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UNO STUDIO SUL MARCHIO DI FATTO f Università degli Studi di Firenze, 14 Ottobre 2015 Lezione a cura del Dott. Ramon Romano – Dottorando di ricerca 1. Registrazioni ed usi: due sistemi a confronto (e in scontro). I processi amministrativi di riconoscimento dei contrassegni delimitano l'operatività di quelli utilizzati di fatto, o sono da essi limitati. La ratio di un sistema binario rivela dunque possibili conflitti intorno l'appropriazione di un investimento iniziale, sia esso opera di chi ha realizzato il preuso, sia esso quello espresso dalla registrazione ( free-riding). La registrazione accerta amministrativamente la originalità e la distintività del segno, il giudizio sul marchio di fatto dichiara – o confuta - la pregressa notorietà dello stesso contro ogni opposta pretesa. Con l'espressione marchio di fatto ci si riferisce ad una situazione di fatto in cui un'impresa fa - legittimamente o meno - uso di un determinato segno distintivo, anche se non ne risulta formalmente titolare per effetto dei normali processi di registrazione. In particolare si parla di una privativa (perché gode di prerogative analoghe a quelle del diritto di proprietà) industriale (ormai superata la concezione – Kohler – del diritto sul marchio di fatto come diritto della personalità) non titolata (appunto perché scevra da presupposti formali e priva, però, per questo, di un riconoscimento pubblicistico immediato; v. art. 2.4 CPI). La ratio di un sistema duplice di costituzione – registrazione od uso - del marchio risiede nella semplice considerazione che la registrazione di un marchio comporta un maggiore onere economico (si parla, mediamente, tra consulenze e costi vivi di alcune migliaia di euro) di quanto non ne comporti il suo mero uso, sicché la mancata registrazione non è quasi mai una banale dimenticanza. A contraltare non può negarsi una minore competitività dell'impresa che decide di 1

UNO STUDIO SUL MARCHIO DI FATTO - …. La cornice e la ratio normativa. Il preuso, in alternativa alla registrazione, rappresenta il momento costitutivo di un diritto d'uso o di una

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UNO STUDIO SUL MARCHIODI FATTO

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Università degli Studi di Firenze, 14 Ottobre 2015

Lezione a cura del Dott. Ramon Romano – Dottorando di ricerca

1. Registrazioni ed usi: due sistemi a confronto (e in scontro). I processi amministrativi di riconoscimento dei contrassegni delimitano l'operatività di quelli utilizzati di fatto, o sono da essi limitati. La ratio di un sistema binario rivela dunque possibili conflitti intorno l'appropriazione di un investimento iniziale, sia esso opera di chi ha realizzato il preuso, sia esso quello espresso dalla registrazione (free-riding). La registrazione accerta amministrativamente la originalità e la distintività del segno, il giudizio sul marchio di fatto dichiara – o confuta - la pregressa notorietà dello stesso contro ogni opposta pretesa.

Con l'espressione marchio di fatto ci si riferisce ad una situazione di fatto in cui un'impresa fa - legittimamente o meno - uso di un determinato segno distintivo, anche se non ne risulta formalmente titolare per effetto dei normali processi di registrazione.

In particolare si parla di una privativa (perché gode di prerogative analoghe a quelle del diritto di proprietà) industriale (ormai superata la concezione – Kohler – del diritto sul marchio di fatto come diritto della personalità) non titolata (appunto perché scevra da presupposti formali e priva, però, per questo, di un riconoscimento pubblicistico immediato; v. art. 2.4 CPI).

La ratio di un sistema duplice di costituzione – registrazione od uso - del marchio risiede nella semplice considerazione che la registrazione di un marchio comporta un maggiore onere economico (si parla, mediamente, tra consulenze e costi vivi di alcune migliaia di euro) di quanto non ne comporti il suo mero uso, sicché la mancata registrazione non è quasi mai una banale dimenticanza. A contraltare non può negarsi una minore competitività dell'impresa che decide di

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non registrare il segno, giacché si espone al pericolo di facili appropriazioni, specialmente estere, dove la tutela del marchio di fatto, di norma, non si estende.

In termini di analisi economica del diritto questo maggiore onere economico si traduce in un più significativo investimento imprenditoriale; proprio tale investimento – che può tradursi nella registrazione, ma anche fermarsi al momento commerciale (come per il marchio di fatto) - è l'oggetto mediato di tutela contro gli usi non autorizzati, o che non siano altrimenti legittimi, del segno (l'oggetto immediato di tale tutela).

Il marchio di fatto può, dunque, esprimere un conflitto proprietario tra chi vanti una titolarità formale sul segno e chi, invece, vi opponga un preuso; tale conflitto richiama lo storico conflitto tra chi intende la privativa come premio del lavoro, sicché non può che esservi un monopolio formalizzato (Locke) e chi vi oppone un concetto di proprietà come premio alla creatività che, diversamente modellata su i fatti, può giustificare un sistema di duopolio (Kant).

Il lavoro realizzato laddove il preuso non sia arrivato non può, logicamente, dirsi particolarmente creativo, è allora altra la dimensione valorizzata dal legislatore, appunto quella dello sforzo umano ed economico investito sul segno. Ed è, allo stesso tempo, il primato creativo (ancor più di quello del lavoro) a fermare in limine l'espansione assoluta dei diritti accordati dalla registrazione. Tale convivenza – come si intende - può degenerare in un conflitto, che riterrei sia possibile ricondurre al fenomeno del free-riding (Lemley).

I free-riders – a seconda dei punti di vista i “portoghesi” o i “robin-hood” della proprietà intellettuale – sono coloro che, risparmiando su i costi d'investimento, realizzano un approfittamento opportunistico di quelli altrui ovvero, seconda altra prospettiva, liberano il bene dall'egoismo possessivo di chi ne è titolare onde massimizzarne la diffusione (Drassinower).

Con riguardo ai marchi - non discutendosi di accesso alla conoscenza (come per brevetti e copyright) - questa manumissione (nella doppia accezione di violare e liberare) non si apprezza e prevale il significato negativo del free-riding.

Concentriamoci su questo, cerchiamo cioè di capire chi sia veramente il free-rider nel conflitto tra chi afferma la registrazione del segno e chi oppone il preuso.

Nei marchi di fatto, in particolare, tale approfittamento può avvenire da ambo i lati, cioè sia da parte di chi abbia anteriormente registrato un marchio e lo faccia valere “ad orologeria” rispetto ad un altro più noto, frustrandone lo sforzo espresso col preuso ( trademark trolling , fenomeno in fortissima ascesa negli USA; v. Mireles) o – viceversa – da parte di chi successivamente al successo commerciale di un terzo, di cui componente imprescindibile sono i processi registratori, voglia far valere un supposto ampio preuso del segno ( abuso del diritto di preuso ).

Dovrebbero essere, così, chiare le premesse ontologiche intorno al conflitto tra marchio registrato e marchio non registrato.

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1.1 Il preuso notorio.

Il marchio che si costituisce in base all'uso abbisogna di manifestarsi secondo precisi requisiti. In breve, colui che ha fatto uso del segno (rectius di un segno qualsiasi), può proseguirne la spendita (di tutti) a patto che questa: sia stata connotata da effettività (art. 24 CPI; non effettivo è il marchio inoperante per un periodo di almeno cinque anni, salvo legittimo motivo d'impedimento), sia stata foriera di una significativa distintività (nel senso di instaurare un collegamento mnemonico minimamente rilevante tra marchio e prodotto o servizio, di guisa da renderli riconoscibili nel pubblico come propri di una certa impresa e non di un'altra; in questo la distintività presuppone e ricomprende l'effettività), abbia importato una notorietà del segno (requisito che, a sua volta, presuppone la distintività e si estrinseca nella conoscenza effettiva ed apprezzabile da parte del mercato).

Sulla notorietà – in particolare - bisogna distinguerne la portata.

Possiamo, infatti, avere una notorietà puramente locale, nel qual caso il preuso sarà consentito con i limiti geografici e merceologici definiti da tale notorietà; fondandosi nel caso d'esistenza di un diverso marchio registrato, un duopolio, una sorta di comunione sul segno.

Ovvero la notorietà potrà essere generale, e pur sempre per i definiti limiti merceologici (con la sola eccezione – che si vedrà – del marchio che gode di rinomanza); in questo caso si costituirà un monopolio del marchio di fatto che inibirà o invaliderà del tutto la registrazione di un segno analogo per la medesima attività economica.

