorevoli. Altri corpi celesti offrono inve-ce condizioni migliori per sfruttare la luce solare, grazie alla maggior vici-nanza all’astro. Venere non è adatto allo scopo, perché perennemente ricoper-to da un fitto strato nuvoloso e con pressione e temperatura proibitive. Di contro Mercurio, praticamente senza atmosfera e con l’asse di rotazione pres-soché perpendicolare al piano orbitale, è un luogo ideale per generare tutto l’anno energia elettrica tramite impianti fotovoltaici posti all’equatore, dove ricevono quasi dieci volte più radiazione che sulla Terra. Già, il Sole… Alayna controllò un quadrante tenuemente illuminato che ri-portava la sua posizione sulla superficie del pianeta. “Non manca molto” pensò mentre spegneva i fari del veicolo. Il buio era quasi assoluto. L’oggetto più luminoso in cielo era Venere, una piccola sfera lattiginosa un po’ a ovest dello zenit. Era molto più brillante di come appare dalla Terra, poiché da quest’ultima è visibile solo in prossimità del tramonto e dell’alba - dunque con parte della luce solare ancora presente - e filtrata da un notevole strato atmosferico. In quel periodo la Terra si trovava quasi esattamente dalla parte opposta ri-spetto al Sole e quindi non era visibile. La Via Lattea formava una lunga macchia, più luminosa e definita di come appariva da qualunque sito di osser-vazione terrestre, vista la mancanza di atmosfera. Lo spettacolo era suggesti-

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vo, ma Alayna non ne rimase impressionata. Lavorava su Mercurio da quasi due anni e usciva sulla superficie solo quando era buio, quindi lo conosceva molto bene. Un altro aspetto del paesaggio attirava invece la sua attenzione. Volse lo sguardo a est. I rilievi montuosi più lontani stavano emergendo dal buio che la circondava. Nonostante il naturale colore grigio scuro, le vette ap-parivano di un rosso cupo, sempre più intenso con il procedere del veicolo. Le cime passarono al rosso vivido e poi all’arancione, mentre il colore sfumava su toni più scuri verso il basso dei profili montuosi. Alayna scorse una collina con la vetta di un pallido grigio e le pendici di toni più cupi. Non era molto distante dalla strada. La raggiunse descrivendo un’ampia curva verso sud e moderando la velocità per affrontare la salita. Fermò il veicolo circa a metà strada dalla cima e guardò attraverso la spessa lastra di vetro che isolava il lato sinistro della cabina di guida. Basso nel cielo a est c’era un grosso arco di cerchio rosso, di luminosità più intensa al centro, che sfumava gradualmente verso i bordi. Il paesaggio era di un rosso fuoco dove la luce arrivava a illuminarlo. Ombre lunghissime e nerissime si staglia-vano sul suolo dietro ai rilievi. Alayna si rilassò sul sedile e si gustò lo spettacolo. Non c’era alcun luogo sul-la Terra da cui si potesse godere di una vista del genere. I crateri e le monta-gne si presentavano a chiazze di rosso e nero, eseguendo giochi di luci e om-bre. Nessun passaggio graduale dall’una all’altra; lo stacco era netto per la mancanza di atmosfera. Ma la macchia rossa in cielo era la cosa che più la-sciava senza fiato. La corona solare, maestosa e mutevole, testimoniava l’attività violenta che si svolgeva sul Sole. Il plasma luminoso si allungava nel nero del cielo in archi maestosi fino a distanze enormi. «Incredibile» disse a voce alta quando ebbe la forza di riscuotersi. Poi guardò verso la cima completamente illuminata della collina. «Be’, in fondo si vive una volta sola!» esclamò prendendo la sua decisione. Come previsto dalle norme di sicurezza, indossava già la tuta da esterno, per essere pronta in caso di emergenza alla fuoriuscita di atmosfera dal veicolo. Aprì un vano sopra la testa, prese il casco e l’indossò. Rimise in marcia il ro-ver e impostò dei comandi sul pannello di controllo posto sul braccio sinistro della tuta. Una voce metallica dall’altoparlante del casco le confermò l’attivazione del sistema automatico di filtraggio della luce sulla visiera in po-licarbonato. Sulla sommità della collina il rover fu letteralmente inondato di luce. Aspet-tandoselo, Alayna chiuse gli occhi e si voltò verso ovest per dare tempo ai fil-tri di adattarsi all’incremento di luminosità. Nel frattempo girò il veicolo ver-so l’alba mercuriana. La ragazza socchiuse gli occhi con cautela, poi li aprì del tutto appena appurò l’efficacia dei filtri. Uno spicchio di luce bianchissima era apparso sulla linea dell’orizzonte. Era largo un po’ più di come appare il Sole dalla Terra, ma rappresentava solo una minima parte del disco solare. Alayna sapeva che se avesse continuato a procedere in direzione est, il Sole sarebbe apparso nella

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sua interezza, con un diametro quasi tre volte più grande di come si vede dalla Terra. Tuttavia non poteva avvicinarsi più di così. In quella posizione il suo mezzo e il suo corpo erano relativamente al sicuro dalla radiazione e dal flus-so di particelle grazie alle schermature della carlinga e della tuta. La tempera-tura esterna era passata dai meno centodue gradi di quando si trovava in om-bra ai meno venti attuali e stava salendo rapidamente. Non poteva fermarsi a lungo, per non sovraccaricare i sistemi di sicurezza, ma si concesse qualche minuto. Il suolo era bruno ai piedi della collina, ma verso est era colorato di toni sem-pre più accesi dall’intensa luce del Sole. Il cambiamento di colore lungo le zone illuminate era graduale, ma le regioni in ombra, totalmente nere, si sta-gliavano sempre in maniera netta. In prossimità dell’orizzonte la superficie diventava grigio chiaro, mostrando il suo vero aspetto all’illuminazione diret-ta. Il Sole era bianchissimo, ma non impediva la magnifica vista della corona di colore arancio, attraversata da due enormi protuberanze. L’arancione sfu-mava gradualmente nel nero dello spazio, dove le stelle erano perfettamente visibili. Era proprio tutto quel contrasto a rendere affascinante e per certi versi spaventoso quel paesaggio. Alayna era rapita dalla bellezza di un panorama così diverso da quelli terrestri, ma era anche consapevole che ciò che lo ren-deva così meraviglioso significava la morte, se fossero venute a mancare la sicurezza del veicolo e della tuta. «Alay… …nti? … torna alla base… …sso» gracchiò l’altoparlante del rover. Alayna fu scossa dai suoi pensieri e tornò alla realtà. «Cavolo Daren, sto tornando. Smettila di preoccuparti!» esclamò esasperata, senza però sfiorare il pulsante che attivava la trasmissione radio. Sapeva che la radiazione solare interferiva con le trasmissioni e non voleva far sapere al suo superiore dove si trovava, anche se era convinta che già lo sapesse. Si concesse un’ultima occhiata in direzione del Sole. La sua posizione non era mutata in maniera apprezzabile, perché la rotazione di Mercurio durava quasi cinquantanove giorni terrestri. “Un’alba bella lunga” pensò mentre girava il veicolo e cominciava a discen-dere la collina. Sfilò il casco e lo rimise al suo posto, dopodiché attivò il contatto radio e dis-se: «Scusa Daren, ero sovrappensiero. Puoi ripetere l’ultimo messaggio?» «Sì, come no. Sovrappensiero. Inventane un’altra, ragazzina! Ti ho detto che è ora di rientrare, quindi riporta in fretta quel veicolo qui alla base. Quando lo avrai fatto potrai uscire a piedi e andare a prendere tutta la tintarella che vor-rai, ma mi riservo il diritto di decidere se lasciarti indossare la tuta, soprattutto se hai danneggiato le attrezzature della Società Elettrica!» «Daren, capisco che sono già nove mesi che ci troviamo al buio e a meno centocinquanta gradi, ma non mi sembra il caso di scaldarsi così tanto! Il tuo rover è come nuovo, non ti preoccupare. Te lo sto riportando indietro tutto intero. Ci vediamo tra un’ora circa, passo e chiudo!»

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Alayna staccò il collegamento e sorrise. Il tono minaccioso e le preoccupa-zioni di Daren per le attrezzature non erano altro che il modo semiserio con cui l’uomo esprimeva apprensione per il fatto che lei si trovasse ancora all’esterno. La ragazza non condivideva quello stato d’animo, giacché i mezzi di cui disponeva la mettevano al sicuro da ogni ragionevole guasto che potes-se verificarsi. Nonostante ciò, era gratificante che Daren si preoccupasse per la sua salute, perché significava che la stimava e la riteneva una collega vali-da. Terminò la discesa e si rimise sulla strada, dove guadagnò rapidamente velo-cità. Erano quasi due anni che lavorava per la Società Elettrica. In realtà quel nome veniva scherzosamente affibbiato dai suoi dipendenti a una vasta orga-nizzazione controllata direttamente dal governo mondiale, che era stata creata con lo scopo di raccogliere l’energia su Mercurio e trasportarla sulla Terra. Aveva scelto quel lavoro perché amava la tranquillità e la bellezza estrema dello spazio profondo e non gradiva l’affollamento delle città terrestri. Vivere su Mercurio non rappresentava un problema per lei, se si eccettuava l’iniziale adattamento a una gravità pari a un terzo di quella terrestre. Non aveva avuto nessun tipo di contraccolpo psicologico, anzi, quando era finito il suo primo turno di un anno non avrebbe neanche voluto tornare sulla Terra per il perio-do obbligatorio di due mesi. Il lavoro era duro, ma lei si sentiva tagliata per quella attività. Aveva appreso tutte le conoscenze necessarie nella sede terrestre della Società Elettrica e lì sul campo, sotto la supervisione di Daren. L’uomo non le aveva fatto sconti perché era una ragazza, né lei ne aveva mai pretesi. L’amore per Mercurio le aveva fatto vivere il processo di apprendimento in maniera piace-vole e ora svolgeva con gioia e ottimi profitti tutte le sue mansioni, anche quelle che potevano sembrare meno gratificanti. Il periodo di apprendistato su Mercurio era durato sei mesi, al termine dei quali ben quattordici dei venti aspiranti tecnici erano stati rispediti sulla Terra da Daren, che ricopriva da otto anni il ruolo di istruttore. Lui aveva preteso che Alayna lavorasse nella sua squadra, affidando gli altri cinque superstiti del corso di addestramento ad altrettanti supervisori. Il rapporto con Daren era ottimo. Era la persona più competente della tecno-logia e delle attrezzature mercuriane che avesse mai incontrato, e nonostante i suoi metodi un po’ scontrosi sapeva che lui l’apprezzava molto e intravedeva per lei un’eccellente carriera. Durante il viaggio Alayna si perse nuovamente nei suoi pensieri circa l’enorme complesso nel quale lavorava. Seimila chilometri quadrati di pan-nelli fotovoltaici circondavano tutto il pianeta, per una larghezza di quasi cin-quecento metri, a cavallo dell’equatore. I pannelli illuminati producevano ol-tre venti terawatt di potenza, garantendo tutta l’energia necessaria alla Terra. L’idea di estrarre l’energia da Mercurio era sempre stata attraente, ma fu ne-cessario attendere che l’ingegneria spaziale riuscisse a sviluppare dei propul-sori potenti ed efficienti, per realizzare veicoli con grande capacità di carico e

