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Edizione MAGGIO 2018

Copyright © MMXVIIIKEY SRLVIA PALOMBO 2903030 VICALVI (FR)P.I./C.F. 02613240601

ISBN 978-88-279-0119-9

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione, di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi.

Stampato da Furlan Grafica Via Garegnano, 41 Milano 20156

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ESAME AVVOCATO OK

Luigi Maria Sanguineti

DIRITTO E PROCEDURA PENALE

RAGIONATA

53 lezioni sotto forma di dialogo (con annesso formulario della procedura )

per agevolare la preparazione agli esami e concorsi

Seconda edizioneAggiornata con L. 23 giugno 2017 n.103

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L’autore

L'Avvocato Luigi Maria Sanguineti é autore di numerosi libri sia in materia giuridica che non giuridica. Tra i libri giuridici vanno ricordati “La Pratica civile” e “La pratica penale”, entrambi editi dall'Editore Giuffrè. Tra i libri non giuridici va ricordato “Critica ai valori della Costituzione”. Di prossima pubblicazione, “Advaita – Vedanta”. I libri non giuridici possono essere scaricati gratuitamente o acquistati visitando il sito: ww.praticadiritto.itIl presente libro fa parte di una trilogia, che comprende: “Diritto civile ragionato” “La procedura civile ragionata” “Diritto e procedura penali ragionati”. Tutti questi libri sono pubblicati dall'Editore Key.L'avvocato Luigi Maria Sanguineti é anche direttore di un sito on line (www.praticadiritto.it) destinato ai giovani avvocati e in particolare a chi fa pratica e deve prepararsi all'esame di avvocato.

L’Opera

Il libro “Diritto e procedura penali ragionati” mira ad agevolare la preparazione agli esami da avvocato. A tal fine l'Autore ha adottato la forma dialogata di esposizione e ha fatto attenzione ad esprimersi sempre in maniera chiarissima e servendosi di numerosi esempi. Contiene 53 “lezioni” e un formulario della procedura penale. Riporta, con un commento, numerosi “atti” tratti dalla viva pratica giudiziaria, perché l'Autore ritiene che ciò possa agevolare lo studioso nella memorizzazione e comprensione della materia. Il presente libro fa parte di una trilogia, che comprende: “Diritto civile ragionato” “La procedura civile ragionata” “Diritto e procedura penali ragionati”. Tutti questi libri sono pubblicati dall'Editore Key.

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PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

In questa seconda edizione ho provveduto all'aggiornamento della sola parte del libro dedicata alla procedura penale (avendo ritenuta la prima parte, dedicata al diritto penale, ancora valida senza bisogno di correzioni).Quanto alla parte dedicata alla procedura, non solo ho provveduto al suo aggiornamento, ma l'ho integrata con due altre “sezioni”, che mi sono parse utili sia a chi sta preparandosi all'esame di avvocato (facilitandogli la memorizzazione dei numerosi articoli del codice, mostrandogli la loro applicazione in varie situazioni processuali) sia a chi, superato già tale esame, ma lavorando in uno “studio” civilistico, desidererebbe avere un'idea più chiara, di quel che gli può dare la solita manualistica, su come si svolge nella pratica l'attività del penalista (per non trovarsi completamente impreparato e spaesato le volte, sia pure rarissime, in cui un cliente lo forzerà ad entrare in un'aula penale).Siccome la parte processualistica del libro é nata dalla aggiunta, al vecchio troncone (che costituiva la sua prima edizione), di alcune parti da me progettate per comporre un libro autonomo, il lettore troverà che alcune cose già dette in una parte del libro sono ridette ancora in un'altra sua parte (insomma nel libro vi é qualche pagina che costiuisce un inutile doppione): l'autore spera che ciò sarà da lui considerato un difetto veniale.E' ben possibile, che nello scrivere abbia commesso qualche errore (in fondo sono un “pratico”, non un professore di diritto) - questo specie nel “Formulario” la cui consultazione, pertanto, va sempre accompagnata da quella del codice. Naturalmnte sarò grato a chi mi segnalerà gli errori trovati, permettendomi così di eliminarli in una sperata, nuova edizione.

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Indice Generale

Parte Prima

Il diritto penale ragionato

Lezione 1 - La sanzione penale: suo scopo...............................................................Lezione 2 - I principi di: lesività, materialità, sussidiarietà, proporzionalità, personalità della responsabilità..................................................................................Lezione 3 - I principi di: irretroattività, di precisione, di tassatività, di legalità, di riserva di legge..........................................................................................................Lezione 4 - La successione delle leggi penali nel tempo...........................................Lezione 5 - L'obbligatorietà della legge penale – Le.c.d. “immunità” – Locus comissi delicti.............................................................................................................Lezione 6 - Concorso apparente di norme.................................................................Lezione 7 - Reati di pericolo......................................................................................Lezione 8 - Il delitto tentato........................................................................................Lezione 9 - Reato putativo – Delitto impossibile – Tentativo inidoneo – Desistenza.................................................................................................................Lezione 10 - Coscienza e volontà dell'atto. I c.d. atti automatici. Colpa per ignoranza e negligenza..............................................................................................Lezione 11 - Error iuris. Error facti...........................................................................Lezione 12 - Colpa. Nesso di causalità. Dolo..........................................................Lezione 13 - La reiterazione nel reato – Il reato continuato.....................................Lezione 14 - Incapacità di intendere e di volere......................................................Lezione 15 - Pena-base. Circostanze del reato: calcolo degli aumenti e diminuzioni...............................................................................................................Lezione 16 - Elemento soggettivo e circostanze del reato.......................................Lezione 17 - Il reato aberrante.................................................................................Lezione 18 - Il concorso nel reato............................................................................Lezione 19 - Stato di necessità. Primi cenni sulla “legittima difesa”........................

Parte Seconda

La procedura penale ragionata

Sezione Prima

Le lezioni

Lezione 1 - L'iter di un procedimento penale a....volo d'uccello...............................Lezione 2 - Il concetto di prova – La prova “al di là di ogni ragionevole dubbio” - Prova di efficacia diversa secondo i diversi fatti da provare....................................Lezione 3 - Scienza privata, regole di esperienza, fatto notorio, prova legale.........Lezione 4 - Terminologia sulla prova.......................................................................

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Lezione 5 - Affidabilità della prova e diverse modalità di escussione della relativa fonte............................................................................................................Lezione 6 - L’esame incrociato dei testi e delle parti...............................................Lezione 7 - Le contestazioni – La “verginità” della prova.........................................Lezione 8 - Le eccezioni all’esame incrociato..........................................................Lezione 9 - Patteggiamento sulla prova – I cosiddetti “atti irripetibili”......................Lezione 10 - Interessi prevalenti su quello all’accertamento della verità – Diritto al silenzio dell’imputato............................................................................................Lezione 11 - Nullità assolute, nullità intermedie, nullità relative. Inutilizzabilità (di una prova)................................................................................................................Lezione 12 - La notificazione...................................................................................Lezione 13 - Giurisdizione - Questioni pregiudiziali – Competenza per materia – Competenza per territorio........................................................................................Lezione 14 - Riunione e separazione dei processi –Competenza per connessione – Provvedimenti sulla giurisdizione e sulla competenza – Conflitti di giurisdizione e di competenza..............................................................................Lezione 15 - Parte offesa - Parte civile....................................................................Lezione 16 - Garanzie e diritti dell’indagato e dell’imputato.....................................Lezione 17 - Diritto della persona accusata di essere informata della natura e dei motivi dell’accusa...............................................................................................Lezione 18 - Atti relativi alla notizia di reato e alla sua iscrizione nel registro di cui all’art.335............................................................................................................Lezione 19 - Atti di indagine della Polizia Giudiziaria...............................................Lezione 20 - Convalida dell’arresto – Misure cautelari – Tribunale del riesame......Lezione 21 - Le scelte del P.M. al termine delle sue indagini..................................Lezione 22 - l’Udienza preliminare...........................................................................Lezione 23 - Gli atti preliminari al dibattimento........................................................Lezione 24 - Il giudizio abbreviato...........................................................................Lezione 25 - Applicazione pena su richiesta (art. 444)............................................Lezione 26 - Le disposizioni generali sulle impugnazioni: premessa.......................Lezione 27 - Sempre sulle disposizioni generali relative alle impugnazioni: il principio di tassatività...............................................................................................Lezione 28 - Sempre sulle disposizioni generali relative alle impugnazione: Le parti legittimate ad impugnare – L’interesse ad impugnare.....................................Lezione 29 - Il principio Tantum devolutum quantum appellatum e le sue eccezioni (effetto estensivo….)................................................................................Lezione 30 - Le deroghe al principio tantum devolutum quantum appellatum contenute nell’art. 597 sulla cognizione del giudice d’appello..................................Lezione 31 - La impugnazione della sentenza agli effetti civili.................................Lezione 32 - Il divieto di reformatio in peius. L’appello incidentale..........................

Sezione Seconda

Atti e documenti dal “vivo”

Doc. A: esposto penale ...........................................................................................467

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Doc. A2: contin. esposto penale .............................................................................468Doc. A3: contin. esposto penale .............................................................................469Doc. D: richiesta proroga termine indagini prel. ......................................................472Doc. E: concessione proroga termine .....................................................................473Doc. M: rapporto P.G. .............................................................................................474Doc. N: verbale sommarie informazioni ..................................................................475Doc. O: verbale identificazione e perquisizione ......................................................476Doc. P: verbale sequestro .......................................................................................477Doc. Q: convalida perquisizione e sequestro ..........................................................478Doc. R: verbale di arresto .......................................................................................479Doc. S: verbale comunicazion e nominativo difensore ...........................................480Doc. T: verbale avviso diritto nomina difensore ......................................................481Doc. AC1: richiesta convalida arresto .....................................................................482Doc.AC2: contin. richiesta convalida arresto...........................................................483Doc. AD1: verbale udienza convalida .....................................................................484Doc. AD2: contin. verbale udienza convalida ..........................................................485Doc.AD3: cont. verbale udienza convalida .............................................................486Doc. AD4: contn. verbale udienza convalida ..........................................................487Doc.AD5: contin. verbale ud. convalida ..................................................................488Doc. AD6: contin. verbale .......................................................................................489Doc.AE1: ordinanza sostituzione misura cautelare .................................................490Doc. AE2: contin. ordinanza sostituzione misura cautelare ....................................491Doc.AF1: ordinanza tribunale riesame ....................................................................492Doc. AF2: contin. ordinanza tribunale riesame .......................................................493Doc. V1: richiesta archiviazione ..............................................................................494Doc. V2: contin. richiesta archiviazione 495

Sezione Terza

Formulario della procedura penale

I. Atto di querela.......................................................................................................II. Rimessione di querela.........................................................................................III. Ricorso immediato al Giudice di Pace................................................................IV. Costituzione di parte civile..................................................................................V. Richiesta di esclusione della parte civile.............................................................VI. Citazione del responsabile civile........................................................................VII. Nomina a difensore dell’imputato......................................................................VIII. Non accettazione – Rinuncia – Revoca dell'incarico difensivo – Richiesta di esonero da una nomina d'ufficio..............................................................................IX. Nomina a sostituto..............................................................................................X. Nomina di difensore alla parte offesa e alla parte civile......................................XI. Indagini difensive................................................................................................XII. 1) Richiesta di riesame ex art. 309 c.p.p. 2) Istanza di revoca di misura coercitiva..................................................................................................................XIII. Appello al Tribunale del riesame......................................................................

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XIV. Richiesta di applicazione pena ai sensi dell’art. 444 C.P.P. (c.d. “patteggiamento)......................................................................................................XV. Giudizio abbreviato...........................................................................................XVI. Messa alla prova..............................................................................................XVII. Lista testimoniale e atto di citazione di teste...................................................XVIII. Atto di impugnazione......................................................................................XIX. Impugnazione della parte civile........................................................................XX. Affidamento ordinario (art. 47 l. 354/75)............................................................XXI. Semilibertà.......................................................................................................XXII. Detenzione domiciliare....................................................................................XXIII. Misure alternative a favore dei tossicodipendenti e alcooldipendenti............XXIV. Oblazione......................................................................................................XXV. Riabilitazione ordinaria...................................................................................

Sezione Quarta

La difesa davanti al tribunale

1. L'attività propedeutica alla difesa in udienza........................................................2. Premessa ai successivi paragrafi........................................................................3. Controllo della regolare costituzione delle parti...................................................4. Richiesta prove – Istruttoria dibattimentale..........................................................5. Domanda di oblazione – Remissione di querela..................................................

Sezione Quinta

Esperienze professionali

1. In difesa di MU.....................................................................................................2. In difesa di Be......................................................................................................3. In difesa di Sai.....................................................................................................4. In difesa di Sai (al dibattimento)...........................................................................5. Sempre in difesa di Sai al dibattimento (ma in un secondo procedimento).........6. In difesa di Bouca................................................................................................

Sezione Sesta

Alcuni atti ex vivo riportati con un commento (telegrafico)

Doc. XXVIII, XXIX, XXX: avviso conclusione indagini preliminari............................641Doc. XXXI, XXXII,XXXIII,XXXIV: citazione diretta a giudizio ..................................644Doc.- XXXV, XXXVI, XXXVII, XXXVIII: decreto di giudizio immediato ....................648Doc. XXXIX, XXXX, XXXXI: decreto di citazione davanti al giudice di pace ...........652Doc. XXXXII,XXXXIII: dispositivo sentenza ............................................................655Doc. XXXXIV, XXXXV, XXXXVI,XXXXVII: sentenza tribunale ................................657

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PARTE PRIMA

IL DIRITTO PENALE RAGIONATO

Lezione 1 - La sanzione penale: suo scopo

Discente: In che consiste la sanzione penale?

Docente: In teoria può consistere in qualsiasi sofferenza che l'uomo può arrecare al suo simile (privazione della vita, mutilazione, fustigazione, perdita della libertà, sottrrazione di un bene materiale, in particolare di una somma di denaro...).

Discente: Questo in teoria, ma per la nostra Costiuzione?

Docente: La nostra Costituzione non indica i tipi di sanzione penali applicabili, si limita a prescrivere, nel comma 3 dell'art. 27, che “non é ammessa la pena di morte”; nel comma 2 sempre dell'art.27 che: 1) “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”; 2) le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Discente: E il nostro Legislatore ordinario che dice al proposito, indica quali sono le sanzioni penali?

Docente: Naturalmente, e lo fa negli articoli 17 e segg. del Codice Penale e negli artt. 52 e segg. D. Lgs 28 agosto 2000 n. 274 (Decreto questo che definisce le competenze penali del Giudice di Pace). E non può non farlo, dato che proprio con riferimento alla natura della sanzione applicabile, se cioé si tratti di sanzione penale o no, vanno risolte tutta una serie di questioni molto importanti.

Discente: Questioni di che tipo, indicamene alcune.

Docente: Prima di tutto la questione se un fatto é reato o no: un fatto é reato se é punito con sanzione penale, non é reato, se é punito con altro tipo di sanzione (metti una sanzione amministrativa); poi, la questione se una norma é penale o no: norma penale é quella che rileva ai fini di decidere sull'applicabilità di una sanzione penale.

Discente: E perché rileva stabilire se un fatto é reato o no?

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Docente: A sua volta per risolvere tutta una serie di questioni: ad esempio, la questione se alla sua punizione si applichino quei principi di livello costituzionale che presto passeremo a studiare; ancora ad esempio, la questione se il suo accertamento deve farsi seguendo le norme del codice di procedura penale o di quelle di procedura civile.

Discente: Ed ora dimmi: perché é importante stabilire se una norma é penale o no?

Docente: Ad esempio, perché se é penale non può essere retroattiva, mentre se non lo é, può esserlo (almeno può esserlo senza diventare per questo incostituzionale); ancora, perché se é penale non può essere interpretata analogicamente, se non lo é, invece può esserlo.

Discente: Va bene, ora so perché é importante stabilire se una sanzione è penale, o no; però non so ancora quali sono le sanzioni penali.

Docente: Lo saprai a suo tempo. Per comprendere i discorsi che veniamo a fare ti basterà conoscere quali sono le pene che il legislatore chiama “principali”– in opposizione a quelle “accessorie” (come, l'interdizione dai pubblici uffici, la decadenza dalla potestà genitoriale, l'interdizione legale...).

Discente: Ebbene quali sono queste pene principali?

Docente: Esse sono, per quel che riguarda i reati di competenza del Giudice di Pace (artt.52 e segg. D. L.vo 28 agosto 2000 n. 274): la multa, la ammenda, l'obbligo di permanenza domiciliare, il lavoro di pubblica utilità; per quel che riguarda tutti gli altri reati: 1) l'ergastolo; 2) la reclusione; 3) la multa; 4) l'arresto; 5) l'ammenda.Ergastolo, reclusione e multa si applicano ai delitti; arresto e ammenda, alle contravvenzioni. O per meglio dire: i fatti puniti con l'ergastolo, la reclusione, la multa vanno considerati come “delitti” e i fatti puniti con l'arresto e l'ammenda, come “contravvenzioni”. Infatti la distinzione tra “delitti” e “contravvenzioni” - che in mente legislatoris si basa evidentemente sull'importanza del bene leso dal reato - va operata dall'inteprete col solo criterio della sanzione applicata a questo; giusta il dettato dell'articolo 39, che recita: “I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice”.

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Discente: Ma é importante questa distinzione?

