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Università Cattolica di Péter Pázmány
Istituto di Romanistica
Dipartimento d’Italianistica
Pázmány Péter Katolikus Egyetem Bölcsészettudományi Kar
Romanisztika Intézet
Olasz Tanszék
Materiali per l’edizione critica dei libri di conto di Ippolito
d’Este, cardinale di Esztergom
TESI DI LAUREA
Candidata:
Kuffart Hajnalka
Relatore:
Dr. Armando Nuzzo
Piliscsaba, aprile 2010
Nyilatkozat
Alulírott, Kuffart Hajnalka, a Materiali per l’edizione critica dei libri di conto di Ippolito
d’Este, cardinale di Esztergom című szakdolgozat írója kijelentem, hogy a dolgozat kizárólag
erre a célra készített saját munkám, azt más szakon szakdolgozatként nem nyújtották be, és
csak a megjelölt segédeszközöket használtam. A publikációkból, kéziratos munkákból
felhasznált idézeteket vagy tartalmi megfeleléseket a Romanisztika Intézetben előírt módon
megjelöltem.
Piliscsaba, 2010. április 13.
aláírás
2
Indice
Introduzione 4
I. La storia della ricerca dei registri di Ippolito d’Este
1. I primi passi 5
2. La ripresa della ricerca: il saggio di Erik Fügedi 11
3. Le ultime ricerche seguendo il filo abbandonato 19
II. Presentazione dei registri di Esztergom
1. Descrizione generale dei codici di Esztergom 22
2. Il Giornale del 1495
1. Osservazioni metodologiche e filologiche 26
2. Osservazioni linguistiche 41
3. Osservazioni al contenuto del testo elaborato 45
4. Criteri della trascrizione 55
III. Bibliografia
59
IV. Appendice I. Edizione del testo, secondo le norme della filologia italiana
61
V. Appendice II. I toponimi ricorrenti nel testo trascritto 72
VI. Appendice III. Foto digitali sui fogli del codice Giornale [Modena, Archivio di
Stato, Camera Ducale. Amministraione dei Principi. No 705.] 75
3
Introduzione
Lo scopo della tesi di laurea presente è di dare contributi ad una futura edizione dei
codici d’Ippolito d’Este passando in rassegna le ricerche precedenti dei registri e creando la
trascrizione critica di una parte del Giornale (1495). La parte trascritta si trova nel documento
originale1 tra i fogli 1r.-5r, che corrisponde ai fogli 1r.–11v della copia apografa di Budapest2.
La trascrizione che è allegata nell’Appendice I alla tesi, ha una doppia numerazione delle
pagine perché la forma prescritta delle tesi di laurea presso codesta università esige la
numerazione continua delle pagine, ma nello stesso tempo la trascrizione crea un’unità
autonoma alla quale dovevo fare riferimenti nel testo. La numerazione prima (sopra) indica i
numeri delle pagina dell’unità (1-11), mentre la seconda (sotto) segue la numerazione della
tesi. Secondo le regole delle edizioni dei testi antichi sono numerate anche le righe. Il
riferimento di una parte del testo è quindi un insieme della data pagina e il numero della riga
(per esempio 2,23). Durante l’analisi del testo trascritto usavo i nomi ungheresi dei toponimi.
Per esempio per Esztergom si intende Strigonia, la sede arcivescovile princilape d’Ungheria.
1 Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale. Amministraione dei Principi. No 705.2 Budapest, Magyar Tudományos Akadémia, Kézirattár, Ms 4998 fasc. 10.
4
I. 1. I primi passi
La scoperta dei registri di Ippolito d’Este è dovuta nei fatti alla repressione della
guerra d’indipendenza ungherese del 1848. Dopo la vittoria degli austriaci, molti dagli
ungheresi furono costretti ad andare in esilio nei paesi vicini, come Turchia, Prussia, Russia,
Francia e anche Italia. Tra gli esuli rifugiati in Italia fu anche il barone Albert Nyáry che
cercava di giovare alla sua patria anche fuori l’Ungheria, ricercando fonti storiche
nell’archivio di Modena trovò alcuni registri di Ippolito d’Este che riguardano Esztergom ed
Eger. Dopo l’amnistia data dall’imperatore d’Austria, Nyáry ritornò in Ungheria e diede
relazione delle sue ricerche svolte a Modena. Questa relazione3 venne pubblicato sulle
colonne del primo numero della rivista Századok, periodico ufficiale del Sodalizio Storico
Ungherese, che da allora è diventata la rivista base della storiografia ungherese. Possiamo dire
perciò che la ricerca dei codici di Ippolito d’Este è quasi coetanea con la moderna storiografia
ungherese. In questo capitolo desidero riassumere le prime relazioni sui registri di Modena, e
le ricerche di Albert Nyáry, Endre Veress e Imre Lukinich.
Nell’articolo sopra citato Nyáry racconta la sorte dei codici provenienti dall’Ungheria,
fino all’arrivo a Modena. Nel 1851 l’Archivio della Famiglia d’Este e l’Archivio della
Camera vennero uniti. Tra i documenti, libri, manoscritti non ancora classificati Nyáry trovò
registri dall’epoca di re Mattia (1458-1490), Vladislav II (1490-1516), e Luigi II (1516-1526)
che si riferirono all’economia dell’arcivescovato di Esztergom, e del vescovato di Eger. Si
pose la domanda di come fossero pervenute tali fonti ungheresi a Modena. Per rispondere alla
questione, presenta la breve storia del cardinale Ippolito d’Este. Il figlio di Ercole, duca di
Ferrara fu il nipote della regina Beatrice, moglie del re d’Ungheria, Mattia. Il re nominò
cardinale di Esztergom il settenne Ippolito nel 1486 per la richiesta della moglie.
Naturalmente il papa, Innocenzo VIII (1484-1492) all’inizio non volle consolidare
l’istituzione del fanciullo e designò il cardinale Ascanio Sforza. Però il candidato del papa
morì improvvisamente, e sotto la pressione del cardinale Rodrigo Borgia, il papa infine
convalidò Ippolito nella sede arcivescovile di Esztergom.4 Ippolito occupò quel posto tra il
1486 e il 1497, quando cambiò l’arcivescovato all’episcopato di Eger con il vescovo Tamás
Bakócz. L’atto fu privo di precedente nella storia ungherese. Sebbene nella Chiesa questo
3 NYÁRY Albert: Az esztergomi érsekség és egri püspökség számadási könyvei a XV—XVI. századból.
Századok. 1867. pp. 378-3844 Per la storia dell di Ippolito d’Este cfr. Esztergomi érsekek 1001–2003. Szerk.: BEKE Margit. Budapest, Szent
István Társulat, 2003. pp. 222-2285
passo significava un recedimento da un grado più alto, eppure per Ippolito non fu una scelta
sfavorevole, perché la diocesi di Eger era più ricca di quella di Esztergom, grazie all’attività
economicamente fruttuosa di Tamás Bakócz. Per quanto riguarda però la gerarchia ecclesiale,
Ippolito rimase sempre in alto grado, perché era ancora nominato cardinale di Milano e
Capua, vescovo di Ferrara e Modena, e aveva sei abbazie molto ricche in Italia. In questo
modo era possibile che i codici vennero trasferiti a Ferrara ancora in quel tempo, dove i
tesorieri del cardinale li controllarono.5 Quasi un secolo dopo, nel 1598, il principe Cesare
perse Ferrara a causa della sua discendenza illegittima e si trasferì a Modena con tutta la
documentazione della famiglia d’Este.
Nyáry trovò 12 volumi nell’Archivio di Modena, quando l’insieme non era ancora
catalogato (nel 1864): 5 riguardavano Esztergom, 7 Eger, i quali sono passati in rassegna
secondo titolo, lingua e contenuto6. La relazione è seguita da una breve presentazione dello
stato dell’economia arcivescovile, solo per dimostrare i risultati dei conti e per dare un
assaggio di queste fonti. Alla fine esprime la sua speranza nella futura volontà del Sodalizio
Storico di copiare questi codici che hanno una grande importanza nella storia ungherese
medievale.
Ancora in questo anno (1867), Kálmán Thaly presentò alla seduta del reparto II
dell’Accademia Ungherese delle Scienze una raccolta delle copie proveniente da Modena che
aveva compilato un “patriota che vuole rimanere anonimo” (János Mircse). Le copie
riguardarono l’epoca di Wesselényi (1669-70). L’offerente dimostrò la sua volontà di
continuare il lavoro, ma questo tentativo non procedette oltre.7
Nell’anno seguente però era già pronta una raccolta della corrispondenza della regina
Beatrice maggiormente in lingua italiana del periodo di 1477-1501 che presentò Ferenc
Toldy. La materia di questa raccolta fu fatta copiare dal barone Nyáry nell’Archivio di
Modena. Sulle fonti ungheresi che si trovavano a Modena Nyáry faceva letture il cui riassunto
è stato pubblicato in Századok8. Dall’articolo possiamo conoscere lo stato di allora dei
5 Cfr. la 8a nota dell’introduzione del volume Estei Hippolit püspök egri számadáskönyvei 1500-1508. A cura di
E. KOVÁCS Péter. Ed.: KOVÁCS Béla. Eger. 1992. 6 NYÁRY Albert: Az esztergomi érsekség és egri püspökség számadási könyvei a XV—XVI. századból.
Századok. 1867. pp. 380-3817 LUKINICH Imre: A Magyar Tudományos Akadémia Történettudományi Bizottsága másolat- és
Kéziratgyűjteményének ismertetése. Budapest, MTA. 1935. p. 33; Per la relazione cf. Il verbale del Reparto II. di
1 luglio 1867; Le copie sono conservate nella Sezione dei manoscritti dell’Accademia di Budapest sotto la
segnalazione Ms 4999.8 NYÁRY Albert: A modenai kir. levéltár magyar történelmi szempontból. Századok. 1868. pp. 244-254
6
fascicoli delle fonti relative alla storia ungherese e il contenuto di essi. Sotto il titolo
“Ungheria” Nyáry trovò due gruppi principali: la corrispondenza privata e politica dei re
d’Ungheria da 1452 (László V) fino a 1831 (Ferdinánd V) e le relazioni degli ambasciatori
ferraresi residenti nel Regno d’Ungheria. Esiste ancora un fascicolo “Transilvania” che poi fu
unito con un altro gruppo, dal quale Nyáry non aveva più informazioni. I rapporti storici tra la
famiglia d’Este e le famiglie reali ungheresi cominciarono già nel Duecento tra Azzo VI
(1196-1204) e Béla III (1172-1196), dacché le sue mogli antiochense erano sorelle. Purtroppo
le fonti preziose dall’epoca degli arpadiani e degli angioini andarono in cenere a causa di un
incendio nel Quattrocento. Tutti i documenti che si riferiscono a quest’epoca, sono copie.9
NYÁRY ricercava però solo le fonti originali. Il contenuto dei fascicoli d’Ungheria viene fatto
conoscere in dettagli con un elenco dei titoli, poi su alcune pagine troviamo brani soprattutto
dalle lettere di Beatrice, ma anche di Cesare Valentini e di Eleonora d’Este. Nyáry scelse
degli squarci che descrivono alcune curiosità della vita quotidiana dei componenti della
famiglia ducale (come l’educazione del bambino Ippolito d’Este), e qualche atto politico e
diplomatico di re Mattia con i principi di Ferrara. Alla fine Nyáry richiama l’attenzione anche
ad altri tipi di fonti che si trovano in altri gruppi dell’Archivio di Modena come la
corrispondenza dei principi con altri paesi, le relazioni degli ambasciatori residenti nella corte
austriaca e soprattutto ai codici della Biblioteca dei Palatini che sono in numero di 4221 e tra i
quali Nyáry trovò non pochi che contemplavano la storia ungherese. Da questi codici
compose un elenco menzionando che la lista non è affatto completa. Il saggio di Nyáry
praticamente voleva richiamare l’attenzione degli studiosi ungheresi su una parte del
materiale dell’Archivio di Modena che potrebbe interessare il pubblico ungherese.
L’obiettivo di Nyáry si realizzò in quanto provocò grande sensazione e il Sodalizio
Storico Ungherese decise di far copiare i codici di Ippolito d’Este. Riconoscendo l’importanza
di queste fonti gli arcivescovi di Esztergom e di Eger di quel tempo, János Simor e Béla
Bartakovics, si assunsero le spese del lavoro che accelerava considerevolmente lo
svolgimento della copiatura. Secondo le regole dell’Archivio di Modena, i codici non
potevano essere presi in prestito, ma l’Archivio fece copiare prontamente i brani che
interessavano gli ungheresi, e le riproduzioni in 216 fogli erano già nell’anno seguente in
possesso del Sodalizio. Purtroppo la pubblicazione non poteva realizzarsi perché mancavano
le condizioni finanziarie, in conseguenza di questo fatto il Sodalizio incaricò Albert Nyáry del
recensire dettagliatamente il contenuto delle copie.
9 Esempio: contratto nuziale di András II e Beatrice d’Este dal 14 maggio 1234, pubblicato da Muratori:
Antichit. Estense Modena MDCCXVHi Part. I. fol. 4207
Nyáry pubblicò nel 1870 i suoi primi saggi sui codici di Ippolito d’Este. Divise in tre
parti lo studio secondo tre temi: lo stato economico dell’arcivescovato di Esztergom e del
vescovato di Eger; le circostanze economici del paese di quel tempo; la corte di Ippolito in
Ungheria. Dal punto di vista della presente tesi ha più importanza il primo tema (e soprattutto
l’analisi di Esztergom) che comprende due saggi.10
I primi saggi di Albert Nyáry
All’inizio Nyáry raffronta i territori medievali e quelli ottocenteschi delle due diocesi,
e constata che sebbene lo stato vecchio fosse più grande, i redditi non erano maggiori, anzi
con difficoltà raggiungevano la metà. Secondo lo storico, l’arcivescovato di Esztergom
combatteva con cattive condizioni finanziarie che erano causate dalla situazione incerta della
successione della sede arcivescovile negli ultimi dieci anni prima di nominare cardinale
Ippolito. János Beckensloer (1474-1480) scappò da Esztergom e il re Mattia nominò suo
cognato, Giovanni d’Aragona (1480-1485) che il papa non voleva consolidare essendo vivo il
cardinale precedente. Dopo la conferma però il cardinale stava quasi sempre fuori
dell’Ungheria, e non poteva occuparsi della direzione dell’arcivescovato. Tra queste
circostanze il padronato fu governato dal convento di Esztergom quasi per una decina di anni.
In seguito della morte del cardinale Giovanni d’Aragona venne nominato Ippolito dal re -
rispettando il suggerimento della regina Beatrice. Essendo Ippolito ancora fanciullo,
l’arcivescovato prese un governatore nella persona di Cesare Valentini, l’ambasciatore del
duca ferrarese che rese conto al suo sovrano dei debiti che sono stati accumulati durante gli
ultimi anni. Tuttavia nemmeno Valentini fu in grado di poter sistemare la direzione del
padronato, perciò venne sostituito nel 1487 da una commissione che constava di due persone,
Beltramo Costabili e Bernardo Vitalli. Poi, quando si vedeva che le condizioni economiche
non migliorarono, i governatori accusarono il re che chiedeva molto per le spese delle guerre
contro Austria. Beatrice, in nome del re, si difendeva causando proprio quei governatori che
sono stati nominati da Ferrara e non conoscevano le circostanze ungheresi. Insomma
all’economia di Esztergom gli anni settanta e ottanta del Quattrocento non significavano un
periodo di gloria e di crescita. Quest’epoca è valutata negativamente da Nyáry segnalando le
cause da una parte la gestione profana degli ufficiali stranieri, dall’altra parte le grave tasse
ungheresi, come l’imposta bellica11 e infine anche i salari degli ufficiali.
10 NYÁRY Albert: A modenai Hyppolit-codexek. Századok. 1870. pp. 275-290; 355-37011 Ippolito aveva 38 nobili armati e 175 cavalleria regolare.
8
Nel saggio vengono passate in rassegna le uscite militari, come i soldi e la
manutenzione delle fortezze; e l’entrate principali, soprattutto i risultati dell’allevamento di
bestiami. Secondo le ricerche di Nyáry, alla corte di Esztergom non bastava la propria
produzione agricola, era ancora costretta a comprare grano, foraggio, legname da costruzione
ecc. Nyáry esamina ogni prodotto agricolo secondo il tipo, segnalando il luogo dove lo
coltivarono, e la sua quantità che trova nei registri12. Dopo una serie di questi esempi presi dai
testi, ricomincia dalle entrate principali. L’arcivescovo possedeva tre tipi delle risorse
finanziarie: entrate a titolo di proprietario fondiario, regale, ed ecclesiale. L’incasso di esse
svolgeva ugualmente in tre modi: gestione da casa, riscatto e appalto. Gli appaltatori
provenivano soprattutto dagli ufficiali della corte arcivescovile e dei comitatus (un termine
tecnico per le regioni medievali in Ungheria). Le imposte riscosse a titolo di proprietario
fondiario venivano incassati da quelli paesi che appartenevano al possesso dell’arcivescovo.
115 abitati pagava la tassa censuale a questo titolo che insomma nel 1488 fu 1847 ducati e 15
denari, nel 1489 però 2105 ducati e 56 denari. Apparteneva ancora a questo gruppo la nona
(nel 1488: 1212 ducati e 97 denari, nel 1489: 1192 ducati e 11 denari), il riscatto del pranzo
(pecunia prandialis) e la decima del vino. In quel tempo tra le imposte regali del cardinale
troviamo la dogana (8 paesi), il mulino (22, ma solo 4 significanti) e il diritto della pesca (3
villaggi). Però le entrate veramente considerevoli erano le imposte riscosse a titolo ecclesiale
e a diritto del pisetum. Il pisetum significava il diritto del controllo sopra la coniazione nelle
città di minatori, in seguito del quale il cardinale riceve una determinata parte13 in argento
(greggio, ma anche elaborato).14 In Körmöcbánya e Nagybánya l’arcivescovo aveva un
pisetario proprio, le altre città di minatori (Rozsnyóbánya, Kisszeben, Gölnicbánya,
Szomolnok) erano state date in appalto. Infine le entrate ecclesiali venivano riscosse dalla
diocesi di Esztergom15, e constava della decima di grano, della decima di vino di Pozsony, e
di altri introiti straordinari (p. es. il cosìdetto cathedraticum o synodaticum da 27 plebano16,
donazioni pie, eredità, ecc.). Alla fine della prima parte Nyáry totalizza le entrate degli anni
12 Qui devo menzionare che Nyáry conosce solo cinque registri che riguardano Esztergom (due da 1487, uno da
1489, uno che riguarda il diritto del pisetum e uno illeggibile), i risultati quindi non sono completi. Nyáry non
segnala da dove prende le date che si riferiscono all’anno 1488 o quali registri provengono da quel anno.13 Secondo BARTAL, la parte 48a dopo una marca (misura di peso di quel tempo; circa 248,87 grammi ). sv.
BARTAL, Glossarium, pisetum14 Calcolando con 5 ducati e 50 denari per un marca dell’argento.15 Devo menzionare che su questo territorio non il cardinale fu l’unico che riscosse la decima, ce ne erano molti
paesi, dove accanto il cardinale altre dignità ecclesiali avevano una parte di questa tassa, come p. es. il convento.16 Tassa riscossa dai preti per il segno del rispetto verso la sede vescovile. (Pallas)
9
1488 e 1489: nel 1488: 15950 ducati e 15 denari, nel 1489: 22287 ducati e 95 denari. Questo
risultato rimane ben sotto di quello che gli scrittori italiani ne attribuivano in quel tempo.
Mentre l’economia di Esztergom subiva un periodo dissesto, il nuovo cardinale come
un vero discendente principesco, significava troppe cariche che ostacolarono
l’accumulamento di un capitale notevole. Dopo la morte del re Mattia, la regina Beatrice
trasferì al castello di Esztergom che portò ancora più spese alla corte arcivescovile. Per
sistemare la situazione, il duca Ercole d’Este provò aiutare a suo figlio, ma non migliorando
l’economia della corte, invece aumentando i benefici per Ippolito. Nel 1492 acquistò
l’abbazia di Pomposa che aveva duemila ducati come annata, poi ottenne in maniera più
violenta il vescovato di Ferrara con diecimila ducati. Nel 1497, mediante il duca Ludovico
Sforza, detto il Moro però riuscì a ricevere l’arcivescovato di Milano con i suoi 14 mila ducati
e nello stesso tempo anche la dignità del governatore di questo ducato. A causa di
quest’ultima però non poteva mantenere l’arcivescovato di Esztergom perché doveva
trasferire la sua sede a Milano. Per non perdere definitivamente i benefici ungheresi, per
mediazione di Donato Aretini conseguì lo scambio con Tamás Bakócz, vescovo di Eger.
