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I l riconoscimento della giustizia globale come problema poli- tico a pieno titolo costituisce una delle novità più rilevanti della discussione inter- nazionalistica odierna. Tale legittimazione è il frutto di un acceso dibattito trenten- nale che è riuscito ad emergere lentamente dal limbo in cui era stato lasciato per molto tempo, sin dalle prime affermazioni della disciplina delle International Rela- tions. Tra le cause d’esclusione di diversa natura e d’uguale effettività tre hanno ri- vestito, sino agli anni Settanta, un ruolo particolarmente significativo per ciò che concerne questo studio: l’egemonia della scuola realista nel dibattito politologico delle relazioni internazionali; la situazione politica mondiale dovuta alla guerra fredda; e l’interesse prevalentemente meta-etico della filosofia d’area anglosassone della prima parte del Novecento. Il dibattito specifico sull’etica applicata alle relazioni internazionali si è avviato negli Stati Uniti proprio in diretta contrapposizione al paradigma realista che, fino ad allora, aveva esercitato una vera e propria egemonia dottrinale. Contro le pretese rea- liste, che intendendo la politica come perseguimento dell’interesse nazionale riserva- no all’etica universalistica uno spazio del tutto marginale, i filosofi morali e politici hanno fatto valere con rinnovata passione le considerazioni etiche transnazionali. Una delle prime affermazioni pubbliche di questa controtendenza è riconosciuta nella ri- soluzione del 1967 della American Philosophical Association contro la guerra in * Desidero ringraziare Eugenio Lecaldano e Michele Marchetti per i commenti a una precedente ver- sione di questo saggio. 111 FILOSOFIA E QUESTIONI PUBBLICHE 1, 2005 Raffaele Marchetti Utilitarismo e giustizia globale* 111-134 F&QP 1-2005 Marchetti 3-06-2005 15:35 Pagina 111

Utilitarismo e Giustizia Globale

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Il riconoscimento della giustizia globale come problema poli-tico a pieno titolo costituisce una delle novità più rilevanti della discussione inter-nazionalistica odierna. Tale legittimazione è il frutto di un acceso dibattito trenten-nale che è riuscito ad emergere lentamente dal limbo in cui era stato lasciato permolto tempo, sin dalle prime affermazioni della disciplina delle International Rela-tions. Tra le cause d’esclusione di diversa natura e d’uguale effettività tre hanno ri-vestito, sino agli anni Settanta, un ruolo particolarmente significativo per ciò checoncerne questo studio: l’egemonia della scuola realista nel dibattito politologicodelle relazioni internazionali; la situazione politica mondiale dovuta alla guerrafredda; e l’interesse prevalentemente meta-etico della filosofia d’area anglosassonedella prima parte del Novecento.

Il dibattito specifico sull’etica applicata alle relazioni internazionali si è avviatonegli Stati Uniti proprio in diretta contrapposizione al paradigma realista che, fino adallora, aveva esercitato una vera e propria egemonia dottrinale. Contro le pretese rea-liste, che intendendo la politica come perseguimento dell’interesse nazionale riserva-no all’etica universalistica uno spazio del tutto marginale, i filosofi morali e politicihanno fatto valere con rinnovata passione le considerazioni etiche transnazionali. Unadelle prime affermazioni pubbliche di questa controtendenza è riconosciuta nella ri-soluzione del 1967 della American Philosophical Association contro la guerra in

* Desidero ringraziare Eugenio Lecaldano e Michele Marchetti per i commenti a una precedente ver-sione di questo saggio.

111FILOSOFIA E QUESTIONI PUBBLICHE 1, 2005

Raffaele Marchetti

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Vietnam 1, la quale mise in moto un ampio dibattito che portò poi alla fondazione, daparte di alcuni filosofi come Morgenbesser e Nagel, della Society for Philosophy andPublic Affairs nel 1969, progenitrice dell’omonima rivista, per anni punto di riferi-mento per il presente dibattito. Da allora la discussione si è molto diffusa tanto chequasi tutte le scuole di pensiero si sono cimentate sugli specifici temi internazionalisti-ci: dal contrattualismo al marxismo, dalla teoria liberale dei diritti al femminismo, dalgiusnaturalismo al postmodernismo, dal neokantismo al neohegelismo, dal nazionali-smo al repubblicanesimo, tutti hanno detto la loro sulla giustizia globale 2. In questogran calderone anche l’utilitarismo ha fatto la sua parte, sebbene sia stata, a parere dichi scrive, una parte sottovalutata e ancora non sviluppata a pieno.

La produzione utilitaristica che si sviluppa a partire dagli anni Settanta 3 si con-centra su una serie molto ampia di questioni di carattere internazionalistico (fra iquali, la guerra e la deterrenza nucleare; la migrazione e la cittadinanza; la sovrani-tà, i diritti umani e la democrazia internazionale; i problemi demografici e quelli del-le generazioni future; la povertà e la giustizia distributiva internazionale; l’ingerenzaesterna e l’autodeterminazione; la crisi ambientale e il nazionalismo) 4, ma non ri-

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1 «Journal of Philosophy», 1, 1967.2 Come opere d’inquadramento generale sulla discussione corrente sulla giustizia globale si veda: C.

Brown, International Relations Theory: New Normative Approaches, Harvester Wheatsheaf, Hemel Hemp-stead 1992; K.G. Giesen, L’etique des relations internationales. Les theories anglo-americaines contemporai-nes, Bruylant, Brussels 1992; C. Jones, Global Justice: Defending Cosmopolitanism, Oxford University Press,Oxford 1999; S. Caney, Review Article: International Distributive Justice, «Political Studies», 5, 2001.

3 Malgrado siano di Bertrand Russell i primi scritti di utilitarismo internazionalistico del XX secolo, lasua figura rimane tuttavia del tutto esterna al presente dibattito. B. Russell, Human Society in Ethics and Po-litics, Allen & Unwin, London 1954.

4 Cfr. la seguente bibliografia divisa per argomenti per un primo approccio alla letteratura utilitaristicainternazionalistica contemporanea. GUERRA E DETERRENZA: R.B. Brandt, Utilitarianism and the Rules of War,«Philosophy and Public Affairs», 1, 1972, R.B. Brandt, When Is It Morally Permissible to Use Tactical NuclearWeapons, paper presentato al War and Morality Symposium, US Military Academy, West-Point, 1980; J.E.Hare e C.B. Joynt, Ethics and International Affairs, Macmillan, London 1982; R. Goodin, Disarmement as aMoral Certainty, «Ethics», LXLV, 1985; R.M. Hare, Essays on Political Morality, Clarendon Press, Oxford1989, G. Pontara, Antigone o creonte, Editori Riuniti, Roma 1990; G. Pontara, Guerra etica, etica della guerrae tutela globale dei diritti, «Ragion Pratica», gennaio, 2000; J. Glover, Humanity. A Moral History of the Twen-tieth Century, Pimlico, London 2001. MIGRAZIONE E CITTADINANZA: R. Goodin, What is So Special about OurFellow Countrymen?, «Ethics», 4, 1988; P. e R. Singer, «The ethics of refugees policy», in M. Gibney, Openborders? Closed societies?: The Ethical and Political Issues, Greenwood, New York 1988; B. Barry e R.E. Goo-din, a cura di, Free Movement: ethical issues in the transnational migration of people and money, HarvesterWheatsheaf, Hemel Hempstead 1992; R. Goodin, Inclusion and Exclusion, «Archives Européennes de Socio-logie», 2, 1996. DIRITTI UMANI: D. Lyons, Human Rights and the General Welfare, «Philosophy and Public Af-fairs», 6, 1977; R. Goodin, The Development-Rights Trade Off: Some Unwarranted Economic and Political As-sumptions, «Universal Human Rights», 1, 1979; J. Narveson, Human Rights: Which, if Any, Are There?, «No-mos», XXII, 1981; A. Gibbard, «Utilitarianism vs. Human Rights», in E. P. Frankel et al., a cura di, HumanRights, Oxford University Press, Oxford 1984; G. Pontara, Interdipendenza e indivisibilità dei diritti economi-ci, sociali, culturali e politici, in AA.VV., a cura di, I diritti umani a 40 anni dalla dichiarazione universale, Ce-dam, Padova 1989. SOVRANITÀ E DEMOCRAZIA INTERNAZIONALE: P. Singer, One World: the Ethics of Globali-