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bassi consumi. Inoltre fu necessario creare nuovi pannelli fotovoltaici con materiali efficaci anche a quattrocento gradi centigradi, la temperatura del la-to illuminato di Mercurio, e resistenti al vento solare grazie a schermature di vetri piombati. La progettazione era iniziata quasi seicento anni prima, mentre i pionieri della Società Elettrica atterrarono sul lato buio di Mercurio circa centocinquanta anni dopo. Iniziarono gli scavi in una zona pianeggiante dell’equatore per co-struire la base numero uno cinquanta metri sotto terra, in modo che risultasse protetta da calore e radiazioni quando sarebbe stata illuminata dal Sole. Per primi furono realizzati gli impianti di riciclaggio e trattamento di aria e acqua, che erano risorse preziosissime in quell’ambiente. Furono anche montati i primi pannelli solari, che avrebbero rapidamente reso Mercurio indipendente dalle fonti di energia delle navi cargo che trasportavano materiali, macchinari e personale dalla Terra. Fu poi costruito il sistema di trasporto dell’energia. Inizialmente era un im-pianto molto semplice, interrato di qualche metro nel suolo. Man mano che il giorno mercuriano procedeva, i coloni si spostavano lungo l’equatore per ri-manere sempre al buio; lavorare sotto il Sole di Mercurio avrebbe significato morte certa. Quando i primi pannelli solari raggiunsero il lato illuminato, la quantità di energia prodotta fu di gran lunga superiore a quella necessaria a far muovere i mezzi di terra usati per i lavori. Furono dunque inviate nuove attrezzature e nuovo personale e la velocità di produzione degli impianti s’impennò. Col tempo all’equatore furono costruite quattro basi equidistanti, in modo che due si trovassero sempre sul lato in ombra e due su quello illuminato. L’energia prodotta cresceva proporzionalmente ai metri quadrati di pannelli solari installati. Quella in eccesso fu sfruttata per costruire un’enorme galleria che correva al di sotto dell’equatore e congiungeva le quattro basi, permet-tendo di spostarsi da una all’altra senza uscire in superficie, e le due strade parallele, una delle quali era percorsa da Alayna in quel momento. Circa ogni cento metri c’erano delle intersezioni ad angolo retto che collegavano le due carreggiate. Erano dei passaggi necessari per l’ispezione dei pannelli solari. Ci vollero più di due secoli e uno sforzo umano e tecnologico enorme per po-sare e mettere in opera tutti i pannelli e per completare le quattro basi e le al-tre infrastrutture. Il personale lavorava solamente nella notte mercuriana, spo-standosi nelle basi sul lato buio, seguendo la lenta rotazione del pianeta. “Tutto sommato” pensò Alayna “noi Mercuriani non siamo altro che dei mi-gratori, che inseguono il freddo e il buio come gli uccelli si muovono stagio-nalmente verso le zone più calde.” Vide da lontano le luci verdi della base numero tre. Fermò il rover su una piattaforma circolare del diametro di una quarantina metri, costituita da uno strato di un metro e mezzo di roccia mercuriana fusa e resa perfettamente li-scia.

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“Non è necessario usare materiali raffinati se la roccia è in grado di sostene-re il calore del lato illuminato” pensò la ragazza. Inviò il segnale per l’apertura dell’ingresso della base, provocando la lenta discesa della piattaforma all’interno della superficie mercuriana. Dopo venti metri di discesa la piattaforma si incastrò alla perfezione nella superficie sot-tostante, permettendo al veicolo di muoversi. L’ambiente era un enorme hangar cilindrico di oltre cento metri di diametro, lungo il cui perimetro erano ordinati una cinquantina di rover, escavatrici, camion e mezzi da trasporto, ma soprattutto veicoli-robot intelligenti per le ispezioni e la manutenzione automatizzata dei pannelli. I lati est e ovest erano liberi, poiché vi si apriva la galleria che correva sotto tutto l’equatore e che consentiva di muovere da una base all’altra attrezzature e personale. Il lato nord era occupato da un enorme veicolo, lungo quasi trentacinque metri, il massimo consentito dall’apertura soprastante. Due, no, tre persone stavano lavorandovi intorno con movimenti concitati. Era strano che ci fosse gente al lavoro a quell’ora nell’hangar, e per giunta proprio su quel trasporto. Alayna parcheggiò il rover nella sua postazione, delimitata da un rettangolo verde con la dicitura S-2. Appena libera, la piattaforma di carico si sollevò per richiudere l’accesso alla base. La ragazza indossò il casco e un dispositivo di sicurezza, comunicando con la sua tuta spaziale, disattivò il meccanismo di blocco dello sportello del tra-sporto. Era una precauzione necessaria per evitare che qualche tecnico sbada-to uscisse in un ambiente privo di atmosfera senza indossare la tuta. Al tocco di una placca sullo sportello, l’aria nel veicolo fu risucchiata in appositi serba-toi e la porta si aprì. Sul lato sud si apriva una grande parete metallica. Il sistema di controllo au-tomatico, che l’aveva seguita fuori e dentro all’hangar, capì dove era diretta e fece scorrere lateralmente le due sezioni quel tanto che bastava per farla en-trare, richiudendole dopo il suo passaggio. Di fronte a lei si affacciavano tre camere stagne, mentre a destra e a sinistra due accessi delle stesse dimensioni della parete appena attraversata immette-vano nelle officine meccaniche dotate di atmosfera. Attraversò una delle tre per andare nello spogliatoio, dove si tolse la tuta e indossò i comodi indumen-ti lasciati poche ore prima. La voce di Daren le giunse dal comunicatore del casco mentre lo riponeva. «Alayna, devo vederti immediatamente. Vieni subito a rapporto nel mio uffi-cio.» «Arrivo» rispose asciutta. Si diresse verso i tre ascensori che sprofondavano per altri trenta metri nelle viscere del suolo mercuriano e immettevano nei quartieri abitativi. La ragazza sospirò. Sapeva già che si sarebbe presa una bella lavata di capo per la sua passeggiata incontro al sole nascente. Eppure il suo volto si sciolse rapidamente in un ampio sorriso. Ne era sicura-mente valsa la pena.

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Capitolo 3 Giorno 36 - Selene, Luna La navetta allunò nello spazioporto della città di Selene un’ora dopo la sua partenza dal LABS. Garin disattivò il magnete di sicurezza che lo teneva incollato al sedile e atte-se che il tubo flessibile pressurizzato venisse connesso al mezzo di trasporto. Un tonfo sordo indicò l’avvenuto collegamento al portello laterale. Rabbrividì pensando al vuoto dello spazio che incombeva appena oltre quel tubo flessibile. Aveva da sempre trovato eccitante l’idea di vivere e lavorare nello spazio e non credeva che avrebbe avuto problemi a ottenere tutte le abi-litazioni necessarie per uscire fuori dall’atmosfera come membro di uno staff di ricerca. D’altra parte, la Luna ospitava oramai quasi diecimila persone e la sua popolazione era in continuo aumento. Sulla sua superficie non era infre-quente incontrare persone che erano quasi alla soglia dei settanta anni. Poiché di anni ne doveva compiere trentasei, aveva pensato che per lui le prove di idoneità allo spazio sarebbero state una pura formalità. In effetti, il suo fisico non ebbe nessun problema a sopportare le accelerazioni e la man-canza di peso a cui veniva sottoposto un corpo durante un volo spaziale o un periodo in orbita. Le accelerazioni non erano minimamente paragonabili a quelle sperimentate dai primi pionieri del volo spaziale. Inoltre, sebbene av-vertisse ancora una lieve nausea durante le fasi di transizione tra ambienti a gravità diversa, trovava piacevole lavorare con un peso ridotto e non si senti-va goffo e limitato nelle capacità di movimento, come accadeva a molti. Il difficile era venuto quando gli avevano infilato una tuta spaziale e lo ave-vano fatto uscire fuori. Ricordava quel primo giorno nel vuoto dello spazio come fosse appena avvenuto. Si trovava in orbita bassa intorno alla Terra, nel centro per l’adattamento agli ambienti estremi. Iniziò a capire che non sareb-be stato come bere un bicchier d’acqua nel preciso momento in cui gli sigilla-rono il casco. Sentì la gola seccarsi e il ritmo cardiaco accelerare. Tuttavia diede un segno di assenso all’istruttore che, in tutta risposta sfiorò il comando di apertura del portello della camera stagna. Dissimulando uno sforzo enor-me, riuscì a spingersi in avanti utilizzando i supporti per l’assenza di gravità. Udì il portello richiudersi alle sue spalle. Il rumore gli penetrò nel cervello in maniera così perentoria che provò la sensazione che non si sarebbe mai più riaperto. L’istruttore gli legò un cavo flessibile a un moschettone della tuta. La sua prima passeggiata in assenza di gravità sarebbe stata null’altro che una gita di pochi minuti al guinzaglio della stazione spaziale. Cercò di usare quel

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dato di fatto per farsi forza, ma fu tutto inutile. L’aria venne risucchiata dalla camera stagna e il portello che dava verso l’esterno si aprì. L’ultimo ricordo sfocato che Garin aveva di quell’esperienza era un movimento fluttuante del suo corpo verso la condanna a morte. Superato il portello esterno, fu aggredi-to dal buio circostante e il cuore cominciò a battere all’impazzata. Da lì in poi, non ricordava più nulla. Quando rinvenne, gli dissero che aveva avuto un attacco di panico. Non ave-va risposto a nessuna delle sollecitazioni del suo istruttore, che lo aveva ripor-tato all’interno della stazione in stato di incoscienza. Trasportato d’urgenza in infermeria, era stato rianimato, curato e dichiarato guaribile nel giro di un pa-io di giorni. Naturalmente, per ottenere il suo attuale lavoro, aveva dovuto affrontare nuo-vamente le sue paure e con enorme sforzo fisico e mentale aveva passato il test per il rotto della cuffia. Probabilmente non avrebbe ottenuto l’abilitazione col suo punteggio, se non fosse stato per l’importanza del lavoro che svolgeva all’interno del Progetto ADEC. Tuttora continuava a sentirsi in trappola all’interno di una tuta spaziale, per-cependola come una protezione troppo fragile dall’ambiente mortale circo-stante. Con il tempo si era adattato alle passeggiate lunari, molto aiutato dalla seppur ridotta gravità. Ma era ancora terrorizzato dall’idea di dover affrontare lo spazio aperto. Non aveva invece paura all’interno di strutture fisse o navet-te, che anzi pilotava ottimamente anche nello spazio profondo. Garin fu riportato alla realtà dagli scricchiolii emessi dal lato esterno del por-tello della navetta. Il metallo, fino a poco prima nel freddo vuoto dello spazio, si dilatava a contatto con l’aria a ventiquattro gradi nel tubo di collegamento. Poco dopo il portello si aprì automaticamente. Garin attese il suo turno per uscire, fece un cenno di saluto ai piloti, attraversò il tubo flessibile e mise piede nello spazioporto. Esternamente la struttura si presentava come una mezzaluna dal diametro di un centinaio di metri. Ampie vetrate tappezzavano la sezione curva, da cui si aprivano dodici uscite che collegavano lo spazioporto ai veicoli in arrivo e in partenza, ed era da una di quelle che Garin era appena transitato. Il soffitto piatto e metallico, a circa sei metri di altezza, in quel momento era illuminato da luci tenui e soffuse di colore rosato. Erano passate da poco le sette di pomeriggio e l’impianto di illuminazione era programmato per ripro-durre l’intensità e la colorazione della luce solare con l’evolversi della giorna-ta. Una serie di grossi monitor al centro della sala indicava i trasporti in par-tenza e in arrivo. Moltissime erano le navette da e per il LABS e altre stazioni spaziali o quelle dirette verso la Terra. Trasportavano soprattutto personale che lavorava nello spazio e tornava a casa, come Garin, oppure materiali lavo-rati sulla Luna e diretti verso la Terra. Alcuni trasporti portavano turisti a vi-stare Selene, il più grande insediamento umano al di fuori dell’atmosfera ter-restre. Molto più rari erano i veicoli diretti verso Mercurio, Marte o la cintura

