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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA TOR VERGATA FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea: EDITORIA, COMUNICAZIONE MULTIMEDIALE E GIORNALISMO Tesi di laurea in: ANTROPOLOGIA CULTURALE EDWARD W. SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE. L'IMMAGINE DEL MEDIO ORIENTE NEI MEDIA. Relatore: Laureando: Chiar.mo prof. Pietro Vereni Marco Montemurro Matricola: 0116058 Correlatore: Chiar.mo prof. Raul Mordenti Anno Accademico 2008/2009

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMATOR VERGATA

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di laurea:

EDITORIA, COMUNICAZIONE MULTIMEDIALE E GIORNALISMO

Tesi di laurea in:

ANTROPOLOGIA CULTURALE

EDWARD W. SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE. L'IMMAGINE DEL MEDIO ORIENTE NEI MEDIA.

Relatore: Laureando:

Chiar.mo prof. Pietro Vereni Marco Montemurro Matricola: 0116058

Correlatore:

Chiar.mo prof. Raul Mordenti

Anno Accademico2008/2009

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INDICE

INTRODUZIONE 1

EDWARD W. SAID 3

PARTE 1 CULTURA E POTERE 4

CAPITOLO 1 L'ORIENTALISMO 7

L'inventario delle tracce 7

L'immagine dell'Oriente 8

Conoscenza e potere 8

La coerenza discorsiva 9

CAPITOLO 2 L'EGEMONIA 11

Cultura e Imperialismo 11

L'egemonia 12

Lo sguardo del colonizzatore 13

L'Oriente subalterno nella cultura 14

CAPITOLO 3 LE FORME DELLA CONOSCENZA 16

La conoscenza è sociale 16

Le discipline sono istituzioni 17

L'orientalismo in politica estera 17

In polemica con Bernard Lewis 18

CAPITOLO 4 LE RAPPRESENTAZIONI 20

Estetica e interesse 20

Non esiste un Oriente ‘reale’ 21

Il consumo delle immagini 22

PARTE 2 I MEDIA 24

CAPITOLO 5 LA COSTRUZIONE DELLE NOTIZIE 27

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

II

I mass media 27

La fabbrica del consenso 28

Come si produce l'informazione 28

La rapidità della comunicazione giornalistica 29

Linguaggio e appartenenze collettive 30

Gli esperti 31

I corrispondenti 31

CAPITOLO 6 DESCRIVERE L’ISLAM 33

Covering Islam 33

Facili generalizzazioni 34

Disattenzione sulla storia 34

CAPITOLO 7 CONTRASTI MEDIATICI 36

Ostilità televisive 36

L'orientalismo riflesso 37

Diverse rappresentazioni dell'Islam 38

CAPITOLO 8 RACCONTARE LA RIVOLUZIONE IRANIANA 40

La rivoluzione iraniana 40

La stampa statunitense 41

Informazione e politica 41

Un giornalismo onesto 42

Il salvataggio fallito e le ripercussioni sui media 43

CAPITOLO 9 IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE 45

Said e la Palestina 45

Raccontare la storia 46

L'hasbara e la propaganda 47

La copertura mediatica 49

La scelta del linguaggio 52

Seguire l'esempio della lotta sudafricana 53

Informazione e partecipazione 55

PARTE 3 GLI INTELLETTUALI 58

CAPITOLO 10 L’UMANESIMO 61

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INDICE

III

I valori dell'umanesimo 61

La resistenza umanistica 62

Contro il canone 63

L'umanesimo è democratico 64

CAPITOLO 11 IL CONTRAPPUNTO 66

La musica 66

La mondanità della cultura 67

La letteratura comparata e la filologia 67

Il mutamento 68

CAPITOLO 12 L’INTELLETTUALE PUBBLICO 69

Il ruolo sociale degli intellettuali 69

Professionisti e dilettanti 70

Il valore dell'esilio 71

L'impegno sociale 72

Contrastare le rappresentazioni del potere 73

Offrire alternative 74

CONCLUSIONI QUANTO È ATTUALE SAID 76

BIBLIOGRAFIA 82

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INTRODUZIONE

Sono molti gli elementi del pensiero di Edward W. Said che destano interesse, ma in questo lavoro ho posto l’attenzione in modo particolare alle sue analisi sull'imperialismo culturale e sulle rappresentazioni dei media. Di fronte alla straordinaria vivacità intellettuale di questo autore, che sapeva articolarsi in una vasta gamma di riflessioni, nel seguente lavoro ho scelto di raccogliere i vari argomenti in diverse parti, ognuna dedicata a un particolare ambito. Inizialmente ho esposto gli aspetti teorici di Said, vale a dire i suoi celebri giudizi sull'orientalismo e sull'egemonia che il potere esercita, evidenziando in essi il ruolo delle rappresentazioni, componenti essenziali per comprendere i messaggi dei media. In seguito ho mostrato come l'autore applica le sue teorie ad alcuni contesti specifici di comunicazione, riportando quindi e valutando le sue analisi critiche sulla copertura giornalistica, per poi concludere descrivendo la modalità che ritiene migliore per rapportarsi alla cultura.

Il nesso tra potere e cultura è un argomento cruciale nelle riflessioni di Said, cosicché ho esaminato questa problematica sulla quale si basano le sue opere più celebri, Orientalism e Culture and Imperialism. Dal momento che nessun discorso può pretendere di essere neutrale, ho ritenuto molto interessanti le sue osservazioni sui legami tra la conoscenza, chi la produce e il contesto in cui agisce. Considero questo tema estremamente rilevante dato che induce a indagare la funzione di coloro che elaborano ed espongono il sapere, vale a dire il ruolo degli intellettuali e dei media nella società.

Mi hanno affascinato dunque le considerazioni di Said sulla costruzione e sulla diffusione delle notizie, processi che favoriscono il sorgere di rappresentazioni faziose in quanto, essendo interpretazioni della realtà, sono inevitabilmente influenzate dai rapporti di potere. Per esporre il pensiero dell'autore su questa materia ho analizzato Covering Islam, opera che prende in esame le distorsioni che avvengono riguardo alla copertura mediatica del Medio Oriente, e ho passato in rassegna molti suoi articoli sul conflitto israelo-palestinese, cercando di sintetizzare al meglio le sue critiche a proposito della condotta di televisioni e stampa.

Ho ritenuto stimolanti, inoltre, le proposte che Said intende offrire a coloro che operano nel campo della conoscenza, ovvero ai professori, ai giornalisti e agli intellettuali di vario genere. Invita a rivalutare il concetto di umanesimo, in quanto considera la storia e la cultura frutto della società e legate alla contingenza, e suggerisce di mettere in relazione le diversità ispirandosi all'arte del contrappunto. Tale concetto, tratto della teoria musicale, se applicato all'analisi culturale induce a scoprire i legami sottostanti alle varie espressioni, evidenziando gli aspetti che accomunano insieme l'umanità. Secondo l'autore spetta agli intellettuali sia dimostrare che le differenze non comportano necessariamente ostilità, sia criticare coloro che esaltano solamente una parte, considerata depositaria della ragione. In tal modo sollecita a controbattere le informazioni faziose e le false giustificazioni, insomma tutti quei discorsi, così comuni nei media, che tendono a separare l'umanità entro rigide identità incomunicabili. Reputo pertanto che conoscere Said possa essere importante, poiché invita a non considerare l'alterità un'entità estranea e stimola a riflettere sui discorsi che quotidianamente riceviamo dalle televisioni e dai giornali e che ripetiamo nelle nostre conversazioni.

Infine, cogliendo le esortazioni di Said a contestualizzare la cultura, ho voluto inquadrare l'autore stesso nel periodo storico entro il quale scrisse le sue opere, per valutare quali idee siano

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

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ancora attuali e quali altre invece necessitino un ripensamento. Riflettendo sul suo pensiero, ho ritenuto doveroso ricordare i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni, per poter così trarre da Said insegnamenti costruttivi, applicabili al contesto odierno.

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EDWARD W. SAID

Edward Wadie Said nacque a Gerusalemme nel 1935 da genitori palestinesi. La sua famiglia, araba di religione cristiana battista, era risiedente a Il Cairo, città dove il padre possedeva un'attività commerciale dedita alla vendita di macchine da scrivere e forniture per uffici. Il padre di Said, essendosi arruolato nell'esercito statunitense durante la prima guerra mondiale, ottenne la cittadinanza americana, diritto del quale beneficiarono anche i figli.

A parte qualche viaggio in Palestina e i periodi estivi trascorsi in Libano, Said visse durante l'infanzia e la giovinezza in Egitto. Nella capitale Il Cairo frequentò gli istituti scolastici e i club sportivi gestiti dagli inglesi e dagli americani, frequentati dalle élite arabe e straniere dell'epoca. Gli fu impartita pertanto un'educazione secondo i canoni di istruzione britannica.

All'età di sedici anni si trasferì negli Stati Uniti, paese nel quale terminò le scuole superiori e proseguì gli studi dedicandosi alla letteratura nelle università di Princeton e Harvard.

Per il resto della sua vita risiedette a New York, dove insegnò letteratura comparata presso la Columbia University. Benché vissuto sempre lontano dalla sua città natale, Gerusalemme, e dalla regione mediorientale nella quale trascorse la gioventù, Said sentì forte il legame con le sue origini. Nel 1977 divenne un membro del Palestinian National Council, il parlamento in esilio fondato dall'Olp, e si impegnò costantemente per denunciare pubblicamente i soprusi di Israele nei confronti dei palestinesi.

In disaccordo con le politiche dell'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) guidata da Yasser Arafat, nel 1991 si dimise dal suo incarico, ma continuò a difendere i diritti dei palestinesi tramite i suoi interventi sui giornali. Criticò duramente gli accordi di Oslo firmati tra Olp e Israele nel 1993, documenti da lui accusati di non tener conto dei rifugiati del 1967.

È morto a New York nel 2003, dopo aver vissuto gli ultimi dodici anni della sua vita sapendo di essere afflitto da una leucemia, periodo durante il quale scrisse la sua autobiografia Out of Place1.

1 Edward Said, 1999, Out of place: A Memoir, London, Granta Books; trad. it. 2009, Sempre nel posto sbagliato.

Autobiografia, Milano, Feltrinelli.

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PARTE 1

CULTURA E POTERE

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CULTURA E POTERE

La prima parte della tesi è dedicata a un tema basilare, il nesso tra la produzione culturale e il potere vigente. La cultura, sotto qualsiasi forma si manifesti, non è un'entità disincarnata, bensì il frutto di determinate situazioni storiche e geografiche; e di volta in volta prende forma in base alle esigenze della società, a seconda delle forze che legano le persone. La combinazione di cultura e potere produce dunque conoscenze che sono strettamente correlate alla contingenza; si diffonde così un insieme di nozioni che ha la capacità di influenzare le rappresentazioni più diffuse, i pensieri e i discorsi.

Ho scelto di suddividere l'esposizione di questo complesso argomento in quattro capitoli, ognuno focalizzato su un specifico aspetto del pensiero di Said. Lo studio comincia con un’analisi dell'opera più importante da lui scritta, Orientalism1, esponendo il significato dell'orientalismo e ripercorrendo la formazione e il consolidamento dei giudizi sull'Oriente. Ho evidenziato così le osservazioni dell'autore sulle modalità con le quali le ricerche furono condotte, critiche su cui si basano le sue analisi sul sapere.

Per comprendere l'orientalismo bisogna inquadrarlo entro il contesto politico nel quale ha avuto successo, quindi è necessario studiare l'epoca coloniale e il ruolo egemonico delle nazioni imperialiste. La cultura europea si arrogò il potere di giudicare il resto del mondo e tale prerogativa produsse conseguenze durature sia nei paesi subordinati, sia nei paesi occidentali. Ho preso in considerazione pertanto Culture and Imperialism2, testo nel quale Said analizza le opere letterarie europee alla luce del contesto storico coloniale.

In seguito ho ritenuto importante riportare i commenti riguardo al campo della conoscenza, dal momento che Said riflette sulla natura sociale del sapere e sugli effetti dell'istituzionalizzazione delle discipline. Secondo l'autore le ricerche, agendo sempre all'interno di un determinato contesto storico, acquistano facilmente autorità quando soddisfano i poteri in carica. Soprattutto nel suo libro Covering Islam3 critica l'interesse dell'orientalismo e degli area studies nel perseguire alcuni obiettivi economici e politici, coinvolgimento che spiega perché determinare nozioni, benché non siano necessariamente veritiere, riescano a ottenere successo a tal punto da divenire accettate nel senso comune.

Infine concludo questa prima parte riportando le osservazioni di Said sul ruolo delle rappresentazioni, teorie interessanti in quanto ritiene che nessuno studio può pretendere di essere completamente oggettivo poiché tutti i discorsi si basano su interpretazioni. Di conseguenza, la verità non esiste in maniera assoluta, ma è solo una questione di grado, e nel campo della cultura non sussistono entità naturali in quanto le identità sono sempre costruite socialmente. Le rappresentazioni inoltre pervadono tutta la conoscenza, non solo nel settore delle ricerche, ma anche nelle comunicazioni trasmesse dai media. Riguardo all'immagine del Medio Oriente, televisioni, giornali e film quotidianamente mostrano rappresentazioni che, essendo un prodotto

1 Edward Said, 1978, Orientalism, New York, Pantheon Books; trad. it. 2006, Orientalismo. L'immagine dell'Oriente in

Europa. Milano, Feltrinelli.2 Edward Said, 1993, Culture and Imperialism, New York, Alfred A. Knope; trad. it. 1998, Cultura e Imperialismo.

Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente, Roma, Gamberetti.3 Edward Said, 1997, Covering Islam: How the Media and the Experts Determine How We See the Rest of the World.

Revised Edition, New York, Vintage Books.

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

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della cultura, non sono prive dell'influenza del potere. L'orientalismo pertanto non è terminatocon la fine del colonialismo; poiché è uno sguardo che si basa sul dominio di una parte sull'altra, tale condotta culturale persiste, acquisendo però forme e linguaggi adatti ai tempi.

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CAPITOLO 1

L'ORIENTALISMO

L'Oriente presentato dall'orientalismo è quindi un sistema di rappresentazioni circoscritto da un insieme di forze che introdussero l'Oriente nella cultura occidentale, poi nella consapevolezza occidentale, e infine negli imperi coloniali occidentali.

(E. Said, Orientalismo, p. 201)

L'inventario delle tracce

Said nacque e crebbe rispettivamente in Palestina e in Egitto, territori dove vigeva il potere britannico. La sua famiglia era araba di religione cristiana, visse come straniero a Il Cairo dove ricevette un'educazione anglosassone, e poi risiedette a New York. Questa combinazione di elementi e il conflitto tra appartenenze contrastanti hanno formato la sua personalità, e lo indussero a concentrarsi sulla storia della sua cultura. Volle così indagare in profondità le sue origini, e quelle delle regioni dove visse, cosicché nel 1978 pubblicò la ricerca che lo rese famoso, Orientalism1. Il testo diede avvio a molte riflessioni e commenti poiché racconta da un insolito punto di vista, fortemente critico, l'immagine dell'Oriente che ha preso forma in Europa e negli Stati Uniti.

Lo studio sull'orientalismo ha origine dalla storia personale di Said perchè viene analizzato il contesto culturale entro il quale lui stesso visse. Per spiegare le motivazioni della sua opera, nell'introduzione scrisse che fu affascinato quando lesse nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci che

l'inizio dell'elaborazione critica è la conoscenza di quello che è realmente, cioè un 'conosci te stesso' come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un'infinità di tracce accolte senza beneficio d'inventario2.

Leggendo il testo italiano scoprì in seguito che nell'edizione inglese era stata inspiegabilmente omessa la frase successiva, il proposito “occorre fare inizialmente un tale inventario”. Ispirandosi a quell'ultimo invito Said rivela appunto che

da molti punti di vista, questa ricerca sull'orientalismo rappresenta uno sforzo per redigere l'inventario delle tracce depositate in me, orientale, dalla cultura il cui predominio è stato un elemento così importante nella vita di tanti orientali3.

1 Edward Said, Orientalismo, cit.2 Antonio Gramsci, 1975, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, p. 1376, cit. in Edward Said, Orientalismo, cit., p. 34.3 Edward Said, Orientalismo, cit., p. 34.

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

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L'immagine dell'Oriente

Con il termine orientalismo nell'opera si intende il modo con il quale sono state osservate le regioni orientali, focalizzandosi in particolare sui giudizi che furono espressi sui paesi del Medio Oriente. Said critica le rappresentazioni che sono state elaborate, piene di immagini poco realistiche, spiegando come queste siano state plasmate da vari fattori nel corso degli anni, processo avvenuto soprattutto a partire dal XVIII secolo, fino a consolidarsi nel XIX. Molti studiosi e viaggiatori si mossero in quel periodo verso l'Est dall'Europa, in particolare provenienti dalle potenze coloniali come la Gran Bretagna e la Francia, e ognuno tornò portando con sé un bagaglio di descrizioni. Con il tempo le loro osservazioni assunsero l’aspetto di un corpo coeso, le ricerche furono istituzionalizzate e venne creata una disciplina vera e propria. L'orientalismo è stato dunque il sistema di rappresentazioni con il quale si introdusse l'Oriente nella cultura occidentale.

L'Oriente fu visto come radicalmente diverso dall'Europa e fu descritto con toni sprezzanti poiché a questo vennero associate caratteristiche negative. Il dispotismo, l'irrazionalità e l'arretratezza, ad esempio, furono attribuite agli orientali, e allo stesso tempo le qualità opposte, positive come il progresso, la razionalità e il governo civile furono ritenute proprie dell'Occidente. Tali giudizi secondo Said erano una proiezione dell'Occidente sui paesi mediorientali. Grazie alle descrizioni di quel che era estraneo, tramite la raffigurazione dell'opposto, i paesi europei hanno potuto definire se stessi. L'alterità non veniva compresa cercando di percepire i significati delle differenze. Vennero invece utilizzati i parametri di giudizio appartenenti allo sguardo dell'osservatore europeo, cosicché all'Oriente furono connesse caratteristiche che incutevano timore

Tali rappresentazioni alimentarono i sentimenti di ostilità, ma consolidarono anche la necessità di dover osservare quel che era diverso. Per poter arginare le minacce era necessario conoscere i paesi stranieri. L'Oriente venne così studiato dalle nazioni europee per poterlo controllare meglio, per perpetuare la dominazione.

Conoscenza e potere

Il rapporto tra Oriente e Occidente è appunto una questione di potere, di dominio, nel quale sono coinvolte forme di egemonia. Said si sofferma quindi sul periodo nel quale l'Oriente entrò a far parte dei paesi europei, i secoli del colonialismo e della formazione degli imperi.

Un evento rilevante ad esempio fu lo sbarco di Napoleone in Egitto, arrivo che mise in evidenza la debolezza dei paesi mediorientali. Successivamente si instaurarono poteri francesi e inglesi in Medio Oriente, così come avvenne nel resto del mondo. Non fu casuale che allora gli orientali fossero descritti nel loro ruolo passivo, con una mentalità fatalista e disposti, quasi per loro natura, ad essere dominati. È evidente per Said il legame tra i racconti degli orientalisti e il potere politico artefice dell'imperialismo. In Orientalism invita infatti a ripensare gli studi sul Medio Oriente evidenziando i rapporti tra conoscenza e potere in quanto è proprio l'intreccio di questi elementi che ha creato “l'Oriente”, con tutte le immagini stereotipate a questo connesse. Benché le discipline orientaliste pretendano di essere obiettive, acquisendo una retorica razionalista e distaccata, Said mette in evidenza come siano invece immerse nelle circostanze storiche, reali, permeate dalla politica. L'Oriente, nel suo ruolo subordinato all'Occidente, apparve muto, privo della possibilità di esprimersi in maniera autonoma, e poiché esso aveva bisogno di essere rappresentato, le sue storie furono espresse con le parole e la voce

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L’ORIENTALISMO

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dell'Occidente. Solo gli europei furono considerati in grado di poter inquadrare l'Oriente nel presente, altrimenti esso sarebbe rimasto nel passato, nella sua dimensione atemporale, arretrata rispetto allo sviluppo delle nazioni civili.

La coerenza discorsiva

C'è un nesso tra l'immaginazione europea, espressa negli scritti dei viaggiatori, e il presupposto silenzio dei popoli orientali. Said evidenzia questo legame soffermandosi sull'importanza dei testi per i ricercatori orientalisti. Sostiene che la scrittura ha giocato un ruolo fondamentale nella formazione e nella diffusione delle rappresentazioni tipiche dell'orientalismo. Chi doveva recarsi nei paesi mediorientali faceva ricorso alle opere dei viaggiatori, cioè agli studi già svolti sulla regione e sulle tradizioni locali. I testi, qualora avessero dimostrato di essere attendibili, vennero considerati autorevoli, cosicché le esperienze dei lettori erano sempre influenzate dalle conoscenze precedenti. A loro volta i futuri scrittori venivano indotti a trattare gli argomenti con la medesima maniera espressa nelle opere già affermate. Secondo Said tale processo favorì il perpetuarsi di un medesimo pensiero sull'Oriente. Scrive infatti che un

testo può creare non solo la conoscenza ma anche la realtà effettiva di ciò che descrive. Nel tempo, conoscenza e realtà producono una tradizione, o ciò che Michel Foucault chiama un “discorso”, il cui peso e la cui concreta esistenza, più che l'originalità dei suoi autori, sono la vera fonte dei testi che da essa traggono spunto4.

Così si perpetuò un insieme di pensieri ritenuti veritieri, dei quali era necessario sempre tener conto. L'Oriente venne inquadrato in un sistema di definizioni impersonali. Spiega Said che in tal modo si creò una conoscenza uniforme, comunemente accetta, ed entro la quale “gli orientalisti trattarono vicendevolmente i loro scritti in un'unica maniera, di cui la citazione era il cardine”5. Tutte le rappresentazioni dell'Oriente in Europa, sia le opere degli studiosi sia i racconti di testimonianze personali, per poter essere accettate dovevano adeguarsi alle visioni divenute diffuse. Scrive Said che

le rappresentazioni dell'orientalismo nella cultura europea corrispondono a ciò che si potrebbe chiamare una coerenza discorsiva6.

Le descrizioni agivano entro uno stesso spazio che era preesistente allo scrittore, entro il quale quest'ultimo doveva trovare una posizione. Ribadendo l'importanza del nesso tra cultura e contingenze storiche, Said afferma che nessuno può essere completamente originale quando crea un'opera, poiché ogni attività è condizionata dal repertorio di immagini dal quale si trae ispirazione, e questo è necessariamente limitato.

L'orientalismo si può individuare non soltanto nelle parole dei discorsi, così come sono esplicitamente espresse, ma anche a un livello sottostante. Said percepisce una medesima cornice teorica che sorregge tutte le descrizioni, e ipotizza l'esistenza di un orientalismo latente. Tale orientalismo, distinto da quello manifesto, esplicito, permette l'esistenza stessa delle descrizioni in quanto rende accettati gli enunciati. L'autore spiega questo concetto scrivendo che

a chiunque intendesse parlare dell'Oriente in modo da farsi ascoltare, l'orientalismo latente assicurava tutta la necessaria capacità enunciativa, tutto ciò che occorreva per un sensato

4 Ivi, p 99.5 Ivi, p 168.6 Ivi, p. 269.

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

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discorso su ogni questione all'ordine del giorno7.

Said non intende tuttavia affermare che tutti gli studi condotti in Europa siano infondati, privi di validità poiché basati solo su vaghe congetture. Ovviamente riconosce i meriti e i contributi della geografia e della storia, materie che si sono sviluppate ricercando l'oggettività. Evidenzia però la costante presenza di un secondo piano di conoscenza, dall'autore definita “immaginativa”, che pervade il campo del sapere. Scrive infatti che “vi è qualcosa di più diquella che sembra una conoscenza puramente obiettiva”8. Una dose di immaginazione è presente in ogni discorso, pertanto anche gli enunciati che pretendono di mostrarsi oggettivi, in realtà non sono immuni dalle influenze del contesto entro il quale prendono luogo.

7 Ivi, p. 220.8 Ivi, p 61-62.

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CAPITOLO 2

L'EGEMONIA

Il punto centrale – molto gramsciano – è capire come le culture nazionali dell'Inghilterra, della Francia e degli Usa siano riuscite a mantenere la loro egemonia sulle periferie del mondo, e come all'interno delle metropoli crescesse e continuamente si consolidasse il consenso generale circa il dominio di lontani territori e popoli nativi.

(E. Said, Cultura e Imperialismo, p. 76)

Cultura e Imperialismo

Nel 1993 Said pubblicò Culture and Imperialism, un'opera che, come Orientalism, rivitalizzò un intero campo di ricerca. Frutto di anni di lavoro, il libro presenta una visione insolita delle opere letterarie europee del XVIII, XIX e inizio XX secolo. Alcuni classici della narrativa vengono analizzati alla luce delle circostanze storiche e politiche entro le quali vivevano gli autori. I testi prodotti nella cultura europea, specialmente inglese e francese, vengono letti cercando di cogliere quel che è implicito, il contesto che alcune volte emerge tra le righe e altre volte viene celato. Il personaggio di Robinson Crosue scritto da Daniel Defoe, ad esempio, è il chiaro campione del modello di autorità riprodotto nella narrazione. Jane Austen viene considerata in relazione alla presenza coloniale britannica nelle Antille1 e Rudyard Kipling strettamente legato al dominio britannico in India2. Joseph Conrad viaggia perseguendo gli interessi commerciali europei in Africa e Asia, Albert Camus raffigura l'Algeria dominata dai francesi e William Butler Yeats l'Irlanda in lotta contro la Gran Bretagna. Intende individuare quel che è nascosto dietro le opere, stimolato dall'osservazione di Walter Benjamin per il quale la cultura “non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento di barbarie3”. Per Said il romanzo nel suo complesso, inteso come finzione culturale della società borghese, è in stretta relazione con l'imperialismo.

Nella maggior parte delle sue opere Said affronta il tema del dominio; riflette sul funzionamento del potere indagando come sia possibile che persista nel tempo. Studia i secoli del colonialismo europeo e l'espandersi delle amministrazioni oltreoceano, specialmente nel XIX secolo. Tra il 1815 e il 1914 i domini dell'Europa passarono dal 35% all'85% circa delle terre emerse, e gli imperi coloniali si stabilirono in tutti i continenti. In India, al culmine del suo potere, la Gran Bretagna regnava su trecentocinquanta milioni di abitanti, con un numero di residenti inglesi inferiore alle centomila persone. Said è interessato a studiare proprio questo aspetto. Vuol capire non solo come quella situazione sia stata realizzata dal punto di vista storico ed economico, ma soprattutto come sia stato possibile che una minoranza così esigua di inglesi

1 Jane Austen, 1814, Mansfield Park, London, Egerton; trad. it.1988, Mansfield Park, Milano, Garzanti.2 Rudyard Kipling, 1901, Kim, London, MacMillan & Co; trad. it. 1990, Kim, Milano, Mondadori.3 Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in 1974, Gesammelte Schriften, Frankfurt, Suhrkamp Verlag; trad.

it. 1997, Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, p. 31, cit. in Edward Said, Cultura e Imperialismo, cit., p. 339.

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sia riuscita a mantenere il dominio su un vastissimo paese, e per così tanto tempo. In Orientalismsi pone questa questione quando riflette che

l'importante, verso la fine del secolo scorso, non era che l'Occidente avesse penetrato e conquistato l'Oriente, ma il modo in cui inglesi e francesi ritenevano di esservi riusciti4.

Said medita ad esempio sulle strategie che le autorità britanniche idearono per poter rendere accettabile il loro governo. In India l'amministrazione coloniale, quando doveva annunciare la nomina di un nuovo sovrano inglese, per ribadire meglio la sua autorità svolgeva cerimonie conciliandole con la tradizione indiana. Per celebrare il conferimento del titolo di imperatrice alla regina Vittoria, nel 1877 gli inglesi svolsero i Durbar, cioè un gran numero di rituali e processioni secondo le usanze locali. In tal modo il governo coloniale si attribuì una forte legittimità, pretendendo di inserirsi nel contesto della storia indiana5.

L'egemonia

Per Said l'imperialismo per poter essere accettato, sia da chi esercita il potere sia dai dominati, ha bisogno di creare una giustificazione, una ragione per difendere se stesso. Nelle sue opere cita spesso Joseph Conrad perché lo considera un rappresentante dell'imperialismo atipico. Durante le sue numerose spedizioni nei vari continenti seppe comprendere gli aspetti negativi dei domini coloniali6. Said rimase affascinato da una frase espressa da Marlow, personaggio del romanzo Heart of Darkness, parole lucide nel definire l'essenza del potere ogni volta che viene esportato con la forza nel mondo:

la conquista della terra, che in genere vuol dire portarla via a chi ha una pelle diversa dalla nostra o un naso un po' più schiacciato, a pensarci bene non è proprio una bella cosa. Ciò che la riscatta è soltanto l'idea. Un'idea che la sostenga; non una finzione sentimentale, ma un'idea, e una fede disinteressata nell'idea – qualcosa che si possa innalzare, davanti a cui inchinarci, a cui offrire un sacrificio7.

Gli imperi in effetti ebbero bisogno di elaborare una ragione che potesse giustificare le proprie politiche. È stata definita in vari modi: la missione civilizzatrice, la volontà di portare il progresso, la lotta contro i tiranni, ma tutti questi aspetti, ricordando le parole di Conrad, non sono altro che ideologie che intendono giustificare il dominio. Sono un arsenale composto, non da cannoni e fucili, ma da teorie e retoriche. Scrisse infatti Said:

la costruzione di un impero, per realizzarsi, deve essere sostenuta dall'idea di avere un impero (…) e a tal fine tutta la preparazione necessaria viene fatta nel campo della cultura8.

4 Edward Said, Orientalismo, cit., p 209.5 Edward Said, 2000, Reflections on exile and Other Essays, Cambridge, Harvard University Press; trad. it. 2008, Nel

segno dell'esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Milano, Feltrinelli, p. 642. Edward, Said, Cultura e Imperialismo, cit., p. 343.