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esce a generare una sintesi che funga da punto di riferimento critico ultimo per l’in-tera scuola. Malgrado l’eterogeneità di contenuto, questi temi richiedono, infatti,delle risposte normative che rimandano inevitabilmente a un approccio comprensi-vo di giustizia globale, il quale non è tuttavia facilmente identificabile in modo uni-voco. È dunque su tale prospettiva generale che il presente saggio si concentra, ten-tando di tirare delle fila di tipo comparitivistico su quegli argomenti di giustizia glo-bale che supportano le specifiche proposte che hanno animato il dibattito utilitari-stico degli ultimi trent’anni. Partendo dalla constatazione della mancanza, presso-ché assoluta, di un’opera che funga da raccordo tra i vari scritti 5, il presente lavoro

zation, Yale University Press, New Haven 2002; R. Goodin, Justice in One Jurisdiction, No More, «Philoso-phical Topics», 2, 2002; R. Goodin, «Globalising Justice», in D. Held e M. Koenig-Archibugi, a cura di, Ta-ming Globalisation: Frontiers of Governance, Polity Press, Cambridge 2003. PROBLEMI DEMOGRAFICI E GENE-RAZIONI FUTURE: J. Narveson, Utilitarianism and New Generation, «Mind», 76, 1967; J. Narveson, Moral Pro-blem of Population, «Monist», 1, 1973; J. Fletcher, «Give if It Helps but not if It Hurts», in W. Aiken e H. LaFollette, a cura di, World Hunger and Moral Obligation, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1974; G. Hardin,«Lifeboat Ethics: the Case Against Helping the Poor», in W. Aiken e H. La Follette, a cura di, World Hungerand Moral Obligation, cit.; J. Fletcher, «Feeding the Hungry: an Ethical Appraisal», in G.R. Lucas e T.W.Ogletree, a cura di, Lifeboath Ethics. The Moral Dilemmas of World Hunger, Harper & Row Press, New York1976; G. Hardin, «Carrying Capacity as an Ethical Concept», in G.R. Lucas e T.W. Ogletree, Lifeboath Ethics.The Moral Dilemmas of World Hunger, cit.; G. Pontara, Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari 1995.POVERTÀ E GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA INTERNAZIONALE: J. Narveson, Aesthetics, Charity and Distributive Justice,«Monist», 56, 1972; P. Singer, Famine, Affluence, and Morality, «Philosophy and Public Affairs»; J. Narveson,«Morality and Starvation», in W. Aiken e H. La Follette, a cura di, World Hunger and Moral Obligation, cit.;P. Singer, «Reconsidering the Famine Relief Argument», in P.G. Brown e H. Shue, a cura di, Food Policy. TheResponsability of the U.S. in the Life and Death Choices, The Free Press, New York 1977; T. Carson, «Utilita-rianism and World Poverty», in D. Miller e H. W. Williams, a cura di, The Limits of Utilitarianism, Universityof Minnesota Press, Minneapolis 1982; G. Pontara, Filosofia pratica, il Saggiatore, Milano 1988; G. Elfstrom,Ethics for a Shrinking World, Macmillan, London 1989; P. Unger, Living High and Letting Die: Our Illusion ofInnocence, Oxford University Press, Oxford 1996; B. Hooker, Rule-consequentialism and the Obligation to theNeedy, «Pacific Philosophical Quarterly», 79, 1998; P. Singer, ‘The Singer Solution to World Poverty, «NewYork Time online», September 5, 1999; B. Hooker, Ideal Code, Real World: A Rule-Consequentialist Theory ofMorality, Oxford University Press, Oxford 2000; A. Kuper e P. Singer, Debate: Global Poverty Relief, «Ethicsand International Affairs», 1, 2002. INGERENZA ESTERNA E AUTODETERMINAZIONE: G. Elfstrom, On Dilemmasof Intervention, «Ethics», 93, 1983; J. McMahan, «Ethics of International Intervention», in A. Ellis, a cura di,Ethics and International Relations, Manchester University Press, Manchester 1986; S. Brittan, «Morality andForeign Policy», A Restatement of Economic Liberalism, Macmillan, London 1988; J. McMahan, Interventionand Collective Self-Determination, «Ethics and International Affairs», 1996. PROBLEMI ECOLOGICI: R. Goodin,International Ethics and the Environmental Crisis, «Ethics and International Affairs», 4, 1990; R. Goodin,Green Political Theory, Polity Press, Cambridge 1992. SALUTE: J.E. Roemer, «Distributing Health: The Allo-cation of Resources by an International Agency», in M. Nussbaum e A. Sen, The Quality of Life, ClarendonPress, Oxford 1993. NAZIONALISMO E MULTICULTURALISMO: R. McKim e J. McMahan, a cura di, The Moralityof Nationalism, Oxford University Press, New York 1997; R. Goodin, «Conventions and Conversions, or,Why Is Nationalism Sometimes so Nasty?», in R. McKim e J. McMahan, The Morality of Nationalism, cit.

5 L’unico saggio interamente dedicato all’utilitarismo internazionalistico è l’articolo A. Ellis, «Utilita-rianism and International Ethics», in T. Nardin e D.R. Mapel, a cura di, Traditions of International Ethics,Cambridge University Press, Cambridge 1992, che è però un lavoro breve e del tutto sommario, in quantopresenta molte lacune soprattutto per la parte contemporanea. Più completo è il capitolo che Jones ha dedi-

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tenta di offrire una prima organizzazione dei vari ragionamenti utilitaristici sullagiustizia globale al fine di contribuire a colmare tale lacuna 6. Non intende però di-fendere una specifica prospettiva normativa utilitaristica, in quanto riconosce i gra-vi limiti epistemologici che l’affliggono in termini di inaffidabilità pubblica dellecomparazioni interpersonali d’utilità 7.

È inevitabile che anche l’utilitarismo, così come gran parte dell’odierna filoso-fia politica, tenga presente i cambiamenti che stanno mutando la vita civile e politi-ca d’ogni cittadino, tra i quali uno dei più significativi è il progressivo superamentodei confini nazionali intesi come limite ai rapporti tra gli individui. Il settore chetraina il processo è quello economico, ma a seguire, o parallelamente, anche la poli-tica, il dititto e la cultura stanno vivendo inedite trasformazioni globali che mettonoin crisi i vecchi canoni di condotta 8. Il caso della filosofia politica è emblematico: daun lato l’ideologia della sovranità nazionale viene continuamente corrosa, dall’altroil dibattito sulle nuove forme dell’interrelazione politica è estremamente acceso. Siaffiancano proposte verso l’alto e verso il basso: si va da un ritorno comunitaristicoalle tradizioni partecipative locali, alle esigenze di una più estesa cooperazione con-federativa macroregionale, alla riforma e creazione d’organismi mondiali federativie cosmopolitici. Quale che sia la proposta che prevarrà, il dato etico da considerareè che l’intensificazione delle relazioni internazionali sta provocando un’espansionedell’ambito dei sentimenti morali comuni e delle relative responsabilità politiche.

Di fronte ai problemi che questi cambiamenti hanno generato e continuano aesacerbare, gli utilitaristi hanno suggerito diverse risposte normative. Questa rac-colta presenta le più rilevanti fra le argomentazioni internazionalistiche generaliavanzate a partire dal famoso articolo del 1972 di Peter Singer. Come detto, queste

cato all’utilitarismo in C. Jones, Global Justice: Defending Cosmopolitanism, cit., sebbene anche questo soffrad’alcune deficienze rilevanti come ad esempio gli argomenti di R.M.Hare. Libri di estrazione utilitarista conpretese multitematiche sono infine C.B. Hare and J.E. Joynt, Ethics and International Affairs, cit. e P. Singer,One World: The Ethics of Globalization, cit., ma anch’essi non riescono a fornire un quadro completo degliargomenti in campo.

6 Se lo studio delle relazioni internazionali in Italia è nato tardi, per quanto riguarda il tema specificodell’utilitarismo internazionalistico, la ricezione nell’ambiente accademico italiano è stata pressoché nulla.Unica eccezione è quella, in un certo senso però «esterna», di Giuliano Pontara che si è dedicato a più ripreseal tema della povertà e della disparità tra Nord e Sud del mondo.

7 A parere dell’autore, una prospettiva più soddisfacente è offerta dal conseguenzialismo cosmopoliti-co. Per uno sviluppo di tale tipo di argomentazione si veda: R. Marchetti, Cittadinanza cosmopolitica e mi-grazione, «Teoria Politica», 1, 2004; R. Marchetti, «Principi e struttura del cosmopolitismo consequenziali-sta», in S. Maffettone e G. Pellegrino, a cura di, Etica delle relazioni internazionali, Costantino Marco, Co-senza, 2004; R. Marchetti, «Consequentialist Cosmopolitanism and Global Political Agency», in J. Eade e D.O’Byrne, a cura di, Global Ethics and Civil Society, Ashgate, Aldershot 2005; R. Marchetti, La riforma delleNazioni Unite: modelli normativi e proposte politiche, di prossima pubblicazione in «Teoria Politica», 2, 2005.

8 Per una presentazione del dibattito sulla situazione internazionale odierna si veda Undp, Human De-velopment Report: Globalization, Oxford University Press, Oxford 1999; A.G. McGrew e D. Held, The Glo-bal Transformations Reader: An Introduction to the Globalization Debate, Polity Press, Cambridge 2000.

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saranno esplicitate come proposte normative di carattere globale, evitando di entra-re nel dettaglio delle applicazioni ai casi speciali, se non per esemplificare i principigenerali.

I problemi di carattere generale che l’utilitarismo internazionalistico affrontasono gli stessi che hanno stimolato il risveglio dell’etica applicata alle relazioni in-ternazionali negli anni Settanta. La constatazione tipicamente utilitaristica, invece, èche il sistema mondiale attuale non massimizza il benessere generale dell’umanità equindi richiede una revisione del sistema politico istituzionale e dei suoi principinormativi. Ciò spinge a un esame critico dei concetti filosofici su cui si basano le isti-tuzioni politiche attuali e a un’identificazione di una nuova struttura normativa mul-tilivello di diritti e doveri di stampo universalistico. Il risultato tendenziale su cui,come vedremo, concordano molte delle argomentazioni utilitaristiche consiste in ununiversalismo cosmopolitico morale, quand’anche non istituzionale.