Docente: Sì, é importante a vari effetti (elemento soggettivo del reato, aumento per la recidiva, applicabilità della c.d. “sospensione condizionale della pena”....) che a tempo debito studieremo.

Discente: Tutte le sanzioni penali da te citate hanno una caratterisca che le accumuna?

Docente: Sì, quella di consistere nella privazione della libertà; almeno in potenza, nel senso cioé che, se una sanzione non privativa in se stessa della libertà, come l'ammenda o la multa, non viene soddisfatta per insolvibilità del condannato, essa si converte in una sanzione privativa della libertà (più precisamente, in prima battuta si converte nella misura della libertà provvisoria, e, se le perscrizioni relative a tale misura non sono osservate, in reclusione o arresto – vedi meglio, gli artt. 136 C.P., 660 C.P.P., 102 e 108 L. n.689 del 1981).

Discente: Ma perché, a quale scopo il Legislatore applica una sanzione così grave come quella che priva una persona di uno dei beni considerati più preziosi nella nostra società, la libertà?

Docente: Cercherò di rispondere a questa tua domanda. Ma prima di cercare di individuare lo scopo per cui il nostro Legislatore commina la sanzione penale, é opportuno vedere quali possono essere gli scopi, che un Legislatore può proporsi comminando la sanzione.

Discente: Ebbene quali possono essere questi scopi?

Docente: Essi, secondo gli Studiosi della funzione della pena, sono essenzialmente due: uno scopo puramente retributivo, cioé di pura e semplice riaffermazione della giustizia offesa (in tal caso, si dice, la pena é comminata quia peccatum est) e uno scopo preventivo, di impedire cioè la commissione di altri reati (la pena viene comminata ne peccetur).Ovviamente nulla impedisce che uno stesso legislatore, alcune volte, commini la sanzione solo a scopo retributivo, altre volte, solo a scopo preventivo e, altre volte ancora, lasciandosi condizionare dai due scopi contemporaneamente.

Discente: Parliamo dei casi in cui la pena viene comminata a solo scopo retributivo: quali sono i meccanismi psicologici che possono indurre chi detiene il potere a comminare una sanzione senz'altro scopo che quello di ristabilire la

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giustizia?

Docente: Sono quegli stessi meccanismi che portano ciascuno di noi, quando subisce un'offesa ingiusta, a “vendicarsi”: Fulano mi ha offeso (metti, mi ha ingiuriato) e io sto “soffrendo” (lo dimostra il pallore del mio viso, il tremolio delle mie mani, tutte quelle modificazioni che, più o meno evidenti, si producono in chi “soffre” un'offesa); io potrei rinunciare a vendicarmi, ma quel sentimento di vendetta, che io non scarico sull'offensore, si ritorcerebbe su di me, rimarrebbe in me come un tarlo a rodere il mio animo; quindi reagisco all'offesa, mi vendico: come? compiendo qualche azione (metti, dare uno schiaffo, replicare l'ingiuria...) che determini una mutatio animi nel mio offensore (ecco là Fulano, prima aveva il sorriso soddisfatto sulle labbra, ora gli ho trasformato questo sorriso in una smorfia di dolore): questa mia azione, la sanzione che io applico al mio offensore, ha per me un effetto liberatorio, catartico, che esprimo dicendo “ho fatto giustizia”.Lo spirito che sottende all'applicazione di una pena a solo scopo retributivo é bene espresso da Kant; il grande Filosofo dice: “anche se una società civile, con tutti i suoi membri, decidesse di sciogliersi (ad es., il popolo che vive in un'isola decidesse di separarsi e di disperdersi per tutto il mondo), bisognerebbe prima giustiziare l'ultimo assassino che si trovasse in un carcere, perché ciascuno soffra ciò che meritano i suoi comportamenti, e perché non pesi la colpa del sangue sopra il popolo che ha rinunciato a punirlo” (naturalmente la sottolineatura é mia).Merita di essere evidenziato che le teorie che valorizzano la funzione puramente retributiva della pena, vengono dette – in contrapposizione alle “teorie relative” rappresentate da chi attribuisce alla pena uno scopo preventivo - “teorie assolute”. E questo in quanto si ritengono “svincolate - stiamo riportando le parole di due illustri penalisti, il Marinucci e il Dolcini – dalla considerazione di un qualsivoglia fine da raggiungere”. E invero la comminazione della sanzione per uno scopo meramente retributivo non può non apparire un vero “non-senso”, una cosa senza scopo per chi ha una mentalità “laica” - e ciò dovremo tenere ben presente quando cercheremo di individuare lo scopo che le nostre leggi attribuiscono alla sanzione, dato che senza dubbio i nostri conditores legum, una mentalità laica, posseggono.Prima di chiudere sulle “teorie assolute” e parlare di quelle “relative” va chiarito che a rigore non possono farsi rientrare nelle prime, le teorie di coloro che attribuiscono alla pena la funzione di pungolo sul reo a che modifichi quelle sue idee e condotte di vita che possono portarlo a delinquere (tali, se abbiamo ben compreso, erano le idee che ispiravano giuristi nazionalsocialisti, come il Welzel e il Mezger, che sostenevano una Taterschuld, una “colpa d'autore”, una “colpa per il modo di essere dell'agente” che lo Stato poteva e doveva sanzionare penalmente): infatti anche tali teorie in definitiva attribuiscono pur sempre alla pena uno scopo di prevenzione (sia pure di prevenzione tramite la modifica del carattere del

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potenziale reo e non tramite la creazione di una controspinta al compimento di una specifica azione delittuosa – che, invece, come vedremo subito, é il sistema con cui va operata la prevenzione secondo il nostro Legislatore costituzionale).

Discente: Hai detto dello scopo retributivo, dì ora del secondo scopo che si può assegnare alla pena, lo scopo preventivo.

Docente: Sì, un legislatore può utilizzare la sanzione anche allo scopo di prevenire la lesione di certi beni (da lui ritenuti meritevoli di tutela). In un tal caso la utilizzazione della sanzione assume forme diverse a seconda che si tratti di “prevenzione generale” cioé volta ad agire sulla generalità dei sudditi (al fine di impedire che offendano i beni ecc.ecc.) o di “prevenzione speciale”, cioé volta ad agire su chi ha già violata la legge penale (al fine di impedire che torni a violarla).

Discente: Quali forme assume la utilizzazione della sanzione nella “prevenzione generale”?

Docente: Essenzialmente una sola, la minaccia della sanzione stessa; che però, almeno in teoria, può tendere a realizzare due diversi scopi (propedeutici rispetto a quello della salvaguardia di certi beni, che rimane lo scopo finale):A- La intimidazione, cioé la creazione di una controspinta psicologica alla commissione dell'azione lesiva (Fulano spinto dall'ira vorrebbe percuotere Caio, ma la minaccia della pena agisce su di lui come una controspinta).B- L'orientamento culturale: la minaccia di una sanzione penale all'azione lesiva di un dato bene, implicitamente esalta il valore di questo (“Se l'azione che lede il bene A é punita così severamente, significa che A é un bene di grande valore”). Tale (implicita) dignificazione del bene (tutelato) orienta la generalità dei sudditi a portargli rispetto (e con ciò stesso diminuisce le spinte psicologiche alla sua lesione).In teoria la minaccia della pena potrebbe perseguire isolatamente i due scopi, ma é ben difficile immaginare che un legislatore si proponga con la minaccia della pena di realizzare lo scopo B senza proporsi anche di realizzare lo scopo A; di conseguenza noi nel prosieguo della trattazione – considerando lo scopo di orientamento culturale come inevitabilmente connesso e secondario rispetto allo scopo dell'intimidazione- non lo prenderemo più in considerazione.

Discente: Devi dire ora delle forme che può assumere la utilizzazione della sanzione nella prevenzione speciale.

Docente: Esse sono essenzialmente due:

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I- L'esecuzione della pena in sé e per sè, che a sua volta può mirare a due diversi scopi:IA – il rafforzamento dell'efficacia intimidatrice della pena conseguente, sia alla stessa applicazione della minaccia legislativa, ciò che ne dimostra la serietà e la temibilità (“Il legislatore non solo minaccia ma é in grado di attuare le sue minacce: quindi queste non sono per nulla il classico telum imbelle sine ictu che io,reo, pensavo”) sia alla sofferenza che l'applicazione della pena provoca nel reo (“La vita in carcere non é per nulla bella, la prossima volta mi guarderò bene dal violare la legge penale”);IB- la neutralizzazione del reo: questi fin che é sotto chiave ben difficilmente violerà la legge penale.II- l'esecuzione della pena come occasione per svolgere un'opera di rieducazione sociale del reo: questi infatti durante lo stato di detenzione, non solo é più facilmente avvicinabile dagli educatori sociali, ma (dato il tempo che gli avanza!) anche più disponibile al colloquio con loro.

Discente: Abbiamo visto quali sono i diversi scopi, che un legislatore può assegnare alla pena, ora dobbiamo vedere quale scopo le assegna il nostro Legislatore costituzionale.

Docente: Lo scopo che il nostro Legislatore costituzionale assegna alla pena é quello di prevenire la lesione di certi beni.

Discente: Perché escludi che il nostro legislatore costituzionale assegni alla pena uno scopo meramente retributivo (l'azione é punita solo quia peccatum est)?

Docente: Perché ciò contrasterebbe con il “principio di lesività” e con il “principio di materialità” che approfondiremo nella prossima lezione.

Discente: Prima abbiamo visto che lo scopo di prevenzione può essere realizzato in varie forme: minacciando la pena, eseguendola al fine di un rafforzamento dell'efficacia intimidatrice della minaccia legislativa, eseguendola al fine di una neutralizzazione del reo, eseguendola al fine di creare un'occasione per una sua rieducazione: tutte queste forme (di realizzazione dello scopo di prevenzione) possono essere, secondo il nostro Legislatore costituzionale, adottate?

Docente: Certamente, sì. Però con un distinguo per quel che riguarda le ultime due da te menzionate. Certamente il tempo in cui il reo é detenuto in espiazione della pena (idest, ai fini di ribadire e rafforzare in lui l'efficacia intimidatrice della minaccia della pena) può essere anche utilmente impiegato per una sua rieducazione sociale

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(mediante colloqui con educatori ad hoc ecc.) e per neutralizzare eventuali sue iniziative criminali (mediante la censura della corrispondenza, forme di isolamento...); però esauritosi il tempo dell'espiazione, il reo non può essere mantenuto in detenzione al fine di continuare l'opera di rieducazione o di neutralizzazione. Ciò contrasterebbe col principio di “materialità” di cui nella prossima lezione parleremo.

Discente: Per concludere, che possiamo dire?

Docente: Possiamo dire che secondo la nostra Costituzione la pena può essere utilizzata come minaccia per prevenire la lesione di determinati beni e può essere applicata solo al fine di rafforzare tale minaccia (anche se la sua applicazione può essere occasione per una neutralizzazione e rieducazione del reo).

Discente: E' utile l'individuazione dello scopo che il Legislatore assegna alla pena?

Docente: Sì perché, come vedremo, proprio lo scopo assegnato alla pena é la chiave necessaria per la comprensione di non pochi istituti del diritto penale.

Lezione 2 - I principi di: lesività, materialità, sussidiarietà, proporzionalità, personalità della responsabilità

Discente: Cominciamo a parlare del principio di lesività.

Docente: Il principio di lesività vuole che siano punite solo le azioni (naturalmente in tale concettto essendo ricomprese le omissioni) che ledono o pongono in pericolo un bene.Abbiamo già detto che questo principio si ricava dal terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione, il quale vieta le pene che consistono “in trattamenti contrari al senso di umanità”. Siccome “contrarie al senso di umanità” vanno considerate anche le pene date senza scopo e siccome per una mentalità laica una pena comminata a solo fine retributivo va ritenuta senza scopo, dalla citata disposizione della Costituzione deve dedursi che una pena non può avere scopo retributivo, ma deve prevenire la lesione di un bene – il che é solo un modo diverso di dire che vanno punite solo le azioni che ledono o pongono in pericolo un bene.

Discente: E così sia; ma se così é, io che conduco un'auto avendo una perfetta conoscenza del codice stradale e una perfetta padronanza della guida, non dovrei essere punito, solo perché ho omesso come un'inutile formalità di sottopormi

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all'esame di guida e di conseguire la relativa patente: che pericolo infatti faccio correre all'incolumità delle persone?

Docente: No, invece andresti punito, ma non perché ponendoti alla guida hai creato un pericolo per l'incolumità delle persone, ma perché sottraendoti all'esame di guida hai fatto sorgere il pericolo che una persona deficiente delle necessarie cognizioni e perizie si mettesse alla guida di un'auto creando pericolo per le persone (c.d. ipotesi di pericolo presunto).

Discente: Poniamo un altro caso: metti che io faccia un falso, ma tanto grossolano da escludere che possa trarre in inganno qualcuno, in un tal caso, in cui io evidentemente non ledo e neanche pongo in pericolo il bene tutelato dal legislatore, la fede pubblica, non dovrei essere assolto in applicazione del principio di lesività?

Docente: No, - forse dovresti essere assolto in applicazione della norma (non di livello costituzionale) che esclude la punibilità di un'azione, allorché sia inidonea a ledere il bene tutelato dalla legge penale (come vedremo meglio studiando l'articolo 49 e la figura del “delitto impossibile”), ma la tua condanna non potrebbe certamente dirsi contrastante col principio (di livello costituzionale) di cui stiamo parlando, col principio di lesività. Se vogliamo porre ancora con più chiarezza il problema da te proposto, mettiamoci nel caso di una norma, che così disponga: “Ogni azione prevista come reato va punita, anche se nel caso concreto risulti inidonea a ledere il bene tutelato dalla legge penale”. Ebbene, anche una tale norma non potrebbe dirsi confliggente col principio di lesività.

Discente: Eppure, chiaramente tale norma non punisce un'azione che lede un bene, ma solo la tendenza criminale a ledere il bene.

Docente: Certo, ma ciò non toglie che la punisca al fine di tutelare un bene; e tanto basta per escludere che contrasti col principio di lesività. Questione diversa é se possa dirsi contrastante col principio di materialità, ma questo lo vedremo quando studieremo questo principio.

Discente: La Corte Costituzionale ha mai affrontato il problema che io ti ho proposto.

Docente: Sì lo ha affrontato in due sue Sentenze – la Sent. 24.7.1995 n.360 e la Sent. 11.7.2000 n. 263.

Discente: E come lo ha risolto?

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Docente: Distinguendo tra offensività in concreto e offensività in astratto. Per la Corte, in buona sostanza, il decidere se vi é un'offensività in concreto dell'azione (commessa dall'imputato), e quindi se va, o no, applicato quell'articolo 49 di cui ti ho già parlato, spetta solo al giudice ordinario; alla competenza della Corte spetta solo il decidere se vi é un'offensività in astratto, se cioé una norma contrasta col principio di lesività. Principio di cui peraltro la Corte dà un'interpretazione molto diversa da quella che sostengo io; infatti un vulnus a tale principio verrebbe fatto, secondo la Corte, se ben ne ho afferrato il pensiero – non tanto e non solo da una norma che punisse un'azione non lesiva di nessun bene, ma - anche da una norma che sanzionasse penalmente un'azione, sì, lesiva di un bene, ma di un bene non tutelato dalla Costituzione.

Discente: E come giustifica la Corte questa che mi sembra un'estensione del principio di lesività?

Docente: La giustifica richiamandosi al “principio di ragionevolezza” - principio che secondo la Corte é immanente in tutta la Costituzione. A noi sembra invece che la soluzione della Corte, se mai fosse giustificabile, dovrebbe giustificarsi col “principio di proporzionalità “o col “principio di sussidiarietà” (di cui verremo subito a parlare).

Discente: Tu ovviamente dissenti dall'estensione del principio di lesività operata dalla Corte.

Docente: Ne dissento se non altro perché - una volta ammesso, come non si può non ammettere, che tra i beni tutelati dalla Costituzione vanno fatti rientrare, non solo quelli che ne godono una tutela diretta ed esplicita (come la libertà, la proprietà...) ma anche quelli (come la fede pubblica...) che ne hanno una tutela implicita e indiretta –,aderendo alla soluzione della Corte, si verrebbe a gravare l'interprete del problema non facile e che soprattutto invoglia ogni forzatura, di quando un bene va considerato indirettamente tutelato dalla Costituzione, e quando, no. Debbo riconoscere però che tale inconveniente potrebbe essere superato dalla saggezza della Corte.Debbo anche riconoscere che aderendo alla concezione, diciamo così, ristretta, del principio di lesività, in ben pochi casi la Corte Costituzionale avrebbe modo di rilevare, di tale principio, la violazione, dato che è ben difficile immaginare una norma, che punisca solo a scopo retributivo - (per cui se la Corte vuole avere...qualcosa da mordere, deve per forza ravvisare una violazione del principio di lesività, non solo quando una norma, rarissima avis, punisce una qualità o un

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modo di essere, ma anche quando punisce un'azione che lede un bene, che non merita tutela penale).

Discente: Ed ora finalmente parliamo del “principio di materialità”.

Docente: Per il principio di materialità una persona non può essere punita per le sue tendenze antisociali (come vorrebbero i seguaci di quella teoria della “colpa di autore”, a cui abbiamo già accennato nella precedente lezione) - il che è come dire per la sua non-adesione ai valori affermati nelle norme dell'Ordinamento giuridico -, ma solo quando tali tendenze materializzandosi, per così dire, in un'azione, rivelano la insensibilità dell'agente all'efficacia intimidatrice della minaccia della sanzione.