La notorietà è, dunque, requisito che si aggiunge ai canonici requisiti previsti per il marchio registrato; così restano fermi anche per il marchio di fatto i requisiti originari di cui agli artt. 12,13 e 14 del CPI: distintività, verità, originalità (qui v'è la differenza tra marchi forti e deboli, che sono qualifiche applicabili anche ai marchi di fatto), liceità e novità. Sicchè è non solo sul preuso notorio che si incentra il riconoscimento giudiziale equiparativo a quello che, in via amministrativa, si ha con la registrazione.

Come si avrà modo di approfondire, ci si è chiesti se l'uso e la notorietà fossero requisiti disgiunti o meno. La risposta – nonostante una contraria recente giurisprudenza. È negativa.

Si ritiene (Cartella), infatti, erronea la visione che riconosce nella ricorrenza autonoma dei requisiti dell'uso e della notorietà i presupposti del marchio di fatto;

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invero è proprio l'uso che diventa ampio a fondare tale notorietà, ed ipotizzarne una aliunde proveniente risulta un'immagine lontana dalla verità, oltre che dalla legge.

Sul piano probatorio.

Per quanto il legislatore abbia operato un'equiparazione tra marchio di fatto e marchio registrato non può ignorarsi che la tutela accordata al marchio di fatto sia minore rispetto a quello registrato; infatti mentre per quest'ultimo la notorietà e la percezione da parte del pubblico del marchio come segno autenticamente distintivo sono insite nella registrazione stessa – facilmente provabile - nel caso di quello di fatto l'onere probatorio sarà più gravoso dovendosi specificatamente provare i fatti costitutivi della notorietà e della distintività. Solitamente ciò avviene dimostrando l'esercizio qualificato del segno attraverso l'allegazione di fatture, atte dimostrare un certo volume commerciale, ovvero attraverso la prova di aver effettuato campagne pubblicitarie, atte a diffondere la conoscenza del segno presso il pubblico.

Tornando, infine, alla disciplina fissata dall'art. 12 CPI sull'effetto invalidante del segno (e del suo uso) sull'altrui marchio posteriormente registrato e sul proprio marchio di fatto esercitato, può riferirsi pure l'esempio significativo dei nomi a dominio. Non v'è controversia, infatti, che la registrazione e l'uso effettivo di un certo nome a dominio contribuisca a provare il corrispondente marchio di fatto, circostanza tanto più vera in un'epoca in cui il fenomeno dell'e-commerce è sempre crescente.

Sicché riterrei che tra i processi amministrativi – che a breve saranno esposti - di cui tener conto vi sia la registrazione del nome a dominio presso l'ente pubblico nazionale “Registro.it” (mentre a livello internazionale opera l'ente privato statunitense – forse ancora per poco privato – ICANN). Per completezza si rammenta che tali enti sono, altresì, deputati a decidere sulle opposizioni alle registrazioni.

Il marchio di fatto vive, dunque – lo si può anticipare -, negli interstizi in cui il segno divisato non sia già stato formalizzato o, come espresso dalla giurisprudenza (App. Torino n. 3409/95), si sostanzia in “facoltà positive (diritto d'uso) e facoltà negative (poteri inibitori e invalidanti)” commisurate alla portata dell'altrui diritto titolato.

1.2 Le registrazioni.

Nell'opposizione – onde comprendere al meglio tali facoltà - vanno, ora, considerati i procedimenti amministrativi di riconoscimento che delimitano variamente, dal punto di vista geografico e merceologico, l'eventuale uso fattuale di un determinato segno.

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Questi processi possono essere effettuati a livello nazionale, presso l'Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM), che è un ufficio del Ministero dello Sviluppo economico ed è sito presso ciascuna Camera di Commercio, (art. 7 D.Lgs. n. 30/2005, Codice della Proprietà Industriale, d'ora in poi CPI) o a livello internazionale, dall'Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale (OMPI, più nota nel suo acronimo inglese: WIPO) avente sede a Ginevra (art. 17 CPI e, di rimando, la Convenzione Internazionale di Madrid del 1891 e sue successive modificazioni).

Più di recente, al fine di realizzare una protezione uniforme in tutto il territorio dell'Unione Europea, è stato introdotto anche un processo di registrazione a livello comunitario effettuato dall'Ufficio di Armonizzazione del Mercato Interno (UAMI) con sede ad Alicante (Reg. CE n. 207/2009).

Sia a livello nazionale, sia a livello comunitario che internazionale la registrazione dura dieci anni e può essere rinnovata, ogni volta, alla scadenza per ulteriori dieci anni.

La registrazione, che ha la funzione di identificare in maniera incontrovertibile – cioè distinguendoli - i propri prodotti e servizi da quelli di altro imprenditore, avviene per classi merceologiche, cioè secondo quello che è l'ambito commerciale di utilizzo del segno. Al riguardo, nel 1957 a Nizza, è stato siglato (e successivamente modificato) un accordo internazionale che individua in 45 la classificazione delle diverse classi (da 1 a 35 per i prodotti e da 36 a 45 per i servizi).

Maggiore è il numero di classi per le quali si registra il marchio maggiori saranno i costi, come pure aumenteranno per l'ipotesi di marchio internazionale e comunitario.

Si consideri altresì che, per effetto del principio di unitarietà dei segni distintivi di cui all'art. 22 CPI, la tutela riconosciuta al marchio – anche di fatto – si estende alla ditta, alla ragione o denominazione sociale, all'insegna ed ai nomi a dominio riconducibili all'imprenditore titolare del marchio (estensione marchio-segni).

La suddetta estensione protettiva vale però anche al contrario, cioè dagli altri segni distintivi al marchio (estensione segni-marchio).

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2. La cornice e la ratio normativa. Il preuso, in alternativa alla registrazione, rappresenta il momento costitutivo di un diritto d'uso o di una privativa assoluta sul marchio. Quale che sia il diritto, esso si estende a tutti i segni per effetto del principio di unitarietà; questa regola vale anche per il marchio di fatto, cui sempre analogamente si applicano le altre regole circolatorie, estintive e di tutela previste in ordine ai diritti titolati. La sintesi nel look-alike.

Sottesa al c.d. “marchio non registrato” v'è, dunque, una situazione di fatto – l'uso o, meglio, il pre-uso - che assurge, a seconda del giudizio che se ne opera, a situazione di diritto o a situazione che si pone contro il diritto.

Sussistendo le condizioni di legge atte a fondare un diritto sul segno - prima ipotesi - occorre rappresentare la cornice normativa che ne racchiude la disciplina e ne rivela, nell'estrinsecazione fenomenologica, alternativamente la natura di un diritto reale pieno ovvero, nell'ipotesi di compresenza di un marchio registrato, la natura di un diritto reale frazionario (diritto d'uso).

Nella seconda ipotesi in cui non v'è giustificazione al segno da altri utilizzato si ricadrà, invece, pianamente in una contraffazione – che è la riproduzione di un bene con un segno falso atto ad ingenerare una confusione con l'originale - del marchio registrato (art. 473 c.p.; artt. 124 e 127 CPI, artt. 2569 e 2598 c.c.) o in un più generico atto di concorrenza sleale (art. 2598 c.c.), nel quale v'è l'utilizzo di mezzi illeciti al fine di procurarsi un vantaggio indebito o di arrecare un danno ingiusto ad un'impresa concorrente, senza necessariamente confusione tra i marchi.

DIRITTO REALE ASSOLUTO vs. DIRITTO D'USO

or

CONTRAFFAZIONE + CONCORRENZA SLEALE

Decisivo per stabilire, se sulla base di una certa situazione fattuale, vi sia un diritto sul segno e quale esso sia è allora il ruolo del giudice chiamato a dirimire il conflitto tra segni, ossia – si ripete - quello che sorge tra due soggetti entrambi intenzionati a distinguere le proprie attività imprenditoriali nel mercato attraverso un segno identico o analogo a quello usato dall'altro imprenditore. Nel farlo tale

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giudice guarderà alla registrazione effettuata, ma soprattutto all'uso in fatto realizzato, interrotto o tollerato di quel determinato segno.

Vediamo adesso quali norme segnano la disciplina sull'esercizio dei diritti di privativa sui segni non titolati. Alcune di esse hanno portata generale, estendendosi dai segni distintivi registrati ai segni di fatto, altre invece dettano un precetto ad hoc per i marchi di fatto.

Nell'ordine.

L'uso del marchio, in generale, trova regola all'art. 24 del CPI che afferma che, a pena di decadenza (art. 26 CPI), esso “deve formare oggetto di uso effettivo”.

La disciplina di quello di fatto si rinviene, principalmente, sia nel CPI (art. 12.1, lett. c) sia nel Codice Civile stesso dall'articolo 2569 all'articolo 2574. In particolare l'art. 2571 c.c. dispone che: “Chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è valso”.