L’argomento singeriano

Il saggio di Peter Singer del 1972, Famine, Affluence and Morality, costituisce laprima, certamente la più influente, riflessione utilitarista contemporanea sulla giu-stizia internazionale e rappresenta quindi il fondamentale punto di partenza per ca-pire come le varie argomentazioni di questa scuola si siano evolute. Il caso esamina-to in quest’articolo riguarda principalmente le carestie, ma è suscettibile d’estensio-ne al tema generale della diseguaglianza e della giustizia globale, come lo stesso au-tore ha indicato nelle versioni successive dello stesso e poi sviluppato nella sua ulti-ma, più complessiva, opera 9.

La posizione normativa generale di Singer nasce dal riconoscimento della cen-tralità del carattere universalistico dei giudizi etici. Da qui, egli deduce un principiobase d’eguaglianza: il pari rispetto degli interessi di tutti gli esseri senzienti. Caratte-ristica, quindi, per essere considerati, da un punto di vista imparziale, soggetti mo-rali non è qualche facoltà razionale, bensì la capacità di avere interessi, da cui poi di-scende un principio di compenso secondo il bisogno e l’impegno, piuttosto che perle capacità personali. Di conseguenza, vengono individuati alcuni interessi fonda-mentali dell’uomo (quali evitare dolore, sviluppare le proprie capacità, soddisfare ibisogni primari di cibo e riparo, godere di rapporti personali amichevoli e essere li-beri di perseguire i propri progetti senza interferenze) 10, i quali insieme al principiodell’utilità marginale decrescente conducono a una versione dell’utilitarismo degli

9 P. Singer, «Reconsidering the Famine Relief Argument», cit.; P. Singer, Practical Ethics, CambridgeUniversity Press, Cambridge 1979; P. Singer, «The Singer Solution to World Poverty», cit.; P. Singer, OneWorld, cit..

10 P. Singer, Practical Ethics, cit., p. 37.

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interessi, o delle preferenze, ricca di fertili ricadute per le politiche redistributiveglobali 11.

Il ragionamento di Singer più specificatamente attinente al problema della fameè composto da tre premesse argomentative (due morali e una fattuale), che hanno lapretesa d’essere minimali e di poter quindi essere accettate da un vasto pubblico, aprescindere dalla simpatia nei confronti della teoria utilitaristica. In forma sinteticasono le seguenti:

1) la sofferenza e la morte per mancanza di cibo, tetto e cure mediche (o se-guendo le varie versioni in senso cronologico: l’inedia e la povertà assoluta) è male.Il grado di bontà del mondo, a parità delle altre condizioni, dipende dal minor nu-mero di persone in tale stato.

2) se si può prevenire che qualcosa di male accada, senza sacrificare nulla di mo-ralmente importante, si ha il dovere di agire (versione moderata). Se si può preveni-re che qualcosa di male accada, senza sacrificare nulla d’importanza morale compa-rabile, si ha il dovere di agire (versione forte).

3) i cittadini dei paesi sviluppati sono nella posizione di poter ridurre il nume-ro di persone in stato di inedia nel mondo.

4) la conclusione normativa, basata sul principio utilitaristico negativo e suquello imparzialistico che ne segue, secondo la versione forte preferita da Singer, èche abbiamo il dovere di prevenire quanta più inedia possibile, fino al punto in cuiciò implicherebbe sacrificare qualcosa di altrettanto importante da un punto di vi-sta morale.

Molte argomentazioni di stampo liberale, come ad esempio quella di RobertNozick, puntano a relegare i doveri d’aiuto ai bisognosi nella categoria in cui l’attoè benemerito, ma non obbligatorio in senso stretto. Se lo si compie si viene lodati,altrimenti non c’è merito né colpa. Il pregio dell’approccio singeriano consiste, in-vece, nel riportare il dovere d’assistenza nel campo dei doveri perfetti, secondo iquali in caso d’omissione si è passibili di sanzioni, almeno morali, quali il biasimo.Il vecchio modo di pensare l’etica secondo cui l’aiuto ai poveri è lasciato alla bene-ficenza caritatevole privata va abbandonato. In questo bisogna essere, sostiene Sin-ger, controintuitivi, perché, date le caratteristiche della presente società, appiattirsisulle attitudini etiche esistenti non permetterebbe di andare oltre un conservatori-smo di posizioni divenute ormai immorali. Avanzando pretese che possono risulta-re provocatorie, come fa l’autore con il suo articolo, si può invece facilitare l’in-gresso nel senso comune di nuovi standard morali che permettano un’evoluzionecivile adeguata al nuovo ambiente socio-politico mondiale.

11 Per una critica della sua doppia fondazione, utilitaristica e egualitaria, cfr. S. Maffettone, Le ragioni de-gli altri, il Saggiatore, Milano 1992, p. 73 e la sua introduzione all’edizione italiana di P. Singer, Etica pratica, Li-guori, Napoli 1989.

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Per Singer, la versione forte, quella cioè che richiede un impegno fino al limiterappresentato da un costo personale d’importanza morale comparabile all’aiuto da-to, è quella meglio difendibile. Ciò richiede una trasformazione radicale della no-stra vita e una rinuncia a buona parte della società consumistica attuale. Purtroppoperò l’autore non esplicita i modi, che nascondono non poche insidie, attraverso iquali condurre tale trasformazione. Sono, infatti, molte le vie di transizione che, senon percorse in modo graduale e pacifico, metterebbero a rischio il saldo netto dibenessere totale. Forse anche per questo la richiesta definitiva nei confronti dei cit-tadini abbienti è ridotta pragmaticamente al 10 per cento di uno stipendio medio,in memoria di quella tassa, la decima, che era consuetudine pagare nel medioevoper aiutare i poveri. Al di là di ciò, il testo non è però insensibile alle necessità pra-tiche di un coinvolgimento istituzionale nell’aiuto internazionale, sebbene ciò nonsia stato spesso rilevato dai critici. Se tutto il ragionamento è di stampo individuali-stico, la conclusione alla quale si arriva implica e richiede anche un impegno politi-co di sostegno alle campagne di finanziamento pubblico per progetti di coopera-zione internazionale e, come sottolineato nella sua ultima opera, a quelle di modifi-ca della struttura istituzionale internazionale rappresentata da organismi quali ilWto e le Nazioni Unite.

L’altra caratteristica, che segna una differenza netta rispetto ai sostenitori del-l’etica comunitaristica degli obblighi speciali, è costituita dal valore universale deiprecetti qui indicati. Per Singer, fattori come la prossimità o il numero dei potenzia-li aiutanti non incidono, direttamente e significativamente, sull’aspetto qualitativodella prescrizione. È chiaro però che, dato il fine ultimo consequenzialista dellamassimizzazione del benessere generale, rimangono possibili delle divisioni del la-voro, attraverso le quali la dimensione territoriale riacquisti, in modo indiretto, va-lore. Inoltre, l’obiezione del «non cambia nulla che io aiuti o meno» è respinta fa-cendo riferimento all’efficacia dell’impegno individuale nell’aiuto anche di una solasituazione di sofferenza. Infine, il problema multiculturale viene in parte evitato fa-cendo riferimento a situazioni base, in cui i confronti interpersonali sono facilitatidai termini di riferimento elementari e l’analisi costi-benefici resa perciò possibile 12.

Punto d’accesa discussione delle tesi di Singer è l’accettazione del metodo con-sequenzialista del triage come criterio selettivo per destinare gli aiuti in situazioni discarsità di risorse da riallocare. Il metodo è mutuato dalla pratica medica secondocui la selezione degli assistiti, in caso di limitate risorse mediche, è decisa sulla basedella maggiore capacità dei pazienti di beneficiare della cura. Singer lo adotta per

12 Una tale strategia argomentativa è però possibile solo a livello minimale. Se l’insieme dei beni da ri-allocare si espande, la difficoltà aumentano geometricamente. Si veda Narveson, Aesthetics, Charity and Dis-tributive Justice, cit. per un’avvertenza contro la tentazione e l’illusione di poter comparare le utilità dei di-versi beni a livello universale.

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giustificare la precedenza degli aiuti umanitari ad alcuni paesi rispetto ad altri, chenon attuano politiche tese a massimizzare il benessere potenziale dei beni riallocati,che non praticano, ad esempio, una politica demografica di controllo delle nascite.Da un punto di vista utilitaristico, il ragionamento è prima facie coerente, sebbene,a livello critico, si ripresenti il serio problema, che qui non è possibile discutere, del-la responsabilità democratica interna e dei problemi assiologici per ciò che riguardail multiculturalismo.

Oltre la specificità di tali critiche, un diverso tipo di considerazioni emerge se siassume una prospettiva più ampia. Dagli anni Settanta, Singer ha vigorosamente sti-molato la discussione sulla giustizia globale, suggerendo un modo di vita cosmopo-litico post-Vestfalia profondamente alternativo alle proposte contemporanee e at-traendo così inevitabilmente una serie di critiche provenienti da quasi ogni angolopolitico, al punto da essere accusato allo stesso tempo di essere un egualitarista ra-dicale, pronto a divulgare una parola rivoluzionaria e un conservatore inconsapevo-le interessato più alla carità neoliberale che alla giustizia politica. Malgrado tali cri-tiche, il contributo di Singer rimane fondamentale come componente di una narra-zione, antinomica alla scuola rawlsiana dominante nell’etica internazionale, svilup-pata alla luce dello spirito di critica sociale che ha caratterizzato come leitmotiv unaparte della tradizione politica utilitaristica, da Mill via Russell a Singer stesso 13.