6 Said dedicò la tesi di laurea alla personalità di Conrad, sforzandosi di individuare i conflitti interiori che lo caratterizzarono. Edward Said, 1966, Joseph Conrad and the Fiction Autobiography, Cambridge, Harvard University Press; trad. it. 2008, Joseph Conrad e la finzione autobiografica, Milano, Il Saggiatore.

7 Joseph Conrad, Heart of Darkness, in Youth and Two Other Stories, Doubleday, Garden City, p. 50-51; trad. it 1996, Cuore di tenebra, Milano, Frassinelli, p. 45.

8 Edward Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 36.

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L’EGEMONIA

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Said dedica attenzione ai rapporti di potere, a come si instaura la connessione tra due forze apparentemente lontane e differenti. Apprezza il concetto di egemonia così come è stato elaborato da Gramsci perché ritiene che possa essere una chiave di lettura per comprendere, non solo i rapporti tra le classi sociali, ma anche il legame tra un impero e le colonie, tra i centri metropolitani di governo e le periferie. Il professore Giorgio Baratta ha evidenziato proprio questo aspetto di Said, vale a dire quanto il suo pensiero sia concorde con le analisi di Gramsci, poiché anch’egli ritiene che i governi, per poter rimanere in carica, hanno bisogno di esercitare costantemente il potere, sia con il dominio della forza sia con l'influenza della cultura9. Sostiene infatti Said che le classi dominanti ricoprono un ruolo dirigente grazie alla loro capacità di essere egemoni, essendo riusciti a trasmettere alle classi subalterne valori idonei al mantenimento di un consenso favorevole verso di loro. Anche il rapporto tra nazioni e continenti, tema al quale è interessato Said, è affrontato nei Quaderni del carcere, dove è scritto che

ogni rapporto di ‘egemonia’ è necessariamente un rapporto pedagogico e si verifica non solo nell’interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell’intero campo internazionale e mondiale, tra complessi di civiltà nazionali e continentali10.

Gramsci distinse tra dominio ed egemonia, il primo inteso come gli apparati coercitivi della società politica e il secondo come la capacità delle classi dominanti di trasmettere valori. In maniera analoga Said separa il colonialismo dal concetto di imperialismo. Le colonie rappresentano l'esercizio effettivo del potere in terre lontane, invece l'imperialismo è la formazione ideologica indispensabile per mantenere il potere. Per governare è necessario diffondere l'idea che “certi territori e certi popoli necessitino e richiedano di essere dominati”11.

Lo sguardo del colonizzatore

Le maggiori potenze imperialiste del XIX secolo, la Gran Bretagna e la Francia, si distinsero non solo per i vasti domini, ma anche per la mole di studi sui popoli stranieri, conoscenze utilizzate per amministrare i territori. Said si sofferma sui legami tra l'antropologia e l'imperialismo, mostrando che le ricerche furono condotte perché erano funzionali ai governi coloniali. Spiega infatti che

la storia dei vari campi del sapere quali la letteratura comparata, gli studi inglesi, la critica, l'antropologia, può essere vista in connessione con l'impero e, in un certo senso, come un elemento che ha contribuito al mantenimento del dominio occidentale sui nativi non-occidentali12.

Ricorda appunto che solo di recente nel campo dell'antropologia è cominciata una riflessione sul rapporto tra l'imperialismo e gli studi etnografici condotti nei decenni passati, in epoca coloniale. L'autore invita a prendere coscienza che le ricerche occidentali sul mondo non europeo si sono sviluppate con un approccio da dominatore. Quando uno studioso europeo, ad esempio, si pone l'intenzione di studiare un paese non occidentale agisce, anche simbolicamente e indirettamente, il potere dell'Occidente nella conduzione delle ricerche.

9 Giorgio Baratta, 2007, Antonio Gramsci in contrappunto, Roma, Carocci.10 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit. p. 1331, cit. in Giorgio Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto, cit., p.

37.11 Edward Said, Cultura e Imperialismo, cit., p 35.12 Ivi, p. 76.

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Una conseguenza dell'imperialismo nei continenti secondo Said è stata l'aver teorizzato e fissato identità rigide. Alle varie popolazioni furono attribuite caratteristiche particolari, descritte nelle ricerche e nei resoconti di viaggio. L'orientalismo ad esempio creò un'immagine canonica degli arabi e dei musulmani, e anche nel resto del mondo i vari poteri coloniali contribuirono a delineare allo stesso modo identità ben definite. Come sono stati orientalizzati gli orientali, così sono stati africanizzati gli africani, e il processo analogo fu ripetuto negli altri continenti. Per Said la classificazione delle culture è un frutto dell'imperialismo, che tende ad accentuare le divisioni per meglio controllare i territori. Ovviamente un'altra distinzione che venne mantenuta forte e invalicabile fu quella tra il colonizzatore e il colonizzato.

Nelle sue opere cita spesso i testi di Frantz Fanon, soprattutto quando riflette sulla logica della separazione nelle colonie e sulla persistenza della dialettica oppositiva soggetto/oggetto13. Questa realtà comporta necessariamente uno stato di subordinazione, la presenza di forti diseguaglianze e prepara il nascere di aperti e violenti conflitti.

L'Oriente subalterno nella cultura

Un aspetto interessante che Said mette in rilievo è dunque la capacità dell'Occidente di aver influito nel resto del mondo, lasciando ovunque tracce del suo dominio. I discorsi tipici dell'orientalismo, ricchi di immagini denigratorie nei confronti degli arabi e dei musulmani, sono diventati comuni non solo in Occidente, ma si sono diffusi anche nei paesi mediorientali. Tale fenomeno non si è realizzato tramite un processo unidirezionale, frutto di una passiva ricezione. Vi è stata un'elaborazione attiva da parte degli orientali. Said su questo tema afferma chiaramente che “l'Oriente moderno è complice della sua stessa 'orientalizzazione'”14.

Spiega che oggi i paesi arabi hanno una posizione subalterna nel campo della cultura perché non hanno saputo sviluppare una propria autonomia. In Orientalism critica il mondo universitario in Medio Oriente, affermando che gli istituti arabi “funzionano generalmente ispirandosi a schemi ereditati, e a suo tempo imposti, da un'ex potenza coloniale”15, cosicché “le principali linee di sviluppo della cultura mediorientale si ispirano a modelli europei e americani”16. Anche gli studi più prestigiosi sul mondo arabo non sono condotti in Medio Oriente perché i centri d'eccellenza sono attualmente a Oxford, a Harvard e all'Ucla. Said denuncia che quando uno studioso arabo collabora con le università statunitensi questo è considerato semplicemente un “informatore indigeno”, apprezzato per aver sviluppato la capacità di padroneggiare il sistema orientalista17. L'Occidente pertanto gestisce attualmente il controllo dei maggiori poli culturali del mondo. Said fa notare infatti che, in tutto il mondo islamico, non vi è una biblioteca centrale di testi arabi. Chiunque intenda specializzarsi nei cosiddetti studi sul Medio Oriente necessariamente si deve documentare in biblioteche di istituti americani o europei. Nel mondo accademico poi i rapporti internazionali tra le università sono disuguali. Ad esempio negli Stati Uniti scoppiano proteste se i paesi musulmani donano denaro per finanziare gli studi arabi o islamici perché viene subito denunciata l'ingerenza di paesi stranieri. Il pericolo invece non è percepito quando vengono ricevuti fondi da paesi come la Germania o il Giappone18. Gli effetti del dominio culturale si mantengono pertanto nel tempo,

13 Frantz Fanon, 1961, Les damnés de la terre, Paris, Maspéro; trad. it. 1962, I dannati della terra, Torino, Einaudi.14 Edward Said, Orientalismo, cit., p. 323.15 Ivi, p. 320.16 Ivi, p. 321.17 Ibid.18 Edward Said, Covering Islam: How the Media and the Experts Determine How We See the Rest of the World. Revised

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hanno radici storiche e durano fino ai giorni nostri.

Edition, cit., p. lviii.

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CAPITOLO 3

LE FORME DELLA CONOSCENZA

La tendenza dell'accademia a concentrare l'attenzione sull'appartenenza a una corporazione può avere infatti l'effetto di limitare il senso critico degli studiosi. […] La tendenza all'accettazione passiva, corporativa e acritica delle principali dottrine del proprio campo rappresenta a mio parere il più grande rischio che grava su ricercatori, docenti e studiosi.

(E. Said, Nel segno dell'esilio, p. 553-554)

La conoscenza è sociale

Tutti gli studi, ma specialmente quelli in ambito umanistico, non possono definirsi oggettivi in quanto ogni conoscenza è basata su interpretazioni. Chiunque intenda descrivere fenomeni sociali, raccontare eventi storici o semplicemente fatti di cronaca non può comprendere la verità perché questa non esiste in un modo assoluto, in quanto ogni conoscenza è basata su interpretazioni. Nessuno vive in diretto contatto con la realtà perché tutti noi siamo immersi in determinate modalità di rappresentazione, senza le quali non potremmo rapportarci con il mondo. Per spiegare tale concetto Said riporta le osservazioni del sociologo statunitense Charles Wright Mills1 riguardo al funzionamento della comprensione umana, secondo il quale le nostre esperienze personali non sono mai veramente tali, ma sempre mediate da racconti, ossia dalle interpretazioni che riceviamo dalla società. Ognuno vive in un mondo immerso di significati e nessuno si sorregge autonomamente confrontandosi in maniera diretta con la dura realtà del mondo; una tale situazione comporterebbe il panico. Per evitare la totale insicurezza, le nostre esperienze sono selezionate da immagini stereotipate e plasmate da interpretazioni già pronte. Durante la vita di tutti i giorni noi non facciamo esperienza del mondo come tale, ma di una conoscenza condivisa con le altre persone. Ovviamente ognuno interpreta individualmente ciò che osserva, ma le proprie opinioni non possono essere completamente isolate. In genere, tutti noi parliamo delle osservazioni e delle interpretazioni altrui; nei discorsi quindi facciamo ricorso a degli apparati culturali.

Criticando ogni pretesta di oggettività, Said dedica attenzione a un concetto fondamentale per la formazione della cultura: la trasmissione del sapere. In ogni società infatti è sempre presente una sorta di comunità di interpretazione che ha la funzione di offrire una conoscenza accettata della realtà. Chiunque intenda condurre una ricerca su un determinato tema deve necessariamente, per non essere né irrilevante né ridondante, confrontarsi con coloro che hanno già scritto sulla stessa materia. Ad esempio, spiega Said, se una persona intende scrivere una ricerca seria sull'Islam, o sulla Cina, su Shakespeare o su Marx, deve prendere in considerazione che cosa è stato detto sullo stesso argomento in passato2. Dunque non esiste un testo

1 Charles Wright Mills, 1967, Power, Politics, and People: The Collected Essays of C. Wright Mills, New York, Oxford

University Press.2 Edward Said, Covering Islam, cit., p. 162-164.

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LE FORME DELLA CONOSCENZA

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completamente nuovo e nessuno che voglia parlare di fenomeni sociali può pretendere di essere del tutto originale; vi è un legame tra tutti coloro che hanno studiato e interpretato una stessa questione. Un ricercatore può confermare gli studi precedenti, può proseguirli oppure controbatterli, ma sempre vi è una connessione tra le opere. In pratica nessuna opinione è senza precedenti, senza alcuna relazione con i predecessori.

Le discipline sono istituzioni

Said espone osservazioni riguardo alla condotta di chi conduce le ricerche, tema ripreso dalle analisi sul potere di Michel Foucault3 e dalla nozione di paradigma scientifico di Thomas S. Kuhn4. Tali autori infatti hanno mostrato quanto sia influente la presa di modelli epistemologici nei campi dell'espressione e del pensiero, aspetti che alterano e plasmano la natura di ogni enunciato individuale. Gli studi non sono mai liberi, svincolati dalla contingenza, perché quando si sviluppano vengono inquadrati all'interno di una disciplina. Quando una materia viene istituzionalizzata, il canone che si crea agisce in maniera attiva poiché fornisce agli studiosi un metodo al quale si richiede di conformarsi.

La disciplina stessa, secondo Said, guida il procedere delle analisi, cosicché i ricercatori, una volta acquisito il loro linguaggio professionale, codici accettati dalle accademie, tendono a fornire spiegazioni conformandosi agli studi svolti in precedenza. In questo modo gli studiosi acquistano credibilità e iniziano a considerare le loro affermazioni oggettive. Le discipline pertanto, una volta istituzionalizzate, favoriscono il ripetersi di determinate nozioni e ostacolano lo sviluppo di analisi originali. Gli studiosi vengono così guidati più da un'ortodossia corporativa che da una genuina esigenza di comprensione, e iniziano a difendere gli interessi del proprio gruppo. Anche un giovane studente che intende specializzarsi in una materia, ad esempio la storia moderna del Medio Oriente, dipenderà dagli interessi che pervadono la disciplina. Non solo la tradizione degli studi avrà ovviamente formato la sua conoscenza, ma anche le sua aspirazione a diventare famoso influenzerà le ricerche. È consapevole che, se sarà fortunato, i suoi scritti potranno essere letti dal Dipartimento di Stato, dalla Difesa o da qualche azienda.

L'orientalismo in politica estera

Partendo da queste considerazioni sulla struttura della ricerca scientifica istituzionalizzata, Said critica i ricercatori orientalisti perché, nonostante vivano in un preciso contesto storico, non hanno dubbi che sia raggiungibile una conoscenza obiettiva dell'Islam e degli aspetti della società. Tale prerogativa viene attribuita loro dal potere che questi esperti ricoprono. In Covering Islam Said esprime le sue considerazioni sul ruolo degli area studies nelle università statunitensi, discipline che includono gli studi orientali. Poiché si focalizzano di volta in volta su una sola regione del mondo, le ricerche rischiano di perdere di vista il contesto più ampio entro il quale la cultura è prodotta. Analizzando la storia e l'economia di una sola determinata area geografica, gli area studies tendono a dividere i campi di indagine e a separare le ricerche, una condotta che Said giudica sbagliata in quanto il lavoro intellettuale ha bisogno della comparazione e di unire

3 Michel Foucault,1969, L'Archéologie du savoir, Paris, Gallimard; trad. it 1971, L' archeologia del sapere, Milano,

Rizzoli.4 Thomas S. Kuhn, 1962, The structure of scientific revolutions, University of Chicago Press, Chicago; trad. it. 1969, La

struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi.

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le differenti discipline. Vi è pertanto un senso di autosufficienza diffuso tra gli studiosi, difetto che induce a una conoscenza distorta delle culture.

Secondo Said gli area studies sono fortemente legati alla politica in quanto hanno la capacità di favorire gli interessi nazionali. I maggiori esperti svolgono un ruolo funzionale agli interessi politici e tendono a essere legati alle aziende private. Per questo motivo parlano da una posizione dominante e sono indotti a giustificare gli obiettivi di chi gestisce il potere. Anche l'orientalismo, come gli area studies ai quali appartiene, è funzionale per giustificare gli obiettivi geopolitici nazionali. Lo stesso Leonard Binder, professore membro del Mesa (Middle East Studies Association), ammise che i motivi grazie ai quali si sono sviluppati gli area studies negli Stati Uniti sono politici5. Le istituzioni orientaliste sono mantenute dagli affari del settore privato, dalle fondazioni o dal governo, ad esempio, le compagnie petrolifere sono uno dei poteri più interessati a conoscere il Medio Oriente. Sono evidenti gli effetti che le ricerche hanno provocato nel resto del mondo, sebbene la maggior parte degli esperti non lo riconosca apertamente.

Gli studi agiscono entro una sfera di influenza legata alle aziende private, ai media e algoverno, e pertanto producono immagini non necessariamente veritiere. Durante il governo dello Shah, gli iranologi erano finanziati dalla Pahlavi Foundation e sostenuti dalle istituzioni americane. Ciò ha comportato che, negli anni precedenti alla rivoluzione del 1979, nessuno si sia mai chiesto veramente quanto fosse saldo il governo dello Shah Reza Pahlavi, a tal punto che perfino il presidente statunitense Jimmy Carter nel 1978 definì l'Iran come un'isola di stabilità6. Forti erano in effetti i legami economici tra gli Stati Uniti e il governo iraniano. Un caso analogo di come l’intreccio tra politica, economia e ricerca scientifica abbia prodotto un sapere asfittico, autoreferenziale e del tutto inadeguato alla complessità dell’oggetto d’indagine avvenne in Libano, con l’assoluta incapacità degli “esperti” nel prevedere la guerra civile del 1975 nonostante i segnali politici fossero evidenti da anni. Benché il paese sia composto da un mosaico di culture, veniva sempre messa in risalto la stabilità della nazione. Simili considerazioni (e un parimenti duro giudizio) valgono anche quanti conducevano analisi sulla Palestina negli anni Ottanta, poiché furono tutti sorpresi dall'inizio dell'Intifada nel 19877.

Said avverte dunque che non bisogna sottovalutare il legame tra i poteri dominanti e le istituzioni che si dedicano alla conoscenza, problema attorno al quale gioca inoltre un ruolo cruciale la diffusione del sapere. È necessario riflettere sul motivo della larga diffusione di idee e nozioni che, benché non siano necessariamente veritiere o accurate, riescono a sembrare persuasive. Tali immagini ottengono successo grazie all'influenza delle persone e delle istituzioni che le producono e le ripetono.

In polemica con Bernard Lewis

Tra i numerosi esempi di opinioni offensive e denigratorie contro i paesi musulmani, spiccano nelle opere di Said le ripetute critiche contro Bernard Lewis. Il celebre orientalista britannico, residente negli Stati Uniti e professore di Studi Islamici alla Princeton University, secondo Said si esprime costantemente con affermazioni erronee ed estremamente generalizzanti. Giudica il mondo islamico contrario alla modernità e sostiene che nelle società musulmane la religione pervada l'intera vita delle persone. Come molti altri orientalisti, spiega la contemporaneità utilizzando la storia remota dell'Islam, senza accurate analisi. Inoltre è convinto dell'esistenza di

5 Edward Said, Covering Islam, cit., p. 141-143.6 Ivi, p. 75.7 Ivi, p. 20-21.

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LE FORME DELLA CONOSCENZA

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due entità differenti, da lui definite “mentalità occidentale” e “orientale”, la seconda descritta come fanatica e irrazionale. Tali affermazioni sono pure astrazioni, ideate per poter distinguere le due culture. Said critica il coinvolgimento diretto di Lewis negli interessi nazionali statunitensi. Se studia le scuole religiose nell'Afghanistan contemporaneo, ciò non avviene per caso; è ovvio che parte delle sue ricerche potranno avere implicazioni politiche ed essere utilizzate da forze come il governo, aziende private o enti legati alla politica estera.

Tra le varie critiche esposte contro l'orientalista Bernard Lewis, Said ricorda come il professore si sia spinto perfino ad affermare che le civiltà non europee hanno difficoltà a comprendere la curiosità intellettuale per le altre culture, caratteristica questa tipica dell'Occidente. Scrisse in effetti che quando i primi europei cominciarono a studiare gli scavi archeologici dell'antico Egitto, la popolazione locale rimase stupita a causa dell'interesse degli stranieri per delle vecchie rovine. Secondo il noto professore, fu la ricerca di una gratificazione per la curiosità intellettuale ad aiutare gli europei nelle loro esplorazioni verso terre straniere oltreoceano, un desiderio assente invece nei popoli non europei. Said controbatte fortemente a quest'ultima tesi di Lewis citando le opinioni di Donald Lach e John Horace Parry, due storici del colonialismo che invece argomentano in maniera convincente l'interesse degli europei nei confronti delle culture straniere derivi dal commercio e dalle conquiste8.

Per quanto siano erronee, posizioni analoghe a quelle espresse da Lewis hanno ottenuto il consenso tra gli studiosi orientalisti. Per spiegare come solitamente sono esposti gli studi orientalisti nel mondo accademico, in Covering Islam viene raccontato quel che avvenne negli anni '70 a Princeton, università dove insegnava Bernard Lewis. Tra il 1971 e il 1978 furono organizzati quattro seminari sul mondo musulmano, con il patrocinio della Ford Foundation. Said mostra che tutti gli argomenti ogni volta vennero trattati tenendo in mente gli interessi nazionali degli Stati Uniti. Il primo seminario fu dedicato all'applicazione delle teorie psicoanalitiche nei paesi mediorientali. Le esposizioni si focalizzarono attorno ad argomenti denigratori dell'Islam poiché il comportamento della famiglia fu ritenuto repressivo, gran parte dei leader nazionali furono visti come psicopatologici e le società ancora immature. Il secondo seminario trattò il sistema politico dei millet, cioè l'ordinamento giuridico che regolava le minoranze religiose nell'impero ottomano. Il sistema venne studiato con l'obiettivo di far emergere gli aspetti negativi e fu giudicato come la strategia politica del “divide et impera”. Nel seguente dibattito, incentrato sulla presenza dell'Islam in Africa, si mise in risalto che gli arabi in passato si dedicarono al commercio degli schiavi, deportando le popolazioni africane. L'obiettivo dei discorsi sembrava dunque avvertire gli stati africani sul pericolo dell'ingerenza dei musulmani nel continente. Il quarto infine fu dedicato alla storia economica in Medio Oriente, dal sorgere dell'Islam fino al diciannovesimo secolo. Anche in questo non venne meno il tono critico verso l’Oriente, poiché gli unici argomenti trattati furono l’instabilità politica e il ruolo autoritario dello stato9.

I quattro seminari sono raccontati per spiegare come gli studi mostrino i popoli islamici in maniera denigratoria. Said insiste quindi sulla responsabilità che hanno gli esperti orientalisti nel diffondere opinioni che, una volta enunciate nelle università, di conseguenza si riflettono facilmente nel linguaggio della politica e dei media. Osserva infatti che ormai nel linguaggio dei partiti politici negli Stati Uniti e in Europa sono diffuse le accuse contro la religione musulmana, in tutti gli schieramenti. La destra conservatrice associa l'Islam alla barbarie, le forze centriste lo rappresentano estraneo e con tinte esotiche, invece la sinistra liberal lo paragona al passato, alla teocrazia e al medioevo.

8 Ivi, p. 139.9 Ivi, p. 144-149.

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CAPITOLO 4

LE RAPPRESENTAZIONI

Nessun processo di traduzione dell'esperienza in espressione è scevro da contaminazioni. Ogni processo di rappresentazione è ab origine necessariamente contaminato dal coinvolgimento con il potere.

(E. Said, Umanesimo e critica democratica, p. 75)

Estetica e interesse

Criticando le pretese di veridicità delle discipline, Said avvia una serie di riflessioni sul ruolo delle rappresentazioni nel campo della conoscenza. Gran parte delle sue opere sono dedicate a questo tema, cioè a quel delicato processo che avviene quando si vuol comunicare un'esperienza. Ogni volta che una situazione viene espressa intervengono numerosi fattori nel discorso, anche quando vi è lo sforzo di rimanere fedeli alle proprie osservazioni. Per Said questo aspetto è fondamentale per capire il mondo della cultura poiché mostra quanto siano infondate le pretese di neutralità delle discipline scientifiche e artistiche. Sostiene che bisogna riunire quel che fu diviso da Kant, vale a dire l'estetica e l'interesse1.

L'arte, la cultura, il sapere non sono disgiunti dall'interesse, bensì sono plasmati dalla mondanità, ossia dalle situazioni sociali. Qualsiasi impegno implica sempre un coinvolgimento diretto, in quanto nulla può essere svolto con totale distacco e anche le passioni più personali non sono giustificabili con il semplice piacere esterico. Chiunque fruisce di un'opera artistica o si accinge a studiare un argomento è sempre coinvolto nel campo in cui agisce la materia presa in considerazione, entro le sue logiche, cosicché vi è sempre un legame tra la conoscenza e le strutture di potere proprie della società. Secondo Said non esiste il sapere disintereressato poiché, dato che ogni enunciato incide sempre sulla realtà, tutte le ricerche si possono spiegare esaminando le esigenze che hanno favorito il loro sviluppo. Le discipline teoriche, nonostante mostrino una parvenza distaccata e apolitica, in realtà sono condizionate dall'ambiente entro le quali sono immerse. Said invita perciò a

pensare le rappresentazioni (esatte o inesatte, la distinzione è, al più, una questione di grado) comprese in un comune spazio scenico definito non solo dall'argomento della rappresentazione, ma da comuni tradizioni, retaggi storici, universi del discorso2.

Nessuna teoria è situata in un tempo e spazio astratto; tutti gli enunciati si fondano su un processo storico che fornisce loro il linguaggio entro il quale svilupparsi, pertanto

il vero problema è se possa mai esistere qualcosa come una rappresentazione veritiera, o se piuttosto ogni rappresentazione, proprio in quanto tale, sia immersa in primo luogo nel

1 Immanuel Kant, 1963 [1790], Kritik der Urteilskraft, Hamburg, Unveranderter Neudruck; trad. it. Critica della facoltà

di giudizio, 1999, Torino, Einaudi.2 Edward Said, Orientalismo, cit. p. 269.

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LE RAPPRESENTAZIONI

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linguaggio e poi nella cultura, nelle istituzioni e nell'ambiente politico dell'artefice o degli artefici della rappresentazione. Se quest'ultima alternativa è quella giusta (come io credo), allora dobbiamo essere pronti ad accettare il fatto che ogni rappresentazione è eo ipsointrecciata, avvolta, compresa in molti altri fattori oltre che nella “verità”, senza contare che quest'ultima è a propria volta una rappresentazione3.

Tali affermazioni dimostrano che l'orientalismo, così come tutte le descrizioni dell'alterità, non è altro che una rappresentazione. L'intento delle sue analisi non consiste né nella difesa dell'Oriente, né nella totale condanna degli studi orientalisti. Said afferma che ha voluto “descrivere uno specifico sistema di idee, e nient'affatto sostituirlo con uno migliore”4. Non intende demolire tutto quel che è stato scritto a proposito dei paesi orientali in Europa. Poiché non privilegia la prospettiva dell'insider a discapito di quella dell'outsider, non crede “che solo un nero possa scrivere sui neri, o solo un musulmano sui musulmani”5. La sua intenzione è raccontare come la conoscenza si intrecci con i rapporti di potere, indagare come le persone provenienti da un paese dominante abbiano raffigurato l'alterità a loro subalterna. Riflettendo sull'orientalismo ha osservato

come funzionano di solito le rappresentazioni, cioè per uno scopo, secondo una tendenza e all'interno di un contesto storico, intellettuale e persino economico ben preciso6.

Nella sua ricerca ha voluto riflettere sui rapporti di potere sottostanti alle narrazioni. Per Said ogni opinione è partigiana, nel senso che rappresenta sempre la visione di una parte, di determinati interessi.

Non esiste un Oriente ‘reale’

Avendo criticato le pretese di obiettività delle descrizioni degli orientalisti, che ripetono caricature da loro stessi accettate, Said pone l'attenzione anche sul grado di veridicità di tutti i discorsi sull'alterità. L'autore afferma che è scorretto condannare gli orientalisti perché non hanno compreso la vera natura dell'Oriente, Essi non hanno mal interpretato le vere caratteristiche degli orientali perché queste in realtà non esistono. Precisa infatti che

la tesi che mi sta a cuore non è che quel sistema implicasse il fraintendimento di qualche essenziale caratteristica dell'Oriente - al momento, dubito che tali caratteristiche essenziali esistano davvero7.

Non ci sono connotazioni veritiere, assolutamente autentiche, che denotano il reale aspetto di una cultura. Tutte le rappresentazioni sono la combinazione di numerosi fattori. Ogni discorso dipende da chi esprime un'opinione e dalla sua formazione personale, varia a secondo del soggetto al quale è indirizzato, dalle ragioni che muovono la comunicazione e dal momento storico nel quale avviene. Le interpretazioni sono attività sociali legate a una specifica situazione e non possono essere obiettive. Non è onesto dunque chi pretende di essere neutrale, libero dai condizionamenti.

3 Ibid.4 Ivi, p 323.5 Ivi, p 320.6 Ivi, p. 270.7 Ivi, p. 269.

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

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Tutte le descrizioni, i racconti, non sono altro che rappresentazioni. L'Oriente, e in maniera analoga la cultura occidentale, sono entità costruite, immerse nelle situazioni storiche e in determinate circostanze sociali. Nel caso delle ricerche su un fenomeno complesso, come l'Islam, la conoscenza deriva dalle immagini, dai testi, dalle esperienze che ci sono state raccontate, cioè dalle interpretazioni, e non da fattori direttamente provenienti da un'entità astratta chiamata Islam.

Le argomentazioni utilizzate per definire una razza o una nazione, oppure i sentimenti che denotano l'essere inglesi o asiatici, sono in genere determinate dalle situazioni politiche e culturali vigenti, benché pretendano di giustificarsi per la loro naturalità. Più volte Said sottolinea che gli aspetti autentici non esistono. Le identità svolgono lo stesso ruolo delle etichette perché definiscono la realtà dividendo le parti in maniera netta. Said invita perciò al superamento della dicotomia Oriente/Occidente e della geografia immaginaria che suddivide il mondo tra “terre nostre/terre barbariche”. Specialmente nella postfazione a Orientalism, scritta nel 1994, l'autore spiega quanto siano artificiali le identità culturali, per niente naturali, e cita le ricerche di Martin Bernal sulle radici della cultura greca8 e le analisi di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger sull'invenzione delle tradizioni9.

Il consumo delle immagini

Said mette in evidenza come le immagini delineate in Occidente siano così persuasive da diffondersi anche negli stessi paesi mediorientali. Questa è stata la forza delle potenze coloniali, la capacità di introdurre i propri discorsi anche nelle realtà a loro estranee. Oggi il processo continua, ma si realizza tramite strumenti diversi rispetto al passato perché è veicolato dai moderni mezzi di comunicazione. Avverte infatti che l'orientalismo tende a

estendersi allo stesso “Oriente”: le pagine di libri e giornali scritti in arabo abbondano di analisi di second'ordine condotte da arabi intorno alla mentalità araba, all'islam e ad altre entità mitologiche10.