Oltre alle disposizioni citate il preuso è, altresì, disciplinato da norme di diritto comunitario, ossia dall’art. 4.4 b) della direttiva di ravvicinamento delle legislazioni nazionali 89/104/CE e dagli artt. 8.4, 52.2 e 111.1 del regolamento (CE) 207/2009 sul marchio comunitario.

Del marchio di fatto si occupa, come riferito, l'art. 12.1 lett. c, CPI, delineando in particolare l'effetto invalidante degli altri segni (insegna, ditta, nomi a dominio, etc..) rispetto al marchio successivamente registrato; ivi si stabilisce che se il loro pre-uso, da un lato inibisce la registrazione o, appunto, la invalida, dall'altro implicitamente corrobora - sul piano probatorio della distintività e della notorietà (locale o generale) - l'uso del marchio di fatto.

Anche al marchio di fatto, poi, si applicano analogamente i rimedi cautelari e di merito (compensativi, punitivi, reali, equitativi), di cui agli artt. 117 e ss. CPI e artt. 2599-2600 c.c. (inibitoria, risarcimento del danno, restituzione degli utili, pubblicazione della sentenza, distruzione dei beni contraffatti, sanzioni penali e amministrative, sequestro – giudiziario e conservativo -, espropriazione), previsti per quello registrato.

Tuttavia in dottrina – si riferisce - vi è divisione sul fatto che tali segni non titolati abbiano una tutela completa, potendo godere di tutte le tutele previste per il marchio registrato.

In particolare, ci si è chiesti se questi abbiano la possibilità di avvalersi delle tutele accordate in caso di doppia identità (art. 20.1, lett. a e b, CPI) e di quelle ultremerceologiche riconosciute al marchio che gode di rinomanza (art. 20.1 lett.c, CPI); secondo una certo orientamento, infatti, si ritiene che essi possano godere di una mera tutela contro il rischio

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confusorio, di guisa che non esisterebbe un diritto di esclusività se non per il segno registrato, di guisa che – per la seconda ipotesi – non esisterebbe un marchio non registrato rinomato.

Personalmente – in linea con l'indirizzo maggioritario – riterrei che l'applicazione analogica delle norme sul marchio registrato sia assoluta; d'altronde il principio di unitarietà dei segni distintivi non discrimina sul punto e – per ciò - conferirebbe al titolare del segno di fatto gli stessi diritti attribuiti formalmente dalla registrazione (art. 20 CPI).

In questa estensione si ricomprende – lo ribadiamo - la tutela contro atti non necessariamente confusori ma semplicemente anticoncorrenziali.

Questa espansione di tutela da segno a segno è evidente nel c.d. look-alike, cioè in quell'ipotesi in cui il marchio viene tutelato contro l'adozione non confusoria di confezioni, etichette o forme che richiamino pedissequamente quelle proprie del prodotto originale (c.d. trade dress), pur senza imitarne direttamente i marchi registrati; in questa ipotesi di concorrenza sleale – e non di contraffazione - si fa applicazione dell'art. 2598 n.1 sull'imitazione servile.

Il caso in immagini – Caso Colussi - è esemplare in tal senso.

(Si riporta, per esempio, il caso Colussi: Trib. Napoli, 11 Luglio 2000, Colussi c. Elledì)

Il look-alike è, dunque, un problema non di mera contraffazione confusoria ma, piuttosto, un problema di distinzione tra atti di concorrenza sleale ed atti legittimi. Nel caso testé indicato, infatti, i marchi si distinguevano bene era piuttosto “l'appropriazione degli investimenti altrui” ad essere censurata.

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Il caso è brevemente richiamato significativamente; infatti, sebbene all'epoca della pronuncia i diritti non titolati non fossero stati contemplati dalla legge (ora lo sono all'art. 2.4 CPI), egualmente fu riconosciuta tutela alla parte attrice giacché la confezione del prodotto costituiva un marchio di forma di fatto con condanna ex art. 2598, n.1, c.c. per imitazione servile.

L'avvento dei “marchi metagrafici” (di forma, di colore, sonori, olfattivi) amplia, dunque, la considerazione sul marchio di fatto rivelandone nuove tipologie, ma – riterrei – non le emancipa da un necessario riferimento al marchio principale, vero oggetto – anche in termini di valore economico – di tutela da parte dell'Ordinamento.

La tutela indiretta di un marchio attraverso la censura delle imitazioni servili non è argomento nuovo, né nuovo è l'interrogativo se una tale tutela riguardi anche i diritti non titolati; mutatis mutandis risultava, infatti, a metà del secolo scorso già avvertito da un maestro del diritto civile e industriale come Mario Rotondi rispetto all'analogo problema dell'invenzione non brevettata – che fa il paio con il nostro problema del marchio non registrato - il cui prodotto commerciale venga pedissequamente riprodotto.

Rotondi, in un tempo ancora scevro da convenzioni internazionali o discipline comunitarie sui segni distintivi, evidenziava il problema dell'imitazione servile rispetto al commercio transnazionale; al Rotondi l'imitazione servile sembrava “ripugnare agli usi onesti dell'industria”, ma non tanto da ricomprendevi anche a quelle ipotesi in cui ancora mancasse una formale registrazione, che restava condicio sine qua non delle tutele.

Tutele che, invece, in Germania già trovavano cittadinanza operando le Corti una tutela assoluta degli antecedenti usi non registrati. Indirizzo – come visto – ormai affermatosi.

La disciplina del marchio di fatto gode, poi, di altre regole valide in generale per il marchio.

Così è riguardo la circolazione, che opera pure per i marchi di fatto, giacché anch'essi possono formare oggetto di trasferimento mortis causa, cessione o licenza (art. 23 CPI) ed ad essi – riterrei – possono dunque applicarsi le regole generali in tema di – continuazione ed accessione nel possesso.

Infine i marchi di fatto sono, al pari di quelli registrati, soggetti al rischio di estinzione, che avviene per perdita di quella stessa notorietà qualificata – si parla in proposito di perdita del ricordo presso il pubblico - che ne ha in precedenza determinato la meritevolezza di tutela da parte dell'Ordinamento.

Naturalmente come la notorietà costitutiva si staglia per gradi così anche l'estinzione del marchio di fatto può procedere dalla perdita di una notorietà generale a quella di una notorietà locale (sempre per individuate classi merceologiche), restringendosi per l'effetto, nello spazio e/o nell'oggetto, il diritto

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d'uso del segno prima di estinguersi del tutto e, specularmente, ampliandosi la legittima operatività di terzi sul segno.

Il più delle volte ciò è esito del non uso del marchio, che a differenza di quello registrato, riterrei – confortato dalla migliore dottrina (Franceschelli) - qui possa anche essere inferiore al termine di comporto quinquennale, pur dovendosi considerare che sospensioni dell'uso – anche per quello di fatto – sono fisiologiche e tollerabili.

Medesimo rischio d'estinzione si corre per la volgarizzazione del marchio – che si ha quando il consumatore finisce per identificare tout court il segno con il prodotto commerciale in genere (es. bic per le penne a sfera; il fenomeno opposto, in cui il marchio – anche di fatto - acquisisce una distintività prima mancante, va sotto il nome di secondary meaning) o per la illiceità sopravvenuta (decettività e contrasto con la legge, ordine pubblico e buon costume) dello stesso.

Sinteticamente sono queste le ipotesi di decadenza del marchio (art. 26 CPI), che riguardano (con l'eccezione logica della mancata rinnovazione) – quindi - anche il marchio di fatto.

3. Il corretto esercizio del pre-uso ed il principio generale di unitarietà dei segni (il caso Canali). Il conflitto tra marchi di moda patronimici, di cui uno opponga un certo preuso in regime di duopolio, importa – entro una fattispecie complessa - l'esame dell'esercizio del diritto secondo i canoni della correttezza professionale, in difetto riscontrandosi un abuso.

Consapevoli del doppio sistema di costituzione e, per il preuso, del requisito della notorietà, può ora comprendersi come la giurisprudenza abbia considerato il momento d'esercizio del diritto d'uso sul segno, anche con riguardo al principio di considerazione e tutela unitaria dei segni (rivelatore del marchio di fatto come frutto di una fattispecie complessa).

In questa linea di duplice e reciproca estensione delle tutele (da altro segno al marchio e dal marchio ad altro segno), con una pronuncia ormai risalente ma sempre significativa, si muove la Cass. Civ. n. 4405/2006 nel Caso Canali.