I neomalthusiani e l’etica della scialuppa

Tra i consequenzialisti che hanno affrontato i temi della fame e della povertà suscala mondiale, un posto di rilievo è occupato dai cosiddetti neomalthusiani, i qualinon negano la drammatica situazione di molti paesi in via di sviluppo, ma la possi-bilità da parte dei paesi sviluppati di intervenire positivamente su di essa. La loroanalisi ha più di un punto in comune con quella degli altri utilitaristi, ma la diver-genza rimane forte per ciò che concerne le loro proposte pratiche. Spesso accusatid’immoralità, o meglio d’amoralità, questi filosofi tentano di offrire una letturascientifica del problema della fame e della povertà, affiancata da un approccio nor-mativo universalistico che si rifà a Thomas Malthus. Secondo quest’ultimo, infatti,dato il differenziale di crescita tra la popolazione (geometrica) e mezzi di sostenta-mento (aritmetica), non si può far altro che aspettare, con l’eccezione dell’educazio-ne all’astensione procreativa, che il ciclo naturale si compia attraverso guerre, care-stie ed epidemie per riportare l’equilibrio tra crescita demografica e approvvigiona-menti. I neomalthusiani non vanno perciò confusi con i politici realisti alla Morgen-

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13 Per un’ulteriore analisi dei più recenti argomenti singeriani si rimanda a A. Kuper e P. Singer, Deba-te: Global Poverty Relief, cit.; R. Marchetti, recensione di One World. The Ethics of Globalization, «Utilitas»,3, 2004, pp. 332-334.

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thau i quali propugnano un semplice particolarismo nazionalistico. Sin dagli anniSettanta, Garrett Hardin, il loro caposcuola, ha scandalizzato il mondo accademicocon la sua «etica della scialuppa» (lifeboat ethics) 14, dando allo stesso tempo un con-tributo impareggiabile alla vivacità della discussione.

Per Hardin, l’etica della scialuppa rappresenta solo un’applicazione specialedella logica dei beni comuni. Il caso esemplare, che si presenta in forma di tragedia,è quello della terra in comune, nel quale, se ognuno alleva quanto bestiame vuole egode da solo di ciò che coltiva, si arriverà ben presto all’inaridimento del terreno equindi alla povertà generalizzata. In un mondo sovrappopolato, il superamento del-la soglia di capacità biologica di sostentamento delle risorse pubbliche (carrying ca-pacity) porta alla rovina per tutti. Meglio allora, anche da un punto di vista etico, la-sciare che quelli che affogano intorno a noi rimangano nella loro condizione, piut-tosto che caricarli sulla nostra scialuppa, facendola così affondare, e ritrovarci tuttiin acqua senza speranza per il futuro. La popolazione è una bomba che minacciatutti, sostengono i neomalthusiani, bisogna quindi tentare di disinnescarla primache esploda colpendo l’umanità intera 15.

L’approccio etico dei neomalthusiani riserva, in questo modo, una particolareattenzione alle problematiche ambientali. Il concetto di capacità di sostentamento fadiretto riferimento alle potenzialità del territorio rispetto alle generazioni presenti efuture. Una conseguenza di ciò consiste nel fatto che il tasso di sconto sul futurodebba essere bilanciato dalla considerazione che la popolazione futura sarà moltomaggiore dell’attuale. La domanda centrale di Hardin «and then what?» ha, perciò,un doppio senso: per i posteri e per le conseguenze delle azioni. Il bersaglio pole-mico principale sono, dunque, in primis quelle teorie etiche deontologiche per lequali vale l’antica massima fiat iustitia, pereat mundus 16. Per i neomalthusiani, in-somma, non possiamo sfamare il mondo intero e quindi nemmeno dobbiamo. Èquesta un’assunzione che si basa su un attento esame diacronico e che evita così lafallacia della potenzialità (capacity fallacy).

La constatazione che attualmente la produzione alimentare è sufficiente a co-prire il fabbisogno mondiale non intacca il loro ragionamento, giacché un’azionedistributiva del genere farebbe balzare in avanti il già alto tasso d’incremento de-mografico, riproponendo domani e in modo aggravato la situazione senza via d’u-scita della scialuppa. Per i seguaci di Malthus si darebbe, insomma, un caso di ge-nerosità auto-confutantesi (self-defeating) in due situazioni: a) quando le probabiliconseguenze della condivisione mettano in pericolo la sopravvivenza della maggio-ranza i cui interessi sono coinvolti (donanti e riceventi insieme); b) quando le pro-

14 G. Hardin, «Lifeboat Ethics: the Case Against Helping the Poor», cit.15 P. Ehrlich, The Population Bomb, Ballantine, New York 1971.16 J. Fletcher, «Give If It Helps but not If It Hurts», cit.

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babili conseguenze delle condivisione aumentino, piuttosto che alleviare, la miseriadei riceventi 17. Dal momento che in entrambi questi casi si avrebbe una perdita net-ta di vite umane, i neomalthusiani, o almeno quelli meno radicali 18, propongonoaiuti allo sviluppo vincolati all’accettazione dei paesi riceventi di politiche di con-trollo delle nascite e alla ragionevole prospettiva di un possibile miglioramento del-le condizioni socio-economiche dei beneficiari 19, invece che meri aiuti alimentari 20.Ammettono, dunque, l’aiuto, ma a certe condizioni, quindi non a tutti: una parte deipaesi in via di sviluppo andrebbe dunque abbandonata a se stessa proprio per ra-gioni morali, per minimizzare cioè le sofferenze totali, presenti e future.

Anche alcuni neomalthusiani, come già Singer, adottano per selezionare i sog-getti da aiutare un criterio che si rifà ad alcune pratiche mediche, e in particolare altriage, per cui, come detto, il nostro impegno in condizione di scarsità di risorse de-ve essere indirizzato non a quelli che stanno meglio né a quelli che stanno peggio,ma ai best risks per i quali solo l’aiuto può fare la differenza, abbandonando cosìspesso i più vulnerabili 21. Un altro dei punti cruciali dell’argomentazione neomal-thusiana è il rifiuto della «teoria della transizione demografica», la quale sostieneche, se opportunamente aiutati nello sviluppo, tutti i paesi subiscano un tendenzia-le calo della natalità parallelamente alla crescita del livello di vita medio. I neomal-thusiani affermano invece che, laddove ciò si ottenga, questo rimane un risultato ca-suale dal quale non si può dedurre una legge universale, citando ad esempio i casi diFrancia, Irlanda e Stati Uniti in cui allo sviluppo economico-sociale si è accompa-gnata una grande crescita demografica.

Già l’utilitarismo classico internazionalistico era stato messo in guardia dall’ori-ginale testo malthusiano. Non è un caso, dunque, che sia ancor’oggi possibile trova-re dei punti di contatto tra le argomentazioni di Hardin e, per esempio, quelle diSinger. Entrambi, infatti, pur proponendo soluzioni normative differenti, condivi-dono lo stesso paradigma consequenzialistico. La costante attenzione alle conse-guenze totali e di lungo periodo dei vari corsi d’azione porta, infatti, in alcuni casi aproposte come quella dei sacrifici attuali per benefici futuri che altre teorie norma-

17 J. Fletcher, «Feeding the Hungry: an Ethical Appraisal», cit., pp. 57-58.18 Vedi, perciò, Fletcher, piuttosto che Hardin.19 Ciò porta, comunque, ad escludere dall’aiuto la categoria dei paesi del quinto mondo, i quali hanno

superato la loro capacità biologica di sostentamento autonomo a causa dell’eccessiva popolazione e di con-seguenza soffrono di croniche carestie e della paralisi della crescita economica. In questa categoria rientre-rebbero paesi come l’India, il Bangladesh, il Senegal e il Niger. Cfr. J. Fletcher, «Give If It Helps but not IfIt Hurts», cit., pp. 108-109.

20 Gli aiuti alimentari sono ammessi solo come supporto a quelli allo sviluppo e solo per casi di carestietemporanee, ma mai per quelle croniche. È questa una differenza con l’approccio utilitaristico maggioritarioed invece una vicinanza con la posizione rawlsiana.

21 Per un approccio utilitarista ma opposto cfr. R. Goodin, Protecting the Vulnerable: A Reanalysis ofOur Social Responsibilities, University of Chicago Press, Chicago 1985.

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tive alternative non possono accettare. I punti di contatto con gli altri utilitaristi con-temporanei sono dunque molti, ma nonostante questa vicinanza permangono alcu-ne obiezioni, quali quella sull’incertezza del risultato o quella ambientale, che ren-dono inconciliabili i due differenti filoni di analisi normativa. Tanto lontani che nonsolo da un punto di vista teorico le prescrizioni dell’uno saranno opposte a quelledell’altro, ma anche da un punto di vista personale gli autori arriveranno a lanciarsigiudizi poco lusinghieri 22.