Discente: Da che si deduce che una persona non può essere punita solo per le sue tendenze antisociali?

Docente: Da varie norme contenute nella nostra Costituzione – norme da cui si evince che la modificazione delle tendenze e delle idee di una persona non può essere ottenuta con mezzi coattivi.

Discente: Citami alcune di tali norme.

Docente: Ti posso citare ex multis: il comma 2 art. 3, là dove vede ogni limite alla libertà, come un “impedimento” al “pieno sviluppo della persona umana”; l'articolo 19, che tutela la libertà nella professione di fede; l'articolo 21 co.1, che tutela la libera manifestazione del pensiero.

Discente: Però, da quel che ho capito, non contrasterebbe, secondo te, con la Costituzione la punizione di chi disattende, sì, il divieto posto dalla norma penale, ma con un comportamento del tutto inidoneo a ledere il bene, dalla norma tutelato (ad esempio, fa, sì, un falso, in spregio all'articolo 476, ma un falso talmente grosolano da non ingannare nessuno).

Docente: Sì, infatti io ritengo che il messaggio che parte dalla nostra Costituzione si possa così esprimere: “Tu, che detieni il potere, non puoi aggredire con la sanzione penale chi, pur non aderendo ai valori espressi nelle norme da te emanate, dimostra di rispettarli, sia pure per solo timore della sanzione penale; però quando egli, tenendo un comportamento in spregio alla norma, dimostra di essere insensibile alla intimidazione insita nella minaccia della pena, allora, sì, tu puoi intervenire per rinforzare ed elevare il livello (dimostratosi insufficiente) di tale intimidazione, mediante la esecuzione della pena (così come abbiamo cercato di

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spiegare parlando, nella prima delle nostre lezioni, della “prevenzione speciale”).

Discente: La cosa a dir il vero mi sembra piuttosto logica: non si può pensare che il legislatore neghi a quello ordinario il potere di attuare la “prevenzione speciale”, una volta che é fallita la “prevenzione generale”: una volta che tu, legislatore costituzionale, permetti a me, legislatore ordinario, di intimidire con la minaccia di una pena Fulano per impedirgli di attentare ai valori tutelati dalle mie norme, non puoi non permettermi di alzare il livello di tale intimidazione, qualora esso si sia dimostrato insufficiente a trattenere Fulano di attentare a quei valori.Parlando della “prevenzione speciale”, tu, però, avevi detto che violerebbe il principio di materialità, trattenere in carcere Fulano, una volta che avesse espiata la pena per cui fosse stato condannato, solo perché risultassero ancora presenti in lui tendenze antisociali.

Docente: E ciò é logico: una volta che é stata eseguita contro Fulano la pena, la cui espiazione é stata ritenuta (dal giudice che l'ha comminata) sufficiente a ristabilire l'efficacia intimidatoria della minaccia legislativa, si deve ritenere che Fulano, lasciato libero, rispetterà i valori contenuti nelle norme, anche se non li condivide, appunto per timore della sanzione; e tanto deve bastare: trattenerlo in carcere – cioé continuare a sottoporlo a una coazione - al fine di rieducarlo contrasterebbe, per quanto prima detto, col “principio di materialità”.

Discente: Tutto ciò é giustissimo. Però chi ha comminato la pena può avere calcolato male, e questa può risultare insufficiente a elevare il livello di quella minaccia (che aveva prima fallito nella sua funzione intimidatrice), con la conseguenza che Fulano, lasciato libero, ritornerà a delinquere.

Docente: Questo é un rischio che si deve correre: il detenuto a un certo momento va, diciamo così, messo alla prova della libertà: se tornerà a delinquere si aumenterà la dose.

Discente: Può anche succedere, che il giudice, che ha comminata la pena, si sia sbagliato in eccesso: ha dato quattro anni, mentre, dopo già due anni di espiazione, il reo dà segni sicuri di “ravvedimento”: non sarebbe contro il principio di materialità trattenere in carcere una persona che, lasciata libera, così si può pronosticare, non attenterebbe a nessuno dei beni nelle norme tutelati?

Docente: Certamente lo sarebbe; e il nostro Legislatore ne é consapevole, tanto é vero che con vari istituti (in primis, con quello della liberazione condizionale) prevede la liberazione di chi ha dimostrato di non essere più pericoloso

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socialmente, anche se non ha espiata interamente la pena comminatagli. Di ciò ci riserviamo di dire più diffusamente a tempo debito.

Discente: Parliamo dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità.

Docente: La nostra Costituzione considera, com'é noto, quello della libertà, come uno dei più importanti beni della persona umana: l'articolo 13, nel suo primo comma, enfatizza: “La libertà personale é inviolabile”. La sanzione penale, invece, implica, almeno in potenza, il sacrificio di tale bene.

Discente: Quindi – lascia che completi il tuo pensiero - siccome la logica vuole che un bene superiore non venga sacrificato per salvare un bene inferiore, la sanzione penale, in quanto implicante il sacrificio della libertà in chi ne é colpito, non dovrebbe prevedersi a tutela di beni che, come la proprietà, l'economia, la fede pubblica, a quello della libertà sono inferiori.

Docente: No, non é propriamente così. Certo, così sembrerebbe volere la logica; tuttavia, vi é da considerare che, da una parte, vi sono beni, la cui mancata tutela determinerebbe il crollo di tutta la impalcatura sociale - e quindi anche il crollo di ogni tutela al bene della libertà !- ancorché di questo bene siano senza dubbio inferiori (e certe volte tanto inferiori da non essere neanche menzionati nella nostra Carta fondamentale), e, dall'altra parte, l'unica tutela efficace di tali beni (inferiori) si rivela in molti casi proprio la sanzione penale.Questa considerazione porta ad ammettere l'uso della sanzione penale a tutela anche di tali beni, però la innaturalezza del fatto, che un bene inferiore venga tutelato col sacrificio di un bene superiore, porta ad ammettere ciò solo in via sussidiaria, solo quando cioè ogni altro mezzo di tutela (diverso dalla sanzione penale) rivelerebbe la sua inefficacia. E con questo ti ho detto il contenuto del principio di sussidiarietà.Il “prinicpio di proporzionalità” ha un contenuto più generale di quello di sussidiarietà e precisamente vuole, come suggerisce la sua stessa denominazione, che vi sia una giusta proporzione tra il quantum di danno che ha arrecato il reato e il quantum di sofferenza che l'applicazione della pena al reo arreca.

Discente: I principi di sussidiarietà e proporzionalità pongono il problema di se e fino a che punto il legislatore può tutelare penalmente un bene; però esiste anche il problema contrario: il problema, cioè, se il legislatore possa esimersi dal tutelare penalmente un bene, e in particolare un bene costituzionalmente protetto.

Docente: Se tu mi domandi se può esistere un obbligo politico del legislatore ad

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attivarsi per la tutela di un bene, io ti rispondo che, sì, ci può essere, ma che.......non riguarda noi giuristi; se invece tu mi domandi, se noi giuristi possiamo provocare un intervento della Corte Costituzionale, che supplisca all'inerzia del legislatore, io ti rispondo (negativamente) con le stesse parole usate dalla Corte in una Sua sentenza, (la Sent.27 ottobre 1998 n. 447):“Discende da ciò – ecco le parole della Corte - secondo quanto costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte, sentenze n. 226 del 1983, n. 49 del 1985, n. 411 del 1995; ordinanze n. 228 del 1996, n. 355 del 1997) che l'eventuale addebito al legislatore di avere omesso di sanzionare penalmente determinate condotte, in ipotesi socialmente riprovevoli o dannose, o anche illecite sotto altro profilo, ovvero di avere troppo restrittivamente definito le fattispecie incriminatrici, lasciandone fuori condotte siffatte, non può, in linea di principio, tradursi inn una censura di legittimità costituzionale della legge, e tanto meno in una richiesta di “addizione” alla medesima mediante una pronuncia di questa Corte”.

Discente: Parliamo ora del “principio di personalità della responsabilità”.

Docente: Tale principio si deduce dal primo comma dell'articolo 27 della Costituzione, che recita. “La responsabilità penale é personale”.Il legislatore costituzionale non é certo indotto, a escludere una responsabilità penale per fatto altrui, dalla considerazione dell'inefficacia intimidatrice di una sanzione, che colpisca persona diversa da quella che si vuole vincolare ad un dato comportamento – al contrario egli ben sa, che una persona può risentire, della minaccia di un male fatto a un terzo, più della minaccia di un male fatta a lui stesso (quante volte persone, che ostinatamente si erano rifiutate di fare una qualche cosa, nonostante le gravi minacce ad esse rivolte, hanno ceduto e hanno accondisceso a fare quel che da loro si voleva, di fronte alla minaccia di una male rivolto verso una persona a cui da affetto erano legate, la moglie, i figli, l'amante...). Se il legislatore costituzionale quindi accetta il vulnus alla difesa sociale, insito nel rifiuto di una responsabilità penale per fatto altrui, é solo perché ritiene inammissibile (per rispettabilissime ragioni morali) che una persona subisca le conseguenze penali di un comportamento che non dipendeva dalla sua volontà porre in essere.Stando così le cose, si comprende come sia stato facile e quasi naturale dedurre dal principio di “personalità” un “principio di colpevolezza”- un principio cioé che venga ad escludere che una persona possa essere chiamata a rispondere per un comportamento proprio, sì, ma che non dipendeva dalla sua volontà;o anche (ma qui vien fatta forse una forzatura nell'estensione analogica del principio di

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personalità) dipendeva,sì, dalla sua volontà, ma che essa ha posto in essere senza colpa o dolo (non é forse equiparabile la situazione di chi non fa perchè ha il corpo legato in stretti lacci e di chi non fa perché ignora quelle circostanze che, se conosciute, farebbero scattare i suoi muscoli nell'azione?).

Discente: Il principio di personalità non dovrebbe portare ad escludere una responsabilità penale delle persone giuridiche e delle società?

Docente: La responsabilità penale delle persone giuridiche e delle società, non occorre che sia esclusa da un principio di diritto, é esclusa dalla natura stessa della sanzione penale: la perdita della libertà può essere sofferta solo da una persona fisica e non da un'astrazione concettuale come la persona giuridica o la società: sempre valido rimane quindi il prinicpio che societas delinquere non potest. Con tutto ciò può anche essere che il legislatore nello sforzo di esprimere sinteticamente il suo pensiero chiami a rispondere della sanzione (pecuniaria) una persona giuridica e una società, ma é chiaro che anche in tal caso la pena ricadrà, sia pure indirettamente, sui componenti la persona giuridica e la società (i soci, gli amministratori...) ed essi saranno i veri responsabili penali dell'azione sanzionata.

Lezione 3 - I principi di: irretroattività, di precisione, di tassatività, di legalità, di riserva di legge

Discente: Parliamo del principio di irreotrattività delle norme incriminatrici.

Docente: Questo principio, pur essendo previsto da varie norme ordinarie, é di livello costituzionale in quanto previsto dall'art. 25 co.2 della Costituzione che recita: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

Discente: E quali sono le norme non costituzionali che prevedono il principio di irretroattività in questione?

Docente: Sono:L'art. 2 co. 1 Cod. Pen.: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”.L'art. 7 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali (del 4 novembre 1950): “Nessuno può essere condannato per un'azione o un'omissione che al momento in cui fu commessa non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non può, del pari,

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essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato é stato commesso (...)”.

Discente: Che giustificazioni ha il principio di irretroattività delle norme incriminatrici?

Docente: Essenzialmente tre. Te le espongo di seguito, cominciando da quella che mi sembra più valida e finendo con quella che mi sembra meno valida.Prima giustificazione: si basa su un ragionamento molto simile a quello che conduce al principio di sussidiarietà: considerata la sua gravità, non é giusto applicare la sanzione penale, se non si é dato modo, a chi può esserne colpito, di evitarla, mettendolo, per così dire, sull'avviso, che, se commetterà una data azione, sarà colpito da una data sanzione. Seconda giustificazione: si basa sul “principio di lesività” (di cui parleremo postea): la applicazione retroattiva di una norma incriminatrice non é ammessibile perché essa – che logicamente non può avere uno scopo preventivo (ne peccetur) - viene inevitabilmente ad averne solo uno retributivo (quia peccatum est).Terza giustificazione: stabilire l'irretroattività é necessario per impedire che vengano emesse norme ad personam cioé per favorire o sfavorire determinate persone (io, che detengo il potere, so che Tizio, Caio, Sempronio hanno compiuta l'azione A e, in odio a loro, punisco l'azione A). Nella prossima lezione, commentando l'articolo 2 del Codice, avremo modo di tornare sull'argomento della irretroattività (però con riguardo, non solo alle norme incriminatrici, ma alle norme penali in genere). Qui possiamo limitarci a chiarire che quando si parla di irretroattività delle norme incriminatrici si intende anche riferirsi alle norme civili e amministrativi che le integrano; é ovvio,ad esempio, che se la norma A punisce, chi usa negli alimenti le sostanze indicate nell'elenco contenuto nella norma regolamentare B, e questa, mettti il 15 gennaio, cambia, aggiungendo nell'elenco altre sostanze, questo mutamento (della norma regolamentare) non rileva, é tamquam non esset per chi ha usato le sostanze aggiunte prima del 15 gennaio.

Discente: Parliamo allora del c.d. “principio di precisione”.

Docente: Questo principio vorrebbe che il precetto penale venisse espresso in maniera tanto chiara da essere compreso da ogni suo potenziale destinatario.

Discente: La cosa mi sembra piuttosto logica: é chiaro che verrebbe in pieno frustrata la volontà del legislatore costituzionale (espressa statuendo l'irretroattività delle norme incriminatrici) - volontà che, i potenziali destinatari della sanzione connessa alla violazione del precetto, di questo abbiano informazione (preventiva),

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se questa informazione fosse, sì, data, ma in termini così criptici che ….é come se non fosse data.

Docente: Effettivamente il “prinicpio di precisione” (meglio sarebbe chiamarlo “di chiarezza nella formulazione del precetto”) é un postulato logico del principio di irretroattività; ma, ahimè, é un postulato che si scontra con due dati di fatto, uno che lo svalorizza, l'altro che lo rende praticamente inapplicabile: il dato che lo svalorizza e ne rende meno pressante la osservanza, é la notorietà del fatto che la pubblicità dei precetti penali si attua, non attraverso le parole della legge, ma tramite le parole delle sentenze, che sanzionano l'inosservanza dei precetti stessi (e ciò...in barba al principio di irretroattività !); il dato, poi, che lo rende praticamente inapplicabile, é la difficoltà, in cui si trova il Legislatore, di esprimere, nelle poche righe in cui va racchiuso un articolo di legge, concetti complessi, difficoltà superabile solo usando termini tecnici (come, ad esempio, “lottizzazione”) od “elementi normativi” (cioé concetti, come “pubblico ufficiale”, “prossimo congiunto”, che trovano spiegazione in una norma diversa da quella che pone il precetto – negli esempi, rispettivamente, nell'articolo 357 e nell'art. 307) - cosa che naturalmente rende accessibile il contenuto del precetto solo al tecnico del diritto e non a quisque de populo.Quindi in definitiva il principio di “precisione” ha ben poca importanza; ne ha invece e di molto maggiore il principio di “determinatezza” di cui in seguito parleremo.

Discente: Ma ora dobbiamo parlare del “principio di tassatività”.

Docente: Il principio di “tassatività” fa divieto di interpretare analogicamente le norme penali. Esso trova espressione (non nella Costituzione o nel Codice penale, ma) nell'articolo art.14 delle Preleggi, che recita: “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.Esso si presenta come un corollario di due altri principi, il “principio di irretroattività”, di cui abbiamo sopra parlato, e il “principio di legalità”, di cui verremo presto a parlare.

Discente: Per quali ragioni il divieto di analogia costituisce un corollario del principio di irretroattività?

Docente: Per le stesse ragioni per cui ne è, come abbiamo visto, un corollario, il “principio di precisione”: l'informazione (preventiva) ai potenziali destinatari del precetto, per essere sicuri che venga recepita da quivis de populo, deve essere

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chiaramente espressa, e tale non può considerarsi quella che, non risulta dalle parole usate (per esprimerla), ma può venire colta solo con un ragionamento per analogia – cioé con un ragionamento fuori dalla portata dell'uomo qualunque, perché impone, prima, di individuare la ratio della norma e, poi, di verificare se tale ratio sussista anche per il caso, dalla lettera della norma, non contemplato (per applicare, in tal caso, il brocardo “ubi eadem ratio ibi eadem dispositio”).

Discente: Il divieto di analogia ha vigore anche per norme, sì, penali, ma in bonam partem?

Docente: Questo é un problema che affronteremo quando torneremo a parlare del divieto di analogia, nel suo aspetto di corollario del principio di determinatezza.Qui dobbiamo invece notare come, il divieto di interpretazione analogica, non si estenda alla interpretazione estensiva. Anche in questa, come in quella, si applica, la disposizione contenuta nella norma, a un caso, dalla lettera della norma, non contemplato (partendo dalla considerazione che il legislatore minus scripsit quam voluit), ma tramite un passaggio logico talmente semplice da poter essere fatto anche dal iuris imperitus: prendi, ad esempio,l'articolo 575, che, configurando il reato di omicidio, recita “Chiunque cagiona la morte di un uomo é punito”: quasiasi uomo di media intelligenza comprende che tale norma si applica anche a “chiunque cagiona la morte di una donna”.