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(L'attuale logo)

Il caso che giunge in Cassazione vede contrapposta la Canali SPA – nota casa sartoriale con un fatturato annuo di 211 milioni di euro ed un portafoglio marchi di 106,2 milioni di euro (anno 2014) – e la Centro Moda Canali SNC di Lucio Canali (oggi di Giuliana Canali).

(L'attuale logo)

Quest'ultima, a seguito di una campagna pubblicitaria svolta in Valtellina in cui risaltava in rosso il mero nome Canali, veniva citata in giudizio per la contraffazione del marchio registrato (il 25/10/1967) “Canali” (ed altri ad esso collegati), per concorrenza sleale e per il relativo risarcimento dei danni. Contro tali accuse la convenuta opponeva il preuso del nome Canali, risalente al 4/10/1967 (data di costituzione della società), come provato dall'insegna in uso all'esterno del proprio negozio. Il Tribunale accoglieva l'eccezione.

La Canali SPA appellava la sentenza reiterando le richieste e sostenendo una risalente registrazione, ma soprattutto che il Tribunale né aveva considerato il preuso soltanto locale del marchio (anziché generale, di guisa che in ipotesi doveva riconoscersi un diritto circoscritto alla zona commerciale del comune di Tirano (Sondrio) ) né aveva adeguatamente valutato la confondibilità dei segni, specie con riguardo all'effettività di una mera descrittività – come sostenuto da controparte - nell'uso del patronimico.

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L'appello veniva rigettato e la nota casa ricorreva per Cassazione facendo valere una pluralità di motivi imperniati sulla violazione o la falsa applicazione della normativa disciplinante il marchio di fatto e quello patronimico; alcuni vengono accolti e, per l'effetto, la sentenza risulta parzialmente cassata.

Richiamiamo i soli punti d'interesse. Essenzialmente due.

3.1 La correttezza professionale.

Per il primo si è stabilito che il diritto d'uso di un segno deve essere informato a correttezza professionale (artt. 1175, 1176.2 c.c. ed art. 2598 n. 3 c.c.) .

In particolare si è censurata la valutazione nel merito per due ragioni, entrambe espressive di possibili condotte abusive. In sintesi l'esercizio abusivo del diritto di preuso è quello che amplia la portata, con funzione confusoria, del diritto al nome patronimico, ma anche quello che, con scopo anticoncorrenziale, amplia la portata geografica del diritto di preuso stesso.

a) Così si censura la sentenza giacché ha esteso la tutela patronimica oltre lo spettante (con un'impropria traslatio dal nome Luciano Canali alla ditta Centro Moda Canali). Nell'uso fattuale del marchio da parte della convenuta vi sarebbe, invero, un intento anti-distintivo (cioè confusorio) nella misura in cui il nome Canali risulta inserito al solo scopo di rievocare il pregio della casa sartoriale, agganciandosivi.

La Corte d'appello – sostiene la Cassazione - ha omesso tale esame sul rischio di associazione dei due segni, secondo un indirizzo costante da effettuarsi con riguardo al cuore della ditta – in questo caso comune ai due imprenditori nel nome “Canali”.

In particolare il giudizio sulla confondibilità, o meno, dei segni andrebbe effettuato – a dispetto da quanto operato in sede di merito – secondo un criterio, non già analitico e frammentato, ma seguendo un criterio che valuti il momento percettivo del pubblico sul segno nel suo complesso. Chiaramente si legge: “ Il relativo apprezzamento deve essere compiuto dal Giudice di merito non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni singolo elemento, bensì in via globale e sintetica, vale a dire con riguardo all'insieme degli elementi salienti grafici e visivi - i soli qui rilevanti - mediante una valutazione di impressione, che cioè non deve avere riguardo alla possibilità di un attento esame comparativo e va condotta in riferimento alla normale diligenza ed avvedutezza del pubblico dei consumatori di quel genere di prodotti, dovendo essere

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eseguito il raffronto tra il marchio che il consumatore guarda ed il mero ricordo mnemonico dell'altro”.

In breve il consumatore avrebbe potuto associare le due aziende imputando i pregi della parte attrice alla convenuta.

Residuando ragionevoli dubbi sulla correttezza di tale giudizio di confondibilità o associabilità è apparso necessario il rinvio al giudice del merito, affinché verificasse l'abuso del segno patronimico (art. 21 CPI e art. 2564 c.c.).

b) Per la seconda ragione si osservi che la correttezza dell'esercizio del segno va valutata anche nello spazio, cioè non oltre i confini che ne hanno visto lo svolgersi. L'esercizio non conforme al preuso, cioè l'esercizio che esorbita – come viene rilevato rispetto alla pubblicità della Centro Moda Canali – dalla sfera protetta, costituisce un abuso del marchio di fatto nella misura in cui si afferma un potere o si esercita una facoltà, nel suo primo apparire legittimi, per raggiungere un risultato più ampio di quello riconosciuto.

Nella specie abusivo – cioè non professionalmente corretto - è stato ritenuto l'allargamento territoriale del diritto di d'uso dal comune di Tirano – ove si era realizzato il preuso - a tutta la Valtellina. L'uso corretto accordato dal preuso era, infatti, quello circoscritto al solo comune di Tirano.

Stabilito il paradigma della correttezza professionale nell'utilizzo di un segno può riconoscersi giustamente la tutela di questo e, a norma degli artt. 12 e 22 CPI, estenderla a tutti quei segni che al primo siano riconducibili.

3.2. Il principio di unitarietà dei segni distintivi.

Posta, in astratto, la correttezza dell'uso può esaminarsi il secondo punto relativo alla tutela armonica dei segni; diversamente qualsivoglia estensione di tutela viene in radice preclusa.

Come anticipato ci si riferisce al principio di unitarietà dei segni distintivi in base al quale la Suprema Corte ha riconosciuto l'esistenza, seppur con notorietà puramente locale, del marchio di fatto “Canali” ed, in pratica, un duopolio sul segno medesimo.

Afferma sul punto il collegio di legittimità che: ”il principio di unitarietà dei segni distintivi, il quale rinviene la sua ratio nella tendenziale convergenza dei differenti segni verso una stessa finalità, è espressamente stabilito dagli artt. 13 e 17, comma 1, lett. c), L.M. (ancora per completezza, ora, D.Lgs. n. 30 del 2005, artt.

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22 e 12) e comporta che chi acquista il diritto su un segno utilizzato nella sua funzione tipica (nella specie, di insegna), acquista il diritto sul medesimo anche in relazione alle funzioni proprie degli altri segni, ferma restando l'estensione della tutela all'ambito territoriale raggiunto in riferimento all'uso fattone”.

O secondo altra e più esplicita massima che illumina la peculiare circostanza che il preuso del marchio di fatto possa fondarsi anche sul preutilizzo di un diverso segno (qui l'insegna) espressivo della medesima denominazione, la Suprema Corte afferma che: “In forza del principio di unità dei segni distintivi, il preuso di una denominazione come insegna va tutelato, nei medesimi limiti territoriali, anche in riferimento ad una utilizzazione in funzione ulteriore e diversa, quale marchio di fatto, ciò pure a fronte dell'altrui successiva registrazione di quella denominazione come marchio (nella specie, la Suprema corte ha ritenuto immune da vizi logici giuridici, confermandola, la sentenza di merito che, una volta accertato il preuso dell'insegna «Canali», per un negozio di abbigliamento, ha escluso che l'utilizzo di quella parola, nell'ambito del territorio di riferimento, come marchio di fatto, costituisca contraffazione del successivo, omonimo marchio da altri registrato)”.

In breve, il preuso di un segno “minore” - quale ad esempio l'insegna – estende la tutela di fatto anche al marchio corrispondente – segno “maggiore” -, quantunque terzi lo abbiano medio tempore registrato. Icasticamente potrebbe parlarsi di una “corrispondenza biunovoca” tra il marchio e gli altri segni, essendo che con l'uno si tutelano gli altri e viceversa.

Si consideri, da ultimo, che l'affermarsi di nuove forme di comunicazione, anche commerciale, attraverso i social networks, pone l'interrogativo se il principio di unitarietà (e la correlata regola d'individuazione di una matrice distintiva) possa operare anche rispetto a (supposti) nuovi beni immateriali (Gambaro; Resta) non contemplati dal CPI e, pertanto, non registrabili (ma, come già avvenuto con i nomi a dominio con il d. lgs. n. 131/2010, in prospettiva contemplabili dall'art. 22 CPI, considerando peraltro che ora il legislatore ha approvato un catalogo aperto dei segni tutelabili, mediante la formula generica di “altro segno distintivo”).