Il principio dell’analogia

Uno dei tratti più comuni delle varie argomentazioni internazionalistiche èquello della domestic analogy, la quale si sviluppa dal paradigma originariamente ap-plicato alle relazioni individuali all’interno di un determinato gruppo 23. Da questolivello, gli obblighi morali vengono poi traslati, sostituendo gli agenti in causa a unlivello superiore dove i soggetti d’obbligo e quindi di responsabilità divengono inprimis gli Stati e poi, di volta in volta, gli individui universalmente considerati (e nonpiù i cittadini), le associazioni civili, le multinazionali e gli organismi internazionali.Il passaggio analogico comporta però il sorgere di alcuni problemi di non facile so-luzione, il maggiore dei quali riguarda lo status morale dei soggetti collettivi sul qua-le le varie teorie politiche e legali hanno offerto letture alternative. Accanto alle in-terpretazioni di stampo liberal-contrattualistico, per le quali l’individuo entra vo-lontariamente, attraverso un patto, a far parte di un’associazione con finalità che, divolta in volta, vengono fissate autonomamente dai soci in modo pubblico e accantoalle interpretazioni che, invece, pongono l’accento sui caratteri collettivi delle co-munità quali fattori rilevanti dello status morale dell’associazione anche l’utilitari-smo ha proposto una robusta interpretazione analogica dell’istituzione statale che, apartire dal Fragment on Government del 1776 di Bentham (ispirato alla lezione hu-miana), ha generato le più recenti versioni internazionalistiche a opera di Hare eGoodin.

Già in un articolo del 1957, discutendo delle Ragioni di Stato e della crisi del ca-nale di Suez, Richard Mervyn Hare propone una visione morale comprensiva dellepolitica, includente sia la sfera interna, sia quella estera 24. Inteso in senso rappre-sentativo, il governo, quantunque al potere per delega, rimane responsabile delleproprie azioni in quanto ha sempre davanti a sé la possibilità delle dimissioni. Il giu-

22 Cfr. ad es. P. Singer, Practical Ethics, cit., p. 176.23 Uno dei primi a proporre questo tipo di visione degli stati a livello internazionale fu Hobbes che vi-

de l’arena europea come la giungla dello stato di natura. Cfr. T. Hobbes, Il Leviatano, cap. 13-21. Per unostudio contemporaneo si veda H. Suganami, The Domestic Analogy and World Order Proposal, CambridgeUniversity Press, Cambridge 1989.

24 R.M. Hare, «Reasons of State», in Applications of Moral Philosophy, Macmillan, London 1957.

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dizio politico, come quello morale, va basato sulle conseguenze degli atti, malgradoquest’operazione si presenti più difficile nel caso governativo. Avendo, infatti, l’a-zione politica effetti più estesi di quella morale individuale, sostiene Hare, lo Stato èsottoposto a molti più vincoli di responsabilità, soprattutto se le conseguenze sonointenzionalmente causate e prevedibili.

Quella che qui si avanza è una visione che concilia, arrivando a delle conclusio-ni molto nette, l’attenzione alle conseguenze degli atti con uno spirito universalistad’estrazione kantiana. Sostiene, infatti, l’autore: «Quando siamo di fronte a una de-cisione morale, dobbiamo considerare non solamente le conseguenze che sarebberonel nostro interesse, o in quello del nostro paese, ma le conseguenze che sarebberoscelte da chiunque fosse al nostro posto. Ciò significa che dovremmo considerare glieffetti delle nostre azioni sugli altri popoli e sugli altri paesi, così come sui nostri, e,essendoci posti immaginariamente nelle loro posizioni, pensare se potremmo soste-nere che dovremmo fare quello che i nostri interessi ci spingono a fare. […] In ve-ro, la fondamentale differenza non è tra la morale e l’interesse; ma tra il limitato in-teresse nazionale e lo spirito pubblico. Entrambi possono essere chiamati tipi d’in-teressi, poiché entrambi mirano a qualche bene e l’interesse è ciò che conduce al be-ne. Ma il primo è un tipo di interesse immorale, mirante solo al bene dell’agente edel suo paese; mentre il secondo è un tipo di interesse coestensivo con la morale» 25.In seguito, Hare perfeziona la sua teoria morale attraverso la distinzione tra i due li-velli di giudizio (il primo, quello da applicare nella pratica quotidiana, composto dauna serie di norme che hanno valore prima facie e il secondo, quello critico dell’ar-cangelo, da seguire raramente sotto forma di utilitarismo dell’atto), che permetteuna maggiore copertura dei fenomeni politico-morali 26.

Per ciò che riguarda più precisamente il campo della giustizia, Hare giunge al-la conclusione generale per cui va riconosciuto e garantito a ognuno il diritto aun’uguale considerazione e rispetto 27, dalla quale discendono poi alcune conse-guenze prescrittive di giustizia sociale distributiva. L’autore afferma, infatti, che «iprincipi di giustizia economica scelti da un pensatore critico imparziale e benevolosarebbero moderatamente egualitari» 28, e le relative attuazioni politiche sarebberocondotte gradualmente e con moderazione, in quanto da un lato rivoluzioni o con-fische brutali sarebbero tutto sommato negative nel bilancio complessivo utilitari-stico e dall’altro un aumento graduale di ricchezze darebbe maggiore soddisfazio-ne cumulativa, tanto quanto analogamente un calo graduale darebbe meno dolore.Ciononostante, Hare prevede modalità eccezionali in caso di urgenza umanitaria e

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25 Ivi, pp. 22-23.26 R.M. Hare, Moral Thinking: Its Levels, Method, and Point, Clarendon, Oxford 1981.27 Ivi, p. 198. 28 Ivi, p. 210.

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non pone quindi limiti procedurali al caso specifico dell’aiuto internazionale d’e-mergenza 29, sebbene poi perfezioni l’argomento sostenendo che bisogna mirarepiuttosto a risolvere i vincoli strutturali che provocano il problema della fame mon-diale 30.

L’affinamento del suo pensiero conferma la visione degli obblighi politici comesottospecie di quelli morali. Il suo ragionamento, similmente a quello di John Au-stin, propone a livello critico una conclusione netta in base alla quale: «ogni princi-pio, se è, formalmente parlando, un candidato all’inclusione nella lista [dei doveriche il cittadino ha nei confronti del proprio Stato], sarà accettato o respinto a se-conda che la sua generale accettazione prometta o meno di promuovere la soddisfa-zione delle preferenze di tutti gli abitanti di tutti i paesi considerati imparzialmente»31. Ciò, se da un lato esclude per (dubbie) considerazioni storiche l’ipotesi del go-verno mondiale, dall’altro lascia comunque aperta la possibilità di progetti confede-rativi, in cui i «doveri del cittadino» promettono di incrementare notevolmente lasoddisfazione globale delle preferenze di tutti i cittadini considerati imparzialmente32. Tale doppio livellamento dei principi è certamente una mossa argomentativamolto fertile in ambito internazionalistico, poiché permette di sottoporre a un uni-co principio ultimo sia gli obblighi interni sia quelli esterni, indicando per ognunouna diversa modalità d’utilitarismo applicato.

Ciononostante, proprio tale arricchimento della teoria evidenzia alcuni puntipoco coerenti del ragionamento di Hare, sui quali vale la pena di svolgere alcunebrevi considerazioni. La prima riguarda il modo di impostare la questione degli ob-blighi politici, in riferimento alla quale l’autore riprende la classica immagine di ungruppo di naufraghi approdati su un isola deserta 33, mancando di riconoscere ilcambio di paradigma politico-filosofico nel senso dell’interdipendenza delle rela-zioni internazionali 34. Il secondo caso riguarda, invece, le prescrizioni a riguardodegli obblighi speciali, per le quali Hare si limita, quando sostiene il patriottismo ditipo non aggressivo per preservare l’ordine e la stabilità internazionale, a ribadire iltradizionale dovere di non intervento 35. Invero, ben altri tipi di prescrizioni di tipocooperativistico per il mondo attuale sembrano più coerenti con il principio utilita-ristico da Hare stesso sostenuto. Il prossimo autore, Gerard Elfstrom, sviluppa isuggerimenti di Hare in modo più audace.

29 Ivi, p. 211.30 Ivi, p. 251.31 R.M. Hare, Essays on Political Morality, cit., p. 90.32 Ivi, p. 89.33 Ivi, p. 22.34 Si veda S. Veca, La filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 20-22, per la predominanza dei

motivi internazionalistici nel ragionamento filosofico-politico.35 R.M. Hare, Essays on Political Morality, cit., p. 92.

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La peculiarità internazionalistica

Il principio dell’analogia è stato spesso posto, soprattutto da parte dei realisti,al centro di un’accesa discussione, dal momento che è in gran parte sulla possibilitàdel giudizio morale nei confronti delle istituzioni statali che si è tradizionalmentedecisa la possibilità o meno di parlare di etica nelle relazioni internazionali. Un mo-do per aggirare tali forche caudine realiste consiste nel puntare sull’individuo per ri-guadagnare le istituzioni pubbliche. Contro la posizione radicale dei realisti i quali,richiamando l’attenzione sulle particolari caratteristiche degli agenti dell’ambienteinternazionale, tentano di invalidare la fattibilità stessa di qualsiasi discorso eticoche vada oltre i confini statali, alcuni filosofi morali hanno evidenziato, proprio allaluce di questi vincoli, la legittimità del discorso normativo internazionalistico. Fraquesti ultimi, Gerard Elfstrom ha recentemente presentato un’interessante propostanormativa di stampo utilitaristico che tiene in conto le caratteristiche peculiari del-le relazioni internazionali e le conseguenti possibilità e limiti di un’etica globale 36.