Discente: Insomma l'interpretazione estensiva si differenzia da quella analogica, non per la qualità, ma per il suo diverso grado di complessità: dico bene?

Docente: Sì, la interpretazione estensiva non é altro un escamotage per attenuare la severità del principio di tassatività.

Discente: Parliamo ora del principio di legalità.

Docente: Il prinicpio di legalità trova espressione, sia nell'articolo 25 della Costituzione sia negli articoli 1 e 199 del Codice Penale.Articolo 25 nel suo secondo e terzo comma: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso – Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”.Art. 1 C.P.: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”Art. 199 C..P.: “Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti”.

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Discente: Quindi il prinicpio di legalità si ridurrebbe a questo: che una persona non può essere punita se non in forza di una legge: garanzia, questa, certamente importante per i baroni inglesi, oppressi nel tredicesimo secolo dalle prepotenze di Giovanni Senza Terra, ma per noi moderni decisamente ovvia e banale: troppo poca cosa per giustificare l'importanza data a tale principio sia dal Codice Penale che dalla Costituzione.

Docente: Non devi dare giudizi affrettati. Il “principio di legalità” é un (vetusto) principio, che ha avuto in sorte di generare per scissione, in seguito al continuo approfondimento della Dottrina, tutta una serie di altri principi - il “principio di determinatezza”, il “principio di riserva di legge”, il principio di tassatività”, il “principio di irretroattività”, il “principio di eguaglianza” - che lo hanno in un certo senso impoverito. Ciò non deve però condurti a ridurre l'importanza delle disposizioni sopra riportate; dato che da esse gli Studiosi ricavano (con procedimenti esegetici più o meno forzati), non solo il “principio di lesività”, ma anche il “principio di determinatezza” e il “principio di riserva di legge”.Detto questo ritorniamo al principio di lesività: che contenuto possiamo riconoscergli, dopo che sono venuti ad affiancarlo i numerosi principi, di cui sopra ho detto? Quello e solo quello di escludere che sia rimesso al mero arbitrio di un organo del potere governativo “(artt. 92 segg. Cost.) o della Magistratura (artt. 101 e segg. Cost.) lo stabilire se un comportamento debba essere, o no, sanzionato penalmente.Peraltro tale modesto contenuto, che rischia di sminuire il principio in discorso a una sorta di reperto di archeologia giuridica, viene indirettamente valorizzato dal “principio di determinatezza”, che da esso fa discendere conseguenze decisamente interessanti anche per noi moderni.

Discente: Parliamo allora di questo principio di “determinatezza”.

Docente: Come già detto esso é un corollario di quello di legalità e vuole che, la formulazione della norma penale, avvenga il più possibile in modo da escludere che l'individuazione del fatto-reato e della pena sia rimessa al potere discrezionale del giudice.

Discente: Quindi si parte dal presupposto che una certa discrezionalità del giudice nell'applicazione della norma penale sia ineliminabile.

Docente: E' così: non solo, ma a meno di voler rinunciare alla tutela di certi valori, é necessario rassegnarsi a norme, che lasciano anche una notevolissima discrezionalità al giudice: pensa all'articolo 529, che definisce “osceni gli atti e gli

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oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore”: forse che l'applicazione di tale articolo non lascia al giudice una amplissima discrezionalità? Eppure se tu, legislatore, vuoi tutelare il pubblico pudore, devi accettare ciò. Quel che il principio di determinatezza, in definitiva, può richiedere al legislatore ordinario, é solo un continuo sforzo per formulare le norme in modo da restringere al massimo il potere del giudice – e come esempio di un ottimo risultato in tale direzione, si possono portare le norme sul reato di usura e sul reato di “guida in stato di ebbrezza”, che ancorano la valutazione dell'usura e dell'ebbrezza a precisi parametri (c'é ebbrezza quando la presenza di alcool nel sangue supera tot, c'è usura quando gli interessi richiesti superano tot).Se lasciare al giudice un margine di discrezionalità, é inevitabile nell'individuazione del fatto-reato, ancor più inevitabile é nell'individuazione della quantità della pena da comminare per il reato.

Discente: A dir il vero mi pare che si potrebbe invece evitare ogni discrezionalità stabilendo la pena, non tra un minimo e un massimo, ma in misura fissa.

Docente: Cadresti allora però dalla padella alla brace, perché, in spregio al principio di uguaglianza, finiresti per punire con la stessa pena fatti di gravità diversa. No, una discrezionalità del giudice nella determinazione della pena, non solo é inevitabile, ma é addirittura benefica. Certo, se la forbice tra il massimo e il minimo é “irragionevolmente” ampia, la norma – giusta l'insegnamento della Corte Costituzionale (cfr. Sent. 299/19992) - deve considerarsi incostituzionale (per violazione del principio di determinatezza).

Discente: L'interpretazione analogica é compatibile col principio di indeterminatezza?

Docente: Certamente, no: sia l'analogia in base a una norma (analogia legis) sia, e ancor più, l'analogia in base ai principi (analogia juris) sono incompatibili con tale principio.

Discente: Quindi l'interpretazione analogica delle norme incriminatrici é vietata; e questo é un risultato a cui eravamo giunti anche ragionando sul “principio di “precisione”. Ma é vietata anche l'interpretazione analogica delle norme penali in bonam partem, ad esempio, di una norma, che prevede una causa di giustificazione, di non-imputabilità, di estinzione del reato?

Docente: Le opinioni sul punto sono contrastanti. Alcuni Autori (Pannain, Ramacci...) escludono l'ammissibilità dell'interpretazione analogica anche per le

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norme in bonam partem, o richiamandosi al principio di legalità o al divieto (sancito dall'art. 14 delle Preleggi) di interpretazione delle norme eccezionali. Altri Autori (Antolisei, Fiandaca, Musco, Bettiol...) l'ammettono, ma per la maggior parte limitatamente alle norme in bonam partem, che (come quelle che prevedono cause di giustificazione o di non-imputabilità) sono espressione di principi di diritto.

Discente: E tu come la pensi?

Docente: Io penso che, mentre il principio di “precisione” non osta all'interpretazione analogica delle norme penali in bonam partem (infatti, tale principio si propone solo di impedire, che una persona venga punita per aver violato un precetto, che non le era stato dato modo di conoscere); a tale applicazione, invece, sia di ostacolo (a prescindere dal divieto di analogia per le leggi eccezionali) il principio di determinatezza: questo infatti si propone di impedire, che una persona sia punita o assolta a discrezione del giudice; ora, il pericolo che ciò si verifichi, si ha, sia che si ammetta la interpretazione analogica di una norma incriminatrice sia che si ammetta l'interpretazione analogica di una norma in bonam partem (perché, metti, esprimente una causa di giustificazione). Infatti, alla conclusione che una situazione sia analoga ad un'altra, si arriva in base a ragionamenti che hanno, quando più quando meno, una certa opinabilità o, in altre parole, discrezionalità. E questo sia che l'interpretazione riguardi una norma incriminatrice o una norma in bonam partem. Quindi, dal punto di vista del principio dell'indeterminatezza, non rileva se l'interpretazione analogica abbia ad oggetto una norma incriminatrice o no: in entrambi i casi si avrebbe infatti un aumento della discrezionalità del giudice.

Discente: Parliamo ora del “principio di riserva di legge”.

Docente: Dal secondo comma dell'articolo 25, si ricava, l'abbiamo visto, che una persona non può essere punita se non in base ad una norma proveniente dall'organo legislativo.

Discente: A dir il vero tale disposizione si limita a dire che “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge” - non dice l'autorità da cui deve provenire la legge.

Docente: Sì, ma tale norma essendo inserita in un testo, la nostra Costituzione, che si sofferma a indicare con estrema precisione gli organi a cui compete la formazione delle leggi, cioé la “funzione legislativa”, non può essere interpretata che nel senso che “uno non può essere punito se non in forza di una legge

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emanata da un organo a cui la Costituzione attribuisce una funzione legislativa”. Del resto tale soluzione é dettata, non solo da un'interpretazione sistematica, ma anche dalla logica: é infatti logico che il Legislatore costituzionale riconosca il potere di comprimere e sacrificare un bene, come quello della libertà, da Lui ritenuto tanto importante da definirlo “inviolabile”, solo a quell'organo, che, per le persone che lo compongono (persone elette dai cittadini, quindi presumibilmente le migliori menti della popolazione) e per le procedure che adotta nell'elaborazione delle norme (procedure lascianti ampio spazio allla dialettica tra i fautori di diverse tesi), dà le migliori garanzie di giungere a sacrificare tale sommo bene solo nei casi in cui ciò é reso necessario dalla tutela degli interessi essenziali della Comunità.

Discente: E va bene; però la funzione legislativa la Costituzione l'attribuisce sia al Parlamento (art. 70) sia anche alle Regioni (art. 117 co.1): tu ritieni che anche le Regioni possano emanare norme penali?

Docente: No, lo escludo. E lo escludo – non già perché ritengo, come pur da Alcuno autorevolmente si sostiene, che l'attribuire il potere di emanare norme penali alle Regioni violerebbe il principio di uguaglianza (potendo, per uno stesso fatto, il lombardo essere punito, e il ligure e il veneto, no) e, invero, chi mai vede leso tale principio di uguaglianza dalla norma che punisce un italiano per un fatto che il francese può impunemente compiere? - ma, per riprendere il discorso, escludo nelle regioni il potere di legiferare in materia penale, perché mi pare logico che norme, tanto gravide di conseguenze per la libertà delle persone, portino la firma, se mi é permesso il termine, dell'organo che, per le persone che lo compongono (persone scelte non in una sola regione ma in tutta la nazione, quindi le migliori, non della Regione veneta, lombarda, ligure, ma le migliori di tutta la Nazione Italiana), dà le migliori garanzie di emanare giuste e sagge norme: il Parlamento.E con ciò esprimo non tanto la mia opinione quanto quella della generalità degli Studiosi.

Discente: Ma il Parlamento può delegare a un organo del potere esecutivo l'esercizio delle sue funzioni: ciò accade nel caso dei Decreti Legislativi (come previsto dalla Costituzione nell'articolo 76) e ciò, in buona sostanza, accade anche (lo dico, pur se so che qualche Professore a sentirmi inorridirà) nel caso delle così dette “norme in bianco” - ora tu ritieni ammissibile che il Parlamento deleghi al Governo e all'Autorità amministrativa anche la formazione di norme penali?

Docente: Sì, purché il potere (normativo) delegato non implichi una scelta politica, cioé una scelta relativa a questioni (metti, “E' giusto punire A e B o solo B?” “E'

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giusto punire A con centomila o solo con novantamila euro?”) per cui forze politiche diverse hanno proposto o potrebbero proporre soluzioni diverse: ad esempio, non c'é da dubitare che il Parlamento possa rimettere a quel certo Ministero la soluzione della questione, se aggiungere alle indicazioni, che il commerciante deve apporre sulla confezione degli alimenti che vende, oltre alla data di scadenza, quella di confezionamento: e infatti questa é una questione tecnica alla cui soluzione le forze politiche sono disinteressate; mentre é, invece, ben da dubitare che il Parlamento possa rimettere a quel certo Ministero la decisione del quantum di pena con cui va sanzionata la violazione del precetto di indicare, oltre alla data di scadenza, quella di confezionamento: infatti a interloquire sulla severità della pena tutte le forze politiche sono interessate.

Discente: Ma chi stabilirà se vi sono forze politiche interessate alla soluzione in un modo, anziché in un altro, di una data questione?

Docente: L'organo che per la sua composizione - per il cordone ombelicale che l'unisce al mondo politico - é più in grado di rilevare l'importanza, che ha in questo mondo, una questione: la Corte Costituzionale.

Discente: Ma ogni norma penale non può non imporre la soluzione di “questioni politiche”.

Docente: Vuol dire che il Parlamento risolverà le questioni politiche e rimetterà al Goveno le questioni, alla cui soluzione in un modo anziché nell'altro, nessuna forza politica é interessata. Ciò é espressamente previsto dalla Costituzione per quel che riguarda i Decreti legislativi: “i principi e criteri direttivi” che per l'articolo 76 debbono accompagnare la delega al Governo, rappresentano appunto la soluzione delle questioni politiche che la materia delegata presenta.

Discente: E per quel che riguarda le “norme in bianco”?

Docente: Nella norma in bianco il Parlamento di solito non dà e non deve dare “principi e criteri direttivi”, però deve formulare la sua volontà in modo che lo spazio residuante (e che dovrà essere riempito dall'autorità amministrativa) chiaramente riguardi solo questione tecniche; esempio tipico di norma in bianco é il seguente: “Chiunque non indicherà sulle confezioni gli ingredienti che il Ministero dell'industria stabilirà con suo decreto sarà punito eccetera eccetera”.

Discente: Quali sono le opinioni della Dottrina e della Giurisprudenza sul punto, cioé sulla possibilità del Parlamento di delegare norme penali?

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Docente: Per quel che riguarda la delega al Governo tramite un Decreto legislativo, l'orientamento di gran lunga prevalente é per la sua ammissibilità (purché naturalmenet siano rispettati i limiti posti dall'articolo 76).Vi é invece contrasto sulla possibilità che fonti normative secondarie (come i regolamenti) possano concorrere alla formazione delle norme penali. Alcuni la ammettono (teorici della “riserva relativa di legge”), altri la negano assolutamente (teorici della “riserva assoluta di legge”), altri ancora ammettono un concorso delle fonti normative secondarie, ma solo per specificare, in base a considerazioni puramente tecniche, la figura di reato già delineata dal Parlamento (teorici “della riserva assoluta temperata”). La Corte Costituzionale aderisce al terzo orientamento (Sent. 10.06.1982 n. 108; 9.6.1986 n. 132); e più precisamente: - mentre, per quel che riguarda la sanzione, esclude che essa possa essere stabilita da altri che il Parlamento – per quel che riguarda il precetto, ammette che esso possa essere integrato da atti del potere esecutivo, a patto che sia il Parlamento a fissare i limiti e i criteri di tale opera integratrice.

Discente: La Costituzione prevede oltre casi in cui la funzione legislativa é delegata al Governo, casi in cui questo, di propria iniziativa, può adottare “provvedimenti provvisori con forza di legge”: i decreti-legge (art. 77 c.2). Questi decreti possono contenere norme penali?

Docente: La cosa é controversa. A me sembra che il problema vero, non sia se i decreti-legge possano, o no, contenere norme penali: certamente li possono contenere. Il problema vero é se tali norme siano applicabili prima della loro conversione in legge. Problema che, se risolto nel senso positivo, potrebbe portare a situazioni gravissime, in caso di mancata conversione del decreto: Fulano viene, in base al reato previsto dal decreto, processato e privato della libertà, poi, il decreto non viene convertito: certo una legge può prevedere degli indennizzi per tali casi, ma non ci sono soldi che possano ripagare la perdita della libertà. Tenuto conto di ciò io escluderei, che, eventuali norme penali contenute in un decreto, possano essere applicate prima della loro “conversione”, perché, la deroga al principio di legalità che ciò verrebbe a rappresentare, é talmente drastica, che, per essere ammessa, occorrerebbe una chiara volontà espressa in tal senso dal Legislatore (costituzionale).

Discente: Che dire delle norme comunitarie, possono esse incidere sul diritto penale nazionale?

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Docente: Certamente, sì. Infatti con i vari Trattati di adesione alla Comunità Europea lo Stato italiano ha rinunciato al monopolio delle fonti legislative. Pertanto ora, alle fonti normative previste dagli artt. 70 e segg. della Costituzione, si affiancano le fonti legislative comunitarie: i trattati, i regolamenti, le direttive - e questo in perfetta osservanza della Costituzione stessa, che, nel suo articolo 11, autorizza il Legislatore ordinario a “consentire....alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”.Alcune delle norme comunitarie si limitano a imporre allo Stato italiano l'obbligo di provvedere alla tutela penale di interessi rientranti nella competenza comunitaria - (e in tal caso non hanno nessuna influenza diretta sul cittadino italiano).Invece altre (tutte le norme contenute nei regolamenti, alcune delle norme contenute nei trattati e delle direttive, in specie le c.d. “direttive analitiche”) sono self executing (cioé immediatamente applicabili dai giudici dello Stato). In tal caso ben può essere – ed é già accaduto – che si rivelino incompatibili con l'applicazione di una norma incriminatrice.

Discente: Fai un esempio.

Docente: Eccolo: esisteva una norma che puniva chi nelle zone urbane vendeva direttamente il latte, invece di consegnarlo a istituzioni (le Centrali del latte) che avevano il monopolio della sua vendita; ora un regolamento comunitario soppresse tale monopolio: la Corte di Cassazione ne trasse la conseguenza che non si potesse più configurare come reato la omessa consegna del latte alle Centrali.

Discente: Dunque le norme comunitarie prevalgono su quelle nazionali.

Docente: Sì; e questo per il principio del “primato del diritto comunitario sul diritto interno, sia anteriore o posteriore ad esso” - principio affermato dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee con una Sentenza risalente al 1978.Peraltro, a prescindere dalla sua diretta applicazione, il Diritto comunitario influisce su quello nazionale per l'obbligo, che ne deriva per il giudice, di interpretare le norme nazionali in senso conforme alla lettera e alla ratio di tale Diritto; cioé il giudice tra più possibili significati della norma nazionale deve scegliere quello conforme o più conforme alla norma comunitaria.