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degli asteroidi, con parti e personale altamente specializzato per la centrale energetica o i siti di estrazione mineraria. Garin, come gli altri passeggeri, attraversò la sala verso il lato retto dello spa-zioporto, dove quattro rampe mobili permettevano di accedere alle zone resi-denziali di Selene. La città portava il nome con cui gli antichi greci indicavano il satellite natura-le della Terra. Probabilmente definire città un insediamento di poco meno di diecimila abitanti, anche se in continua espansione, era eccessivo, ma espri-meva il vanto dell’uomo nella sua spinta verso lo spazio. L’incremento demografico era dovuto alle imprese minerarie, che gestivano i siti su Luna, Marte e asteroidi e ne progettavano altri sui satelliti di Giove e Saturno, ancora non vantaggiosi economicamente per le ridotte velocità rag-giungibili. Stavano anche monitorando i satelliti di Urano e Nettuno con son-de automatiche, per un possibile sfruttamento futuro. Le imprese minerarie erano sotto il controllo del governo della Terra, che era il loro principale finanziatore. Nonostante ciò, parecchie compagnie private avevano investito notevoli quantità di denaro in quel settore e partecipavano attivamente alle decisioni strategiche, oltre che agli utili. Si erano consorziate dando vita alla cosiddetta “Corporazione”, che da decenni battagliava in tutte le sedi legali per ottenere completa autonomia dalla morsa politica. Per la gran quantità di metalli che vi transitava, la Luna era anche il principale centro di progettazione e assemblaggio di veicoli spaziali. La ridotta gravità la rendeva infatti il più importante snodo del traffico spaziale. Una delle po-che eccezioni era rappresentata dal LABS, che si trovava nello spazio, sito ideale per l’assemblaggio dei veicoli interstellari del Progetto ADEC data la loro enorme massa e la conseguente difficoltà a farli decollare dalla superficie lunare. La Luna era anche un importante polo di produzione e distribuzione dell’energia solare generata su Mercurio, che da lì veniva convogliata verso la Terra. Inoltre vi si produceva il combustibile di tutti i veicoli spaziali che vi transitavano. Il deuterio, cioè l’idrogeno arricchito di un neutrone, e l’elio-3, ossia l’elio comune privato di un neutrone, erano i reagenti che rendevano possibile muoversi nello spazio grazie alla fusione nucleare. Entrambi erano prodotti bombardando l’acqua con dei neutroni per ottenere due isotopi dell’idrogeno, deuterio e trizio, con quest’ultimo che decade spontaneamente in elio-3. Un decadimento molto lento, giacché ci vogliono circa dodici anni affinché la metà di una qualunque massa di trizio si trasformi in elio-3, ma la quantità di idrogeno lavorato garantiva molto più combustibile di quello ne-cessario a tutti i veicoli spaziali. Infine la Luna ospitava un gran numero di scienziati, la maggior parte dei quali lavorava al Progetto ADEC o ai telescopi che si trovavano sulla faccia nascosta. Garin terminò la sequenza dei propri pensieri sulle molteplici e strategiche attività che stavano facendo espandere così velocemente Selene, che tuttavia

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rimaneva essenzialmente un enorme complesso governativo al quale si poteva accedere solo con speciali permessi. Era però certo che in un futuro non trop-po lontano l’accesso alla Luna sarebbe stato liberalizzato, facendo fiorire e-sercizi commerciali e insediamenti privati con un conseguente incremento demografico che avrebbe fatto impallidire quello attuale. Salì su una delle rampe mobili che scendevano verso il centro di Selene. Qua-si tutte le installazioni lunari si trovavano sottoterra ed emergevano in super-ficie per meno di un metro. Lo spazioporto costituiva una delle poche ecce-zioni, data la peculiarità della sua funzione. Garin raggiunse la zona più profonda della città, dove si trovavano le sale comuni e le mense. Queste, dovendo fornire nutrimento a quasi diecimila per-sone, erano aperte dalla mattina presto fin quasi a mezzanotte e alcune orga-nizzate in turni per i pendolari delle stazioni spaziali e delle altre installazioni lunari. Ciò nonostante, essendo da poco passate le diciannove e trenta, l’affollamento raggiungeva il suo apice. Garin attese pazientemente il proprio turno. Prese un vassoio con posate, to-vagliolo e bicchiere già inseriti e bloccati in appositi scomparti. Poggiò il pol-lice sinistro su una placca del vassoio e un piccolo schermo nella parte supe-riore si attivò mostrando un messaggio di benvenuto e l’indicazione del credi-to residuo. Passando per i banchi con le porzioni di cibo in contenitori sigilla-ti, lo schermo li mostrava in rotazione tridimensionale e suggeriva quali sce-gliere in base allo stato di salute, alla dieta e ai pasti precedenti. Ignorando le indicazioni, Garin scelse un preparato al sapore di pollo, purè e un budino. Vicino alla cassa, vassoio e contenitori trasferirono automaticamente codici e informazioni, permettendo l’aggiornamento del database centrale e sottraendo il conto dal suo credito. Trovare un posto per sedersi a quell’ora non fu facile. Garin individuò un ta-volino dal quale due uomini si erano appena alzati e percorrendo gli angusti spazi raggiunse uno dei posti liberi. «Posso unirmi a voi?» chiese rivolgendosi alle altre persone sedute. «Garin, ciao!» replicò l’uomo di fronte a uno dei posti vuoti «certamente, sie-diti pure!» Garin si sedette e squadrò dubbioso il suo interlocutore. Poi lo riconobbe. «Ronald! Ma che cosa hai combinato?» chiese meravigliato. «Ah, ti riferisci a questi?» rispose Ronald indicandosi la testa «niente di che, solamente un cambio di look.» Garin era ancora con lo sguardo fisso sulla capigliatura del collega. Per quan-to poteva ricordare, aveva sempre portato i suoi capelli neri molto lunghi, spesso raccolti in una coda. Ora li aveva tagliati quasi del tutto, lasciandoli cortissimi e a spazzola. Ma quel cambiamento drastico passava in secondo piano, oscurato dall’abbagliante colore arancione di cui rifulgeva ora la sua chioma. «Si nota appena» disse Garin ironicamente «c’è un motivo particolare per tut-to questo?»

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«Niente di che, io e la mia ragazza ci siamo lasciati.» «Perfetto! Bella figura che ho fatto!» «Tranquillo, va tutto bene, davvero.» «Comunque cambiamo argomento» disse Garin. Non amava discutere certi particolari, sia per non mettere in imbarazzo l’interlocutore, sia perché non lo interessavano minimamente. Ronald lavora-va con lui al Progetto ADEC. Era ingegnere informatico e si occupava dell’architettura e dell’assemblaggio dei processori e delle memorie che costi-tuivano l’intelligenza artificiale che avrebbe condotto il veicolo nella sua lun-ga missione tra le stelle. «Come va la costruzione del cervellone?» chiese. «Non ci lamentiamo» replicò Roland «la cosa veramente incredibile è come i primi quattro veicoli ADEC abbiano funzionato a meraviglia. Voglio dire, la tecnologia usata cinquecento anni fa per l’intelligenza artificiale era poco più avanzata di quella che al giorno d’oggi si trova all’interno dei nostri disposi-tivi portatili. A parità di dimensioni e dissipazione, ora riusciamo a ottenere capacità di calcolo e memoria quasi duecento volte maggiori, con architettura parallela e altamente ridondata. Tutto questo si traduce in una intelligenza più evoluta, nella capacità enormemente ampliata di memorizzare informazioni e conoscenza e nella minore probabilità di malfunzionamenti a lungo termine. Si sta pensando di sfruttare questo vantaggio per sviluppare inizialmente otto embrioni invece dei quattro dei modelli precedenti. I nuovi calcolatori con-sentiranno di gestire le interazioni tra un numero maggiore di individui. Per-sonalmente considero un piccolo miracolo che una delle piramidi della passa-ta generazione abbia trovato il pianeta intorno a Epsilon Eridani, vi sia atter-rata e abbia sviluppato e cresciuto i primi embrioni fino all’età adulta. Se fos-se andato storto anche il più piccolo particolare e ne fosse morto uno, magari il maschio, avremmo gettato alle ortiche il lavoro di sei secoli. Con otto indi-vidui a disposizione i rischi sono notevolmente ridotti.» «Sono d’accordo» assentì Garin «tuttavia, è grazie al successo della prima generazione che la ricerca ha ricevuto questa grossa spinta.» «Vero» concesse Ronald «anche nel tuo campo avete fatto notevoli progressi e il tuo lavoro non è passato inosservato» aggiunse con una punta di invidia, riferendosi al fatto che era stato notato dal capo del Progetto ADEC e che le sue quotazioni erano in costante ascesa. «Be’, grazie» disse ancora Garin «ma sono stato molto fortunato a lavorare fin dalla tesi di laurea sui propulsori migliorati e da allora ho fatto molta espe-rienza in un campo che, grazie al successo di Epsilon Eridani, sta ricevendo un’enorme attenzione.» «Dai, non fare il modesto. Il tuo contributo è stato determinante nell’aumentare l’efficienza delle reazioni nucleari all’interno dei motori. Qua-le sarà il fattore di guadagno?»

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«Gli ultimi test hanno rilevato una velocità di punta dell’ottanta percento su-periore a quella dei vecchi modelli. Realisticamente, dovremmo arrivare al novanta per cento prima della partenza della quinta piramide.» «E poi, se non sbaglio, il tuo lavoro ha permesso di diminuire le dimensioni dei propulsori, che presto si potranno montare sulle navette comuni per dimi-nuirne i tempi di viaggio. Non stavi già lavorando a un prototipo?» «Accidenti come viaggiano in fretta le notizie!» «La Luna è piccola e la gente mormora, amico mio! Come sta andando questo tuo progetto?» «Be’, per dire la verità va proprio a gonfie vele» confessò Garin «il prototipo è praticamente completo. Dobbiamo solamente verificare i meccanismi idrau-lici che consentono ai moduli abitativi di spostarsi in funzione della gravità artificiale e fare il pieno di propellente. Potremmo iniziare la prima fase dei test entro pochi giorni, volendo.» «Ma è fantastico! E che cosa aspetti allora? Fossi in te non starei nella pelle e cercherei di muovermi il prima possibile!» «Anche Cassian spinge per accelerare i tempi» disse Garin «tuttavia prima di partire voglio assistere al messaggio che sarà inviato su Epsilon Eridani. Sarà un momento storico, forse il più importante nella storia dell’umanità e non voglio perdermelo.» «Ti capisco. Il mio capo reparto dice che è questione di poche settimane or-mai, anche se ho dovuto estorcergli quasi con la forza questa informazione, ma immagino che tu lo sappia già. Posticipare la tua partenza di qualche gior-no non sarà certo la fine del mondo.» Nel frattempo Ronald aveva finito di spazzolare tutto il contenuto del vassoio. «Be’, mi spiace lasciarti qui da solo, ma ora devo andare» disse alzandosi dal tavolo «alle otto e mezza ho un appuntamento per andare a un concerto di musica classica nella sala acustica tre.» «E da quando in qua ti piace la musica classica?» chiese Garin dubbioso. Poi un lampo di comprensione attraversò il suo sguardo e aggiunse: «Ah, lascia stare, ho capito. Vedo che la fine della tua relazione non ha lascia-to strascichi. Salutami il tuo “appuntamento”!» «Magari le chiedo se ha un’amica» propose Ronald stringendo la mano a Ga-rin. «Certo! Poi se le dici che starò via per una lunga missione nello spazio, sono sicuro che si formerà la fila fuori dalla mia stanza!» «Non sottovalutare l’attrattiva che esercita una persona che non rivedrai mai più!» sentenziò Roland allontanandosi ridendo. Girato com’era di spalle, poté solo immaginare il gesto scaramantico che Garin stava facendo in quel mo-mento. L’afflusso di persone alla mensa si andava riducendo, sebbene molte fossero ancora sedute ai tavoli a mangiare e a chiacchierare. Garin terminò il suo pa-sto e si diresse verso l’uscita, depositando il vassoio in un apposito apparec-

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chio dove sarebbe stato separato dalle stoviglie, pulito e preparato per un nuovo utilizzo. All’esterno della mensa, le varie sale ritrovo andavano via via riempiendosi. Alcune erano dedicate al cinema, altre alla musica, altre ancora erano sola-mente dei piccoli salottini per rilassarsi e scambiare quattro chiacchiere. Garin si diresse verso gli ascensori che permettevano di risalire al suo livello abitativo. Sebbene non disdegnasse un bel film o della buona musica, quella sera aveva ancora un po’ di scartoffie da riempire. L’area abitativa si svilup-pava in dieci livelli attorno alla zona centrale di Selene, dove erano ubicate le zone comuni. Entrò in un ascensore e selezionò il numero due. La porta si chiuse e iniziò la salita, mentre sul display scorrevano i numeri dei livelli in ordine decrescente. L’ascensore si aprì su un angusto corridoio con diramazioni ortogonali e rico-veri su entrambi i lati. Uscito dall’ascensore, Garin si diresse a est, si mise di lato per far passare una persona che procedeva in senso opposto e superati al-cuni angoli arrivò alla sua stanza. La piccola porta a scorrimento laterale si aprì a un tocco della sua mano e si richiuse dopo che fu entrato. Sulla Luna tutto era progettato per risparmiare spazio, inclusa la sua stanza; un rettangolo di pochi metri quadrati con soffitto basso, arredato con uno stretto letto disfatto, una parvenza di comodino, un armadio, un mini lavabo e una sedia di fronte a una piccola scrivania ingombra di tutto. Garin si diresse verso la sedia facendosi largo tra i vestiti sparsi disordinata-mente in terra, a cui si aggiunse la giacca della tuta che indossava. Seduto alla scrivania, attivò il monitor incassato nella parete e collegato all’unico grande elaboratore parallelo di Selene, che serviva tutta la città. Lesse e rispose ai messaggi che aveva lasciato in sospeso quando si trovava sul LABS e poi aprì un programma di elaborazione grafica mediante il quale stava riprogettando la disposizione degli elementi interni della navetta-prototipo sulla quale avrebbe volato tra qualche settimana. Era sicuro che fos-se possibile disporre gli impianti in maniera tale da sfruttare ancora meglio gli spazi del veicolo. Di sicuro non sarebbe stato possibile apportare quelle modi-fiche prima del suo lancio, ma sarebbero tornate molto utili per un progetto futuro o magari, fantasticò, quando il suo prototipo sarebbe passato alla fase di produzione in serie. Lavorò fin dopo mezzanotte, quando realizzò che la stanchezza stava pren-dendo il sopravvento. Stiracchiandosi, spense lo schermo e cercò sulla scriva-nia lo spazzolino elettrico, che invece era finito in terra. Lo raccolse e si lavò i denti. Garin avrebbe apprezzato doccia e gabinetto in camera, ma l’efficienza degli impianti di distribuzione e riciclaggio dell’acqua imponeva l’uso di bagni in comune. Perciò prese un asciugamano pulito e uscì per usare i servizi più vi-cini. Tornato al suo alloggio si spogliò e si gettò sul letto. Cercò di riprendere la lettura di un libro elettronico che da troppo tempo aveva iniziato ma rinunciò

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ben presto, vinto dal sonno. Regolò per le sette la sveglia sopra la testiera del letto, spense la luce e si addormentò quasi subito. Tuttavia quella notte non dormì a lungo quanto aveva programmato.