Questo vescovato era ben gestito e ordinato da Bakócz che tendeva ad evitare gli appaltatori e
così conservò la maggior parte del profitto. Bakócz assunse pure la sorveglianza sul vescovato
durante l’assenza di Ippolito.
Da questo punto comincia una descrizione dello stato di Eger che dal punto di vista
della presente tesi ha meno importanza come anche i successivi tre saggi17, che si occupano
delle circostanze economiche generali del Regno d’Ungheria in qull’epoca; della corte di
Ippolito in Ungheria e delle condizioni della cultura.
La successiva sorte delle ricerche
Nel 1889 la direzione dell’Archivio di Modena fece comporre una raccolta dei registri
riguardanti i documenti quattrocenteschi in riferimento ungherese.
Durante l’uso delle copie di Nyáry si era rivelato che purtroppo non erano sempre
affidabili (in quanto non seguirono la forma della contabilità doppia del codice originale).
Invece essendo le fonti molto importanti, divenne necessario la ripresa del lavoro da capo. Il
Sodalizio provò prendere in prestito i codici per via diplomatica, ma non glielo fu permesso
seguire questa direzione. Per questo richiamarono il professore Endre Veress, che conduceva
ricerche negli archivi italiani nel 1908, di esaminare i libri di conto nell’Archivio di Modena e
17 NYÁRY Albert: A modenai Hyppolit-codexek. Századok. 1870. pp. 661-687; e 1872. pp. 287-305, 355-37610
di fare relazioni sui risultati. Dalle relazioni18 si rivelò che i codici c’erano complessivamente
29 volumi relativi a Esztergom (dal periodo 1487-1497) e 10 relativi a Eger (1500-1517), e
dai quali più volumi sono purtroppo illeggibili. Insomma i codici da copiare erano 23. Il
Soldalizio prese posizione nei confronti della copiatura secondo il suggerimento di Remig
Békefi. Cercarono quindi il ministro degli Affari interni italiano per permettere di dare in
prestito i codici all’Archivio Statale di Venezia dove stavano copisti bravi.19 Il Ministero
acconsentì all’iniziativa e i lavori poterono cominciare negli ultimi mesi di 1909 a Venezia.
Nella primavera del 1915, dopo la ricevuta delle copie dei registri di 1494-1495 (tra i quali si
trovava anche la copia del Giornale con cui si occupa anche la presente tesi), i lavori si
incagliarono a causa della guerra scoppiata tra l’Italia e la Monarchia Austro-Ungarica.
I. 2. La ripresa della ricerca: il saggio di Erik Fügedi
[FÜGEDI Erik: Az esztergomi érsekség gazdálkodása a 15. század végén. Századok. 94
(1960)/1. 82–124. (1960)/4. 505–556.]20
Dopo le ricerche di Albert Nyáry e la relazione di Endre Veress, il primo che si
occupò di nuovo in modo professionale dei codici, fu Erik Fügedi, un bravo medievista
ungherese del Novecento. Egli passò in rassegna tutti i registri che riuscì a trovare in apografi
all’Accademia Ungherese delle Scienze e sulla base di queste fonti cercò di presentare
l’economia della corte arcivescovile di Esztergom alla fine del Cinquecento, come è
specificato anche nel titolo. La parte di Eger, non è stata elaborata in questa trattazione. Il
saggio fu pubblicato ugualmente sulle colonne di Századok, come nel secolo precedente le
relazioni di Albert Nyáry, e finora questo discorso è la più accurata e approfondita descrizione
dei libri di conto d’Ippolito che le ricerche future non possono tralasciare. Dobbiamo per
questo riassumerlo anche nella presente tesi perché sulla base di Fügedi possiamo
comprendere e spiegare il contenuto delle singole voci che incontriamo nel Giornale.
Dopo la breve presentazione della storia delle ricerche, Fügedi descrive il materiale dal
quale lavorava e poi in due parti analizza prima le entrate poi le uscite degli anni 1488, 1489 e
1490. Le indagini sono limitate solo a questi anni perché quando Fügedi scrisse il trattato, non
18 Le relazioni di VERESS sono conservate dalla Sezione Manoscritti dell’Accademia Ungherese delle Scienze
sotto il segno: Ms 459/1-30 VERESS Endre: Adalékok magyar-olasz kapcsolatokhoz. 13. Estei Hyppolit
hercegprímás esztergomi számadáskönyvei. (1490.)19 Il consiglio di scegliere questa via divenne da Carlo MALAGOLA, direttore dell’Archivio di Venezia.20 In seguito: Fügedi.
11
erano ancora disponibili le materie delle scatole nr. 3° e 4° che ritenevano smarrite. Solo
prima della pubblicazione sono state ritrovate grazie a István Sinkovits che controllava anche
lo studio di Fügedi.21 Tuttavia la descrizione nella parte iniziale espande anche al contenuto
delle scatole appena trovate.
Le fonti22
Tra i cosiddetti codici d’Ippolito ci sono 29 volumi che riguardano la corte di
Esztergom. Questo materiale non è omogeneo: la maggior parte consta dei libri di conto scritti
da ungheresi in lingua latina e dei libri mastri scritti da italiani in italiano. Oltre questi però ne
troviamo ancora altri tipi: un libro dell’inventario, un giornale e due libri dei salariati. Dai
libri mastri ne abbiamo 18 secondo i calcoli di Fügedi23 - però questo numero si riferisce ai
libri in senso separato, giacché secondo i concetti moderni le uscite e le entrate solo se prese
insieme equivalgono ad un mastro. I notai italiani utilizzarono il sistema della partita doppia
veneziana il che dimostra anche la segnalazione originale dei singoli volumi, per es. libro di
intrada 14B88, o libro di usita 14C90. Dalle copie non si può precisare il significato delle
lettere scritte tra i numeri dell’anno (A, B, C), secondo l’opinione di Fügedi, i libri con il
segno “A” avessero una funzione memoriale dove registrassero i requisiti e i doveri (per
esempio i contratti d’appalto). La redazione delle due parti dei libri mastri, cioè la parte delle
uscite e delle entrate è uguale: all’inizio troviamo un indice dei nomi riferendosi alla pagina
sulla quale si trova il conto della data persona. I proprietari sono registrati secondo il loro
nome di battesimo, ma per esempio la Duchessa di Ferrara si trova sotto la “D”. I libri mastri
vennero aperti di nuovo in ogni anno che testimonia anche il testo iniziale “1489 in Strigonio
a di primo genaro”. Secondo la tradizione medievale troviamo ancora all’inizio
un’invocazione in cui il notaio chiede l’aiuto della Vergine Maria, protettrice principale del
Regno d’Ungheria e di Sant’Adalberto, patrono dell’arcivescovato di Esztergom. Poi il notaio
descrive in alcune righe quante pagine contiene che il libro presente e quali specie di voci, chi
la condusse e sotto quale segnalazione. Dopo cominciano i conti: sulla pagina sinistra ci sono
le voci del “dare”, su quella destra però le voci di “havere”. Le singole voci contengono la 21 Cfr. Fügedi, pp. 82-83, nota 5.22 Fügedi non aveva la possibilità di vedere i codici originali, lavorava con quelle copie che si trovano anche oggi
all’Accademia Ungherese delle Scienze sotto le segnature Ms. 4996, 4997, 4998.23 Per quanto riguardano le date di questi libri, Fügedi indica gli anni 1487, 1489-1490, 1495 e 1497 per le uscite,
e 1487-1491, 1493-1495 per le entrate. Raffrontandole però con il contenuto delle scatole, ho trovato che le
uscite risalgono agli anni 1487, 1489-1494 mentre le entrate agli anni 1487-1494. Dall’anno 1497 però non ne
abbiamo nessun libro.12
data del dato giorno a sinistra, in centro della pagina il testo necessario con la somma scritta
con lettere, a destra però la somma scritta con numeri. Il fiorino d’oro ungherese viene
consecutivamente scritto “ducato” e il denaro sempre “dinaro”. Alla fine della voce ci si
riferisce sempre al controfatturato che si trova nell’altro volume (entrata o uscita). A seconda
del loro tipo, le voci vennero collocate sulla pagina sinistra (dare) o destra (avere). All’inizio
di ogni conto sta il proprio luogo e l’intitolazione, alla fine però i singoli conti tipo dare o
avere sono sommati e le fatture personali quietanzate. Se un conto era così lungo che non
bastava una pagina, a piè venne totalizzato e sul foglio seguente ricominciato con il titolo,
luogo e risultato della pagina precedente. Dalle fatture più lunghe alle più brevi il quadro
contabile era uniforme per tutti i conti. Per quanto concerne il raggruppamento, nelle uscite
possiamo osservare una certa ordine secondo l’oggetto, per esempio i costi di spedizione, di
costruzione o d’abbigliamento avevano propri conti. Da un altro aspetto però ci sono tracce
del principio del luogo di spesa, come in caso della manutenzione della casa in Pozsony24. Il
sistema presente dei libri mastri non conosce il conto cassa, invece addebita le entrate il saldo
di quella persona che prende l’importo in questione. Questa persona però secondo le regole
della corte arcivescovile doveva essere il “provisor” che pagava e riceveva le spese della
corte; quindi il conto personale del provisor equivale al conto cassa in senso odierno. L’uso di
allora differisce da quello odierno solo in quanto mancava il prezzo pattuito; cioè venne
sempre registrato solo il fatto della transazione. La fattura del provisor significa nello stesso
tempo la chiusura del libro mastro. In quell’epoca mancava ancora il bilancio nella
contabilità, non lo troviamo nemmeno in questi codici, dobbiamo tuttavia sottolineare che
l’obiettivo principale di questa tenuta dei libri fu di registrate tutte le entrate e le uscite, vale a
dire tutte le operazioni economiche il che è senza pari nel Regno d’Ungheria nel Medioevo.
La base dei libri mastri foggiarono altri libri di conto al posto di attestazioni contabili
come nell’uso moderno. I redditi e le spese vennero registrati per la prima volta in un libro
detto “Giornale” che aveva una funzione quasi di brogliaccio. Ne abbiamo sia in forma
originale sia in copia un solo esemplare, che proviene dall’anno 1495. La forma è più
semplice in questo caso rispetto ai mastri: manca l’invocazione, il testo iniziale, comincia
immediatamente con le voci che si seguono in ordine cronologica. Inoltre manca la divisione
delle pagine secondo il carattere dare/avere, invece dall’inizio del libro furono registrate le
entrate, dal centro fino alla fine però le uscite. Il raggruppamento è secondo la data che venne
24 Per Pozsony si intende la città odierna Bratislava, la capitale della Slovacchia, che durante il Medioevo era una
città ungherese con il nome Pozsony, o in tedesco Pressburg. Per evitare l’anacronismo, nella presente tesi
useremo la forma originale ungherese.13
sempre notata in centro delle pagine. La forma del testo e della somma delle voci non
differisce da quella dei mastri, a sinistra però troviamo dei riferimenti probabilmente ai fogli
di quel libro mastro su quale riportarono le date voci. Purtroppo proprio da quest’anno (1495)
non ne abbiamo nessuna parte, né le entrate, né le uscite, per poter raffrontare i fogli con i
riferimenti. Anzi, siccome non abbiamo più giornali oltre a questo che per altro analizza
anche la presente tesi, non possiamo verificare il sistema che Fügedi ritiene verosimile, quindi
che per la prima volta ogni operazione economica sarebbe registrata in un giornale simile. Tra
il giornale e il libro mastro ci sarebbe stata ancora una tappa - secondo Fügedi: il “Libro delle
spese” in cui avrebbero raccolto tutte le spese raggruppandole cronologicamente secondo i
conti, ma ancora senza la divisione di dare/avere. Da questo tipo ne abbiamo ugualmente solo
uno dall’anno 1495 e secondo le verifiche di Fügedi, i riferimenti trovati nel Giornale non
corrispondono ai fogli del Libro di spese.
Sopravvissero inoltre alcuni Libri di salariati, le cui forme assomigliano ai libri
mastri, in quanto hanno un testo iniziale, le pagine sono divise secondo il carattere dare o
avere, e la segnalazione originale è analogo, per esempio Salariati 14G94. Questi libri però
hanno tanti conti quanti impiegati e domestici lavoravano alla corte arcivescovile. Sulla
pagina “avere” furono indicati il nome, l’incarico, le condizioni di pagamento e la data
iniziale dell’assunzione di un dato dipendente, sulla pagina “dare” però quegli importi che
pagarono allo stesso impiegato. Così nelle fatture un anno significava il periodo che la data
persona trascorse in quel posto e non l’anno del calendario. In questi volumi incontriamo
tracce dell’intenzione di registrare gli impiegati secondo la loro sfera di lavoro, per esempio
se un domestico si licenziò a metà dell’anno di servizio, il suo conto venne continuato con il
nome del nuovo domestico e solo alla fine dell’anno venne chiuso.
Oltre i notai italiani anche altri ufficiali della corte arcivescovile tennero registri dai
quali ne abbiamo sei esemplari in copie. Questi libri sono scritti in latino, la datazione segue
le feste ecclesiastiche, le somme non sono indicate con lettere, solo con numeri romani alla
parte destra della pagina, e sono composti secondo le regole della partita semplice e non
quella doppia. Il volume “Registrum super distributionem vinorum Anno Domini 1489” tratta
in tre parti del resoconto di vino, l’“Introitus de piseto Zathmariensis” dei redditi delle tasse
provenienti dalla coniazione (in questo caso dalla città Nagybánya), il “Registro di cucina”
però delle spese della cucina dall’anno 1492. Ci sono inoltre tre volumi intermedi tra il
sistema italiano e ungherese: i libri di conto degli anni 1490, 1491 e 1492: sono scritti in
latino, ma in parte con numeri arabi, raggruppando le spese e i redditi come i mastri. Quindi
assomigliano di più al soprarriferito “Libro di spese”. Secondo Fügedi li avrebbero scritti 14
senza dubbio ungheresi perché le somme sono indicate con numeri romani però i conti sono
totalizzati con numeri arabi. Si può tuttavia ipotizzare anche il caso in cui nei testi scritti da
scribi ungheresi un notaio italiano avrebbe fatto l’addizione. Tutte le voci dai libri di conto
ungheresi vennero riportate sui mastri italiani che testimonia anche un segno di visto messo al
lato sinistro della voce indicando anche la pagina del mastro dove la voce venne trascritta.
Insomma possiamo affermare che i mastri ricavano le informazioni dai vari tipi di libri
di conto: dai “Giornali” e “Libri di spese” in cui notarono per la prima volta le voci, dai
registri di altri ufficiali della corte scritti generalmente secondo la tradizione ungherese, e dai
“Libri di salariati”. L’obiettivo del sistema era di registrare ogni dato economico e che queste
azioni siano controllabili grazie alla partita doppia.
Le entrate della corte arcivescovile di Esztergom
Fügedi analizzava tre anni: 1488, 1489 e 1490 in base alle copie che trovò a Budapest,
ma questi anni sono stati così ampiamente elaborati che possiamo raffrontare con quei dati
che troviamo nel Giornale. La parte delle entrate è particolarmente importante perché le voci
della prima metà del Giornale che tratta la presente tesi, contengono ugualmente questi
benefici e imposte.
L’arcivescovo di Esztergom poteva ottenere redditi a due titoli: come proprietario
fondiario pretendeva le tasse feudali e come vescovo le decime della sua diocesi.
Generalmente i benefici ecclesiastici erano maggiori, secondo i calcoli di Fügedi negli anni
singoli la percentuale di essi: 71,5% (1488), 81,8% (1489), 66% (1490).
Il podere dell’arcivescovo in quel periodo fu assai grande, era uno dei più ricchi
possidenti dell’Ungheria, ma la possessione non creava mai un unico corpo, i luoghi e le città
si situavano in modo sparso. Pure i loro tipi variavano di paese in paese: l’unica città di
minatori fu Rozsnyóbánya, negli altri luoghi dominava piuttosto l’agricoltura o altri rami di
produzione: Mátyusföld fu una zona fertile dove coltivavano grano; la gente di Vágköz viveva
da pesca; a Szentkereszt fioriva l’ovinicoltura; mentre ai borghi nei dintorni di Drégely si
sviluppava la vinicultura. Il podere arcivescovile però era situata in gruppi separati e non
avrebbe mai diventato una possessione coerente.
Le possessioni dell’arcivescovo si distinguevano da quelle laiche in più sensi: non
c’erano dei castelli che avevano in altri casi un ruolo centrale delle unità economiche, e così
mancavano anche i castellani e gli altri ufficiali tipici. L’organizzazione fu risolto dunque in
un’altra maniera: le terre vicine appartenevano ad un ufficiale (officialis) e formarono così
un’unità strutturale, l’officiolatus che aveva nei tempi di Ippolito ancora un nome precedente: 15
districtus (distretto). Un elenco di questi officiolatus abbiamo dall’anno 157325 che dopo aver
raffrontato con i codici d’Ippolito, Fügedi conferma che le strutture coincidono. In dettagli,
questi distretti erano i seguenti: Drégely, Szentkereszt, Szöllős, Cétény, Verebély, Szalka, i
borghi dei quali corrispondono completamente ai dati del Liber Sancti Adalberti; inoltre:
Vadkert, Sajópüspöki e Udvard, le cui dimensioni non si può determinare. I distretti vennero
diritti sempre da due ufficiali che ebbero verso il giudice castellano (che corrisponde al
soprarriferito provisor) il dovere di conteggiare, consegnare i soldi e di effettuare le sue
disposizioni.
A titolo di proprietario fondiario si conoscevano tre tipi delle rendite feudali: il censo
(census o terragium) pagato in monete che significava un fitto per quel terreno che usavano i
servi della gleba, gli omaggi in natura (munera) e il servizio fisicale eseguito con lavoro
(servitium). Le rendite dei singoli paesi furono prescritti in un documento: nell’urbarium, in
cui stabilirono le prestazioni obbligatorie dei servi della gleba dovute al signore feudale. In
questo caso Fügedi usava due volumi del Liber Sancti Adalberti26, dagli anni 1527 e 1553 per
raffrontare con i dati dei codici d’Ippolito. La rendita più grande era senza dubbio il censo che
ammontava generalmente ad una somma che costruiva la maggioranza assoluta dei contributi
feudali, come anche negli anni analizzati, tranne 1490, quando fu imposta una tassa
straordinaria alle ville dell’arcivescovo che diminuiva la percentuale del censo. I termini del
versamento del censo differiva a seconda dei luoghi: alla festa di San Michele (29 settembre)
si pagava la maggior parte di quest’imposta, che segue il giorno di San Giorgio (24 aprile) con
cui ci incontriamo anche nel Giornale. La somma venne versata generalmente in due rate a
questi giorni, ma in alcuni casi si poteva pagare in più rate. I termini meno frequentati erano:
San Martino, Sant’Andrea, Ognissanti, Pentecoste e Natale.
L’ammontare del censo variava sempre a seconda dei luoghi. La somma da pagare era
preindicata nell’urbarium per un intero terreno di un servo della gleba. La più bassa fu a
Hetény, 36 denari, mentre la più alta a Patak, 2,92 fiorini. Dal Liber Sancti Adalberti però non
possiamo dimostrare che queste somme furono realmente riscotibili o rimasero solo esigenze.
Per stabilire l’ammontare del censo da pagare secondo l’urbarium mandarono dalla corte in
ogni anno un familiare27. Nel mastro del 1491 che fu probabilmente compilato da un letterato 25Liber Sancti Adalberti, Magyar Országos Levéltár, Urbaria et Conscriptiones 45:26 26 Archivio dell’Arcivescovato di Esztergom. Archivium seculare. Acta protocollata. Urbarium Olahi (Filmoteca
dell’Archivio Statale).27 Sotto familiare si intende un termine tecnico medievale ad un nobile ungherese che apparteneva ad un altro
nobile più ricco e che svolgeva servizi in cambio di doni (possedimenti terrieri). Il rapporto non assomiglia al
quello che fu tra domino e vassallo nell’Europa Occidentale perché la donazione non rimaneva nella proprietà 16
ungherese, vennero notate anche queste esigenze e da questo volume possiamo conoscere
anche il metodo dell’iscrizione delle esigenze: il familiare ponderò in ogni paese il numero
dei terreni usati dai servi di gleba, scontò quelli che erano esentati dalla tassa, infine
moltiplicò il risultato con la tassa prescritta dall’urbarium. Ma durante l’allibramento
notarono sempre il prezzo incassato in effetti, cioè aggiungendo altre tasse o togliendone
spese del familiare, e non solo quello che entrò a titolo del censo. Quindi dall’importo che
contiene una voce nel mastro, non possiamo determinare la tassa precisa di un dato luogo
perché il mastro non lo dettaglia.