Secondo Elfstrom, poiché le condizioni dell’ambiente determinano le possibili-tà d’azione degli agenti, non si deve attuare un passaggio applicativo diretto delparadigma individualistico al contesto internazionale. La diversità delle relazioni in-ternazionali non è radicale, ma è comunque significativa. Nell’ambito quotidiano,cardini dell’azione morale del singolo sono gli effetti intenzionali previsti in un am-biente in cui sono presenti istituzioni pubbliche con compiti d’assistenza. Le azionistatali internazionali sono, invece, caratterizzate da una grande incertezza, data dal-la complessità dell’ambiente, la quale rende le conseguenze indirette e non inten-zionali molto estese nel tempo e nello spazio e quindi poco controllabili a motivodella grande distanza tra coloro che prendono le decisioni e coloro che ne subisco-no le conseguenze. In questa situazione, è difficile scegliere quali siano le azioni conrilevanza morale e a chi addossarne la responsabilità. Sebbene, ad esempio, i capidelle istituzioni statali, che nell’argomentazione di Elfstrom sono i soggetti primichiamati in causa, abbiano dei doveri riconosciuti, l’organizzazione di cui fanno par-te potrebbe essere strutturata in modo tale da impedire loro di agire correttamente.L’interrogativo al quale, in questo caso, si deve dunque dare risposta consiste nellaliceità da parte dei governanti di oltrepassare il mandato istituzionale classico e da-re priorità agli obblighi esterni rispetto a quelli interni.

Per Elfstrom, l’utilitarismo nella versione delle preferenze e dei due livelli allaHare rappresenta la teoria normativa più adatta a rispondere a tali problemi. Il ra-gionamento prende avvio dal riferimento all’individuo particolare e al suo benesse-re, dal quale discende la soggettività assiologica derivata dallo Stato, caratterizzatada: capacità di deliberazione razionale e d’azione, responsabilità morale e assenza

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36 G. Elfstrom, Ethics for a Shrinking World, cit.

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di diritto all’esistenza. «Gli Stati contano, secondo [questa] prospettiva morale, so-lo in quanto quello che a loro succede ha conseguenze ultime sulle persone indivi-duali» 37. Malgrado ciò, la teoria di Elfstrom, a motivo della limitatezza dei mezzi dicui il singolo dispone per agire efficacemente a questo livello, assegna agli Stati ilruolo principale per ciò che riguarda l’etica delle relazioni internazionali. C’è da no-tare, in proposito, che, mentre l’individuo uti singuli deve decidere individualmen-te di diventare moralmente responsabile, in quanto parte di un’istituzione egli hainvece come scopo immediato la promozione di cambiamenti strutturali che per-mettano e stimolino l’imputabilità morale dell’organismo stesso. «Capire il ruolodell’individuo all’interno delle strutture istituzionali apre una nuova strada per ri-conoscere come allocare la responsabilità morale per gli atti dell’istituzione» 38.Un’azione o una decisione è, infatti, il risultato di una serie di decisioni separate,sebbene coordinate.

Passaggio cardine della proposta è l’individuazione d’alcuni «desideri basilari»,universali e prioritari. Questi sono identificati, sulle orme di Bentham, con il desi-derio dei mezzi di sostentamento e quello della sicurezza di non essere danneggiatida altri. Tale priorità si basa sul triplice assunto secondo cui: le persone general-mente riconoscono un valore massimo alla vita e ai mezzi di sussistenza; questi mez-zi sono necessari per il godimento di qualsiasi altro valore e infine tali desideri sonofacilmente misurabili e soddisfacibili. Gli altri desideri moralmente rilevanti vengo-no di converso definiti «secondari» e presentano una maggiore varietà che necessi-ta di grande impegno per la misurazione e il soddisfacimento. Il precetto morale ge-nerale che ne segue afferma che «tutti hanno un obbligo assoluto di impegnarsi perla soddisfazione dei desideri basilari dovunque essi siano, ma solo un obbligo moltopiù debole di badare ai desideri secondari di ogni essere umano» 39.

Da ciò discende che si debba dare la priorità agli interessi basilari degli stranie-ri rispetto agli interessi secondari dei concittadini. Due casi rimangono, però, in cuila precedenza rimane a favore degli obblighi speciali che i governanti hanno nei con-fronti dei loro elettori: a) nel caso di conflitto con i desideri secondari di cittadinistranieri, perché gli obblighi speciali sono spesso diretti a preservare la vita e il be-nessere dei propri cittadini, perché servono per preservare il contesto sociale neces-sario per godere delle preferenze secondarie e, inoltre, perché se così si facesse, ol-tre alle maggiori difficoltà tecniche e finanziarie, si favorirebbe molto verosimil-mente un processo d’appiattimento che uniformerebbe tutte le preferenze al mon-do culturale degli Stati donatori; b) nel caso in cui si debba scegliere tra i desideribasilari di propri elettori e quelli sempre basilari degli stranieri.

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37 Ivi, p. 32.38 Ivi, p. 34.39 Ivi, p. 15.

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Il problema multiculturale è rilevato da Elfstrom con chiarezza. Proprio perevitare forme di mascherato etnocentrismo l’autore si appella alle preferenze, inquanto modellate dal Lebenswelt morale. In questo senso, dannosa è considerataqualsiasi esperienza che si vorrebbe evitare. Così pratiche che dall’esterno del giococulturale cui si partecipa verrebbero rifiutate possono invece trovare una giustifica-zione utilitaristica in base ai concreti desideri degli interessati. Sebbene dunque ri-mangano, per l’autore, casi archetipi nei confronti dei quali si debba essere radical-mente intolleranti, l’atteggiamento da seguire rimane quello minimalista guidato daun’estrema cautela e sensibilità che può portare a censura o proteste, ma raramentea interventi dall’esterno. Centrale rimane, quindi, l’analisi dei contesti culturali chedeve guidare differenti giudizi modellati su quello che la forma di vita richiede econcede.

Una questione particolarmente significativa del ragionamento di Elfstrom ri-guarda la giustizia distributiva internazionale. Qui, nota l’autore, gli argomenti han-no generalmente stampo analogico e sono così portati avanti attraverso un’estrapo-lazione del ragionamento che si applica all’interno dello Stato, sia in senso negativoper negare il dovere alla ridistribuzione in nome del diritto liberale di proprietà, siaal contrario in senso positivo quando ci si appella all’obbligo compensativo per glisfruttamenti passati, ai bisogni basilari o ancora ai principi che una persona sceglie-rebbe sotto un velo d’ignoranza. Questi tentativi vanno però rifiutati giacché non ri-levano gli specifici problemi che caratterizzano le relazioni internazionali. Posto cheil parametro di riferimento ultimo sia il benessere delle persone e date le circostan-ze politiche correnti, il problema della giustizia distributiva si scinde in due ipotesiriallocative: o si muovono le ricchezze o le popolazioni; o si attuano trasferimenti dirisorse economiche, finanziarie e tecnologiche o s’imposta una diversa politica mi-gratoria che implica una reinterpretazione del concetto di cittadinanza. Delle duel’una: il principio di giustizia non sembra ammettere alternative.

L’altro dilemma di fronte al quale si trova ogni teoria normativa che voglia ri-spondere a questi problemi concerne le soggettività politico-legali in causa. Rappre-senta questo, anzi, un doppio bivio morale: si tratta di decidere chi deve dare e chideve ricevere e, in entrambi i casi, le possibilità sono generalmente o lo Stato o gliindividui (uti singuli o come associazioni private). Come già detto, la posizione diElfstrom è centrata sull’individuo, sebbene venga assegnato un ruolo morale deri-vato anche allo Stato-nazione. Posto l’obbligo universale a soddisfare i desideri ba-silari di chiunque, l’esistenza di confini nazionali diventa rilevante solo in senso stru-mentale. Conseguentemente, per Elfstrom i diritti di proprietà nazionali dovrebbe-ro essere limitati normativamente dai desideri basilari degli altri a prescindere dalpassaporto e per converso una nuova interpretazione del dovere di non interventodovrebbe essere accettata. Ove i governi responsabili non siano in grado, per inca-pacità o corruzione, di garantire la vita e il benessere necessario per un’esistenza de-

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cente ai propri cittadini, allora la loro sovranità rimane soggetta a ingerenze esternetese a garantire quei bisogni basilari. «I cittadini hanno, infatti, ragione di credere diavere legami e responsabilità speciali reciproche che non condividono con gli stra-nieri. Essi hanno anche ragione ad avanzare pretese alle risorse materiali e culturalidel proprio paese. E hanno ragione di credere che queste pretese e questi diritti ab-biano peso morale. Non hanno, però, ragione quando condividono l’opinione co-mune secondo la quale questi diritti siano assoluti e essi non hanno nessun obbligoconcernente i bisogni dei non cittadini. In particolare quando si tratta di vita uma-na e benessere, essi hanno un obbligo stretto a rinunciare alle loro risorse a favoredegli altri. […] I confini nazionali, in altre parole, non fanno nessuna differenza mo-rale in senso fondamentale» 40. Tale è la nettezza della posizione di Elfstrom a ri-guardo dell’autorità dei confini nazionali. Un altro autore che si è interessato in mo-do significativo della rilevanza morale della con-cittadinanza è Robert Goodin.