Il riferimento è, ad esempio, alle pagine facebook rispetto alle quali è lecito chiedersi se l'uso come una sorta di insegna digitale possa fondare un preuso contro ogni successiva pretesa formalizzata. Sono problemi aperti, e non solo nella proprietà intellettuale.

3.3. Conclusioni.

Tutto compreso, possono tirarsi le conclusioni del ragionamento.

Appare evidente che il momento costitutivo e la misura della tutela accordata al marchio di fatto da parte dell'Ordinamento possono variare in base al tipo di

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registrazione effettuata ed in base al tipo di uso in concreto effettuato, anche se di un segno “minore” e, forse, anche se di un segno “atipico”.

Ne deriva che l'uso opposto da chi viene convenuto per contraffazione di un marchio può essere irrilevante perché successivo alla registrazione o all'uso fatto del segno per quella stessa classe merceologica da un terzo, ovvero – se antecedente - rilevante solo localmente, rilevante a livello nazionale, rilevante a livello internazionale ovvero – con ulteriore espansione di tutela oltre la definita classe merceologica - rinomato, sia nazionalmente che internazionalmente.

Questo giudizio di rilevanza (o irrilevanza) si produce considerando, entro una sequenza di fatti, il concreto e costante utilizzo del segno come quel fatto necessario ma non sufficiente a formare il marchio di fatto.

In questo senso la costruzione del concetto legale del fenomeno del marchio di fatto è frutto di una fattispecie complessa (R. Scognamiglio); fattispecie risultante, appunto, dall'uso particolare impresso ad una certa denominazione, dalla costante conformità dell'uso del segno alla correttezza professionale, dal risultato notorio raggiunto, nonché ovviamente dalla mancata precedente registrazione altrui, e probabilmente dallo stesso riconoscimento giudiziale che rende il marchio di fatto opponibile erga omnes; così – può dirsi - che il marchio di fatto sorga soltanto all'accertamento dell'insieme degli elementi riconosciuti dalla legge come rilevanti per la sua efficacia.

Questi ultimi sono sia quelli tipici dell'uso, sia quelli – come a breve vedremo – espressi più direttamente dal marchio stesso.

Con una piccola nota di colore si riferisce che, a seguito della vicenda in parola, la Canali SPA – a scanso di equivoci ed ad evidenza del primato storico sul nome – ha valorizzato sempre più il marchio – registrato - “Canali 1934”, data di inizio delle attività sartoriali.

4. La molteplicità degli statuti, tra interessi pubblici e privati. La sussistenza di una pluralità graduata di statuti per i marchi si giustifica per l'esigenza di considerare gli interessi privati dell'imprenditore e quelli pubblici al rispetto di un patrimonio culturale e intellettuale che soffrirebbe una commercializzazione. Ne discendono limiti ulteriori all'uso fattuale di un segno che si troverebbe in confronto con un tertium genus costituito dai segni (o beni) distintivi delle istituzioni.

La molteplicità di statuti – un'eco nell'immateriale della lungimirante visione pluralistica dalla proprietà che si deve a luminosi civilisti come Vassalli e Pugliatti - rispetto ai quali deve confrontarsi il marchio di fatto che rivendichi una legittimazione si ravvisa, invero, non soltanto relativamente alla pluralità di possibili

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processi registratori o rispetto agli usi fattuali di un determinato segno ma anche in una sempre minore distanza ontologica che si frappone tra marchi, brevetti e copyright.

L'emancipazione del marchio dal mero segno grafico – secondo il nuovo catalogo dell'art. 7 CPI - conduce, infatti, a possibili conflitti di disciplina ed intersezioni con la materia autoriale e brevettuale (si pensi agli slogan o alle frasi di brani musicali registrate o usate come marchi, ai marchi sonori, ai marchi olfattivi, ai marchi di forma, ai marchi di colore, etc...).

Ma se non bastasse tutto questo a dimostrare come il marchio di fatto, oggi, possa emergere al sol patto di divincolarsi tra strettoie di differente costruzione giuridica, occorre pure confrontarsi con configgenti interessi pubblici.

Al riguardo è crescente l'attenzione verso la registrazione e l'utilizzazione di simboli culturali, tra cui si contemplano anche quelli dello Stato (la bandiera italiana, l'inno nazionale, etc...), come marchi. Si tratterebbe infatti di oggetti immateriali che, seppur non marchi in senso tecnico, attraverso un risalente uso pubblico, esprimono un'anteriorità invalidante analoga a quella propria del marchio di fatto (e, infatti, una facile ricerca di anteriorità ci dice che i tricolori che risultano come marchi non “contraffanno” la bandiera nazionale, differenziandosene sempre e semplicemente evocandola).

Invero, è da riferire che, già sul punto statuisce l'art. 10 CPI allorché inibisce la registrabilità di simboli, stemmi, emblemi rivestenti interesse pubblico (salva autorizzazione amministrativa); del pari è piano concludere che nemmeno l'uso fattuale di tali simboli può far assurgere il segno a marchio di fatto.

Un recente esempio di conflitto tra libertà di iniziativa economica e proprietà intellettuale pubblica dimostra come determinate circostanze abbiano l'effetto di inibire qualunque uso, di fatto e non, di un segno o di un altro bene immateriale in quanto espressivo di una valore istituzionale (e non meramente di matrice pubblica).

Si tratterebbe, in somma, di un tertium genus di segni o beni distintivi con cui i marchi, registrati e non, debbono confrontarsi. Da questo catalogo di beni bisogna, ovviamente, distinguere l'ordine pubblico e il buon costume non essendo valori ipostatizzati ma trascendenti.

Marchi di fatto – Marchi registrati – Segni o beni immateriali istituzionali

Il riferimento, qui, è al Caso Calzedonia, relativo ad una pubblicità della Calzedonia SPA che utilizzava, come colonna sonora di uno spot, l'inno nazionale in una versione leggermente modificata, già nel titolo di “Sorelle d'Italia”.

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(Screenshoot dello spot Calzedonia)

Nella fattispecie, il Giurì dello IAP (Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria) con decisione 91/09 del 10 Novembre 2009, ha vietato l'utilizzo dell'inno di Mameli censurandone la conformità alle regole di autodisciplina; in breve sostiene il Giurì che non può farsi uso di un bene di così alto valore istituzionale per uno scopo, in fondo, lucrativo.

Un parere sul caso – autorevolmente sostenuto da Ubertazzi – ha inteso evidenziare altri profili di conflitto ed ha sostenuto il divieto avvalendosi di argomentazioni privatistiche per le quali si sarebbe in presenza di un diritto di proprietà intellettuale istituzionale, sub specie di diritto morale d'autore, che inibisce l'uso pubblicitario (e – può aggiungersi – a fortiori che avrebbe effetto inibitorio anche rispetto a qualsivoglia registrazione dell'inno, o sue varianti, come marchio sonoro).

Per completezza d'insieme, infine, non può non riferirsi della limitazione sancita dall'art. 7 c.c. circa la protezione della notorietà civile, ora ripresa dall'art. 8.3 CPI, che vieta l'uso commerciale – anche di fatto naturalmente - del nome civile altrui laddove da ciò ne possa derivare pregiudizio. Che il nome civile – come nel caso da ultimo esaminato – possa essere quello di una persona giuridica pubblica non è peregrino sostenerlo.

E sempre con riguardo al nome civile si ripete l'eccezione del patronimico (art. 21 CPI) che consente a ciascun imprenditore di far uso del proprio nome civile in funzione descrittiva – ma non distintiva – senza che il titolare di un omonimo marchio registrato o chi abbia già fatto uso di un segno identico o simile (marchio di fatto) possa opporsi a tale uso parallelo. In tale particolare circostanza il preuso non è in grado di dispiegare pienamente la sua efficacia invalidante.

Conclusivamente il panorama entro cui oggi riconoscere la legittimità di un uso informale di un determinato segno è, perciò, assai complesso.

Si staglia, così, una differenziazione geografica, temporale e merceologica di tutela che, in dipendenza di diversi procedimenti amministrativi e situazioni di fatto, può dar luogo a differenti statuti per un medesimo segno. In tali interstizi, come vedremo, può trovare spazio il marchio di fatto , così come specularmente trova limitazioni ed estensioni quello registrato.

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DIRITTO D'USO

VS.