Abbiamo ancora un altro fenomeno da descrivere che riguarda il tema del censo: il
pagamento forfettario. In questo caso i luoghi avevano una determinata annata da pagare che
potevano effettuare anche a rate. L’arcivescovato aveva 22 paesi che pagavano il censo a
questa maniera, e le cui somme variavano dal fiorino 1 (Farkasd) ai 100 (Patak).
Gli omaggi consegnati in natura (munera) spettavano il proprietario fondiario
ugualmente sulla base dei terreni usati dai servi di gleba. I munera venivano consegnati
secondo l’abitudine in occasione delle feste (Natale, Pasqua, Pentecoste ecc.) e constavano di
pollame, formaggio, uova ecc. Effettivamente avevano l’unico scopo di alimentare la corte
alle feste più grandi. La terza rendita verso il proprietario fondiario era il servizio fisicale
eseguito con lavoro (servitium, robot) che secondo l’urbarium significava uno o due giorni di
falciatura, di eseguire trasporti oppure altri lavori simili. Tuttavia questi carichi non erano
ancora così gravi come poi sarbbero diventati alla fine del Cinquecento. La cosiddetta nona
era una tassa tradizionale dei proprietari fondiari nel Regno d’Ungheria, ma in quest’epoca
aveva già perso la sua importanza precedente e, secondo le notizie dei mastri, la metà dei
possedimenti arcivescovili non aveva più l’obbligo di pagare quest’imposta. Nel Giornale non
possiamo trovare alcuni cenni a questa tassa, per questo qui non la dettaglieremo. Le altre
rendite a titolo di proprietario fondiario erano i dazi (telonium), per esempio il dazio del
mulino o dei luoghi che si situavano alle vie mercantili (Nyárhida, Udvard, Nyergesújfalu) o
tra Esztergom e le città di minatori (Szentkereszt, Ókremnicska).
Tra le rendite incassate a titolo ecclesiastico era la più importante senza dubbio la
decima che caratterizzava tutta l’Europa cristiana nel Medioevo. Nel Regno d’Ungheria la
introdusse ancora Santo Stefano, il primo re. Gli aventi di questa tassa erano prima solo i
vescovi, durante i secoli però anche altre autorità ecclesiastiche, come i proposti, conventi,
abbazie ecc. ebbero questo diritto, e in seguito si formava una struttura abbastanza complicata
dell’incasso della decima. L’arcivescovo otteneva la decima dai comitati di Esztergom,
del donante, invece la si poteva ereditare.17
Pozsony, Nyitra, Komárom, Nógrád, Torna, Gömör, Zólyom, Árva, Liptó, Turóc. Secondo la
tradizione appaltavano la maggior parte della decima, tranne Pozsony da dove ricevevano la
decima in vino. Prima dello scambio delle sedi di Esztergom ed Eger tra Ippolito e Tamás
Bakócz, dovevano già dare in appalto anche la decima di Pozsony, perché Ippolito era già
molto indebitato. I vantaggi dell’appalto per il proprietario fondiaro erano che non lo
gravavano le spese dell’incasso, riceveva la somma in contanti e non in natura, e il processo
era più veloce. Secondo la testimonia dei mastri, da questi vantaggi si realizzava
completamente solo il primo. Una decima particolare era la decima della coniazione, il
cosiddetto diritto di pisetum degli arcivescovi di Eszterom. Questo diritto spettava
esclusivamente l’arcivescovo come il primo pontefice d’Ungheria. Dalle città di minatori la
corte di Esztergom riceveva un pondus dopo ogni marca del metallo nobile dal quale
facevano monete. Il pondus era la quarantottesima parte della marca e da una marca
dell’argento battevano circa 416 denari in quest’epoca. Quindi l’arcivescovo riceveva circa
8,67 denari dopo ogni marca.28 Tra le tasse ricevute a titolo ecclesiastico troviamo ancora il
census plebanorum: alcune pievi appartenevano immediatamente alla giurisdizione
arcivescovile senza la mediazione dell’arciprete. Questi plebani dovevano pagare una
determinata tassa per un anno. Nei mastri sono trenta plebani che possedevano questo diritto.
La seconda parte del saggio di Fügedi tratta le uscite della corte arcivescovile. Poiché
il testo trascritto nella presente tesi di laurea esamina solo il gruppo delle entrate, qui non ho
la possibilità di dettagliare anche le uscite, solo abbozzarle in grandi linee. Le uscite non
possono essere distribuite secondo i titoli come le entrate, variavano secondo le necessità
attuali della corte. Prima di tutto le spese dell’alimentazione della corte comprendevano i
bisogni della cucina, i foraggi per gli animali, il vino, la legna da ardere ecc. Spendevano
molti soldi agli abbigliamenti, essendo la corte numerosa, e compravano molti tessuti e
pelliccie dall’Italia mediante mercanti fiorentini, come Raggione Bontempi e Piero Antonio.
Le fatture delle uscite dei lavori di costruzioni e di riparazioni della corte hanno un contenuto
misto. Questo tema peraltro è stato elaborato dalla storia d’arte, soprattutto negli articoli di
Pál Voit29. I dipendenti della corte che potevano essere ecclesiastici o laici, potevano ricevere
il loro salario in contanti, in natura o in forma di resoconto. Le spese di spedizione e della
cancelleria avevano conto proprio nei mastri, come inoltre erano separati anche i tipi dei costi
28 Cfr. Magyar történeti fogalomtár I-II a cura di Péter BÁN, Budapest, 1989 p. 85 sv. dénár; pp. 30-31 sv.
márka; p. 104 sv. pisetum; p. 113 sv. pondus29 Cfr. Fügedi, p. 508, nota 131
18
ecclesiastici. Infine c’erano spese occasionali come per esempio l’onorario per una poesia
lodativa scritta a favore del re ecc.
Fügedi compilò il bilancio della corte arcivescovile sugli anni di 1489 e 1490 e gli
risultò che il bilancio era deficitario in entrambi gli anni. Ippolito aveva speso più che aveva
ricevuto. Questi ammanchi approdavano l’arcivescovo ad assumere mutui, e infine ad avere
debiti accumulati.
I. 3. Le ultime ricerche seguendo il filo abbandonato
Il filone della ricerca dei registri continuava anche negli anni ’90 dopo una pausa di
quasi una ventina di anni. Nel 1992 si è realizzata la pubblicazione di alcuni registri, per
eccellenza la materiale che riguarda il vescovato di Eger. Il compilatore, Péter E. Kovács
comincia l’introduzione con quel debito del quale i medievisti ungheresi tengono conto per
quanto riguarda la mancanza dell’edizione dei codici di Ippolito d’Este che si faceva aspettare
da più decine di anni, malgrado le segnalazioni dei bravi studiosi, come Albert Nyáry e Erik
Fügedi.30 All’inizio degli anni sessanta l’Archivio Statale Ungherese ha fatto microfilmare i
documenti relativi alla storia ungherese e tra questi anche i registri di Ippolito, ma a causa di
macchie d’acqua la riproduzione risulta illeggibile per pagine. E. Kovács ha cominciato a
lavorare con queste fonti per consiglio di András Kubinyi che ha assunto l’iniziativa di
pubblicare i volumi e l’adattamento della materia. E. Kovács ha trascritto il testo dai
microfilm che si trovavano nell’Archivio Statale Ungherese e con la sovvenzione della
Fondazione Soros aveva la possibilità di confrontare la trascrizione con l’originale a Modena.
In questo modo gli è riuscito finalmente di realizzare la pubblicazione della parte di Eger.31
L’edizione critica segue le regole del Sodalizio Storico Ungherese32: per quanto riguarda i
testi latini, nel principale si figurano solo le forme corrette e le espressioni che sono stati
giudicati errati sono passati alle note. E. Kovács considerava errate tutte le forme degeminate
come per esempio: abatia, alodium, quatuor, sabato, videlizet ecc., che ha corretto senza
30 Cfr. gli articoli menzionati sopra di NYÁRY e di FÜGEDI. L’edizione è stata proposta anche da Vidor PATAKI
(Az egri vár élete. Különnyomat a ciszterci rend egri Szent Bernát-Gimnáziumának 1933/34. évi értesítőjéből.
Budapest, 1934. p. 11) e da Domokos KOSÁRY (Bevezetés a magyar történelem forrásaiba és irodalmába.
Budapest, 1951. pp. 155; 205).31 Estei Hippolit püspök egri számadáskönyvei 1500-1508. A cura di E. KOVÁCS Péter. Ed.: KOVÁCS Béla. Eger.
1992.32 A Magyar Történelmi Társulat forráskiadási szabályzatai. Melléklet a Századok 1920. évi folyamához.
Budapest, 1920. pp. 22-2419
lasciare una nota come era nell’originale. L’assenza di “h” veniva segnalata solo se alterebbe
il senso del testo; mentre l’e caudata è stata sostituita con e in grassetto. Per quanto riguarda i
testi italiani, li ha lasciati in forma originale tranne la divisione delle parole scritte insieme e
gli apostrofi.33 Nell’indice dei nomi sono presenti le forme trascritte e sono segnalati con
lettere corsive quei nomi che non si trovano nel testo originale, ma sono determinabili grazie
alla letteratura professionale scientifica. I toponimi sono indicati in forma moderna, e se un
luogo oggi non appartenesse più a Ungheria, veniva indicata sia il nome attuale (generalmente
slovacco), sia quello ungherese con i loro comitatus ai quali appartenevano nel Medioevo.
Dopo i toponimi non identificabili ha messo un segno interrogativo.
Seguendo il filo abbandonato
Oltre i codici di Eger, anche i registri riguardanti Esztergom meriterebbero
un’edizione moderna, secondo i criteri della filologia e della scienza storica. Questa volontà
dell’arcivescovato di Esztergom ha incontrato gli interessi e le intenzioni della ricerca del
Dipartimento d’Italianistica dell’Università Cattolica di Péter Pázmány. La presente tesi ha
quindi un carattere introduttivo, sia dall’aspetto della pubblicazione dei registri, sia da quello
delle ricerche di essi sperando che tra gli studenti saranno ancora degli interessati verso
questo tema.
Sotto la direzione del Professore Armando Nuzzo, ho cominciato a lavorare
all’Accademia Ungherese delle Scienze dove sono conservate le copie manoscritte fatte dagli
archivisti veneziani34. Prima abbiamo esaminato il contenuto delle scatole per poter scegliere
un plico dal quale poi avrei avuto un brano da trascrivere ed analizzare da sola. Il fascicolo
che infine abbiamo scelto era il decimo, nello stesso tempo l’ultimo dalla terza scatola: 1495.
Libro “Giornale”. Come ulteriormente si è dichiarato, la scelta era fortunata perché il testo di
questo codice è interessante, ben analizzabile e la copia rende completo e più comprensibile il
testo del registro originale che oggi si trova a Modena.
Il mio compito era di copiare una parte del testo e di annotare tutte le ossrevazioni per
l’apparato. Mi ha svegliato l’attenzione che il copista segue rigorosamente la rottura delle
righe originale anche se la misura del quaderno non glielo permette facilmente e deve
rompere le righe prima, poi di nuovo per segnalare come era nell’originale. Con il programma
di editore di testi (Microsoft Word) ho potuto riprodurre la rottura originale che infine ha
33 Le correzioni di E KOVÁCS sono basate al lavoro: Giampaolo TOGNETTI: Criteri per la trascrizione di testi
medievali latini e italiani. Roma, 1982. (Quaderni della Rassegna degli Archivio di Stato 51.)34 Accademia Ungherese delle Scienze, Sezione dei Manoscitti, Ms 4996, 4997, 4998
20
coinciso con l’originale anche nella realtà. Il testo riprodotto in questo modo è stato d’aiuto al
Professore Nuzzo nel confrontare la trascrizione con l’originale, quando aveva la possibilità di
consultare il codice personalmente a Modena. Nello stesso tempo si è scoperto che il codice è
stato ancora danneggiato dopo che ne era stata fatta la copia dagli archivisti veneziani, e per
questo il codice di Budapest ci può aiutare nella lettura e vale la pena di confrontare queste
copie con i testi originali. Grazie ad una possibilità inaspettato e agli aiuti
dell’Autoamministrazione dello Studente (HÖT), ho potuto pure io consultare il codice
originale a Modena e anche fare delle foto digitali dalle quali ho allegato alcune alla presente
tesi.
21
II. Presentazione dei registri di Esztergom
II. 1. Descrizione generale dei codici di Esztergom
Tra i registri d’Ippolito sono in maggioranza i codici riguardanti Esztergom, secondo
le notizie di Endre Veress, ne sono 29 che sono stati fatti copiare dagli archivisti veneziani
prima della prima guerra mondiale, e queste copie apografe oggi sono conservate
dall’Accademia delle Scienze a Budapest. In dettagli i codici in questione sono i seguenti:
Magyar Tudományos Akadémia, Kézirattár (Sala dei Manoscritti), Ms 4996, fasc. 2.
Esztergom Libro dei provisionati (1487), fasc. 3. Esztergom Libro di intrada e usita (1487),
fasc. 4. Esztergom Registro delle entrate (1488), fasc. 5. Esztergom Libro de intrada (1488),
fasc. 6. Esztergom Libro di entrata e di uscita (1489), fasc. 7. Esztergom Alredacione dele
decime di questo anno (1489), fasc. 8. Esztergom Registretto dei vini (Registrum super
distributionem vinorum) (1489), fasc. 9. Esztergom Intrada e usita (1489), fasc. 10.
Esztergom Libro d’entrata (1490), fasc. 11. Esztergom Usita (1490); Ms 4997 fasc. 1.
Esztergom (1491), fasc. 2. Esztergom Libro generale (1487), fasc. 3. Esztergom Libro introiti
(Introitus de piseto Zathmariensis) (1488), fasc. 4. Esztergom Libro di uscita (1489), fasc. 5.
Esztergom Libro Proventi (1487), fasc. 6. Esztergom Libro di Entrata (1489), fasc. 7.
Esztergom Libro d’uscita (1490), fasc. 8. Esztergom Libro di entrata e di uscita (1491), fasc.
9. Esztergom Libro de intrata et de usitta (1491); Ms 4998 fasc. 1. Registro di cucina (1492-
1493), fasc. 2. Libro di entrata e dei debitori (1493), fasc. 3. Registro dei salariati (1493), fasc.
4. Registro di entrata (1492-1494), fasc. 5. Libro di entrata e di uscita (1492-1494), fasc. 6.
Libro di entrata e di debitori (1494), fasc. 7. Libro dei salariati (1494), fasc. 8. Libro dei
salariati (1494-1495), fasc. 9. Libro di spese (1495), fasc. 10. Libro Giornale (1495).
I codici originali si trovano a Modena, nell’Archivio di Stato, sotto la segnatura
Camera Ducale, Amministrazione dei Principi. Durante la visita a Modena avevo la possibilità
di vedere due dei codici, il Giornale (1495) che descriverò nel capitolo seguente, e il Libro
dei salariati (1494-95). Lo stato di entrambi è buono, sono stati restaurati e adesso sono
conservati in modo conveniente. Bisognerebbe però effettuare la descrizione possibilmente di
tutti i codici conservati in quest’archivio che riguardono la storia ungherese, poiché nell’epoca
di Albert Nyáry ed Endre Veress il catalogo non era ancora completato, non erano ancora
elaborati tutti i materiali conservati dall’archivio, e così non è escluso che ci possono essere
ancora documenti latenti che interessano la nostra storiografia. Speriamo che in un prossimo
futuro si offrirà un’occasione di svelare e descrivere tutte le fonti che hanno un’importanza 22
ungherese e possono avere contributi per conscere e capire meglio la nostra storia medievale e
rinascimentale.
II. 2. Il Giornale di 1495
La filologia
È ancora una domanda irristolta a quale disciplina appartenga la filologia, ma secondo
più opinioni35 essa è piuttosto un insieme delle discipline al cui centro sta la ricostruzione di
un testo antico cercando la forma originaria attraverso l’analisi critica e comparativa delle
fonti nelle quali si trovano le varianti del dato testo. Secondo una definizione la filologia è una
"scienza e disciplina intesa a indagare una cultura e una civiltà letteraria, antica o moderna,
attraverso lo studio dei testi letterari e dei documenti di lingua, ricostituendoli nella loro forma
originale e individuandone gli aspetti e i caratteri linguistici e culturali."36 Lo scopo principale
della filologia è quindi di pervenire ad un’interpretazione che sia la più corretta possibile che
rispecchia quel testo originale che lo scrittore immaginava. Per ottenere questa forma
c’incontriamo con due problemi principali: la ricostruzione dello stato del testo e
l’interpretazione del significato vero. Anche nel caso presente dopo la presentazione del
codice originale e del suo apografo dai quali ho lavorato, ho seguito questa via prima
commentando la forma del testo, poi attraverso l’interpretazione del contenuto.
Il documento originale
Il codice originale oggi si trova nell’Archivio di Stato di Modena sotto la segnatura
Camera Ducale. Amministrazione dei Principi No 705. Il registro, secondo la propria
determinazione ha una misura di 215 x 290 millimetri che posso confermare io stessa in
seguito a misurazioni effettuate a Modena e all'esame autoptico del documento: quindi il libro
è largo 23 e lungo 30 centimetri che corrisponde ad un semplice foglio A/4 di norma odierna.
Secondo il titolo il codice ha 44 carte dalle quali, secondo i controlli alcuni possono mancare.
Eppure non lo considererei incompleto perché tutte e due le parti, le entrate e le uscite, sono
intere in quanto i loro periodi sono identici: dal 1° maggio al 10/11 agosto 1495.
35 Cfr. KRISTÓ Gyula – MAKK Ferenc: Filológia. In: A történelem segédtudományai, a cura di Iván BERTÉNYI,
Budapest, 2003. pp. 186-200 36 Emidio DE FELICE - Aldo DURO: Dizionario della lingua e delle civiltà italiana contemporanea. Palermo
1974. p. 767. sv. filologia23
Il libro è stato restaurato negli ultimi tempi e il danneggiamento delle carte è stato
fermato. Tuttavia le prime pagine purtroppo sono rimaste gravemente rovinate37. I fogli sono
lacerati proprio al dorso, ma la restaurazione li ha riuniti, e rilegati di nuovo in forma di libro.
Il codice ha ricevuto una nuova copertina di cartone che non corrisponde però alla copertina
originale dalla quale sopravviveva solo una piccola parte che è stata inserita sul lato interno
della copertina anteriore attuale.38
Su questo frammento però è presente senza dubbio il titolo originale con più righe le
cui grafie risultano differenti. Le parti leggibili sono i seguenti:
IS Marie Filius miserere mei
[LI]BRO DICTO GIORNALE DEL 149[5]
[.......]
24° 1495
ordinali per corte di Strigonia
. 33 .
Questa iscrizione stava sulla copertina originale, probabilmente sul lato frontale. La
prima riga è senza dubbio un’invocazione: l’autore dedica la sua opera a Gesù Cristo, Figlio
di Maria. Il nome di Gesù è abbreviato nella sigla usata: IS (Iesus Salvator). La riga seguente
contiene il titolo scritto con maiuscole e la data del codice. Sotto il titolo c’è una frase molto
sbiadita scritta con minuscole che è purtroppo tanto illeggibile che nemmeno sulle foto
ingrandite non sono riuscita ad identificarla. La segnalazione originale del Giornale è 24
dell’anno 1495, poi sotto troviamo la determinazione del genere del libro. Il numero 33
poteva essere una marcatura come il 24 sopra ma non è ancora chiarito il significato di queste
segnalazioni.