Perfino in Medio Oriente le persone cominciano a immaginarsi secondo gli stereotipi diffusi dalle immagini dei media statunitensi ed europei. Scrive Said che “il paradosso dell'arabo che si abitua a immaginarsi come un 'arabo' di tipo hollywoodiano è uno dei più assurdi, ma anche ovvi”11. Le rappresentazioni tipiche dell'orientalismo, che dipingono gli arabi e i musulmani ripetendo delle caricature, non sono decadute con la fine dei domini coloniali. Negli Stati Uniti e in Europa caratteristiche come la pigrizia, la brutalità, l'irrazionalità, il dispotismo, e ora il terrorismo e il fondamentalismo, vengono comunemente utilizzate per descrivere i paesi mediorientali. Scrive infatti Said:

una sorta di volgarizzazione dell'orientalismo contemporaneo è largamente diffusa nei giornali e nella mentalità popolare. Per molti, gli arabi sono venali, lascivi, potenziali terroristi, con nasi adunchi, e per lo più a dorso di cammello; la ricchezza di alcuni popoli e paesi arabi è fortuita o

8 Martin Bernal, 1987, Black Athena: The Afrosiatic Roots of Classical Civilization, New Brunswick, Rutgers

University Press; trad. it. 1997, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Milano, Nuova Pratiche Editrice.

9 Eric Hobsbawm - Terence Rangers, 1983, The invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge; trad. it. 1983, L'invenzione della tradizione, Milano, Einaudi.

10 Edward Said, Orientalismo, cit. p. 320.11 Ivi, p. 322.

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LE RAPPRESENTAZIONI

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addirittura disonesta, frutto dell'estorsione petrolifera a danno delle nazioni veramente civili12.L'autore dedica attenzione all'immaginario messo in scena nei film americani, produzioni

diffuse in tutti i continenti e ovviamente anche in Medio Oriente:

al cinema e alla televisione l'arabo è sovente caratterizzato come lascivo e disonesto, persino come un autentico degenerato sessuale, capace di tessere intrighi astutamente malefici, ma sopratutto sadico, infido e amorale13.

Queste sono alcune delle caratteristiche negative che contraddistinguono i ruoli dell'arabo nelle produzioni cinematografiche. Gli stereotipi denigratori si possono notare in molti film d'azione, ad esempio True Lies e Delta force, e l'intera saga di Indiana Jones è permeata di immagini orientaliste14. Negli Stati Uniti nei libri scolastici, nei serials televisivi, nei cartoni animati e nelle pubblicità l’iconografia sui popoli islamici è uniforme. I musulmani sono rappresentati sempre con caricature: ricchi petrolieri, terroristi o folle fanatiche. Perfino nei fumetti le ambientazioni esotiche sono popolate di personaggi che raffigurano qualità negative. Dopo la guerra del 1973 Said notò infatti che gli arabi vennero disegnati come avidi sceicchi, con sguardo torvo e minaccioso, vicini ai distributori di benzina15.

12 Ivi, p. 112.13 Ivi, p. 283.14 Edward Said, Covering Islam, cit., p. xxvii.15 Edward Said, Orientalismo, cit., p. 282.

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PARTE 2

I MEDIA

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I MEDIA

Come già abbiamo spiegato nella prima parte, ogni forma di conoscenza è legata a un interesse, ed entrambi sono in relazione con il potere. Per analizzare questi aspetti, Said riflette su come noi acquisiamo il sapere, processo nel quale oggi gioca un ruolo rilevante la fruizione dei mass media.

Nonostante l'epoca coloniale e del dominio diretto sia terminata, secondo l'autore l'imperialismo nel campo della cultura continua a sussistere, e ciò si può notare in quanto nei più potenti mezzi di comunicazione internazionali predominano rappresentazioni elaborate in Occidente. In Culture and Imperialism1 Said esprime appunto preoccupazione per la forte egemonia di un'unica visione nell'informazione globale, dal momento che questa, essendo fornita da poche agenzie di stampa statunitensi ed europee, utilizza un linguaggio che tende in genere a giustificare la supremazia morale e culturale di una determinata parte del mondo. Per tale motivo, ad esempio, ogni volta che sono riportate notizie riguardo ai paesi islamici e alla regione mediorientale il pubblico è indotto a interpretare gli eventi in maniera univoca, per cui i problemi degli arabi e dei musulmani sarebbero causati dalle loro stesse peculiarità.

Dunque Said, riscontrando che l'orientalismo è tuttora vigente nelle televisioni e nei giornali, si concentra sull'analisi dei mass media, riflettendo sui contenuti e sulla produzione dei messaggi. Traendo insegnamento dagli studi sulla comunicazione, l'autore ricorda che le notizie non sono un dato inerte, bensì derivano da un lavoro di selezione e, inevitabilmente, di manipolazione. Coloro che agiscono in tale processo, ai quali è affidato l'incarico di indagare e raccontare gli eventi, appartengono inoltre a una determinata categoria di persone, che in genere condivide le medesime opinioni e riveste incarichi di potere. Da tali osservazioni è quindi possibile dedurre che le informazioni diffuse dai media, benché siano offerte come obiettive, sono in gran parte faziose interpretazioni della realtà, influenzate dal contesto entro il quale agiscono.

Specialmente in Covering Islam2 Said si dedica allo studio del mondo del giornalismo, analizzando quale sia il ruolo delle televisioni e dei giornali nella società e come sia strutturato il lavoro dei giornalisti. In quest'opera esamina come generalmente negli Stati Uniti ed in Europa è riportato ciò che accade nei paesi islamici, evidenziando che gli opinionisti spesso esprimono giudizi negativi tramite facili generalizzazioni, secondo le logiche tipiche dell'orientalismo. Tali rappresentazioni comportano necessariamente conflitti e, di conseguenza, il sorgere di avversioni anche nelle controparti, in quanto anch’esse si considerano legittimate a criticare l'Occidente con analoga ostilità.

In Covering Islam inoltre è dedicata molta attenzione a come avvenne negli Stati Uniti la copertura mediatica dell'Iran tra il 1979 e 1981, durante i mesi della rivoluzione iraniana e il sequestro degli ostaggi. Dopo aver passato in rassegna gli articoli dei quotidiani più autorevoli, Said espone il suo giudizio sulle distorsioni praticate nel mondo dell'informazione, dato che in quel periodo fu evidente quanto le notizie fossero permeate da valori in accordo con gli interessi 1 Edward Said, 1993, Culture and Imperialism, New York, Alfred A. Knope; trad. it. 1998, Cultura e Imperialismo.

Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente, Roma, Gamberetti.2 Edward Said, 1997, Covering Islam: How the Media and the Experts Determine How We See the Rest of the World.

Revised Edition, New York, Vintage Books Edition.

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

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nazionali americani.In questa parte dedicata alle opinioni di Said sulle rappresentazioni dei media, particolare

attenzione è posta infine sulle sue considerazioni riguardo alla copertura giornalistica del conflitto israelo-palestinese. Il tema è cruciale nella vita dell'autore, come si deduce dai suoi numerosi libri e articoli pubblicati a favore dei diritti dei palestinesi. Scrive molte volte che il conflitto non potrà mai essere risolto sul campo militare, bensì tramite il dialogo e il confronto reciproco, ossia nell'ambito della conoscenza. Sottolinea infatti che Israele da tanti anni opprime i palestinesi proprio perché è più forte nel settore dell'informazione, avendo investito ingenti risorse nell'hasbara, attività definita da Said mera propaganda. Il paese è riuscito ad ottenere consenso in tutto il mondo, cosicché qualsiasi operazione venga condotta, è difesa in gran parte delle opinioni espresse nelle televisioni e giornali, specialmente negli Stati Uniti. Dunque, secondo Said anche nel conflitto israelo-palestinese le rappresentazioni dei media rivestono un ruolo importante, essendo capaci di influenzare l'opinione pubblica mondiale e di conseguenza i rapporti di forza tra le fazioni.

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CAPITOLO 5

LA COSTRUZIONE DELLE NOTIZIE

Mentre un secolo fa la cultura europea era associata alla presenza dell'uomo bianco, a un dominio diretto esercitato di persona (a cui era dunque possibile resistere), oggi abbiamo anche una presenza internazionale dei media che si insinua nelle menti, restando spesso al disotto della consapevolezza razionale, e con un raggio d'azione incredibilmente ampio.

(E. Said, Cultura e Imperialismo, p. 320)

I mass media

La nostra visione del mondo prende forma non solo grazie alla conoscenza diretta, ma deriva in gran parte anche dai contenuti che televisioni, radio, giornali, riviste, libri e film ci offrono quotidianamente. Apprendiamo molte nozioni per via mediata e siamo influenzati da quel che ci viene descritto, cioè dalle rappresentazioni elaborate in genere da chi ha ottenuto l'autorità per esprimere un discorso. In pratica usufruiamo di immagini in senso lato, e solamente di queste possiamo discutere poiché la realtà assoluta non esiste.

Non soltanto gli studi, la letteratura e il cinema quando trattano degli arabi e dell'oriente utilizzano immagini stereotipate ma, in maniera analoga, anche il mondo del giornalismo è dominato dal medesimo repertorio. La presenza di tale condotta interessa particolarmente Said poiché sostiene che attualmente l'informazione prodotta dai media occidentali ha un ruolo predominante in tutto il mondo. Nell'opera Culture and Imperialism, oltre ad analizzare i testi letterari prodotti in Europa durante i secoli del colonialismo, Said commenta ampiamente il campo degli attuali media e dell'informazione, e afferma di volersi occupare di questo argomento in quanto ritiene che, nonostante il colonialismo diretto sia in gran parte finito,

l'imperialismo (…) resiste invece dove è sempre stato, una sorta di sfera culturale generale così come in specifiche pratiche politiche, ideologiche, economiche e sociali1.

La sua convinzione, dunque, è che oggi per imperialismo si debba intendere l'industria culturale predominante, attualmente di provenienza in gran parte statunitense. Le immagini televisive, il cinema e giornali, in maniera più ampia tutto ciò che ruota attorno al campo dell'informazione, secondo Said trasmettono come in passato valori imperiali, cioè legittimano la sovranità di una minoranza della popolazione mondiale, americana ed europea, sul resto dei continenti.

1 Edward Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 35.

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

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La fabbrica del consenso

Said si focalizza sul ruolo predominante che pochi canali di informazione hanno assunto negli ultimi decenni. Ritiene valida una ricerca condotta dal sociologo americano Herbert I. Schiller, Culture Inc2, nella quale viene denunciato l'accentramento di un grande potere in un numero limitato di canali mediatici. Poche multinazionali infatti detengono il controllo della produzione e della distribuzione delle notizie cosicché, specialmente negli Stati Uniti, le rappresentazioni giornalistiche provengono da un numero ristretto di fonti, perlopiù gestite da imprese private che possiedono la capacità di influenzare notevolmente la conoscenza sul mondo.

Tale controllo favorisce la persistenza di una “cupola di ortodossia”, legata strettamente al potere, contro la quale è difficile opporsi. Con queste analisi Said vuol mettere in evidenza il grande potere che possiedono le maggiori agenzie di informazione occidentali e l'ampia visibilità di pochi giornalisti televisivi internazionali di lingua inglese. Questi centri di informazione raccolgono, selezionano e rimandano in onda immagini e parole in tutto il mondo, con una forza persuasiva che non ha precedenti3.

Quando esprime giudizi sulla rete internazionale delle notizie, Said condivide le opinioni di Noam Chomsky e le sue teorie sulla “fabbrica del consenso”4. Secondo il noto linguista americano vi è una forte sovrapposizione tra i principali media e i poteri politici ed economici per cui, secondo le sue analisi, le comunicazioni sono improntante sul modello della propaganda, nel quale l'emittente tende a indurre l'ascoltatore ad accettare le posizioni espresse. Ciò comporta un'omologazione delle notizie e l'esclusione delle possibili alternative. Nel mondo contemporaneo siamo circondati dalle informazioni che riceviamo dai media e, secondo Said, tali fonti hanno un potere pervasivo nelle nostre vite. Scrive infatti che "siamo bombardati da rappresentazioni preconfezionate e reificate del mondo"5 e nelle nostre strutture di pensiero domina un'informazione piena di argomentazioni ideologiche, plasmata dai media, dalla pubblicità e dalle dichiarazioni ufficiali.

Come si produce l'informazione

Pur essendo concorde con molte opinioni di Chomsky, soprattutto quando parla dell'influenza dei poteri economici e governativi, Said si discosta sensibilmente dalla teoria generale del linguista, poiché non ritiene che i media vogliano semplicemente persuadere le persone. Le notizie non sono manovrate da un unico centro di comando e non vi è nessuna cospirazione in quanto nessun potere monolitico agisce come se ci fosse una dittatura; non ci sono leggi fisse, determinati procedimenti rigidi che permettono alle notizie di diventare tali. Anche se gran parte della nostra conoscenza deriva dai media, noi non dipendiamo da un grande apparato centrale che gestisce la propaganda, e Said è convinto che gli stati occidentali non siano esplicitamente repressivi. In teoria, si possono esprimere tutte le opinioni, anche le più eccentriche, ed effettivamente vi è una grande varietà di linguaggi con differenti notizie.

Eppure, nella gran parte dei quotidiani, riviste, televisioni e radio c'è la tendenza a favorire 2 Herbert I. Schiller, 1989, Culture Inc.: The Corporate Takeover of Public Expression, New York, Oxford University.

Press.3 Edward Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 339-340.4 Noam Chomsky - Edward Herman, 1988, Manufacturing Consent: The Political Economy of the Mass Media, New

York, Pantheon Books; trad. it. 1998, La fabbrica del consenso, Milano, Marco Tropea.5 Edward Said, 2004, Humanism and Democratic Criticism, New York, Columbia University Press; trad. it. 2007,

Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, Milano, Il Saggiatore, p. 96.

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LA COSTRUZIONE DELLE NOTIZIE

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una stessa visione, una certa rappresentazione della realtà piuttosto che un'altra. Alla fine l'informazione converge su delle idee comuni, che più o meno tutti ritengono che siano chiarificatrici, trasparenti e accettate.

Utilizzando lo stesso impianto descrittivo già impiegato nel suo commento degli studi accademici, Said articola riflessioni simili anche nel campo dei media. Giornali, notizie e opinioni sono fatti dalla volontà umana, dalla storia, dalle circostanze sociali, dalle istituzioni e dalle convenzioni delle professioni. I racconti dei vari avvenimenti pertanto riflettono pienamente il contesto entro il quale sono prodotti e nulla è svincolato dalla particolare situazione storica entro la quale si producono. L'autore dunque afferma che le notizie sono il risultato di una cultura, o meglio, sono la cultura e, nel caso dei media statunitensi, sono una parte della storia contemporanea6.

I fatti e i racconti che noi quotidianamente apprendiamo non emergono in modo spontaneo; le notizie che noi riceviamo non vengono prodotte casualmente. Benché possa sembrare ovvio, è importante ricordare che tutti i mezzi di comunicazione seguono certe regole e convenzioni, processi necessari per inquadrare la realtà entro delle storie. Citando la ricerca del sociologo Herbert Gans, Deciding What's News7, Said spiega come i giornalisti, le agenzie di stampa e le redazioni dei canali televisivi agiscano nella narrazione dei fatti, dal momento che le notizie non sono un dato inerte, ma il risultato di un complesso processo di scelta. Si selezionano gli eventi e il linguaggio per offrire le informazioni come se fossero entità prive di errori8. Dato che nessuno può esprimere un racconto oggettivo degli eventi, quel che può trasparire sono le intenzioni sottostanti, le ragioni che hanno determinato la selezione di particolati fatti e l'utilizzo di un determinato linguaggio. Inoltre, gran parte dei media sono proprietà di compagnie private, quindi il loro scopo è perseguire il profitto, e per tale ragione hanno interesse a mostrare alcune immagini della realtà piuttosto che altre. Televisioni e stampa infatti agiscono all'interno di un contesto politico pervaso da un'ideologia che, sebbene non sia mostrata esplicitamente, viene disseminata nell'informazione.

La rapidità della comunicazione giornalistica

I media per Said non offrono semplicemente i fatti, ma costituiscono anche una modalità di espressione. Raccontare in televisione gli avvenimenti in maniera rapida, con poche parole e uno stesso repertorio di immagini, rende il giornalismo simile agli spot pubblicitari. L'informazione preconfezionata, pronta per essere diffusa su larga scala, tende a privilegiare le forme brevi e telegrafiche perché in tal modo si vuol promuovere facilmente un'immagine oggettiva degli eventi. Said spiega infatti che

la Cnn e il New York Times danno informazioni sotto forma di sommario o brevi frammenti di discorso, spesso seguiti da brani informativi un po' più lunghi il cui scopo dichiarato è dirci cosa sta succedendo “in realtà”9.

Questo linguaggio, secondo Said, tende a indurre il pubblico ad accettare lo status quo perché non stimola il pensiero e ostacola il sorgere di una critica democratica. Le espressioni

6 Edward Said, Covering Islam, cit., p. 52-53.7 Herbert Gans, 1979, Deciding What's News: A study of CBS evening news, NBC nightly news, Newsweek, and Time,

Chicago, Northwestern University Press.8 Edward Said, Covering Islam, cit. p. 50.9 Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 98.

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vengono semplificate in modo da non lasciare spazio ai dubbi, alle riflessioni, alle alternative. Questo tipo di comunicazione non è una semplice distorsione della realtà. Induce ad accettare una cultura, a difendere determinati valori e a favorire certi poteri politici. Gli stessi conduttori dei telegiornali incorporano fisicamente, con il loro tono di voce e la postura, la rigidità e la ragione del potere dominante. Le parole inoltre sono legate sempre a un determinato contesto, attorno al quale agiscono interpretazioni e modi di pensare già esistenti. Said scrive infatti che "ogni intervento discorsivo è, naturalmente, legato a una particolare occasione e presuppone un consenso, un paradigma, un'episteme e una prassi"10.

Linguaggio e appartenenze collettive

Nel giornalismo moderno agli intellettuali si attribuisce un ruolo sociale, il compito di aiutare le persone a rafforzare il senso di una comune appartenenza. Un giornale potente, con le sue opinioni autorevoli, tende a identificarsi con un ampio pubblico. Said afferma che

la differenza tra un giornale popolar-scandalistico e il «New York Times» è il fatto che il «Times» aspira a essere (ed è generalmente considerato) il quotidiano nazionale di asseverata credibilità, i cui editoriali non riflettono soltanto le opinioni di alcuni uomini e donne ma anche la presunta verità di tutta la nazione e per tutta la nazione. […] L'uso del “noi” negli articoli di fondo rimanda direttamente agli stessi editorialisti, com'è ovvio, ma nel contempo suggeriscono un'identità collettiva nazionale, quasi fossimo invitati a leggere “Noi, il popolo degli Stati Uniti d'America”11.

Volendo esprimere le opinioni dell'intera collettività, gli editorialisti si sforzano di rendere esplicito ciò che sembra essere il sentire comune della nazione. Negli articoli pertanto vengono usate metafore per definire un “noi”, inteso come un'identità coesa, e un “loro” descritto come estraneo. I media sono capaci di promuovere identità presunte omogenee, entità come “l'America” o perfino “l'Occidente”, rendendole accettate anche grazie al fatto che negli Stati Uniti è diffusa un'ideologia nazionalista sostenuta da una retorica sul ruolo del proprio paese nel mondo e sullo “stile di vita americano”. Addirittura Said non critica solo quei discorsi che intendono essere autorevoli, ma invita a ripensare tutto il nostro linguaggio comune. Afferma che “ci imbattiamo continuamente in locuzioni quali 'gli inglesi', 'gli arabi', 'gli americani', 'gli africani', usate per designare non soltanto un'intera cultura, ma una specifica struttura mentale”12. Le espressioni generalizzanti, che presumono l'esistenza di culture uniformi, vengono mantenute nell’uso comune di una lingua per rendere più semplici alcune forme di comunicazione elementare, ma non si riflette abbastanza sull'uso che istituzioni e gruppi di potere, stampa e mondo accademico, possano fare di queste nette divisioni. Parlare di ciò che 'altri' fanno serve per rafforzare una 'nostra' identità. Scrive Said che:

“avere la sensazione” che stiano per arrivare i russi, che il mercato giapponese stia lì lì per invaderci o che i militanti islamici marcino verso di noi, non significa soltanto partecipare a una paura collettiva, ma anche rafforzare la “nostra” identità, in quanto stretta d'assedio e

10 Ivi, p. 156.11 Edward Said, 1994, Representations of the Intellectual: The 1993 Reith Lectures, Vintage; trad. it. 1995, Dire la

verità. Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli, p. 42.12 Ivi, p. 44.

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LA COSTRUZIONE DELLE NOTIZIE

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minacciata13.

Sembra non esserci una via di fuga dalle frontiere e dalle recinzioni che si utilizzano quotidianamente nel linguaggio, tutti modi per definire comunità fittizie.

Gli esperti

Said dunque riflette sul ruolo autoritario di coloro che raccontano le notizie. Scrive che c'è un corpo di esperti che giudica il mondo, un gruppo composto da chiunque abbia acquisito un titolo o una posizione che conferisce loro prestigio. Professori, giornalisti, direttori e presidenti emergono e divengono rilevanti soprattutto quando è in corso qualche crisi. Appaiono nei quotidiani, nei programmi televisivi e nei talk show per pontificare esprimendo idee generiche sulle situazioni più disparate. Pretendono di avere un ruolo di autorità sulla materia, ignorando o negando la struttura di potere vigente che ha reso possibile il loro lavoro di interpreti.

Gli esperti riescono a legittimare la loro funzione, cosicché le nozioni che forniscono assumono in crisma della canonicità. Scrivono libri che acquisiscono autorità e questi, di conseguenza, accrescono ulteriormente la fama agli autori. Il pubblico che riceve le informazioni inoltre presuppone che una persona sia esperta se questa ha la possibilità di parlare da una posizione rilevante.

Nel campo della conoscenza dunque i rapporti di potere inducono alla formazione di categorie di persone che, avendo acquisito un posizione di autorità, difendono gli interessi propri e di coloro da cui dipendono.

I corrispondenti

Dato che nella sua analisi intende verificare in particolare come si producano le notizie nel settore degli esteri, nell'analisi dei media Said si sofferma sulla prassi lavorativa dei corrispondenti, vale a dire i giornalisti stabilmente residenti all’estero, nelle zone reputate importanti dalle testate per cui lavorano. Mostrando come sia strutturato il loro comportamento, l'autore riflette su cosa possa spingere i giornalisti inviati in paesi lontani a raccontare gli avvenimenti in un determinato modo. I reporters, come qualunque essere umano, tendono a dare alcune cose per scontate, e hanno incorporato i valori e il modo di vivere che la società da cui provengono ha fornito loro. Hanno ricevuto un'educazione, insegnamenti religiosi e un'appartenenza nazionale. Svolgono il lavoro di giornalisti, pertanto sono consapevoli del codice deontologico professionale e sanno in quale maniera bisogna raccontare i fatti, cosa dire e chi è il loro pubblico. Said cita un saggio dello storico Robert Darnton, Writing News and Telling Stories14, che analizza il rapporto tra un giornalista d’inchiesta e le sue fonti, analisi che produce osservazioni utili in generale per comprendere come le notizie vengono costruite. Due aspetti sono degni di rilevanza: il primo evidenzia che un giornalista è sottoposto a una pressione che induce alla standardizzazione, a raccontare cioè attraverso l’uso di stereotipi; il secondo invece invita a riflettere maggiormente sulla retorica descrittiva dei reporter in quanto generalmente arricchiscono le narrazioni di molti dettagli che non appartengono ai fatti stessi. Sono aspetti importanti perché mettono in evidenza quanto siano influenti le pressioni della propria società e

13 Ivi, p. 45-46.14 Robert Darnton, 1975, Writing News and Telling Stories, Columbia, Daedalus.

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il ruolo dell'interpretazione15.I mezzi di comunicazione inoltre esercitano una pressione sui giornalisti. L'autorità delle

televisioni e testate giornalistiche americane più famose, come la Cbs o il New York Times, conferisce prestigio al reporter poiché il pubblico considera affidabili le loro notizie e fonti. Ne consegue che dal corrispondente l’utente si aspetta una determinata condotta, e il giornalista è indotto a raccontare gli avvenimenti esteri tenendo ben presente il ruolo politico degli Stati Uniti nel mondo. Nel linguaggio è presente quindi la consapevolezza di appartenere a un paese potente e influente.

Secondo Said, poi, i giornalisti americani, quando sono inviati in un paese straniero, si comportano in un determinato modo che favorisce la distorsione delle notizie. Innanzitutto hanno una capacità limitata nel reperire le fonti. In genere un corrispondente resta in compagnia di altri giornalisti, inviati come lui, e si tiene in contatto con la propria ambasciata. Cerca poi gli americani residenti nel paese e interloquisce con le persone che hanno buoni rapporti con gli americani. Dopodiché, nel raccontare i fatti, sente che deve tradurre ciò che accade in un linguaggio che può essere compreso senza difficoltà dai suoi concittadini. Detto altrimenti, pare evidente che il lavoro giornalistico all’estero, nella visione che ne offre Said, sembra condotto su una conoscenza assai parziale del paese dove si svolge, e produce un’inevitabile distorsione degli avvenimenti.

Un'altra forte barriera per i giornalisti all'estero è la diversità linguistica. Said denuncia che la maggior parte degli inviati statunitensi non conosce la lingua delle regioni che dovrebbero raccontare. Critica inoltre il modo con il quale le compagnie televisive e le testate giornalistiche affidano gli incarichi esteri ai giornalisti. È impossibile descrivere un paese essendo privi di un'adeguata conoscenza della storia della regione e senza averlo visitato per lungo tempo. Said sostiene con fermezza che non si possono raccontare paesi così complessi come l'Iran, la Turchia o l'Egitto senza una preparazione, senza avervi prima risieduto. L'autore critica dunque il fatto che i corrispondenti vengano spostati incessantemente da un paese all'altro, dopo aver cominciato a svolgere un lavoro da poco tempo. Per esemplificare tale situazione l'autore racconta i ritmi lavorativi dei giornalisti del «New York Times» inviati nei paesi islamici. Il reporter James Markham raccontò la guerra civile libanese tra il 1975 e il 1976 dopo essere stato in Vietnam. Dopodiché, trascorso solo un anno in Medio Oriente, fu mandato a lavorare in Spagna. Marvine Howe, l'ex corrispondente da Beirut, trascorse solo un anno in Libano, paese dal quale dovette riferire anche ciò che avveniva in Giordania, Siria, Iraq e in Golfo Persico. Dopodiché fu spostato in Portogallo e, dopo appena un anno, fu inviato ad Ankara. Per un periodo temporaneo poi, durante l'assenza dell'inviato John Kifner a Tehran, le notizie sull'Iran vennero riportate da Henry Tanner che risiedeva a Roma16. Il modo stesso di lavorare dei giornalisti quindi induce alla costruzione di immagini distorte e confuse.

15 Edward Said, Covering Islam, cit., p. 50-51.16 Ivi, p. 108.

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CAPITOLO 6

DESCRIVERE L’ISLAM

L'immagine dell'Islam oggi, dovunque la incontriamo, è svincolata e immediata. Vi è una supposizione non dichiarata, in primo luogo, che denota con il nome “Islam” qualcosa alla quale si può far subito riferimento con facilità.

(E. Said, Covering Islam, p. 40-41)

Covering Islam

Said nel 1981 analizzò in Covering Islam come i paesi musulmani vengono rappresentati nei media. Le teorie ricalcano quelle esposte nella sua pubblicazione precedente, Orientalism1, ma in questa nuova opera vengono applicate al linguaggio utilizzato dai giornali e dalle televisioni. Dopo sedici anni, nel 1997, l'autore decise di aggiornare il testo modificando in parte i contenuti. L'argomento era rimasto attuale poiché in più occasioni il Medio Oriente aveva continuato ad attirare l'attenzione dei media internazionali. Negli anni '80 si accese il conflitto in Afghanistan, fece clamore l'uccisione di 240 marines statunitensi nel 1983 a Beirut e l'attentato a Lockerbie nel 1988 rivitalizzò la paura del terrorismo. Nel 1987 scoppiò l'Intifada in Palestina, nel 1989 una fatwa fu pronunciata contro lo scrittore Salman Rushdie2 e nel 1993 furono fatte esplodere bombe presso il World Trade Center a New York. Nel corso degli anni le notizie sui paesi islamici furono abbondanti, e con esse vennero ripetute le immagini tipiche dell'orientalismo. Queste rappresentazioni non si limitano dunque soltanto al campo delle discipline accademiche e della letteratura; sono anzi un fenomeno complesso che perdura e coinvolge le comunicazioni nel loro complesso, televisioni e stampa inclusi.

Il ruolo dei media, l'uso del linguaggio e la prassi di chi racconta i fatti favoriscono il proliferare di descrizioni erronee. Specialmente quando bisogna raccontare paesi molto differenti, come quelli musulmani, è facile il diffondersi di rappresentazioni stereotipate. Per raggiungere un ampio pubblico, i media cercano di esprimersi in un linguaggio che sia il più conforme possibile a quello maggiormente diffuso, presumendo che le persone abbiano un pensiero piuttosto uniforme. Così l'immagine dell'Islam, e similmente anche quella degli altri argomenti, viene mostrata in maniera omogenea, riduttiva e monocromatica. Ciò produce il ripetersi di stesse rappresentazioni che, nei media statunitensi ed europei, sono in genere denigratorie nei confronti dei paesi musulmani. Spesso nelle televisioni e nei giornali si sentono infatti espressioni come “mentalità islamica” o l'“inclinazione degli sciiti al martirio”. Said denuncia allora il modo in cui i musulmani e gli arabi sono essenzialmente rappresentati, ad esempio, o come avidi fornitori di petrolio oppure come potenziali terroristi da temere. I mass

1 Edward Said, 1978, Orientalism, New York, Pantheon Books; trad. it. 2006, Orientalismo. L'immagine dell'Oriente in

Europa, Milano, Feltrinelli.2 La ragione della sentenza fu la pubblicazione del libro che, paradossalmente, rese lo scrittore famoso in tutto il mondo,

vale a dire: Salman Rushdie, 1988, The Satanic Verses, London, Viking Press; trad. it. 1994, Versi Satanici, Milano, Mondadori.