Limitazioni Pubblicistiche

(“tertium genus”)

Registro.it

ICANN

UIBM

UAMI

OMPI

Ma le diverse gradazioni che possono caratterizzare sia le registrazioni che l'uso non disegnano un'alternativa secca tra tutela assoluta del segno e assenza di tutela, piuttosto si ha un ventaglio di tutele che convivono e degradano dalla protezione del segno a livello mondiale per una molteplicità di classi merceologiche (come effetto delle diverse registrazioni nazionali e sovranazionali; ad es. così è per il marchio Coca-Cola) alla protezione circoscritta ad un uso locale per una specifica attività economica (identificabile, ex post, entro una determinata classe merceologica anche in difetto di registrazione; quest'ultimo è, appunto, il caso del marchio di fatto).

5. La rinomanza come ulteriore elemento graduante la tutela. Il marchio notoriamente conosciuto. La celebrità si atteggia come stadio più avanzato della notorietà che amplia l'ambito di esclusività del segno. La tutela del c.d. marchio notoriamente conosciuto è una tutela ultra-merceologica ed ultra-territoriale.

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Tale gradazione, peraltro, non è solo effetto di procedimenti amministrativi ma altresì – si ribadisce - figlia di situazioni di fatto; non solo per il caso in cui manchi qualsivoglia registrazione ma anche per quello in cui già una registrazione vi sia.

E' il caso, in particolare, del c.d. marchio rinomato, che è quello celebre a tal punto da ammantare della propria considerazione pubblica ogni oggetto commerciale che lo manifesti (e, per converso, talmente celebre da subire il danno di una spendita effettuata con riguardo a prodotti che, quantunque diversi da quelli commercializzati, siano nella percezione del consumatore svilenti della rinomanza altrove acquisita); per tale segno la protezione si estende anche ai prodotti ed ai servizi non affini a quelli per cui il marchio è stato registrato (c.d. tutela ultramerceologica).

Non si esclude che anche un marchio di fatto possa risultare rinomato (cristallino è l'esempio, che a breve si darà, del marchio notoriamente conosciuto ex art. 6-bis C.U.P.). Di certo - ed è quello che avviene più spesso - il marchio di fatto subisce tale rinomanza (di talché che ne potrebbe derivare, addirittura, la nullità) pur se l'uso pregresso abbia riguardato ambiti non coperti da registrazione.

In un siffatto caleidoscopio di statuti sorge, dunque, il problema della effettiva legittimità di tale uso e, in caso di risposta positiva, comunque il problema di stabilire gli esatti confini di legittimità di tale uso.

In altri termini le circostanze entro cui l'esistenza del marchio di fatto si palesa sono essenzialmente circostanze conflittuali, in atto o in potenza. Circostanze, cioè, in cui sarebbe raccomandabile la suddetta registrazione da parte di chi ne fa uso di fatto ovvero circostanze – le medesime - che limitano l'operatività di un segno posteriormente registrato.

Che le circostanze relative ai rapporti tra marchi di fatto e marchi registrati siano essenzialmente conflittuali è provato dall'art. 6-bis della Convenzione di Unione di Parigi (C.U.P.) sul, già citato, marchio notoriamente conosciuto all'estero.

La norma – come ben delineato in dottrina, ad esempio, da Ricolfi - origina dalla necessità di contrastare fenomeni transnazionali di usurpazione del marchio, giacché in precedenza era invalsa la prassi, per esempio in Sud America, di registrare marchi stranieri ancora, lì, non registrati, con l'effetto che l'imprenditore che arrivava in quei paesi non poteva fare un uso legittimo del proprio segno (e, magari, veniva costretto ad acquisire il segno dal titolare, più un registratore seriale che un effettivo concorrente; fenomeno analogo, peraltro, si ripete oggi con riguardo ai nomi a

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dominio, per i quali è invalsa la sintomatica espressione di domains grabbing, cioè accaparramento di domini).

Conclusivamente può dirsi che il caso del marchio notoriamente conosciuto costituisca chiaro esempio di marchio di fatto internazionalmente rinomato ; d'altronde in questi termini si esprime l'art. 12.1, lett. f, CPI allorquando ne subordina l'efficacia invalidante alla ricorrenza dei presupposti di tutela propri del marchio rinomato.

6. Profili di Teoria Generale del Diritto. Le situazioni di fatto come circostanze costitutive di diritti.

Prima di proseguire l'analisi del marchio di fatto, occorre effettuare qualche considerazione di teoria generale, giusto per comprendere la ratio che ispira la giurisprudenza nell'accordare tutela o meno all'uso di un determinato segno c.d. non titolato.

Quando parliamo di situazioni giuridiche soggettive di fatto (o come si fa nella proprietà intellettuale di diritti non titolati) siamo nel mezzo tra le c.d. situazioni titolate (cui corrispondono diritti pacificamente riconosciuti per i quali c'è un titolo, ossia, astrattamente un atto o un fatto che lo fonda e praticamente un documento che comprova tale atto o fatto), in cui il vaglio di meritevolezza è già stato effettuato, e quelle che rilevano come meri fatti non meritevoli di una tutela da parte dell'Ordinamento.

SITUAZIONI TITOLATE – SITUAZIONI DI FATTO – MERI FATTI

Stare nel mezzo significa, dunque, stare davanti ad una situazione che non ha un titolo inteso come documento ma è, tuttavia, meritevole di tutela da parte dell'Ordinamento in forza e nella misura della rilevanza (generale o locale) di un fatto; nel caso del marchio di fatto questo fatto è il c.d. pre-uso, cioè l'uso anteriore ad ogni altro, compreso quello registrato, di un determinato segno distintivo.

Le situazioni in cui uno stato di fatto viene ritenuto meritevole di considerazione e tutela giuridica sono tante (possesso, società di fatto, famiglia di fatto, etc...). Innanzitutto e soprattutto

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conviene soffermarsi sul possesso, definito non a caso – da Rodolfo Sacco, autore della corrispondente voce nell'Enciclopedia del Diritto, e da altri illustri civilisti - come situazione di fatto corrispondente ad una situazione di diritto.

Richiamare il possesso preliminarmente alla nostra trattazione è utile perché il rapporto che intercorre tra il possesso e la proprietà (o altro diritto reale minore) è, in fondo, lo stesso che lega il marchio non registrato (per questo di fatto) ed il marchio registrato.

Come l'art. 1140 c.c. che disciplina il possesso, al primo comma, afferma che “Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale”, allo stesso modo l'art. 2 del CPI statuisce una doppia giustificazione del potere di una persona sulla cosa immateriale; infatti se è vero che al comma 2 il Legislatore del 2005 ha stabilito che la costituzione del diritto sulla cosa sorga attraverso un particolare procedimento, cioè per registrazione (con riguardo al marchio) o per brevettazione (con riguardo al brevetto), al comma 4 ha sancito che allo stesso modo possono essere protetti i segni distintivi diversi (cioè non registrati o brevettati).

Per quanto premesso nel parallelo può sostenersi l'applicabilità delle regole codicistiche anche in ordine alla circolazione dei beni immateriali. All'uopo va ricordato che il marchio di fatto, come quello registrato è oggetto di disposizione, tanto inter vivos che mortis causa; ne consegue la possibilità di una successione o di una accessione nel possesso (art. 1146 c.c.) – rectius nell'uso - utile a costituire l'effettività richiesta a norma dell'art. 2571 c.c. .

COSTITUZIONE/INVALIDAZIONE:

REGISTRAZIONE vs USO CONCRETO (PRE-USO)

Ex facto oritur ius . Accanto al formalismo che è garanzia (e non si vede come negare che la registrazione realizzi un interesse legittimo di tutela della propria privativa) riemerge la fattualità del diritto (come d'altronde già visto allorché abbia definito il marchio di fatto come frutto di una fattispecie complessa).

Questa duplicità di assetti normativi – Diritto fatto e Diritto detto, societas e ius - che è una costante, anzi una componente imprescindibile, dell'Ordinamento (quasi un secolo fa ciò veniva predicato, con alterne fortune, da Santi Romano) – è oggi, oltremodo, evidente, specie perché l'Ordinamento dello Stato abbandonando molte sue storiche prerogative – su tutte si veda il tracollo del potere legislativo - viene sempre più incalzato da quello dei Privati (e – absit iniuria verbis – da quello dei Giudici).

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L'espansione dell'autonomia privata è ben visibile nella proprietà intellettuale dove le regole sono stabilite per tutti o a livello di una speciale lex mercatoria e a livello sovrastatuale; in ciò si manifesta l'avanguardia dell'ordinarsi della società (nell'assenza del dato normativo risulta, così, spontaneo indagare le regole per principi e le corrispondenti violazioni secondo il metodo dell'abuso del diritto).

7. Gli effetti dell'uso. La convalida. Le conseguenze dell'uso. La convalida come effetto della tolleranza consolidata dell'uso illegittimo. I dubbi circa la convalidabilità del marchio di fatto.