I fogli del codice sono di carte a mano preparate probabilmente in Italia: sui fogli
troviamo filigrane che ci danno la possibilità di rivelare la provenienza dei fogli. Su ogni
pagina si può vedere una bilancia a bracci in un cerchio. Nella raccolta delle filigrane di
Briquet39 possiamo trovare quasi trecento varianti delle bilance. Analizzando però
attentamente le forme e le linee, ho potuto ridurre le possibilità a quattro40, dai quali però la
più verosimile è quella che è disegnata sotto il numero 2472. Questa forma venne usata a
37 Appendice III. illustrazione 2° 38 Appendice III. illustrazione 1° 39 Charles M. BRIQUET: Les Filigranes I. Georg Olms Verlag Hildesheim. New York 1977.40 Ivi pp. 184-185, disegni: svv. 2472, 2473, 2474, 2476
24
Venezia il 1464 la cui variante fu trovata anche in Ungheria dall’anno 1466. Quindi si tratta di
un’officina italiana dalla quale presero fogli anche per almeno un codice ungherese.
Per caratterizzare la scrittura del testo, possiamo riferire che è scritto con minuscole
corsive umanistiche41 e la grafia su le nove pagine la stessa tranne le ultime due voci che
differisce dal testo precedente. La spiegazione di questo fenomeno può essere che avrebbero
usato un altro tipo di inchiostro, o le voci sarebbero state scritte da un altro mano.
La copia
Da questo codice originale fu fatto un apografo dagli archivisti veneziani nel 1915 che
è conservato fino ad oggi dalla Sezione dei Manoscritti dell’Accademia Ungherese delle
Scienze sotto la segnalazione Ms. 4998, fasc. 10. Questa copia fu l’ultima che giunse in
Ungheria prima che scoppiasse la guerra tra l’Italia e la Monarchia Austro-Ungarica, per
questo ha anche una curiosità diplomatica. Ma la sua importanza è soprattutto che il copista
aveva ancora la possibilità di leggere un testo più completo in quanto il codice non era ancora
così danneggiato come ai nostri giorni. Pertanto ci sono parti del testo che conosciamo solo
dalla copia. Questi parti sono notate nel testo con le parentesi quadre [ ], per esempio 3,39:
omni anno; 3,73: Gismondo ecc. Per caratterizzare la copia e il lavoro del copista possiamo
affermare che segue fedelmente la rottura delle righe e delle pagine, oppure se non glielo
permette la misura della pagina, nota la rottura per esempio con una linea in caso delle pagine.
Per la divisione delle parole usa il segno d’uguaglianza (=). Se comincia una nuova pagina
nell’originale, il trascrittore indica il numero del foglio seguente. Sebbene il codice fosse
ancora in una condizione migliore, anche il copista aveva alcuni brani che non poteva leggere.
Queste parti vennero segnate con punti (...). Inoltre le abbreviazioni dell’originale sono tutte
sciolte nella copia.
Possiamo comunque osservare alcuni errori tipici dei copisti: lo scioglimento sbagliato
di un’abbreviazione, per esempio 2,27: al posto di p(ro)x(im)o passato scrive per decime
passate, 8,41: al posto di s(cilicet) scrive fiorini; la dittografia, raddoppiando il sintagma a me
contanti (6,162); l’omissione di un numero: 3,54, o una parte intera del testo: 4,79-80, 4,87-89
(queste voci vennero poi inserite ulteriormente a piè della pagina); lettura o scrittura sbagliata
di una somma o di una parola: al posto di 3600 denari sta 2600 denari (8,3), al posto di
Mercordì c’è Martedì (3,62); scioglimento inesatto di un’abbreviazione: al posto di Martos
sta Mantos (3,51); e infine possiamo trovare esempi di grafia in dialetto veneziano: al posto di
argento troviamo due volte arzento (5,150, 11,44). Abbiamo ancora una parte che il copista 41 Esempio: Appendice III. illustrazione 3°
25
avrebbe frainteso: magari all’analogia delle voci precedenti il trascrittore avesse pensato che lì
doveva essere un nome di un luogo e scrisse Lore, mentre qui si tratta di una tassa de lo re
(10,19).
Malgrado questi errori, la trascrizione è tuttavia molto utile nell’analisi dei codici
d’Ippolito perché gli archivisti veneziani potevano lavorare ancora con i libri meno rovinati e
potevano ancora leggere più parti dei testi. Inoltre dobbiamo sottolineare anche la competenza
di questi specialisti che lessero la maggior parte dei testi bene e sciolsero la maggior parte
delle abbreviazioni in modo corretto. Così le trascrizioni, trattate con la dovuta attenzione
critica, possono aiutarci nell’interpretazione dei testi originali.
II. 2. 1. Osservazioni metodologiche e filologiche
Il metodo della trascrizione
Innanzitutto desidero sottolineare che si tratta di un codice e di un testo
rinascimentale: il registro presente naque nel 1495, nella corte dell’arcivescovo di Esztergom,
nel Regno d’Ungheria. Il Giornale serviva proprio per quello che indica il suo nome: aveva un
ruolo quotidiano, perché in questo quaderno venivano allibrati gli importi appena entrati o
appena usciti. Da questo volume riportarono le voci sul libro mastro, cioè aveva una funzione
quasi di una prima stesura della partita. Ovviamente non si tratta di un testo letterario che è
ben composto e redatto, però rispecchia un linguaggio veramente usato nel suo valore
quotidiano, e anche il suo scopo fu più usuale che lasciare qualcosa alla posterità.
Inoltre va notare una situazione incomparabile, in cui un notaio italiano doveva
lavorare in un ufficio ungherese, dove il linguaggio dell’amministrazione era il latino mentre
la lingua parlata dal popolo, l’ungherese. Il notaio non poteva sfuggire all’influsso di queste
circostanze, mentre provava ad utilizzare nello stesso tempo quel ritmo di lavoro che prima
aveva studiato ed esercitato in Italia. Fu quindi costretto ad usare parole e termini ungheresi, e
anche latini che però avevano un significato determinato dall’abitudine ungherese.
Quindi possiamo considerare il testo presente come un documento della lingua italiana
di un determinato luogo e periodo, e che possiamo comprendere se analizziamo in queste
circostanze speciali. Per capire il contenuto bisognerà spiegare alcuni concetti specialmente
ungheresi, ma anche alcuni latini e italiani che però hanno diverso significato tra le condizioni
medievali in Ungheria. Attraverso queste spiegazioni potremo interpretare il testo nel migliore
dei modi il che è uno degli scopi pricipi della filologia.
26
L’altro suo scopo, come abbiamo già visto è la ricostruzione del testo fedelmente alle
intenzioni dell’autore. Per ottenere la trascrizione migliore del testo, ho usato due fonti che
sono state presentate sopra. Più esattamente la parte elaborata era la prima nove pagine del
Giornale42 la cui copia apografata si trova all’Accademia di Budapest tra i manoscritti43. Il
lavoro è stato cominciato con la valutazione delle copie che sono conservati all’Accademia
delle Scienze di Budapest. Il risultato della ponderazione è che lo stato delle copie è buono, il
loro testo è ben leggibile che ci permette di lavorare con esso abbastanza facilmente. Avendo
la speranza in una futura edizione di tutti i registri, abbiamo scelto un brano dei testi sul quale
abbiamo voluto dimostrare l’adattamento immaginato del materiale. Però gli errori scoperti
dei copisti durante la trascrizione hanno fatto opportuno che il testo venga confrontato con
l’originale. Per fortuna quest’intenzione è diventata realizzabile e oggi abbiamo già delle foto
digitali sulle pagine del Giornale originale (M). Già durante la prima comparazione si è fatta
luce su più errori del copista dai quali i più appariscenti sono: M: “3600 denari” mentre in B:
“2600 denari” (8,3), M: “Mercordì” B: “Martedì” (3,62) ecc. Però ci siamo resi conto che le
parti del testo che il copista non potè leggere, non le vediamo nemmeno noi, anzi, l’originale
oggi è meno leggibile come era nei tempi dei copisti veneziani, dunque senza l’apografo
possiamo riconoscere meno del testo. Come risultato della comparazione abbiamo ricevuto
una trascrizione la cui base è già il testo originale però contiene anche quei complementi che
il copista potè ancora leggere cento anni fa. Alcune volte ho potuto controllare ed
eventualmente correggere le incertezze della copia con l’ingrandimento delle foto digitali, per
esempio B: scaso, M: sconto (3,53). La copia mi poteva aiutare nello scioglimento giusto
delle abbreviazioni, però i malintesi evidenti della copia naturalmente li ho corretti e poi
segnalati nell’apparato critico, per esempio: B: per decime passate M: proximo passato (2,
27), B: fiorini M: scilicet (8,41).
Il notaio, fedelmente alle tradizioni medievali, usava le abbreviazioni d’abitudine
consacrata. Ho potuto risolvere tutte quante il che è dovuto anche alla copia. Posso
distinguere tre gruppi delle abbreviazioni che ho incontrato nel testo: l’abbreviazione più
semplice è generalmente di una sola lettera, nel secondo gruppo appartengono le composte
che riducono una o due sillabe, e infine le abbreviazioni più forti sono quelli che indicano
un’intera parola in una o due lettere. Le abbreviazioni più frequenti del Medioevo che ho
messo nel primo gruppo sono quelle delle consonanti nasali (m,n) con una lineetta orizzontale
42 Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale. Amministraione dei Principi. No 705 1r.- 5r (M)43 Budapest, Magyar Tudományos Akadémia, Kézirattár, Ms 4998 fasc. 10. 1r. – 11v. (B)
27
sopra le lettere vicine, della vibrante r, dei prefissi pro-, pre-, per-, por-, par- e con-, e del
suffisso que. Le abbreviazioni composte riducono le parole con almeno una sillaba, per
esempio: q(ue)sto, giug(no), de(nar)i, l(ite)rato, p(ro)x(im)o, di(cto), s(anc)to, ave(re),
l(ette)re, moli(no), c(ontan)ti ecc. Le più forti riducono la parola alle lettere minime, come
f(iorini), d(enari), q(uando), M(on)s(ignor) R(everendissimo), x: (decima), s(cilicet),
m(aestro) ecc. Anche i nomi propri venivano abbreviati: Ant(oni)o, Franc(esc)o, Gio(r)gio,
Gismo(n)do, He(r)na(n)do ecc. Più raramente, ma tra i toponimi troviamo ugualmente esempi
alle abbreviazioni: Na(n)dor, Ma(r)tos. Quest’ultimo esempio è stato risolto dal copista
veneziano in “Mantos”, perché il segno sopra le lettere non è univoco, e probabilmente il
trascrittore abbia scelto la variante più frequente, siccome non potesse conoscere il nome del
villaggio. L’uso delle abbreviazioni non è sempre conseguente, c’erano casi, quando una
parola veniva abbreviata a diversi modi, oppure non veniva affatto abbreviata.
La forma delle voci sembra di seguire un’ordine prestabilita, in cui le singole
informazioni occupano certi posti a seconda del loro genere. Di solito comincia con
l’indicazione del luogo o della persona da cui entra l’importo che poi segue la somma stessa
descritta con parole che grammaticalmente equivale all’oggetto diretto. Il posto secondario
dell’importo è esclusivo e segue l’ordine locale dei valori, per esempio fiorino venne scritto
anche se il dato importo era sotto un fiorino: per esempio 3,65-66: “f(iorini) d(ena)ri
ottuagi(n)ta duo d(ena)ri” dove dai fiorini ne portarono nulla e magari la doppia scrittura
della parola denari serviva per segnalare la mancanza dei fiorini, e che l’importo è
esclusivamente in denari. Solo dopo l’oggetto diretto troviamo il verbo che generalmente è
“portò” e che può anche mancare essendo un’informazione a volte superflua. L’agente, che
porta la data somma non sempre viene indicato all’incontro del titolo al quale riceve la corte il
pagamento che manca dal testo molto raramente. Oltre queste informazioni, nella maggior
parte dei casi troviamo ancora qualche dettaglio o sulla transazione o sulla sorte seguente
dell’importo ecc. Dunque possiamo affermare che le voci seguono una formula comune in cui
le informazioni occupano posti fissi.
I fenomeni trovati nel frammento presentato potrebbero preannunicare anche
l’importanza del complesso dei codici ancora non pubblicati. Per esempio oltre l’importanza
storico-economica, il testo ha anche un valore linguistico essendo un documento che
rispecchia un linguaggio usato. Per poter dimostrare il processo della trascrizione, i fenomeni
ricorrenti e i problemi principali trovati nel testo trascritto, ho esaminato di voce in voce uno
da i quattro mesi: il mese di maggio perché essendo il più lungo, contiene le più voci.
28
Osservazioni filologiche
La prima pagina del Giornale comincia con la data del giorno attuale: p(ri)mo d[i]
magio (2,1). Poiché il foglio è gravemente danneggiato, non si vede ma possiamo ipotizzare
che o al capo della pagina o all’inizio della riga era presente anche l’anno (1495) che per
esempio nei mastri appare sempre in cima alle pagine.
2,2-4: Potrei riassumere in questo modo il senso della voce: Da Udvard furono portati
6 fiorini in contanti per il censo di San Giorgio. Secondo l’analogia alcune parole sono
facilmente recuperabili malgrado il guasto meccanico del foglio: Da la villa all’inizio e
proximo nella terza riga. Però l’inizio della riga seconda è incerto, non si vede niente dalla
parola. Esaminando la frase invece possiamo accorgerci che dalla costruzione possessiva
manca il possesso che è nello stesso tempo il soggetto della frase. Probabilmente la parola
mancante era “giudice” o “giurato” come vedremo nei seguenti casi. A quest’ipotesi
contraddice però la preposizione in che sta alla fine della prima riga. Altri fenomeni da
menzionare di questa voce sono le forme latineggiani, come proximo, sancto, la parola logo
senza dittongo, e l’articolo maschile lo davanti alla parola censo.
2,5-6: Da questa voce possiamo conoscere che il giudice della villa Gyarmat portò 17
fiorini in contanti per il termine di San Giorgio trascorso. A causa del danneggiamento del
foglio le prime parole delle due righe sono illeggibili, ma sulla base dell’analogia possiamo
recuperare la maggior parte delle parole: Da la villa, e la fine della parola giudice. Tra giudice
e per sicuramente c’è ancora una parola (probabilmente loro), ma portroppo è completamente
illeggibile. L’identificazione del luogo non è facile, anche la forma della parola è incerta
perché nell’originale si vede “Giamae” che lesse anche il copista veneziano, ma la lettera
finale è dubbiosa: l’e che scelse il copista potrebbe essere anche una t. Sulla base del Liber
Sancti Adalberti ho scelto la forma con la t perché l’unico possedimento con un nome simile è
Gyarmath dalla quale però ne abbiamo subito due: uno nel comitatus di Hont e uno in Bars.
La forma variante del toponimo è stata segnalata nell’apparato critico.
2,7-9: Il contenuto della voce in questo caso è meno univoco: Stefano portò 5 fiorini
da Kissáró per il censo di San Giorgio ... dice maestro Monaro. Più parti della presente voce
non sono leggibili a causa di guasto meccanico e purtroppo in questo caso non ci aiuta
nemmeno la copia di Budapest, perché nemmeno il copista vide le parole in questione. Si può
eppure affermare alcuni dati: il notaio sbagliò nello scrivere la somma, e cancellò la parte
quatro et de(nar)i che ho segnalata con le parentesi angolari. Ne sono consapevole che in
un’eventuale pubblicazione del testo, questa parte dovrà essere tolta dal testo principale e
segnalata solo nell’apparato critico. Siccome però i presenti materiali hanno un carattere 29
rappresentativo del documento originale in modo fedele, nella trascrizione dell’appendice ho
lasciato nel principale le parti cancellate segnalando nell’apparato che l’apografo di Budapest
le omise. Per quanto concerne le parole illeggibili, purtroppo possiamo recuperarne solo
l’inizio della prima riga (2,7) secondo l’analogia: Da la villa. La riga ultima così ha senso
dubbioso: adesso sembra essere un’affermazione su una transazione tra Stefano e il maestro
Monaro che poi avrebbe dato notizia su quest’azione al notaio che infine avrebbe allibrato la
somma. Però la parola dice può anche essere la fine di giudice come nelle altre voci. In questo
caso il senso della frase dovrebbe essere risolto dalle parti non visibili.
2,10-11: Il giudice di Szentgyörgyfalva portò 10 fiorini e 60 denari per il censo di San
Giorgio. La frase ha un senso completo malgrado la mancanza di qualche parola all’inizio
della seconda riga. La forma della voce rispecchia la cornice tipica: comincia con il luogo,
segue la somma indicata con parole, poi il titolo, infine il verbo e l’agente. Qui possiamo
osservare inoltre l’oscillazione degli articoli maschili tra lo e il dai quali la prima forma risulta
più frequente nel testo. È una curiosità che il nome della villa è parimente San Giorgio, come
la festa, e fu tradotto ugualmente in italiano.
2,12-16: Il contenuto della presente voce è più complesso: Dal pisetario di
Körmöcbánya, Giovanni Guldino ricevettero 204 fiorini, dai quali abbonai il resto di 25
fiorini a maestro Agustino Horzo che andò in Italia per la commissione di Monsignor
Reverendissimo. La voce è una proposizione ripetutamente composta il cui significato non è
completamente chiaro a causa della mancaza di ancune parole sempre per guasto meccanico e
anche della lettura incerta delle parole Horzo, acattati. Il copista veneziono scrisse alcune
volte z al posto di g, e h al posto di b, e non è escluso che anche nel caso di Horzo si tratti di
questo fenomeno essendo la scrittura delle due lettere molto simile, ma siccome non posso
raffrontare il nome con più varianti, l’ho lasciato in tale forma nel principale. La parola
acattati è sempre incerta perché l’inchiostro è molto sbiadito e il copista scrisse una parola
diversa (acoltati) ma ingrandendo la foto digitale sembra la t raddoppiata tra due a. Dal senso
del testo però è chiaro che deve stare qui un verbo con il significato di prestare. Alla fine della
voce però venne allibrata eppure la somma 204 fiorini senza la riduzione dell’importo di 25
fiorini accreditarono al maestro Agustino Horzo. Per quando riguardano i fenomeni
grammaticali, in questa frase abbiamo più forme verbali: forme finite: presente (sono),
passato remoto (dedi, andò) che è la forma verbale più frequente del Giornale, passato
prossimo (ho renduti) dove la forma coniugata dell’ausiliare eccezionalmente è scritta con la
h iniziale, e imperfetto in una struttura passiva (erano acattati); forme non finite: participio
passato (conputati, fatti).30
2,19-22: Dal plebano di Csetnek, don Valentino ricevettero 24 fiorini in contanti per
quel censo che lui paga in ogni anno all’arcivescovato al termine della festa di San Giorgio.
Questa voce riferisce ad un’entrata dell’arcivescovo a titolo eccesiastico del census
plebanorum. La tassa pagata non deriva da un possedimento dell’arcivescovato, ma da un
plebano che fu estratto dalla mansione dell’arciprete e subordinato direttamente
all’arcivescovo. Grammaticalmente possiamo menzionare che dalla principale mancano il
predicato e il soggetto che tuttavia sono evidenti (per es. ricevei), per il pronome personale
usa la forma lui, le preposizioni e gli articoli non si uniscono e la consonante iniziale degli
articoli non viene raddoppiata (a lo, a la), e nella parola arcivescoado troviamo un’iato che il
copista non se ne accorse e scrisse arcivescovado.
2,23-28: Questa voce è molto simile al precedente: Da don Pietro plebano di Örs
ricevettero un carro ferrato con cento lame di ferro per conto della decima che lui paga in
ogni anno all’arcivescovato al termine della festa di San Giorgio. L’importo entra
ugualmente da un plebano, ma secondo il testo qui non si tratta di un census plebanorum, ma
di una decima annuale che il plebano in questione paga annualmente al termine del giorno di
San Giorgio. È inoltre interessante che la tassa in questo caso viene “pagata” in natura, ma la
registrazione dell’entrata non differisce dalle altre voci, cioè la quantità e il genere dell’entrata
è indicata nella colonna destra dove in atri casi gli importi. Solo in testo troviamo che il carro
e le lame sono per conto della decima. Vale la pena anche di controntare la presente formula
della motivazione con la precedente: ...per lo ce(n)so, che lui paga om(n)e anno a lo
arcivescoado a la festa di S(anc)to Gio(r)gio, et questo per lo te(r)mine di S(anc)to Gio(r)gio
passato (2,20-22), ...p(er) co(n)to de la (decima) che lui paga om(n)e anno a l’a(r)civescoado
i(n) la festa di S(anc)to Gio(r)gio, et q(ue)sto p(er) lo te(r)mi(n)e di S(anc)to Gio(r)gio
p(ro)x(im)o passato (2,24-27). Le due formule sono quasi uguali, ma ne troviamo alcune
differenze: nella prima davanti alla parola arcivescoado usa l’articolo maschile lo, che in
genere preferisce, ma nella seconda troviamo già la sua forma ridotta l. Nel primo caso
vediamo che il plebano paga a la festa, mentre nel secondo esempio in la festa di San
Giorgio. Quest’ultima forma ci può dimostrare che usarono le preposizioni e gli articoli in
modo separato. In tutte e due le frasi sono scritti a tutte lettere la parola anno che
generalmente è abbreviata, e l’iato nella parola arcivescoado rimane anche nel secondo caso.