Discente: Ma il diritto comunitario può sanzionare penalmente la condotta del cittadino – voglio dire sanzionarla con norme self-executing, subito vincolanti per i giudici italiani?

Docente: Questo, no assolutamente: non lo consente l'articolo 25 la cui riserva di

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legge opera chiaramente solo a favore del legislatore nazionale, e neppure lo consente l'articolo 11. Infatti vi é una gerarchia tra le norme della nostra Costituzione e, se si può riconoscere che l'articolo 11 possa prevalere sulle norme, che concedono al Parlamento l'esclusività di certi poteri legislativi, non si può ammettere che esso prevalga su norme, come l'articolo 13, che tutelano beni di valore primario, come la libertà. E se l'art.11 non può prevalere sull'articolo 13, per il valore che esso esprime, neanche può prevalere sull'articolo 25 che é funzionale alla tutela di tale valore.E con ciò ti esprimo non solo la mia opinione ma l'opinione condivisa dalla generalità degli Studiosi.

Lezione 4 - La successione delle leggi penali nel tempo

Docente: Il fenomeno della successione delle leggi penali viene disciplinato dal nostro Codice nell'art.2, che recita:“Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e se vi é stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.Se vi é stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135.Se la legge del tempo in vui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti”.

Discente: Cominciamo a parlare del primo comma dell'articolo che hai letto. La punizione di una persona dipende, non solo dalla norma che configura come reato il fatto da lei commesso (norma incriminatrice), ma anche da altre norme; ad esempio, dalle norme che stabiliscono il tempo utile per la prescrizione del reato, da quelle che stabiliscono la sua procedibilità d'ufficio o a querela, da quelle che prevedono una causa di giustificazione, e l'elencazione potrebbe continuare. Ed ecco la domanda: anche tali norme debbono considerarsi irretroattive? Faccio

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qualche esempio, per spiegarmi meglio. Primo esempio: Fulano commette il reato A, ma siccome tale reato é procedibile a querela e questa non é stata presenta, scampa la pena: se in un domani una norma stabilisse la procedibilità d'ufficio del reato A, questa norma gli si potrebbe applicare retroattivamente (con conseguente sua condanna)? Secondo esempio: Fulano commette il reato B, per la cui prescrizione le norme allora vigenti prevedono il tempo di cinque anni; questi cinque anni passano senza che nessuno muova un dito per processare Fulano e questi....tira un sospiro di sollievo: pena scampata: se dopo che sono trascorsi i cinque anni interviene una legge che raddoppia il tempo della prescrizione, questa norma può essere applicata retroattivamente? Terzo esempio: Fulano commette il fatto C e nessuno vi ravvede un reato, perché la norma C illo tempore vigente prevede una causa di (sua) giustificazione: se in un domani interviene la norma D che abroga quella C, essa (idest, la norma abrogatrice D) può essere applicata retroattivamente?

Docente: Io risponderei senz'altro positivamente a tutte queste tue domande. Discutibile, lo riconosco, potrebbe essere, se la irretroattività nei casi da te fatti possa basarsi sull'articolo 25 della Costituzione o debba trovare il suo fondamento solo nella legge ordinaria, nell'articolo 2. Io riterrei ch'essa possa basarsi sia sull'articolo 25 sia sull'articolo 2 (e il punto interrogativo – a cui peraltro non cercherò di dare qui risposta, per non complicare troppo il discorso - io lo porrei solo sull'applicabilità del primo o del quarto comma dell'articolo 2). Con tutto ciò io mi rendo conto che, non in tutti i casi da te portati come esempio, la irretroattività potrebbe giustificarsi con tutte e tre le “ragioni” che abbiamo visto giustificare la irretroattività delle norme incriminatrici: queste ragioni potrebbero valere tutte e tre probabilemnte solo nel caso del terzo esempio da te portato (fatto “giustificato” da una norma poi abrogata), ma nei casi di cui al primo e secondo esempio, certamente le prime due non potrebbero valere (Fulano se era un buon cittadino, rispettoso della legge, avrebbe dovuto astenersi dal commettere il fatto solo in considerazione della norma che tale fatto incriminava, a perscindere che il reato fosse procedibile a querela o d'ufficio, a prescindere che si precrivesse in cinque o dieci anni!).

Discente: Quindi solo la terza delle ragioni che giustificano l'irretroattività delle norme incriminatrici (la ragione di impedire a chi detiene il potere di fare norme ad personam) potrebbe aver valore nei casi del primo e secondo esempio.

Docente: Sì, ma accorrerebbe a rinforzare, per così dire, questa ragione - che di per sé, già lo vedemmo, é piuttosto debole - e quindi a giustificare con più forza la irretroattività (della norma penale non incriminatrice: negli esempi, la norma che

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prolunga i tempi della prescrizione o che rende il reato procedibile d'ufficio) l'esigenza di tutelare l'affidamento del cittadino a non essere perseguito dalla legge, una volta che si siano maturate certe condizioni (negli esempi, sia trascorso il tempo utile per proporre querela o evitare la prescrizione).

Discente: Ma dopo la commissione del fatto posono intervenire, non solo norme che lo rendono punibile (mentre prima non lo era), ma anche norme che rendono più grave il suo trattamento sanzionatorio, penso a una norma che preveda un'aggravante, penso ancora a una norma che escluda un “beneficio” come la sospensione condizionale della pena: domanda: anche queste norme sono irretroattive?

Docente: Sì, ma non in forza dell'art. 25 già citato (quindi la loro irretroattività non ha una garanzia costituzionale) e neanche per il primo comma dell'art.2, bensì, per il suo quarto comma.

Discente: Ma questo comma prevede l'applicazione della norma più favorevole tra quella vigente al tempo del commesso reato e quella posteriore.

Docente: E ciò significa, per rifarci a uno dei tuoi esempi, che se la prima non prevedeva l'aggravante e la seconda, sì, questa seconda non si applicherà (in quanto meno favorevole), il che é come dire che sarà irretroattiva: mi sono spiegato?

Discente: Ti sei spiegato; passiamo al secondo comma: mi pare chiaro che esso stabilisce la non punibilità di Fulano che ha commesso il fatto A (metti ha procurato un aborto) che al momento era previsto come reato, ma che una legge posteriore, come reato, più non prevede: vero?

Docente: Verissimo; ma esso – e questo molto importante - non solo stabilisce la non punibilità di Fulano, ma pure che, se vi é stata sentenza irrevocabile di condanna, non si devono eseguire né la pena nè, bada, neanche gli altri effetti penali della condanna; ciò che significa, che questa non potrà essere calcolata ad esempio per ritenere la “recidiva” (artt. 99 e segg.) o per escludere il beneficio della sospensione condizionale (att. 163 e segg.).

Discente: Ma la sentenza penale ha anche effetti civili; io penso a una eventuale condanna dell'imputato al risarcimento a favore della parte civile.

Docente: Quelli no, non verrebbero travolti dalla norma che esclude il reato; per le

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stesse ragioni per cui la norma che esclude l'obbligo risarcitorio, per un fatto in base a cui il giudice civile ha invece già emesso condanna al risarcimento, non porta all'annullamento di questa.

Discente: Ma per quale ragione il legislatore non punisce Fulano, che ha pur violato la legge, anche se il fatto da lui commesso non é più previsto come reato?

Docente: Perché il nostro legislatore punisce chi ha violato la legge, non perché ha disubbidito a questa, ma perché ha leso il bene da questa tutelato; se quindi egli si convince che questo bene in realtà non esiste oppure che non merita la tutela penale, non può che ricavarne le logiche conseguenze: escludere la punizione del fatto (prima punito nel presupposto che ledesse tale bene o preteso bene).

Discente: Ma Fulano, violando la legge, ha dimostrato di non subire l'efficacia intimidatrice della minaccia di una pena, é quindi una persona che ben potrebbe commettere altri reati.

Docente: Ma di ciò il legislatore sembra tenere conto: né l'articolo 25 nel suo terzo comma (nota com'é diversa la sua formulazione da quella del secondo comma!) né l'articolo 190 e segg. escludono che una misura di sicurezza possa essere applicata al tuo Fulano. E il capoverso dell'articolo 200 – mostrando di disattendere completamente il principio dell'applicazione della norma più favorole al reo - dà buoni argomenti per sostenere che una misura di sicurezza, al tuo Fulano, possa essere applicata (anche se egli non deve più rispondere del fatto A come reato). Del resto ci riserviamo di approfondire la questione parlando appunto delle misure di sicurezza.

Discente: Ma sempre l'abrogazione di una norma penale – o, per essere più precisi, di una norma dalla cui esistenza dipendeva la configurabilità di un fatto come reato - comporta l'esclusione della punibilità (di questo fatto)? Metti, Fulano ha falsamente denunciato il signor Innocenti di aver commesso un fatto A costituente (illo tempore) reato: si avviano delle indagini,, il sig. Innocenti ricorre ad un avvocato, forse addirittura si fa del carcere preventivo o espia in tutto o in parte la pena (comminatagli per il reato per cui é stato calunniato); poi, interviene una norma che esclude che il fatto A costiuisca reato (e con ciò stesso esclude che commetta il reato previsto dall'art. 368, il reato di calunnia, chi denuncia falsamente una persona del fatto A): grazie a tale norma, Fulano, nonostante le tribolazioni da lui causate al povero sig. Innocenti, andrebbe esente da ogni pena (in applicazione del capoverso dell'art. 2)?

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Docente: Convengo con te che sarebbe assurdo; e che quindi bisogna concludere che non sempre l'abrogazione di una norma pur determinante al momento della commissione del fatto per ritenere la punibilità di questo, comporta la non punibilità del reo: bisogna vedere.

Discente: Che cosa?

Docente: Bisogna vedere, prima di tutto, se, nonostante l'abrogazione della norma, si é verificata la lesione del bene che (per il legislatore) giustificava la punizione del reo (per riferirci all'esempio da te fatto: l'esposizione al rischio di condanna o addirittura la condanna del sig. Innocenti, c'é stata?) e, in caso di risposta positiva, bisogna ancora vedere, se questa lesione continua a giustificare per il legislatore la punizione del fatto lesivo (nell'esempio da te fatto: il legislatore continua a ritenere meritevole di tutela l'interesse di una persona a non essere esposta al rischio di una condanna ingiusta?): se si risponde di sì, l'abbrogazione della norma (nell'esempio, l'abrogazione della norma che prevede come reato il fatto A) non esclude la punibilità dell'agente (di Fulano) per il reato (nell'esempio, per il reato di calunnia). Del resto proprio con considerazioni analoghe si giustifica la deroga che il legislatore fa al secondo comma in questione (e anche al quarto comma di cui parleremo) stabilendo (nel quinto comma) che “se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti”.

Discente: Cosa si intende per “leggi eccezionali e temporanee”?

Docente: Si intende quelle leggi che il legislatore emana in considerazioni di situazioni eccezionali (un terremoto, una guerra...) o per cui stabilisce già al momento della loro emanazione un termine di scadenza (evidentemente perchè anche tali leggi sono emanate per far fronte a una situazione limitata nel tempo, quindi eccezionale).

Discente: Fai un esempio.

Docente: Esempio di una legge eccezionale potrebbe essere questo: “Dato lo stato di guerra e il pericolo di bombardamenti nemici, tutte le finestre debbono essere oscurate in modo che da esse non trapeli luce alcuna: i contravventori saranno puniti con tot”. E' chiaro che la cessazione dello stato di guerra e l'abrogazione di una tale legge, non escluderà per nulla che Fulano, che ha lasciato filtrare la luce dalle finestre (segnalando così agli aerei nemici la persenza di un centro urbano), ha posto a rischio l'incolumità pubblica (più precisamernte, la incolumità degli

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abitanti del centro urbano) e non escluderà nemmeno che l'interesse alla tutela dell'incolumità pubblica continui ad essere ritenuto dal Legislatore degno di tutela.

Discente: Parliamo ora del quarto comma (dell'art. 2).

Docente: Questo comma si riferisce a casi in cui nessuna delle due norme, per così dire in contesa, esclude la punibilità del fatto (mentre se la norma “anteriore” o quella “posteriore” escludessero totalmente la punibilità del fatto si ricadrebbe o nell'applicazione del primo comma o del secondo). Quel che succede quando la norma “posteriore” é meno favorevole di quella anteriore lo abbiamo già visto (succede che la norma posteriore si considera irretroattiva e si applica quella anteriore).

Discente: E quindi ora ci resta di vedere quel che succede se la norma posteriore é più favorevole di quella anteriore: dunque, che succede?

Docente: Succede che si applica la norma posteriore; questo, quindi, in perfetta armonia col disposto del comma 2. Però il quarto comma, quando riguarda il caso che la norma posteriore sia “più favorevole”, contiene un'eccezione non presente invece nel secondo comma: infatti mentre la norma posteriore che esclude il reato (quindi stiamo parlando del secondo comma) si applica nonostante sia già inetrvenuta una sentenza irrevocabile di condanna (e ne travolge gli effetti penali); la norma più favorevole (ma che non esclude il reato) non si applica, se una sentenza irrevocabile é già intervenuta.

Docente: Quali le ragioni di tale severa disposizione?

Docente: Esse probabilmente vanno viste nella necessità di economizzare l'attività processuale (evitando il defatigante ripetersi di un processo che già ebbe a portare a una sentenza irrevocabile); e conforta tale conclusione il fatto che quando queste argioni vengono a mancare, in quanto la “correzione della sentenza può farsi senza rinnovare il processo, la norma posteriore più favorevole si applica.

Discente: Da che risulta questo?

Docente: Dal terzo comma che così recita: “Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135”.

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Discente: Tu però, parlando del caso in cui la norma posteriore é (non più, ma) meno favorevole della “anteriore”, non hai previsto il caso che sia già intervenuta sentenza irrevocabile, nulla hai detto in proposito.

Docente: Non ho detto nulla in proposito per la semplicissima ragione che, in tal caso, nessun problema di “correzione” della sentenza sorge: in tal caso infatti la sentenza avrà applicata la norma “anteriore” più favorevole e.....avrà fatto benissimo. Non muovermi critiche che non merito!

Discente: Una cosa di certo però ti sei dimenticato di dire; e percisamente con che criteri va operata la valutazione di quando una norma é più favorevole di un'altra.

Docente: Te lo dico subito: con due criteri:Primo criterio: la valutazione va fatta in concreto. Ciò significa che il giudice deve, prima, applicare idealmante al caso concreto la norma “anteriore”, poi, sempre idealmente e sempre al caso concreto, deve applicare la norma “posteriore”: fatto questo deve confrontare i risultati a cui é giunto nei due casi e, se il risultato più favorevole al reo l'ha ottenuto nel primo caso, applicherà la norma anteriore, se l'ha ottenuto nel secondo caso, applicherà la norma “posteriore”. Faccio un esempio: metti che la norma posteriore abbia innalzato il massimo della pena e diminuito il suo minimo: nell'ipotesi, il giudice l'applicherà, se riterrà che nel caso concreto la pena vada applicata nel minimo, e non la applicherà, se riterrà che vada applicata nel massimo.

Discente: Ma la legge posteriore potrebbe contenere varie disposizioni; ad esempio, disposizioni: sulla misura, sulla specie della pena principale, sulle pene accessorie, sui presupposti di concedibilità di un beneficio, sulle cause di estinzione (…); e, quel che più conta, alcune di tali disposizioni potrebbero essere interdipendenti tra di loro (nel senso che una disposizione potrebbe essere giustificata dall'esistenza di un'altra: penso al caso di una disposizione, che diminuisce la pena, e la diminuisce in considerazione del fatto, che altra disposizione ne ha cambiata la specie, da una meno afflittiva, come l'arresto, ad una più afflittiva, come la reclusione). In tal caso il giudice come deve regolarsi?

Docente: Adottando il criterio del c.d. “divieto della terza legge” - criterio che così può essere esplicitato: tu, giudice, non puoi individuare la legge più favorevole tenendo conto solo di una delle“disposizioni interdipendenti” senza tenere conto dell'altra; per rifarci all'esempio da te fatto: tu, giudice, non puoi, da una parte, applicare la disposizione (della legge posteriore) che diminuisce il minimo della pena e, dall'altra, disapplicare la disposizione che qualifica la pena come reclusione

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(applicando al suo posto la disposizione della legge anteriore che qualifica la pena come arresto): in tal caso, infatti, tu verresti a creare una terza legge, che non corrisponderebbe né alla volontà del legislatore della legge “posteriore” né alla volontà del legislatore della legge “anteriore”, ma solo alla...tua volontà.

Discente: Guardiamo al fenomeno della “successione delle leggi” da un altro punto di vista. Tu hai fatto finora l'ipotesi che siano intervenute solo due leggi, ma in realtà ne potrebbero essere intervenute tre (e anche più): fa questo caso: Fulano commette il fatto A; un primo legislatore, il legislatore del tempo in cui il fatto fu posto in essere, lo considera come reato; un secondo legisaltore invece, dice “No, il fatto A non lede nessun bene, perché punirlo?” e non lo considera più come reato; un terzo legislatore, infine, ritiene che “No, era ben fatto come si faceva una volta, torniamo all'antico, puniamo il fatto A”. Ebbene, in tal caso, la volontà di quale dei tre legislatori va applicata?