Vulnerabilità e dipendenza

Partendo da una nuova versione di responsabilità sociale verso i vulnerabili, co-loro i quali cioè dipendono direttamente o indirettamente dal nostro comporta-mento, Goodin prospetta una nuova fondazione, attraverso il metodo dell’equili-brio riflessivo, dei nostri obblighi sociali all’interno come all’esterno dei confini na-zionali 41. Goodin avanza la pretesa, sulle orme di Sidgwick, di poter mostrare, at-traverso una reinterpretazione della morale di senso comune, che alla base dei tra-dizionali obblighi speciali (verso la famiglia, gli amici, i benefattori, i clienti, i colle-ghi e i compatrioti) vi sia un principio generale che impone un dovere nei confrontidei socialmente vulnerabili. Da ciò discende una nuova serie d’obblighi individualie collettivi, ivi inclusi quelli internazionali, che non possiamo rifiutare se accettiamola morale di senso comune. Da quest’opera di smascheramento delle contraddizionilatenti nei precetti comuni consegue la riallocazione delle responsabilità, in cui ilsingolo in quanto tale perde centralità a favore dell’azione collettiva all’interno diun’organizzazione cooperativa.

L’obiettivo ultimo della teoria di Goodin consiste nella liberazione dallo stato,o meglio dal rischio, di vulnerabilità, dove la dipendenza, stato che provoca la con-dizione di vulnerabilità, viene caratterizzata attraverso quattro condizioni negative:1) un equilibrio asimmetrico di potere, 2) la necessità di risorse da parte del subor-dinato, risorse ottenibili solo tramite la relazione e necessarie per proteggere gli in-teressi vitali, 3) l’inaggirabilità della relazione, per il subordinato, 4) l’esercizio di un

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40 Ivi, p. 171.41 R. Goodin, Protecting the Vulnerable: A Reanalysis of Our Social Responsibilities, cit. e R. Goodin,

Utilitarianism as a Public Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1995.

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controllo discrezionale sulle risorse da parte di chi detiene il potere 42. In quest’otti-ca consequenzialista non si guarda tanto al passato, cioè a chi ha creato la dipen-denza, quanto al futuro ossia a come eliminarla. A riguardo, le strategie possibili perridurre la vulnerabilità sociale sono principalmente due: dare potere al vulnerabileaffinché si possa difendere e prevenire la possibilità stessa della dipendenza. È chia-ro, però, che non si può alleviare la dipendenza del tutto e che, per quanto riguardale relazioni internazionali in particolare, la soluzione si dovrà cercare tra l’indipen-denza e l’interdipendenza, data l’inaggirabilità dell’interdipendenza mondiale.

Goodin enuclea le conclusioni normative del suo ragionamento, attraverso laformulazione d’alcune regole fondative dell’ordinamento sociale. Tra queste, parti-colarmente interessanti sono il principio di responsabilità di gruppo, secondo il qua-le: «se gli interessi di un soggetto A sono vulnerabili in conseguenza delle azioni edelle scelte di un gruppo di individui, sia disgiuntamente sia congiuntamente, alloraè specifica responsabilità del gruppo: a) organizzare (formalmente o informalmen-te) e b) implementare uno schema d’azione coordinata dei membri del gruppo taleche gli interessi di A siano protetti tanto quanto è nelle possibilità del gruppo, in re-lazione alle altre sue responsabilità» 43; e il secondo principio di responsabilità indivi-duale, secondo cui: «se B è un membro del gruppo che è responsabile, secondo ilprincipio di responsabilità di gruppo, di proteggere gli interessi di A, allora B è spe-cificamente responsabile di: a) assicurarsi, per quello che è in suo potere, che ilgruppo organizzi uno schema d’azione collettivo tale che gli interessi di A siano pro-tetti tanto quanto è nelle sue possibilità, in relazione alle altre responsabilità delgruppo stesso e di b) adempiere completamente ed effettivamente alla responsabili-tà a lui assegnata in quello schema che potrebbe essere organizzato, fino al punto incui non gli venga impedito di esercitare le altre responsabilità morali, in modo taleda proteggere gli interessi di A meglio di qualsiasi altra alternativa» 44.

Questi principi si sviluppano attraverso una reinterpretazione normativa inchiave utilitaristica dell’istituzione statale. Una volta che i principi siano accettati, ri-sulta plausibile che la società abbia pieno diritto ad agire coattivamente al fine di farrispettare il ruolo che ognuno riveste, secondo un criterio d’ottimizzazione della di-visione del lavoro, nello schema di cooperazione civile. Il fulcro dell’argomentazio-ne risiede nel riconoscimento del vantaggio pragmatico che si ha nell’assegnare unaresponsabilità collettiva allocata settorialmente ai vari agenti. Se è vero che l’indivi-duo spesso fallisce quando agisce da solo, allora è necessaria l’istituzione statale percoordinare i singoli. Le scuse di stampo individualistico sono così azzerate respon-sabilizzando lo Stato, il quale, sebbene inteso strumentalmente come mezzo d’allo-

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42 R. Goodin, Protecting the Vulnerable: A Reanalysis of Our Social Responsibilities, cit., pp. 196-197.43 Ivi, p. 136.44 Ivi, p. 139. Per il primo principio di responsabilità individuale vedi, invece, p. 118.

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cazione di responsabilità, è considerato come dotato di personalità morale, in quantopossessore di valori e obiettivi e capace d’azione deliberativa. Va detto però che ciònon conduce a una versione di istituzionalismo nei termini di un superorganismo col-lettivo, in quanto le responsabilità rimangono in ultima analisi a carico dei singoli siacome governanti, sia come consociati. In questo modo, due sole alternative sono date:ove non esista il meccanismo statale, vi è il dovere di organizzarlo, ove, invece, già esi-sta si ha il dovere di cooperare all’interno di esso, pena la coercizione.

Con questo ragionamento, si possono respingere anche le tradizionali critiche se-condo le quali l’utilitarismo permetterebbe l’impermissibile e richiederebbe il nonobbligatorio. Questo tipo di utilitarismo, per l’autore, non chiede troppo poco, inquanto ha impliciti in sé vincoli dovuti al riconoscimento della centralità delle regolegenerali applicate a casi standard, né chiede, d’altro canto, troppo, giacché non pre-scrive atti eroici ma compiti sociali ripartiti in modo ragionevole attraverso uno sche-ma coordinativo. In particolare per ciò che riguarda le relazioni internazionali, «sussi-ste naturalmente l’analogo internazionale del problema del sacrificio eroico. In unmondo di Stati indipendenti, a uno Stato ipercoscienzioso potrebbe, in conformità asimili calcoli utilitaristici [quelli fatti dai sostenitori della critica del “troppo”, non ob-bligatorio], essere richiesto di ottemperare ai compiti non svolti dagli Stati meno co-scienziosi. La soluzione qui consiste, come sopra, nel collocare il governo nell’ambitodelle Nazioni Unite. Proprio come il far rispettare uno schema di coordinazione al-l’interno può essere giustificato in quanto è legittimo obbligare i singoli a giocare il lo-ro ruolo nello schema di adempmento dei doveri condivisi, così anche il far rispettarelo schema internazionale può essere similmente giustificato» 45.

Fulcro dell’indagine critica di Goodin sulle ricadute internazionalistiche del suoragionamento è l’analisi critica della priorità normativa concessa ai connazionali e deirelativi obblighi speciali46. Operando una disamina critica di quelle che sono le mag-giori teorie concorrenti, il principio più difendibile risulta essere quello della «re-sponsabilità assegnata», la quale facendo appello alla nozione di vulnerabilità e di-pendenza non è solo in grado di giustificarsi per sé, ma anche di scalzare le altre teo-rie concorrenti. La teoria delle responsabilità assegnate reinterpreta, includendoli, idoveri speciali come derivati da quelli generali e quindi da questi sopravanzabili. Glispecial duties mantengono, infatti, un loro ruolo per motivi funzionali quali la divi-sione del lavoro e la specializzazione, la mancanza d’informazioni e le debolezze psi-cologiche, ma ciò tuttavia non permette loro di godere di autonomia morale. La divi-sione territoriale ha, dunque, solo un senso organizzativo d’allocazione delle respon-sabilità e i doveri «patriottici» rimangono validi, ma solo prima facie.

45 R. Goodin, Utilitarianism as a Public Philosophy, cit., p. 67, nota 18.46 R. Goodin, Protecting the Vulnerable: A Reanalysis of Our Social Responsibilities, cit., cap. 6, § 2 e R.

Goodin, What is So Special about Our Fellow Countrymen?, cit.

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Nello schema di cooperazione sociale, come detto, la responsabilità collettivanon annulla quella individuale, quantunque le cambi di carattere. Uno dei primi im-pegni individuali, in ambito internazionale, consiste nel promuovere campagne po-litiche interne che stimolino una diversa sensibilità nei governati come nei gover-nanti. In questo caso, infatti, non vale l’argomento della generalizzazione per evade-re i propri doveri. Anche dove alcuni defezionino, il nostro obbligo rimane quello di«cooperare con chiunque altro stia cooperando, al fine di produrre le miglior con-seguenze possibili dato il comportamento dei non-cooperanti» 47; né vale l’argo-mento della supererogazione psicologica, in quanto è epistemologicamente falso so-stenere una concezione troppo statica della nostra psicologia dell’assistenza, comeinsegna Singer. Afferma, infatti, Goodin: «L’assegnazione delle responsabilità nonsarà mai perfetta, e molto fa supporre che l’assegnazione implicita nel presente si-stema-mondo sia veramente molto imperfetta. In tal caso, la responsabilità specialederivata non può impedirci di adempiere il dovere più generale dal quale deriva.Nel presente sistema-mondo, è spesso, forse normalmente, sbagliato dare prioritàalle pretese dei nostri compatrioti» 48.