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

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media, in effetti, mostrano caricature della realtà, immagini di folle in lotta, fanatismo religioso o punizioni islamiche. Sono interessati solo in minima parte a indagare la religione e le società. Il risultato è il trionfo di una sola particolare conoscenza dell'Islam, di una sola interpretazione.

Facili generalizzazioni

Una visione monolitica del mondo musulmano è il frutto di interpretazioni generiche, facili da immaginare, ma in effetti questo presunto “mondo musulmano” è inesistente nella realtà; è impossibile raggruppare sotto una medesima etichetta di “Islam” tanti paesi culturalmente differenti, dalla Nigeria alla Cina. Said commenta che una confusione così enorme nella copertura delle notizie sarebbe inaccettabile se riguardasse i paesi europei.

Uno dei modi per studiare l'ampio uso delle generalizzazioni è ricorrere all'analisi della comunicazione giornalistica. Negli Stati Uniti e in Europa molti stati islamici e personaggi sono appena conosciuti dalla maggioranza della popolazione, tuttavia in maniera rapidissima possono ritrovarsi al centro dell'attenzione dei media e acquisire lo status di notizia. Il passaggio è molto veloce. Solo poche persone sono in grado di comprendere quel che appare come un fenomeno nuovo, cosicché il termine Islam, dovunque lo incontriamo, tende a essere associato a un'immagine diretta, senza che vi sia un discorso articolato sentito come una spiegazione necessaria: il solo nome denota subito qualcosa al quale si possa far riferimento immediatamente.

Spesso il mondo musulmano è descritto con le caratteristiche tipiche dei paesi totalitari. Ogni volta che vengono espressi tali giudizi sembra che si faccia ricorso alla teoria del contenimento elaborata nel periodo della guerra fredda, quando l'obiettivo degli Stati Uniti era arginare il diffondersi del comunismo nel mondo. Alle società islamiche in genere viene attribuita la presenza di un potere repressivo. Secondo Said questi giudizi sono troppo astratti, rapide prese di posizione su temi estremamente complessi. In Covering Islam sono riportate come esempio frasi di John Kifner («New York Times» – 14 settembre 1980), corrispondente da Beirut, il quale sostenne che nel mondo musulmano non vi è separazione tra stato e chiesa e non vi è distinzione tra religione e vita quotidiana3. Ancora una volta l'Islam è rappresentato come qualcosa di atavico, il regresso da tenere a bada. Insomma, al mondo musulmano vengono associati i mali da esorcizzare, tutto quel che non piace, e poco importata se le analisi non sono accurate. Addirittura George Carpozi, reporter del «New York Post», nel 1979 pubblicò un libro intitolato Ayatollah Khomeini's Mein Kampf nel quale paragona il leader della rivoluzione iraniana a Hitler4.

Disattenzione sulla storia

Tutte le espressioni che definiscono il mondo islamico come arretrato concordano con un'ideologia di fondo: la volontà di modernizzare i paesi non occidentali. Ovviamente portare la modernità è un modo per giustificare l'ingerenza politica ed economica in un paese straniero. Nel ventennio che seguì la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si sforzarono enormemente di modernizzare l'Iran, dove il governo dello Shah era appunto appoggiato ed esaltato per la sua

3 Edward Said, Covering Islam, cit., p. 11-12.4 George Carpozi, 1979, Ayatollah Khomeini's Mein Kampf, New York, Manor Books, cit. in Edward Said, Covering

Islam, cit., p. 43-44.

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DESCRIVERE L’ISLAM

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modernità. Per mostrare come queste idee permangano fino ai tempi recenti, Said cita il giornalista Ernest Conine («Los Angeles Times» – 10 dicembre 1979) nel quale emergono le posizioni dell'orientalismo classico, coloniale. In un suo articolo spiega che la modernizzazione in stile occidentale è stato come un tentativo in buona fede per portare l'Iran e l'Islam fuori dal passato, verso la contemporaneità. Gli iraniani però non hanno apprezzato gli sforzi degli Stati Uniti e dei Pahlavi perché non conoscono il valore della modernità5.

Negli avvenimenti dove sono coinvolti i musulmani si tende ad eliminare il contesto geografico e temporale, come se si potesse interpretare allo stesso modo ciò che accade in Iran, in Palestina o nelle Filippine. C'è la tendenza a trattare l'Islam senza indagare adeguatamente la storia nel suo spessore. Il passato o è ritenuto irrilevante, oppure è utilizzato per rapide spiegazioni, dal momento che violenza, dispotismo e fanatismo sembrano replicarsi uguali nel corso dei secoli. Sull'Islam, quindi, i giornalisti esprimono formule estremamente imprecise. In genere ripetono l'esistenza di un Islam “classico”, supponendo che il modo di vivere islamico sia immodificabile, e trascurano i processi storici. Anche gli esperti accademici, non prendendo in considerazioni i mutamenti dell’Islam nella storia moderna, si focalizzano su un passato risalente al settimo secolo ed erroneamente se ne servono per spiegare gli eventi presenti. Per quanto riguarda questa tematica, della collocazione temporale dell’Islam, Said dimostra apprezzamento nei confronti del lavoro dell’antropologo Johannes Fabian, che ha messo in evidenza nelle ricerche antropologiche la frequente disattenzione sulla storia, da lui definita una negazione della contemporaneità, invitando così a ripensare le “politiche del tempo”, vale a dire le modalità con cui il pensiero occidentale ha collocato l’Alterità culturale in un passato immutabile o, il più delle volte, in un’allocronia che è, di fatto, una naturalizzazione definitiva dell’Altro6.

5 Edward Said, Covering Islam, cit., p. 115-116.6 Johannes Fabian, 1983, Time and the Other: How Anthropology Makes its object, New York, Columbia University

Press; trad. it. 2000, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, Napoli, L'ancora del Mediterraneo.

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CAPITOLO 7

CONTRASTI MEDIATICI

Si tende a dimenticare che tutte le guerre hanno due linee di trincee, due barricate, due apparati miliari. Come la guerra contro l'Islam sembra aver unificato l'Occidente attorno all'opposizione contro l'Islam, così anche la guerra contro l'Occidente ha unificato molti settori del mondo arabo.

(E. Said, Covering Islam, p. 65)

Ostilità televisive

Covering Islam non descrive solamente l'immaginario dei media statunitensi ed europei riguardo ai paesi musulmani. Said commenta anche come venga recepita nel modo islamico l'informazione occidentale. I notiziari prodotti negli Stati Uniti, specialmente dai network satellitari, non sono diretti solamente agli americani, ma sono pensati anche per un pubblico mondiale. Ad esempio, il canale televisivo Cnn è guardato in tutti i paesi, nei più disparati angoli del mondo, anche nelle nazioni antagoniste agli Stati Uniti. Said ricorda infatti che durante la guerra del Golfo del 1991 era noto che perfino il presidente dell'Iraq Saddam Hussein si teneva aggiornato sulle operazioni militari statunitensi guardando il celebre canale satellitare americano1. Tutto il mondo utilizza le informazioni provenienti da poche agenzie giornalistiche. Si verifica così che anche i paesi mediorientali ricevono le notizie sui loro stessi territori da aziende straniere. A Said pare quindi che i paesi occidentali abbiano nelle loro mani il potere di rappresentare il resto del mondo, che detengano la capacità di raccontare gli eventi.

Analizzando la diffusione globale dei media occidentali, in Covering Islam viene esaminato anche come i paesi mediorientali rispondono ai giudizi su di loro formulati. Secondo l'autore entrambe le parti si comportano in maniera erronea poiché si arroccano su posizioni ideologiche, chiuse a ogni dialogo. Per esemplificare questo aspetto, estremamente rilevante nella sua argomentazione, racconta una disputa avvenuta nel 1980 tra l'Arabia Saudita e il Regno Unito, un conflitto causato proprio dalla rappresentazione della religione musulmana. Il 9 aprile in Inghilterra fu trasmesso il film Death of a Princess, prodotto dal regista britannico Antony Thomas2, nel quale si raccontano le esecuzioni di una donna adultera, una principessa saudita, e del suo amante. La trama della fiction riprendeva un fatto realmente avvenuto, la condanna della diciannovenne Misha'al bint Fahd al Saud nel 1977, e l'opera televisiva fu realizzata come un documentario investigativo. Il film provocò subito una forte protesta delle autorità saudite, che lo giudicarono non solo denigratorio della religione islamica, ma particolarmente offensivo nei confronti del loro paese. Dopo un mese dalla messa in onda in televisione, il governo saudita ritirò perfino l'ambasciatore da Londra. L'evento sul quale il film era basato venne considerato solo un pretesto dell'Occidente per giudicare male la religione islamica e la monarchia saudita. Dopo un mese di polemiche, il 12 maggio 1980 il film fu mostrato anche al pubblico statunitense 1 Edward Said, Cultura e Imperialismo, cit., p. 321. Edward Said, Covering Islam, cit., p. 56.2 Antony Thomas, Death Of A Princess, 1980, United Kingdom, Associated Television (ATV).

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CONTRASTI MEDIATICI

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dalla televisione Pbs, ma non in tutti gli Stati Uniti. Alcuni governatori non ne permisero la trasmissione poiché giudicarono l'argomento controverso.

Said non indaga la vicenda della condanna e dell'esecuzione mostrati nel film, intende invece commentare sia le accuse dei sauditi contro il documentario, sia le intenzioni dell'autore. Critica entrambi i comportamenti poiché hanno innescato un conflitto senza alcun dialogo. Secondo Said sia il regista Thomas, sia le emittenti televisive si sentivano nel loro pieno diritto di rappresentare l'Islam, in quanto la possibilità di raccontare è attualmente un potere nelle mani dell'Occidente. Per loro tale prerogativa era indiscutibile, e poco importava se i sauditi siano più ricchi e posseggano maggior capitale economico. Tramite il film hanno voluto mostrare che la produzione e la distribuzione delle notizie di fatto incarnano una forma di potere ancora più influente di quello economico. I sauditi invece accusarono l'opera definendola un grave insulto all'Islam. Criticarono la presunzione dei paesi occidentali e rigettarono per intero il film, senza rilasciare commenti sull'evento in esso raccontato. Le autorità saudite tentarono di controbattere mostrando gli aspetti migliori dell'Islam, ma la mossa non apportò nessun beneficio. Non rese possibile alcun dibattito poiché tale risposta si basava sulla negazione del caso stesso. Secondo Said i sauditi non hanno colto l'occasione per discutere sulla loro società, inoltre dovrebbero rispettare maggiormente le inchieste giornalistiche e abolire il rigido controllo sull'informazione vigente all'interno del loro paese.

Said dunque non condanna il film nel complesso, anzi, secondo il suo parere doveva essere mostrato su tutto il territorio degli Stati Uniti, e non trasmesso in maniera limitata. L'opera aveva il difetto di essere impregnata di rappresentazioni stereotipate e discriminatorie nei confronti dell'Islam, tanto diffuse in Europa e negli Stati Uniti, però avrebbe potuto dar luogo a un serio dibattito sui fatti raccontati. Ciò non avvenne a causa dello scontro ideologico che ne è scaturito3.

A quindici anni dalla realizzazione di Death of a Princess l'arroccamento ideologico sembrava non aver subito modifiche, al punto che nel 1995 la Pbs trasmise il film Jihad in America4 del regista Steven Emerson. L'opera, prodotta un anno dopo l'attentato contro il World Trade Center di New York, rappresenta i musulmani con una visione irreale, esotica e ideologica. Piccoli gruppi di terroristi vengono considerati come se fossero i portavoce della religione musulmana. Per Said il film è nettamente discriminatorio e contro l'Islam poiché rappresenta i fedeli come violenti, sempre pronti ad attaccare occidentali ed ebrei. È quindi un'opera che non fa altro che ripetere erroneamente l'esistenza di una netta separazione tra le culture5.

L'orientalismo riflesso

Said interpreta il conflitto tra i paesi occidentali e orientali sempre in maniera bidirezionale. La contrapposizione agisce non solo nei paesi ritenuti aggressori, ma anche nelle nazioni che occupano il ruolo delle vittime. Gli effetti sono presenti in entrambe le parti. L'opposizione contro la religione musulmana da parte dei paesi occidentali ha unito differenti settori del mondo islamico. Sembra infatti averli accomunati la condivisione di una stessa guerra contro l'Occidente. Coloro che percepiscono tale conflitto tendono a rafforzare la loro identità musulmana per tenere testa allo scontro con una civilizzazione presunta occidentale. Pertanto le generalizzazioni diffuse nel pensiero orientalista vengono riprodotte in maniera speculare anche

3 Edward Said, Covering Islam, cit., p. 69-76.4 Steven Emerson, 1994, Terrorists Among Us: Jihad in America, United States, Pbs.5 Edward Said, Covering Islam, cit., p. 76-79.

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

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da coloro che si riconoscono come vittime. Ad esempio, durante la rivoluzione iraniana settori del clero sciita definirono gli Stati Uniti come il “grande Satana”, portatore di rovina e causa dei mali. Ovviamente Said commenta quanto sia erronea tale affermazione poiché gli Stati Uniti sono una società complessa6. Non si può considerare un paese come un'unica entità aggressiva, così come è sbagliato ritenere l'Islam un blocco compatto.

Settori del mondo islamico tendono a inasprire le proprie posizioni ogni volta che ricevono critiche contro il fanatismo medievale e la crudele tirannia della regione musulmana. La difesa di un'identità islamica diventa pertanto un atto di sfida cosmica, e trincerarsi viene considerata una necessità per la sopravvivenza. Una contrapposizione questa che secondo Said rischia di alimentare la deprecabile tesi dello scontro di civiltà teorizzato da Samuel Huntington7. Sia nei paesi occidentali sia nel mondo islamico è necessario quindi evitare l'uso di formule semplicistiche per inquadrare le appartenenze perché ciò comporta il perpetuarsi di uno sterile conflitto.

Diverse rappresentazioni dell'Islam

Come Said critica l'orientalismo, in maniera analoga invita gli arabi e musulmani a smettere di lamentarsi dell'ostilità dell'Occidente. I paesi mediorientali dovrebbero evitare di considerarsi soltanto delle vittime, ponendosi sempre dalla parte della ragione, oltraggiati ma in rettitudine. Un cambiamento è possibile, ma deve essere intrapreso un ruolo più attivo nella produzione dei significati. Said si augura dunque che gli stati musulmani possano mostrare la capacità di articolare una consapevole immagine di sé, per evitare di essere rappresentati secondo modelli che non appartengono neanche alla loro cultura.

Per contrastare la visione del mondo islamico inteso come un'entità monolitica, presentata dai media, Said mostra come all'interno del pensiero musulmano vi siano molte sfaccettature. In Medio Oriente infatti vi sono numerose realtà che si possono porre perfino all'opposto dei soliti stereotipi diffusi in Occidente. Ad esempio, in Covering Islam viene ricordato il pensiero politico di Alì Shariati, personalità che ha contribuito molto al diffondersi delle idee rivoluzionarie in Iran. Per il noto intellettuale iraniano l'Islam, specialmente quello sciita, è contrario alla passiva sottomissione nei confronti di un'autorità. Nella sua interpretazione la religione si concilia con il continuo sforzo per pretendere un giusto governo ed è legittima la ribellione contro ogni forma di oppressione. Esponendo il pensiero di Shariati, Said intende mostrare come, all'interno dell'Islam stesso, siano sorte idee che si battono per la libertà e la democrazia. La religione musulmana quindi può anche essere l'opposto di come viene spiegata nei media, dato che non è necessariamente connessa al totalitarismo e alla dittatura8. Secondo l'autore nei paesi occidentali le rappresentazioni di un Islam legato all'autoritarismo, alle punizioni e alla teocrazia sono il frutto di una scelta. Si preferisce evidenziare certi aspetti piuttosto di altri perché si ritiene maggiormente utile che il conflitto permanga.

Nell'ambito del pensiero islamico ci sono molti aspetti che differiscono dagli stereotipi raccontati nei media statunitensi ed europei. Se adeguatamente esposte, le diverse realtà possono contribuire a elaborare un'immagine del mondo musulmano meno dipendente dallo sguardo degli occidentali. Said ricorda che c'è una grande varietà di Islam. A seconda delle interpretazioni, la religione sembra giustificare sia il capitalismo che il socialismo, sia la militanza che il fatalismo, 6 Ivi, p. lxvii.7 Samuel Huntington, 1996, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York, Simon &

Schuster; trad. it 2000, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti Libri.8 Edward Said, Covering Islam, cit., p. 67-68.

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sia l'ecumenismo che l’esclusivismo. Ogni stato nazionale, ogni componente della società, sembra rivendicare il proprio Islam. Per l'Arabia Saudita, la religione si concilia con il conservatorismo e l'anticomunismo, per i ribelli dell'Afghanistan significa resistenza contro gli invasori e invece per il libico Gheddafi è terzomondista; c'è un Islam per la Fratellanza Musulmana in Egitto, uno per il partito Baath in Siria e un altro per i Mujahideen in Iran, differenti visioni circolano nelle scuole, nelle moschee, nei partiti, nelle associazioni, nelle università e nei movimenti, vari approcci alla religione cambiano da paese a paese, e c'è differenza tra centri urbani e piccoli paesi9.

Insomma, la situazione è variegata e complessa, e non si può certo dire che la religione musulmana sia un'entità monolitica. I media occidentali invece sembrano focalizzarsi su un solo modo di considerare la fede islamica. In Covering Islam Said ricorda pertanto le opinioni di Mohammed Arkoun, professore di filosofia islamica all'Università Sorbonne di Parigi, il quale ribadisce che il mondo musulmano non è a una dimensione e che negli studi sulle società orientali è doveroso indagare i dettagli10.

9 Ivi, p. 64.10 Ivi, p.117.

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CAPITOLO 8

RACCONTARE LA RIVOLUZIONE IRANIANA

Durante la lunga crisi iraniana fu evidente come non mai quanto agli americani fu fornita costantemente un'informazione sulla gente, sulla cultura, sulla religione – in genere imprecisa e con erronee astrazioni – che sempre, nel caso dell'Iran, rappresentava il paese come militante, pericoloso e antiamericano.

(E. Said, Covering Islam, p. 83)

La rivoluzione iraniana

In Covering Islam un ampio spazio è dedicato alla copertura giornalistica sulla rivoluzione iraniana del 1979 e sul periodo del sequestro degli americani all'interno dell'ambasciata statunitense a Tehran, episodio avvenuto tra il novembre 1979 e il gennaio 1981. In tale arco di tempo, nei giorni della rivoluzione e nei mesi successivi, Said sottopose a rassegna il linguaggio utilizzato dalle televisioni e dai quotidiani statunitensi, che quasi quotidianamente parlavano dell'Iran e dell'Islam descrivendoli in toni caricaturali e con estreme generalizzazioni, cioè secondo le pratiche tipiche dell'orientalismo.

In Iran, dopo mesi di proteste contro la monarchia, nel febbraio 1979 ritornò dall'esilio l'Ayatollah Khomeini, leader carismatico che fu capace di ispirare e guidare la rivoluzione. Inseguito fu redatta una nuova costituzione e venne stabilito un nuovo governo: la repubblica islamica. Il precedente sovrano Reza Pahlavi dovette lasciare l'Iran e, dopo aver risieduto in diversi paesi, trascorse un breve periodo negli Stati Uniti, tra i mesi di ottobre e dicembre 1979. L'ospitalità che l'ex monarca ricevette dal presidente statunitense Carter fu però malvista da una parte del movimento rivoluzionario iraniano. Per protesta il 4 novembre a Tehran un gruppo di studenti prese in ostaggio cittadini americani nell'ambasciata degli Stati Uniti, azione che per la maggior parte delle vittime sequestrate durò oltre un anno, fino al rilascio avvenuto il 20 gennaio 1981.

Gli avvenimenti ebbero molta risonanza negli Stati Uniti. I media americani parlarono spesso di quel che accadeva in Iran, dedicando a questo tema programmi televisivi in prima serata. Specialmente durante il sequestro a Tehran, furono trasmessi numerosi notiziari e dibattiti, con interviste ai parenti degli ostaggi e opinioni sulla politica iraniana. Said fa notare che, prima che tali eventi accadessero, la gran parte degli americani non conosceva quasi nulla della popolazione, della cultura e della religione dell'Iran. Eppure, durante il periodo della rivoluzione e del sequestro, gli avvenimenti vennero presentati quotidianamente, quasi si trattasse di una serie televisiva a puntate. Mai prima di allora un problema internazionale fu mostrato dai media in maniera così istantanea e con tanta regolarità.

La situazione iraniana, con i suoi processi politici, la vita di tutti i giorni, i personaggi, la sua geografia e storia, secondo Said fu trascurata nei media statunitensi. Ad esempio, raramente venne ricordato il regime autoritario e repressivo dell'ultimo Shah, mentre il pubblico riceveva informazioni incomplete, che riducevano la complessità dell’intera questione a una pura partita

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RACCONTARE LA RIVOLUZIONE IRANIANA

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letta in termini pro o contro gli americani. Sui giornali erano quasi assenti sia i riferimenti alla storia del paese sia alle questioni politiche che si svilupparono durante la rivoluzione.

La stampa statunitense

Said nel periodo della rivoluzione sottopose a rassegna i principali quotidiani statunitensi, come «Los Angeles Times», «New York Times», «Atlanta Costitution», «Washington Post», «Wall Street Journal», «Boston Globe». Gli eventi iraniani vennero regolarmente raccontati tramite immagini televisive di folle per le strade, accompagnate dai commenti sull'antiamericanismo. Si mise così in risalto la distanza culturale e le caratteristiche estreme dell'Islam. Il paese fu descritto come pericoloso e la religione musulmana rappresentata come differente e antagonista. Spesso si leggevano e sentivano espressioni fortemente generalizzanti, che denotavano innanzitutto una confusione sull'argomento. L'Islam sciita venne spiegato in maniera molto discutibile, definito un'"ideologia del martirio", oppure ritratto con il “complesso di persecuzione”. Perfino i casi di tortura riscontrati nel paese vennero spiegati all'interno della tradizione iraniana. Il giornalista James Yuenger («Chicago Tribune» – 18 novembre 1979) riportò frasi del tipo “non ci sono i presupposti per discussioni razionali”, gli iraniani “sono votati al martirio” e hanno “la tendenza a cercare un capro espiatorio”1.

Nelle spiegazioni furono messe in evidenza le caratteristiche che sembravano irrazionali, poiché la rivoluzione islamica appariva drammaticamente estranea agli occhi degli occidentali, sia per il linguaggio e sia per la resistenza politica. Ray Mosley («Chigaco Tribune» - 25 novembre 1979) accusò l'Ayatollah Khomeini di aver dichiarato la guerra santa al mondo2 e, con un tono analogo, Edmund Bosworth («Los Angeles Times» - 12 dicembre 1979) si spinse ad affermare che tutta l'attività politica dell'Islam per dodici secoli è consistita nella jihad, la guerra santa3. I giornali e le televisioni si espressero poi con tanta enfasi nel raccontare la figura dell'Ayatollah Khomeini, non solo descritto irrazionale, ma delineandone anche un profilo psicologico, senza tener conto adeguatamente della storia e delle società iraniana; non furono poi analizzate le vicende politiche interne al paese. Il giornalista Don A. Schanche («Los Angeles Times» - 5 dicembre 1979) condannò sinteticamente la nuova costituzione definendola “il più bizzarro documento politico dei tempi moderni”4. Lo spessore della storia fu eliminato e ogni volta nei media venivano ripetuti riferimenti a un'ipotetica “psiche persiana”. In quel periodo giornalisti giudicati da Said incompetenti, come Morton Dean, John Cochran e George Lewis, assunsero il ruolo di “esperti” di fronte agli occhi del pubblico, pur senza saperne molto in sostanza, come confermato dal fatto che la gran parte dei corrispondenti statunitensi in Iran non conosceva la lingua persiana. Riportando un articolo di John Kifner («New York Times» - 15 dicembre 1979), dal quale si apprende che a Tehran erano stanziati non meno di trecento reporter occidentali nel 1979, Said commenta che molti di quegli inviati necessitavano di interpreti5.

Informazione e politica

L'Iran venne rappresentato come un'entità monolitica e tutti i mezzi di informazione si 1 Edward Said, Covering Islam, cit., p. 104.2 Ivi, p. 114.3 Ibid.4 Ivi, p. 117.5 Ivi, p. 103.

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

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espressero offrendo una stessa immagine, coerente e riconoscibile. Secondo Said tale visione era funzionale alle esigenze politiche statunitensi. Soprattutto dopo il sequestro degli americani nell'ambasciata di Tehran, immediatamente i media si sforzarono di creare un clima di consenso nei riguardi degli interessi nazionali. La stampa e le televisioni diffusero notizie in accordo con le politiche del governo degli Stati Uniti, che aveva come obiettivo quello di mantenere unito il paese per poter richiedere il rilascio incondizionato degli ostaggi.

L'autore ricorda che i media sono anche uno strumento diplomatico. Sia gli iraniani che il governo statunitense erano consapevoli che le frasi pronunciate nelle televisioni non sono dirette solo alle persone che vogliono ascoltare le notizie, ma sono rivolte anche ai governi, ai politici, ai partiti. Questo aspetto provoca necessariamente un'informazione di parte, dove permane lo scontro tra fazioni, tra un “noi” contro un “loro”. Spesso le notizie vengono plasmate dagli obiettivi politici. Ad esempio, dopo la rivoluzione furono pubblicate molte riflessioni sulla perdita dell'Iran, opinioni, scrive Said, simili a quelle che furono espresse negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, sulla perdita della Cina, e dopo la guerra del Vietnam, sulla perdita del paese asiatico. Anche nel 1996, dopo la vittoria del partito islamico moderato alle elezioni in Turchia, vennero riportate posizioni sulla perdita del paese. Il giornalista Joseph Kraft in maniera esplicita definì («Washington Post» - 11 novembre 1979) la caduta dello Shah una calamità per l'interesse nazionale degli Stati Uniti6. Said comunque precisa che non intende dire che c'è una diretta collusione tra i media e il governo e rifiuta una teoria del complotto, e ammette che non tutto quel che venne riportato sull'Iran è stato necessariamente distorto da ideologie e dalla politica. Ricorda infatti l'ambasciatore iraniano Mansour Farhang, quando riferì sul sequestro degli ostaggi, ammise una ricostruzione uguale a quella che fu esposta il 5 novembre 1979 dai giornalisti americani durante il MacNeil/Lehrer Report, nota trasmissione della televisione Pbs7.

Un giornalismo onesto

Come appena accennato, non tutta l'informazione diffusa negli Stati Uniti fu di scarso valore. Said riscontrò anche casi di eccellenza, in particolare negli articoli investigativi di Walter Pincus e Dan Morgan pubblicati sul «Washington Post» nel 1980, poiché mettevano in risalto il legame economico tra lo Shah e gli Stati Uniti8. Inoltre giudicò positivamente giornalisti come Richard Falk sull'«Atlanta Constitution», Roger Fisher sul «Newsweek», Doyle McManus su «Los Angeles Times» e di John Kifner sul «New York Times». In Gran Bretagna anche il «Guardian»affidò l'incarico a un inviato competente, David Hirst, conoscitore delle lingue e con molti anni di esperienza.

Specialmente nei quotidiani francesi l'informazione fu in genere più accurata. Said apprezzò infatti gli articoli di Eric Rouleau pubblicati su «Le Monde», giudicandoli completamente differenti dai pessimi interventi di Flora Lewis sul «New York Times». L'Iran nei racconti del giornalista francese sembrava un paese differente rispetto a quello rappresentato dai media americani. Non usò mai l'Islam per spiegare direttamente gli eventi e le persone e non si servì di una retorica mistificante. Fu consapevole della complessità della situazione e pose l'attenzione sul dibattito costituzionale, cioè sulle effettive modalità politiche con cui la rivoluzione veniva portata avanti. «Le Monde» pubblicò anche articoli di Maxime Rodinson, noto orientalista marxista francese, nei quali non vi erano mai frasi sensazionalistiche, e nessuna opinione pro o

6 Ivi, p. 98.7 Ivi, p. 106.8 Ivi, p. 101.

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RACCONTARE LA RIVOLUZIONE IRANIANA

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anti islamica. Un'informazione onesta, senza toni aggressivi e priva di un'ostilità ideologica, è quindi possibile.

Il salvataggio fallito e le ripercussioni sui media

Secondo Said negli Stati Uniti un evento che ha influito sulla copertura mediatica dell'Iran è stato il fallimento dell'operazione militare americana per liberare gli ostaggi. Il sequestro di cittadini statunitensi in Iran, avvenuto il 4 novembre 1979, venne considerato una dichiarazione di guerra e in America si diffuse presto un forte consenso a favore della loro liberazione. Le notizie sugli ostaggi vennero spesso poste in evidenzia sulla stampa e in televisione, insistendo molto sul contrasto tra l'eroismo americano e la barbarie iraniana. Il governo degli Stati Uniti organizzò allora una missione militare aerea con l'intento di liberare le vittime e il 24 aprile 1980 partirono velivoli diretti a Tehran ma, per una serie di errori tecnici, durante il viaggio un elicottero si scontrò contro un aereo dello stesso contingente. Precipitarono entrambi sul suolo iraniano provocando la morte di otto militari statunitensi, cosicché l'operazione fallì e gli ostaggi rimasero sequestrati nell'ambasciata.

L'evento provocò molto clamore negli Stati Uniti e, da quel momento, secondo Said emerse nel paese un sentimento di impotenza nazionale, visibile soprattutto negli articoli di Joseph Kraft sul «Washington Post». Il giornalista infatti cominciò a porre il problema che di fatto vi fossero aspetti della questione non facilmente discernibili, e che quindi un intervento diretto degli americani fosse di fatto impossibile9. Said fa notare dunque che, dopo l'insuccesso, in genere i media modificarono non solo il loro linguaggio, ma anche la scelta degli argomenti da trattare. Prima dell'intervento aereo, televisioni e giornali descrivevano l'Iran come una folla anonima. Erano frequenti le generalizzazioni sull'Islam e sull'irrazionalità della rivoluzione. Non vi erano né analisi sui protagonisti della rivoluzione, né commenti sui politici e sul clero. Insomma, non appariva la complessità politica della vicenda.