Infine in questa voce possiamo incontrare le abbreviazioni forti delle parole decima (xa), cento
(co).
2,29-31: L’esempio presente è più semplice: Alberto, il giudice della villa di Mocsa
portò 8 fiorini e 7 denari per il censo di San Giorgio. In questa voce il notaio scrisse prima 31
Sancto Michele che poi cancellò con una linea e scrisse sopra la riga Giorgio. Però la
correzione è così sbiadita che prima ho letto solo la forma errata e preferivo Michele al
contrario della copia apografata dove il copista scrisse solo Giorgio, e solo durante l’analisi
del testo ho incontrato la correzione, quando ho ingrandito ripetutamente la foto digitale. Le
altre curiosità della voce sono che il nome del numero sette assomiglia alla forma latina
(septe) perché la consonante p non assomigliava alla t; e troviamo un’apposizione dopo il
nome Alberto (loro giudice) dove il pronome possessivo precede il sostantivo e l’articolo
determinato non è indicato.
2,33-35: Antonio, il scriba della corte diede 4 fiorini e 40 denari dalla villa di Imély
per il censo di San Giorgio. In questa frase incontriamo un’apposizione simile alla
precedente: Antonio, diac nostro, ma in questo esempio il pronome possessivo è preceduto dal
sostantivo. È ancora da menzionare che la parola diac è già una forma ungherese per
segnalare lo scriba e che deriva dalla parola latina diaconus44.
2,36-3,37: La parte superiore della seconda pagina è ugualmente danneggiato, per
questo alcune parole non sono visibili dalla seguente voce: Dal giudice di Kéménd ricevettero
fiorini ... 8 per il censo di San Giorgio trascorso. Purtroppo non vediamo la somma finale
nella colonna destra per questo non possiamo decidere quante sono i fiorini e quante i denari.
Lo spazio tra fiorini e otto non ci permette di pensare che la somma intera fosse 8 fiorini, ci
deve stare ancora almeno una parola. La lettura della villa è ugualmente incerta, perché le
lettere finali sono già illeggibili, per tanto ho seguito in questo caso la copia, in cui però
traviamo la forma Kemez con una z alla fine. Da questa voce però nella colonna sinistra della
pagina appaiono i riferimenti ai fogli del mastro, sul quale riportarono i dati del Giornale.
3,38-41: Biasio diac, il mandato del piovano di Pelsőc portò 8 fiorini per la tassa che
il piovano paga in ogni anno per il termine di San Giorgio. Purtroppo qui non si vede
ugualmente la somma precisa, e manca anche il titolo del pagamento. Sappiamo che il
plebano in questione deve pagarlo in ogni anno per il termine di San Giorgio, e sulla base di
quest’informazione possiamo ipotizzare che il titolo era il census plebanorum. Questa
supposizione viene confermata anche dalla 21. tabella di Fügedi45, dove sono elencate le
parocchie subordinate all’arcivescovo tra le quali ci troviamo anche Pelsőc. Come fenomeno
grammaticale possiamo osservare in questa voce una costruzione passiva (è obligata pagare),
e sempre un’apposizione dopo il nome Biasio (suo mandato). Per quanto riguarda il lessico,
qui troviamo un sinonimo della parola “plebano” che usava finora: “piovano”.
44 Cfr. Etimológiai szótár. a cura di Zaicz Gábor. Tinta Könyvkiadó. 2006. sv. deák45 Fügedi, p. 549, tabella 21.
32
3,42-46: La registrazione di quest’importo è più complessa: Da Biasio “letterato”
portò 7 fiorini e 70 denari per il dazio di Szentkereszt e diede ancora 3 fiorini a Ridolzi per la
mia commissione, insomma 10 iorini e 75 denari che è la parte della corte, l’altra metà ebbe
il familiare di Janus. In questa voce troviamo più parti incerte che rendono difficile sia la
trascrizione sia l’interpretazione del passo. Nella prima riga la parte p(er) lo telonio di
S(anc)ta Croce è scritta sopra la linea sia nel documento originale sia nella copia, che ho
segnalato con le parentesi angolari nel testo principale, facendo riferimento nell’apparato
critico. La riga è divenata così lunga che non ho potuto scrivere in una linea, e la parola
settanta è passata alla prossima riga. Dopo settanta non appare nessun numero, né dopo i tre
fiorini, tuttavia troviamo nella seguente frase - quando indica il totale - 75 denari. La rubrica
delle somme nel documento originale risulta purtroppo illeggibile, nella copia però vediamo f.
10 d. 70 che non corrisponde al totale indicato nel testo. In questo caso è difficile a decidere
se si tratti di un errore dello scriba oppure del copista veneziano. Poiché lo scopo della
trascrizione presente era l’interpretazione del testo originale in modo più fedele, ho corretto
l’importo presente nella rubrica della copia, e scritto d. 75, come appare nel testo
dell’originale. C’è una seconda differenza tra l’originale e il copia: il nome di Ridolzi, che il
copista veneziano lesse Rivolzi, mentre nel codice possiamo leggere senza ingrandendo la foto
una bella d. La differenza è stata segnalata nell’apparato critico e secondo il testo seguente
abbiamo una conferma sulla correttezza del nome. Però non è chiaro nella frase seconda che il
fameglio de Janus chi fosse e perché potè avere l’altra metà della somma. Il fameglio
probabilmente corrisponde al termine “familiare” del mondo medievale ungherese che
significava un uomo nobile che dipendeva personalmente da un magnate avendo sevizi
economici, amministrativi o militari come dovere verso il suo magnate, e che consideravano
come un appartenente alla famiglia del magnate.46 Un altro termine da spiegare, presente in
questa voce, è il telonio che deriva dalla parola latina telonium, ii, n. con il significato dazio.
L’arcivescovo aveva otto luoghi sui suoi possedimenti ai quali si doveva pagare dazio.
Szentkereszt si situava tra Esztergom e le città di minatori e l’arcivescovo partecipava agli
scambi di questa via commerciale.
3,48-50: Il giorno seguente è martedì, 5 maggio, e comincia con un pagamento di
censo: Giovanni Picolo, il giudice della villa Tardoskedd portò 9 fiorini e 70 denari per il
censo di San Giorgio. Per il danneggiamento del foglio ho avuto bisogno anche in questo caso
dell’aiuto della copia in cui per fortuna ci troviamo tutte le parole e anche la somma. Il nome
del giudice è interessante perché la persona era molto verosimilmente ungherese (potermmo 46 Cfr. Magyar történeti fogalomtár. I. A cura di Péter BÁN, Budapest, 1989. pp. 125-126 sv. familiáris
33
anche tradurre in Kis János) essendo un ufficiale di una villa ungherese, ma il notaio tradusse
il suo nome in italiano. Anche nella parola Picolo possiamo osservare la tendenza delle
consonanti semplici, non geminate. La voce comunque è tipica, in quanto mantiene la forma
precedente delle voci che trattano dei censi. Anche Fügedi dimostrava nel suo articolo le voci
del Giornale attraverso questo esempio.47
3,51-53: Non è raro la prima persona singolare nel testo, che lo scrivano avrebbe
dovuto scrivere in nome della cassa secondo i concetti odierni, come nell’esempio presente:
Dalla villa di Martos entrarono 13 fiorini e 75 denari comprendendo quei 2 fiorini e 25
denari che ho scontati per i nove mucchi di fieno che mi avevano venduti. Il copista veneziano
ha sciolo la lettera abbreviata del toponimo come una nasale, ma siccome non esiste alcun
borgo con un nome simile, ho rivisto l’abbreviazione ingrandendo la foto digitale e ho trovato
che il segno non è univoco in quanto comincia con un tratto verticale che può riferire ad una r,
mentre la parte maggiore della linea è orizzontale che in genere significa veramente
un’abbreviazione nasale. Alla fine ho scelto la forma con la r segnalando la variante
nell’apparato critico. Il notaio scrisse due volte la parola doi, la seconda delle quali fu
cancellata. Nella registrazione presente troviamo alcuni riferimenti al notaio stesso che
ridusse una parte della somma pagata con il prezzo di una quantità del fieno che gli avevano
venduto. Usa i pronomi personali io e me in posizioni atone. Troviamo qui ancora un
pronome atono: li che però è visibile solo nella copia. Per quanto riguarda i verbi, nella
principale non è presente alcun verbo, mentre nelle subordinate ce ne sono due in passato
prossimo: ho sconto, anno venduto. Il primo di questi verbi è indicato nella copia in una
forma incerta “scaso” che però non ha senso.
3,54-55: Da Hetény entrarono un fiorino e 20 denari per il loro censo di San Giorgio.
In questa semplice voce è interessante il nome di Hetény senza l’h iniziale e che il notaio
mette il pronome possessivo loro dietro del sostantivo censo.
3,56-57: Da Bersen entrarono 2 fiorini e (più di 60) denari per il resto del loro censo
di San Giorgio, l’altra parte è stata pagata il 25 aprile. Qui abbiamo più parti incerte: le fine
delle righe non sono leggibili e dalla copia possiamo recuperare solo alcune parole (contanti e
parte), poi dopo l’abbreviazione di fiorini nella terza riga (3,57) troviamo un segno non molto
comprensibile che ho interpretato come un’abbraviazione “ri” della stessa parola fiorini.
L’identificazione della villa era veramente difficile perché la copia indica un nome non
riconoscibile: “Herten” che ho segnalato nell’apparato critico. Anche in questo caso ho potuto
recuperare la forma giusta ingrandendo la foto ed esaminando le lettere e l’abbraviazione. La 47 Fügedi, p. 85
34
lettera iniziale assomiglia veramente ad una h, ma la consonante che sta dopo l’abbreviazione
e che il copista ha letto t, è senza dubbio una s. Così ho potuto alla fine identificare il
paesaggio in Bersen che è un nome medievale di Nagybörzsöny. Purtroppo la somma precisa
non si vede né ingrandendo la foto né nella copia, possiamo sapere solo che la quantità dei
denari dev’essere tra sessanta e settanta. L’importo pagato comunque è solo il resto della tassa
dovuta, il testo indica che la prima parte (in preciso 8 fiorini) era stata già pagata il 25 aprile,
cioè dieci giorni prima. Il censo della villa per questo termine fu quindi 11 fiorini e di poco
più di 60 denari. Grammaticalmente è ancora interessante che il verbo pagare che sta in
passato remoto terza persona plurale ha un forma ridotta: pagaro.
3,59-61: La voce presente descrive un’entrata differente: Da Michele di Strigonio e
dai suoi compagni entrarono 160 fiorini per il conto delle decime che loro avevano comprate
in questo anno. La registrazione si tratta di un introito venuto dai appaltatori di una parte della
decima ecclesiastica. Dalla voce non possiamo rivelare quale parte appaltassero delle decime,
solo che gli appaltatori lo comprarono in “questo anno”, quindi il saldo valeva per un anno. È
interessante che si tratta di un gruppo che paga insieme all’arcivescovato, quindi anche il
profitto sarebbe stato distribuito tra i membri. La frase presente è ben leggibile nell’originale,
la parola decime è abbreviata in modo già presentato: xe. Nella subordinata troviamo due
parole omonime: anno, dalle quali il notaio abbreviò la seconda che probabilmente è il
sostantivo, mentre la prima che è la forma coniugata dell’ausiliare avere, venne scritta a tutte
lettere. Siccome il notaio non indicava con una h il verbo avere, ho messo un accento grave
sulla a iniziale.
Il giorno seguente è mercoledì, 5 maggio ed entrarono pagamenti da otto luoghi. È da
menzionare che il copista scrisse martedì che ho segnalato anche nell’apparato critico, e che la
parola presente nell’originale ha una forma più arcaica: mercordì.
3,63-64: Da Szerdahely entrarono 5 fiorini 36 denari per il censo di San Giorgio. La
voce non dettaglia l’importo, non sappiamo chi lo portò, solo il fatto del pagamento.
L’identificazione del luogo non era molto difficile, perché l’arcivescovo possedeva solo una
villa con questo nome che era situato nel comitato Pozsony.
3,65-66: Da Farkasd entrarono (0) fiorini 82 denari per il censo di San Giorgio.
L’importo qui è il più basso, secondo Fügedi Farkasd aveva come tariffa forfettaria un fiorino
in un anno che poteva pagare in due rate. La voce qui dimostra quella tendenza che gli importi
fossero scritti in ordine del loro valore, dato che la parola “fiorini” venne scritta senza alcun
numero, poi segue immediatamente “denari” che comunque dopo il numero venne riscritta
35
probabilmente per errore al posto della parola solita “contanti”. Il numero è in forma
latineggiante: ottuaginta duo che non è l’unico esempio nel testo.
3,67-71: Antonio, lo scriba portò da Gúta 45 fiorini e 65 denari per il censo di San
Giorgio, dai quali gli ho rimborsato 4 fiorini per una (quantità di pane) che mi avevano
venduta. Lo scrivano indica un’acquisto in questa voce che però non appartiene alle entrate,
ma poiché deduce il pagamento dal censo di San Giorgio, indica la transazione
immediatamente dopo l’incasso della tassa. Ho controllato nella parte delle uscite sotto la data
6 maggio, e ho trovato davvero la voce corrispondente: Al giudice di Gurta fiorini quatro li
quali la rilassai de lo censo di Sancto Giorgio per lo prezo di una fegna di fieno che lui mi
vende per uso di castello (...)48. Le circostanze sono conforme a quelle che troviamo tra le
entrate, ma l’oggetto non è uguale. Devo aggiungere comunque che la parola pano, indicato
dal copista, non è leggibile affatto nell’originale, perciò dovevo accettare la versione della
copia apografa. Poiché i limiti di questa tesi di laurea non sono sufficienti per fornire
un’analisi completa sul Giornale, prima di un’eventuale pubblicazione del codice bisogna
anche confrontare le voci corrispondenti delle due parti del volume. La parola fegna segna
una quantità, ma il suo significato preciso non è chiaro. Per quanto riguarda la villa, lo
scrivano sembra di scrivere per la prima volta Gurta, con una r in centro che non appare per
esempio nella versione del Liber Sancti Adalberti (Gwtha)49, ma tra le uscite è già in forma
Gwta. Il luogo tuttavia corrisponde senza dubbio a Gúta che oggi appartiene già a Slovacchia
e si chiama Kolárovo.
3,72-74: Gismondo Safar mi portò 7 fiorini da Cétény per il censo di San Giorgio.
Cétény era il centro di un officiolatus dell’arcivescovo a cui appartenevano Üzbég, Egerszeg,
Kinorány e Riblény, proprio quei luoghi che susseguono la voce presente. Gismondo Safar
così doveva essere il loro ufficiale che amministrava quest’unità economica e che
probabilmente raccolse anche in questo caso le sue tasse e portò alla corte di Esztergom.
Anche il suo secondo nome allude alla sua professione, in quanto la parola ungherese sáfár
significa uno che si occupa dell’amministrazione economica50. Interessante è ancora a livello
linguistico la subordinata relativa con la quale lo scrivano sottolinea un poco la somma, e in
cui mette anche il pronome indiretto mi.
48 Modena, Archivio Statale, Camera Ducale. Amministrazione dei Principi No 705. 22r.49 Liber Sancti Adalberti, Magyar Országos Levéltár, Urbaria et Conscriptiones, fasc. 45:25, fol. 4 r.50 Cfr. Magyar értelmező szótár a cura di JUHÁSZ József, SZŐKE István, O. NAGY Gábor, KOVALOVSZKY
Miklós, Budapest, 1972 p. 1188, sv. sáfár36
3,75-4,76: Gismondo Safar mi portò 9 fiorini dalla villa di Üzbég. La forma di questa
voce non differisce molto dalla precedente. Una curiosità che vorrei sottolineare è che lo
scrivano non abbreviò la parola fiorini, e scrisse in forma latineggiante, florini. La villa di
Üzbég appartiene oggi alla Slovacchia con il nome Zbehy.
4,77-78: Gismondo Safar mi portò 5 fiorini e 75 denari dalla villa di Egerszeg.
4,79-80: Gismondo Safar mi portò 23 fiorini dalla villa di Kinorány.
4,81-82: Gismondo Safar mi portò 32 fiorini dalla villa di Riblény. Nyitraegerszeg,
Kinorány e Riblény facevano parte ugualmente in quest’officiolatus, e oggi si trovano nella
Slovacchia.
4,84-86: Il censo ricevuto dalla villa di Ölved, 12 fiorini, viene dato a Gaspari da
Bresia per comprare biava per il castello. L’identificazione di Ölved è difficile perché
esistevano ed esistono ancora due ville con lo stesso nome (Kisölved, Nagyölved), ed entrambi
appartenevano ai possedimenti dell’arcivescovo.
4,87-89: Il censo ricevuto dalla villa di Kéty, 4 fiorini, viene dato a Gaspari da
Brescia per comprare avena per il castello. In queste due voci possiamo vedere il lavoro del
provisor del castello mentre dirige l’economia della corte dando commissioni di acquisti.
Tuttavia qui non rivela la funzione esatta di Gaspari da Brescia che eseguì le disposizioni del
provisor.
4,91-93: Dalla villa di Nándor entrò 14 fiorini e 8 denari dai quali il provisor scontò 8
fiorini e 66 denari per il fieno dato per l’uso della casa. Nella frase non è indicato il soggetto
che portò il censo. La forma impersonale alla fine allude agli abitanti di questa villa dalla
quale comprarono fieno per il castello dalla stessa somma pagata per il censo di San Giorgio.
4,94-96: Da Szalka il giudice portò 13 fiorini per il censo di San Giorgio. È una
semplice forma in cui il notaio sottolinea che il giudice era del detto luogo scrivendo queste
parole con forme latineggianti.
4,97-99: Giovanni, il familiare di Michele de Püspöki e i suoi compagni portò 40
fiorini a conto della decima appaltata da loro. L’importo è una rendita dell’arcivescovo
incassata a titolo ecclesiastico in modo che davano la tassa in affitto, in questo caso ad un
gruppo dei nobili. Gli appaltatori sono nominati nel testo “decimatori” specificando il tipo
della tassa appaltata. Questa parola appare in modo differente nel codice originale e nella
copia: de cimatori (M) e de decimatori (B). Ho scritto insieme la parola senza la preposizione
poiché non figura nell’originale, e le varianti sono segnalate nell’apparato critico. La terra
grande non è specificata nel testo, probabilmente la parola seguente l’avesse nominata che è
purtroppo illeggibile, quindi non ho potuto identificarla. 37
4,100-101: Il proposto di Santo Stefano mandò 100 fiorini per la decima appaltata.
Qui incontriamo un altro appaltatore della decima arcivescovile che è peraltro un proposto,
quindi un’altra autorità ecclesiastica. La seconda riga che è l’ultima della pagina è illeggibile,
la conosciamo solo dalla copia. L’identificazione in questo caso è difficile, probabilmente si
tratta di una pieve della città di Esztergom, ma per sostenere quest’affermazione bisognerà
svolgere ulteriori ricerche.
4,103-104: Miser Francesco portò da Nyergesújfalu 3 fiorini e 40 denari che il
provisor consegna a Giovanni Serafin. In questa voce non è stato specificato il titolo del
pagamento, posso solo ipotizzare che si tratti ugualmente del censo del termine di San
Giorgio. Non possiamo venire a sapere nemmeno che la somma venne data a Giovanni
Serafin per ammortare un prestito per pagare un salario o per comprare qualcosa per il
castello.
4,106-108: Da Naszvad portarono 44 fiorini e 9 denari per il censo di San Giorgio. La
seconda parte della presente voce è difficilmente comprensibile, probabilmente la villa
avrebbe dovuto dare 46 fiorini e il resto glielo condonarono forse a causa di un prestito
oppure di un acquisto. La parola ultima non è chiara, non la potè interpretare nemmeno il
copista veneziano.
4,110-112: Nicolò Safar presente che dal distretto di Szentkereszt 55 fiorini sono stati
riscossi da Ridolzi per il censo del termine di San Giorgio. Il distretto o destretto è il nome
precedente dell’officiolatus, unità economica dei possedimenti ecclesiastici. Ridolzi e Nicolò
Safar erano probabilmente due ufficiali della corte.
