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8 NUMERO 11 Maria Camilla Brunetti “Ma il nostro non è un Paese per donne” 9 Nei primi cinque mesi del 2012 è spaventosamente cresciuto il numero degli omicidi, degli stupri, delle aggressioni: oltre 60 donne sono state uccise dai loro mariti, conviventi, padri. E ora si parla di “femminicidio”. Ne discutono Dacia Maraini, Cristina Comencini, Francesca Caferri Foto di Simona Granati/Buenavista NUMERO 11 T IZIANA, VANESSA, ANTONIA, Gabriel- la, Francesca, Maria Enza davan- ti agli occhi di sua figlia Sonia. In Italia, dall’inizio del 2012, sono state uccise più di 60 donne. Uccise dai loro conviventi, mariti, padri. Il 26 aprile il corpo di Vanessa Scialfa viene trovato senza vita. Massacrata dall’uo- mo con cui viveva. Strangolata con un cavo elettrico, poi soffocata con un fazzoletto imbe- vuto di candeggina. Aveva vent’anni. Vanessa è stata la 54esima vittima di una carneficina. Il 27 aprile 2012, nell’appello Mai più complici lanciato dal comitato promotore di Se non ora quando, si inizia a parlare di femminicidio. In poche ore, le adesioni sono moltissime. Ci sono state posizioni contrastanti sull’uso di questo termine, che ha un forte valore politico e una lunga storia. Scegliere di utilizzarlo significa in- trodurre un’ottica di genere su crimini per trop- po tempo archiviati come atti delittuosi “neu- tri”. Forse però ripartire proprio dal linguaggio è importante. “Femminicidio” è una violenza di genere e non un raptus passionale, “possesso” non è sinonimo di bene ma il suo ossimoro. Una donna che sceglie di interrompere una relazio- ne sentimentale non è “una poco di buono”, ma una persona libera che esercita un suo diritto inviolabile. Non può morire per questo. Ne parlo con Francesca Caferri, inviata di Repubblica, studiosa di donne e mondo arabo (da poco in libreria Il paradiso ai piedi del- le donne. Le donne e il futuro del mondo mu- sulmano, Mondadori) e membro del comitato promotore di Snoq. Con Cristina Comencini, regista e scrittrice, a sua volta una delle anime fondatrici di Snoq, e con Dacia Maraini, sensi- bile osservatrice del contemporaneo, da sempre in prima linea per ciò che concerne la questione femminile. “Usare il termine femminicidio – spiega Francesca Caferri - è essenziale per ricorda- 8 marzo sempre Roma, 8 Marzo 2011, un’immagine del corteo del movimento femminista e lesbico contro la violenza maschile e per la libertà delle donne

violenza sulle donne

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maria Camilla Brunetti

“Ma il nostro non èun Paese per donne”

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nei primi cinque mesi del 2012 è spaventosamente cresciuto il numero degli omicidi, degli stupri, delle aggressioni: oltre 60 donne sono state uccise dai loro mariti, conviventi, padri. e ora si parla di “femminicidio”. ne discutono Dacia maraini, Cristina Comencini, Francesca Caferri

Foto di Simona Granati/Buenavista

numero 11

T iziana, Vanessa, antonia, Gabriel-la, Francesca, Maria Enza davan-ti agli occhi di sua figlia Sonia. In

Italia, dall’inizio del 2012, sono state uccise più di 60 donne. Uccise dai loro conviventi, mariti, padri. Il 26 aprile il corpo di Vanessa Scialfa viene trovato senza vita. Massacrata dall’uo-mo con cui viveva. Strangolata con un cavo elettrico, poi soffocata con un fazzoletto imbe-vuto di candeggina. Aveva vent’anni. Vanessa è stata la 54esima vittima di una carneficina. Il 27 aprile 2012, nell’appello Mai più complici lanciato dal comitato promotore di Se non ora quando, si inizia a parlare di femminicidio. In poche ore, le adesioni sono moltissime. Ci sono state posizioni contrastanti sull’uso di questo termine, che ha un forte valore politico e una lunga storia. Scegliere di utilizzarlo significa in-trodurre un’ottica di genere su crimini per trop-po tempo archiviati come atti delittuosi “neu-tri”. Forse però ripartire proprio dal linguaggio è importante. “Femminicidio” è una violenza di genere e non un raptus passionale, “possesso” non è sinonimo di bene ma il suo ossimoro. Una donna che sceglie di interrompere una relazio-ne sentimentale non è “una poco di buono”, ma una persona libera che esercita un suo diritto inviolabile. Non può morire per questo.