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Capitolo 4 Giorno 36 - Base M-3, Mercurio Alayna selezionò il terzo livello, che ospitava gli uffici. Le porte dell’ascensore si aprirono e la ragazza uscì in uno stretto corridoio. Un centi-naio di piccoli cubicoli erano disposti in tre quadrati concentrici attorno agli ascensori ed erano accessibili tramite una rete di angusti corridoi ortogonali. Anche su Mercurio lo spazio era un lusso. Arrivata sulla soglia dell’ufficio di Daren fece un sospiro di rassegnazione, poi prese coraggio e bussò. La porta si aprì a un tocco di Alayna mostrando il lato opposto, totalmente occupato da una scrivania, davanti alla quale sedeva un omone dalla pelle scura. Daren era già girato verso l’ingresso, in attesa di parlarle. Sembrava molto agitato. «Siediti» disse. Non essendoci altre sedie nella piccola stanza, Alayna tirò fuori da sotto alla scrivania una cassettiera e vi si sistemò, urtando il gomito contro il bordo del mobile. Reprimendo un gemito, si rivolse al suo capo. «Senti, Daren» iniziò «lo so che non avrei dovuto allontanarmi dall’area che mi avevi assegnato per la mia ricognizione, ma non potevo farmi sfuggire l’occasione!» «Alayna…» provò a inserirsi l’uomo. «No, ascoltami! Qua dentro sono tra i migliori elementi che tu abbia mai ad-destrato, anzi, probabilmente sono la migliore!» «E anche la più modesta, però…» «Non fare lo spiritoso!» lo rimbeccò la ragazza «la maggior parte dei dipen-denti della Società Elettrica sono qui solamente per soldi. Il lavoro su Mercu-rio è svolto in maniera sciatta e approssimativa. Tutti tirano a campare facen-do il minimo indispensabile per non essere cacciati via!» «Vedo che oltre a essere modesta sei anche diplomatica e sai apprezzare le qualità dei tuoi colleghi!» provò ancora Daren «anzi, ti ringrazio in particola-re per la stima che nutri per me!» continuò sorridendo. Alayna arrossì lievemente, rendendosi conto della gaffe che aveva fatto. Ciò contribuì a smorzare un po’ i toni della sua polemica. «Sai bene che non stavo riferendomi a te» disse «sei l’unica persona qua den-tro che si è guadagnata il mio rispetto. Però anch’io credo di aver meritato il tuo.»

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«Certo, ragazzina» concesse Daren «non avrei niente di cui lamentarti se non partissi per la tangente ogni volta che ti senti attaccata e…» «Allora lo vedi che non mi capisci? Che male c’è se dopo aver fatto il mio giro passo un po’ di tempo là fuori da sola? Ho bisogno di quei momenti, mi aiutano a svolgere bene il mio lavoro e a essere la migliore!» «E…» insistette ancora Daren, calcando quella vocale con tutta la sua voce poderosa per interrompere nuovamente lo sfogo della ragazza «se ogni tanto ascoltassi il tuo interlocutore, soprattutto se l’interlocutore sono io!» «Va bene, va bene!» Esclamò Alayna «fai quello che devi, su! Fammi questa predica e facciamola finita!» «Com’era lo spettacolo la fuori?» domandò Daren. Alayna rimase interdetta. Non era certo la domanda che si era aspettata. Il suo sguardo si posò sul poster che troneggiava sopra la scrivania di Daren. Occu-pava quasi tutta la parete e raffigurava la Terra così come appariva dal LABS, in una spettacolare immagine ad altissima definizione. Il nero dello spazio e le stelle che si vedevano intorno al globo bianco-azzurro erano le stesse che aveva visto poco prima, le stesse che incastonavano l’enorme Sole che si sta-gliava basso sull’orizzonte di Mercurio. «Indescrivibile» disse rispondendo alla domanda del suo superiore «avresti dovuto vederlo!» «Ma io l’ho visto» la corresse Daren «molte più volte di quante l’hai visto tu, dato che ho quasi cinquantatré anni mentre tu ne hai solo ventotto.» «Benissimo!» esclamò Alayna, non senza un pizzico di sorpresa nell’apprendere per la prima volta che anche il suo capo si concedeva, o si era concesso in passato, qualche scappatella come la sua «allora non te la potrai prendere più di tanto se lo faccio io!» «E chi ti ha detto che me la sono presa?» «Ma…» balbettò Alayna «allora perché mi hai contattata quando ero là fuori, chiedendomi di tornare? E perché di nuovo mi hai cercata appena sono rien-trata?» chiese sconcertata. Daren sospirò, poi volse la sedia girevole verso il suo monitor. Gli lanciò un’occhiata e lo spense. «Vieni» disse alla ragazza alzandosi dalla sedia «andiamo a mangiare qualco-sa. Ti spiego tutto giù a mensa.» Alayna si alzò e seguì l’uomo fuori dall’ufficio, attraversando a ritroso i cor-ridoi che conducevano agli ascensori. La ragazza non capiva. Era certa che fosse stata convocata dal capo per una lavata di testa, ma era ormai evidente che c’era qualcos’altro dietro. Ma cosa? L’ascensore scese dal terzo al quarto livello. La porta si aprì su una vasta area che conteneva la mensa e le sale ricreative. Oltre all’hangar era l’unica sezio-ne nella quale un claustrofobico avrebbe potuto sopravvivere. L’unica con-cessione della progettazione spartana incentrata allo sfruttamento di ogni cen-timetro quadro della base alla necessità di spazi aperti spesso desiderati dagli uomini. Alayna non ne capiva la necessità. Si trovava a proprio agio tra i cu-

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bicoli degli uffici del piano superiore e quelli delle aree residenziali nei primi due livelli della base, immediatamente sotto l’hangar. Quando proprio sentiva la necessità di uno spazio aperto le bastava salire in superficie e perdersi nello spettacolo del cielo di Mercurio. I due oltrepassarono l’ingresso della mensa dirigendosi sulla sinistra, verso la zona dove erano sistemati i cibi. Presero un vassoio ciascuno e cominciarono a riempirlo con le portate, dopo aver certificato la propria identità sulla placca di riconoscimento delle impronte digitali. L’area a destra era occupata da una dozzina di tavolini da quattro posti. In quel momento c’erano solo tre addetti alla manutenzione, seduti al tavolo più lontano. Il loro fitto vociare permeava il locale e qualche sonora risata rimbombava nell’ambiente basso. Alayna e Daren sedettero al tavolo più vicino all’ingresso. «Sai, ti vedo parecchio nervosetta in questo ultimo periodo, non trovi? Il tuo sfogo di poco fa ne è una dimostrazione. Forse dovresti trovarti un ragazzo; ce ne sono di carini qui alla stazione tre.» Alayna incurvò un sopracciglio guardando il suo interlocutore con aria so-spettosa. «Non ho la minima intenzione di legarmi con uno di questi mollaccioni attac-cati alla Terra!» replicò «in quanto al sesso, non ti preoccupare per me. So benissimo come trattare con voi uomini.» «Non ne dubito» acconsentì Daren «sei una ragazzina niente male!» Non c’era malizia nella battuta dell’uomo. Alayna lo conosceva da troppo tempo per non accorgersene. Daren era certamente un uomo da non disdegna-re a dispetto dei suoi oltre cinquanta anni. Tuttavia la differenza di età, il ri-spetto e la stima reciproci e il loro rapporto lavorativo erano una barriera in-sormontabile all’inizio di un qualsiasi tipo di relazione fisica. Quello che pre-occupava la ragazza era che l’uomo continuava a indugiare su argomenti futi-li, senza passare a comunicarle il vero motivo del loro incontro. Decise di rompere gli indugi. Detestava le attese. «Daren, dacci un taglio» disse all’improvviso «spiegami perché siamo qui.» L’uomo fece un profondo respiro, poi le comunicò la notizia. «Abbiamo perso il contatto col sette e l’otto beta.» «Cioè? Non segnalano la loro posizione? Non ricevono o trasmettono energi-a?» chiese Alayna allarmata, con la forchetta ferma a mezza strada tra piatto e bocca. «Tutto quello che hai detto. Sono semplicemente morti, come se non esistes-sero più. Il trasferimento di energia verso la Terra è passato automaticamente alla linea alfa.» «Ma non è possibile!» La forchetta di Alayna ricadde nel piatto con un tintin-nio metallico «come può essere che due ripetitori smettano di funzionare con-temporaneamente?» «In realtà non proprio contemporaneamente. Abbiamo perso il contatto con l’otto beta poco dopo che tu sei uscita per il tuo giro. All’inizio non ci siamo preoccupati. Momenti di black out nelle comunicazioni tra Mercurio e i ripe-

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titori che trasmettono l’energia solare alla Terra sono molto frequenti a causa dei picchi dell’attività solare.» «Ma questi black out durano poche decine di minuti. I casi in cui si sono pro-tratti per più di un’ora si contano sulle dita di una mano.» «Esattamente. All’inizio abbiamo semplicemente atteso che il contatto si ri-stabilisse. Ma quando sono passate due ore e l’otto beta non tornava in linea ci siamo preoccupati. Abbiamo provato a cambiare le frequenze di ricezione del segnale, abbiamo lanciato tutti i programmi di diagnostica per vedere se c’era qualcosa che non andava nel nostro apparato di comunicazione, l’abbiamo quasi smontato per trovare il problema. Non abbiamo trovato nes-sun guasto nei nostri sistemi. Tra l’altro, continuiamo a ricevere i segnali da tutti gli altri ripetitori, quindi non è verosimile che il problema dipenda da Mercurio.» Alcuni momenti di silenzio scesero tra di loro. Alayna rifletteva, cercando di riordinare i pensieri. Aveva i gomiti poggiati sul tavolo ed entrambe le mani sul viso, che massaggiavano nervosamente le orbite degli occhi. L’otto beta poteva semplicemente aver smesso di trasmettere i segnali di controllo oppu-re, cosa più grave, essere andato incontro a un guasto di maggiore entità che comprometteva le sue capacità di trasferire energia alla Terra. Distinguere tra i due casi era semplice. Se la Terra non riceveva più energia voleva dire che il guasto era esteso. «So a cosa stai pensando» disse Daren anticipando la sua domanda «tre ore dopo la perdita del segnale abbiamo ricevuto dalla Terra il messaggio che a-vevano convogliato il trasferimento dell’energia lungo la linea alfa e ci chie-devano un rapporto su quello che era successo.» “Dalla Terra hanno seguito la procedura d’emergenza” pensò Alayna “da quando il flusso di energia si è interrotto, hanno atteso due ore e poi attivato il cambio della linea di trasferimento. Su Mercurio questa informazione è ar-rivata più tardi per via dei tempi tecnici di trasmissione.” «Che cosa avete fatto dopo aver ricevuto il messaggio dalla Terra?» chiese ansiosa. «Abbiamo risposto che non avevamo dati sufficienti per una conclusione sull’accaduto. Mentre li informavamo che da Mercurio non potevamo fare niente altro per capire e risolvere il problema, abbiamo perso anche il sette beta.» «E questo quando è successo?» «Circa sette ore dopo l’interruzione del primo contatto» rispose Daren «quan-do tu eri ormai rientrata alla base.» «Ossia quando mi hai contattato dicendomi che dovevi vedermi immediata-mente» concluse per lui. «Esattamente.» «Be’, questa è una cosa grossa. È davvero grossa, Daren!» esclamò «in quat-trocentocinquanta anni si sono verificati solo altri due guasti ai ripetitori. Le manutenzioni che effettuiamo sono scrupolosissime e prevengono la maggior