Dopo il fallito tentativo di salvataggio dell'aprile 1980, invece, l'informazione cominciò a focalizzarsi maggiormente sulle lotte di potere all'interno del paese. In quel periodo si erano aperte diverse ragioni di conflitto, tra il clero del Partito della Repubblica Islamica presieduto dall'Ayatollah Beheshti, i liberali guidati da Bazergan, i progressisti di Bani-Sadr e i partiti di sinistra non religiosi. Erano presenti in effetti divergenze nella politica iraniana. Bazergan ad esempio si dimise dall'incarico di primo ministro poiché era contrario al sequestro degli americani. Stampa e televisioni statunitensi iniziarono così a trattare delle lotte politiche, specialmente delle divergenze tra Bani-Sadr, laico, e l'Ayatollah Beheshti. Nei media Bani-Sadr fu mostrato a quel punto come il tipo di interlocutore con il quale era possibile trattare, mentre l'Ayatollah Beheshti venne dipinto come il fanatico religioso, al quale furono attribuiti tutti gli aspetti negativi. Eppure, ricorda Said, quando, mesi prima, si era affacciata sulla scena la figura di Bani-Sadr, primo presidente dell'Iran eletto il 25 gennaio 1980, i media statunitensi l’avevano praticamente ignorato.

Le notizie sull'Iran dunque continuarono a essere trasmesse con regolarità, sempre visibili, però cambiarono impostazione, iniziando a raccontare la politica interna del paese. Said riflette su questo mutamento e formula un'interessante considerazione: pare che negli Stati Uniti un tipo di potere venne sostituito con un altro. Presa coscienza del fallimento della missione, e dell'incapacità di intervenire sul territorio iraniano, il potere militare prese il posto di quello dei media. Durante l'occupazione dell'ambasciata americana, un'azione dei militari risultò essere

9 Ivi, p. 101.

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irrealizzabile, impedita da una forza che non poteva essere controllata dal potere americano. Cosicché quella stessa volontà di intervenire, una volta bloccata sul campo militare, secondo Said si riversò nel potere simbolico dell'informazione e della rappresentazione. Da allora sembrò che i media avessero intrapreso una guerra contro l'Iran. Gli Stati Uniti continuarono a sforzarsi di imporre la loro presenza e a contrastare la rivoluzione islamica, però cominciando a utilizzare i media come arma.

Specialmente durante i mesi del sequestro, l'Iran sembrò essere entrato nelle vite degli americani, con una grande intensità. Le notizie erano presentate con martellante costanza, e la loro apparente infinitezza non faceva che alzare ulteriormente il livello dell’ansia delle audience e dei lettori. Con il trascorrere dei mesi, la copertura mediatica divenne quasi una narrazione in grado di vivere autonomamente: sembrò che gli americani nei racconti sull'Iran potessero vedere riflessi se stessi, e in secondo piano osservare quel che succedeva all'estero. Per spiegare questo aspetto quasi paradossale, Said sostiene che certamente in quella fase più americani rispetto al passato comprendevano che cosa significasse una lotta per il potere, ciò grazie alle costanti notizie sul conflitto tra Bani-Sadr e Beheshti, con Khomeini che agiva misteriosamente dietro di loro10.

10 Ivi, p. 132-133.

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CAPITOLO 9

IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE

I sostenitori di Israele hanno capito qualcosa di essenziale alla politica moderna e che per ora è sfuggito agli arabi: vale a dire, che una politica della persuasione e del consenso che si serva dell'informazione e della comunicazione è, sul lungo periodo, assai più efficace di una propaganda insistente basata sulla menzogna e sull'esagerazione. [...] La nostra tragedia è che, come popolo e come cultura, non ci siamo liberati da un modello di potere rozzo, dimenticando che conoscenza, informazione e consenso contano assai più della forza bruta e degli agenti di polizia.

(E. Said, Fine del processo di pace, p. 47-49)

Said e la Palestina

Said nacque nel 1935 a Gerusalemme da genitori entrambi di origini palestinesi e, pur avendo trascorso gran parte della sua gioventù a Il Cairo e poi la sua vita professionale a New York, egli sentì sempre forte il legame con la sua terra natale. Per quattordici anni, dal 1977 al 1991, fu membro indipendente del parlamento palestinese in esilio, il Palestine National Council, al quale aderì per contribuire dall'estero alla lotta dei palestinesi per la difesa dei loro diritti.

Said dedicò molti studi al conflitto israelo-palestinese. Nel 1979 scrisse la sua prima opera dedicata al tema, The Question of Palestine1, libro che pubblicò nuovamente nel 1992 aggiornandone il contenuto, dato che negli anni '80 erano accaduti eventi importanti come la guerra in Libano e il sorgere dell'Intifada. In quel periodo scrisse anche, in collaborazione con il fotografo Jean Mohr, After the Last Sky: Palestinian Lives2.

Specialmente negli anni successivi al 1987, cioè dopo il sorgere della prima Intifada, Said cominciò a entrare in contrasto con le politiche dell'Olp, da lui ritenute troppo accomodanti nei confronti delle pressioni israeliane e statunitensi. Scelse così di dimettersi dal Palestine National Council nel 1991, dopodiché, a due anni di distanza, criticò fortemente gli accordi di Oslo siglati tra il presidente dell'Olp Yasser Arafat e il primo ministro di Israele Yitzhak Rabin. Considerò i documenti redatti una resa per i palestinesi poiché non prevedevano né il ritiro degli israeliani dai territori occupati né soluzioni per i rifugiati.

Negli anni '90 Said, sebbene avesse abbandonato il suo incarico politico, continuò ad esprimere le sue opinioni e pubblicò due raccolte di saggi The Politics of Dispossession: The Struggle for Palestinian Self-Determination, 1969-19943 e Peace and Its Discontents: Essays on Palestine in the Middle East Peace Process4. Negli ultimi anni della sua vita scrisse con

1 Edward Said, 1992, The Question of Palestine, New York, Vintage Books; trad. it. 1995, La questione palestinese. La

tragedia di essere vittima delle vittime, Roma, Gamberetti. 2 Edward Said, 1986, After the Last Sky: Palestinian Lives, New York, Pantheon Books.3 Edward Said, 1994, The Politics of Dispossession: The Struggle for Palestinian Self-Determination, 1969-1994, New

York, Pantheon Books.4 Edward Said, 1995, Peace and Its Discontents: Essays on Palestine in the Middle East Peace Process, London,

Vintage Books.

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regolarità numerosi articoli sul conflitto israelo-palestinese, soprattutto destinati alla stampa araba, e la gran parte dei suoi testi furono poi raccolti in due libri, The End of the Peace Process: Oslo and After5 e From Oslo to Iraq and the Road Map6. Nel 2002, un anno prima della sua scomparsa, aderì al nascente partito Palestinian National Initiative guidato da Mustafa Barghouti, una formazione politica di ispirazione laica, democratica e riformista, che si proponeva alternativa ad Al Fatah e ad Hamas.

Raccontare la storia

Said volle difendere i diritti dei palestinesi raccontando nei minimi dettagli gli eventi passati, in primo luogo per evitare che questi scompaiano dalla memoria. Considerò questo compito una necessità poiché era consapevole che la storia, se raccontata solamente dal potere, difficilmente può rendere giustizia alle tante vittime. Ritenne pertanto necessario svolgere un accurato lavoro di documentazione, affinché le cronache quotidiane sul conflitto israelo-palestinese potessero essere comprese nella loro complessità, senza riduttive semplificazioni ideologiche.

Riprendendo le osservazioni esposte in Orientalism e in Culture and Imperialism, evidenzia come in un contesto di guerra giochi un ruolo fondamentale il potere di descrivere gli eventi. Secondo Said infatti prevarranno sempre coloro che sanno meglio raccontare i fatti, rendendo così la loro versione della storia comprensibile e convincente per un maggior numero di persone. Attualmente, riguardo alla guerra israelo-palestinese sono infatti descritte due storie estremamente contrastanti (come scrisse il 10 gennaio 1999 nel suo articolo Truth and Reconciliation) dal momento che vi è

inconciliabilità tra la narrazione ufficiale sionista/israeliana e quella palestinese. Gli israeliani dicono che la loro è stata una guerra di liberazione e che grazie a essa hanno raggiunto l'indipendenza; i palestinesi affermano che la loro società è stata distrutta e che la maggior parte della loro gente è stata cacciata7.

Comparando queste due storie così diverse, Said critica la condotta di molte fazioni che si scontrano violentemente, incapaci di cogliere i legami sottostanti al conflitto. Se una parte rivendica un passato completamente diverso dall'altra, si innesca un pericoloso processo che contribuisce a inasprire la guerra. Secondo Said lottare per una “Palestina storica” è ormai una causa persa, come lo è per le stesse ragioni il difendere un ”Israele storico”. Se lo scontro è mosso da motivazioni ideologiche, la speranza di una via risolutiva pare lontana perché è precluso ogni dialogo. Condanna quindi tutti coloro che nel conflitto vogliono prevalere con la forza, sia l'esercito israeliano, sia le fazioni palestinesi eccessivamente cruente. Per Said la disputa non potrà mai essere risolta sul campo militare, pertanto invita a riflettere sul passato, cogliendo i legami tra gli israeliani e i palestinesi, senza imporre barriere.

Per Said le due storie non sono affatto inconciliabili, perché entrambe sono segnate dalle stesse sofferenze dell'esilio e dai drammi di guerre e persecuzioni. Nell'articolo Bases for Coexistence del 5 novembre 1997 scrisse che, poiché i due popoli hanno ormai le loro storie intrecciate,

bisogna aspirare dunque a un'idea di coesistenza che rispetti le differenze tra ebreo e palestinese,

5 Edward Said, 2000, The end of the peace process. Oslo and after, New York, Pantheon Books; trad. It. 2002, Fine del

processo di pace: Palestina/Israele dopo Oslo, Milano, Feltrinelli.6 Edward Said, 2004, From Oslo to Iraq and the Road Map, New York, Pantheon Books; trad. it. 2005, La pace

possibile, Milano, Il Saggiatore.7 Edward Said, Truth and Reconciliation, «The New York Times Magazine», 10 gennaio 1999, in Fine del processo di

pace, cit., p. 147.

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ma che – pur nella diversità e nella disparità – rispetti anche la comune storia di lotta e sopravvivenza che li lega. […] Chi, in coscienza, si sentirebbe di equiparare uno sterminio di massa con un'espropriazione di massa? Sarebbe folle anche solo tentare. Eppure essi sono connessi8.

Nell'intervento auspica quindi una politica della convivenza, che preveda un'unica nazione condivisa tra due popoli; conclude spiegando appunto che

l'esperienza degli ebrei e quella dei palestinesi sono storicamente, anzi organicamente, connesse: separarle equivale a falsificare ciò che ciascuna ha di autentico. Per quanto difficile possa essere, dobbiamo pensare insieme alle nostre storie, se vogliamo che ci sia un futuro comune. E tale futuro deve includere, gli uni accanto agli altri, arabi ed ebrei, senza esclusioni, senza schemi basati sul diniego e miranti a lasciar fuori l'una o l'altra parte, teoricamente o politicamente. La vera sfida è questa. Il resto è assai più facile9.

Pur sapendo quanto l'obiettivo sia arduo, e le condizioni sfavorevoli, Said specialmente negli ultimi dieci anni della sua vita considerò il progetto della coesistenza come l'unica soluzione possibile. Sostenne che un solo Stato debba includere entrambi i popoli, un progetto non nuovo dal momento che lui stesso ricordò che già nel periodo fra le due guerre mondiali importanti pensatori ebrei come Judah Magnes, Martin Buber e Hannah Arendt si pronunciarono a favore di uno Stato bi-nazionale10. Affinché ciò si realizzi, più volte ribadì la necessità di considerare il valore della cittadinanza, concetto laico capace di accomunare insieme persone di diversa lingua e religione.

L'hasbara e la propaganda

Individuare nel passato i legami tra le diverse esperienze, seppur contrastanti, è per Said un compito fondamentale, capace di riconciliare i conflitti. Tale insegnamento dovrebbe essere appreso non solo dagli storici ma anche dai giornalisti, dal momento che è necessario raccontare gli eventi in maniera onesta, se non si vuol alimentare la guerra. Riconoscere la dignità alle vittime e le colpe agli assassini, di qualsiasi fronte essi siano, è un modo per iniziare a riportare giustizia in una terra dilaniata dalle ostilità.

Secondo Said invece la storia raccontata degli israeliani sionisti è piena di mistificazioni poiché oscura il trattamento ostile nei confronti dei palestinesi, e proprio per contestare tali ricostruzioni del passato nelle sue opere ricorda innumerevoli volte i drammi patiti dalle vittime. Il problema fondamentale che Said formula però non è rispondere alla domanda perché tutto ciò avvenga, piuttosto come sia possibile che i soprusi siano fatti e perpetuati per così tanto tempo, senza che nel mondo si sollevino considerevoli voci di protesta. Per poter risolvere un tale quesito Said si focalizza sul piano della conoscenza e dell'informazione.

Denuncia gli attacchi delle forze armate israeliane negli insediamenti palestinesi evidenziando, non solo l'efficienza dell'esercito, ma soprattutto la capacità dei governi israeliani di saperne giustificare le azioni agli occhi mondo. Le operazioni contro i palestinesi vengono sempre motivate come se fossero inevitabili, provvedimenti duri ma necessari per arginare la violenza degli arabi e per garantire la sicurezza degli israeliani. Ogni decisione è spiegata con nobili fini, in modo che il paese nell'immaginario comune possa essere considerato un baluardo della democrazia. Di conseguenza, la controparte viene considerata invece sempre mossa dall'odio fanatico, dall'intolleranza e dall'antisemitismo, cosicché i palestinesi e gli arabi sono 8 Edward Said, Bases for Coexistence, «Al-Hayat», 5 novembre 1997, in Fine del processo di pace, cit., p. 102.9 Ivi, p. 103.10 Edward Said, Truth and Reconciliation, cit., in Fine del processo di pace, cit., p. 147-148.

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giudicati fanatici e aggressivi. Queste motivazioni sono state ripetute così tante volte che attualmente l'opinione pubblica mondiale giudica in maniera positiva le politiche israeliane. Said analizza proprio questo aspetto, che è appunto una problematica costante nei suoi studi: quanto sia importante elaborare spiegazioni per poter mantenere il potere. Quel che contraddistingue Israele secondo Said non sono tanto le risorse economiche e belliche, ma è il possesso dell'“apparato propagandistico più imponente e temuto del mondo”11, come lo definisce nell'articolo What Has Israel Done? del 18 aprile 2002. L'arma più potente dei governi israeliani per Said è proprio la propaganda, la capacità di esporre e attribuire un senso accettabile a ogni loro operazione. Nei suoi saggi e articoli infatti Said pone spesso l'attenzione sugli sforzi israeliani di fornire continuamente idee e informazioni a giornalisti, intellettuali e opinionisti di tutti i paesi del mondo. Il 3 luglio 1996 in un articolo intitolato proprio Modernity, Information and Governance scrive che

la preminenza di Israele è innanzitutto la risultante di un lavoro e di un'organizzazione che si sono dati un unico compito: produrre, nel corso del tempo, consenso nei confronti di Israele non solo nelle menti dei suoi cittadini, ma anche di molti americani e arabi. […] Il loro metodo consiste nel tentare di sedurre i consumatori di notizie attraverso l'utilizzo di immagini semplificate e attraenti, fondate su realtà che conquistano l'approvazione con un minimo di resistenza da parte dei lettori di quotidiani e degli spettatori televisivi americani. In cinque decenni Israele ha consolidato la sua posizione di stato amante della pace accerchiato da nemici crudeli che vogliono sterminare gli ebrei12.

Said si focalizza dunque sulla capacità di Israele di ottenere approvazioni attorno alla sua causa poiché, proprio grazie a tale strategia, riesce a giustificare i suoi obiettivi, con qualsiasi mezzo siano perseguiti. Come scrive il 2 novembre 2000 nell'articolo American Zionism - The Real Problem, il consenso acquisito è così influente che

trasforma in vero e proprio merito la persistente punizione e disumanizzazione del popolo palestinese. Oggi quali altri esseri umani al mondo possono venire uccisi in diretta sugli schermi televisivi col beneplacito di gran parte degli spettatori americani, per i quali si tratta di una punizione meritata? È il caso dei palestinesi13.

L'immagine pubblica di Israele secondo Said deve assolutamente essere studiata con attenzione dagli arabi i quali non hanno ancora ben compreso che il paese è forte perché padroneggia gli strumenti della propaganda, in special modo nei media statunitensi ed europei. Rimprovera pertanto quelle fazioni palestinesi che ritengono necessaria la sola lotta armata, ricordando loro quanto sia insensato reagire violentemente, senza poi neanche saper spiegare i motivi delle rivolte. Spiega infatti nell'articolo The Price of Camp David del 19 luglio 2001 che

nemmeno una coraggiosa rivolta anticoloniale si spiega da sola e che ciò che noi (e gli altri arabi) vediamo come espressione del nostro diritto di resistenza all'oppressione può essere presentato da Israele come una forma di terrorismo o di violenza estranea a ogni principio. Nel frattempo, Israele ha persuaso il mondo a dimenticare la sua occupazione violenta e le sue

11 Edward Said, What Has Israel Done?, «Al-Ahram Weekly», 18-24 aprile 2002, in La Pace Possibile, cit., p. 202.12 Edward Said, Modernity, Information and Governance, «Al-Hayat», 3 luglio 1996, in Fine del processo di pace, cit.,

p. 47-48.13 Edward Said, American Zionism - The Real Problem (3), «Al-Ahram Weekly», 7 dicembre 2000, in Fine del processo

di pace, cit., p. 187.

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azioni terroristiche di punizione collettiva contro il popolo palestinese14.

Sollecita pertanto a fronteggiare le politiche israeliane non nel campo militare, ma sul piano della diffusione della conoscenza, poiché in tale conflitto è centrale l'arte della retorica. Il 29 marzo 2001 intitolò un articolo proprio Time to Turn to the Other Front, che in italiano significa “È ora di occuparsi dell'altro fronte”, nel quale per “altro fronte” intende il settore dell'informazione. Invita i palestinesi e il mondo arabo a impiegare le energie su questo tema cruciale, dal momento che c'è un

nesso tra la propaganda che trasforma i palestinesi in terroristi orrendi e fanatici e la facilità con cui Israele, pur perpetrando ogni giorno orribili crimini di guerra, riesce a farsi considerare ancora un piccolo stato coraggioso che si batte contro lo sterminio, nonché a conservare il sostegno incondizionato degli Stati Uniti, finanziato totalmente dall'ignaro contribuente americano15.

Le politiche israeliane per Said traggono forza da questa triplice capacità: descrivere le proprie azioni come positive e costruttive, associare gli oppositori al terrorismo cieco e distruttivo, e mantenere il consenso negli Stati Uniti e in Europa. Nel suo articolo Propaganda and War del 30 agosto 2001 spiega proprio lo stretto legame tra il proseguimento della guerra e l'informazione che la sostiene. Ricorda appunto che

Israele ha già speso centinaia di milioni di dollari per quella che in ebraico si chiama hasbara, ovvero informazione diretta al mondo esterno (in altre parole, propaganda)16.

Tali investimenti riguardano una serie di attività ideate specialmente per i professionisti dell'informazione in tutto il mondo. Scrive Said che giornalisti, politici, professori e studenti sono invitati a partecipare a corsi e seminari dedicati all'attuale situazione di Israele, offrendo loro abbondante materiale informativo. Viene spiegato ai commentatori come parlare del paese attraverso i media, difendendolo dalle opinioni avversarie. Si cerca di indirizzare i fotografi e i cronisti operativi in Medio Oriente affinché presentino certe immagini e non altre. Vengono inoltre acquistati spazi pubblicitari sui giornali di ogni paese. Said considera questa loro strategia vincente poiché

il connubio attivo tra propaganda in Occidente e forza militare sul campo, messo a punto da Israele e dai suoi sostenitori, ha reso possibile il protrarsi della punizione collettiva dei palestinesi17.

La copertura mediatica

Said si concentra dunque sugli effetti della propaganda israeliana nei media di tutto il mondo. È un aspetto cruciale poiché non è casuale che gran parte delle opinioni, specialmente negli Stati Uniti e in Europa, siano estremamente favorevoli alle politiche di Israele. Spiega quanto sia

14 Edward Said, The Price of Camp David, «Al-Ahram Weekly», 19-25 luglio 2001, in La Pace Possibile, cit. p. 115.15 Edward Said, Time to Turn to the Other Front, «Al-Ahram Weekly», 26 marzo-4 aprile 2001, in La Pace Possibile,

cit. p. 86.16 Edward Said, Propaganda and War, «Al-Ahram Weekly», 30 agosto-5 settembre 2001, in La Pace Possibile, cit., p.

124.17 Ivi, p. 129.

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solido il consenso del paese mostrando ad esempio come viene di solito presentato in televisione, in particolar modo dalle personalità illustri. Quando vennero celebrati i cinquant'anni dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1998, Said nel suo articolo Fifty Years of Dispossessionscrisse che i festeggiamenti negli Stati Uniti furono accompagnati da commenti che esaltavano in maniera unanime i meriti della nazione, senza alcuna menzione ai drammi dei palestinesi. La Cbs trasmise in prima serata da Hollywood un programma di due ore, condotto da celebrità dello spettacolo (parteciparono gli attori Michael Douglas, Kevin Kostner, Arnold Schwarzenegger, Kathy Bates e Winona Ryder), durante il quale il presidente Bill Clinton apparve sullo schermo definendo Israele “una piccola oasi” che “ha saputo far fiorire quello che un tempo era deserto sterile” e “costruire una democrazia che cresce rigogliosa su un terreno ostile”18. Said riporta questo evento, e molti altri casi simili, poiché ritiene importante riflettere su come Israele viene definito nei media, dal momento che il consenso si acquisisce proprio grazie a un accurato utilizzo della comunicazione.

Per analizzare quanto la propaganda israeliana sia egemonica, in molti testi Said commenta come viene generalmente rappresentato il conflitto israelo-palestinese in televisione e sui giornali più famosi. Nell'articolo American Zionism - The Real Problem scrive di aver passato in rassegna la stampa statunitense per dimostrare come i fatti vengono raccontati il più delle volte in accordo con gli interessi israeliani. Spiega infatti:

Ho svolto un'indagine sulle principali testate nordamericane. A partire dal 28 settembre [2000], «The New York Times», «The Washington Post», «The Wall Street Journal», «The Los Angeles Times», «The Boston Globe», hanno pubblicato in media uno/tre articoli di commento al giorno. Fatta eccezione per non più di tre articoli di «The Los Angeles Times» scritti da un punto di vista filopalestinese e per due (…) del «The New York Times», tutti gli articoli (…) sostengono Israele, il processo di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti e l'idea che la violenza palestinese, la scarsa cooperazione di Arafat e il fondamentalismo islamico siano da biasimare19.

Il mese successivo, il 14 dicembre 2000, nell'intervento Palestinians Under Siege, riporta poi un paio di sondaggi analoghi, ricordando che

il 25 Ottobre [2000] «Ha'aretz», citando un'analisi condotta dall'Anti-Defamation League sugli articoli di fondo pubblicati dai principali giornali statunitensi, affermava che c'era “una tendenza a sostenere Israele simpatizzando con la sua condizione”, con diciannove giornali che appoggiavano Israele, diciassette che fornivano “un'analisi equilibrata” e soltanto nove “critici nei confronti dei leader israeliani”. Il 3 Novembre [2000] Fairness and Accuracy in Media(FAIR) riferiva che i tre principali network americani avevano trasmesso novantanove servizi sull'Intifada tra il 28 settembre e il 2 novembre, ma che solo in quattro di questi si menzionavano i “territori occupati”20.

Nelle stesso testo sostiene inoltre che, secondo quest'ultima indagine,

il più autorevole quotidiano americano, il «New York Times», ha ospitato solo una volta un opinionista palestinese o arabo (che tra l'altro è un fautore di Oslo) in mezzo a una vera epropria valanga di editoriali sostanzialmente favorevoli alle posizioni americane e israeliane; il

18 Edward Said, Fifty Years od Dispossession, «The Guardian», 2 maggio 1998, in Fine del processo di pace, cit., p. 134.19 Edward Said, American Zionism - The Real Problem (3), cit., in Fine del processo di pace, cit., p. 185-186.20 Edward Said, Palestinians Under Siege, «London Review of Books», 14 dicembre 2000, in La Pace Possibile, cit., p.

33.

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«Wall Street Journal» e il «Washington Post» non hanno fatto neanche questo21.

Said non si limita a riportare la grande quantità delle opinioni sostenitrici di Israele, indaga anche la costruzione delle notizie, facendo notare come vengano selezionati determinati fatti a discapito di altri. Denuncia che la gran parte dei media ripeta frequentemente le notizie degli attentati palestinesi, ponendo tanta enfasi sulla brutalità dei gesti, trascurando però gli attacchi dell'esercito israeliano, annunciati in modo più distaccato. Riferisce che molte volte l'informazione è strutturata in tal modo, ad esempio nell'articolo del 14 marzo 2002 What Price Oslo? ricorda che

l'8 marzo [2002], finora il giorno più cruento per i palestinesi dall'inizio – sedici mesi fa –dell'Intifada, il notiziario serale della Cnn ha riferito che erano morte quaranta “persone”, senza neppure spiegare che tra loro c'erano diversi operatori della Mezzaluna rossa, uccisi quando i carri armati israeliani hanno crudelmente impedito alle ambulanze di raggiungere i feriti. Solo “persone”, e nessuna immagine dell'inferno in cui vivevano in questo trentacinquesimo anno di occupazione militare22.

Molte volte denuncia la scarsa obiettività della maggior parte dei giornalisti, sempre disposti a giustificare le politiche israeliane e a condannare i palestinesi. Critica soprattutto la stampa americana poiché racconta i fatti con una visione fortemente ideologica, senza menzionare la storia e il contesto entro il quale avvengono i drammi dei palestinesi. Nell'articolo Time to Turn to the Other Front scrive appunto che negli Stati Uniti

le testate e i giornalisti più importanti di solito non ammettono opinioni filopalestinesi. Il «New York Times» ha dato spazio due o tre volte a posizioni di questo tipo, contro un'infinità di articoli “neutrali” o filoisraeliani, e lo stesso vale per tutti i principali quotidiani americani. Così il lettore medio viene sommerso da decine di articoli sulla “violenza”, come se tale violenza fosse peggiore degli attacchi israeliani condotti con elicotteri, carri armati e missili. Se è tristemente vero che sul campo un morto israeliano pare valere quanto molti palestinesi, è vero anche che i palestinesi nei media, nonostante le loro sofferenze reali e le loro umiliazioni quotidiane, non sembrano molto più umani degli scarafaggi e dei terroristi ai quali vengono paragonati23.

Nei suoi articoli Said spesso accusa il «New York Times» di essere troppo benevolo nei confronti di Israele, specialmente quando il celebre quotidiano pubblica gli interventi di Thomas Friedman, noto editorialista che non ammette mai le nefandezze commesse contro i palestinesi. Said rimprovera frequentemente molti opinionisti, anche i più celebri negli Stati Uniti e in Europa, giudicandoli negativamente perché sempre pronti a elogiare le ragioni del potere. Nell'opera The Question of Palestine afferma appunto che

gli intellettuali occidentali e israeliani per trent'anni hanno esaltato Israele e il sionismo. Essi hanno impersonato perfettamente il ruolo di “esperti di legittimazione” di cui parlava Gramsci, disonesti e irrazionali nonostante le loro pretese di saggezza e di umanità. […] Qualunque intellettuale che si rispetti è disponibile oggi a levare la sua voce contro gli abusi dei diritti umani in Argentina, Cile, Sudafrica, eppure nulla viene detto nel caso di Israele24.

21 Ivi, p. 34.22 Edward Said, What Price Oslo?, «Al-Ahram Weekly», 14-20 marzo 2002, in La Pace Possibile, cit., p. 191.23 Edward Said, Time to Turn to the Other Front, cit., in La Pace Possibile, cit. p. 85.24 Edward Said, La questione palestinese, cit. p. 118-119.

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La scelta del linguaggio

Analizzando la diffusione e il contenuto delle notizie sul conflitto israelo-palestinese, Said dedica particolare attenzione al linguaggio che viene utilizzato nei discorsi e nei testi. In American Zionism - The Real Problem sostiene che, soprattutto nei principali media statunitensi, è presente una distorsione di stampo orwelliano poiché le parole sembrano aver perduto i loro veri significati25. Un'informazione spiegata con abusi verbali non è corretta, è solamente un modo per assolvere le azioni illegali; nell'articolo Propaganda and War scrive appunto che

per designare questo genere di disinformazione George Orwell utilizzava due termini, “neolingua” (newspeak) e “doppio pensiero” (doublethink) che servono a coprire azioni criminali, come l'uccisione ingiustificata di persone, con una patina di razionalità26.

Said sottolinea dunque quanto siano frequenti le espressioni che intendono disumanizzare i nemici, come denuncia in What Has Israel Done? dal momento che

“smantellare la rete terroristica”, “distruggere l'infrastruttura del terrore”, “attaccate i covi dei terroristi”: simili slogan sono stati ripetuti così spesso che hanno conferito a Israele il diritto di fare ciò che vuole, ovvero, in sostanza, di distruggere la vita civile palestinese27.

I palestinesi e gli arabi sono definiti tramite la denigrazione, associando alle persone parole come “militante” o “presunto terrorista”. Come spiega il 19 dicembre 2002 in Immediate Imperatives, tali termini servono a giustificare la guerra e gli attacchi mirati, cosicché

Israele se la cava impunemente perché i giornalisti usano espressioni come “presunto” o “secondo fonti ufficiose” per coprire la maniera irresponsabile in cui svolgono il loro lavoro di cronisti. Sul «New York Times» in particolare queste espressioni ricorrono talmente spesso nelle cronache dal Medio Oriente (Iraq incluso) che la testata potrebbe ormai chiamarsi “Secondo fonti ufficiose”28.

