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La luna piena in una sera d’ottobre. Il disastro del Vajont 50 anni dopo Stefano Ventura “Il 9 ottobre è una stupenda giornata di sole. Di questa stagione la montagna è splendida, rifulge di caldi colori autunnali”. E’ Tina Merlin a scrivere questa descrizione climatica di una giornata che sarà ricordata per il suo tragico epilogo. Altri racconti parlano della luna piena che quella sera illuminava il cielo. Per chi visse in prima persona il terremoto in Irpinia del 23 novembre 1980, queste descrizioni sono stranamente familiari: stessa luna piena, stesso caldo anomalo. C’era poi una partita di calcio: Glasgow –Real Madrid di Coppa dei Campioni per il Vajont, Juventus- Inter per l’Irpinia; molte vittime erano nei bar per guardare la partita in tv. Decido di andare a Longarone, Erto e Casso per una sorta di obbligo morale; avevo preso confidenza con questa storia attraverso carte, fotografie, testimonianze e libri. Non so bene cosa cercare e cosa aspettarmi, perché so che anche la memoria di questo disastro è stata scandita da tappe controverse e dolorose. Alle 22 e 39 del 9 ottobre 1963, si staccarono 260 milioni di metri cubi di roccia dal Monte Toc. La massa di materiale rovinò nella diga che da tre anni era stata costruita nella valle del fiume Vajont, producendo un’enorme onda di circa 50 milioni di metri cubi di acqua. Il turbine di acqua e detriti provocò la morte di 1910 persone tra Longarone, Castellavazzo, Codissago, Erto, Casso, San Martino. Un terzo della popolazione di Longarone fu cancellato dal disastro. E’ sempre Tina Merlin ad affermare che la diga “resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica”. Nella piazza del paese, che guarda dritto in faccia alla gola nella quale si scorge la diga, si affaccia un edificio che

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50 anni dal disastro del vajont

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La luna piena in una sera d’ottobre. Il disastro del Vajont 50 anni dopo

Stefano Ventura

“Il 9 ottobre è una stupenda giornata di sole. Di questa stagione la montagna è splendida, rifulge di caldi colori autunnali”. E’ Tina Merlin a scrivere questa descrizione climatica di una giornata che sarà ricordata per il suo tragico epilogo. Altri racconti parlano della luna piena che quella sera illuminava il cielo.Per chi visse in prima persona il terremoto in Irpinia del 23 novembre 1980, queste descrizioni sono stranamente familiari: stessa luna piena, stesso caldo anomalo. C’era poi una partita di calcio: Glasgow –Real Madrid di Coppa dei Campioni per il Vajont, Juventus- Inter per l’Irpinia; molte vittime erano nei bar per guardare la partita in tv. Decido di andare a Longarone, Erto e Casso per una sorta di obbligo morale; avevo preso confidenza con questa storia attraverso carte, fotografie, testimonianze e libri. Non so bene cosa cercare e cosa aspettarmi, perché so che anche la memoria di questo disastro è stata scandita da tappe controverse e dolorose. Alle 22 e 39 del 9 ottobre 1963, si staccarono 260 milioni di metri cubi di roccia dal Monte Toc. La massa di materiale rovinò nella diga che da tre anni era stata costruita nella valle del fiume Vajont, producendo un’enorme onda di circa 50 milioni di metri cubi di acqua. Il turbine di acqua e detriti provocò la morte di 1910 persone tra Longarone, Castellavazzo, Codissago, Erto, Casso, San Martino. Un terzo della popolazione di Longarone fu cancellato dal disastro. E’ sempre Tina Merlin ad affermare che la diga “resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica”. Nella piazza del paese, che guarda dritto in faccia alla gola nella quale si scorge la diga, si affaccia un edificio che ospita il museo “Longarone-Vajont, attimi di storia”, gestito dalla Pro Loco di Longarone. C’è una scritta sulla parete delle scale che conducono al primo piano, dove è ospitata la mostra; è inequivocabile: “Leggerezze imperdonabili, arroganza dei poteri, silenzi della stampa, assenza di controlli, gravissime omissioni”. Il museo è ordinato ed efficace, ci sono tutti gli elementi per conoscere per bene cosa è accaduto; sento nei miei accompagnatori lo stesso magone misto a indignazione che provo io. Le testimonianze dei superstiti sono vivide e toccanti e parlano nella lingua semplice ma diretta della gente di montagna. Ho scoperto, prendendo confidenza con la storia del Vajont, che il trauma di chi è rimasto ha tracciato un solco che ha diviso persino i “sopravvissuti” dai “superstiti”, una diversa tonalità di dolore e quindi di recriminazione verso lo Stato, la SADE o Enel o le autorità locali e nazionali. “Parlare del dolore non è facile, il dolore si vive”, c'è scritto sul muro della sala che accompagna all'uscita. E' proprio così; mancano sempre termini al vocabolario che tenta di narrare la sofferenza.