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parte degli inconvenienti dovuti all’usura. Mai era successo che si rompessero due ripetitori insieme. Di sicuro non può essere un caso. Avete idee su cosa possa essere accaduto?» «Di recente è stato diramato un allerta per lo sciame di meteore che stava at-traversando la parte interna del Sistema Solare, tra la Terra e Mercurio. Come da procedura standard ci eravamo fatti mandare dall’Osservatorio Lunare più particolari sulla loro traiettoria.» «Be’, ora non mi verrai a raccontare che delle meteore hanno incrociato esat-tamente la traiettoria di non uno, ma due ripetitori?» chiese Alayna con un tono di voce che trasudava scetticismo. «So anche io che la probabilità di un simile evento è minima» rispose Daren «tuttavia gli ultimi dati sulla traiettoria dello sciame erano compatibili con quanto hai appena affermato sarcasticamente.» «Suvvia, Daren! Anche ammesso che tutti i calcoli siano esatti e che - contro ogni probabilità - le traiettorie si intersechino perfettamente, le possibilità che ci sia un impatto sono veramente remote. La densità degli sciami di meteore è bassissima, ci sono centinaia di chilometri tra l’una e l’altra. Già per immagi-nare che abbiano colpito un ricevitore ci vuole molta fantasia, ma per due è veramente impossibile!» Daren posò la forchetta sul vassoio. Aveva perso l’appetito. «Senti un po’, ragazzina, sono un bel po’ più grande di te e non ho bisogno di una lezione di statistica!» abbaiò l’uomo «questo è il massimo a cui siamo riusciti a pensare mentre tu eri là fuori ad abbronzarti. Se tu hai altre idee, sa-rò ben lieto di starti ad ascoltare!» Alayna rimase colpita dallo sfogo di Daren, che però era comprensibile data la situazione decisamente grave. «Daren, cerchiamo di non scaldarci» disse «ammettiamo per amor di discus-sione che due meteoriti abbiano colpito due ripetitori, contro ogni probabilità. Quei dispositivi hanno un diametro di oltre tre chilometri. La maggior parte della loro superficie è fatta di un materiale leggero destinato ad assorbire l’energia proveniente da Mercurio. Un meteorite in rotta di collisione sempli-cemente lo attraverserebbe aprendoci sopra un foro, senza neanche rallentare. Il cambiamento di rotta del ripetitore sarebbe irrisorio e compensato automa-ticamente dai suoi sistemi di propulsione. Continuerebbe a trasmettere la sua posizione qui su Mercurio e a inviare l’energia sulla Terra. Al massimo la ri-duzione di superficie assorbente comporterebbe una moderata diminuzione dell’energia ricevuta e ritrasmessa, ma questo sarebbe tutto. Per perdere del tutto il segnale e per compromettere le funzioni di trasferimento dell’energia, l’impatto dovrebbe avvenire sulla parte centrale del ripetitore, un bersaglio di una decina di metri di lato. Ti pare possibile che un’eventualità del genere si verifichi non per uno, ma per due dispositivi?» Daren chiuse gli occhi e si passò le mani sulle tempie. «Alayna, è tutto il giorno che ci lavoriamo su e comincio a essere stanco an-che solo a parlarne. Ti ridico quello che ti ho appena detto e che ci siamo con-

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tinuati a ripetere con tutti gli altri tecnici qui alla base. Sono scettico anche io su questa possibilità e non la prenderei nemmeno in considerazione se avessi anche una sola spiegazione alternativa. Ma non ce l’ho. Nessuno ce l’ha e per quanto ho potuto capire nemmeno tu ne hai una.» “No” pensò la ragazza. Non aveva una soluzione a quel problema. Probabilmente era anche inutile cercare di fare congetture lì da Mercurio. Andare sul posto a verificare lo sta-to dei ripetitori sarebbe stato l’unico modo per capire che diavolo era succes-so. Tanto più che ora la Terra riceveva l’energia sull’unica altra linea rimasta, e se ci fosse stato un problema anche a quella il pianeta non avrebbe più potu-to venir approvvigionato. «Be’, direi che sapremo presto che cosa è successo» disse infine Alayna «ho visto tre persone su nell’hangar che lavoravano alacremente alla navicella. La stanno preparando per il decollo, immagino.» «Esattamente» confermò Daren «dobbiamo riparare il guasto prima possibile. Non possiamo lasciare la Terra con una sola linea di trasmissione dell’energia.» «Quando partirà la missione di manutenzione?» «Domani mattina alle 6.30» rispose Daren «i tecnici su all’hangar devono ve-rificare tutti i sistemi della nave e rifornirla. Ma la cosa che prenderà più tem-po sarà caricare a bordo un nuovo ripetitore dopo averne provato il funziona-mento, nel caso in cui sia impossibile riparare uno dei due che non inviano più il segnale.» «E se tutti e due necessitassero di essere sostituiti?» «In tal caso dovremo fare due viaggi» spiegò Daren «la navetta non è abba-stanza grande per contenere due di quei bestioni. Già uno solo c’entra a mala-pena. Per fortuna il materiale assorbente è leggero e sottile, così da poter esse-re ripiegato e infilato in uno spazio relativamente piccolo come la stiva della navetta.» «Aspetta un momento. Sbaglio o hai detto “dovremo”?» «Non sbagli» confermò Daren «saremo tu e io ad andare lassù a vedere che cosa è successo.» «Ma io non l’ho mai fatto!» esclamò Alayna con una punta di terrore nella voce. «Non dire fesserie» la contraddisse Daren «sei già stata l’anno scorso a fare il tuo normale giro di manutenzione sulla linea alfa.» «Ma è diverso! Si tratta solo di controllare che i ripetitori non presentino gua-sti e sostituire delle parti che per regolamento della compagnia devono essere rimpiazzate periodicamente. Sono operazioni di routine!» «E con ciò? L’importante è sapersi muovere nello spazio a gravità zero e ave-re ben presente quello che bisogna fare.» «Non scherzare, Daren! Tu stai parlando di andare lì alla cieca, senza sapere in anticipo il tipo di intervento che ci aspetta! Non ho mai fatto una cosa del genere, deve andare qualcuno più esperto di me!»

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«Ragazzina, su tutto Mercurio a parte me nessuno l’ha mai fatto. L’ultimo guasto a un ripetitore è avvenuto quasi vent’anni fa e in vent’anni il personale della base può cambiare per intero. Quella volta fui scelto io perché ero un giovane promettente e sapevo fare bene il mio lavoro. Fu un bene che sce-gliessero un giovane, così da fargli fare quell’esperienza. Ora come vedi mi tornerà utile. Per lo stesso motivo oggi io scelgo te per accompagnarmi.» «Daren, non so se sono in grado di fare una cosa del genere, forse non sono ancora pronta.» «Cosa fai, ti contraddici?» la punzecchiò l’uomo «non fai altro che vantarti di essere la migliore qua dentro e continui a definire smidollati tutti gli altri per-ché non si trovano a loro agio su Mercurio. Be’, femminuccia, è arrivato il momento che tu lo dimostri veramente, e non solo a chiacchiere!» Alayna guardò l’uomo esterrefatta, sentiva la rabbia crescerle dentro. Come osava Daren fargli quella predica? Aveva sempre adempiuto ai suoi incarichi nel migliore dei modi, sempre! Che cos’altro doveva ancora dimostrare? «Ma come ti permetti di parlarmi così?» disse infine «ho sempre dato l’anima per questo lavoro, lo sai meglio di me! Non ti basta? Benissimo! Andiamo lassù a sistemare quegli affari, poi vediamo se farai ancora di queste insinua-zioni!» Gli occhi scurissimi di Daren fissarono quelli azzurri di Alayna. Il suo sguar-do era penetrante e sembrava trasudare ostilità. Dopo qualche secondo le lab-bra dell’uomo si incurvarono in un lieve sorriso, seguito poi da una forte risa-ta. «Ma guardati» disse quando ebbe finito di ridere, asciugandosi alcune lacrime dagli occhi «sei diventata tutta rossa dalla rabbia!» Alayna, spiazzata dal comportamento del collega, si toccò le gote ancora cal-de. «E vorrei vedere!» esclamò dubbiosa «tu come avresti reagito?» «Non saprei, non mi capita quasi mai di perdere le staffe così» rispose Daren «invece a te capita spesso. Ma in fondo è proprio quello che volevo. Quando vieni punta sul vivo di solito dai il meglio di te e ti passa la paura, infatti dopo il tuo sfogo hai accettato immediatamente di venire in missione.» Alayna sospirò. C’era cascata un’altra volta. Daren giocava spesso con il suo orgoglio per motivarla. Non le dispiaceva che il suo capo tirasse fuori il me-glio di lei, ma non tollerava il modo. Probabilmente, pensò, quello che non le andava a genio erano gli sfoghi di rabbia che non riusciva a contenere in de-terminate situazioni. In pratica ce l’aveva più con se stessa che non con il suo interlocutore, giacché in quel modo pensava di mostrare all’altro una sua de-bolezza. «Bene» disse Daren «ora vatti a riposare. Ci vediamo domattina alle cinque nella sala comune numero due per il briefing di missione.» I due si alzarono, depositarono i vassoi nel dispositivo adibito alla loro pulizia e uscirono dalla mensa. Si diressero agli ascensori prendendone uno verso i

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livelli abitativi. Alayna uscì al livello due, dove si trovavano entrambe le loro camere, ma Daren non la seguì. «Non vai a dormire?» gli chiese. «Non ancora» replicò lui «faccio un salto su nell’hangar per vedere come procede la preparazione della navetta, ma ci metto pochi minuti.» «Bene, buonanotte allora.» «Buonanotte» rispose Daren. «Ah, Alayna…» disse ancora sorridendo, mentre le porte dell’ascensore co-minciavano a richiudersi. «Sì?» «Lo sai che sei molto più carina quando ti arrabbi?» «Se non la pianti di sfottere cambio i connotati a quel muso nero che ti ritro-vi!» disse la ragazza. Ma la sua minaccia andò a sbattere contro il metallo della porta dell’ascensore, che stava riprendendo la sua salita verso la superficie.

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Capitolo 5 Giorno 37 - Selene, Luna Garin si svegliò di soprassalto, o meglio, qualcosa lo aveva svegliato. Sollevò la schiena e si guardò intorno con gli occhi ancora semichiusi per il sonno. C’era una tenue luminosità nella stanza. Dischiuse allarmato le palpebre, fi-nalmente del tutto sveglio. La luminosità proveniva da sopra alla scrivania. Improvvisamente un suono breve e acuto echeggiò nella stanza, ripetendosi per tre volte con intervalli di un secondo. Poi di nuovo silenzio. “Una chiamata” pensò “ma che ore sono?” Si alzò a fatica e barcollò verso la sedia davanti alla scrivania. Si sedette e os-servò lo schermo. Sullo sfondo bianco che feriva i suoi occhi ancora abituati al buio, lesse le parole: “Chiamata in arrivo da Cassian Gladwyn”. Il direttore del Progetto ADEC che lo chiamava a quell’ora di notte? Ma poi che ore erano? Toccò lo schermo per accettare la chiamata. Il viso di un uomo oltre la ses-santina apparve sulla superficie del video. Un lieve sorriso gli si dipinse sul volto, vedendo il viso assonnato del suo interlocutore. «Ciao Garin» disse Cassian «non mi dire che stavi dormendo!» «Figurati!» replicò ironico Garin «non crederai mica che la gente dorma a quest’ora! A proposito, che ore sono?» «Quasi le quattro del mattino» rispose l’altro. Garin studiò il viso di Cassian. L’uomo aveva una testa quasi del tutto calva, con pochi ciuffi di capelli bianchi a testimoniare la sua età non più verdissi-ma. Gli occhi azzurri tuttavia esprimevano ancora una vivacità propria di un individuo con almeno trent’anni di meno. In quel momento però erano cir-condati da profonde occhiaie, segno di preoccupazione o di carenza di sonno. «Che brutta cera hai, Cassian. Ti vedo un po’ sciupato» disse Garin. Poi rifletté un po’ su quel primo scambio di battute tra di loro e aggiunse e-sterrefatto: «Ma tu sei qui! Sei sulla Luna!» «Vedo che sei sempre all’erta, anche quando ti buttano giù dal letto!» Cassian non poteva trovarsi sulla Terra. Ci voleva più di un secondo alla luce per andare dalla Terra alla Luna, quindi in qualsiasi conversazione che si svolgeva tra il pianeta e il suo satellite intercorrevano pause di quasi tre se-condi. «Dove ti trovi esattamente?» chiese Garin «Sulla faccia nascosta, nel mio ufficio all’Osservatorio Astronomico.»