5,113-115: Dal detto distretto mandarono 24 fiorini come munere straordinario
mediante Ridolzi a Ippolito d’Este per le spese del suo viaggio a Buda. La voce presente e la
precedente si concatenano, due diversi importi sono allibrati da Szentkereszt che sono stati
gestiti da Ridolzi e comunicati da Nicolò Safar alla corte di Esztergom per poter registrare le
azioni economiche.
5,117-121: Giovanni, il prebendario della corte arcivescovile portò 29 (o 25) fiorini
da miser Giorgio, piovano di Berzence per il censo della sua pieve e resta a dare un fiorino.
Il piovano avrebbe dovuto pagare in oro, invece diede monete. La voce abbastanza dettagliata
allibra un censo dei plebani (census plebanorum). La somma è incerta perché nell’originale
non si vede il numero nella rubrica degli importi, e il testo indica vintinove fiorini, mentre
nella copia appare sia nel testo che nella rubrica 25 fiorini. Dal censo manca ancora un fiorino
che il plebano avrebbe pagato due giorni dopo che troviamo sotto la data di 18 maggio (5,128-
130). Una struttura interessante è la parte ultima della frase: et non che lui dovia dare oro et à 38
dato moneta. Il piovano ha pagato in monete al posto d’oro, e il notaio sottolinea questo fatto
con una particella negativa che sembra superflua dal punto di vista lingustico.
Nell’identificazione del luogo mi aiutava il saggio di Fügedi51, in cui troviamo un elenco delle
pievi che pagavano il census plebanorum.
5,123-124: Il giudice della villa di Leléd portò 3 fiorini per il censo di San Giorgio. La
voce rispecchia il standard dell’allibramento dei censi. L’articolo del giudice nel caso presente
è il che è la variante meno frequente degli articoli maschili nel testo. Nella seguente voce
troviamo di nuovo lo.
5,125-126: Il giudice di Bajcs portò 7 fiorini 50 denari per il censo di San Giorgio.
5,128-130: Giovanni, il prebendario della corte arcivescovile portò 1 fiorino da miser
Giorgio, piovano di Berzence per il resto del censo pagato per il termine di San Giorgio. Qui
il plebano di Berzence saldò il suo debito sempre mediante il prebendario della corte. La
parola piovano qui venne scritta con n doppia (una abbreviata e una iscritta), mentre il
raddoppiamento di consonanti non caratterizza il testo.
5,132-134: Da Középső Vadkert enrtarono 17 fiorini 86 denari per il censo di San
Giorgio. La somma nella rubrica è f. 17 d. 80 secondo la copia, ma nel documento originale
non si vedono. Siccome nel testo possiamo leggere denari ottantasei, ho corretto il numero
della rubrica e segnalata la differenta nell’apparato critico.
5,135-136: Da Alsóvadkert entrarono 5 fiorini e 15 denari per il censo di San Giorgio.
Alsóvadkert e Középső Vadkert sono due ville vicini che si sono già uniti in Érsekvadkert,
intitolati all’appartenenza all’arcivescovo (érsek).
5,137-138: Da Hugyag entrarono 4 fiorini e 70 denari per il censo di San Giorgio .
Érsekvadkert e Hugyag erano situati nel comitatus di Nógrád e il loro censo entrò lo stesso
giorno. Possiamo quindi ipotizzare che i soldi fossero portati insieme, forse dall’ufficiale di
questo territorio.
5,139: La data di 19 maggio è indicata due volte a causa dell’inizio di una nuova
pagina. Possiamo affermare che la registrazione del notaio italiano era davvero conseguente
nel seguire le forme precise.
5,140-141: Il proposto di Santo Stefano mandò 200 fiorini per la decima appaltata.
Qui è allibrata una somma ricevuta da quel proposto che dodici giorni prima mandò 100
fiorini, sempre per la decima appaltata. Le espressioni che usa il notaio per indicare l’appalto
sono differenti: prima che lui tene, poi che lui à affitto.
51 Fügedi, p. 54939
5,143-145: Cristoforo giurato portò 32 fiorini dal giudice di Rozsnyóbánya per il
censo di San Giorgio. Questa e le due prossime somme sono portate insieme da un giurato
della città di Rozsnyóbánya. Dalla voce possiamo venire a conoscenza al fatto che il censo era
stato mandato dal giudice della città.
5,146-148: Il sopraddetto Cristoforo portò 2 fiorini e 50 denari dal giudice della villa
di Csucsom per il censo di San Giorgio. L’identificazione del luogo in questo caso era davver
difficile, il copista veneziano scrisse Ciushidu che apparentemente non era una conforme alla
forma originale. Prima aver visto l’originale cercavo un luogo con un nome di “Kishida” che
risultava una villa inesistente. Nell’originale ho trovato una forma quasi meno comprensibile:
Ciuchioa. Mi ha aiutato infine il giurato che portò le tasse di tutti e due luoghi, così ho cercato
una villa nei dintorni di Rozsnyóbánya che apparteneva all’arcivescovato. Così sono riuscita a
trovare Csucsom, e il risultato finalmente è stato confermato anche dal Liber Sancti Adalberti
(Chuchan). La variante ricorrente nella copia l’ho segnalata nell’apparato critico.
5,149-151: Il giudice di Rozsnyóbánya mandò 28 marche e 18 pisetti di argento che il
provisor consegnò a Lodovico guardarobba. L’importo viene sempre da Rozsnyóbánya e
verosimilmente lo portò lo stesso Cristoforo. Questa è l’unica voce nel testo trascritto in cui la
somma non è indicata in fiorino. Se facciamo un calcolo sulla base delle definizioni del
Magyar történeti fogalomtár52 possiamo ricevere che le 28 marche corrispondono a 116,48
fiorini, ed i 18 piseti fanno 156 denari, insieme sono 118 fiorini e 4 denari. Comunque è
veramente interessante che la tassa fosse mandata in argento ancora non coniato.
6,153-156: Da Szakállas entrarono 8 fiorini per il censo di San Giorgio e il provisor
ne scontò 3 fiorini per il fieno comprato per il castello. Come precedentemente anche in
questo caso possiamo osservare che il provisor fa un acquisto dal censo appena entrato da
quella gente che lo consegnò.
6,157-158: Da Nadabula entrarono 6 fiorini e 28 denari per il censo di San Giorgio.
6,159-162: Dal proposto di Santo Stefano entrarono 700 fiorini dai quali 650 sono
mandati da Nicolò Safar al provisor e 50 a Gismondo Safar per le spese della casa di
Esztergom. Da questa iscrizione possiamo conoscere che Gismondo Safar si occupava della
casa di Esztergom. Il titolo del pagamento è sconosciuto, però il proposto di Santo Stefano
mandò già la terza alta somma durante il mese di maggio.
II.2.2. Osservazioni linguistiche
52 Cfr. Magyar történeti fogalomtár I-II a cura di Péter Bán, Budapest, 1989 p. 85 sv. dénár; pp. 30-31 sv.
márka; p. 104 sv. pisetum; p. 113 sv. pondus40
Il Giornale è scritto in lingua italiana medievale con caratteristiche dell’uso della corte
arcivescovile di Esztergom. Prima di Ippolito d’Este qui si usarono esclusivamente la lingua
latina come lingua ufficiale dell’amministrazione. Dopo l’intervento del figlio del principe
però apparì anche la lingua italiana accanto al latino. Gli ungheresi naturalmente continuarono
ad usare la lingua latina, mentre gli italiani, seguendo la consuetudine della loro patria,
scrissero i registri in italiano.
Per descrivere le principali caratteristiche del linguaggio usato dal notaio ho esaminato il
testo dal punto di vista linguistico. Le voci sono abbastanza brevi, una voce corrisponde
generalmene ad una frase semplice. Nella parte trascritta troviamo solo poche voci in cui ci
sono due o più frasi. Il vantaggio di questo fatto è che possiamo raffrontare con facilità le
singole voci ed esaminare le parti simili o differenti.
In questo capitolo vorrei quindi riassumere brevemente i fenomeni linguistici più
rilevanti nel frammento presentato partendo dalla fonologia e dalla morfologia fino alla
sintassi e al lessico. Le osservazioni sono puramente descrittive perché la quantità di questo
testo non è sufficiente per trarre conclusioni esagerate.
A livello fonologico possiamo osservare che il testo è caratterizzato dallo scarso uso dei
dittonghi: tene, dede, vene, logo, feno, homo; dalle forme degeminate: magio, prezo, quatro,
apare, acordo, azuri, obligata; da molte consonanti non assimilate: septe, dicto, omne,
conposizione, stanpe; e dal raro uso dell’h iniziale per le forme coniugate del verbo avere.
Distingue in maniera inconseguente o non distingue affatto gli articoli il/lo/l’ secondo la
lettera iniziale delle parole maschili, si può trovare nello stesso tempo lo arcivescoado e
l’arcivescoado, il giudice e lo giudice, ma possiamo dire che generalmente preferivano
l’articolo lo. È interessante ancora lo iato nella parola arcivescoado che è utilizzato
conseguentemente (2,21; 2,25), mentre nella parola simile vescovo (8,2) è già presente la
lettera v. Una problematica curiosa è quella dei nomi e dei toponimi ungheresi nel testo. Il
notaio era italiano ma era costretto di scrivere anche parole ungheresi, e non poteva tradurre
tutto, come per esempio poteva la “Villa di San Giorgio” (Gyentgyörgyfalva). In altri casi il
notaio scrisse le parole sentite con i suoni italiani o all’analogia della forma latina dei nomi.
Così abbiamo un sacco di parole che sono difficilmente identificabili a causa della differenza
tra i suoni ungheresi e quelli italiani e latini. In genere possiamo dire che una lettera può
segnalare più suoni, come la lettera z indica anche s (Zerdael, Nazvad, Zakalos), z (Berzete), ts
(Pelsuz); la lettera s può segnare il suono s (Salcha), ʒ (Bersen), ʃ (Tardashedi, Chisaro,
Farkasd, Alsovatkert ecc., e ancora in nome Safar); le lettere “ch” possono notare una volta k
(Chisaro), e poi anche tʃ (Chetnek, Macha). Inoltre un suono può essere segnalato da più 41
lettere, per esempio tʃ viene notato da ch (Chetnek, Macha) e c (Ciuchioa), k da ch (Chisaro)
c (Cremitia) h (Tardashedi) e k (Kemez, Kesepse Vatkert).
Dai fenomeni morfologici vorrei mettere in rilievo prima di tutto le forme coniugate dei
verbi. Possiamo affermare che il tempo verbale preferito nel testo è il passato remoto perché
la maggior parte dei verbi è coniugata in questa forma (portò, dede, andò, relassai, scontai,
consegnai, mandò, feci, asegnò ecc.). Le forme coniugate in terza persona plurale possono
essere ridotte: pagaro (3,58; 4,89), mandaro (4,113). Naturalmente appaiono ancora molte
forme verbali che vorrei presentare attraverso le varianti raccolte del verbo avere prima come
verbo autonomo: indicativo presente: ànno (4,99), à (7,4); indicativo passato prossimo: à
avuta (3,45), ho avuto (11,44); infinitivo: dovesse avere (8,37), participio passato: avuti
(10,33); poi come ausiliare: in passato prossimo: ho renduti (2,16), ànno venduto (3,53), ànno
conperate (3,60-61), à dato (5,121), ho vendute (8,15-16), ò consegnato (9,42) ecc.; in
trapassato prossimo: aviano venduta (3,70), avevano fatta (8,6-7); passato prossimo e
trapassato prossimo in una struttura fattitiva: à fatti pagare (11,48), avia fatti pagare (11,50);
infinitivo passato: aver rescossi (4,111), aver scorssi (10,7). Attraverso questo esempio
appaiono le forme più frequenti, ma non tutte. Nel testo ho trovato solo pochi esempi
all’imperfetto indicativo: era (11,69), [erano acattati] (2,17) e dovia dare (5,120) che ha
piuttosto un senso di condizionale passato (“avrebbe dovuto date”). Le forme dovia, avia e
aviano corrispondono all’uso medievale secondo l’affermazione di Maiden53, in quanto le
terminazioni -ea e -ia dell’imperfetto indicativo coesistevano con -eva e -iva. Per il
congiuntivo ho trovato un solo esempio in congiuntivo imperfetto: dovesse avere (8,37). Ci
sono alcuni esempi anche alla forma passiva: [erano acattati] (2,17) la cui lettura è incerta; è
obligata pagare (3,39), è stata data (8,36), sono obligati (10,5). Infine in un caso è difficile
decidere se si tratti di presente o di passato remoto siccome il notaio non distingue le due
forme: vende (7,29) che potremmo interpretare anche come vendette.
Tra le questioni morfologiche è ancora interessante l’uso degli articoli. Abbiamo già
visto che il notaio preferisce l’articolo lo, ma utilizza nello stesso tempo le sue varianti il e l’.
Vorrei inoltre notare che gli articoli quando sono preceduti da qualche preposizione, non si
uniscono in una forma comune come nell’italiano odierno, invece rimangono separati il che
verifica nel migliore dei modi l’esempio di in la festa (2,25), dove la preposizione conservava
la sua propria forma e non è diventata “ne”. Naturalmente ho anche controesempi: dal giudice
(2,36), dal piovano (2,38) ma in questi casi l’articolo è in forma semplice. Non ho trovato
esempio di raddoppiamento della consonante dell’articolo. Così nella trascrizione ho preferito 53 Martin MAIDEN: Storia linguistica dell’italiano, Bologna Il Mulino, 1998 p. 154
42
scrivere separatamente gli articoli e le preposizioni. Le voci generalmente cominciano con la
determinazione del luogo da dove viene l’entrata, e qui possiamo vedere che la preposizione
da e l’articolo determinato di solito vengono scritti insieme, ma solo affinché il notaio non
avesse bisogno si sollevare la penna. Vorrei aggiungere che a quest’insieme venne ancora
scritta alcune volte anche la parola seguente: villa, e così possiamo leggere in molti casi:
dalavilla. La consonante iniziale dell’articolo non venne raddoppiata quasi mai, come
neanche il raddoppiamento fonosintattico non caratterizza generalmente il testo.
Il testo del Giornale non è continuo, non esiste un rapporto organico tra le voci, è
piuttosto un elenco cronologico di somme entrate. Sintatticamente possiamo dire che le voci
corrispondono generalmente ad una frase che è più volte ridotta in quanto il soggetto e il
predicato possono mancarne. Nel testo trascritto sono in maggioranza le frasi semplici, ma in
alcune voci possiamo trovare più di una frase. Per analizzare questi tipi, vediamo esempi ai
casi presentati: Da la villa de Eghersek, f(iorini) ci(n)que et den(ari) setta(n)[ta cinque]
po(r)tò dic(to) Gismo(n)do, p(er) lo ce(n)so di S(anc)to Gio(r)gio. (4,77-78) In questo caso
abbiamo una frase che ha un soggetto, un predicato, oggetti diretti e altri complementi. Al
secondo luogo troviamo l’oggetto diretto, cioè la determinazione dell’importo pagato.
Grammaticalmente è un’inversione dell’ordine delle parti sintattiche, dal momento che
l’accusativo nella lingua italiana non ha altro segno che la sua posizione nella frase. Qui
invece non è stato segnalato in nessun modo il caso accusativo, né con un pronome diretto
prima del predicato, né trasformando il verbo transitivo in forma passiva. Possiamo tuttavia
affermare che quest’ordine delle frasi non era sconosciuta nel Medioevo. Anche Lorenzo
Renzi comincia la presentazione della struttura delle frasi nelle lingue romanzi medievali con
la stessa ordine54 dove l’oggetto diretto precede il predicato e il soggetto segue il verbo. Se
osserviamo le altre frasi nel Giornale troveremo generalmente un’ordine simile. Perciò
possiamo concludere che le voci seguono una norma uniforme in cui i singoli complementi
possiedono una posizione determinata. All’interno di questa logica troviamo una gerarchia
delle informazioni: si comincia sempre con il luogo (o con le persone) da dove (o da chi)
entrò la somma in questione. Al secondo luogo c’è l’importo scritto con parole, che viene
ripetuto alla fine della voce con numeri, in una colonna alla parte destra della pagina. Gli altri
posti sono meno fissati: segue il verbo, che può anche mancare, poi alcune volte la persona
che porta i soldi, e infine viene indicata sempre il titolo della tassa o la causa del pagamento
con il termine che è in questa parte del Giornale è generalmente il giorno tradizionale di San
54 Cfr. Lorenzo RENZI – Giampaolo SALVI: Nuova introduzione alla filologia romanza. Il Mulino, 1994. pp. 267-
275 43
Giorgio. Possono trovarsi anche più informazioni, ma queste vengono descritte solo dopo la
formula della voce. Anche da questo esempio possiamo vedere che il testo del registro ha un
senso esclusivamente informativo, dove le informazioni principali occupano le posizioni
iniziali, e le seguono le altre parti della frase. Siccome il testo è fissato e la maggior parte
delle voci sono costrutte in questo modo, il notaio ha tralasciato alcune volte anche il
predicato, come in questa frase: Da la villa de Zerdael, f(iorini) ci(n)que et d(ena)ri
tre(n)tasei c(ontan)ti, p(er) lo ce(n)so di S(anc)to Gio(r)gio p(ro)ximo passato. (3,63-64) Qui
sono descritte puramente quelle informazioni necessarie che dovevano notare per la
contabilizzazione della tassa incassata. Manca sia il predicato che il soggetto (o il
complemento d’agente), si concentra solo sull’oggetto, sul complemento di luogo e sul
motivo. Lo scrittore ha tralasciato proprio gli elementi nucleari della frase che comunque è
rimasta sempre comprensibile. Essendo l’agente sconosciuto il predicato venne considerato
superfluo che comunque è evidente (potrebbe essere entrò o ricevetti ecc.). Tuttavia questo
esempio presenta proprio quegli elementi che non possono mancare da nessuna voce.
Naturalmente ci sono anche frasi più “informative” con più parti sintattiche, ad esempio:
Da m(iser) Gio(r)gio, piovano di Be(r)zete, f(iorini) vi(n)tinove c(ontan)ti po(r)tò do(n)
Giova(n)ni, no(stro) p(re)bendario p(er) co(n)to de li ce(n)si [di S(anc)to] Gio(r)gio passato
de la sua pieve p(re)d(ic)ta, et resta a dare f(iorino) uno p(er) dicto te(r)mine, et no(n) che lui
dovia dare oro et à dato moneta. (5,117-121) La frase è composta da più proposizioni
coordinate nelle quali troviamo regolarmente i predicati. Grammaticalmente la parte più
interessante di questa frase è quella ultima: et non che lui dovia dare oro et à dato moneta che
vuole esprimere che miser Giorgio, il plebano di Berzence avrebbe dovuto dare oro, invece ha
pagato in moneta. In questa struttura la frase matrice sembra essere superflua, senza “non
che” sarebbe più semplice e comprensibile la frase, ma lo scrittore probabilmente avesse
voluto sottolineare così questo fatto.
Per quanto riguarda il lessico del frammento trascritto, ho osservato che ci sono delle
locuzioni ovviamente per facilitare l’andamento della contabilità, come fiorini ... et denari ...
in contanti, per lo censo di Sancto Giorgio proximo passato, che lui paga omne anno, che lui
tene ecc. Queste locuzioni e le loro varianti mi aiutavano nel riconoscere alcune parole
illeggibili per il danneggiamento del codice. Essendo il documento dall’epoca del
Rinascimento, non è sorprendente che tra le parole appaiono alcune in forma latineggiante,
come proximo, homo, omne, dicto, septe, ottuaginta, item, extreordinario, florini, scilicet, ecc.