Nell'articolo Israel, Iraq and the United States del 10 ottobre 2002 scrive appunto che “la formuletta 'sospetto terrorista' funge da giustificazione per qualunque uccisione decisa da Sharon e nel contempo da epitaffio per la vittima”29. Said mostra dunque che certe espressioni sono capaci di nascondere la realtà e il contesto; la parola “terrorista”, ad esempio, è molto utilizzata proprio perché priva di significato le azioni e di umanità le persone. Nello stesso articolo precisa infatti che

vale la pena ricordare che Israele cominciò a ricorrere sistematicamente al termine “terrorista” a metà degli anni settanta, per definire qualunque atto di resistenza palestinese. Da allora, e soprattutto durante la prima Intifada, dal 1987 al 1993, si è regolarmente mirato a eliminare la distinzione tra resistenza e terrore e a spoliticizzare di fatto le

25 Edward Said, American Zionism - The Real Problem (3), cit., in Fine del processo di pace: Palestina/Israele dopo

Oslo, cit., p. 186. Said si riferisce alla lingua descritta nel romanzo di fantascienza scritto da George Orwell: 1949, 1984, London, Harvill Secker, trad. it. 1973, 1984, Milano, Mondadori.

26 Edward Said, Propaganda and War, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 125.27 Edward Said, What Has Israel Done?, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 201.28 Edward Said, Immediate Imperatives, «Al-Ahram Weekly», 19-25 dicembre 2002, in La Pace Possibile, cit., p. 268.29 Edward Said, Israel, Iraq and the United States, «Al-Ahram Weekly», 10-16 ottobre 2002, in La Pace Possibile, cit.,

p. 254.

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motivazioni della lotta armata30.

La scelta del linguaggio è una questione cruciale, poiché da tale processo deriva la capacità di attribuire senso alla realtà, accentuando determinati aspetti e offuscandone altri. In One-Way Street dell'11 luglio 2002 scrive appunto anche che

è come se i palestinesi non esistessero, se non quando viene commesso un attentato terroristico: allora l'apparato mediatico mondiale arriva di corsa a gettare un'enorme coperta soffocante con la scritta “terrorista” sulla loro esistenza di esseri senzienti dotati di una storia e di una società reali31.

Ascoltando i notiziari televisivi inoltre, nell'articolo What Price Oslo? Said osserva che la Cnn

non parla mai di territori “occupati” (ma sempre di “violenza in Israele”, come se i campi di battaglia principali fossero le sale da concerto e i caffè di Tel Aviv e non i ghetti e i campi profughi assediati della Palestina, già circondati da almeno centocinquanta insediamenti israeliani illegali)32.

Per Said infatti i media americani raramente spiegano correttamente i dettagli geografici, ad esempio distinguono tra arabi israeliani e palestinesi, quando in realtà sono lo stesso popolo.

Seguire l'esempio della lotta sudafricana

Secondo Said stampa e televisioni, in particolar modo negli Stati Uniti, quando trattano il conflitto israelo-palestinese forniscono discorsi che mascherano la realtà e gli squilibri, cosicché inevitabilmente coloro che ricevono le notizie acquisiscono una conoscenza distorta. In The Only Alternative dell'1 marzo 2001 afferma che, poiché le informazioni generalmente concordano con le politiche israeliane,

oggi la maggior parte degli spettatori televisivi non sa nulla delle politiche fondiarie razziste di Israele, delle sue spoliazioni, delle torture, della discriminazione sistematica dei palestinesi soltanto perché non sono ebrei33.

Nell'articolo Propaganda and War Said pone attenzione proprio sul problema dell'opinione pubblica, in quanto nota che “l'americano medio non ha la più pallida idea del fatto che esiste una storia di sofferenze ed espropriazioni palestinesi vecchia almeno quanto Israele”34. Nello stesso testo illustra i risultati di una ricerca commissionata dall'American-Arab Anti-Discrimination Committee su come il conflitto israelo-palestinese sia giudicato negli Stati Uniti. Said è impressionato dalle risposte dei suoi concittadini poiché la maggior parte considera Israele un paese all'avanguardia nella democrazia. Durante il sondaggio meno del 3-4% degli intervistati dichiarava infatti di essere al corrente della presenza di un'occupazione illegale, e quasi tutti invece associavano i palestinesi alla violenza e al terrorismo, giudicandoli intransigenti e aggressivi. Esaminata questa indagine di opinione, Said afferma che 30 Ivi, p. 245.31 Edward Said, One-Way Street, «Al-Ahram Weekly», 11-17 luglio 2002, in La Pace Possibile, cit., p. 221.32 Edward Said, What Price Oslo?, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 190-191.33 Edward Said, The Only Alternative, «Al-Ahram Weekly», 1-7 marzo 2001, in La Pace Possibile, cit., p. 75.34 Edward Said, Propaganda and War, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 125.

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la propaganda israeliana ha avuto un tale successo che i palestinesi sembrano davvero possedere poche connotazioni positive, o nessuna. Sono quasi del tutto disumanizzati. Cinquant'anni di propaganda israeliana incontrastata in America ci ha portato a questo punto: noi perdiamo migliaia di vite umane e di ettari di terra senza che alcuna coscienza ne sia turbata, perché non ci opponiamo, non contestiamo seriamente queste terribili falsificazioni con immagini e messaggi nostri35.

Said è dunque fortemente preoccupato della scarsa conoscenza sul conflitto presente tra i cittadini statunitensi. Giudicando tale ignoranza l'effetto di un'informazione costantemente distorta, sostiene la necessità di divulgare notizie più obiettive, per raccontare quanto siano gravi le sofferenze dei palestinesi. Cambiare l'opinione pubblica negli Stati Uniti, in Europa e nel resto del mondo è un compito fondamentale poiché la partita più importante si gioca nel settore della conoscenza, non nel campo militare, come ha dimostrato la vittoria del movimento sudafricano contro l'apartheid.

Nel 1991 e nel 1999 Said visitò il Sud Africa e da entrambi i viaggi trasse insegnamenti che gli consentirono di capire meglio il conflitto israelo-palestinese e di intravedere una possibile soluzione. Innanzitutto cominciò a considerare un obiettivo sbagliato la creazione di due entità statali indipendenti, una per gli ebrei e l'altra per i palestinesi. Vide una stretta somiglianza tra i bantustan sudafricani, ideati in regime di apartheid, e i territori autonomi progettati negli accordi di Oslo, intesi come aree da destinare ai palestinesi all'interno di Israele. Comprese inoltre quanto sia importante la funzione di un'organizzazione che promuova la lotta in maniera coordinata, con pratiche non violente di disobbedienza civile, affinché la rabbia non sfoci in attacchi cruenti, azioni isolate che non portano a nessun risultato. Nell'articolo The Tragedy Deepens del 7 dicembre 2000 scrive infatti che

soltanto un movimento di massa dotato di una tattica e di una strategia che esaltino l'elemento popolare può mettere in difficoltà l'occupante o l'oppressore. In secondo luogo soltanto un movimento di massa politicizzato, permeato dall'idea di una partecipazione diretta a un futuro che contribuisce a creare, ha storicamente una possibilità di liberarsi dall'oppressione e dall'occupazione militare. […] Un gran numero di palestinesi deve interferire nei processi di insediamento, bloccando le strade, impedendo l'arrivo dei materiali da costruzione, in altre parole isolando le colonie invece di permettere che queste, con un numero di abitanti molto inferiore, isolino e accerchino i palestinesi come avviene oggi36.

Affinché tali strategie si possano realizzare, è fondamentale avere l'appoggio dell'opinione pubblica mondiale, ottenibile solamente avviando molte campagne di informazione negli Stati Uniti, in Europa e anche in Medio Oriente, per favorire il dialogo e la comprensione reciproca tra palestinesi e israeliani.

Parlando con i membri dell'African National Congress (Anc) che condussero la lotta per i diritti dei neri, Said apprese appunto come possa essere pianificato un movimento di liberazione all'estero. Durante gli anni '80, in una situazione fortemente svantaggiosa per l'Anc e con molti leader in carcere, i militanti contro l'apartheid capirono che l'unica arma che avevano a disposizione era far condannare il governo sudafricano sul piano morale, ponendo in risalto la dimensione umana e universale della loro causa. Walter Sisulu, personalità di prestigio dell'Anc, nel 1991 così gli raccontò la lotta:

Capimmo che la nostra sola speranza era concentrarsi sull'arena internazionale e lì

35 Ivi, p. 128.36 Edward Said, The Tragedy Deepens, «Al-Ahram Weekly», 7-13 dicembre 2000, in La Pace Possibile, cit., p. 54.

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delegittimare l'apartheid. Ci organizzammo in tutte le principali città occidentali: avviammo comitati, pungolammo i media, tenemmo incontri e manifestazioni, non una o due, bensì migliaia di volte. Organizzammo campus universitari e chiese, sindacati dei lavoratori, uomini d'affari e gruppi professionali. […] Ogni vittoria che registravamo a Londra o a Glasgow, a Iowa City, Tolosa, Berlino o Stoccolma, dava un senso di speranza alla nostra gente in patria, e rinnovava la sua determinazione a non abbandonare la lotta37.

Said ricorda tale discorso nel articolo Strategies of Hope del 25 settembre 1997, poiché da allora comprese quanto sia importante l'attività di propaganda, unico modo per ottenere il consenso dell'opinione pubblica. Ritenne tale strategia necessaria per la lotta dei palestinesi, dal momento che negli Stati Uniti e in Europa è diffusa una pessima conoscenza riguardo al conflitto. Invitò dunque a controbattere l'informazione israeliana organizzando campagne di sensibilizzazione all'estero, specialmente in Occidente, poiché in questi paesi

media, accademie, istituti di ricerca, università, sindacati, chiese, associazioni, e le altre organizzazioni della società civile, giocano nella vita politica un ruolo altrettanto importante a quello del governo centrale38.

Seguendo l'esempio del Sudafrica, nella speranza che partecipazione civile e conoscenza possano alimentare la democrazia, Said propose di isolare moralmente le politiche segregazioniste di Israele, affinché possa realizzarsi una nazione unita che rispetti ugualmente i diritti dei cittadini ebrei e palestinesi. Auspicando questo obiettivo, afferma inoltre il 3 agosto 2000 in One More Chance che “sarebbe un'ottima idea dare vita a una Commissione per la verità e la riconciliazione costituita da israeliani e palestinesi”39.

Informazione e partecipazione

Condurre iniziative nel settore dell'informazione è dunque un compito fondamentale, tuttavia trascurato per troppo tempo dai palestinesi. Secondo Said solamente una volta in passato fu preso seriamente in considerazione il potenziale delle comunicazioni, evento riportato nell'articolo Time to Turn to the Other Front, quando ricorda che durante la guerra in Libano

nel 1982 si riunì a Londra un consistente numero di uomini d'affari e intellettuali palestinesi. L'idea era di contribuire ad alleviare le sofferenze dei palestinesi e organizzare una campagna d'informazione negli Stati Uniti: la resistenza dei palestinesi sul campo e l'immagine dei palestinesi erano considerate due fronti di uguale importanza. Con l'andar del tempo, però, il secondo fronte è stato del tutto abbandonato per ragioni che continuo a non capire40.

Said si rammarica dunque che stessi palestinesi non abbiano saputo catturare l'immaginazione mondiale, e critica in primo luogo i leader arabi di non essersi mai impegnati al riguardo. Denunciò in One-Way Street che questa incapacità è uno dei motivi delle tante sconfitte poiché

37 Edward Said, Strategies of Hope, «Al-Hayat», 25 settembre 1997, cit., p. 94-95.38 Edward Said, La questione palestinese, cit., p. 239. La Truth and Reconciliation Commission fu istituita in Sud Africa

nel 1995, dopo la fine dell'apartheid. Fu un tribunale straordinario costituito per registrare le testimonianze delle vittime, prevedendo la possibilità di concedere l'amnistia a coloro che ammettevano le colpe.

39 Edward Said, One More Chance, «Al-Ahram Weekly», 3-9 dicembre 2000, in Fine del processo di pace, cit., p. 179. 40 Edward Said, Time to Turn to the Other Front, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 86.

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insieme, la propaganda israeliana, il disprezzo antiarabo degli Stati Uniti e l'incapacità degli stessi arabi (e dei palestinesi) di formulare e rappresentare gli interessi del proprio popolo hanno condotto a una disumanizzazione generalizzata dei palestinesi41.

Dal momento che le condizioni sono sfavorevoli per i palestinesi, propose come unica strategia plausibile di rivolgersi alla società civile di tutto il mondo, in primo luogo ebraica, dentro e fuori di Israele. Nell'articolo These Are the Realities del 19 aprile 2001 invita infatti a dialogare con i settori migliori del paese, con le “centinaia di riservisti che hanno rifiutato di prestare servizio miliare durante l'Intifada”42 e con gli “individui e gruppi eroici come i Rabbis for Human Rights e il movimento contro le demolizioni di case guidato da Jeff Halper”43.

È importante, nella visione prospettata da Said, non considerare Israele come un'entità monolitica, in quanto il paese è composto da realtà disparate, anche disponibili al confronto. Said insiste affinché i palestinesi instaurino legami con gli ebrei, i cittadini israeliani e la società civile nel mondo, poiché il dialogo e la conoscenza reciproca sono il primo passo verso il riconoscimento dei diritti. Nel 1996, durante un suo viaggio in Palestina, volle appunto conoscere meglio le organizzazioni dedite alla diffusione delle notizie. Incontrò Ghassan Khatib, fondatore del Jerusalem Media and Communications Center, un ente palestinese che offre informazioni al giornalisti stranieri, e Michael Warschawski, direttore dell'Alternative Information Center, un'organizzazione israeliana che insieme ai palestinesi intende praticare un giornalismo schierato contro le discriminazioni44. Conobbe anche esponenti della società civile palestinese come Hassan Barghouti, segretario del sindacato Democracy and Workers Rights Center45, e Raja Shehadeh, fondatore di Al Haq, un'organizzazione palestinese per la difesa dei diritti umani46.

Seguendo l'esempio della lotta sudafricana, invita dunque coloro che intendono migliorare il paese a mobilitare la società civile e gli intellettuali in tutto il mondo, in modo che un numero crescente di persone possa comprendere la drammaticità della situazione. Molte volte Said nei suoi articoli elogia il coraggio di quei giornalisti che raccontano all'estero le sofferenze dei palestinesi. Apprezza Robert Fisk, corrispondente dal Medio Oriente dell'«Independent», e sullo stesso quotidiano gli interventi di Phil Reeves, invece sul «Guardian» ammira quelli di David Hirst47. Reputa ottimi gli articoli di John Pilger e la partecipazione attiva dell'italiana Luisa Morgantini, ma più di tutti elogia la giornalista Amira Hass del quotidiano israeliano «Ha'aretz», per il quale descrive la cronaca delle città palestinesi e dei territori occupati.

Alla fine degli anni '90, negli ultimi anni della sua vita, Said conobbe anche il crescere della diffusione di Internet nel mondo delle comunicazioni. Ne apprezzò le potenzialità poiché offre la possibilità a un gran numero di persone di ottenere molte informazioni, grazie alla facilità con cui si possono trasmettere, riprodurre e conservare. Scrive infatti in Palestinians Under Siege che, sebbene vi siano un

controllo paralizzante dei media negli Stati Uniti e (in minor misura) in Europa e la pesante censura vigente nel mondo arabo, ora su Internet è disponibile un'enorme quantità di

41 Edward Said, One-Way Street, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 221.42 Edward Said, These Are the Realities, «Al-Ahram Weekly», 19-25 aprile 2001, in La Pace Possibile, cit., p. 89.43 Ivi, p. 9044 Edward Said, Perduti tra guerrra e pace, “The London Review of Books”, settembre 1996, in 1998, Tra guerra e

pace. Ritorno in Palestina-Israele, Milano, Feltrinelli, p. 69-7545 Ivi, p. 66-68.46 Ivi, p. 83.84.47 Edward Said, Palestinians Under Siege, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 48.

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informazione alternativa. Cyberattivisti e hackers hanno reso accessibile una gran copia di materiale a chiunque sia minimamente alfabetizzato in campo informatico48.

La possibilità di ricevere notizie slegate dagli interessi dei governi aiuterà a conoscere meglio il conflitto israelo-palestinese. Nell'articolo What Has Israel Done? infatti ricorda che

nonostante i tentativi di Israele di limitare la copertura mediatica della sua invasione devastante delle città e dei campi profughi palestinesi in Cisgiordania, informazioni e immagini sono ugualmente circolate. Centinaia di testimonianze dirette, verbali e visive, sono state diffuse via internet, ma sono comparse anche nelle tv arabe ed europee, mentre non sono state diffuse dai media americani principali49.

Said esalta anche il potenziale liberatorio di internet, specialmente riflettendo sull'introduzione delle connessioni in Palestina. Giudicò infatti positivamente la realizzazione di un laboratorio informatico in Cisgiordania nell'Ibdaa Center, uno strumento utile per far comunicare tra loro i rifugiati palestinesi50.

Divulgare un'informazione onesta e instaurare ponti tra persone e culture sono compiti importanti, capaci di favorire la convivenza pacifica, e passi di un cammino che potrà condurre, si augura Said, verso uno stato bi-nazionale. Solamente coltivando i legami tra le differenze, tra ebrei e palestinesi, sarà possibile raggiungere questo arduo obiettivo, come afferma al termine di un'intervista rilasciata nel 2000 al giornalista dell'«Ha'aretz» Ari Shavit.

Edward Said: Adorno sostiene che nel XX secolo l'idea di casa sia passata di moda. Credo che parte della mia critica al sionismo sia rivolta proprio a quel suo attribuire troppa importanza alla casa. Quell'affermare “noi abbiamo bisogno di una casa” e “faremo qualsiasi cosa per ottenerla anche se questo significa toglierla ad altri”. Perché crede che io sia così interessato allo stato bi-nazionale? Perché desidero un qualche tessuto sociale talmente ricco che nessuno possa interamente comprendere e nessuno possa del tutto possedere. Non ho mai capito l'idea del “questo è il posto mio e tu restane fuori”. Non amo tornare all'origine, alla purezza. Penso che i maggiori disastri politici e intellettuali siano stati provocati da movimenti riduttivi che tentano di semplificare e purificare. Che dicevano: “Dobbiamo piantare tende o kibbutz o eserciti e cominciare da zero”. Non credo in tutto questo. Non lo desidererei per me stesso. Anche se fossi ebreo, mi ci opporrei. E non durerà. Mi creda, Ari. Mi prenda in parola. Sono più anziano di lei. Non ne resterà memoria.Ari Shavit: Sembra molto ebraico quello che dice.Edward Said: Certamente. Io sono l’ultimo intellettuale ebreo. Non ne conosco altri. Tutti i vostri altri intellettuali ebrei oggigiorno sono dei gretti signorotti di provincia. Da Amos Oz a tutti questi qui in America. Dunque sono l’ultimo. L’unico vero continuatore di Adorno. Mettiamola così: sono un ebreo-palestinese51.

48 Ibid.49 Edward Said, What Has Israel Done?, cit., in La Pace Possibile, cit. p. 201.50 Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 154-155. Purtroppo l'iniziativa, costruita nell'ambito del

progetto Across Borders, dopo poche settimane nell'agosto del 2000 fu distrutta da un attacco vandalico, evento estremamente negativo che fece tornare i residenti nell'isolamento.

51 Edward Said, My Right of Return, «Ha'aretz Magazine», 18 agosto 2000, pubblicato in: Edward Said, 2004, Power, Politics and Culture, London, Bloomsbury Publishing, p. 457-458. Articolo tradotto in italiano, 2007, Il mio diritto al ritorno. Intervista con Ari Shavit, Ha'aretz Magazine, Tel Aviv 2000, Roma, Nottetempo, p. 47-48.

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PARTE 3

GLI INTELLETTUALI

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GLI INTELLETTUALI

In questa sezione prendiamo in esame il ruolo degli intellettuali, questione cruciale per Said poiché, essendo la società pervasa dalle rappresentazioni, sono proprio gli intellettuali a dover gestire una posizione centrale, grazie alla loro capacità di operare nel campo delle narrazioni. L'argomento è collegato ai temi trattati in precedenza, ovvero cultura, potere e media, dal momento che il nostro Autore invita sempre a non ricevere in maniera passiva le informazioni che ci vengono offerte. Giudica intellettuali coloro che rielaborano la conoscenza, agendo così in maniera attiva nella società, appunto quel che esorta a fare Said. Dal momento che la cultura e il mondo dei media, che è parte di essa, sono composti da interpretazioni, è necessario soffermarsi sugli intellettuali, poiché questi hanno coltivato maggiormente l'abilità di formulare ed esporre discorsi.

Riflettendo sulla produzione culturale nel suo complesso, Said esalta il valore dell'umanesimo poiché non induce a cercare spiegazioni in concetti astratti, in quanto ogni idea e pensiero derivano necessariamente dalle attività umane. Nel 2000 preparò un ciclo di conferenze sul tema dell'umanesimo, pubblicate postume in Humanism and Democratic Criticism1, nelle quali spiegò quanto tale filosofia possa essere importante oggi per meglio comprendere il mondo e per rafforzare i valori democratici. Dal momento che le rappresentazioni sono sempre incarnate nella società entro la quale sono prodotte, ogni volta che si giudicano gli intellettuali non bisogna dimenticare la rete di relazioni che li sostiene e, quando si prendono in esame le culture, mai trascurare i processi storici che le hanno prodotte.

Said afferma che le culture, essendo il frutto di situazioni ben determinate, sono sempre immerse in quella che lui chiama mondanità, e pertanto non devono mai essere considerate isolate, poiché sono sempre legate le une alle altre. Secondo questo principio, le varie culture del mondo, benché siano lontane tra loro e molto diverse, si richiamano reciprocamente, così come nel campo della musica classica avviene nel contrappunto. Un aspetto del pensiero di Said è proprio dedicato a tale concetto, l'invito a interpretare le opere culturali in maniera comparata, mantenendo sempre aperta la possibilità del dialogo. Il fascino di tale visione può essere apprezzato specialmente da coloro che non sentono di appartenere completamente a nessun luogo, vivendo perennemente esuli, come dovrebbero essere secondo l'autore gli intellettuali.

Benché comporti sofferenze, Said considera l'esilio un valore, dato che offre una prospettiva privilegiata sul mondo; invita pertanto gli intellettuali a mantenersi il più possibile autonomi, non attratti da benefici immediati e slegati dai potenti di turno. Tali riflessioni furono esposte da Said nel 1993 durante le Reith Lectures, le celebri conferenze radiofoniche della Bbc, per le quali decise di trattare proprio l'argomento delle rappresentazioni degli intellettuali2. In quei discorsi sostenne quanto sia importante prendere parte attivamente alla sfera sociale, specialmente per gli intellettuali, affermando che il loro ruolo dovrebbe essere sempre pubblico, senza alcun timore di esporre le proprie opinioni.

Secondo Said gli intellettuali, quando non allineati con il potere, sono in grado di mostrare 1 Edward Said, 2004, Humanism and Democratic Criticism, New York, Columbia University Press; trad. it. 2007,

Umanesimo e critica democratica, Milano, Il Saggiatore.2 Edward Said, 1994, Representations of the Intellectual: The 1993 Reith Lectures, Vintage; trad. it. 1995, Dire la

verità. Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli.

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che è possibile controbattere le ragioni maggiormente diffuse, di solito ripetute da coloro che detengono il comando. In particolar modo gli umanisti, grazie alle loro competenze nell'analisi del linguaggio, sono importanti per la resistenza che svolgono, in quanto possono smascherare i discorsi dei media, rendendo palesi le eventuali menzogne, e offrire spiegazioni alternative.

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CAPITOLO 10

L’UMANESIMO

La riflessione umanistica deve spezzare la dipendenza dal formato breve, dal sommario, dalla citazione fuori dal contesto e cercare di introdurre invece un processo di riflessione, ricerca, discussione informata che sia in grado di vagliare a fondo l'argomento in oggetto.

(E. Said, Umanesimo e critica democratica, p. 99)

I valori dell'umanesimo

Nelle sue opere Said sostiene la necessità di considerare i valori dell'umanesimo, rivalutando tale concetto sia come pratica negli studi letterari sia più in generale nel pensiero politico. Secondo il suo parere può contribuire a rafforzare le riflessioni critiche e a rigenerare la democrazia; ne esalta il valore mettendo in evidenza la sua natura di potenziale antidoto contro le semplificazioni dell'informazione giornalistica e per arginare i pericoli del nazionalismo.

Nel 2004 fu pubblicato il primo libro postumo, Humanism and Democratic Criticism1, in cui sono raccolte le osservazioni di Said in merito agli studi letterari. Il testo comprende una raccolta di tre conferenze tenute alla Columbia University nel gennaio 2000, un saggio dedicato all'opera di Erich Auerbach Mimesis e l'articolo The Public Role of Writers and Intellectuals, scritto per un intervento alla Oxford University svoltosi nel settembre 2000.

La convinzione di Said è chiara: l'umanesimo non è composto da concetti impersonali, da ideali astratti, al di fuori della realtà sociale, al contrario è un processo da coltivare di continuo, un'attitudine che si persegue osservando le azioni umane con spirito critico. Ricorda l'origine di questo pensiero e i valori a esso connessi quando scrive che

nel cuore dell'umanesimo si trova la convinzione, laica, che il mondo storico è fatto dagli uomini e dalle donne, e non da Dio, e che può essere compreso razionalmente secondo i principi formulati da Vico nella Scienza nuova2. Secondo questi principi, possiamo realmente conoscere solo ciò che facciamo, o, per dirlo in altri termini, possiamo conoscere le cose in base al modo in cui sono fatte3.

Said considera Giambattista Vico importante poiché sostenne che tutte le idee sono incarnate negli individui umani e, di conseguenza, sono strettamente legate alla storia reale, e mutano con il tempo. Egli contestò così il pensiero di Cartesio, che riteneva possibile l'esistenza di idee chiare e distinte, svincolate sia dalla mente che le pensa sia dal contesto storico. L'apporto di Vico è quindi rilevante poiché induce a considerare la realtà dal punto di vista dell'artefice umano. Said, traendo insegnamenti dal suo pensiero, afferma che bisogna sempre sforzarsi di ripercorre le origini umane e storiche degli avvenimenti, senza alcuna necessità di cercare 1 Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit..2 Giambattista Vico, 1977 [1725], La scienza nuova, Milano, Rizzoli.3 Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 40.

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spiegazioni in concetti astratti. Poiché il mondo contemporaneo è estremamente mutevole e non può essere incasellato in categorie rigide e ideologiche, l'umanesimo, grazie alla sua predisposizione nei confronti del cambiamento, secondo il parere di Said è attualmente il miglior modo per valutare la realtà.

La resistenza umanistica

Notando che le materie letterarie attualmente tendono a essere marginalizzate, essendo sempre di più richiesti saperi tecnocratici ed efficientisti, Said riflette su come l'umanesimo possa essere rivalutato. Sostiene che non bisogna considerare tale studio un sapere nozionistico, pertanto invita a

intendere la pratica umanistica come parte integrante e funzionale di questo mondo e non come un abbellimento e un esercizio di nostalgica rievocazione del passato4.

L'umanesimo per Said trae vitalità dal linguaggio, dall'uso appropriato e dall'analisi dei contenuti dei testi, cosicché analizzare la comunicazione dei media, ad esempio, può divenire un compito degli studi letterari. Dal momento che televisioni e giornali riportano le informazioni mostrandole come fossero certezze, sotto forma di uno spettacolo da consumare immediatamente, l'umanesimo ha il merito di stimolare il sorgere delle domande, del dubbio. Grazie al lavoro letterario si possono indagare i contenuti dei discorsi, riportando in luce tutto ciò che viene tralasciato, contestando così tutte quelle sintesi eccessive e fuorvianti che, nonostante siano inadeguate, purtroppo sono adoperate comunemente. Una riflessione consapevole esercitata sul significato dei testi costituisce quindi l'opposto della ricezione passiva e, come afferma Said:

in questo, appunto, consiste l'atto di resistenza: nella capacità di distinguere tra quello che può essere colto direttamente e quello che risulta essere nascosto5.

L'umanesimo può così controbattere l'informazione giornalistica, agendo come una tecnica di disturbo; è in effetti una pratica di resistenza poiché si oppone alle strategie esercitate da coloro che intendono fornire immagini rapide e preconfezionate. Permette di interrogare quel che viene raccontato, in modo tale da mettere in discussione

ciò che ci viene presentato sotto forma di certezze già mercificate, impacchettate, epurate da ogni elemento controverso e acriticamente codificante6.

Durante le conferenze sopra citate Said ricordò alcune espressioni molto diffuse nelle televisioni e nella stampa. I media spesso ripetevano la definizione di "intervento umanitario", cioè la motivazione con cui la Nato giustificò le azioni militari nei Balcani nel 1999, il termine"asse del male", cioè l'insieme dei paesi non sottomessi agli Stati Uniti, o frasi del tipo "l'Iraq possiede armi di distruzione di massa e rappresenta una minaccia", asserzione riportata acriticamente7. Anche le semplici parole "guerra" o "pace" meriterebbero di essere spiegate ogni volta, elencando gli elementi che le caratterizzano e i significati sottostanti, altrimenti risultano

4 Ivi, p. 80.5 Ivi, p. 101.6 Ivi, p. 57. 7 Ivi, p. 36-37.

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essere termini vuoti. Tutte queste espressioni, così rapide da sembrare spettacolari, secondo Said dovrebbero essere ogni volta discusse, convalidate o contestate, secondo modalità critiche che traggono beneficio dall'analisi letteraria, poiché "la resistenza umanistica, al contrario, ha bisogno di forme più distese, di saggi e di lunghi periodi di riflessione"8. Posto di fronte a un linguaggio che si mostra compatto e coerente, l'umanista può attuare pratiche di resistenza grazie alla sua capacità di inquadrare i testi nel contesto entro il quale sono prodotti.

Contro il canone

Said si serve dell'umanesimo, della sua visione laica che considera le società in perenne movimento, per criticare alcune opinioni diffuse nelle università statunitensi nei riguardi delle discipline letterarie. Contesta i sostenitori del conservatorismo culturale, coloro che intendono difendere le radici della cultura occidentale arroccando le discipline entro confini ben delimitati.