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«Ma avevi detto che saresti venuto solo tra una decina di giorni! Non mi dire che avete anticipato la trasmissione del messaggio verso Epsilon Eridani!» «Calmati, Garin!» disse Cassian ridendo «lo so che sei eccitato come tutti noi per il primo messaggio interstellare, ma avverrà fra tredici giorni, come piani-ficato.» «E allora che cosa ci fai qui? Quando sei arrivato?» «Sono arrivato ieri mattina. No, scusa. L’altro ieri mattina. È che stanotte non sono ancora andato a dormire.» Garin si fece attento. Evidentemente quel viaggio improvviso e la nottata in-sonne, unite alla chiamata alle quattro del mattino, significavano che qualcosa di grosso era in ballo. «Dimmi tutto» disse semplicemente. «Una delle nostre sonde in orbita attorno a Nettuno ci ha inviato uno strano rapporto. Sembra che abbia captato un segnale radio che potrebbe provenire da Saturno.» «Avete idee sulla sua origine?» «Di sicuro non è nulla di naturale. Non proviene dal Sole ed è troppo intenso per essere generato dalla magnetosfera di Saturno ed essere rivelato a questa distanza. Non ha nulla a che vedere con alcun tipo di emissione radio prove-niente dal di fuori del Sistema Solare a oggi conosciuta. E poi…» «Poi cosa?» l’incoraggiò Garin. «E poi» proseguì Cassian «è emesso in un ristrettissimo intervallo in frequen-za. Nessuna sorgente astronomica ha un’emissione così piccata, nemmeno quelle che emettono righe molecolari, e comunque la frequenza che osser-viamo non ricalca quelle tipiche delle molecole presenti nello spazio. Infine, tanto per tagliare la testa al toro, il segnale presenta degli schemi ripetitivi che non hanno nulla di casuale.» «Va bene. Abbiamo a che fare con un segnale artificiale. Come fai a essere sicuro che provenga da Saturno?» «Non ne siamo sicuri infatti. La Neptune III, che ha intercettato questo segna-le, è solamente riuscita a circoscrivere un cono di provenienza di quattro gradi di ampiezza.» «Ma in termini di chilometri cubi è un’enormità, se lo proietti lungo tutto il Sistema Solare.» «Lo so Garin. Tuttavia le probabilità che questo cono intersechi un pianeta sono molto scarse. Però concordo con te che non è l’unica possibilità.» Garin rifletté su quanto aveva appena ascoltato. Non era persuaso dal discorso di Cassian. Nel Sistema Solare circolavano centinaia di veicoli umani, molti dei quali automatici. La trasmissione captata poteva appartenere a una sonda o a un trasporto. Poteva essere stata indirizzata a chiunque ed essere stata ri-cevuta per caso dalla Neptune III. Espresse quelle sue perplessità. «Cassian, può trattarsi di qualsiasi cosa. Ci sono centinaia di dispositivi che comunicano in continuazione.»

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«Infatti quello che abbiamo fatto nelle ultime quarantotto ore, dormendo po-chissimo per giunta, è stato di verificare manualmente la posizione e le tra-smissioni di tutte le nostre sonde disseminate nel Sistema Solare, dato che stentavamo a credere al rapporto fornito dal calcolatore. Abbiamo tenuto con-to del momento in cui la Neptune III ha ricevuto il messaggio incriminato e dei ritardi dovuti alla velocità finita di propagazione dei segnali. Nessun og-getto da noi controllato che si trovasse nel cono determinato dalla Neptune III può aver emesso il segnale ricevuto dalla sonda.» «Forse la Neptune III ha un guasto al suo orologio di bordo e non ha registra-to con precisione il momento di arrivo della trasmissione.» «Possibile» concesse Cassian «tuttavia la frequenza del segnale non appartie-ne a quelle che usano i nostri dispositivi. E, prima che lo faccia tu, divento io per un momento l’avvocato del diavolo. Forse il radiometro che ha registrato il segnale per qualche ragione ha riportato una frequenza diversa da quella vera. Dopo quarant’anni di missione può succedere che qualche strumento si guasti. Tuttavia gli ultimi dati inviati dalla sonda non indicavano un malfun-zionamento di questo tipo. Inoltre…» «Inoltre è praticamente impossibile che abbia sbagliato a valutare contempo-raneamente sia il tempo di arrivo che la frequenza del segnale» concluse Ga-rin «bene, ora mi è più chiaro perché avete perso quarantotto ore appresso a quel segnale. In definitiva avete escluso con ragionevole certezza come fonte di provenienza tutti i dispositivi umani da voi conosciuti.» «Precisamente» confermò Cassian. “Be’, in effetti si tratta veramente di qualcosa di grosso” rifletté Garin “pos-sibile che…” «Senti, Cassian» chiese con un tono di voce incredulo «non vorrai mica dirmi che stiamo ascoltando un segnale di provenienza extraterrestre, vero?» «È un’ipotesi affascinante, ma poco plausibile» replicò l’altro «anzi, direi de-cisamente improbabile. Se questo segnale provenisse dalle stelle, sarebbe sta-to captato anche da altri sistemi di rilevamento, in primis i grossi radiotele-scopi dell’Osservatorio Lunare. L’impulso ricevuto dalla Neptune III sarebbe stato abbastanza potente da far saltare dalle sedie i radioastronomi qui sulla Luna, se fosse venuto dallo spazio esterno.» «Dimmi qualcosa di più sulla natura di questo segnale. È un messaggio? Ne avete tirato fuori qualcosa di comprensibile?» «Non ancora» rispose Cassian «non essendo naturale, è di sicuro una forma di comunicazione che non riusciamo a comprendere. Naturalmente potrebbe es-sere criptato. Stiamo analizzandolo più in dettaglio per cercare di risalire alla chiave di cifratura. Certo, se sapessimo chi l’ha trasmesso, probabilmente sa-rebbe tutto più semplice.» «Be’, magari è colpa del fatto che mi sono appena svegliato di soprassalto, ma non riesco a farmi venire altre idee sulla questione» disse Garin dopo qualche istante passato a riflettere «immagino però che voi che ci avete lavo-

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rato quasi due giorni abbiate in mente qualche spiegazione alternativa agli omini verdi.» «Un’idea ce l’avrei» confermò il capo del Progetto ADEC «naturalmente è solo un’ipotesi, ma è l’unica interpretazione che secondo me può spiegare i nostri dati senza invocare eventi scarsamente probabili.» «Continua» lo esortò Garin. «Poco fa ho detto che siamo ragionevolmente certi che nessun dispositivo umano a noi conosciuto abbia emesso quel segnale.» «Fin qui ti seguo.» «Però magari esistono dispositivi umani di cui non siamo a conoscenza.» «Ehi, frena un secondo» lo interruppe Garin «non vorrai dirmi che qualcuno, al di fuori della collaborazione tra Governo e Corporazione delle imprese che operano nello spazio, abbia costruito qualche mezzo spaziale?» «Improbabile. Le risorse necessarie per un’impresa del genere sono enormi. Anche ammettendo che qualche uomo facoltoso o un gruppo di privati riesca-no a trovare i soldi per farlo, non potrebbero mai tenere segreta una cosa del genere. Avrebbero bisogno di spazi, materiali e competenze che per il mo-mento solo Governo e Corporazione hanno a disposizione.» Garin rifletté su quelle due grosse entità. Collaboravano da tempo in simbiosi allo sfruttamento delle risorse del Sistema Solare, compresa la produzione di energia da Mercurio e l’estrazione dei metalli, però… c’era un però. Il Go-verno aveva il completo potere decisionale sulle questioni spaziali, relegando la Corporazione a un ruolo di partner minore che partecipava solo agli utili. La Corporazione cercava da tempo attraverso lunghe battaglie legali di af-francarsi dal Governo per ottenere una propria autonomia, cosa che peraltro Garin riteneva anche ragionevole. Possibile che… «Però immagina» continuò Cassian anticipando la conclusione logica dei suoi pensieri «che oltre alle lunghe sessioni nei tribunali la Corporazione cerchi di perseguire i propri interessi anche per altre vie, magari non troppo legali. Po-trebbe costruirsi una sua flotta per sfruttare i depositi minerari in giro per il Sistema Solare. Potrebbe aver già cominciato a installare i suoi siti di estra-zione.» «Impossibile» disse semplicemente Garin «non potrebbero mai mantenere na-scosta una cosa simile. C’è bisogno di una grossa quantità di manodopera per portare avanti un progetto di tali dimensioni. Le persone impegnate in quelle attività prima o poi rivelerebbero ciò che stanno facendo.» «Non sono del tutto d’accordo. Non è detto che debbano necessariamente es-sere informate dello scopo finale del loro lavoro. Nuovi veicoli e nuovi inse-diamenti minerari vengono costruiti in continuazione. Quei tecnici potrebbero verosimilmente ignorare che lavorano a un progetto non autorizzato dal Go-verno. Potrebbero benissimo parlarne in buona fede senza che le loro infor-mazioni giungano a orecchie che possano realmente dedurne la vera portata.» «Quindi pensi che la Corporazione si stia muovendo per cominciare a sfrutta-re le risorse del Sistema Solare in maniera indipendente dal Governo? Se così

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fosse, immagino che ne dovrai parlare con qualcuno in alto loco. In fondo, anche se siamo d’accordo che alla fine la Corporazione dovrà ottenere in un modo o nell’altro la sua indipendenza, noi scienziati rispondiamo solo al Go-verno.» «Già fatto» disse Cassian «e ovviamente non hanno preso bene la cosa, seb-bene abbia cercato di presentare le mie conclusioni come una possibilità e non come una certezza.» «Posso capirli. Si sentiranno minacciati, o quantomeno scavalcati.» «Esattamente. Per fortuna sono riuscito a convincerli a non intraprendere con-tromisure punitive alla luce del giorno. Ho fatto loro notare che, se sbagliavo e se non c’era la Corporazione dietro a tutto questo, la loro posizione si sa-rebbe notevolmente indebolita e le imprese spaziali avrebbero conquistato una grossa fetta dell’opinione pubblica alla loro causa. Tuttavia non resteran-no con le mani in mano. Vogliono delle risposte.» «E suppongo che abbiano chiesto a te di fare qualcosa.» «Proprio così. E questo ci porta…» «…al motivo della nostra amabile chiamata al chiar di Luna» completò Garin per lui, indovinando che in qualche modo stava per essere invischiato in quell’intreccio politico «cosa dovrei fare?» aggiunse. «Un viaggio.» «E dove dovrei andare, scusa?» «Be’, ma è ovvio: su Saturno! È da lì che ci sono le maggiori probabilità che provenga il segnale.» Garin sbiancò. «Su Saturno? Ma sei impazzito? Sono passati centocinquant’anni dall’ultima volta che qualcuno è arrivato fin lì, e ci hanno messo quasi sei mesi!» «Conosco la storia, Garin» replicò Cassian «tu però hai un prototipo quasi pronto per il suo viaggio inaugurale.» «Anche spingendolo al massimo ci metterei almeno due settimane per fare… quanto? Un miliardo e quattrocento milioni di chilometri?» piagnucolò Garin citando la distanza di Saturno dal Sole «Qualcosa di più» lo corresse Cassian «Saturno e la Terra attualmente sono quasi alla loro massima distanza. Comunque ci metterai almeno tre settimane; non sarebbe saggio sollecitare eccessivamente i motori al primo viaggio. Inol-tre non vogliamo che nessuno si faccia strane domande vedendoti partire a razzo.» «Ma tra meno di due settimane spedirai il messaggio su Epsilon Eridani! Ci tenevo molto ad assistere a quel momento!» «Lo so, ma non abbiamo scelta. Non voglio che questi mocciosi del Governo e della Corporazione si mettano a litigare tra di loro e che magari smettano di finanziare i nostri progetti di ricerca, primo fra tutti ADEC.» «E che cosa pensi che succederà se scoprirò che in effetti la Corporazione sta tramando alle spalle del governo? Non credi che quello di cui hai paura si av-vererà in tempi anche più brevi?»