Docente: Quella del terzo, dato che senza dubbio é nel potere del legislatore ordinario emanare una nuova norma, che ne abroghi una anteriore; a meno, ben s'intende, che ciò venga a ledere il diritto (costituzionalmente garantito) del cittadino di conoscere anticipatamente il rischio di sanzione, che corre compiendo il fatto considerato come reato dalla (nuova) norma. Il che però, nel caso da te prospettato, non si verifica: infatti si deve ritenere che Fulano sapesse, al momento in cui compiva il fatto A, che si esponeva al rischio di sanzione, perché, anche se ovviamente non poteva conoscere ancora la norma emanata dal terzo legislatore, non poteva non conoscere quella emanata dal primo legislatore (che una sanzione per la commissione del fatto A comminava). Diverso il caso che Fulano avesse commesso il fatto durante la vigenza della norma emanata dal secondo legislatore: in tal caso effettivamente egli a buon diritto, agendo, avrebbe potuto pensare di non correre nessun rischio di sanzione.

Discente: Chiarito questo veniamo a parlare del sesto e ultimo comma dell'articolo 2.

Docente: Che però é stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale (Sent. 19.02.1985, n. 51) nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste, le disposizioni contenute nel secondo e terzo comma. dell'art.2.

Discente: Quindi, se Fulano, putacaso, il 15 gennaio 2010 comette il fatto A, ritenuto dal legislatore del tempo reato; poi, interviene nel 2012 un decreto-legge, che esclude la punibilità del fatto A (“No, il fatto A non costituisce più reato”), ma

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che non viene convertito, Fulano continua a rispondere penalmente del fatto A. Mi pare giustissimo! Si tratta, infatti, di un caso del tutto analogo a quello da noi prima esaminato (il caso, di una prima norma che ritiene A punibile, di una seconda, che ne esclude la punibilità, e di una terza che, la punibilità di A, invece, ripristina): in buona sostanza, la Corte ritiene che vada rispettata la volontà del Parlamento (che, non convertendo il decreto, dimostra di volere mantenere la punibilità di A, dal decereto, invece, esclusa) per le stesse ragioni, mutatis mutandis, per cui noi abbiamo prima ritenuto, che vada rispettata la volontà del terzo legislatore (che abrogando la seconda norma, in buona sostanza ripristina la punibilità del fatto).Però noi avevamo anche concluso che, se Fulano commetteva il reato durante la vigenza della seconda norma, doveva andare esente da pena; e le ragioni, che ci avevano portato a tale conclusione, mi pare che dovrebbero essere valide anche per concludere per la non punibilità di chi commette il fatto-reato durante la vigenza del decreto, che ne esclude la punibilità

Docente: E in realtà é così: tali ragioni sono perfettamente valide anche per escludere la punibilità del fatto commesso durante la vigenza del decreto.- nonostante che sul punto la Corte Costituzionale non si sia espressa chiaramente.

Discente: Altro argomento, altro problema. E' chiaramente importante, ai fini di stabilire se una norma é posteriore al fatto A (e quindi se la sua applicazione al fatto A deve, o no, farsi rientrare nella ipotesi della retroattività di una norma) stabilire il momento in cui il reato va ritenuto commesso. Non mi pare questo, però, un problema di facile soluzione.

Docente: E infatti non lo é; tanto che, di tale problema, sono state proposte tre diverse soluzioni dalle tre diverse teorie, che ora passo a sintetizzarti. La teoria dell'evento: il reato va considerato commesso nel momento in cui si verifica l'evento (dalla cui esistenza dipende la punibilità dell'azione): il terrorista ha il 15 gennaio predisposta la bomba, che però scoppia il 17 gennaio: il reato si condidera commesso il 17 gennaio.Teoria dell'attività: il reato si considera commesso nel momento in cui é commessa l'azione; nel caso di reati frazionati (reati permanenti, reati abituali...) il reato si considera commesso nel momento che finisce l'ultima sua frazione (Fulano ha sequestrato Fulana il 15 gennaio e l'ha tenuta in sequestro fino al 17 gennaio? ebbene, il reato si considera commesso fino al 17 gennaio).Teoria mista: si adotta l'uno o l'altra delle soluzioni, prospettate dalle due precedenti teorie, secondo i casi.

Discente: E tu che ne pensi?

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Docente: Io penso che, in sede di interpertazione dell'articolo 2, si debba aderire alla teoria dell'attività (senza escludere, quindi, che la teoria dell'evento sia preferibile in sede di interpretazione di altro articolo).Questa soluzione mi sembra preferibile perché, per stabilire se é giusto, oppure no, applicare la norma B al fatto A commesso da Fulano, deve farsi riferimento, lo abbiamo visto, alla possibilità, o meno, che Fulano, di tale norma, potesse subire l'efficacia intimidatrice, e ciò implica che si debba far riferimento al momento dell'azione (dato che solo al momento dell'azione, e non a quello dell'evento, Fulano poteva subire l'intimidazione della norma). Certo questa regola va applicata cum grano salis, e nei casi in cui si deve configurare una responsaiblità dell'agente, non solo per l'azione positiva compiuta, ma anche per la omissione di quanto necessario per impedire a tale azione di produrre l'evento (caso del terrorista che venga punito, non solo per aver posizionato la bomba il 15 gennaio ma altresì per non averla rimossa prima che, il 17 gennaio, scoppiasse), il reato dovrà ritenersi commesso, alla scadenza del tempo utile per compiere l'azione (invece omessa).

Discente: Un ultima domanda, che non riguarda propriamente la problematica della successione delle norme del tempo, ma un argomento affine: in quale momento si verificano gli effetti di una sentenza dichiarativa della incosittuzionalità di una norma?

Docente: La risposta te la danno l'articolo 136 della Costituzione e l'articolo 30 della legge 11 marzo 1953 n. 87. L'articolo 136 nel suo primo comma così recita: “Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.Per il citato art. 30, poi “quando in applicazione della norma dichiarata incosittuzionale é stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali”.

Discente: Quindi in buona sostanza, nel caso che la Sentenza dichiari l'illegittimità di una “norma incriminatrice”, la soluzione adottata, dagli artt. 136 e 30, é speculare a quella adottata dal secondo comma dell'articolo 2: la sentenza della Corte ha effetto, non solo retroattivo, ma iperetroattivo, dato che travolge eventuali sentenze precedenti di condanna. E la cosa mi sembra piuttosto logica.Ma nel caso che la Sentenza della Corte dichiari l'illegittimità, non di una norma “incriminatrice”, non di una norma che disponeva sul an puniendum, ma sul quantum o sul quomodo puniendum sit (ad esempio, una norma che stabiliva una

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circostanza aggravante)? in tal caso la Sentenza avrà ancora effetto retroattivo, travolgerà ancora la eventuale sentenza di condanna che abbia tenuto conto della norma abrogata (ad esempio, aumentando la pena in applicazione della norma dichiarata illegittima)?

Docente: Io anche qui adotterei una soluzione in armonia con l'articoo 2, in particolare col suo quarto comma, e risponderei sì alla tua prima domanda e no alla seconda.

Discente: Questa potrebbe essere una soluzione valida nel caso che la norma dichiarata incostituzionale fosse una norma sfavorevole al reo; ma sarebbe ancora valida nel caso che la norma fosse, non sfavorevole, ma favorevole al reo (ad esempio prevedendo una causa di giustificazione)? anche in tal caso la sentenza della Corte avrebbe efficacia retroattiva, il che in pratica significherebbe che verrebbe punito o più gravemnete punito un fatto commesso quando ancora la Sentenza della Corte non era pubblicata.?

Docente: Io adotterei questa soluzione: escluderei che la Sentenza della Corte agisca retroattivamente nel caso in cui ciò comporterebbe la punibilità di un fatto anteriormente non punito, dato che in tale caso la retroattività contrasterebbe con una norma di livello costituzionale, l'articolo 25 della Costituzione; ammetterei la retroattività negli altri casi, in cui la retroattività viene a contraddire solo norme ordinarie (anche se, debbo riconoscerlo, tale seconda soluzione é disarmonica con quanto dispone il quarto comma dell'articolo 2).

Lezione 5 - L'obbligatorietà della legge penale – Le.c.d. “immunità” – Locus comissi delicti

Docente: I limiti all'obbligatorietà della legge penale sono posti dall'articolo 3, che recita: “La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite del diritto pubblico interno o dal diritto internazionale”.

Discente: Sì, ma che significa dire che una data norma - ad esempio l'articolo 581, che punisce “chiunque percuote taluno con la reclusione fino a sei mesi”- obbliga tutti, cittadini o stranieri che siano?

Docente: Significa due cose: prima, che, il comportamento vietato dalla norma, si considera lesivo di un bene e di un bene meritevole di tutela, chiunque sia chi tiene

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tale comportamento e chiunque sia chi lo subisce; seconda, che tale comportamento va punito, qualunque sia chi l'ha tenuto, chiunque sia chi l'ha subito. Per rifarci all'esempio da te fatto, percuotere una persona va considerato una violazione dell'articolo 1, qualunque sia la nazionalità di chi percuote e di chi é percosso.

Discente: Questo vale anche se le percosse sono date da Mohamed, la cui mentalità ha radici in una cultura, che ritiene addirittura doverose le correzioni fisiche inflitte dal marito alla moglie e sono subite da Miriam che, alla stessa cultura appartenendo, poco stimerebbe il marito che non la percuotesse?

Docente: Tale é chiaramente la volontà del nostro Legislatore, come risulta dall'articolo 3 sopra riportato.

Discente: Ma il nostro Legislatore considererà il povero Mohamed meritevole di una pena più lieve, anzi molto più lieve di quella prevista dall'articolo 581.

Docente: Per nulla, infatti l'articolo 3 viene nel Codice integrato dalla disposizione del primo comma dell'articolo 6, che recita: Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato é punito secondo la legge italiana”. Ciò significa che pure il quantum di pena andrà misurato secondo i valori espressi dalla legge nazionale.

Discente: Fortunatamente nel nostro Codice c'é anche un articolo 132, che dà al giudice un potere discrezionale nello stabilire la pena (per cui nel caso di Mohamed la potrà tenere nel minimo) e fortunatamente l'articolo 581 prevede la procedibilità del reato di percosse solo su querela della parte offesa (querela che, certamente, Miriam, da brava moglie, si asterrà dal proporre)

Docente: Ma non per tutti i reati la pena é stabilita tra un minimo e un massimo e non tutti i reati sono procedibili a querela. Quindi può effettivamente dirsi che le disposizioni, dell'articolo 3 e dell'articolo 6, sopra riportate, accolgono integralmente il c.d. “principio di universalità della legge penale” - il principio, cioé, che vuole che i valori espressi dalla legge penale sian ritenuti validi per tutti, qualunque sia la loro razza, il loro sesso, la loro religione, le loro idee politiche. Ciò a sua volta in piena linea con il co. 1 art 3 della Costituzione, che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Discente: Ma l'articolo 3 si applica solo al cittadino.

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Docente: Ciò non sarebbe molto logico: se infatti, tu, legislatore costituzionale, vuoi riservare lo stesso trattamento a Mohamed, cittadino italiano ma di religione Musulmana e a Bianchi, cittadino italiano, ma di cultura laica, non puoi non volere anche riservare lo stesso trattamento a Mohamed, cittadino dell'Arabia Saudita e di religione musulmana e a Bianchi cittadino italiano ma di cultura laica.

Discente: Comunque sia, quel che importa é che, del principio di universalità, il Legislatore fa applicazione solo per coloro che “si trovano nel territorio dello Stato” e che anche per tal caso prevede delle eccezioni: parliamo di queste.

Docente: Diciamo prima tutto che queste eccezioni, che portano a configurare delle “immunità” nei confronti di certe persone, in quanto rappresentano deroghe a un principio costituzionale (quello di eguaglianza di tutte le persone di fronte alla legge), per essere ritenute legittime, debbono potersi ricavare da una legge costituzionale.

Discente: E le immunità dal nostro Ordinamento previste, si possono?

Docente: Direi di sì. Infatti le c.d. “immunità di diritto interno”- e mi riferisco alle immunità di cui godono, sia pure con diversa ampiezza, il Presidente della Repubblica, i Parlamentari, i Consiglieri delle Regioni, i Membri della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura - sono tutte stabilite da leggi costituzionali (ad esempio, l'immunità del Presidente della Repubblica é data dall'art. 90, quella dei Parlamentari, dall'art. 68, quella dei Consiglieri regionali, dall'art. 122).

Discente: E come si giustificano le deroghe (al principio di eguaglianza) apportate da queste immunità di diritto interno?

Docente: Generalmente si giustificano con il difetto di lesività dell'azione, compiuta in violazione della norma penale. Ad esempio, il Parlamentare che, esprimendo la sua opinione in un dibattito parlamentare, critica aspramente la condotta del Presidente della Repubblica, può con ciò anche offendere il prestigio di questo, ma per impedirglielo non può essere invocato l'art. 278 (che punisce le offese al prestigio del Presidente) perché la sua condotta, non solo non é dannosa, ma é utile alla Società (dato che é utile al buon governo della cosa pubblica che eventuali manchevolezze del Presidente vengano denunciate).

Discente: E da questa mancanza di lesività dovrà trarsi la conseguenza che (non solo l'azione del parlamentare non può venire punita, ma): nessuno può intervenire

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per impedire che sia compiuta, che chi collabora al suo compimento non risponde per “concorso nel reato”, che infine nessun obbligo di risarcimento ne deriva: é così?

Docente: E' così. Però é così solo se tale azione di critica viene compiuta dal Parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni; se, ad esempio, egli offendesse il Presidente della Repubblica durante un dibattito televisivo, tale azione, invece, il Codice penale, verrebbe a violare.

Discente: Quindi, il Parlamentare, potrebbe essere per tale azione processato.

Docente: Sì, ma nei limiti permessi dalla particolare immunità di cui gode, per il secondo e terzo comma dell'articolo 68 della Costituzione. Immunità che, però, non costituisce un'eccezione al principio della obbligatorietà della legge penale; tanto é vero che l'azione, compiuta (in violazione della legge penale) dal parlamentare fuori dell'esercizio delle sue funzioni (vedi meglio, il co.1 art.68), non solo va punita, ma dalla Forza Pubblica può essere impedita (senza che a ciò occorra l'autorizzazione della Camera, mentre questa autorizzazione invece occorrerà: per procedere alla privazione della libertà del parlamentare ai fini cautelari, per procedere a delle “intercettazioni” - vedi meglio l'articolo 68).

Discente: Ma anche se non riguarda l'argomento della presente lezione, puoi dirmi la giustificazione di questa immunità.

Docente: Questa immunità – che rientra nella categoria delle c.d. “immunità processuali”, cioè delle immunità che non costituiscono deroga al principio della obbligatorietà erga omnes della legge penale, ma rappresentano semplicemente un'autolimitazione, che lo Stato fa, del suo potere giurisdizionale – si giustifica con la necessità di proteggere il parlamentare da vere e proprie persecuzioni giudiziarie: in buona sostanza, chi viene a ricoprire certe cariche, rischia con ciò stesso di essere preso di mira dai suoi avversari politici (che potrebbero annidarsi anche negli uffici del Pubblico Ministero) con azioni giudiziarie – azioni giudiziarie, bada, non necessariamente infondate (ahimè, la vita di ben pochi, se posta sotto i riflettori della Giustizia, si rivelerebbe senza macchie! chi mai, anche se è stato rispettoso delle leggi tributarie, non aspetta con trepidazione una ispezione della Finanza?!), ma che non sarebbero mai state promosse, se lui non fosse sceso nell'arengo politico Quindi l'immunità processuale concessa al Parlamentare serve, sì, da una parte, a proteggerlo, ma anche ad evitare, che persone anche valenti si astengano dal partecipare alla vita politica, per non esporsi al pericolo di una condanna penale.

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Discente: Tutto questo per quel che riguarda le immunità che hai chiamate di diritto interno; ma da quel che ho capito vi sono anche altri tipi di immunità.

Docente: Sì, ci sono le “immunità di diritto internazionale”. Esse, come quelle “di diritto interno”, possono essere processuali (nel senso che escludono che, chi ne gode, possa essere sottoposto a un processo – ne sono esempi le immunità di cui godono gli agenti consolari e le forze militari NATO di stanza in Italia) o sostanziali (nel senso che escludono, che, chi ne gode, possa essere sottoposto al potere coercitivo dello Stato ai fini dell'esecuzione di una pena – ne sono esempi, le immunità di cui godono i Capi di Stato, in primis il Pontefice, e gli agenti diplomatici).

Discente: L'eccezione, al principio dell'eguaglianza di tutti davanti alla legge, come si giustifica nel caso delle immunità sostanziali, di cui ora hai fatto cenno?

Docente: Con il disposto dell'ultima parte dell'art.11 della Costituzione, là dove dice che l'Italia può “consentire, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. E infatti l'autolimitazione dei suoi poteri, che lo Stato compie concedendo tali immunità, é necessaria per permettergli relazioni internazionali utili e serene (quale mai Capo di Stato verrebbe in Italia, se avesse a temere che, giuntovi, gli potrebbero scattare le manette ai polsi?!).

Discente: Ma se un Carabiniere vedesse il Capo di uno Stato estero puntare la pistola verso una persona per ucciderla, potrebbe impedirglielo?