In Humanism and Democratic Criticism Said ricorda che nel 1937 alla Columbia University fu fondato il corso "The Humanities", nel quale venivano insegnati i classici della cultura occidentale come Omero, Erodoto, Eschilo, Euripide, Platone, Aristotele, Virgilio, Dante, Agostino, Shakespeare, Cervantes e Dostoevskij. Said sostiene l'importanza dello studio di questi autori affinché gli studenti acquisiscano una completa conoscenza di base. Non condivide invece le celebrazioni eccessive dei testi e degli autori, quando vengono considerati "sacri", poiché la troppa riverenza è utilizzata per esaltare la “cultura occidentale”, entità presupposta omogenea e coerente dalle radici fino alla contemporaneità.

Said critica le opinioni di Allan Bloom, autore dell'opera Closing of the American Mind9, il quale critica l'introduzione nelle scuole di insegnamenti eccessivamente relativisti, da lui ritenuti banali prodotti della cultura popolare. Quel che comunemente è considerata un'apertura, cioè l'accettazione di nuove teorie nei programmi scolastici, nel saggio di Bloom, al contrario, viene giudicata una chiusura mentale. Said è fortemente critico verso tali considerazioni perché le ritiene pervase da un moralismo riduttivo che induce ad arroccarsi entro confini impermeabili.

Considera Allan Bloom, e gli altri sostenitori del conservatorismo culturale come William Bennett10 e Samuel Huntington11, il sintomo evidente del fatto che stanno riemergendo idee reazionarie e retrive che già furono diffuse dai New Humanists durante gli anni trenta negli Stati Uniti. Tali autori, consacrando lo studio della letteratura all'insegnamento di determinate opere, intendono difendere la cultura occidentale; vogliono tramandare i valori a questa connessa, virtù da loro ritenute sempre valide e immutabili. Difendono un cosiddetto "canone ufficiale" e giudicano nefasto l'emergere di una serie di materie, ad esempio i nuovi corsi sugli studi di genere, etnici, gay, culturali e postcoloniali. Considerano questi campi una degenerazione delle discipline umanistiche e, di conseguenza, hanno elaborato teorie autodifensive. L'avanzare della cultura popolare è ritenuta una minaccia nei confronti della centralità dei grandi testi letterari, così come l'eterogeneità di nuove e ribelli teorie in filosofia, linguistica, politica, psicanalisi, antropologia. Questo atteggiamento, chiuso verso le contaminazioni, secondo Said considera la cultura in termini aristocratici, come patrimonio di una ristretta élite di autori. Il respingimento

8 Ivi, p. 99.9 Allan Bloom, 1988, Closing of the American Mind, New York, Simon & Schuster; trad. it. 2009, La chiusura della

mente americana, Torino, Lindau.10 William Bennett, 1993, The Book of Virtues: A Treasury of Great Moral Stories, New York, Simon & Schuster; trad.

it. 1996, Il libro delle virtù. Il tesoro morale dell'umanità, Milano, Neri Pozza.11 Samuel Huntington, 1996, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster; trad. it

2000, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti Libri.

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di nuovi studi sembra voler dire che troppe categorie scomode di persone sono comparse nella società, e pretendono perfino di parlare.

L'umanesimo è democratico

Per contrastare il conservatorismo che tende a diffondersi nel mondo della cultura è necessario l'umanesimo che, essendo fondamentalmente democratico, si dirige in senso opposto. L'umanesimo è contrario alla supremazia di un minuscolo gruppo di autori e lettori selezionati e approvati, non considera l'istruzione un modo per far emergere un'élite di persone alla quale affidare la conservazione del sapere. Del resto, è assurdo credere che gli studi letterari siano una pratica disciplinare esclusivamente occidentale, tant’è che l'umanesimo è un movimento inclusivo, poiché secondo Said induce a considerare la “storia umana come un processo continuo di autocomprensione e autorealizzazione, non solo per noi, maschi, europei e americani”12.

I conservatori nel campo della cultura come Bloom, definito da Said “il culmine dell'anti-intellettualismo americano”13, invece difendono la cultura elencando proibizioni: gli studi umanistici però non dovrebbero implicare nessuna barriera. L'umanesimo si alimenta grazie all'inclusione, e pertanto deve essere inteso come

democratico, aperto a tutte le classi e a tutte le provenienze e come un processo di rivelazione e scoperta senza fine, un processo di autocritica e di liberazione14.

L'umanesimo, poiché si mostra aperto sia nei confronti dei mutamenti storici sia nei rapporti con l'alterità, può aiutare a contrastare la collocazione della letteratura entro confini nazionali. I conservatori nel campo della cultura, vale a dire coloro che considerano il patrimonio culturale situato nella mente di pochi autori selezionati con cura, tendono ad associare ogni opera letteraria direttamente con l'autore, e a legare quest'ultimo in maniera quasi naturale al luogo di provenienza. Per loro ogni scrittore è collocabile su un suolo, e perciò ammettono l'esistenza di una letteratura nazionale ben definibile. Al contrario, secondo Said bisogna rivedere il concetto secondo cui si associa in maniera semplicistica la letteratura a un determinato contesto nazionale. Gli oggetti letterari, le critiche, i romanzi non hanno un'esistenza stabile e bene identificabile perché "le nozioni di opera, autore e nazione non sono più le affidabili categorie di un tempo"15. Coloro che difendono le culture nazionali, o esaltano la letteratura di un popolo, hanno certamente interessi politici, e a riguardo di questi usi bisogna essere sempre cauti.

A volte però anche l'umanesimo rischia di porsi al servizio del nazionalismo, ad esempio nei contesti coloniali. In questi casi la rinascita delle lingue e delle culture, che prima erano oppresse, secondo Said può essere spiegata entro le logiche della liberazione. Non dimentica però di osservare che bisognare stare in guardia quando quel nazionalismo, che prima ha portato all'indipendenza di un paese, tende in un secondo momento a prevalere, poiché sfocia facilmente nella xenofobia e nell'intolleranza. Per questa ragione, Said avverte dunque che è sempre pericoloso formulare teorie sull'identità, dato che ciò "ha provocato più problemi e sofferenze

12 Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 56.13 Ivi, p. 48.14 Ivi, p. 51.15 Ivi, p. 68.

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che vantaggi, soprattutto quando associata alla cultura umanistica, alle tradizioni, all'arte"16. Pertanto, uno dei compiti dell'umanista è saper utilizzare il piano estetico per mettere in discussione, riesaminare e resistere al nazionalismo.

Said inoltre spiega che l'umanesimo dovrebbe essere valorizzato perché aiuta a comprendere le società contemporanee. Tutte le nazioni sono demograficamente e culturalmente eterogenee; i flussi migratori, le comunicazioni telematiche e intercontinentali, la globalizzazione economica hanno riempito i territori con un'enorme varietà di elementi, provenienti da molti paesi. Il mondo è sempre più integrato, cosicché anche nel campo delle opere culturali, sia la produzione sia il consumo interessano un pubblico nuovo e variegato. Dunque, dal momento che l'approccio dell'umanesimo insegna che le idee non possono essere mai separate dal mondo della storia e del lavoro umano, non è possibile considerare una cultura legata interamente a un territorio nazionale, perché essa è sempre in viaggio.

16 Ivi, p. 103.

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CAPITOLO 11

IL CONTRAPPUNTO

Abbiamo a che fare con la formazione di identità culturali intese non come essenze date (nonostante parte del loro perduto fascino è che esse sembrino e siano considerate tali), ma come insiemi contrappuntistici, poiché si dà il caso che nessuna identità potrà mai esistere per se stessa e senza una serie di opposti, negazioni e opposizioni.

(E. Said, Cultura e imperialismo, p. 77)

La musica

Prendendo in prestito un'espressione che deriva dal linguaggio della musica classica, Said invita ad avvicinarsi alla cultura con un approccio fondato sul contrappunto. Il termine indica il tipo di composizione che si realizza quando numerose voci si imitano l'una con l'altra1, così come avviene ad esempio nelle fughe di Bach. In modo analogo ritiene che si debba esaminare il campo della cultura, dal momento che è sempre necessario comparare esperienze differenti. Benché le varie espressioni possano sembrare lontane, coesistono e interagiscono reciprocamente. Per spiegare il concetto, applicandolo ad esempio allo studio della storia, Said scrive che

per trovare i nessi tra il rituale dell'incoronazione in Inghilterra e le cerimonie presso le corti indiane della fine dell'Ottocento, è necessario assumere un'ottica comparata o meglio contrappuntistica2.

Le pratiche culturali per essere comprese devono essere considerate in relazione con i moltissimi elementi circostanti a loro legati, in quanto non sussiste un'identità completamente pura, isolata, che non sia in relazione o in opposizione con qualche altra forma. Così, un approccio musicale può offrire gli strumenti per meglio comprendere la diversità culturale, poiché le varie manifestazioni non sono mai completamente isolate fra loro. Nel contrappunto della musica classica i vari suoni separati si combinano l'uno con l'altro, e il risultato è una polifonia; un concerto è infatti un'interazione reciproca organizzata che deriva dai temi stessi, non da un principio esterno dell'opera3. Similmente le culture, benché possano essere lontane e differenti, si richiamano in maniera reciproca, cosicché è possibile mantenere sempre aperto il dialogo.

Osservare la realtà in maniera contrappuntistica significa spiegare il presente non solo per quel che è, ma anche perché è diventato tale. Con una doppia prospettiva, tipica del contrappunto, è possibile mantenere uno sguardo ampio, con un occhio rivolto a quel che è alle 1 Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 54.2 Edward Said, 1993, Culture and Imperialism, New York, Alfred A. Knope; trad. it. 1998, Cultura e Imperialismo.

Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente, Roma, Gamberetti, p. 58.3 Ivi, p. 76.

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IL CONTRAPPUNTO

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spalle e l'altro a quel che è presente. Significa dare senso alla realtà, comprenderla in tutto il suo spessore della storia, e considerarla come un processo nel quale le situazioni evolvono passo dopo passo.

La mondanità della cultura

Said evidenzia dunque quanto “le forme culturali siano ibride, miste e impure, e che sia giunto il tempo di analizzarle collegando l'analisi delle forme culturali con la loro realtà mondana”4. Per indicare la situazione storica e reale all'interno della quale ogni persona agisce, e di conseguenza dove ogni cosa è prodotta, Said utilizza il termine "mondanità". L'autore con tale concetto intende che "tutti i testi e tutte le rappresentazioni si collocano nel mondo e sono soggetti alle sue numerose ed eterogenee realtà" e ciò "implica la contaminazione e il coinvolgimento"5. Avvicinarsi alla cultura in modo mondano significa mantenere una dimensione aperta e interdisciplinare, in opposizione a qualsiasi approccio che tenda a dividere. È necessario accomunare le esperienze provenienti dai vari paesi, non dividerle, ponendo in evidenza i legami tra l'umanità.

Tali teorie invitano a superare l'opposizione tra Oriente e Occidente, evidenziando quel che lega le varie regioni del mondo, vale a dire le molte connessioni che si sono instaurate nel corso della storia. Nei paesi islamici, ad esempio, molte idee sono state attinte dall'Occidente in maniera costruttiva. Numerosi partiti e personaggi di spicco in Medio Oriente si sono formati grazie a pensieri sorti in Europa e negli Stati Uniti. Molte contestazioni e movimenti politici infatti si sono costituiti in nome di progetti e obiettivi che sono originari dell'Occidente. Tuttavia questi contributi positivi e costruttivi vengono in genere poco considerati, giacché si tende invece a dare maggiore spazio alla nefasta contrapposizione tra paesi orientali e occidentali.

La letteratura comparata e la filologia

Bisogna saper trarre insegnamento dal contrappunto musicale anche nelle discipline letterarie perché le storie si incontrano e si sovrappongono, come le melodie. Grazie al carattere mondano della letteratura, lo studio dei testi non può che essere condotto in maniera comparativa, perché le opere sono necessariamente connesse tra loro, e allo stesso tempo legate a un determinato contesto. Per Said la letteratura comparata intende proprio “andare oltre il provincialismo e la ristrettezza di vedute per esaminare insieme, contrappuntisticamente, varie culture e letterature”6.Bisogna considerare solo provvisoriamente i testi come oggetti discreti, per poi stabilire nessi tra le varie opere e con il contesto. Saper leggere significa riuscire a inquadrare i prodotti culturali nella loro situazione storica, interpretandoli nella loro complessità. I legami inoltre si creano non solo sul piano geografico, unendo autori di paesi diversi, ma anche nella dimensione temporale. Entra in gioco un altro tipo di nesso, quello tra il lettore, immerso nel presente, e l'opera letteraria, calata in un periodo preciso. Anche questo altro aspetto rende vivo e complesso il concetto di mondanità della cultura. I testi sono costantemente in viaggio e, poiché sono mossi sia in termini spaziali che temporali, sono sempre sottoposti a processi di collocazione e

4 Ivi, p. 40.5 Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 76.6 Edward Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 68.

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dislocazione. Per tutti questi motivi Said considera importate rivalutare la filologia, perché ogni testo contiene in sé storicità, materialità, corporeità.

La lettura dei testi nel loro contesto è un valore intrinseco apportato dall'umanesimo. Non si può separare la letteratura dalla storia perché bisogna sempre prendere in considerazione il tempo, il luogo e le circostanze nelle quali è vissuto un autore. Said afferma infatti che è da rivedere il concetto di "creazione" rivolto alle opere artistiche poiché questo verbo è erroneamente associato all'idea di un parto miracoloso e di un'attività totalmente autonoma. Ogni impresa umanistica dipende non solo dall'impegno e dall'originalità di un individuo, ma anche dal contesto sociale nel quale l'autore è immerso. Un'opera culturale pertanto deve essere calata nel suo tempo, in modo da poterla considerare "come parte di un'ampia rete di relazioni la cui struttura e influenza giocano un ruolo essenziale nel testo scelto"7. Per inquadrare la produzione letteraria nella storia bisogna sempre chiedersi chi legge, quando e per quale scopo; sono proprio queste le domande che vanificano ogni ipotesi sull'esistenza di una pura fruizione estetica e di una sacralità astratta attorno alla letteratura.

Il mutamento

È necessario considerare la storia come frutto delle azioni umane per allontanare ogni forma di intolleranza e violenza. Said critica chi difende le proprie convinzioni come fossero un dogma, una verità assoluta inconciliabile con le altre posizioni; ciò crea conflitti irresolubili perché non si pongono le condizioni per alcun dialogo. Non esistendo idee che siano al di sopra della storia, sempre valide in tutte le società, perenni nel corso degli anni, Said considera il cambiamento un elemento fondamentale, soprattutto nel campo della cultura poiché

nessuna grande conquista umanistica avrebbe mai potuto avere luogo senza questa importante componente: relazione o accettazione del nuovo, di tutto quanto vi è di più nuovo, vero ed eccitante nel campo delle arti, del pensiero o della cultura in ogni specifico periodo8.

Gli studi legati all'umanesimo hanno continuamente e strutturalmente bisogno di una revisione, devono essere sempre ripensati per rimanere vitali. Tale processo, in continuo mutamento, è importante poiché le discipline "una volta fossilizzate su un'astrazione, smettono di essere quello che veramente sono per divenire strumenti di venerazione e di repressione"9. Un discorso analogo, inoltre, si può secondo Said applicare anche al linguaggio poiché, nonostante debba essere difeso e usato correttamente, anch'esso deve mantenersi pronto per essere rivitalizzato dal cambiamento. L'umanesimo contempla il continuo mutamento della società, rinnovata dalle trasformazioni. Said non rimpiange con nostalgia un passato, considerandolo migliore, come se fosse collocato in un tempo mitico. Critica dunque il vagheggiamento di un tempo ormai andato migliore del presento, dato che riconosce in questo atteggiamento la volontà di custodire la cultura con sacralità, difendendola dalle contaminazioni.

7 Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 87.8 Ivi, p. 52.9 Ivi, p. 60.

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CAPITOLO 12

L’INTELLETTUALE PUBBLICO

Non esiste la figura privata dell'intellettuale, poiché nel momento stesso in cui mette per iscritto alcune parole per poi pubblicarle, è già una figura pubblica. [...] Ciò che qualifica l'intellettuale è il suo essere figura rappresentativa: ossia qualcuno che rappresenta un certo punto di vista dandogli visibilità.

(E. Said, Dire la verità, p. 27)

Il ruolo sociale degli intellettuali

Considerata l'importanza delle interpretazioni nelle società, per Said gli intellettuali rivestono un ruolo significativo perché sono coloro che intervengono attivamente sul linguaggio. Tutti coloro che ricorrono all'arte di rappresentare, parlando, scrivendo, insegnando, ricoprendo incarichi politici, intervenendo nei media, svolgono attività che non si possono spiegare semplicemente con il perseguimento degli interessi individuali. L'argomento è cruciale poiché le persone guardano agli intellettuali, o ai leader di una fazione o tendenza, per poter meglio comprendere la realtà.

Quando nel 1993 Said fu invitato dalla Bbc a tenere le Reith Lectures, decise di analizzare proprio le rappresentazioni che gli intellettuali offrono, e di conseguenza il ruolo di questi nella società contemporanea. L'emittente britannica ogni anno, a partire dal 1948, invita una personalità del mondo della cultura a discorrere su un tema liberamente scelto dall'ospite di turno. Tali conferenze radiofoniche portano il nome di John Reith, il primo direttore generale della Bbc, poiché furono istituite in suo onore per ribadire i valori della celebre emittente. Reith teorizzò quali dovessero essere le caratteristiche e gli obiettivi di un servizio di radiodiffusione nazionale. Secondo il famoso direttore l'organizzazione deve essere di proprietà pubblica ma politicamente indipendente dallo Stato, e i compiti fondamentali da svolgere sono informare, educare e divertire1. Tali conferenze, avendo l'obiettivo di aggiornare un ampio pubblico su un tema importante, di interesse attuale, perseguono appunto la finalità di diffondere la conoscenza e al contempo mantengono l'ideale che il direttore Reith aveva prefissato, ossia arricchire la vita culturale di una nazione. Consapevole del valore dell'incarico a lui affidato, Said nei suoi discorsi volle illustrare l'importanza dei compiti degli intellettuali, esprimendo ammonimenti e consigli rivolti specialmente a chi opera nel campo dell'informazione e della conoscenza. Per cercare di identificare chi siano gli intellettuali in una società, nelle Reith Lectures Said riporta due visioni contrapposte: il pensiero di Antonio Gramsci e quello di Julien Benda. Anche se sono molto differenti, secondo Said da entrambi si possono trarre insegnamenti validi.

Per Gramsci tutti gli uomini sono intellettuali, anche se non tutti hanno tale funzione nella società. Nei Quaderni del carcere2 distinse tra “intellettuali tradizionali”, cioè coloro che sentono il loro incarico riconosciuto come tale nel corso della storia, ad esempio gli insegnanti e gli ecclesiastici, e "intellettuali organici", cioè coloro che si sono formati essendo funzionali a un gruppo sociale, ad 1 Matthew Hibberd, 2005, Il grande viaggio della Bbc, Roma, Rai-Eri.2 Antonio Gramsci, 1975, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, p. 1513-1540.

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esempio perché utili alla produzione economica. Questi ultimi svolgono essenzialmente una funzione organizzativa, ossia compiti capaci di rafforzare la coesione interna e l'influenza dei gruppi ai quali appartengono, e pertanto le classi sociali se ne servono perché il loro lavoro incide sul consenso. Said riprende il pensiero di Gramsci perché vuole affermare che gli intellettuali non sono distanti dalla società. Dichiara che si possono definire tali infatti anche coloro che svolgono incarichi in molti settori dell'economia contemporanea, precisando che

il pubblicitario o l'esperto in pubbliche relazioni, chi studia ed elabora tecniche idonee a conquistare una più larga fetta di mercato a un detersivo o a una compagnia aerea, sarebbero oggi considerati da Gramsci intellettuali organici3.

Il filosofo francese Benda invece, nella sua opera La trahison des clercs4, sostenne che si può definire intellettuale soltanto chi è risoluto nella difesa delle proprie idee. È tale solo chi ribadisce le proprie convinzioni, sulla verità e sulla giustizia, senza alcun interesse per fini pratici e senza scendere a compromessi. L'intellettuale, in questa prospettiva, è visto distaccato dal mondo, considerato una persona dura e risoluta, di straordinario coraggio, che incute soggezione ed è sempre pronto a scagliare anatemi. Nonostante Said non condivida le opinioni di Benda, considera validi alcuni aspetti da lui delineati. Bisogna apprezzare infatti la capacità degli intellettuali di tenersi in disparte e di essere sempre disposti a esprimere senza timore le proprie opinioni.

Ponderando i due differenti punti di vista, Said ritiene che il mondo contemporaneo possa essere compreso meglio grazie alle analisi di Gramsci. Oggi sono molte le persone che ricoprono incarichi da intellettuale, specialmente coloro che svolgono un ruolo connesso al campo della diffusione delle rappresentazioni. Poiché queste ultime influiscono sulla conoscenza comune, tutti coloro che lavorano intervenendo sul linguaggio sono capaci di accresce il consenso di un'istituzione o di una compagnia. Quindi, chiunque operi in un campo legato alla produzione o alla diffusione del sapere oggi è un intellettuale in senso gramsciano e, secondo Said, questo ambito è il perno sul quale ruota la società contemporanea. Tutti coloro che lavorano nel settore radiofonico e televisivo, nel mondo universitario, gli analisti, gli esperti assicurativi, i consulenti aziendali e di governo, svolgono delle attività legate alla conoscenza, vale a dire forniscono rappresentazioni che hanno la capacità di influire sulle persone. Dunque, tutto il moderno giornalismo si può analizzare riflettendo sul ruolo degli intellettuali nella società.

Professionisti e dilettanti

Dal momento che gli intellettuali sono parte integrante della società, Said si sofferma sul problema della loro autonomia e riflette se sia possibile esprimere un'opinione indipendente oppure, nel caso opposto, fino a che punto una persona possa essere intenzionata a rappresentare una causa, identificandosi con essa. Secondo Said nessuno è totalmente svincolato dalla società; per quanto libera questa possa essere, anche uno scrittore bohémien ne è coinvolto.

L'intellettuale è sempre soggetto alle istanze del suo tempo, pertanto nel corso delle Reith Lectures riflette su quali possano essere i vari tipi di condizionamento. Uno di questi, che Said considera negativo, è il desiderio di diventare specialisti in un determinato settore, da evitare poiché induce a separare la conoscenza, dividendola in compartimenti entro discipline. Secondo

3 Edward Said, Dire la verità, cit., p. 20.4 Julien Benda, 1975, La trahison des clercs, Paris, Grasset & Fasquelle; trad. it. 1976, Il tradimento dei chierici,

Torino, Einaudi.

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l'autore, ad esempio, nel campo degli studi letterari tale condotta ha comportato un formalismo tecnico esasperato che ha distolto l'attenzione dal contesto storico delle opere. Le esperienze concrete che hanno contribuito alla realizzazione dei testi letterari rischiano di non essere prese in considerazione, in quanto la specializzazione induce a “perdere di vista il lavoro materialmente necessario alla produzione dell'arte o della conoscenza”5. È un comportamento che, sebbene sia da evitare perché soffoca il gusto della scoperta, attualmente pervade tutti i sistemi scolastici.

Un altro tipo di condizionamento, legato al precendente, è l'ambizione ricorrente di far parte della categoria degli esperti. Said critica ad esempio gli area studies delle università americane, poiché tali discipline producono esperti funzionali nel perseguimento degli interessi geopolitici nazionali. Secondo Said l'ottenimento di un qualsiasi titolo che possa inserire una persona entro il novero degli esperti è legato alle esigenze del potere. Partiti, industrie, lobbies e fondazioni per accrescere l'influenza nei settori di loro competenza si avvalgono di questi stessi esperti. Inoltre, un altro condizionamento che influisce sugli intellettuali è la voglia di appartenere a quella minoranza che detiene il diritto di prendere decisioni, consigli o direttivi che siano.

Benché vengano criticati tutti quegli intellettuali che agiscono sulla base del proprio rendiconto, Said non accusa di tradimento coloro che si guadagnano da vivere scrivendo su un giornale o insegnando. Intende contestare quelli che affermano le proprie posizioni volendole imporre con una parvenza di autorevolezza, come fanno in genere gli esperti, i consulenti, i professori, vale a dire chiunque offra pareri vendendoli come se fossero dati obiettivi. Gli intellettuali dovrebbero comportarsi in maniera differente, ossia evitare di mostrarsi come professionisti, sforzandosi così di raggiungere una relativa indipendenza.

Nel suo invito a sganciarsi dai condizionamenti sopra citati, Said articola con sapiente spirito provocatorio la sua predilezione verso un'altra categoria di studiosi: i dilettanti. Considera questi contraddistinti da una maggiore responsabilità e passione, non restii ad affermare platealmente le proprie opinioni. Gli intellettuali dovrebbero considerarsi sempre dei dilettanti, poiché solo così possono dedicarsi ai loro interessi con la necessaria autonomia. I dilettanti infatti non hanno nessun ruolo da difendere, possono cambiare il proprio campo di ricerche, uscire dai confini delle discipline e sperimentare strade differenti. Sono liberi di esprimersi con maggior autonomia, senza la cautela di quei professionisti sempre spaventati di mandare tutto all'aria, preoccupati dall'idea di non scandalizzare i colleghi che lavorano nel loro stesso campo. I dilettanti non sono dei funzionari che dipendono fortemente dagli incarichi loro assegnati. Diversamente dai professionisti, non cercano di soddisfare ambizioni immediate, in quanto sono stimolati da motivazioni che trascendono i doveri lavorativi e agiscono spinti delle proprie idee.

Il valore dell'esilio

Il sociologo americano Charles Wright Mills ritiene che gli intellettuali siano di fronte a un dilemma: o rimanere outsiders, marginali e con un senso di impotenza, oppure diventare insiders, cioè entrare nei ranghi istituzionali, aziendali o governativi. Said concorda con questa osservazione poiché gli intellettuali sembrano essere sempre al bivio tra solitudine e allineamento, divisi entro due categorie, a seconda che scelgano la strada dell'integrazione o dell'estraneità. Gli insiders sentono di appartenere pienamente alla loro società, alla loro fazione, e si possono definire uomini del consenso. Gli outsiders invece vivono come esiliati, ovunque stranieri, e si pongono sempre in contrasto con la realtà vigente. Per Said questi ultimi rappresentano i veri intellettuali. Non seguono sentieri già tracciati e sono sempre in movimento

5 Edward Said, Dire la verità, cit., p. 85.

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perché, non sentendosi mai perfettamente a proprio agio, sono costretti a reinventarsi di continuo.

Porsi come dilettante, o outsider, aiuta non solo a preservare una maggiore autonomia, ma anche a rapportarsi nella sfera pubblica. Scegliere tale condotta significa preferire una posizione marginale, collocazione che non è necessariamente svantaggiosa, anzi secondo Said è portatrice di benefici, al punto che, paradossalmente, afferma che un intellettuale dovrebbe sentirsi un esiliato, un emarginato. Per la maggior parte delle persone sentirsi ai margini può costituire uno dei peggiori stati d’animo, associato a una triste sorte, mentre al contrario Said elogia il valore dell'esilio. La condizione dell'esule può essere non soltanto una circostanza reale, in quanto può simboleggiare anche uno stato metaforico, da esaltare. Said sostiene in effetti che

l'esilio per l'intellettuale significa irrequietezza, movimento, la sensazione irrimediabile di essere dislocati, a disagio, e di mettere a disagio gli altri6.

Significa quindi non abitare in nessun posto, non appartenere completamente a nessun luogo, e tale condizione produce un “effetto destabilizzante; provoca scosse sismiche, sconvolgimento in chi ha vicino”7. Privo del conforto degli onori e delle gioie del sentirsi a casa, l'intellettuale è capace di apprezzare il piacere della scoperta, essendo un perenne viaggiatore, non obbligato a seguire sentieri già tracciati e orme venerabili. Non sentendosi mai perfettamente a proprio agio,è costretto a muoversi e a reinventarsi di continuo, sempre disponibile all'innovazione, dato che è svincolato da un iter professionale. Può così svolgere ricerche di volta in volta nei campi verso i quali sente maggior interesse e questo, secondo Said, è un piacere senza eguali. Inoltre, proprio perché è un esule, può osservare il mondo da una posizione privilegiata.

L'uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui l'intero mondo è un paese straniero8.

Questa è la sentenza, scritta nel Didascalicon del teologo Ugo di San Vittore e citata dal filologo Erich Auerbach, che Said riporta in Orientalism quando intende spiegare il valore del distacco culturale.

L'impegno sociale

Sebbene Said consideri un intellettuale come una persona disposta a collocarsi ai margini, è consapevole che non esiste nessun ruolo sociale che sia totalmente isolato. Anzi, un intellettuale ha risonanza soltanto quando si coniuga con un ideale collettivo, se è capace di rappresentare dei significati condivisi. Dovendo dunque affrontare il problema della collocazione nella sfera sociale, Said si domanda quale sia il modo giusto di partecipare alla vita pubblica, e fino a che punto può arrivare il coinvolgimento nell'impegno politico. Riflette dunque se sia possibile mettersi al servizio di un'idea senza diventarne completamente parte, e come si possa aderire a un partito, in maniera seria ma non appariscente, senza dover patire le delusioni o i tormenti del tradimento. Said, nonostante dichiari di essere stato sempre stato restio a iscriversi ai partiti, non provando piacere nell'essere arruolato, afferma che è necessario un impegno appassionato e che è giusto 6 Ivi, p. 64.7 Ivi, p. 67.8 Edward Said, 1978, Orientalism, New York, Pantheon Books; trad. it. 2006, Orientalismo. L'immagine dell'Oriente in

Europa, Milano, Feltrinelli, p. 255.