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«Non posso escluderlo, ma con delle prove concrete in mano forse riusciremo a convincere le due parti a sedersi a un tavolo e a trovare una soluzione di-plomatica. Chissà, magari riusciremo anche a mettere fine a tutte queste bat-taglie legali e a lavorare un po’ più serenamente.» «Spero che tu abbia ragione, Cassian. Però mi dovrai trasmettere tutta la ce-rimonia della spedizione del messaggio su Epsilon Eridani non appena si sarà conclusa!» «Promesso. Di quanto tempo hai bisogno per attrezzare il tuo veicolo per la partenza?» «È quasi tutto pronto. Credo che in tre giorni riuscirò a caricarlo, rifornirlo e a effettuare gli ultimi test. Avevo intenzione di fare un piccolo volo orbitale per provare i sistemi di gravità artificiale, ma a questo punto li verificherò strada facendo.» «Ottimo. Tu e la tua navetta siete l’unica possibilità che ho per evitare che gli animi diventino troppo accesi. Sto provvedendo a riassegnarti a tempo pieno allo sviluppo del tuo prototipo. Non c’è bisogno che tu ne parli coi tuoi supe-riori al LABS, ci penso io.» «Grazie» disse Garin. «Non ringraziarmi, sono io che devo ringraziare te» replicò Cassian «e… Ga-rin?» «Sì?» «In bocca al lupo, ne avrai bisogno!» «Crepi» rispose Garin «anche a te, con l’invio del primo messaggio interstel-lare!» «A presto amico mio» concluse Cassian chiudendo la trasmissione. Garin restò a lungo a fissare lo schermo divenuto totalmente bianco.

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Capitolo 6 Giorno 37 - Base M-3, Mercurio Alayna percepì vagamente un suono che si diffondeva nella stanza. Era un suono periodico, che aumentava di intensità a ogni ripetizione. «Maledizione!» imprecò allungando una mano sopra al cuscino per disattiva-re la suoneria. L’orologio a parete segnava le quattro e un minuto. Ricadde pesantemente sul letto e chiuse gli occhi. Le sembrò di piombare immediatamente in uno stato di semi incoscienza, ma vinse quel torpore che la stava avviluppando e si costrinse a mettersi seduta. Non aveva dormito molto poiché l’agitazione per l’imminente missione non le aveva fatto prendere sonno facilmente. Così, piuttosto che innervosirsi rigi-randosi nel letto alla ricerca del riposo che non arrivava, si era messa a rileg-gere i manuali che descrivevano il trasporto dell’energia prodotta da Mercurio verso la Terra. La stanchezza aveva preso il sopravvento poco prima delle tre. Perciò anche la posizione attuale, coi gomiti appoggiati alle cosce e la testa retta da entrambe le mani, le appariva estremamente comoda e rilassante. «Sveglia!» si disse forzandosi ad alzarsi in piedi «avrai tempo di dormire du-rante il viaggio; sarà lungo e noioso!» Con un unico movimento Alayna si sfilò gli slip e la maglietta che costituiva-no la sua tenuta da notte e li lanciò sul letto disfatto, dove atterrarono descri-vendo una lenta parabola nella bassa gravità di Mercurio, poco più di un terzo di quella terrestre. Prese dall’armadio un accappatoio pulito, indossandolo. Reprimendo un lungo sbadiglio, lasciò la stanza e si diresse verso il bagno. Ciascuno dei due livelli abitativi ospitava cinquanta piccole camere ed era servito da due grandi bagni comuni, uno per gli uomini e uno per le donne. La porta d’ingresso era piccola, ma si apriva in un ambiente apparentemente spazioso. La stanza era un quadrato di pochi metri di lato, ma appariva ampia perché l’occhio di Alayna lo paragonava inconsapevolmente alle camere e agli uffici angusti e intasati da oggetti e mobilio. Lì invece c’erano solo undi-ci piccoli lavandini. Di certo quella sensazione di spaziosità sarebbe sparita se la ragazza si fosse recata ai bagni durante l’ora di punta. «Che bello» esclamò sarcastica «tutto il bagno per me!» Attraversò la stanza bassa e imboccò uno stretto corridoio su cui si aprivano dieci porte che davano accesso ai water. Un secondo, del tutto identico al primo, portava alle docce. Dopo aver finito in bagno, Alayna si infilò in una doccia. Sistemò l’accappatoio nello spazio aperto sopra alla porta e aprì un filo d’acqua. A-

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mava passare del tempo sotto la doccia ma non poteva eccedere con l’uso dell’acqua, che su Mercurio rappresentava un bene estremamente prezioso. Appoggiò entrambe le mani al muro e lasciò che il liquido tiepido le scorresse lentamente sul corpo, massaggiandole le membra. La sensazione di rilassatez-za che ne seguì consentì ai suoi pensieri di fluire liberi. La sua mente tornò alla sera prima, quando aveva ripassato i manuali del sistema di trasporto di energia. Un sistema titanico ed estremamente complesso, data la distanza tra i due pianeti. Nei momenti in cui Mercurio e la Terra erano allineati dalla stessa parte del Sole, distavano “solo” un po’ più di novanta milioni di chilometri. Se erano allineati, ma col Sole in mezzo, la distanza saliva a quasi duecento-dieci milioni di chilometri. Il primo problema da affrontare era come trasmettere l’energia cercando di perderne il meno possibile. Mentre spostava la testa lentamente sotto il rivolo d’acqua per bagnare uniformemente i lunghi capelli castani, Alayna sorrise impercettibilmente. Si era immaginata un’enorme conduttura elettrica, lunga duecento milioni di chilometri, che collegava i due pianeti come una linea di alta tensione. Ovviamente non era una soluzione praticabile. L’energia anda-va inviata sotto forma di radiazione elettromagnetica e focalizzata il più pos-sibile per ridurre le perdite dovute a dispersioni del fascio di luce. Un raggio laser poteva essere adatto allo scopo. Tuttavia anche un laser, su distanze astronomiche, perde la sua coerenza spaziale. Alayna ripensò a ciò che aveva studiato sui libri di storia, circa l’epoca dei primi viaggi sulla Luna. Per misurare con precisione la distanza dalla Terra, era stato posto uno spec-chio sul satellite. Il diametro del raggio laser che dal pianeta raggiungeva la Luna dopo aver percorso trecentottantamila chilometri, era di oltre sei chilo-metri. Nel caso di Mercurio bisognava percorrere centinaia di milioni di chi-lometri, e non centinaia di migliaia. Tuttavia l’idea poteva essere sfruttata. Si decise di usare un laser nell’ultravioletto, il cui fascio poteva essere colli-mato più di quelli in luce visibile. Anche in questo caso, però, era impensabi-le spedire direttamente un raggio da Mercurio alla Terra. C’era bisogno di co-struire una serie di ripetitori che ricevessero la radiazione e la ricollimassero verso quello successivo. In definitiva l’energia catturata dal Sole su Mercurio attraverso la distesa di pannelli solari correva sotto la superficie del pianeta come energia elettrica, raggiungendo una delle basi che si trovavano sul lato oscuro. Lì alimentava il raggio laser ultravioletto, inviato nello spazio verso il punto lagrangiano L2 del sistema Sole Mercurio, dove si trovavano i primi ripetitori. Un dispositivo orbitante attorno a quel punto ha il vantaggio di rimanere sempre allineato con Mercurio e il Sole, sfruttando l’ombra del pianeta per ridurre l’impatto delle temibili radiazioni solari sugli strumenti. Nel punto L2, che distava circa mezzo milione di chilometri dalla superficie, erano posti tre ripetitori. Ne ba-stava uno solo per ricevere l’energia da Mercurio e ritrasmetterla, ma in caso di guasto uno degli altri sarebbe subentrato in maniera automatica. Dal punto

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L2 partivano due linee di trasmissione puntate verso l’orbita terrestre, chia-mate alfa e beta. Ognuna era costituita da otto ripetitori allineati a formare un angolo di novanta gradi con l’altra linea. La distanza tra due ripetitori della stessa linea variava tra i nove e gli undici milioni di chilometri. Altri novanta ripetitori erano collocati lungo l’orbita terrestre a una simile distanza recipro-ca. L’energia prodotta su Mercurio era innanzitutto convogliata sul lato in ombra, poi inviata in L2 da cui, percorrendo una delle due linee, raggiungeva l’orbita terrestre. Da qui arrivava al pianeta madre usando i ripetitori posti lungo la sua orbita. Le due linee fungevano da sistema a ridondanza; se una per qual-che ragione veniva a mancare, si poteva instradare l’energia lungo l’altra. La stessa ridondanza era presente nei ripetitori orbitali. L’energia poteva essere inviata percorrendo l’orbita terrestre in senso orario oppure antiorario. In condizioni di funzionamento nominale, l’energia era spedita sulla Terra fa-cendole percorrere il cammino più breve. “Però ora non si trovano in condizioni di funzionamento nominale” pensò Alayna prendendo un po’ di sapone dal dispenser e passandolo sui capelli e sul corpo. I due ripetitori della linea beta più prossimi all’orbita terrestre non risponde-vano più, pertanto il trasferimento di energia passava forzatamente per la li-nea alfa. Mentre finiva di insaponarsi, la ragazza pensò alla struttura dei ripetitori. Era-no dischi giganteschi, dal diametro di oltre tre chilometri, concepiti allo scopo di intercettare un fascio laser dopo un viaggio di dieci milioni di chilometri. Naturalmente si potevano costruire ripetitori più piccoli a patto di collocarli più vicini tra loro, ma ciò ne avrebbe aumentato il numero complessivo. Alla fine era stato raggiunto quel compromesso tra dimensione e distanza media. Invece i ripetitori sul punto L2 di Mercurio erano larghi duecento metri, poi-ché l’energia che ricevevano dal pianeta viaggiava solamente per mezzo mi-lione di chilometri. L’enorme superficie serviva in gran parte per raccogliere la radiazione che proveniva dal ripetitore precedente. I progressi compiuti dalla Scienza dei Materiali permettevano di produrre un tessuto metallico estremamente legge-ro, sottile e flessibile che era in grado di assorbire più del novantanove per cento dell’energia ultravioletta. Dietro all’enorme disco di tessuto metallico si collocava il sistema di control-lo del ripetitore, una scatola cubica di circa dieci metri di lato. Conteneva i componenti elettronici e meccanici che raccoglievano l’energia proveniente dal disco e la convertivano nuovamente in un raggio laser collimato. Il raggio era emesso attraverso un ugello che si trovava esattamente al centro della fac-cia della scatola opposta al disco. Da lì la radiazione viaggiava fino al ripeti-tore successivo. Il sistema di controllo era costantemente in contatto con la Terra e Mercurio per comunicare posizione e parametri di funzionamento e per ricevere co-