Il riduzionismo

Di segno diverso è l’ultima argomentazione di cui questa rassegna si occupa.Tale proposta, avanzata da Derek Parfit, è tanto promettente quanto poco esplora-ta in ambiente internazionalistico e suggerisce una visione riduzionistica dei sog-getti morali, in primis degli Stati 49. Parfit fa scaturire il suo ragionamento propriodalla constatazione che il senso comune stesso ha una visione riduzionistica degliStati e, sul modello di questa, propone poi un’interpretazione riduzionistica dellaconcezione di persona. Egli afferma: «La maggior parte di noi ritiene che l’esisten-za di una nazione non implichi nient’altro che l’esistenza di un certo numero di per-sone associate tra loro. Noi non neghiamo la realtà delle nazioni. Neghiamo inveceche siano realtà separate o indipendenti. La loro esistenza implica soltanto l’esi-stenza dei loro cittadini che, insieme, vivono sul loro territorio e si comportano incerti modi» 50. Ciononostante, parlando ad esempio della Francia ci si può riferirea lei come nazione. Quando si usa la parola Francia, infatti, ci si riferisce alla nazio-ne, non al governo, ai cittadini o al territorio, perché altrimenti qualora il governo,i cittadini o il territorio cambiasse non potremmo più identificarla in quanto Fran-cia, ma così non è. Questo è un caso evidente, secondo Parfit, a conferma del fatto

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47 D. Regan, Utilitarianism and Co-operation, Oxford University Press, Oxford 1980, p. 124.48 R. Goodin, Utilitarianism as a Public Philosophy, cit., p. 287.49 D. Parfit, Reasons and Persons, Clarendon, Oxford 1984.50 D. Parfit, Ragioni e persone, il Saggiatore, Milano 1969, p. 434.

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che ci si possa riferire a qualcosa anche laddove non si tratti di un’entità esistente inmodo autonomo 51.

Tale argomentazione riduzionistica si basa sulla similitudine tra lo Stato e la per-sona che Parfit riprende esplicitamente da David Hume, il quale già nel Treatise so-steneva: «Non potrei paragonare l’anima meglio che a una repubblica, a uno Stato, incui i diversi membri sono uniti da un vincolo reciproco di governo e di subordinazio-ne, e danno vita ad altre persone, le quali continuano la stessa repubblica nell’inces-sante cambiamento delle sue parti» 52. La persona va interpretata, secondo tale pro-spettiva, come uno Stato, un’associazione, un partito politico in cui ciò che conta è ilgrado di relazione tra i vari membri. Attraverso un indebolimento della concezionedell’Io e la conferma dell’importanza interpretativa della relazione «R» (ossia: la con-nessione e/o la continuità psicologica dovuta al giusto tipo di causa 53), Parfit propo-ne, indirettamente, delle interessanti ricadute normative di etica internazionale.

Oltre a evitare il problema dello status morale degli organismi statali, la sua teo-ria si rivela particolarmente fertile anche nell’ambito della parzialità spazio-tempora-le. Qualora una concezione più impersonale del giusto fosse accettata ed interioriz-zata, sostiene l’autore, i propri Io futuri assomiglierebbero di più agli Io futuri altruie i propri confini personali perderebbero la loro invalicabilità così come i propri con-fini nazionali. «Se una nazione non è altro che i suoi cittadini, è meno plausibile con-siderare la nazione in se stessa come oggetto primario di doveri o come titolare di di-ritti. È più plausibile focalizzare l’attenzione sui cittadini e considerarli non tantoquanto cittadini ma come persone. Sotto questa luce, pertanto, la nazionalità di unapersona ci apparirà come qualcosa di moralmente meno importante» 54. Tale doppiariduzione prima dallo Stato all’individuo e poi dall’individuo all’io implica che gliStati non siano più considerati soggetti principali dell’arena internazionale, che per-dano quindi le loro qualità giuridico-morali quali diritti e doveri e che l’attenzione siarivolta primariamente agli individui, in particolare per ciò che concerne la giustiziadistributiva.

La teoria parfitiana della giustizia distributiva presenta aspetti tanto interessan-ti quanto innovatori 55. Se da un lato la portata del principio distributivo è aumen-tata, il suo peso dall’altro è però diminuito: l’unità della persona è abbandonata, i le-gami tra i vari Io sono resi più tenui e le possibilità di compensazione minori, giac-ché manca un profondo fatto interiore che imponga, da un punto di vista morale, unriequilibrio tra le diverse parti della vita. Tanto manca un’identità forte nel tempotra i diversi Io personali quanto manca tra i diversi Stati e, all’interno di questi, tra

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51 Ivi, pp. 596-597.52 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 273.53 D. Parfit, Ragioni e persone, cit., p. 333.54 Ivi, p. 435.55 Ivi, parr. da 111 a 118.

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le diverse generazioni. Per Parfit, ciò spiega e giustifica perché, nel caso in cui fossepossibile aiutare una sola nazione tra due che presentino entrambe lo stesso tipo disofferenza tra i cittadini, e fosse noto che quella a cui possiamo essere più utili è lanazione che, nei secoli passati, ha avuto una storia più fortunata, la maggior parte dinoi reputerebbe non essere giusto aiutare quella nei confronti della quale i nostriaiuti potrebbero essere meno efficaci e lasciare quindi che l’umanità nel complessosoffra di più, soltanto al fine compensativo di distribuire le sofferenze più equa-mente tra le storie delle varie nazioni. E ciò perché, nel cercare di alleviare le soffe-renze, le nazioni non sono comunemente considerate come unità moralmente signi-ficative caratterizzate da una continuità storica forte 56. Anche per Parfit, dunque, leentità statali vanno spogliate di gran parte dell’autorità normativa che tradizional-mente si attribuisce loro.

Conclusioni

È opportuno dare ora uno sguardo d’insieme alle proposte utilitariste passate inrassegna fino ad ora. Per controbilanciare il riconoscimento secondario che l’utilita-rismo ha ricevuto nel dibattito sulla giustizia globale è bene cercare di sintetizzare lediverse indicazioni forniteci dagli autori passati qui in rassegna, al fine di porre lebasi d’ulteriori evoluzioni e affermare la rilevanza di questa tradizione per la solu-zione normativa dei problemi globali correnti.

Gli utilitaristi contemporanei che hanno affrontato i problemi internazionali so-no arrivati in genere a conclusioni normative che, evitando le due generali obiezioniagli obblighi internazionali, vale a dire quella sulla sovranità statale e quella sul relati-vismo culturale 57, richiedono un ampliamento della nostra tradizionale sfera di sensi-bilità morale, un’assunzione di responsabilità globale e, come azione pratica fra le al-tre, alcune misure atte a «ridistribuire il benessere» oltre i confini nazionali. Il testoche, oltre ad aver iniziato, ha sicuramente più influito in questo dibattito è, come det-to, quello di Peter Singer del 1972, ma anche le altre argomentazioni sono rilevanti.L’etica della scialuppa dei neomalthusiani, il criterio dell’analogia così come propostoda Hare, la peculiarità internazionalistica sostenuta da Elfstrom, il principio della vul-nerabilità esposto da Goodin e infine l’argomentazione riduzionistica di Parfit arriva-no tutti, sebbene si sviluppino per vie diverse e alle volte in contrasto, a delle conclu-sioni simili: in primis, una riallocazione dei doveri morali in senso denazionalizzante ela conseguente rilettura dei confini nazionali in termini strumentali.

Da ciò discende una reinterpretazione, seppur eterogenea, di alcuni elementicentrali della moderna filosofia etico-politica, quali la sovranità statale (verso un si-

56 Ivi, p. 436.57 N. Dower, World Poverty: Challenges and Responses, Ebon Press, York 1983, p. 44.

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stema cooperativo internazionale), la cittadinanza nazionale (verso una cittadinanzacosmopolitica), i diritti umani (verso i doveri umani), gli obblighi speciali (verso idoveri universali), in favore di una concezione che, sebbene ancora riservi agli Statiuna funzione politico-amministrativa, è animata da uno spirito cosmopolita e uni-versalista. Tale aspirazione cosmopolita, tuttavia, non esclude che queste propostesiano in grado d’essere sensibili alle differenze culturali. Se, infatti, l’utilitarismo in-ternazionalistico presenta caratteristiche individualistiche e universalistiche nei suoitratti essenziali, è pur vero che è anche consequenzialista, e quindi capace di adat-tarsi al contesto e di aprirsi a forme normative più complesse. È dunque individua-lista, ma è anche capace di rilevare la centralità dell’azione cooperativa e di ricono-scere i diversi livelli applicativi per quel che concerne i diversi agenti, contenuti cul-turali e sfere d’azione politiche.

Due questioni morali, in particolare, assumono nell’ambito odierno delle rela-zioni internazionali un’importanza cruciale come criteri di legittimità per qualsiasiteoria della giustizia globale che avanzi pretese di superiorità normativa: il problemadel soggetto responsabile e del danno e quello della dimensionalità multilivello dal-le azioni internazionali. In entrambi i casi l’utilitarismo si dimostra, come evidenzia-to dagli argomenti passati in rassegna, particolarmente fertile rispetto alle teorieconcorrenti e quindi in grado di candidarsi a pieno titolo come teoria della giustiziaglobale.

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