Tanto premesso possiamo dire con maggiore consapevolezza che l'uso concreto, o meglio effettivo, è tale in quanto produttivo di particolari effetti, valevoli sia per il marchio registrato che per quello di fatto. Infatti l'uso effettivo del segno vale, oltre che come condizione di costituzione per quello non registrato anteriore, anche come condizione di non decadenza dall'esercizio del diritto per entrambi (art. 24 CPI) -. Per ciascuna delle due vicende si parla anche, non a caso, di effetto costitutivo e di effetto conservativo del segno.

Da altro punto di vista, rispetto al marchio registrato successivo - rispetto al quale si pone in conflitto l'anteriore marchio di fatto -, il pre-uso determina un effetto distruttivo della novità (e dell'originalità).

Ora, la novità sappiamo essere requisito essenziale per la registrazione del marchio titolato che, per l'effetto, sarebbe affetto da nullità (artt. 12 e 25 CPI).

Invero ciò vale solo per il preuso che importi notorietà generale, mentre il preuso che non importa notorietà o ne importa una solo locale non priva il segno di novità – quindi di validità – ma impone che del marchio si continui a fare un uso circoscritto. Il potere invalidante del marchio di fatto, infatti, opera solo se tale segno ha portata, almeno, nazionale (v. art. 12.1 lett. b CPI).

Orbene, tanto detto, occorre dire che però tale effetto invalidante tipico del marchio di fatto rispetto al marchio posteriormente registrato trova contrappeso nella possibilità, stanti certe condizioni, di convalidare il marchio di per sé nullo.

Tale effetto convalidante si produce – a norma dell'art. 28.1 CPI – quando “il titolare di un marchio d'impresa anteriore ai sensi dell'art. 12 e il titolare di un diritto

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di preuso che importi notorietà non puramente locale, i quali abbiano, durante cinque anni consecutivi, tollerato, essendone a conoscenza, l'uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile, non possono domandare la dichiarazione di nullità del marchio posteriore né opporsi all'uso dello stesso per i prodotti o servizi in relazione ai quali il detto marchio è stato usato sulla base del proprio marchio anteriore o del proprio preuso, salvo il caso in cui il marchio posteriore sia stato domandato in mala fede. Il titolare del marchio posteriore non può opporsi all'uso di quello anteriore o alla continuazione del preuso.”

USO:

Effetto Costitutivo + Effetto Conservativo

Effetto Distruttivo (Invalidante) vs. Effetto Convalidante (Attributivo)

Ci si è chiesti se la convalidazione potesse operare anche con riguardo al marchio di fatto, cioè se la tolleranza di un successivo marchio di fatto comportasse – allo stesso modo che per il marchio registrato – un effetto attributivo dell'uso del segno.

Una recente giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. n. 24418/13 e n. 26498/13, noto come “Caso Ferrari” vedendo contrapposti la casa automobilistica Ferrari S.P.A. e l'autoclub Associazione Ferrari Club Milano), sulla scia di una precedente pronuncia comunitaria (CGUE, 22 Settembre 2011, C-482/09) che affermava la preordinazione della registrazione all'uso tollerato, ha escluso tale effetto attributivo affermando la non convalidabilità del marchio di fatto sull'assunto che la convalida opera soltanto in presenza sia del requisito fattuale della “consapevole tolleranza” che di quello formale della “successiva registrazione” (che, nel caso di specie, infatti mancava).

(Un logo simile a quello censurato, con al centro il noto marchio del cavallino rampante)

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Sicché la preclusione per il titolare del marchio Ferrari a far valere la propria opposizione al relativo uso da parte dell'autoclub non è stata ritenuta operante e l'autoclub riconosciuto, in quanto svolgente attività economica, colpevole di concorrenza sleale confusoria ex art. 2598 c.c., n. 1 per aver contraffatto il marchio Ferrari ed altri marchi nella titolarità della parte attrice.

Tuttavia l'esclusione di un'interpretazione analogica dell'art. 28.1 CPI, tale da estendere la convalida al marchio di fatto, appare di un rigore – come argomentato in dottrina - che non trova un indiscutibile addentellato nel sistema delle fonti, anche comunitarie (Dir. 89/104). Di guisa che potrebbe, in futuro, aversi un diverso indirizzo sul punto nel senso della convalida anche per i marchi non registrati.

8. Il concetto di notorietà. Profili evolutivi. L'autonomia ontologica e strutturale della notorietà dall'uso. Critiche logiche e giuridiche all'interpretazione pretoria.

La materia che qui è oggetto di trattazione è materia ad alto tasso di trasformazione. L'esplosione delle tecnologie di comunicazione incide – dilatandone la percezione quantitativa a scapito di quella qualitativa - sul concetto stesso di ciò che sia pubblicamente noto.

Proprio per questo – riterrei – che compito dell'interprete sia in questo caso quello di contenere il significato di noto, nel senso di renderlo più aderente al concetto che, in common law, viene reso con il sintagma di “brand awareness”, cioè di consapevolezza del marchio, ossia la capacità di una certa domanda commerciale di identificare in un determinato marchio la corrispondente offerta.

Ignorare questa corrispondenza biunivoca, isolando l'uso dalla notorietà, probabilmente significa mortificare la ratio legislativa intorno all'esigenza di tutelare il marchio di fatto come espressione di una determinata offerta commerciale.

Comprendere quale essa sia diviene, perciò, essenziale.

Un recente caso, invero sui generis, deciso dal Tribunale di Bari con sentenza del 20 Settembre 2013 (Caso Duff Beer) ci illumina sulle metamorfosi del significato di notorietà e su i rapporti tra marchio di fatto e marchio registrato.

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Il sostrato del caso è nel noto cartone animato televisivo – prodotto dalla 20th

Century Fox - The Simpson, il cui protagonista principale – Homer Simpson – è un forte consumatore di birra, in particolare di tale “Duff Beer”.

Solo pochi mesi fa' la Fox ha annunciato che nel 2016 comincerà la distribuzione di una birra con questo nome in Europa. Prevedibili – come già successo in Australia – sono le controversie con chi già da tempo produce e distribuisce birra col medesimo marchio (qui in Italia sia quella stessa birra australiana oggetto di lite risolta in favore della 20th Century Fox, sia un'altra birra di identico marchio prodotta in Svizzera).

Come nel caso oggetto di disamina sarà decisivo stabilire se la notorietà acquisita nel cartone animato sia tale da poter fondare un marchio di fatto ovvero un marchio notoriamente conosciuto ex art. 6 CUP. Sul punto il riferimento andrà fatto al pubblico dei consumatori di birra. Trattandosi poi di settore merceologico diverso rispetto a quello in cui la 20th Century Fox ha diritti di proprietà intellettuale probabile che ritorni, come punto di analisi, l'eventuale problema della convalida del marchio di fatto.

La percezione del marchio (brand perception) nelle pronuncia in esame tiene in considerazione quella del pubblico televisivo, in particolar modo gli adolescenti come costituenti un certa domanda commerciale su i prodotti di abbigliamento.

La valutazione dell'immagine di marca (brand image), tuttavia, è un difficile processo di analisi del mercato che si effettua nell'esame della diffusione della marca per stadi successivi (Brondoni); sin d'ora può dirsi che il giudice di merito, per quanto peritus peritorum, avrebbe potuto avvalersi di una specifica consulenza tecnica onde comprendere se effettivamente il marchio “Duff Beer” esprimesse quella offerta commerciale che la domanda adolescenziale richiedeva.

In fatto. Il nome “Duff Beer” già da tempo risulta diffuso nella moda ed è, quale marchio comunitario, nella titolarità della suddetta casa produttrice che – in

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Italia - lo ha dato in licenza alla ditta Abacab. Ma, al contempo, lo stesso risulta registrato, in testa alla società maglificio Francesca, quale marchio nazionale in classe 25 (prodotti di abbigliamento). Nella stessa classe, precedentemente, la New Dance Group aveva, tuttavia, registrato il segno “Duff”.

Il Tribunale di Bari si ritrova, dunque, a dover dirimire una controversia tra tutti e tre i soggetti intorno alla legittimità dell'uso dei rispettivi segni.

In particolare il giudice ha statuito in capo alla Abacab la titolarità del marchio di fatto “Duff Beer”, con l'effetto che tale anteriorità avrebbe distrutto, a norma dell'art. 12.1, lett. b, CPI, la novità del marchio posteriore “Duff”.

Quel che sorprende non è tanto l'esito della vicenda, tutto sommato lineare nell'attribuire prevalenza ad una parte anziché all'altra sul presupposto del pregresso uso notorio del segno, ma l'argomentazione per cui nel caso di specie vi sarebbe una notorietà generale, superiore a quella puramente localizzata nell'uso del segno, fondata sul successo televisivo del cartone animato presso gli adolescenti.