Le parole più ricorrenti che caratterizzano ancora il testo sono i numerali. Appaiono
soprattutto numeri cardinali, ma ho trovato anche un numero ordinale: vigesima (10,21) e nei 44
fatti anche il nome della tassa “decima” era originalmente un ordinale. Nella scrittura dei
numeri ho osservato un’oscillazione, per esempio diciotto è scritto prima dece otto (5,150),
poi disdotto (11,59); ottanta prima è ottuaginta (3,65), poi ottanta (8,19), due è duo (3,65) poi
doi (8,32). Anche in altri casi ho potuto trovare varianti e sinonimi delle parole ricorrenti del
testo: piovano (5,117) e plebano (2,19); fiorini (5,143), florini (3,75) e ducati (7,18) che
aveva lo stesso valore. Tra i nomi propri incontriamo ugualmente varianti: Gismondo (3,73) e
Sigismondo (10,38), Michele (11,45) e Miale (11,71), Rosina (10,9) e Rusina (10,13). Il
lessico è ancora arricchito dalle parole ungheresi, non soltanto in livello dei toponimi, ma
anche di nomi propri, come Antonio diac, Gismondo Safar (che assomiglia alla forma
ungherese Zsigmond), Lorenzo Farkas, Giorgio Porculab, Stefano Eseni, Benedicto Coaci,
Anbrosio Bot, Chis Miale ecc. Infine vorrei menzionare una curiosità che riguarda il lessico
del Giornale: leggendo il testo non possiamo incontrare la parola giorno, solo dì con i
sinonimi termine e festa, ad onta di tutto ciò il titolo non è per esempio diario, ma Giornale
come appare anche al titolo originale del registro.
II. 2. 3. Osservazioni al contenuto del testo elaborato
I luoghi
Una problematica abbastanza complessa è quella dei toponimi. Anche Fügedi
menziona all’inizio del suo articolo che è una grave difficoltà di riconoscere i toponimi
ungheresi che subivano due deformazioni: una dal notaio e l’altra dal copista veneziano.55
Anche nel caso del Giornale il copista veneziono modificò in parte la forma dei toponimi o
scolse erroneamente un’abbreviazione trasformando così il nome, come in quell’esempio che
ho già citato nel capitolo precedente (B: Mantos M: Martos). Il riconoscimento di un luogo
solo dalla copia alcune volte è impossibile, ad esempio una forma presente nella copia:
Ciushidu che nell’originale appare come Ciuchioa (5,146). In questo caso mi aiutava il nome
del giurato, Cristoforo, che aveva portato il censo dalla villa in questione insieme con quella
da Rozsnyóbánya, quindi ho cercato un possedimento arcivescovile nei dintorni di
Rozsnyóbánya e trovato così la soluzione giusta: Csucsom. Anche Fügedi dimostra la difficolà
dell’identificazione attraverso alcuni esempi (Somogy = Szunyogdi, Chierzu = Csejkő, Dejton
= Dejtár), ma non indica direttamente il metodo con cui abbia identificato i luoghi. Suppongo
però che la sua fonte fosse stata lo stesso Liber Sancti Adalberti con il quale confrontava
anche i dati delle tasse da pagare. Questa fonte è già raggiungibile anche in forma digitale 55 Fügedi, 1. pp. 87-88
45
sull’internet grazie al database di Arcanum56 che tra l’altro condivide anche la sezione
Urbaria et Conscriptiones57 dell’Archivio Statale Ungherese gratuitamente con i ricercatori
dal 2010. Così ho potuto raffrontare più facilmente i toponimi presenti nel Giornale con quelli
negli urbarium. Dal Liber Sancti Adalberti sono disponibili tre volumi da diversi anni: 1553,
1558, 1571–1573, dai quali il primo nacque 58 anni più tardi del Giornale. Per raffrontare i
toponimi ho utilizzato soprattutto il primo volume completando alcune volte con il secondo.
Nella seconda appendice ci si può trovare un elenco che ho composto dai luoghi
ricorrenti nel testo in ordine alfabetica, segnalando le forme presenti nel Liber Sancti
Adalberti, i loro comitati, il nome ungherese, e il nome odierno che nella maggior parte dei
casi è slovacco. Il mio metodo dell’identificazione dei luoghi è cominciato con le ricerche
effettuate nei volumi di Dezső Csánki58, ma mi aiutava anche il fatto che dovevo riconoscere
luoghi vicini alla mia abitazione (Ipolyszalka, Érsekvadkert, Nagybörzsöny ecc.). Durante le
ricerche però mi sono accorta che alcuni territori non sono elaborati nell’enciclopedia di
Csánki, come i comitati Bars e Hont dove si situavano molti dei possedimenti
dell’arcivescovo. A questo punto ho controllato la fonte di Fügedi e così ho trovato i Liber
Sancti Adalberti in cui ci si può ricercare quasi tutti i luoghi ricorrenti nel testo che
appartenevano ai possedimenti dell’arcivescovo. Purtroppo non sono riuscita a risolvere tutti i
casi nemmeno con questa fonte suprattutto nell’identificazione della forma odierna, ma
almeno ho potuto dissipare alcuni dubbi.
La maggior parte dei luoghi ricorrenti nel testo trascritto appartenevano ai
possedimenti arcivescovili. Questi possedimenti possono essere ancora raggruppati secondo i
loro officiolatus (che possiamo chiamare anche distretto), che significavano le unità
economiche dei possedimenti ecclesiastici. Un officiolatus poteva constare di più paesi
appartenenti a diversi comitati. Gli officiolatus che Fügedi poteva ricostruire sulla base dei
mastri esaminati, sono i seguenti: Nagysalló, Szöllős, Cétény, Verebély, Szalka, Udvard,
Szőgyén; ma poteva identificare i territori solo in quattro casi: Nagysalló: Nagysalló, Helvény,
Kissalló, Szentgyörgy, Füzesgyarmat, Perbete; Szöllős: Szöllös, Csejkő, Nempti, Berzence;
Cétény: Cétény, Üzbég, Egerszeg, Riblény, Kinorány; e Verebély: Verebély, Aha, Tild. Da
questi esempi vorrei sottolineare l’officiolatus di Cétény che appare anche nella parte trascritta
del Giornale esattamente con questi luoghi (3,72 - 4,82) che si susseguono in uno stesso
giorno: 6 maggio 1495. Sappiamo anche il nome del loro ufficiale (officialis), Gismondo
56 www.arcanum.hu57 Liber Sancti Adalberti, Magyar Országos Levéltár, Urbaria et Conscriptiones 45:2658 CSÁNKI Dezső: Magyarország történelmi földrajza a Hunyadiak korában. I-V. kötet. Budapest.1890-1913.
46
Safar che poi appare ancora con il nome Sigismondo Safar. Con questo dato possiamo
confermare il sistema descritto da Fügedi, ma in altri casi non ho trovato accenni a queste
unità economiche. Può essere interessante ancora che le somme portate dall’ufficiale vennero
allibrate a seconda dei luoghi e non insieme (76 fiorini e 75 denari), come probabilmente
portò Gismondo Safar in nome del suo officiolatus. Le cinque ville di quest’unità non
appartenevano allo stesso comitatus: Cétény, Üzbég, Egerszeg e Kinorány si situavano nel
comitatus di Nyitra, mentre il borgo che pagava la somma più alta, Riblény apparteneva a
Trencsén. Oggi tutte le ville fanno già parte della Slovacchia, per questo non è facile
riconoscere i loro nomi medievali sulle carte odierne. La prima mappa (Tabula Hungariae59)
che conosciamo sul paese d’Ungheria risale all’anno di 1528 e fu preparata da Lasarus deak,
lo scrivano dell’arcivescovo Tamás Bakócz che peraltro segue immediatamente Ippolito
d’Este. Su questa carta appaiono i toponimi in lingua tedesco, latino o ungherese. Per
identificare i luoghi in questione ho composto una tabella che ho già presentata sopra, in cui
ho cercato di fornire anche i nomi odierni delle ville. Purtroppo più volte non possiamo essere
sicuri di quale luogo si tratti, a causa dell’uguaglianza dei nomi, come per esempio Ölved
(4,84) può essere Nagyölved (com. di Esztergom) oppure Kisölved (com. di Hont). Poiché la
nostra fonte non specifica il suo prefisso (Kis- o Nagy-) e siccome entrambi appartenevano ai
possedimenti dell’arcivescovo, non possiamo identificare il luogo con certezza. In alcuni casi
abbiamo forme completamente diverse, come la villa medievale di Cacato (10,14), il cui
nome deriva dalla parola ungherese kakas (gallo) che appare anche sulla stemma della città
odierna, nel Giornale lo incontriamo anche in forma Hahat (10,6) e nel Liber Sancti Adalberti
troviamo Kakath, però il nome ungherese nell’epoca moderna è già Párkány, mentre oggi,
poiché non appartiene già all’Ungheria, si chiama Štúrovo.
Ho trovato un esempio interessante nel testo alla provenienza di un toponimo: la villa
di Sarló che aveva il dovere di falciare fieno all’arcivescovo (10,4-5; 10,23-24),
probabilmente aveva ricevuto il suo nome proprio da questo dovere, in quanto la parola
ungherese sarló significa falce. Il nome è già trasformato durante i tempi e diventato
Nagysalló che era tra l’altro il centro di un officiolatus dell’arcivescovo; oggi appartiene
ugualmente alla Slovacchia sotto il nome Tekovské Lužany.
L’unica città di minatori tra i possedimenti arcivescovili era Rozsnyóbánya che pagava
sia il censo dovuto sia una tassa a titolo del pisetto, sui quali riceviamo notizie anche dal
Giornale (5,149-151; 11,42-46). Le altre città di questo genere che ricorrono nel testo (come
59 Tabula Hungariae : Lázár térképe és változatai : Ingolstadt, 1528, Országos Széchényi Könyvtár, Archivio di
Carte Gerografiche, ST 6647
Kisszeben e Körmöcbánya) non appartenevano ai possedimenti arcivescovili, ma pagavano
ugualmente la tassa del pisetto secondo la legge di Santo Stefano.
Durante la trascrizione e le analisi del testo ho incontrato alcuni luoghi che non sono
riuscita ad identificare: il proposto di Sancto Stefano e Sancto Nicolò di Casa Grande
probabilmente erano due pievi nella città di Esztergom, ma non ho trovato sufficienti dati per
confermare quest’ipotesi. Inoltre non ho potuto identificare il paese di Kelemente, sul quale
possiamo sapere che si situava nel territorio della diocesi di Esztergom, ma non apparteneva ai
possedimenti dell’arcivescovo perché non appare nel Liber Sancti Adalberti. Dal Giornale
sappiamo solo che la sua decima spettava all’arcivescovo (8,14-16). In sede di tesi di laurea
non ho potuto condurre ricerche di prima mano in archivi e biblioteche al fine di identificare il
luogo in questione. Questo lavoro di ricerca dev’essere fatto in sede di edizione.
Le persone
Nella parte trascritta del Giornale incontriamo vari tipi dei ceti sociali, come il giudice
di una villa, un ufficiale della corte arcivescovile, nobili, mercanti fino all’arcivescovo e al re.
Alcuni di essi conosciamo anche per nome, alcuni però possiamo nominare conoscendo la sua
posizione in quest’epoca. Prima di tutto la figura più importante era ovviamente l’arcivescovo
stesso, Ippolito d’Este che appare nel testo con l’apostrofe di Monsignor Reverendissimo (per
es. 2,16), o più semplicemente Monsignor (per es. 11,69). Su egli sappiamo che nacque il
1479, quindi nel 1495 aveva 16 anni, e occupava già da 8 anni la sede arcivescovile di
Esztergom essendo nominato nel 1487. Dalla fonte presente possiamo ricevere alcune
informazioni sull’arcivescovo riguardanti questo periodo, tra l’altro che maestro Agustino
Horzo andò in Italia per la commissione dell’arcivescovo a conto di 25 fiorini (2,14-17); che
Ippolito viaggiò a Buda alle spese di un munere extraordinario (24 fiorini) ricevuto dal
distretto di Szentkereszt (5,113-115); che Ippolito aveva un debito verso Ambrosio Bot e lo
saldò a conto della decima (36 fiorini) di Nyergesújfalu (8,34-39); che secondo una legge del
re, l’arcivescovo riceveva la ventesima parte di una tassa regale, della dica (10,19-22). Qui
appare per un momento anche il sovrano di Ungheria di questo periodo, Vladislav II (1490-
1516).
Una terza dignità nel testo è il vescovo di Eger, che era in quel tempo Tamás Bakócz, e
che, secondo il Giornale, pagò il prezzo della decima di Pozsony all’arcivescovo che è
un’informazione veramente interessante perché contraddice alle notizie di Fügedi60, in quanto
questa parte della decima non sarebbe stata mai data in appalto, ma rimaneva sempre in 60 Cfr. Fügedi, p. 115
48
gestione propria dell’arcivescovato. Qui vediamo invece che il vescovo paga 3600 fiorini fra
oro et moneta all’arcivescovo per la decima di Pozsony che è davvero la somma più alta tra le
entrate del Giornale. Sappiamo però che fra due anni, nel 1497, sarebbe stato effettuato lo
scambio delle sedi vescovile e arcivescovile tra Ippolito e Tamás Bakócz con la mediazione
del re, quindi quest’informazione può essere un cenno che il vescovo di Eger stava prendendo
in mano la gestione economica della corte di Esztergom.
Per quanto riguarda il ceto dei nobili, non possiamo riconoscere in alcuni casi se la
data persona avesse nobiltà o no, ma alcuni attributi possono aiutarci nel decidere la
questione. Per esempio l’apostrofe maestro allude allo stato nobiliare in quanto segnalava un
ceto dei nobili sotto il livello dei magnati.61 Nel testo presente ne abbiamo uno, maestro
Agustino Horzo che compié una commissione dell’arcivescovo (2,14-17). Probabilmente
l’antecedente miser era un richiamo meno alto dei nobili che appare nel testo più volte: miser
Stefano Esegni (8,14), miser Tadeo di Lardi (tra l’altro: 8,18), miser Francesco (4,104), miser
Giorgio, piovano di Berzence (5,117), o in forma più breve: ser Nicolò Safar (6,160). Poiché
il richiamo è usato anche agli chierici, come il piovano di Berzence, quest’attributo aveva
probabilmente un senso più largo. Un altro segno che ci aiuta nel riconoscere un nobile è lo
stato familiare che alludeva ad un nobile dipendente da un altro più ricco e influente, ma la
familiarità caratterizzava anche gli uffici, in quanto i sostituti di un ufficiale erano spesso i
suoi familiari62. Nel testo incontriamo veramente questo ultimo tipo nell’esempio di
Geronimo, il familiare del pisetario di Körmöcbánya (7,6-8) che poi appare ancora una volta:
Da Giova(n)ni Guldino, pisetario n(ostro) i(n) Cremitia, fiorini ce(n)to dieci c(on)ta(n)ti
p(er) mano di Gerolimo, suo fameglio, a co(n)to del d(icto) pisetto. (8,10-12). La forma
fameglio è usata più frequentemente che incontriamo ancora due volte: il fameglio de Janus
(3,45-46) e Giovanni, suo fameglio (4,98-99). Uno stato speciale tra i nobili avevano i
cosiddetti nobili prediali (praediales) che apparivano soprattutto sui possedimenti ecclesiastici
per questo si chiamavano anche nobili ecclesiastici (nobiles ecclesiastici). Essi non
possedevano i terreni a buon diritto come i nobili in genere, ma avevano degli impegni verso
il loro signore. Non dovevano pagare le tasse, avevano propri giudici, ma non potevano tenere
dei servi di gleba e non potevano acquistare altri possedimenti oltre quello ricevuto dal
signore, il praedium.63 Possiamo incontrare questi nobili alcune volte nel testo, in quanto nella
villa di Vajka ne abitavano in quest’epoca. Dal Giornale possiamo sapere su di essi che
61 Cfr. KUBINYI András: Egységes nemesség? In: Rubicon 4-5 (1994) p. 1662 Cfr. KUBINYI András: Egységes nemesség? In: Rubicon 4-5 (1994) pp. 17-1863 Cfr. Magyar történeti fogalomtár. I. A cura di Péter BÁN, Budapest, 1989. p. 119
49
facevano scrivere le pergamene sulle loro sentenze dagli scrivani di Esztergom. Nel primo
caso lo scrivano probabilmente era lo stesso che scrisse il Giornale (7,10-11), nel secondo
caso però Ambrosio litterato che era residente a Pozsony (8,5-8).
Possiamo distinguere le persone anche secondo l’appartenenza alla Chiesa. Oltre
l’arcivescovo e il vescovo troviamo molti chierici nel testo, come sono prima di tutto i
plebani: don Valentino plebano di Csetnek (2,19), don Pietro plebano di Örs (2,23), il
piovano di Pelsőc (3,38), miser Giorgio, piovano di Berzence (5,117 e 128). Siccome la
parola diac deriva dalla forma latina diaconus che è un grado più basso del prete nella
gerarchia ecclesiale, annoverarono questi scribi in quell’epoca ancora tra i chierici. Questi
scrivani eseguivano servizi alla corte e tra essi possiamo incontrare più volte Antonio diac che
si occupava di vari tipi degli affari della corte (tra l’altro 2,34-35; 3,68; 10,20; 11,54 ecc.), e
inoltre il sopra citato Ambrosio litterato che scrisse una pergamena ai nobili di Vajka (8,7).
Biasio diac verosimilmente non apparteneva alla corte arcivescovile perché secondo il testo
era il mandato del piovano di Pelsőc (3,41). Nella voce seguente troviamo ancora un Biasio
litterato che porta una somma del dazio da Garamszentkereszt (3,42), ma l’uguaglianza non è
certa, in quanto Garamszentkereszt e Pelsőc non sono vicini e il testo non indica direttamente
che si tratti del dicto Biasio come fa in altri casi.
Molti ufficiali appartenevano alla corte arcivescovile oltre gli scribi chierici. Prima di
tutto il provisor, il capo dell’amministrazione economica della corte, a cui entrarono i vari tipi
di pagamenti e che nel nostro caso era verosimilmente identico con il notaio che scrisse il
Giornale. I sáfár erano ufficiali sempre di carattere economico che gestivano gli officiolatus e
provvedevano il castello di viveri e mezzi necessari sotto la sorveglianza del provisor.
Gismondo o Sigismondo Safar e Nicolò Safar probabilmente avevano questo nome per
mestiere e non perché erano parenti, ma non possiamo escludere neanche questa possibilità.
Tadeo Lardi aveva una posizione speciale perché secondo Fügedi egli era l’amministratore
della casa dell’arcivescovo a Buda, poi il tesoriere.64 Dall’articolo non è chiaro quali fossero
le sue funzioni nei vari periodi, ma possiamo ipotizzare che nel 1495 era già il tesoriere
perché nella seconda parte delle entrate è indicato egli che dava la maggior parte dei soldi per
pagare agli impiegati della corte. Debrico di Galsa e Hernando Tomori erano gli ufficiali e gli
amministratori della casa a Pozsony e anche della decima di Pozsony. Abbiamo visto però che
in questo anno la decima era gestita dal vescovo di Eger, e gli amministratori consegnarono
solo le decime di Fülekpüspöki e di Velkenye (8,31-33). Hernando Tomori verosimilmente è
64 Fügedi, p. 51450
identico con Tomori Bernát, indicato da Fügedi65, il suo compagno però non è già Vas András,
invece Debrico Galsa.
Nella seconda parte del testo che riguardono i mesi di luglio e agosto, possiamo
trovare molti dipendenti della corte e alcune persone che avevano qualche posizione non
chiarita: Rosina o Rusina66, Ridolzi, Lodovico di Conpagno, Gaspari da Brescia e Barnabas
eseguivano le disposizioni del provisor. Rosina aveva commissioni nell’interno e nei dintorni
(Cacato) di Esztergom (10,6-14), Ridolzi eseguiva disposizioni ricevute dal provisor e
dall’arcivescovo (3,43; 4,111; 5,114), Barnabas comprò delle candele per la chiesa (11,56-
57), Lodovico di Conpagno portò i soldi da Tadeo di Lardi (10,26-27), Gaspari da Brescia
comprava biava e avena per l’uso del castello (4,84-89). Dai servi consciamo alcuni anche per
nome: Ghezu, homo d’arme (9,29-30), Emerico Oliani, nostro homo d’arme (11,60-61),
Lodovico guardarobba (5,150-151) e verosimilmente Chis Miale che apparteneva ai tronbetti
(11,71). Gli altri servi non sono nominati, è annotato solo il loro mestiere, come soldati,
cacciatore ecc., dai quali vorrei mettere in rilievo li bonbardieri et li vigilatori per le stampe
(8,19) che può essere un contributo interessante alla storia della stampa in Ungheria.
Tra le persone che non appartenevano alla corte arcivescovile troviamo giudici e
giurati che portavano le tasse dalle ville dai quali il nome di Cristoforo giurato mi aiutava
nell’identificazione della villa Csucsom che altrimenti probabilmente non avrei riconosciuto.