Docente: Certo che sì: l'immunità in parola significa solo che, chi ne gode, non può essere punito, ma non esclude che non gli possa essere impedita la violazione della legge né che da questa gli possa derivare un obbligo risarcitorio e neanche che, chi concorre con lui in tale violazione, venga punito.

Discente: - L'articolo 3, che stiamo commentando, fa riferimento ai “cittadini” e al territorio dello Stato”, ma non ne definisce il concetto.

Docente: Lo definisce l'art.4, che recita: “Agli effetti della legge penale, sono considerati cittadini (….) gli appartenenti per origine o per elezione ai luoghi soggetti alla sovranità dello Stato e gli apolidi residenti nel territorio dello Stato.Agli effetti della legge penale, é territorio dello Stato il territorio della Repubblica (…) e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Le navi e gli aeromobili

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italiani sono considerati come territorio dello stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge straniera”.

Discente: Ti confesso che non tutto mi é chiaro nelle definizioni che dà l'articolo 4: quando una persona “appartiene per origine o per elezione a un luogo soggetto alla sovranità dello Stato”?

Docente: Per una risposta esauriente ti debbo rinviare alla legge sulla cittadinanza; qui sbrigativamente ti posso dire che, per un caso di appartenenza a titolo originario, devi pensare alla nascita da un genitore italiano e, per un caso di appartenenza a titolo elettivo, devi pensare al matrimonio di uno straniero con un cittadino italiano o alla “naturalizzazione” dello straniero su sua richiesta.

Discente: Ora, per quel che riguarda chi deve essere considerato cittadino, ho almeno le idee più chiare. Chiaro, poi, e non necessitante di spiegazioni, mi pare il concetto di “territorio dello Stato” : territorio dello Stato é quello spazio in cui lo Stato si riserva di esercitare il suo potere coercitivo in situazione, diciamo così, di monopolio, cioé con esclusione di ogni altro potere coercitivo (“in questo spazio, comando io, e solo io, Stato Italiano, e a voi, Stato Argentino, Stato Francese eccetera, non vi permetto di esercitarvi un qualsiasi potere coercitivo, senza la mia autorizzazione). Ho detto bene?

Docente: Come al solito, hai detto benissimo. Però avresti detto ancora meglio, se avessi posto nel dovuto risalto che, se lo Stato accetta di autolimitare i suoi poteri coercitivi nell'ambito dei confini che racchiudono un dato territorio, egli lo fa allo scopo di creare, come vuole l'articolo 11 della Costituzione, un “ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni”. Questo é importante, perché (sia pure in modo indiretto) giustifica costituzionalmente, sia la deroga agli articoli 3 e 24 co.1 Cost. (nella parte in cui rispettivamente esprimono il principio di eguaglianza davanti alla legge e il diritto di ogni persona, cittadino o straniero, ad essere tutelata dallo Stato nei suoi diritti), che opera quella sorta di “immunità” che, come vedremo, la legge riserva a certi reati commessi “fuori del territorio dello Stato”, sia la deroga all'articolo 25 Cost. (nella parte in cui esclude che la punibilità di una persona sia rimessa alla discrezionalità di un organo del potere esecutivo) che, sempre come vedremo, la Legge opera facendo dipendere dalla discrezionalità del Ministro della Giustizia la punibilità di certi reati commessi “fuori del territorio dello stato”.

Discente: Dunque lo Stato Italiano riserva, un diverso trattamento alle violazioni della sua legge penale, a seconda che esse siano, o no, compiute nel territorio dello Stato.

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Docente: Sì, e questo risulta già, sia pure indirettamente, dal secondo comma dell'articolo 3, il quale recita: “La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano all'estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale”.

Discente: Quindi alcune violazioni della legge penale commesse all'estero non vengono dallo Stato punite: come si spiega ciò?

Docente: Soprattutto con le ragioni che ora passo ad elencarti:I- Il deficit di potere coercitivo, conseguente alla autolimitazione dello Stato di cui sopra si é detto: é inutile minacciare una pena, che non si é in grado di eseguire.II.- La difficoltà, per chi si trova all'estero, di conoscere la legge italiana. Difficoltà senza dubbio molto maggiore per lo straniero (si pensi a un orientale, nella cui cultura probabilmente non rientrano quei valori, che per noi occidentali giustificano la illiceità di certi fatti), ma che potrebbe avere anche il cittadino da molto tempo lontano dall'Italia. Proprio in considerazione di tale difficoltà, da molti studiosi, pur nel silenzio della legge, si subordina la punibilità del reato commesso all'estero alla c.d. “doppia incriminazione”: il fatto commesso deve risultare punito, oltre che dalla legge italiana, anche dalla legge del luogo in cui l'azione fu commessa (peraltro erroneamente, da tali Studiosi, si giustifica, la necessità della doppia incriminazione, col fatto che questa é voluta dall'art.13 per l'estradizione in uno Stato estero : infatti, nell'ambito dell'istituto dell'estradizione, la regola della “doppia incriminazione” svolge la funzione di impedire, che sia condannata all'estero una persona, ritenuta non meritevole di pena in Italia; quando, invece, si subordina la punibilità alla doppia incriminazione, si vuole impedire tutt'altra cosa: cioè che una persona venga punita per un fatto di cui, per non essere esso considerato meritevole di pena nel Paese estero, non era in grado di avvertire quella antisocialità ritenuta al contrario dalla legge penale italiana).III.- La difficoltà di raccogliere le prove su fatti avvenuti in un territorio in cui lo Stato non può esercitare liberamente i suoi poteri di coercizione e di investigazione.

Discente: Tu hai spiegato perché, come prevede il secondo comma dell'art.3, non tutti i fatti commessi all'estero siano puniti in base alla legge penale italiana,; ora devi spiegare perché, come prevede il primo comma dello stesso articolo, tutti i fatti commessi nel territorio italiano debbano essere puniti dalla legge italiana. Perché, io lo capisco, é senz'altro giusto che lo Stato tuteli penalmente i cittadini italiani e gli stranieri ospiti dell'Italia, ma perché tutelare il signor Mohamed, che in Italia vive (non come ospite, ma) come abusivo, dall'azione violenta, metti, del signor Alì? Che può importare allo Stato Italiano dei danni che possono capitare in Italia al signor

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Mohamed?

Docente: Può importare invece, perché ogni reato – oltre al c.d. “danno criminale” (consistente nella lesione dell'interesse ritenuto meritevole di tutela dalla norma penale) – provoca quello che il grande Carrara chiamava il “danno mediato”- il danno cioé consistente, sia nel fatto che il pubblico é portato all'imitazione, quindi anche all'imitazione di un fatto criminoso, specie se vede la Forza pubblica assistervi inerte (in altre parole, ogni fatto in spregio alla norma penale, che rimane impunito, diminuisce l'efficacia della intimidazione), sia negli altri fatti illeciti, che l'impunità del fatto lesivo può scatenare (per ritorsione, per rappresaglia....).Inoltre devi tenere presente, che lo Stato italiano ha interesse alla tutela, non solo dello straniero che si trova nel territorio italiano (anche abusivamente), ma addirittura di chi (straniero o no) si trova nel territorio di un altro Stato, per l'aspettativa di reciprocità, che gliene deriva: io, Stato italiano, impedisco (con la minaccia di una pena) a Bacciccia di prendere a pugni, in quel di Genova, il cittadino spagnolo Francisco, oppure impedisco a Orsini di spedire dall'Italia la bomba che scoppierà a Madrid, contando che Tu, Stato Spagnolo, renda il favore impedendo a Francisco di prendere a pugni Bacciccia, se mai questo si recherà in Spagna, o a Guevara di spedire dalla Spagna una bomba a Roma.

Discente: Dagli esempi da te fatti, sembrerebbe che un fatto si considera commesso nel territorio dello Stato, anche se i suoi effetti dannosi li produce in territorio straniero.

Docente: Ed é così; ma a questo punto mi accorgo di averti anticipato delle nozioni, che ti possono riuscire chiare solo dopo aver fatto la conoscenza del secondo comma dell'articolo 6, che recita: “Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l'azione o l'omissione che lo costituisce é ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si é verificato l'evento che é la conseguenza dell'azione od omissione”.

Discente: Quindi un reato si considera commesso in Italia sia che in Italia sia stata compiuta la sola azione sia che in Italia si sia verificato il solo evento?

Docente: Sì, il nostro legislatore - dopo aver disatteso, sia la teoria dell'evento, secondo la quale uno Stato ha motivo di punire solo i fatti che producono nel suo territorio l'evento lesivo (del bene da lui tutelato con la norma penale), sia la teoria dell'attività, secondo cui uno Stato ha motivo di punire solo le azioni che si compiono nel suo territorio – ha aderito alla teoria della ubiquità, secondo la quale uno Stato ha motivo di punire, sia chi ha compiuto nel suo territorio solo l'azione

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(l'evento lesivo essendosi verificato in territorio di altro Stato) sia chi ha compiuto nel territorio di altro Stato un'azione che ha prodotto l'evento lesivo nel suo territorio.

Discente: La soluzione adottata dal nostro Legislatore mi sembra giustissima: se una persona ha commesso nel territorio dello Stato la sola azione, merita di essere punita, per le ragioni che tu prima hai esposte; se ha commesso in territorio estero l'azione, ma questa ha prodotto i suoi danni nel territorio dello Stato, di nuovo merita di essere punita.... per intuitivi motivi: é giusto, o no, che io punisca chi tira pietre alle mie finestre anche se le tira dal fondo vicino?! La risposta positiva mi sembra chiara, semplice, intuitiva.

Docente: Ahimè, le cose non sono così semplici, come tu le fai: sarebbe senz'altro giusto che il nostro Legislatore punisse chi, ancorché con un'azione commessa tutta in territorio estero, producesse danni che vengono risentiti nel territorio dello Stato italiano; ma se così disponesse, il nostro Legislatore verrebbe ad ampliare troppo il ventaglio dei reati da lui direttamente punibili: forse che Francisco, che ruba centomila euro a Bacciccia in gita turistica a Madrid, non compie un'azione che produce danni in Italia? Certo che sì: Bacciccia, partendo per la Spagna, aveva un patrimonio di un milione, invece, al suo ritorno, si troverà ad avere solo un patrimonio di novecentomila euro: il furto di Francisco danneggia Bacciccia, e quindi la Comunità (italiana) a cui Bacciccia appartiene, né più né meno che fosse avvenuto, non in Spagna, ma in Italia. E se Bacciccia a Madrid, non fosse stato derubato, ma leso? Anche qui il discorso mutatis mutandis giungerebbe alla conclusione di prima: Bacciccia era partito con due braccia, al suo ritorno si ritrova con un braccio solo: ciò peserà, sia su di lui sia su tutta la Comunità nazionale (che dovrà provvedere alle sue cure e alla sua assistenza) né più né meno che la lesione fosse avvenuta in Italia. Tutto questo é vero e ben giustificherebbe la punizione di ogni reato, che, pur commesso all'estero, ledesse l'interesse dello Stato o di un cittadino italiano; ma a tale soluzione si oppone come un macigno il fatto, che il Legislatore (per le ragioni sopra indicate) non può ampliare troppo il ventaglio dei reati, da lui direttamente perseguibili.Pertanto l'art. 5, quando parla di “evento”, va interpretato - non nel senso, che vi é “evento” quando semplicemente vi é lesione dell'interesse tutelato dalla norma penale (evento = danno criminale, secondo la concezione “giuridica” che, dell'evento, hannc non pochi Studiosi) - ma nel senso, che vi é evento solo quando si verifica una modificazione del mondo esterno (concezione naturalistica dell'evento) - modificazione, ben s'intende, che appaia come un cambiamento in peius (quindi, come un danno) a chi la percepisce (pensa alla morte di una persona, alla distruzione di una cosa...), e che pertanto (rivelando un qualche cosa

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di anomalo nella vita sociale) crei tra la gente quell'allarme, a cui lo Stato non può esimersi dal dare una risposta con la punizione del reo, anche se la azione di questi é avvenuta all'estero.

Discente: Dunque gli altri reati, che non producono nel territorio dello Stato un evento nel senso da te ora chiarito (un evento naturalistico), non vengono puniti, anche se ledono un interesse dello Stato o di un cittadino, se l'azione o l'omissione del reo é compiuta all'estero.

Docente: No, vengono puniti, ma, salvo alcuni, solo a certe condizioni. Discente: A quali condizioni?

Docente: Te lo dirò; distinguendo, allo scopo, quattro categorie di reati.

Discente: Comincia a dire della prima categoria.

Docente: Essa é data da quei reati che il legislatore ritiene punibili a prescindere da quella richiesta del Ministro della Giustizia o da quella presenza del reo nel territorio dello Stato, che, invece, come vedremo, condizionano la punibilità degli altri reati.

Discente: Come si spiega questo?

Docente: Si spiega evidentemente col fatto che si tratta di reati, che non solo il legislatore ritiene di rilevante gravità, ma la cui gravità ritiene di poter valutare direttamente (senza necessità di delegare ad hoc un suo organo, come il Ministro della giustizia) in base al bene da essi leso - e infatti tali reati sono individuati, (non genericamente con riferimento alla pena, come,vedremo, avviene per la stragrande maggioranza degli altri reati, ma) specificatamente, appunto con riferimento al bene da essi offeso.Come ti risulta dall'articolo 7, che così li elenca:“E' punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero taluno dei seguenti reati:1) delitti contro la personalità dello Stato italiano;2) delitti di contraffazione del sigillo dello stato e di uso di tale sigillo contraffatto;3) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano;4) delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni;

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5) ogni altro reato per il quale speciale disposizioni di legge, o convenzioni internazionali stabiliscono l'applicabilità della legge penale italiana”.

Discente: Puoi fare un esempio di reato previsto da una norma speciale, come detto al numero 5 dell'articolo?

Docente: Pensa al reato previsto dall'art. 501 (la diffusione di notizie false eccetera al fine di deprimere i mercati delle merci e dei valori eccetera eccetera).

Discente: E in effetti questo reato ben merita di essere punito, anche se commesso all'estero, dato che esso, ciò nonostante, finisce per produrre gravi danni anche all'interno del territorio italiano. Vediamo ora i reati della seconda categoria.

Docente: Essi sono rappresentati dai “delitti politici”; quindi si tratta, in buona sostanza, di reati individuati, come quelli dell'articolo 7, specificatamente, in base al bene da essi offeso; diversamente, però, da quelli previsti dall'articolo 7, sono punibili solo a richiesta del Ministro della Giustizia. Ciò risulta dall'articolo 8, che così recita:“Il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel numero 1 dell'articolo precedente, é punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia.Se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa, occorre, oltre tale richiesta, anche la querela.Agli effetti della legge penale, é delitto politico ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. E' altresì considerato politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici”.

Discente: Dunque, nel suo terzo comma, l'articolo 8 dà una definizione di “delitto politico”, a valere, non solo ai fini di stabilire la punibilità di un reato commesso all'estero, ma, più in generale, ai fini dell'interpretazione di ogni altra norma penale: quando, pertanto, una norma penale parla di “reato politico” io devo intendere che usi tali parole nel significato loro attribuito dall'articolo 8. Ho capito bene?

Docente: Hai capito benissimo.

Discente: Ma quanto ora detto, vale anche per l'interpretazione delle norme costituzionali, in particolare degli articoli 10 e 26 della Costituzione (che negano l'estradizione per “reati politici”, rispettivamente, dello straniero e del cittadino)?

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Docente: Non manca chi lo sostiene; ma, io ritengo, infondatamente, dato che, far dipendere il significato di una norma costituzionale dal significato dato alle parole in essa usate da una norma ordinaria, vorrebbe dire sostituire, almeno in parte, alla volontà del legislatore costituzionale, quella del legislatore ordinario.Chiarito questo, va subito rilevato che il terzo comma dell'art.8 distingue tra delitto oggettivamente politico e delitto soggettivamente politico.

Discente: Che si intende per delitto oggettivamente politico?

Docente: Si intende quel delitto che offende, o un “diritto politico del cittadino” (cioé il diritto del cittadino a concorrere alla formazione della volontà politica dello Stato con i mezzi che a tale scopo gli offre la legge) o un “interesse politico dello Stato” (cioè l'interesse dello Stato, alla indipendenza, all'integrità del proprio territorio, alla libera formazione e attuazione della sua volontà politica tramite i suoi organi; in sintesi, l'interesse, che ha lo Stato e che la legge tutela, a perseguire i suoi scopi politici nella pienezza delle sue forze).

Discente: Puoi darmi un esempio di reato che lede un interesse politico dello Stato.?

Docente: Oltre a tutti i reati di cui al titolo II del Codice (reati contro la personalità dello Stato) puoi pensare, a un reato di minacce fatto per indurre un Ministro (dello Stato italiano) a stipulare un trattato contrario agli interessi nazionali. Oppure a un danneggiamento dei microfoni fatto per sabotare il discorso di un Ministro (dello Stato italiano) a una conferenza internazionale.

Discente: Anche un atto inteso a limitare la libertà di un organo giudiziario, può costituire, un delitto politico?

Docente: La maggioranza degli studiosi risponde di no. Io invece non mi sento di escludere una risposta positiva (perchè non dovrebbero essere considerate un delitto politico le minacce rivolte a un giudice perché revochi una misura cautelare presa contro una personalità politica accusata di un delitto politico?).