La conclusione del Tribunale, invero, sconvolge quanto su affermato sulla necessaria preordinazione dell'uso alla notorietà ed afferma la possibile ricorrenza separata dei due presupposti, o meglio un'inversione del processo di consolidamento del marchio (si parla, con attenzione al momento percettivo della domanda, tecnicamente di reverse product placement): prima segno televisivamente notorio, poi anche marchio commercialmente diffuso.

All'evidenza appare una forzatura perché dimentica che la notorietà considerata dalla legge non è generica ma, specificatamente, quella che si produce con l'uso consolidato. Invero il fatto normativo considerato è proprio ed unitariamente l'uso specifico, legittimo e costante di un segno in un territorio, il cui effetto naturale è quello della notorietà, da parte di chi – poi – rivendica la privativa su tale segno.

Si ribadisce: entrambi i requisiti dovrebbero provenire da chi (Abacab), poi, verrà riconosciuto titolare del marchio di fatto, e non già da parte di chi è terzo rispetto a tale fattispecie (20th Century Fox, essendo semmai essa a potersi dire titolare del marchio di fatto).

Disconoscere l'unicità soggettiva di usuario e titolare del marchio, così scindendo i due requisiti dell'uso e della notorietà, sembrerebbe, dunque, un'operazione interpretativa contraria al senso stesso della norma, che altrimenti avrebbe valorizzato meramente la notorietà, comunque e da chiunque, formatasi.

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Forse sarebbe stato, allora, più ragionevole un riferimento al marchio notoriamente conosciuto ex art. 6 CUP.

Altri numerosi casi sono stati di recente decisi in sede di legittimità (Trib. Bologna n. 793/14: Caso Zanella e Trib. Torino n. 359/13: Caso Olcese); e si apprezza in essi la totale dissonanza con l'arresto del caso “Duff Beer”.

Si tratta di casi in cui il marchio di fatto è anche patronimico, casi che per ambito commerciale di riferimento esaltano – più che altrove - il valore del marchio.

Nel caso Zanella – ennesima ipotesi di conflitto tra marchi di moda patronimici, risolto secondo l'arresto del caso Canali - chiarissima, ad esempio, l'argomentazione del collegio che afferma la preordinazione dell'uso rispetto alla notorietà: “Elemento costitutivo del marchio di fatto è infatti non il semplice uso del segno (di cui comunque non può prescindersi, ndr) bensì la sua notorietà qualificata, e questa richiede che il segno abbia acquisito (ed è proprio attraverso l'uso che lo fa) valenza distintiva, imprimendosi nella memoria della clientela e divenendo capace di esprimere il collegamento tra il mercato, il prodotto e il produttore”.

Gli elementi che prova no la notorietà qualificata – si precisa - sono considerati il volume commerciale e la portata della pubblicità , ma è naturale non possa prescindersi da una connessione logica tra tale notorietà e tra soggetto che avanza diritti sul segno, tale connessione risiede proprio nell'uso del segno divisato.

9. Conclusioni. Il marchio di fatto come espressione di uno slittamento del paradigma dominicale.

In conclusione mi corre l'obbligo di spiegare il perché del logo della “f” cerchiata posto a corredo del titolo di questa lezione, ad eco della “r” di marchio registrato.

Naturalmente non se ne vuole un'applicazione nella pratica, sarebbe un ossimoro chiedere di cristallizzare qualcosa che esiste perché in movimento. Riterrei però, qui, utile sollevare il paradosso onde evocare la sintesi delle dimensioni – formalista ed antiformalista - proprie del caso di specie.

In altri termini credo che il simbolo – e di simboli parliamo - abbia la capacità di riassumere come, nel diritto della proprietà intellettuale – ma in fondo nel diritto

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civile tutto –, la dimensione del fatto abbia un'incidenza normativa notevole, ma al contempo subisca la forza attrattiva del formalismo. C'è un compenetrarsi che non può ignorarsi.

Come intuito in una recente opera di Natalino Irti – il salvagente della forma – il diritto cui è impressa una direzione si avvale della certezza e del rigore delle forme per perseguire i fini di cui è incaricato; ma nel mare dei fatti, laddove l'Ordinamento naviga con la rotta della Giustizia, se è vero che la forma assume una funzione significativa in termini di garanzia, viceversa, è pur vero che quando essa smarrisce i propri limiti, soverchiando le emergenti istanze sociali perché non previste, l'Ordinamento sembra naufragare. In questi casi la forma da mero salvagente si fa piombo.

La forma serve infatti al giurista cartografo per incasellare le sue conoscenze acquisite, e giammai al giurista navigatore per identificare a priori territori inesplorati. L'interpretazione muove sempre dal fatto, qualificandolo.

Dunque specioso il compito dell'interprete, chiamato a sottrarsi alle accuse di legalismo, da un lato, e – peggio - a quelle di illegalità, dall'altro.

Tanto compreso la forma – sia essa una registrazione o qualunque altro riconoscimento formalizzato - rappresenta un momento che dovrebbe succedere all'estrensicarsi dei fatti, all'ordinarsi – per dirla con le parole di Santi Romano – della società della quale, semplicemente, bisognerebbe recepire il volere. E tuttavia non è raro leggere norme che anticipano e – sebbene odiate – influenzano l'assetto sociale (si pensi alla “dominicalizzazione intellettuale” delle sementi effettuata in Colombia ad esito dei Trattati di libero commercio con USA e UE che grandi proteste ha suscitato tra i campesinos).

Ottimo allievo di questa lezione, Salvatore Romano, negli Aspetti soggettivi dei diritti sulle cose, ebbe a dire che ogni proprietà è tale in quanto i beni su cui essa si distende svolgano una funzione sociale (art. 42 Cost.), non – dunque - una funzione preconfezionata in un qualche inerte regolamento governativo.

In ciò si dicono due cose d'interesse anche per la proprietà intellettuale; cioè che i diritti di proprietà esistono in quanto si svolgono – si esercitano - attraverso il godimento o la disposizione dei correlati beni (vengono prima i beni e poi i diritti, che – non a caso – sono in proprietà più che di proprietà), e che questi diritti sono riconosciuti tali, cioè meritevoli di tutela, in quanto vengano esercitati per il corretto ordinarsi dell'Ordinamento (in tal senso vengono condannati l'inerzia e l'abuso del diritto).

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Il marchio di fatto ha dignità ontologica, il marchio di fatto ha cittadinanza giuridica fin quando opera con una correttezza che si definisce in confronto a quello registrato. Stabilire che esso sorga attraverso l'uso d'altro segno, stabilire la misura della correttezza professionale, è l'ordinarsi di un “Ordinamento Mercatorio” che ha la sua cifra distintiva nei segni distintivi.

Nella proprietà intellettuale infatti - in cui si afferma una rivoluzione della struttura monistica (o per usare le parole di Thomas Kuhn uno slittamento di paradigma) della proprietà - stiamo esattamente vivendo questo momento, quello dell'ordinarsi.

In questo momento la magia del fas costruisce il ius : prima nascono nuovi beni immateriali (contro il vetusto principio del numero chiuso dei diritti reali) , poi si affermano i diritti su questi, infine si cerca di adattare il sistema proprietario a tali evoluzioni.

Emblematico, anche rispetto a questo studio, il caso dei nomi a dominio ovvero quello della registrabilità come marchi degli slogan: v. caso Blackrock, TUE n. 59/2015, che la nega (contro precedenti che la riconoscevano: Nokia e Apple); ovvero la registrazione come marchio di alcune frasi di una canzone della popstar Taylor Swift. Tutte circostanze che provano come la materia in esame viva una costante trasformazione.

Decidere quanta vita e quanto respiro debba avere un marchio che si afferma per la mera pratica del commercio, quanto ne debba aver invece uno che sia registrato, soprattutto stabilire i criteri dirimenti di tale conflitto, fa parte del momento storico, dell'altalenarsi di esigenze di sviluppo economico (ma non solo economico) e di tutele dominicali.

Ma in fondo è un ricorso, l'ennesima occasione – e di certo non l'ultima - per (ri)definire il paradigma dominicale, o forse più praticamente per elaborare strumenti di controllo, di governo e direzione del progresso tecnologico e produttivo (sul quale opera il diritto dei brevetti e, più in generale, il lavoro dell'uomo) di cui i marchi, ivi compresi quelli di fatto (anzi spesso per primi quelli di fatto), sono il significante (Marrone).

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