Ne parlo con Francesca Caferri, inviata di Repubblica, studiosa di donne e mondo arabo (da poco in libreria Il paradiso ai piedi del-le donne. Le donne e il futuro del mondo mu-sulmano, Mondadori) e membro del comitato promotore di Snoq. Con Cristina Comencini, regista e scrittrice, a sua volta una delle anime fondatrici di Snoq, e con Dacia Maraini, sensi-bile osservatrice del contemporaneo, da sempre in prima linea per ciò che concerne la questione femminile.

“Usare il termine femminicidio – spiega Francesca Caferri - è essenziale per ricorda-

8 marzo sempreRoma, 8 Marzo 2011, un’immagine del corteodel movimento femministae lesbico contro la violenza maschilee per la libertà delle donne

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re che queste donne sono state uccise perché donne. Che non si tratta di semplici episodi di cronaca nera, ma di una sistematica e ripetu-ta aggressione alle donne, per lo più alle don-ne che si ribellano, a quelle che cercano auto-nomia, indipendenza, lavoro, vie di fuga. Solo usare questa parola in modo ripetuto può dare l’impressione delle dimensioni di un fenomeno che oggi si perde troppo facilmente nelle pagi-ne della cronaca nera”. Ciò che si sta giusta-mente iniziando a chiamare femminicidio non è un evento luttuoso che coinvolge solo vittima e carnefice. È un massacro collettivo. Un inte-ro tessuto sociale che si sfalda, facendo venire meno il principio fondante di ogni società che si definisca civile, la tutela dei diritti di ogni suo rappresentante.

“Il termine femminicidio – aggiunge Cri-stina Comencini – ha in sé l’etimo della parola femmina. È viatico dell’essenza stessa del cor-

po della donna. Le donne portano nella società, quindi nella politica, nella res-publica, il loro corpo, l’origine della loro differenza, quindi del cambiamento. Le donne non devono seguire un modello maschile, perché sono portatrici di un modello ossimorico a quello maschile, incarna-no un verbo altro, il corpo femminile. Anche in paesi in cui c’è una cultura forte della parità, in cui esiste una parità di fatto, come nel Nord Europa le donne continuano ad essere vittime della violenza maschile. Questo a testimoniare che l’accesso delle donne a una società con pari diritti e tutele non può essere disgiunto proprio dall’essere accettate con e per queste differenze e specificità. E proprio sulle differenze dobbia-mo continuare a lavorare. Le donne devono por-tare nella società il proprio corpo con le proprie forze e le proprie fragilità e non devono, non possono, essere omologate a un modello maschi-le. Dobbiamo lavorare sul concetto profondo del

Lidia RaveraAltre immagini della stessa manifestazione. Qui la scrittrice Lidia Ravera mostraun cartello

Virginia WoolfDue manifestanti con il ritrattoe una frasedi Virginia Woolf

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corpo delle donne. Il femminicidio rappresenta il rifiuto estremo da parte dell’uomo del corpo della donna, dell’autonomia femminile. L’uomo replica alla libertà della donna cancellandone il corpo”.

La cultura della sopraffazioneIl comitato Cedaw (Committee on the eli-

mination of discrimination against women) ha evidenziato, nel suo rapporto sull’Italia, come nel nostro Paese persistano “attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica”. La violenza sulle donne come fenomeno social-mente legittimato. Il problema prima di esse-re legale e giudiziario, è ovviamente culturale. Radicato in una rappresentazione dell’immagi-nario femminile stereotipata che vede ancora la donna come madre-moglie devota da una parte, e come orpello decorativo totalmente svuotato di contenuto pensante dall’altra. Parliamo di

rappresentazione e media. L’immagine di una donna disumanizzata, ridotta a oggetto, spinge alla violenza e porta a una cultura della sopraf-fazione. L’immagine della donna come proprie-tà del proprio uomo - convivente o padre - reite-ra la barbarie.