Conosciamo ancora altri mandati per nome: Giorgio Porculab (11,41) e Giovanni Iurato
(11,44). Ufficiali molto più importanti erano i cosiddetti pisetari che si occupavano di questa
speciale tassa che spettava l’arcivescovo dopo la coniazione (dopo ogni marca del metallo
nobile dal quale facevano monete, si paga per l’arcivescovo un pondus, la parte
quarantottesima della marca). Da questo diritto l’arcivescovo riceveva somme significanti che
possiamo vedere anche nel testo presente: da Körmöcbánya 204 fiorini (2,12-17), 120 f. (7,6-
8), 110 f. (8,10-12), 126 f. (10,37-38); da Kisszeben 200 f. (8,40-9,47); da Rozsnyóbánya 28
marche e 18 pisetti (5,149-151). In quest’epoca da un marca battevano 416 denari, quindi
circa 4,16 fiorini.67 Ovviamente queste somme venivano pagate dalle città di minatori come
quelle elencate, ma dal Giornale conosciamo alcuni dei loro pisetari per nome: Giovanni
Guldino a Körmöcbánya, Nicolò Proll a Kisszeben.
65 Fügedi, p. 11566 Rosina appare anche nei registri riguardanti il vescovato di Eger: Estei Hippolit püspök egri számadáskönyvei
1500-1508. A cura di E. KOVÁCS Péter. Ed.: KOVÁCS Béla. Eger. 1992. pp. 26, 29, 32, 34, 37 ecc.67 Cfr. Magyar történeti fogalomtár I-II a cura di Péter BÁN, Budapest, 1989 p. 85 sv. dénár; pp. 30-31 sv.
márka; p. 104 sv. pisetum; p. 113 sv. pondus51
Un gruppo abbastanza importante sarà stato quello degli appaltatori che il testo
nomina spesso decimatori poiché appaltavano le decime della diocesi. Michele Pispeki de
Strigonia et sui conpagni relativamente spesso ritornano nel testo: 3,59; 4,97; 7,4; 7, 21; 7,28
pagando somme importanti. Stefano Esegni aveva probabilmente un territorio non molto
significativo - che purtroppo non ho potuto identificare - poiché paga una somma
relativamente bassa, 28 fiorini (8,14-16). Benedicto Coaci, Giovanni Vitrario e sua mogliera
sono nominati conduttori della decima di Kér e Cétény sempre con un’alta somma, 335
fiorini. Riceviamo alcuni contributi dal testo riguardanti il reddito dei decimatori, in quanto
l’appaltatore del comitatus di Hont, il cui nome non appare nel testo, mandò la ventesima
parte della decima, 12 fiorini (10,39-41). L’intera somma allora doveva essere 240 fiorini,
dalla quale 228 fiorini rimaneva all’appaltatore.
Possiamo incontrare anche alcuni mercanti da cui compravano merci per il castello di
Esztergom. L’entrata del pisetto di Kisszeben è stata spesa presso Tomas Tenca mercante de
Buda e Rasone mercante fiorentino (8,40-9,47). Possiamo considerare mercante anche
Lorenzo Farkas di Strigonio che vendette vino al castello per 125 fiorini (11,62-65). Non
riusciamo ad attribuire una funzione alle persone citate quando sono solo menzionate senza
specificazione della loro funzione o del rapporto con la corte. Su Ambrosio Bot sappiamo che
diede prestito all’arcivescovo che gli rimborsarono dalla decima di Újfalu (8,34-39), e poteva
essere simile il caso di Giorgio Boemo (11,49-51). Giovanni Serafin ricevette 3 fiorini e 40
denari per la commissione del provisor, ma il motivo non è indicato (4,103-305).
Infine c’era ancora un personaggio molto importante dal nostro punto di vista, l’autore
stesso del testo, il notaio che verosimilmente era nello stesso tempo il provisor della corte
arcivescovile perché dava istruzioni e commissioni. Non conosciamo il suo nome, posso solo
far notare che Fügedi conosce due scrivani per nome: Laurenzo Theodato da Aversa che
succedeva a Pietro Pincharo di Parma nel 1488, ma non sappiamo di più su di loro. Nel testo
troviamo molte allusioni alle azioni del notaio che sono indicate in prima persona singolare,
ma dettagli non possiamo conoscere da queste espressioni.
Le imposte
La parte essenziale delle entrate nel Giornale è la registrazione delle tasse incassate.
Dobbiamo sottolineare anche qui che l’obiettivo della contabilità era di allibrare ogni azione
economica in modo dettagliato per la chiarezza e per la correttezza, e per questo la
descrizione è molto precisa in ogni voce. Oltre la somma indica generalmente il luogo, il
titolo al quale viene versato il dato importo, la persona che lo consegna e se è necessario, 52
anche le ulteriori informazioni che possono essere importanti per la rintracciabilità dei soldi
(per esempio acquisti effettuati o altri pagamenti dalla data somma ecc.).
L’arcivescovo pretendeva imposte a due titoli: come signore feudale le tasse feudali
dai suoi possedimenti (censo, omaggio in natura, servizio lavorativo, nona e atri fitti e dazi) e
come vescovo la decima dalla sua diocesi e altri benefici ecclesiastici.
Nella parte esaminata sono in maggioranza le voci in cui ci si registra il ricavato a
titolo di censo. In maggio incontriamo quasi esclusivamente con queste registrazioni, più
dettagliatamente tra le 49 voci di questo mese ne troviamo 33 che si iscrivono come entrate a
questo titolo, e tre probabili, in cui il titolo non è specificato, ma possiamo ipotizzare lo stesso
caso. La spiegazione di questo fenomento è semplicemente che fu appena scaduto il termine
secondo del versamento del censo, vale a dire la festa di San Giorgio (24 aprile). Tuttavia è
interessante che troviamo due esempi anche per il censo pagato al termine di San Michele: il
primo dal villaggio di Mocsa (2,29-31) che è tuttavia un semplice errore del notaio
nell’indicare il nome di San Giorgio che comunque aveva corretto scrivendo Giorgio sopra la
riga, ma si vede da questo sbaglio che il notaio si era molto abituato a questo termine più
frequente. Il secondo esempio (11,42-46) sicuramente non è un errore, perché indica una
compravendita a conto del censo di Sancto Michele proximo che vene (11,45-46), cioè il
notaio deduce il prezzo dei colori azzurro e argento appena comprati da quel censo che la
gente di Rozsnyóbánya avrebbe pagato per la festa prossima di San Michele.
Nell’analisi di Fügedi abbiamo già visto che il censo venne pagato a seconda di un
intero terreno di un servo della gleba. Sulla tabella quarta nell’appendice del saggio di
Fügedi68 troviamo alcuni dati relativi a queste somme prescritte dall’urbarium dai quali il più
interessante è il borgo di Leléd perché lo troviamo anche nel Giornale a titolo di un
versamento del censo al termine di San Giorgio. Sulla tabella è indicato che in questo
villaggio si pagava il censo nel 1491 per 18 quarto di terreno, nel 1527 e 1553 dopo 16 quarto
di terreno, e la esigenza prescritta per un intero terreno era in ogni anno 25 denari. Nel
Giornale possiamo vedere che da questo borgo la corte arcivescovile ricevette 3 fiorini tondi
dal loro giudice (5,123-124), quindi possiamo facilmente calcolare che al termine di San
Giorgio dell’anno 1495 il paese pagò il censo secondo 12 quarti di terreni. Se partiamo dai
dati dell’anno 1491, riceviamo che il borgo deve pagare per il seguente termine solo dopo sei
quarti terreni. Comunque nel Giornale non sono registrate le esigenze come per esempio nei
libri di conto degli anni 1490, 1491 e 1492 che verosimilmente compilò un ufficiale
ungherese.68 Fügedi, p. 539
53
Per quanto riguarda i luoghi che avevano una tariffa forfettaria, ho trovato quattro casi
che posso raffrontare: secondo Fügedi il paese che aveva il censo più basso, era Farkasd, che
doveva pagare un fiorino per un anno. Nel Giornale figura una somma di 82 denari (3,65-66),
quindi la villa ammortò più di 80% dalla sua annata. Gli esempi più significativi sono
Rozsnyóbánya (5,143-145) e Kakat (10,6-8), i cui pagamenti forfettari secondo i mastri dei
1488-90 erano 64 fiorini e 10 fiorini, e nel Giornale troviamo pari a 32 fiorni e 5 fiorini,
dunque in tutti e due casi la metà dell’annata. Il quarto esempio è Imély (2, 33-35) che doveva
pagare 12,40 fiorini e nel Giornale furono allibrati 4 fiorini 40 denari che sono un poco più di
un terzo dell’annata.
Le altre tasse a titolo di proprietario fondiario erano gli omaggi in natura (munera) e il
servizio fisicale (robot) ai quali nel testo trascritto abbiamo uno-uno esempio. Per munere
extraordinario l’arcivescovo ricevette 24 fiorini dal distretto di Szentkereszt, quindi questo
cenno non è la munera tradizionale, ma un pagamento unico al quale l’arcivescovo aveva
appena bisogno per poter andare a Buda (5,113-115). I munera in altri casi erano un dono in
natura generalmente in occasione delle feste (Natale, Pasqua ecc.). Per quanto concerne l’altro
utile feudale, riceviamo notizie sulla villa di Sarló che aveva l’obbligo di falciare fieno in
ogni anno (10,4-5). Alla fine del testo possiamo leggere su alcuni servi della corte che però
ricevevano salario per il loro servizio, quindi non annoveranno fra i servizi a titolo feudale.
Altri tipi delle rendite feudali il censo di un mulino (10,11-12) e un dazio ( telonio) ricevuto
dal distretto di Szentkereszt (3,42-46).
Le altre tasse tra le entrate sono pagate a titolo ecclesiastico, come la decima, il census
plebanorum, il pisetum ecc. Questi redditi entravano dal territorio della diocesi di Esztergom,
ma non solo l’arcivescovo beneficiava per esempio della decima, ma anche il convento di
Esztergom, le abbazie della diocesi ecc., cioè altre autorità ecclesiasctiche. Una maniera della
riscossione della decima era di dare in appalto la tassa, così la corte poteva evitare le spese
della riscossione. Gli appaltatori o decimatori pagarono una determinata somma per il
territorio dal quale incassarono il profitto, come nel caso del decimatore del comitatus di
Hont, la corte arcivescovile ricevette la parte ventesima della decima (10,39-41). È
interessante che una volta appare il proposto di Santo Stefano come appatatore della decima:
Dal proposto di S(anc)to Stefano, f(iorini) duce(n)to c(ontan)ti a co(n)to de le decime che lui
à affitto (5,140-141). Il census plebanorum invece spettava esclusivamente all’arcivescovo.
Alcune pievi appartenevano immediatamente sotto l’arcivescovo senza la mediazione
dell’arciprete. In questo caso la tassa era una determinata somma per un intero anno. Le pieve
ricorrenti nel testo che pagavano quest’imposta, sono Csetnek, Pelsőc e Berzence. Infine il 54
sopra presentato pisetum era un’imposta speciale che riceveva solo l’arcivescovo di
Esztergom nella storia dell’Ungheria.
II. 2. 4. I criteri della trascrizione
Lo scopo principale della presente tesi è di creare la trascrizione moderna di una parte
del testo del codice Giornale, secondo i criteri della filologia moderna. Il caso è particolare,
perché il testo ha un importanza sia per la storiografia ungherese sia per quella italiana, quindi
dovevo provare ad avvicinare e soddisfare le esigenze metodologiche provenienti da entrambe
le parti. Siccome il testo è in italiano, ho seguito le indicazioni di Arrigo Castellani, descritte
nella premessa del volume I più antichi testi italiani69 nel trascrivere l’originale, completando
secondo l’abitudine tradizionale degli archivisti per quanto riguarda i segni e gli apparati70. Ho
ritenuto molto importante mantenere la forma originale, dal momento che si tratta di un libro
di conto che ha una forma speciale. Quindi avevo un compito doppio, poiché dovevo
mantenere fedelmente la forma originale, e nello stesso tempo modernizzare il testo secondo
certi criteri, per rendere comprensibile il testo stesso.
La forma del testo è determinata dal suo genere, quindi le voci creano un corpo
principale, le cifre sono indicate nella colonna destra, e infine nella colonna sinistra troviamo
riferimenti alle pagine del libro mastro, sul quale riportarono le singole voci. I riferimenti non
sono sempre rimasti, e quelli che mancano a causa di guasti meccanici, purtroppo non sono
recuperabili dal testo, mentre invece le cifre possono essere recuperate dal testo. Le voci si
susseguono cronologicamente, e le date sono indicate nel centro della colonna principale. Per
la rintracciabilità ho numerato le righe cinque alla volta, ma per la chiarezza e per evitare un
numero troppo elevato, ho ricominciato la numerazione a seconda dei mesi, insomma quattro
volte. Poiché la forma prescritta delle tesi di laurea presso codesta università esige la
numerazione continua delle pagine, ma nello stesso tempo avevo bisogno di chiarezza
inequivocabile per i riferimenti, la trascrizione ha una doppia numerazione. La prima (sopra)
indica i numeri delle pagina dell’unità (1-11) e la seconda (sotto) segue la numerazione della
tesi. Il riferimento di una parte del testo è quindi un insieme della data pagina e il numero
della riga per esempio 2,23 che segna la riga questo per lo te(r)mine di S(anc)to Gio(r)gio
passato. f. 24 d. 0.
69 Arrigo CASTELLANI: I più antichi testi italiani. Bologna, 1976. pp. 5-7.70 Cfr. KRISTÓ Gyula – MAKK Ferenc: Filológia. In: A történelem segédtudományai. A cura di Iván BERTÉNYI,
Budapest 2003. pp. 197-199.55
Non ho segnalato la rottura delle pagine perché in questo caso non ha un’importanza
particolare. Ho mirato però a mantenere la rottura delle righe per rendere visibile dove non è
leggibile il testo originale a causa di guasti meccanici, e perché è incerta la lettura di alcune
parole. Solo in un caso dovevo divergere dalla rottura originale e scrivere una parola nella
riga seguente a causa dello spazio mancato: 42-43 maggio: settanta. Tra le voci e le cifre
appartenente ad esse, fu tirata una linea, se la frase non giungeva il margine, magari per
evitare la possibilità di aggiungere qualcosa posteriormente alla voce. Questa linea non è stata
riportata nella trascrizione perché è evidente quale cifra appartiene ad una voce e non ha più
nessuna funzione.
Ho usato le parentesi quadre ([ ]) per indicare la lettura incerta o la mancanza per
guasto meccanico di una parola nel testo originale, che però ho potuto recuperare dalla copia
di Budapest oppure ho potuto ricostruire secondo l’analogia delle voci (congetture). Per
esempio la prima pagina del testo riportato è gravemente danneggiata. Il copista veneziano
non poté leggere le parole nel margine sinistro delle prime voci. Secondo l’analogia però ho
potuto integrare con alcune parole: “[Da la villa] de Udvard” (2/2); “p(er) lo ce(n)so di
S(anc)to Gio(r)gio [proximo] passato” (2/3-4).
Le parentesi tonde ( ) marcano le abbreviazioni sciolte. Tutte le abbreviazioni sono
state risolte, tranne i nomi delle monete nella colonna destra, in cui ho segnato fiorino/fiorini e
denaro/denari con le lettere f. e d., come sono presenti anche nel testo originale. Dove lo
scioglimento di un’abbreviazione è incerto o differisce dalla soluzione della copia di
Budapest, l’ho segnalato nel primo apparato. Le parole et e che nel registro sono state scritte
sempre con dei segni tipici che non ho considerato abbreviazioni, quindi non ho messo tra
parentesi. Il notaio scrisse le cifre generalmente con numeri arabi, raramente con numeri
romani che ho lasciato in forma originale. Però la parola decima è stata generalmente
abbreviata con il numero romano x che ho risolto sempre senza alcuna segnalazione
nell’apparato.
Tra parentesi angolari (< >) stanno le parole cancellate nel testo originale secondo
l’indicazione di Castellani. Ho considerato importante di notare le eliminazioni perché non
sempre si trattava di qualche correzione di errori: ci sono anche parole e cifre tirati perché
sono state trascritte nel libro mastro o per qualche altro motivo e possono avere un significato
da considerare. Ad esempio desidero menzionare la parte ultima del testo riportato: accanto
alla penultima voce (11,67) ci troviamo una cifra cancellata che non appartiene a nessuna
voce. Bisognerebbe esaminare attentamente a che cosa riferisce perché sicuramente non si
tratta di un errore. Il notaio non determinò nemmeno il tipo della moneta, non mise né f. né d. 56
La mia proposta è che magari si tratti di una somma parziale che il notaio calcolò e poi
avrebbe tirato dal Giornale.
Per indicare le parti che sono assolutamente illeggibili per qualche guasto meccanico,
ho usato puntini (...) provando a dimostrare approssimativamente lo spazio che non è più
disponibile, però a causa delle abbreviazioni, le parole possono essere più lunghi di quello
spazio che ho lasciato. Il segno d’uguaglianza (=) marca la divisione delle parole nella copia
che è stato utilizzato dal copista veneziano. Al posto di questo segno ho usato il semplice
trattino per le divisione delle parole.
Per quanto riguarda la modernizzazione del testo, ho seguito anche in questo caso
l’istruzione di Castellani. Ho messo gli accenti e gli apostrofi in ogni caso in cui oggi li
metteremmo secondo le regole dell’ortografia italiana. Per poter distinguere le forme
coniugate del verbo avere dagli omofoni (anno; o; a), essendo mancata l’h iniziale
nell’originale, ho messo un accetto alle forme del verbo, come ha fatto anche il copista
veneziano. Per quanto concerne l’interpunzione del testo, ho seguito sempre le regole
moderne. Anche se in alcuni casi mancavano i predicati, ho considerato le voci come frasi e
ho messo le virgole quando era necessario, e alla fine il punto fermo o i due punti. Il notaio
utilizzò raramente e non conseguentemente le maiuscole. Per la chiarezza e per la regolarità
ho scritto con maiuscole i nomi propri, i toponimi, la parola Sancto prima dei nomi di santi, i
nomi delle dignità (soprattutto le apostrofi di Ippolito d’Este) e naturalmente ho usato
maiuscole all’inizio delle frasi. Tendevo a mantenere la rottura delle righe originale anche nei
casi, in cui le parole sono state divise. Però la divisione non corrispondeva sempre alle regole
moderne, per questo dovevo modernizzare anche qui il testo. Si tratta solo di alcuni esempi,
come commi/ssione – commis/sione (2,15-16), pa/ssato – pas/sato (3,73-74) ecc.
Diversamente da Castellani, le preposizioni e gli articoli sono riportati separatamente.
Da una parte ho seguito il copista veneziano che scrisse le preposizioni articolate sempre
separatamente, dall’altra parte perché si può vedere che nel testo originale non si tratta di
un’unione grammaticale quando queste parole sono scritte insieme, solo di quella tendenza
dello scrittore di provare a facilitare l’azione della scrittura evitando il sollevamento della
penna. Questo parere è sostenuto da quel fenomeno che lo scrittore generalmente scrive
insieme più parole, per esempio: dalavilla, liquali ecc.; e anche dal fatto che non unisce l’in e
la in nella (2,25). Possiamo parlare di unione grammaticale in quelli casi, quando dall’articolo
manca la vocale (per esempio del) e naturalmente queste sono scritte insieme in tutti i casi.
Ho creato due apparati per distinguere le note. Il primo apparato serve per le
osservazioni filologici. Ho segnalato qui le varianti ricorrenti nella copia di Budapest 57
segnalandole con la sigla B; alcuni fenomeni caratteristici che ci sono nel testo originale ecc.
Per distinguere il codice originale e la copia presente nell’Accademia Ungherese delle
Scienze ho usato due sigle: M per indicare il codice di Modena, e B per la copia di Budapest.
Nel secondo apparato però ho spiegato i termini tecnici riguardanti alla tematica della
medievistica ungherese che non sono comprensibili in italiano o dal latino; ho indicato i
toponimi che appaiono nel testo segnalando anche il nome del paese odierno. In alcuni casi
però ho potuto indicare solo una proposta non essendo sicura nell’identificare del dato luogo.
58
IV. Bibliografia
Fonti archivistiche:
Il Giornale:
Originale: Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale. Amministraione dei Principi.
No 705. 1r.- 5r (M)
Copia apografa: Budapest, Magyar Tudományos Akadémia, Kézirattár, Ms 4998
fasc. 10. 1r. – 11v. (B)
Liber Sancti Adalberti, Budapest, Magyar Országos Levéltár, Urbaria et Conscriptiones
45:25; 45:46; 100 : 52 (a)
Bibliografia:
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