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esporsi e correre rischi in prima persona.Spiega infatti che il timore di mostrarsi troppo schierati politicamente uccide la vitalità

intellettuale. Questo errore comune viene commesso proprio quando si teme di apparire polemici, tensione provocata dal desiderio di essere inseriti nel novero delle persone che decidono. Si tende a mascherare le proprie opinioni quando si vuol ottenere la benevolenza altrui, mostrandosi equilibrati, oggettivi e moderati. Un intellettuale agisce sempre all'interno della sfera pubblica, ma dovrebbe coltivare opinioni autonome. È uno sforzo costante, ma concede la possibilità di esprimersi liberamente, senza dover temere conseguenze spiacevoli, come l'esclusione o l'abiura. Said invita inoltre a non essere dogmatici nei confronti delle idee,soprattutto in politica, ambito in cui bisogna evitare di essere fedeli a un "dio" poiché tale atteggiamento nel corso del tempo comporta sempre fallimenti9.

Chiunque presta servizio ciecamente a una determinata causa, in un secondo momento rischia di dover ribaltare le proprie idee. Esprime appunto critiche contro "lo spettacolo particolarmente indecoroso della conversione e della ritrattazione"10, ossia quando gli intellettuali cambiano platealmente opinioni, anche in maniera radicale, in genere ogni volta che i poteri mutano. Said sostiene che è infruttuoso esaltare l'ideale che appare al momento vincente, è meschino modellare le proprie opinioni in funzione del potente; un intellettuale dovrebbe preservare una posizione autonoma, il più possibile slegata dall'immediata convenienza. Questa scelta non offre rapidi benefici, però in fin dei conti una collocazione più distaccata risulta essere vantaggiosa poiché concede una maggiore libertà di espressione.

Contrastare le rappresentazioni del potere

L'intellettuale dunque, grazie alla sua collocazione marginale e poiché non svolge un ossequioso servizio, può elaborare una visione più ampia rispetto a quella di chi ambisce ad affermarsi come uno specialista o un professionista. Può soppesare scrupolosamente le varie alternative, dopodiché scegliere la migliore e rappresentarla con sapienza. Non rappresenta le posizioni che sostiene come se fossero oggettive e quindi inevitabilmente condivisibili, come tendono a fare coloro che ricoprono posizioni dominanti, bensì esprime quel che ritiene essere più efficace per modificare la realtà secondo i suoi valori. In tal modo, l'intellettuale ha la capacità di smascherare le apparenze e di fornire visioni diverse, può essere capace di proporre la verità al potere. Dunque l'intellettuale, quando è dilettante, outsider, ha la possibilità di rappresentare le situazioni in maniera differente dalle ragioni di coloro che detengono il comando; può contrastare le immagini che sono presentate comunemente dalle televisioni e dai giornali, può controbattere i resoconti ufficiali. Con queste affermazioni, Said mostra quindi che è possibile opporsi alle giustificazioni che il potere mette in circolo nei media. È compito dell'intellettuale abbattere quel pensiero che tende a mantenere le cose entro una visione accettabile e omologata. Si possono superare gli stereotipi, le categorie che limitano le comunicazioni e le dottrine che si basano sul senso del privilegio.

Secondo Said l'umanista non ha soltanto l'incarico di commentare le opere di scrittori e artisti, ma ha anche il compito di analizzare l'enorme quantità di informazioni e discorsi che quotidianamente riceviamo dalla televisione, radio, giornali e cyberspazio, cioè da quell’“enorme archivio di materiali che aggrediscono i sensi da tutti i lati, assediano oggi la

9 Edward Said, Dire la verità, cit. p. 114.10 Ivi, p. 118.

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conoscenza di ognuno di noi”11. L'umanesimo infatti aiuta a lavorare con i testi e i discorsi, indica come cogliere le connessioni e le differenze, in breve insegna a “leggere bene”12. Pertanto spetta agli intellettuali analizzare le notizie giornalistiche smontandole analiticamente, ponendo in evidenza tutti quei processi, di esclusione o di rafforzamento, sui quali si basano i discorsi. Poiché ogni racconto è frutto di un lavoro di selezione degli eventi, il compito da svolgere è far riemergere gli elementi che sono stati considerati volontariamente irrilevanti. Secondo Said, gli umanisti possono agire sul linguaggio perché hanno coltivato la capacità di spiegare, analizzare, criticare o convalidare i discorsi che noi tutti riceviamo quotidianamente.

É necessario svelare gli intenti politici celati nell'informazione fornita dai potenti media. Nei notiziari televisivi si utilizza generalmente il "noi" per coinvolgere il pubblico, comunicando in maniera più o meno diretta quanto sia importante difendere degli stessi valori, di solito in accordo con l'interesse nazionale. Said pertanto invita a riflettere ogni volta che la politica fa ricorso alle appartenenze collettive. L'intellettuale in questi casi dovrebbe spiegare che "i tentativi di mobilitazione collettiva rischiano di risultare distruttivi"13 e “mostrare come il gruppo non sia un'entità naturale o stabilita da Dio, bensì un oggetto costruito, fabbricato pezzo per pezzo, talora addirittura inventato”14. Grazie all'analisi dei discorsi è possibile ragionare sugli artefici della comunicazione e sui destinatari, distinguere tra gli interessi in gioco, degli uni e degli altri. Secondo Said le idee "sono sempre collegate a un'esperienza radicata nella società"15 e, dal momento che nessuno può rappresentare “astrazioni o divinità da servire, remote e disincarnate"16, bisogna diffidare di chi propone certezze assolute.

Offrire alternative

Per controbattere i discorsi del potere bisogna domandarsi anche quale sia il linguaggio più adatto, quali siano le parole migliori per opporre resistenza. Said sostiene paradossalmente che bisogna esprimersi con “lo stesso linguaggio usato dal Dipartimento di Stato o dal Presidente quando dichiarano di sostenere i diritti umani e scatenano una guerra per ‘liberare’ l’Iraq”17. Énecessario servirsi di quello stesso tipo di linguaggio per riappropriarsi degli argomenti, per recuperare tutto ciò che è stato semplificato, tradito, sminuito e cancellato. Questa tecnica rende evidente che gli oratori, grazie alla loro posizione privilegiata, hanno effettuato tecniche di manipolazione. Utilizzare le medesime espressioni serve dunque per smascherare i processi di occultamento: la strategia è smontare le parole, per poi ricomporre un altro discorso, diretto verso lo stesso pubblico, ma con differenti finalità. Spiega infatti che bisogna saper sfruttare nel modo migliore quel che si ha a disposizione, utilizzandolo però su piattaforme diverse.

Ogni rappresentazione è relativa, perciò è importante contrastare le visioni totalizzanti, che il più delle volte mostrano il mondo statico. Per interagire, comunque, dobbiamo necessariamente condividere delle storie che attribuiscono un senso alla realtà. Queste rappresentazioni entro le quali viviamo secondo Said sono importanti perché smuovono le persone, quindi non ritiene convincenti le teorie di Francois Lyotard18 riguardo al postmoderno; non crede che siano finite le “grandi

11 Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 69.12 Ivi, p. 101.13 Ivi, p. 105.14 Edward Said, Dire la verità, cit., p. 46.15 Ivi, p. 118.16 Ibid.17 Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 153.18 Francois Lyotard, 1979, La condition postmoderne, Paris, Editions De Minuit; trad. it. 1985, La condizione

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narrazioni” perché siamo sempre esposti a dei discorsi. Poiché generalmente le spiegazioni appaiono coerenti e pervadono il linguaggio, è necessario mantenere la mente sempre aperta al dubbio. Dunque un ulteriore compito dell'intellettuale è far emergere i lati controversi, quel che è offuscato, e mostrare che possono esistere anche altre rappresentazioni. Said sostiene appunto che

l'umanista deve saper proporre alternative, alternative ora ridotte al silenzio o non accessibili tramite i canali di comunicazione controllati da un ristretto numero di gestori dell'informazione19.

Così si realizza un atto di resistenza che, di conseguenza, gratifica il piacere della scoperta. Secondo Said “l'intellettuale deve sempre partire dal presupposto che sia possibile indicare alternative”20 e il suo ruolo è dialettico e oppositivo perché può “sfidare e sconfiggere, ovunque e ogni volta sia possibile, il silenzio imposto e la calma normalizzata”21. In relazione ai discorsi dei media pertanto l'intellettuale deve essere come una sentinella, sempre pronto a presentare narrazioni alternative e prospettive diverse sulla storia rispetto a quelle offerte da chi si schiera a fianco della memoria ufficiale, dell'identità e della missione nazionale22.

postmoderna, Milano, Feltrinelli.

19 Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 96.20 Ivi, p. 156.21 Ibid.22 Ivi, p. 161.

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CONCLUSIONI

QUANTO È ATTUALE SAID

Nel corso di questo lavoro ho descritto gran parte del pensiero di Said, dalle teorie sull'orientalismo e sull'imperialismo culturale, fino alle osservazioni sul giornalismo, riportando i commenti sulla copertura mediatica del Medio Oriente. Ho inoltre esposto le sue opinioni sui valori dell'umanesimo, sul ruolo delle rappresentazioni e sulla funzione degli intellettuali nella società, sottolineando le esortazioni rivolte a tutti coloro che lavorano nel campo della conoscenza.

Traendo insegnamento dai libri che ho trattato nei capitoli, intendo ora analizzare Said alla luce delle sue stesse teorie, per giudicare quali aspetti sono validi tuttora e quali altri invece necessitano un ripensamento. Voglio mettere in pratica quel che l'autore suggerisce di fare: contestualizzare le opere culturali e considerare i testi legati alla mondanità. Per commentare le opere di Said colgo quindi i suoi inviti a prendere in considerazione il periodo storico e il panorama culturale entro il quale l'autore visse e, dal momento che le critiche più radicali contro i media furono scritte negli anni '90, desidero ricostruire quel determinato contesto.

Due sue opere estremamente polemiche nei confronti del settore dell'informazione sono Culture and Imperialism, pubblicata nel 1993, e le Reith Lectures, tenute alla Bbc proprio durante lo stesso anno. In entrambe Said raffigura una situazione molto negativa, poiché sostiene che tutte le persone inevitabilmente ricevono un'informazione fortemente plasmata dai poteri politici ed economici. In Culture and Imperialism ritiene che i media predominano sulla conoscenza, imponendosi in maniera totalitaria, e difatti Said per spiegarne l'influenza pervasiva fa riferimento alle analisi sociologiche di Herbert Marcuse e di Theodor Adorno, e ai romanzi di Aldous Huxley e di George Orwell. Nelle Reith Lectures, similmente, considera i potenti media uno strumento di propaganda nelle mani di coloro che detengono il comando e, data la situazione drammatica, agli intellettuali spetta il compito di smascherare le false spiegazioni. Nello stesso periodo inoltre Said ha voluto aggiornare due sue opere, ripubblicando nel 1992 The Question of Palestine e nel 1997 Covering Islam, anch'esse critiche nei confronti delle opinioni maggiormente diffuse, la prima riguardo al conflitto israelo-palestinese e la seconda sulla copertura mediatica del Medio Oriente. Questi libri e i numerosi suoi articoli scritti in quegli anni in effetti sono accomunati da un vivo antagonismo contro il mondo dell'informazione, specialmente degli Stati Uniti, da Said giudicato strettamente legato alle forze politiche e agli interessi delle compagnie private.

Per meglio comprendere tali opere, ritengo dunque necessario ricordare il periodo storico degli anni '90 poiché, visto nel contesto, il pensiero di Said sembra concorde a quello di altri intellettuali critici verso l'egemonia culturale allora dominante. Negli anni '90, e specialmente nella prima metà del decennio, era in effetti evidente la supremazia della cultura americana in tutto il mondo, situazione che destava molte preoccupazioni. La globalizzazione veniva giudicata un pericolo perché comportava l'omologazione dei pensieri, dei consumi e perfino dei gusti, e sembrava incontrastabile, producendo molteplici visioni di un futuro cupo incombente, dal momento che non si intravedevano forze politiche in grado di opporsi, ma solamente gli ammonimenti di intellettuali e scrittori. I primi anni '90 infatti videro la luce dopo un decennio

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caratterizzato dal crescente predominio culturale degli Stati Uniti in tutto il mondo, ad esempio tramite il successo su larga scala di film hollywoodiani che esaltavano lo stile di vita americano (come Rocky, Superman, Rambo e Top Gun), e la diffusione dei fast food McDonald's che offrivano gli stessi cibi negli angoli più disparati del mondo, tanto che l'omologazione degli stili di vita sembrava imporsi nella quotidianità delle persone. Così, mentre per tutto il corso degli anni '80 l'Unione Sovietica aveva mostrato evidenti e a più riprese i segni della crescente crisi politica ed economica che l’avrebbe portata alla dissoluzione, i governi del presidente Reagan negli Stati Uniti e della primo ministro Thatcher in Gran Bretagna mostravano i muscoli e davano prova della loro forza morale esaltando il libero mercato vincente.

Gli anni '90 anche in Medio Oriente furono caratterizzati dal disorientamento poiché, ormai privo di vigore il nazionalismo arabo di Nasser, avanzarono ideologie di stampo localistico e religioso e si rafforzò il fondamentalismo islamico. Il primo attentato di Al Qaeda avvenne appunto nel 1992, ad Aden in Yemen, e l'anno successivo fu posta un’autobomba al World Trade Center di New York, entrambi eventi che ravvivarono la paura del terrorismo. Dopo l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq nel 1990, gran parte dei paesi arabi si schierarono al fianco degli emirati del Golfo e dell'Arabia Saudita, supportati dagli Stati Uniti. Nel 1993, inoltre, furono firmati a Washington gli accordi di Oslo con i quali l'Olp riconobbe ufficialmente Israele, e quest'ultimo concesse ai palestinesi una relativa autonomia, decisioni importanti che però non comportarono la fine dei contrasti.

Negli anni in cui Said riflette sistematicamente sui temi centrali di questo lavoro, pertanto, l'Occidente sembrava prevalere incontrastato sul resto del mondo e, non essendoci alternative valide, le ideologie dei vincitori si riflettevano non solo in ambito politico ed economico, ma anche nel panorama culturale. Nel 1992, ad esempio, Francis Fukuyama pubblicò The End of History and the Last Man1 e l'anno successivo comparve per la prima volta sulla rivista «Foreign Affair»s il saggio The Clash of Civilizations di Samuel Huntington2, due testi fortemente criticati da Said in quanto il primo prevede il dominio indiscusso di un solo modello politico, mentre l'altro ritiene che lo scontro tra civiltà sia inevitabile in futuro.

Nel campo delle comunicazioni mondiali, poi, i primi anni '90 rappresentarono il trionfo della Cnn come canale satellitare, affermandosi nel mondo specialmente durante la guerra del Golfo del 1991, dal momento che fornì ai telegiornali di tutti i paesi le immagini e le notizie delle operazioni militari statunitensi. In quel periodo, del resto, internet non era ancora diffuso su larga scala; gli utenti connessi erano molto pochi e non erano ancora stati realizzati i programmi che consentivano la fruizione dei testi in rete, dato che Netscape Navigator fu creato nel 1994 e Microsoft Explorer nel 1995.

Said dunque, quando nel 1993 espresse in Culture and Imperialism e nelle Reith Lectures le sue critiche sul dominio dei media, era immerso in un contesto in cui il “pensiero unico” sembrava veramente poter regnare incontrastato, con la maggior parte degli opinionisti che presentava un futuro prevedibile, retto dalle sorti del mercato e dal predominio culturale degli Stati Uniti. Pertanto, nei suoi discorsi si colloca all'opposizione e cerca di controbattere le ideologie dei vincitori, sforzandosi di smascherare le omissioni dell'informazione e di offrire spiegazioni differenti e antagoniste. Contrastare l'egemonia culturale statunitense pareva un'urgenza e, non essendoci mezzi di comunicazione alternativi ai potenti media, l'unica arma sembravano essere le voci solitarie di alcuni intellettuali dissidenti, e Said era uno di questi. Giudicava drammatica la situazione dell'informazione, poiché accentrata in poche mani,

1 Francis Fukuyama, 1992, The end of history and the last man, New York, Free Press; trad. it. 2003, La fine della

storia e l'ultimo uomo, Milano, Rizzoli.2 Samuel Huntington, Estate 1993, The Clash of Civilizations, «Foreing Affairs», New York, Council on Foreign

Relations.

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considerava un grave pericolo la supremazia della Cnn e di pochi altri canali televisivi satellitari, in quanto capaci di influenzare la conoscenza in tutto il mondo, e criticava il predominio sulla creazione e sulla diffusione delle notizie detenuto dalle agenzie di stampa statunitensi ed europee.

Secondo il mio parere, a partire dalla fine degli anni '90 il contesto è cambiato, dal momento che sono emersi nel campo delle comunicazioni molti altri soggetti e nuovi strumenti capaci di sfidare l'egemonia mediatica proveniente da pochi centri di comando. In primo lungo la vasta diffusione delle connessioni internet ha scalfito la preminenza dell'informazione televisiva, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, comportando effetti reali anche nel campo sociale e politico. Non mi soffermo su questo argomento complesso, che richiederebbe lunghe riflessioni, ma ritengo necessario ricordare brevemente l'evoluzione di internet nell'ultimo decennio. Nel 1999 è stata creata la rete Indymedia, ossia un progetto che intende dare la possibilità a tutte le persone di diffondere notizie, e tale innovazione ha incentivato lo sviluppo delle comunicazioni in maniera orizzontale e partecipativa. Questa logica presto ha cominciato a riscuotere successo e si è diffusa rapidamente tramite l'utilizzo dei blogs e recentemente dei social networks, entrambi strumenti che consentono a chiunque di partecipare a delle comunità in piazze virtuali.

Non intendo affermare né che le comunicazioni telematiche abbiano migliorato la qualità della conoscenza, né che i potenti media siano in declino, dato che per la maggior parte delle persone il ruolo di televisioni e stampa rimane centrale per apprendere i fatti. Inoltre, non ritengo che internet possa risolvere i dislivelli di potere, dal momento che gli utenti nelle diverse parti del mondo non hanno ugualmente accesso alla rete e non la utilizzano allo stesso modo. Tuttavia, bisogna apprezzare i nuovi strumenti ora a disposizione poiché concedono la possibilità a chiunque di comunicare le proprie opinioni, un aspetto che ritengo non vada assolutamente trascurato in un qualsiasi discorso sui media.

È necessario notare dunque che Said, quando parla dell'imperialismo culturale, si focalizza soprattutto sui messaggi che televisioni e stampa forniscono, dal momento che, quando ha esaminato i media, internet ancora non era stato ancora sviluppato come oggi lo conosciamo. Said accenna in qualche suo ultimo articolo al potenziale delle comunicazioni informatiche, ma nella maggior parte dei testi si riferisce all'onnipresenza della televisione e all'autorità dei quotidiani più celebri, poiché quello era il contesto entro il quale viveva.

Rispetto ai primi anni '90 è cambiato anche il panorama delle offerte televisive, grazie al diffondersi di un'ampia varietà di canali satellitari (sia gratuiti che a pagamento) e all'aumento del numero di persone fornite di strumenti per la ricezione. A quasi venti anni di distanza da quando la Cnn deteneva il predominio nel raccontare la guerra del Golfo, tanto criticato da Said, adesso l'informazione televisiva è più eterogenea e l'egemonia statunitense può essere messa in discussione. A partire dalla seconda metà degli anni '90 e nel corso del decennio successivo, nel settore dei canali giornalistici molte voci provenienti da tutti i continenti sono comparse sulle scena, diversificando i linguaggi e i punti di vista. L'informazione in lingua inglese non arriva più solamente dagli stati anglosassoni, e le notizie in arabo non sono prodotte solo dai paesi mediorientali, dal momento che le televisioni e i giornali di molti paesi hanno cominciato a comunicare in più di una lingua, via satellite e via internet. Molti paesi ora non intendono rivolgersi solamente ai propri cittadini entro i confini nazionali, bensì mirano a un pubblico mondiale, e tale fenomeno sta ormai facendo perdere alle redazioni giornalistiche occidentali la supremazia sull'informazione.

Ad esempio, nel 2000 la televisione cinese Cctv ha creato un canale satellitare di notizie interamente in inglese, seguito dall'avvento di due nuove reti in spagnolo e francese nel 2007, e poi da altre due in arabo e russo nel 2009. In Russia nel 2005 è stato fondato un canale satellitare che diffonde informazioni in inglese, Russia Today, al quale ha fatto seguito nel 2007 un

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secondo in lingua araba, Rusiya Al-Yaum. In Medio Oriente la rete satellitare araba Al Jazeera, fondata in Qatar nel 1996 e divenuta famosa nel mondo dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, nel 2006 ha messo in onda un nuovo canale in inglese. Anche in Europa le emittenti nazionali hanno cominciato a comunicare in lingue differenti, dal momento che hanno avviato trasmissioni in inglese il canale tedesco Deutsche Welle a partire dal 2003 e la francese France 24 nel 2006, invece la britannica Bbc ha fondato un canale in arabo nel 2008 e uno in persiano nel 2009. Anche i siti internet delle più importanti televisioni e dei famosi quotidiani hanno iniziato a pubblicare testi in diverse lingue, per ampliare il proprio pubblico e rivolgersi al mondo; è da notare infatti che le notizie online della Bbc sono attualmente scritte in oltre trenta lingue, dall'albanese al vietnamita. Il servizio non in lingua inglese della Bbc non è una novità, bensì vanta una lunga storia, dato che a partire dal 1938 fu avviata la trasmissione di programmi radiofonici in tedesco, e poi nelle principali lingue europee. In seguito, dopo la seconda guerra mondiale, l’emittente britannica continuò a diffondere notiziari all'estero, dedicando particolare attenzione nelle regioni dove era forte l’influenza dei governi comunisti, come l'Europa orientale e il Sud Est asiatico. Una volta terminata la guerra fredda poi, non sussistendo più la politica del contenimento, la Bbc ha avviato radicali cambiamenti nell'organizzazione delle redazioni in lingue estere. Dal 1999 infatti ha smesso di produrre notiziari in alcune lingue europee, come il tedesco e l'italiano, e ancora, a partire dal 2005, ha cominciato a interrompere anche le trasmissioni nelle lingue dell'Europa orientale. Nel contempo però la celebre azienda britannica ha incrementato gli investimenti in altre aree, al momento prioritarie, dato che recentemente ha iniziato a operare in lingua araba e persiana.

Sembra che le redazioni giornalistiche siano diventate uno strumento degli Stati per promuovere la propria immagine nel mondo, e i messaggi trasmessi attraverso le televisioni internazionali e internet paiono in competizione fra loro, ognuno con il proprio punto di vista. Il fenomeno si è mostrato evidente, ad esempio, nel 2005 quando il governo venezuelano ha fondato un canale satellitare in spagnolo, Tele Sur, proprio con l'intento di raggiunge tutti i paesi del Sud America e propagandare una visione alternativa, come appunto riporta scritto nel logo: Nuestro Norte es el Sur, ossia "Il Nostro Nord è il Sud".

Con questa rapida descrizione sulla varietà delle reti televisive nei continenti, ho voluto evidenziare come oggi il panorama dei media sia molto cambiato da quello raffigurato all'inizio degli anni '90 da Said. Ovviamente, molte persone non possiedono le competenze linguistiche e gli strumenti tecnologici per accedere a questa vasta gamma di offerte, comunque tali informazioni sono disponibili e sicuramente non è più presente il predominio nel mondo di un solo punto di vista, basato sui comunicati di poche agenzie di stampa occidentali.

Non intendo sostenere che le analisi di Said siano ormai inadeguate per comprendere il mondo dell'informazione, dal momento che nella produzione delle notizie intervengono sempre rapporti di potere, ma voglio solamente sottolineare quanto adesso sia meno percepito il rischio di quell'omologazione culturale da lui raffigurata, dove un’unica interpretazione pervade la conoscenza delle persone. Come la Cnn tende a rafforzare l'egemonia statunitense, così altri poli culturali oggi elaborano discorsi e rappresentazioni con l'intenzione di accrescere la loro influenza, ad esempio la cinese Cctv, l'araba Al Jazeera, la venezuelana Tele Sur e la russa Russia Today. Benché sia prevalente nel mondo, non esiste solamente il cinema hollywoodiano, ma ci sono anche altri centri di produzione molto vitali, come Bollywood a Mumbai e Nollywood a Lagos. I registi operanti in questi poli seguono differenti canoni artistici e raccontano storie che, in maniera analoga ai film americani, tendono a imporsi come egemoniche nelle località dove vengono recepite.

L'imperialismo culturale è ancora presente, dunque, ma ritengo che non si possa più

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EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE

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considerare attivo da un solo fronte, poiché adesso sono in azione diversi soggetti. Vorrei provare quindi a pensare il mondo non diviso tra un solo centro egemonico produttore di discorsi e tante periferie subalterne destinate o alla ricezione o alla resistenza, bensì costituito da diversi poli in cui si elaborano significati, tutti con una propria sfera di influenza, a volte concordi e talvolta in contrasto tra loro. Con queste mie considerazioni non intendo negare Said, ma riflettere sui viaggi che percorrono le idee, cercando di applicare le sue stesse teorie al contesto mutato. Cogliendo il suo invito a considerare la cultura sempre in movimento e sottoposta a processi di collocazione e dislocazione, secondo la logica del contrappunto, ritengo che adesso sia necessario indagare quali siano le traiettorie, i luoghi di origine e i destinatari dei vari significati, nonché le interpretazioni, e sono altresì consapevole che tali considerazioni delineano un campo di studio che richiede ricerche accurate.

Un altro aspetto interessante indagato da Said sono proprio i rapporti tra i centri culturali nel mondo, tema affrontato in Orientalism e in Covering Islam quando riflette sulle relazioni tra gli studi universitari nei vari paesi. Concordo quando l'autore spiega che l'Occidente detiene un ruolo di primo piano nel campo delle ricerche non soltanto grazie alla sua forza egemonica, di origine imperialista e coloniale, ma anche perché gli altri continenti, guardando con fascino alla scienza statunitense ed europea, sembrano aver accettato una posizione subalterna. Questa situazione è ancora presente poiché nelle regioni non europee i figli delle élite sono incoraggiati a studiare all'estero; tale prassi deriva dall'epoca coloniale, ma perdura tutt'ora, anche dopo che i paesi hanno ottenuto l'indipendenza politica. Benché recentemente si siano sviluppati nuovi centri universitari eccellenti pure in paesi non occidentali, come in Cina e in India, l'istruzione di matrice anglosassone o europea è ancora considerata un modello di riferimento, dato che gli istituti scolastici nel mondo vengono strutturati seguendo le loro logiche3.

Said osserva dunque quanto siano subalterni i paesi mediorientali nel campo degli studi universitari e tali riflessioni, considerate alle luce dei tempi presenti, ritengo che siano ancora attuali. Penso che sia importante ricordare ad esempio i recenti investimenti nel settore dell'istruzione e dell'arte condotti nell'emirato di Abu Dhabi, paese che intende rinnovarsi promuovendo una nuova immagine di sé proprio legata alla cultura. Dal 2006 è operativa una sede dell'università parigina Sorbonne e nel 2010 è prevista l'apertura di una succursale della New York University, inoltre nell'ambito artistico saranno inaugurati i musei Guggenheim Abu Dhabi nel 2011 e Louvre Abu Dhabi nel 2012. Considero che la scelta di creare poli culturali in Golfo Persico, importando direttamente dall'estero professori, saperi e opere d'arte, mostri un'evidente dipendenza nel campo della conoscenza, proprio quel che Said sostiene riguardo alla complicità dell'Oriente nella sua subalternità in campo culturale.

Considero infine valide le teorie di Said specialmente riguardo al legame tra potere e cultura poiché qualunque autorità, per rimanere tale, ha bisogno del consenso, ottenibile solo se riesce a giustificare il proprio operato come necessario. Considerato dunque che il dominio, per sussistere, deve essere puntellato da una cultura e da un sistema di valori capace di spiegarne il senso, rivestono un ruolo importante coloro che si dedicano alla diffusione della conoscenza, ossia coloro che esercitano l’egemonia. Gran parte dell'informazione giornalistica è infatti legata al potere, sia politico che economico e, di conseguenza, i discorsi maggiormente diffusi tendono a favorire gli interessi di coloro che detengono il comando. Al riguardo penso che siano molto attuali le osservazioni di Said sul linguaggio utilizzato per rappresentare la realtà, poiché certe espressioni non sono scelte casualmente, bensì con molto ingegno, per promuovere determinate 3 Ci sono comunque modelli di istruzione alternativi, ad esempio quello proposto dall’Universidad Bolivariana in

Venezuela che, dal 2003, offre insegnamenti diversi dai corsi di studio tradizionali perché ideati con l’intenzione di far progredire il socialismo.

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CONCLUSIONI: QUANTO È ATTUALE SAID

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idee e punti di vista. Sono da ricordare ad esempio le critiche di Said contro la definizione “intervento umanitario”, per giustificare le operazioni militari, e le riflessioni sul termine “terrorista”, usato per rendere prive di senso le azioni e disumanizzare le persone. Aggiungerei altri termini, diffusi dai potenti media con un'evidente intenzione di giustificare le decisioni di coloro governano, come “bomba intelligente” per definire gli attacchi mirati, “missione di pace” per spiegare l’invio di contingenti militari e “pacificatori” in riferimento ai soldati. Il linguaggio è scelto con cura poiché, se utilizzato frequentemente dalle televisioni, giornali, opinionisti e politici, con il trascorrere del tempo è capace di influenzare il senso comune.

Said scrive appunto che ripetere tante volte una menzogna induce inevitabilmente a creare la verità, ricordando così la famosa osservazione del ministro della propaganda nazista Goebbels.

Questa prospettiva d’analisi invita a riflettere molto e proprio da questa problematica scaturiscono le ricerche più importanti di Said sull'orientalismo, sul dominio e sulle rappresentazioni. Gli studi, la letteratura e tutto quel che concerne il campo delle comunicazioni, media e giornalismo, ossia la cultura in senso ampio, sono rappresentazioni della realtà, che sussistono solamente se scambiate, la cui verità è soltanto “una questione di grado”, come scrisse in Orientalism. Per comprendere i discorsi e i testi bisogna dunque sempre tenere in mente il loro coinvolgimento con i rapporti di potere presenti nella società.

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