“Il problema è assolutamente culturale – continua Francesca Caferri – fino a quando la donna sarà trattata da oggetto, da soprammobi-le, da essere da premiare o meno a seconda del-la sua avvenenza o disponibilità, fino a quando le donne saranno screditate in questa maniera: fare violenza su di loro sarà più facile. La sfida a mio parere è complessiva: non è solo una sfi-da sulle donne. È la sfida per far ripartire que-sto paese su basi nuove, di parità, di dignità, di rispetto del valore di ciascuno: che sia uomo o donna. Solo ripartendo da una visione simile l’Italia potrà uscire dal pantano in cui si trova: e gli studi di moltissimi economisti ce lo hanno

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confermato. Quando sarà vinta, staranno bene gli uomini e ancor di più le donne: è quello che è successo nel mondo arabo in fondo. Le donne sono scese in piazza per chiedere diritti da cit-tadine non da donne… è una bella differenza, dovremmo ricordarcela”.

I danni della ChiesaUomini e donne insieme. Per tornare a es-

sere cittadini, appunto. Cittadini di un paese civile. In un dialogo che non può non essere comune e condiviso. Che gli uomini si respon-sabilizzino ha un ruolo cardine in questa rivo-luzione sociale, per comprendere come possa-no e debbano cambiare le relazioni tra i sessi. Fin dall’infanzia, da come bambini e bambine vengono educati. Dal rapporto che vedono tra i genitori. Nella tutela delle differenze recipro-che, con pari dignità, pari diritti e doveri. Ne parlo ancora con Cristina: “Dobbiamo conti-nuare – dice – a raccontare l’universo femmi-nile, ogni volta che possiamo, per lavorare su un immaginario che scardini finalmente alcuni stereotipi ancora troppo legati alla rappresen-tazione dell’immagine delle donne nella società italiana, all’interno della famiglia, in relazione a mariti e figli. In questo dialogo, in questa ri-flessione, devono essere assolutamente coin-volti anche gli uomini. Perché solo insieme si può vincere questa partita. Senza una profonda presa di coscienza da parte degli uomini nessun cambiamento potrà avvenire. Le donne devono rinunciare alla dimensione di subalternità, che parte dall’accettare un ruolo imposto all’inter-no del nucleo familiare e può arrivare fino a credere che il loro dovere sia quello di accettare vicino a sé anche un uomo violento. Il nostro grande compito, lo ripeto, è rinunciare alle vie della subordinazione e quello degli uomini è ri-nunciare agli ideali patriarcali di potere e pos-sesso. Continuare a parlarne, da sole e con gli uomini”.

Continuare a parlarne ai nostri mariti, col-leghi, compagni. Ai nostri amici. Ai nostri figli. Litigare, se serve, ma continuare a tenere alta l’attenzione. “È vero – interviene Dacia Marai-ni – quello che si insegna alle mogli è sopporta-re e tacere. La Chiesa ci mette molto di suo. Ho sentito tante donne riferire che i loro parroci, alla denuncia del maltrattamento del marito, suggeriscono di stare tranquille e sopportare in nome della famiglia. Si tratta di una cultura

familistica, molto sentita in un paese come il nostro in cui lo spirito di solidarietà sociale è molto debole”.

Eppure, benché vittime di una cultura fami-listica che sembra imprigionarle nel ruolo di mo-gli e madri, le donne italiane fanno sempre meno figli, guadagnano - a parità di lavoro - il 20 per cento in meno dei loro colleghi maschi (rapporto Istat 2011) e continuano a trovarsi in situazioni di marginalità professionale e di grave emergen-za lavorativa. Potrebbe sembrare, come ben do-cumentato da un recente studio della giornalista Chiara Valentini (O i figli o il lavoro, Feltrinelli), che alle giovani italiane venga posto un aut aut.

“In Italia – spiega Cristina Comencini – que-sto è, purtroppo, un finto binomio. La situazione è ancora più drammatica. È una falsa scelta per-ché le donne italiane non mettono al mondo fi-gli e tuttavia rimangono emarginate dal mondo del lavoro. O rilanciamo il lavoro e la paternità responsabile come diritti e valori primari e ina-lienabili o la partita sociale e culturale non po-trà essere vinta. Bisogna continuare a parlarne, ogni volta che possiamo, non smettere di cercare un dialogo con gli uomini. Continuare a elabora-re una parola che sia efficace e costruttiva”.