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mandi operativi, inclusi quelli per dirottare il trasporto d’energia, come era successo il giorno prima. Era stata l’interruzione di quelle comunicazioni a rendere chiaro che i ripetitori sette e otto beta avevano smesso di funzionare. Lo stesso canale serviva per inviare comunicazioni tra i due pianeti, sebbene non fosse il solo. Siccome era un canale di trasmissione a uso esclusivo della Società Elettrica, veniva sfruttato dai tecnici di Mercurio per inviare e riceve-re notizie dai propri familiari sulla Terra a un costo contenuto. Il sistema di controllo assicurava anche la corretta posizione e velocità del ri-petitore gestendo i propulsori. I ripetitori delle due linee, per rimanere allinea-ti e mantenere la stessa distanza fra loro e da Mercurio, dovevano ruotare in-torno al Sole con lo stesso periodo del pianeta, anche trovandosi a distanze maggiori. Queste traiettorie erano possibili solo con una propulsione aggiun-tiva. Anche i ripetitori sull’orbita terrestre avevano bisogno di aggiustamenti mino-ri della traiettoria, a causa delle perturbazioni dovute alla Terra. Il rifornimento di carburante dei centonove ripetitori avveniva ogni cinque anni assieme alla manutenzione ordinaria, con sostituzione delle parti più soggette a usura e a un controllo in loco del funzionamento. Alayna finì di sciacquarsi e chiuse il miscelatore. Quella che li attendeva non era una semplice missione di manutenzione. Non sapendo cosa fosse realmen-te successo, si apprestavano a fare una passeggiata di novanta milioni di chi-lometri alla cieca. Nel caso migliore avrebbero riparato entrambi i ripetitori, al limite sostituendone uno. Nel caso peggiore avrebbero dovuto fare un altro viaggio per sostituire anche l’altro. «Be’, non è il caso di fasciarsi la testa adesso» si disse la ragazza indossando l’accappatoio e uscendo dalla doccia. Tornò in camera, si asciugò e indossò abiti puliti. L’orologio segnava le cin-que meno dieci. “Faccio anche in tempo a prendere qualcosa da mangiare” pensò. Prendeva il suo lavoro molto sul serio, dunque anche la puntualità alle riunio-ni era fondamentale. Una debole luce arancione diffusa la accolse quando la porta dell’ascensore si aprì sul livello della mensa. Secondo il sistema di misurazione del tempo in vigore su Mercurio era ancora notte, quindi le luci erano tenute basse per in-gannare il metabolismo umano. La mensa era rischiarata solamente dalla tenue luce dei frigoriferi. Alayna vi entrò e le luci si accesero automaticamente. Si servì di una tazza d’acqua, una bustina di spremuta d’arancia liofilizzata e un pacchetto di barrette energeti-che arricchite con vitamine, che poggiò su un vassoio. Passò alla cassa dirigendosi poi verso la sala comune numero due, dalla parte opposta degli ascensori. La porta era chiusa, ma da sotto filtrava della luce. C’era già qualcuno. Ala-yna bussò, entrò e vide Daren seduto di fronte all’ingresso, i gomiti poggiati sul tavolo e la testa tra le mani.

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«Ciao Alayna» disse l’uomo, continuando a tenere gli occhi chiusi e coperti dalle mani. L’orologio sulla parete segnava le cinque meno due minuti. Sorrise. Daren la conosceva benissimo e sapeva che solo lei tra tutti i partecipanti sarebbe arri-vata in anticipo. «Buongiorno» rispose Alayna. Daren aveva davanti a sé un vassoio simile a quello che Alayna stava appog-giando sul tavolo. Tuttavia il suo contenuto non era stato quasi toccato. L’uomo si tolse le mani dalla faccia. Due profonde occhiaie erano ben visibili nonostante il colore scurissimo della pelle. Probabilmente neanche lui aveva dormito molto quella notte. «Gli altri saranno qui a breve» disse Daren «ho raccomandato massima pun-tualità.» A conferma delle sue parole, la porta della sala si aprì dopo pochi istanti. Un uomo e una donna entrarono. Lei era sulla cinquantina, naso aquilino, occhi nerissimi e una massa di capelli ricci e neri che le incorniciava il volto. L’uomo, più basso della donna e un po’ più giovane, aveva un accenno di stempiatura sui capelli colorati di un giallo intenso e i tratti del volto tipici dell’estremo oriente. Alayna li conosceva entrambi. La donna si chiamava Addie. Era una speciali-sta delle comunicazioni e si occupava anche dei piani di volo del traffico spa-ziale da e per Mercurio. L’uomo, Benton, era il capo del personale che curava la manutenzione di tutti i veicoli in servizio nella loro base. Daren prese subito la parola mentre i due nuovi arrivati prendevano posto. «Bene, non sarà una cosa lunga. Non c’è bisogno di presentazioni, ci cono-sciamo tutti. Benton, cominciamo con te. Qual è lo stato della navetta?» «Abbiamo ultimato i controlli poco fa» disse l’asiatico «è pronta al lancio.» «Ottimo» disse Daren raccogliendo dal vassoio il suo piccolo computer porta-tile «il rifornimento di propellente è stato effettuato?» «Sì. Avete deuterio ed elio a sufficienza per raggiungere l’orbita terrestre e tornare indietro, più una tolleranza del trentacinque per cento.» «Bene» approvò Daren, scrivendo qualcosa con le dita sullo schermo del cal-colatore «il ripetitore di emergenza è stato caricato a bordo?» «È la cosa che ci ha preso più tempo. L’ultima volta che una di quelle monta-gne è stata caricata su una delle nostre navette fu vent’anni fa. Io ero ancora sulla Terra a finire il mio corso di addestramento per la manutenzione delle macchine, quindi non ho assistito alla procedura. Ho passato la notte a stu-diarmela sui manuali e abbiamo dovuto ripetere l’inserimento per tre volte, prima di trovare la configurazione giusta.» Daren ricordava quel giorno di vent’anni prima come fosse appena avvenuto. Fu a lui che toccò andare a riparare il ripetitore danneggiato. Era uno di quelli orbitali, che accompagnavano la Terra nel suo ruotare attorno al Sole. Un grosso sovraccarico, presumibilmente del dispositivo che generava il raggio laser, aveva fuso gran parte del sistema di controllo; un buco largo due metri

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si apriva al di sotto dell’ugello che lanciava il raggio nello spazio. Natural-mente anche tutti i componenti elettronici erano saltati. Era stato necessario sostituire in blocco tutto il ripetitore. Scuotendosi dai suoi pensieri, comunicò a Benton la sua approvazione e spuntò sul suo computer la voce riguardante il carico della navetta. «Bene» disse poi «le parti di ricambio sono state caricate?» «La dotazione standard è a bordo» rispose il tecnico dei macchinari «ci sono tutte le schede elettroniche e gli strumenti per sostituirle. C’è anche una buo-na dotazione del tessuto metallico, per riparare eventuali buchi nel materiale assorbente causati da meteoriti o altri piccoli corpi celesti. Naturalmente non c’è posto per ulteriori parti meccaniche, giacché la stiva è completamente oc-cupata dal nuovo ripetitore. Non abbiamo potuto caricare né un nuovo laser, né un nuovo propulsore, né le antenne di ricambio per il sistema di comunica-zione.» Alayna era talmente presa ad ascoltare che non si era accorta di aver finito di versare la bustina con l’aranciata liofilizzata nella tazza d’acqua. Era rimasta immobile, con la bustina sospesa al di sopra della tazza e lo sguardo concen-trato su chi stava parlando. Quando Benton terminò il suo intervento, la ra-gazza si rese conto della postura ridicola. Posò la bustina e iniziò a mescolare il contenuto della tazza con un cucchiaino. Osservando di sottecchi gli altri partecipanti alla riunione, tirò un piccolo sospiro di sollievo rendendosi conto che nessuno l’aveva notata. «Grazie Benton» disse Daren «mi rendo conto che non si può fare di più in termini di carico.» Fece una pausa, dedicandosi di nuovo a immettere dati nel suo computer. «I test pre-lancio sono stati effettuati?» L’asiatico estrasse il suo computer portatile da una delle tasche dei pantaloni e iniziò a consultarlo. «Tutti i controlli hanno dato esito positivo, abbiamo terminato poco fa» disse mentre scorreva il contenuto di alcuni file sul computer «l’unico problema lo abbiamo avuto col sistema di pulizia a secco degli indumenti. A volte fa i ca-pricci, ma non riusciamo a capirne il motivo.» «Si tratta di un sistema non essenziale» disse Daren «ci daremo un’occhiata Alayna e io durante il viaggio. Al massimo torneremo a casa un po’ sporchi. Mi pare che per lo stato del veicolo sia tutto.» «Sì» confermò Benton «mi raccomando Daren, trattamelo bene. Oramai hai una certa età e forse sei un po’ arrugginito alla guida!» «Farò il possibile, ma non ti garantisco nulla. Tanto so che sei in grado di ri-parare ogni tipo di ammaccatura con cui te lo riporterò indietro» replicò Da-ren sorridendo. «A te, Addie» riprese rivolgendosi ora alla donna «cosa mi dici del program-ma della nostra gita?» «Il piano di volo è già stato inserito nel computer del veicolo» rispose lei «il viaggio non ha nulla di diverso da un normale volo di manutenzione. Vi

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muoverete verso l’orbita terrestre seguendo la linea dei ripetitori beta. Punte-rete diretti all’otto beta, quello più lontano. Il guasto al numero sette lo ripare-rete sulla via del ritorno, sempre che abbiate ancora a disposizione le parti ne-cessarie per l’intervento. Se così non fosse, punterete diretti verso casa e pia-nificheremo una nuova missione. Tutto chiaro?» «Sì» rispose Daren continuando a prendere appunti sul suo portatile «che mi dici dei tempi di viaggio?» «Sono quelli standard. Dovreste impiegare circa sette giorni per giungere all’ultimo ripetitore della linea beta. Abbiamo considerato un tempo massimo di un giorno per la riparazione di ciascun ripetitore, quindi dovreste rientrare alla base al più tardi tra sedici giorni. Immagino che l’autonomia della navetta lo consenta. Benton?» «Come dicevo, hanno il trentacinque per cento in più del carburante necessa-rio al viaggio. Cibo, acqua e ossigeno sono sufficienti per più di un mese.» «Molto bene» approvò Daren. Un rumore secco catturò la sua attenzione. «Ah, sento che ci sei anche tu, Alayna» aggiunse una volta che ne ebbe accer-tata la provenienza. Alayna aveva appena addentato una delle sue barrette energetiche, facendo più rumore di quello che avrebbe pensato. «Scusate!» disse con la bocca piena, tra le risate generali. «Il nostro piano per le comunicazioni?» chiese Daren tornando serio, rivol-gendosi di nuovo ad Addie. «Un rapporto ogni otto ore. Vi metterete in contatto usando la linea beta, tra-smettendo verso il ripetitore più vicino, per consumare meno energia. Visti i problemi al sette e all’otto beta, le comunicazioni verso la Terra lungo quella linea sono interrotte, quindi il sistema di trasmissione è tutto vostro. Per invi-are segnali verso la Terra dovrete seguire la stessa procedura. Vi ricordo che il pianeta è quasi dalla parte opposta del Sole rispetto a Mercurio e la sua po-sizione forma un angolo di centotrentacinque gradi rispetto alla linea beta. Per comunicare con la Terra dovrete trasmettere verso il ripetitore orbitale più vi-cino a voi, che farà rimbalzare il messaggio fino a destinazione.» «Che bisogno avremo di comunicare con la Terra?» chiese Alayna. «Non dovrebbe servire» confermò Daren «tuttavia è meglio tenere da conto questo canale di trasmissione, in caso quello con Mercurio si interrompesse per qualche ragione.» «La Terra è al corrente della vostra missione. I vostri codici di comunicazione hanno priorità su qualunque altro messaggio e saranno processati immediata-mente.» «Grazie Addie.» «Un’altra cosa» continuò la donna «dal momento che percorrerete la linea be-ta, è inutile perdere tempo durante il viaggio, che comunque sarà estrema-mente noioso. Perciò passando date una controllata agli altri ripetitori della linea, per vedere che tutto sia in ordine.»

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«Credo che sia tutto» sentenziò Daren lanciando un’altra occhiata al compu-ter «l’ora della partenza resta fissata alle 6.30?» «Sì» rispose Addie guardando l’orologio sulla parete «il che vuol dire che dovrete farvi trovare su quella navetta tra meno di un’ora.» Alayna fissò il quadrante. Erano le 5.41. «Ci vediamo su nell’hangar» disse Benton alzandosi «vado a ultimare i con-trolli mentre voi finite di prepararvi.» «Buona fortuna a entrambi» disse Addie alzandosi a sua volta «sarò in sala comunicazioni per darvi il via libera alla partenza. Poi da lì attenderò i vostri rapporti.» «Grazie» risposero in coro Daren e Alayna. «Vatti a preparare, non manca molto alla partenza. Ci vediamo tra poco su nell’hangar» ordinò Daren alla ragazza. Misero i vassoi nell’automatismo di pulizia della sala, che ripiombò nell’oscurità quando gli ultimi due partecipanti alla riunione uscirono. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...