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Per la visita guidata alla diga ci affidano a un “informatore della memoria”, un ragazzo del posto, che ci racconta tappe e cronache della costruzione di un sogno ingegneristico costruito nonostante la diffidenza dei locali verso il gigante, il Monte Toc, che in friulano prende in nome da “patoc”, “marcio”. Non c'era tempo da perdere, l'industria nazionale aveva bisogno di elettricità e costruire una diga sul corso del fiume Vajont poteva fornirne tanta. Il sogno inizia nel 1925, con Mussolini e con il conte Giuseppe Volpi di Misurata, creatore della SADE (Società adriatica di elettricità) e presidente di Confindustria negli anni del regime. Nell'ottobre 1943, in piena guerra, in un corridoio ministeriale romano, viene firmata la prima autorizzazione al progetto, realizzato dall’ingegnere Carlo Semenza. Tra il 1957 e il 1959 si lavora alla diga; nel 1960 si stacca una prima frana, ma siccome non si registrano morti, la SADE non ritiene di desistere dal continuare a tenere attiva la diga e a mantenere acqua nell’invaso; la società risponde abbassando la quantità di metri cubi quando la gente della valle protesta e alzandola quando tutto si sopisce. Ma la montagna inizia a cedere, gli allarmi sono più che fondati e anche i geologi di parte lo sanno; Tina Merlin scrive su “l'Unita” documentando tutto, ma viene portata in tribunale per disturbo della quiete. “Magari l'avessi disturbata davvero, la quiete”, dirà poi. La vertigine che si prova attraversando la diga è unita alla consapevolezza degli effetti tragici di quel disegno scellerato di oltraggio alla natura. La faglia a forma di M domina come una cicatrice sul fianco del Monte Toc. Tra i dati indicativi annoto il numero di visitatori che ogni anno sale sulla diga: 220 mila, un numero molto alto, che testimonia un omaggio silenzioso a questo luogo oltraggiato e ferito a morte.Erto, il paese di Mauro Corona, ha conservato molte caratteristiche di un paese di montagna, a differenza di Longarone, che ha sviluppato una struttura urbanistica anonima, così come in tante altre ricostruzioni da post-disastro in Belice, Irpinia e così via. A Fortogna c'è il cimitero monumentale che ospita i morti del Vajont; assomiglia a un sacrario di guerra, con i cippi allineati sui quali sono segnati i nomi. E' un compendio agli altri luoghi visitati in questa visita, il conteggio visibile delle vittime di quella tragedia annunciata.La sensazione è che, nonostante le divisioni, qui si abbia ben presente che si può intervenire per commemorare in maniera equilibrata, senza abbagliare né trascurare. Dallo spettacolo di Paolini in poi la tragedia del Vajont ha vissuto una rielaborazione del lutto sia per gli abitanti di questi posti sia per l'Italia e le sue istituzioni. E' nata una fondazione nel 2003, la Fondazione Vajont, che ora sta costruendo le attività in vista del cinquantesimo anniversario.I posti bagnati da sangue innocente diventano sacri, dice un adagio della cultura ebraica. Oltre a guerre e violenze, l’oltraggio si compie anche inseguendo la divinità del

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progresso inarrestabile, violando leggi millenarie della natura con superficialità e omissione colpevole di norme e tecniche di costruzione. Andare a trovare luoghi come Longarone, come l'Aquila, San Giuliano di Puglia, Gibellina (nel Belice) e Laviano (in Irpinia) serve da ammonimento per porre l'orecchio a quel dolore che vive, anche cinquant’anni dopo.