Domenica 13 maggio è sfilato a Roma il corteo antiabortista promosso da Forza Nuova, dal comitato Scienza e Vita (studiosi e scienziati

Flash mobScalinatadel Campidoglio, flash mob con ochedi cartone. “Svegliasi starnazza tutte!”, lo slogan delle donnein piazza

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cattolici contro la fecondazione assistita e contro la legge 194 sull’aborto), da Militia Christi (cat-tolici di destra) e dai Centri di aiuto alla vita. Il corteo è stato patrocinato dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno, e racchiudeva l’intera galas-sia dei movimenti così detti pro-life. Gruppi e gruppuscoli cresciuti all’ombra di oratori, chie-se e centri studi cattolici, che hanno come fine l’abolizione della legge 194, il boicottaggio della pillola contraccettiva del giorno dopo, si dichia-rano fermi oppositori dell’adozione della pillola Ru486, e determinati a cancellare l’esistenza dei rari consultori pubblici ancora operativi sul territorio italiano. In Italia l’orologio sembra tornato indietro di quarant’anni e il tentativo di mettere in discussione le conquiste della società civile degli anni Sessanta e Settanta è continuo, sconcertante. La condizione delle donne rivela il livello politico e sociale di un paese. Di tutti i paesi. In Italia, il corpo della donna, mai come in questo momento, è al centro di una battaglia cruenta, cruciale per il futuro della società ita-liana. Una battaglia mediatica e politica che, per essere vinta, deve arrivare al cuore del maschili-smo di questo paese.

“Finché la Chiesa non capirà che i tempi sono cambiati e come ha fatto sempre, anche se controvoglia, si adeguerà alle novità – continua Dacia Maraini – non riusciremo a fare molto. Il

nostro e un paese profondamente cattolico. Non tanto religioso, ma osservante di regole che ven-gono da una lontana pratica del cattolicesimo più retrivo e chiuso. Non a caso abbiamo rifiu-tato la Riforma che ha modernizzato l’Europa e siamo caduti in un terribile revisionismo at-traverso la Controriforma. È stato il disastro del nostro paese. Da li vengono tutti i guai. Pensa che con la Controriforma, per fare un esempio, tutti i conventi femminili sono stati trasformati in conventi di clausura, per decisione dall’alto, impedendo alle donne che stavano chiuse non per scelta propria ma per ragioni di interessi familiari, qualsiasi forma di rapporto col mondo e con le idee. Perfino la lingua italiana ha pati-to per la Controriforma: dopo gli splendidi ini-zi dell’italiano, siamo tornati al latino. E voglio ricordare, tanto per fare un altro esempio, che Galileo Galilei è stato accusato dalla comunità scientifica di lesae humanitatis per avere scritto un libro in italiano, anziché in latino.

Detto questo, non considero l’aborto una conquista o una bandiera. È sempre una violen-za che si fa al corpo femminile e a un progetto di vita. Ma non servono le leggi proibitive, serve un cambio di cultura. Serve che passi l’idea della maternità responsabile, ovvero la pratica della scelta e della prevenzione. Cose che la Chiesa ha sempre avversato e proibito”.

Le parole di un NobelNell’ottobre del 2011 tre donne sono sta-

te insignite del Premio Nobel per la Pace. La Presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf, l’attivista politica liberiana Leymah Gbowee e Tawwakkol Karman. Questi sono i loro nomi, questa la motivazione dei premi: Per la lotta non violenta condotta per la sicurezza delle donne e per il diritto delle donne ad avere piena parteci-pazione nel processo di costruzione della pace. “A tutte quelle donne che la storia e la durezza dei regimi sotto cui vivono hanno reso invisibili, a tutte le donne che hanno fatto sacrifici in nome di società più giuste, a tutte quelle donne che stanno ancora percorrendo il sentiero della li-bertà in paesi dove non ci sono giustizia sociale e pari opportunità, a tutte loro io dico grazie. Que-sto non sarebbe potuto accadere senza di voi”. Così ha chiuso il suo discorso a Oslo, nella sala dei Nobel, Tawwakkol Karman, Premio Nobel per la Pace 2011, 33 anni, yemenita, giornalista, attivista politica, madre di tre figli, moglie.