Docente: Fai ora un esempio di reato che lede un “diritto politico del cittadino”.

Docente: Facile, le minacce fatte a un cittadino a che ritiri la sua candidatura a una carica elettiva o perché si astenga dal voto.

Discente: Abbiamo visto cosa si intende per delitto oggettivamente politico,

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vediamo ora cosa si intende per delitto soggettivamente politico.

Docente: Si intende il delitto “determinato, in tutto o in parte da motivi politici”; cioé posto in essere allo scopo di conquistare o conservare il potere politico: ad esempio l'uccisione di un leader politico al fine di indebolire un partito avversario.

Discente: A me sembra che, la categoria del delitto soggettivamente politico, renda perfettamente inutile quella del diritto oggettivamente politico: infatti ogni delitto commesso per offendere un interesse politico dello Stato o un diritto politico non può non essere mosso da un movente politico.

Docente: Non é detto: io potrei impedire l'esercizio del voto di una persona, non per motivi politici, ma semplicemente per estorcere del denaro (“se vuoi votare mi devi dare tot”).

Discente: Torniamo a...bomba; fino ad adesso abbiamo parlato del delitto politico in via generale: parliamone ora con preciso riferimento al disposto del primo comma dell'art.8: perché il legislatore ha ritenuto opportuno rimettere alla discrezione del Ministro della Giustizia la punibilità del delitto politico?

Docente: Perché la punizione di tale delitto può avvenire anche in deroga ai criteri adottati per i reati comuni (che invece la escluderebbero: riandiamo ad un esempio prima introdotto: Bianchi sequestra Rossi per impedirgli di votare a meno che non gli dia del denaro; orbene Bianchi, che, per l'articolo 9, come vedremo, non potrebbe essere sottoposto a processo se non presente in Italia, lo potrebbe comunque essere per l'articolo 8); ora, questa deroga, é giustificata da due elementi (il carattere politico dell'interesse leso e il movente politico), la cui valutazione, dando ampio spazio alla discrezionalità di chi la compie e dovendo essere fatta tenendo presenti idee e interessi del universo politico, é opportuno sia fatta da chi, come il Ministro, può essere chiamato a risponderne davanti a un organo dalla spiccata sensibilità politica qual'é il Parlamento.

Discente: Non può essere che il Legislatore rimetta al Ministro, non delle valutazioni di natura politica, o, almeno, non solo delle valutazioni di natura politica, ma delle valutazioni, o anche delle valutazioni sulla fondatezza delle denunce presentate (contro chi si assume aver compiuto un delitto politico)?

Docente: Lo negherei, sia perchè, il più indicato a compiere tale tipo di valutazioni, dovrebbe ritenersi un appartenete all'Ordine giudiziario (il Pubblico Ministero, oppure, così come avviene nelle procedure di estradizione, la Corte di Appello), sia

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perchè, se così fosse, ci si dovrebbe aspettare che anche per tutti i reati comuni il Ministro fosse chiamato a compiere tali valutazioni – il che, come vedremo, non é, la richiesta del Ministro non essendo necessaria per una importantissima categoria di reati, quelli commessi da un cittadino in danno di altri cittadini).

Discente: Mettiamoci in questo caso: il Ministro, valutato bene il fatto, giunge alla conclusione che esso é di scarsissimo peso politico e quindi non fa la richiesta necessaria per la sua punizione; tale fatto però in base agli articoli 9 e 10 sarebbe punibile: che si fa, lo si punisce, o no?

Docente: Lo si punisce: non c'é ragione che un fatto, metti un omicidio, non sia punito perchè …......dettato da movente politico: l'incipit degli artt. 9 e 10 va interpretato (restrittivamente) cioè solo nel senso che, i fatti previsti come punibili da tali articoli solo a certe condizioni, se configurano uno dei reati previsti dagli artt. 7 e 8, sono punibili anche in difetto di tali condizioni.

Discente: Veniamo alla terza categoria di reati (in danno dello stato o del cittadino) punibili ancorchè commessi all'estero.

Docente: Con tale categoria di reati io mi voglio riferire a quei reati previsti, dal primo e secondo comma dell'articolo 9, così recitando: “Il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce l'ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, é punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato.Se si tratta di delitto per cui é prevista una pena restrittiva della libertà personale di minore durata, il colpevole é punito a richiesta del Ministro della giustizia, ovvero a istanza o a querela della persona offesa.”Quindi per l punibilità del reato comune, commesso dal cittadino in danno dello Stato italiano o di altro cittadino, occorre che:- si tratti di delitto (punito con l'ergastolo o con la reclusione, non con la sola multa);- il reo “si trovi nel territorio dello Stato”;- se si tratta di reato procedibile a querela, questa sia stata proposta (non bastando la richiesta del Ministro – argomento dal co.2 art.8);- se si tratta di reato procedibile d'ufficio e punibile con la reclusione inferiore nel minimo a tre anni, vi sia la richiesta del Ministro oppure un'istanza ad hoc della parte offesa.

Discente: Non mi é chiaro che cosa voglia il Legislatore, subordinando, la procedibilità contro il reato, al fatto che il reo “si trovi nel territorio dello Stato. Mi

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pare infatti che al proposito si possano fare ben quattro ipotesi; e, più precisamente, che si possa ritenere che basti, per la procedibilità, che il reo si trovi nel territorio dello Stato: prima ipotesi, al momento della conclusione del giudizio; seconda ipotesi, al momento dell'inizio del processo e per tutta la sua durata; terza ipotesi, al momento dell'inizio del processo, nulla rilevando che la sua presenza venga a mancare nel suo corso; quarta ipotesi, in un qualsiasi momento anche anteriore all'inizio del processo, nulla rilevando che, al momento dell'inizio di questo, nel suo corso o nella sua conclusione, venga a mancare. Ovvia la domanda: quale delle quattro ipotesi corrisponde alla volontà legislativa?

Docente: Secondo me nessuna delle tre prime ipotesi da te fatte può ritenersi corrispondente alla volontà legislativaNon la prima: infatti sarebbe assurdo che un giudice fosse costretto a spendere tempo e fatica per fare un processo per poi accorgersi, giunto alla sua conclusione, che.... il reo (subdorando l'esito per sé infausto?) ha fatto mancare la sua presenza e quindi la possibilità di una sua condanna: chiaramente la presenza del reo é una condizione di procedibilità e le condizioni di procedibilità debbono esistere all'inizio del processo (altra questione, che però qui non rileva, é se la mancanza di una “condizione” all'inizio del processo determini la nullità degli atti ciò nonostante compiuti, anche qualora essa sopravvenga nel corso del processo).Come la prima neanche la seconda ipotesi può ritenersi corrispondente alla volontà legislativa: infatti, una volta che il giudice ha legittimamente cominciato a spendere la sua attività, non si può rimettere alla discrezione del reo di renderla inutile, semplicemente facendo mancare la sua presenza nell'ulteriore corso del processo.Veniamo alla terza ipotesi. Essa é certamente meno assurda delle due precedenti, ma, a guardar bene, neanche essa è accettabile, dato che, accettandola, si costringerebbe il giudice a verificare, nel momento (preciso!) in cui compie il primo atto del processo, se esiste, quella presenza del reo nello Stato, che lo legittima – cosa tutt'altro che facile: sì, la Polizia ha riferito, a me, giudice, che il reo ieri era presente nel territorio dello stato, ma vi sarà ancora oggi, giorno in cui dovrei compiere l'atto processuale?!.Non resta dunque che ritenere come corrispondente alla volontà legislativa, solo la quarta ipotesi: é sufficiente per la punibilità del reo che in un qualsiasi momento, anche anteriore all'inizio del processo, si sia trovato nel territorio dello Stato (poco rilevando che vi si sia trovato al suo inizio, nel suo corso o nella sua conclusione).

Discente: A questo punto resta da dire perchè mai il legislatore subordina la procedibilità contro il reo a questa condizione?

Docente: Evidentemente perché così ottiene di minacciare il reo: “Guarda, se torni

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in Italia ti aspetta il processo e la galera”; in altre parole il legislatore vuol porre al reo l'alternativa o l'esilio o la galera

Discente: Forse questa sarebbe una soluzione non contraria alla logica, ma molte volte risulterebbe contraria alla giustizia: Fulano ha ucciso (all'estero), non é molto giusto concedergli l'impunità solo perché si guarda bene dal venire in Italia!

Docente: Sì, lo riconosco la soluzione la soluzione adottata non è per nulla giusta; ma non lo sarebbero neanche le altre soluzioni (prima passate in rivista e scartate).

Discente: Altra domanda: della necessità della presenza del reo si parla solo nel primo comma: ciò significa che qualora si tratti di reati puniti con pena inferiore ai tre anni, per la procedibilità, non occorre la presenza del reo?

Docente: A questa tua domanda autorevolmente si dà risposta negativa; ritenendosi assurdo che sia subordinata alla presenza del reo la procedibilità per i reati più gravi e non quella per i reati meno gravi. A me, a dir il vero, la cosa tanto assurda non pare.

Discente: Parliamo ora della quarta categoria di reati, che pur commessi all'estero, hanno arrecato danno allo Stato Italiano o a dei cittadini.

Docente: La particolarità dei reati di questa categoria, rispetto a quelli della categoria precedente, é che ne é autore, non il cittadino, ma lo straniero. La disposizione da prendere in esame é il primo comma dell'art. 10, che recita: “Lo straniero, che, fuori dei casi indicati negli articoli 7 e 8, commette in territorio estero, a danno dello Stato o di un cittadino, un delitto per il quale la legge italiana stabilisce l'ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, é punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato, e vi sia richiesta del Ministro della giustizia, ovvero istanza o querela della persona offesa”.Quindi lo straniero che commette un reato contro lo Stato italiano o un cittadino é punito, sempre che:1) si trovi nel territorio dello Stato (nel senso già spiegato commentando l'articolo 9);2) si tratti di delitto punibile con l'ergastolo o la reclusione non inferiore a un anno;3) se si tratta di reato perseguibile a querela, questa sia proposta (e,si badi, nonostante la lettera della legge, la querela non potrebbe essere surrogata dalla richiesta del Ministro – arg. ex co.2 art.8);4) se si tratta di resto procedibile d'ufficio, vi sia una richiesta del Ministro ovvero un'istanza della parte offesa.

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Discente: Con ciò abbiamo visto quando sono punibili i reati che, pur commessi all'estero, offendono lo Stato o un cittadino italiano; ma lo Stato italiano punisce anche i reati commessi in terra straniera e in danno di uno straniero? Mi sembrerebbe strano: in fondo che danno ha procurato allo Stato italiano il fatto che un italiano, il sig. Baccicia, abbia ritenuto bene di ingiuriare e prendere a schiaffi in Spagna uno spagnolo, il sig, Francisco, o il fatto che al sig Mobutu sia piaciuto di rapinare in Uganda un suo connazionale?

Docente: E invece anche in tali casi un danno per lo Stato italiano si verifica; perché: - il reato del cittadino all'estero crea rancore e risentimento verso tutti i cittadini (che vengono equiparati in un giudizio negativo al connazionale che all'estero si é comportato scorrettamente o peggio) e verso lo Stato (che non intervenga per punire il malfattore); - perché comunque, nel caso di reati di una certa gravità (come la rapina del precedente esempio), il fatto che il reo possa circolare impunito nel territorio dello stato italiano, deprime il rispetto e il timore anche verso la legge penale italiana (“ecco là Mobutu che ha commesso un sacco di rapine: si é messo i soldi in tasca e ora se li gode in Italia: in fondo fare il delinquente può rendere!”).

Discente: Ma lo Stato italiano, facendosi carico anche della punizione dei reati commessi all'estero, non rischia di intasare i tribunali e le carceri italiane?

Docente: Contro tale pericolo lo Stato prende le sue precauzioni; la principale delle quali é data dalla preferenza da lui accordata all'estradizione: quando può, lo Stato italiano scarica, se mi é permesso il termine, il processo e la punizione del reo su lo Stato estero. Solo se l'estradizione non può realizzarsi, il Ministro della Giustizia, può - se, valutati i fatti (in specie la loro gravità), lo ritiene opportuno - richiedere che l'autorità proceda al giudizio contro il reo. E solo in tal caso il processo contro il reo si può fare.

Discente: Ma nel caso di reati procedibili a querela, la presentazione di questa non può surrogare la mancanza della richiesta del Ministro?

Docente: Direi di no, direi che la volontà del Ministro di non procedere alla punizione abbia la prevalenza su quella della persona offesa; dato il silenzio della legge sul punto e non parendomi ammissibile, nel caso in cui offeso dal reato sia (non un cittadino, ma) uno straniero, quella interpretazione analogica sulla base del secondo comma dell'art.8, che invece abbiamo fatto commentando i primi due commi dell'articolo 9.

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Discente: Chiarito questo, vediamoci le norme che puniscono i reati commessi all'estero contro lo straniero.

Docente: Contro lo straniero, ma, attenzione, anche contro lo Stato straniero e le Comunità europee. Chiarito anche questo, é davvero il tempo di leggersi i testi di legge. Cominciamo dal terzo comma dell'articolo 9 (che, come risulta dalla sua rubrica, riguarda i “delitti commessi dal cittadino all'estero”), il quale recita.“Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, qualora si tratti di delitto commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole é punito a richiesta del Ministro di giustizia, sempre che l'estradizione di lui non sia stata conceduta ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto”.Quindi il cittadino che con un reato ha danneggiato uno straniero o uno Stato estero o le Comunità europee é punito sempre che:- si tratti di delitto punibile con l'ergastolo o con la reclusione (non con la multa)- si trovi nel “territorio dello Stato” (requisito questo di procedibilità che si argomenta dal primo comma, stesso articolo 9)- lo Stato italiano non abbia ritenuto di concedere l'estradizione o lo Stato estero non abbia ritenuto di accettare la offerta di estradizione fatta da quello italiano- vi sia la richiesta del Ministro.

Discente: Abbiamo visto il caso in cui il reato sia commesso da un cittadino, vediamo ora quello in cui venga commesso da uno straniero.

Docente: Questo caso é previsto dal comma 2 dell'art.10 (che, come risulta dalla sua rubrica, riguarda i “delitti comuni dello straniero all'estero”), il quale recita:“Se il delitto é commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole é punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia, sempre che:1) si trovi nel territorio dello Stato;2) si tratti di delitto per il quale é stabilita la pena dell'ergastolo, ovvero della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni;3) l'estradizione di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto o da quello dello Stato a cui appartiene”.

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Lezione 6 - Concorso apparente di norme

Docente: Può capitare, anzi capita piuttosto frequentemente, che un identico fatto risulti previsto (come reato) da due (o più) norme, metti la norma GN. e la norma SP.Si tratta allora di vedere se queste si debbano simultaneamente applicare (dando luogo a quello che, vedremo, si dice “concorso formale di reati”) o se ne vada applicata una sola (così che sia giocoforza concludere che, solo apparentemente, le norme concorrono).

Discente: Fai un esempio.

Docente: Metti, Fulano ha ingiuriato il Presidente della Repubblica e vi sono due norme: la norma A, che punisce “chi ingiuria una persona” e la norma B, che punisce “chi ingiuria il Presidente della Repubblica” (pensa, mutando mutandis, al disposto degli articoli, 278 e 594 C.P.). Il fatto compiuto da Fulano senza dubbio rientra sia nella norma A che nella norma B: si applica solo una delle due norme o si applicano entrambe? ecco il dilemma.

Discente: E come si risolve questo dilemma?

Docente: E' quel che cercheremo di vedere nel prosieguo della lezione.Prima però debbo avvertirti che, per complicare la vita a noi giuristi, può verificarsi un caso assai simile a quello ora ipotizzato, anzi tanto simile da essere, dagli Studiosi, etichettato anch'esso come “concorso apparente di norme”.

Discente: In che cosa, questo secondo caso, sarebbe simile al primo?

Docente: Nel fatto che, come nel primo, la sua soluzione porterebbe a disapplicare per una data fattispecie una norma, che pur sembrerebbe ricomprenderla. Mi spiego meglio con un esempio. Metti che Fulano, dopo aver rubata un'auto, prenda della benzina e...la incendi. L'incendio dell'auto sembrerebbe ricadere nella previsione (e nella punizione!) della norma (art.635 C.P.) che prevede e punisce il fatto di chi danneggia la cosa altrui. E invece, no: la norma sul danneggiamento nel caso non va applicata (così almeno si sostiene autorevolmente): va applicata solo la norma sul furto – cosa per cui il concorso tra questa e quella norma va considerato solo “apparente”.

Discente: E perché mai non si dovrebbe applicare la norma sul danneggiamento?

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Docente: Perché la punizione che riceve Fulano (con l'applicazione degli articoli 624 e segg.) per il furto dell'auto, già ricomprenderebbe la punizione per il danneggiamento.

Discente: Non capisco il perché.

Docente: Lo capirai quando parleremo della questione sulla punibilità o meno dei cc.dd. “post-fatti” o “ante-fatti” o “fatti progressivamente criminosi”. Ora ti basti notare le differenze tra il caso ora fatto e quello esemplificato all'inizio: in entrambi i casi, si perviene alla disapplicazione di una norma (che astrattamente prevede e punisce il fatto imputato a Fulano : la norma sull'ingiuria, nel primo caso; la norma sul danneggiamento, nel secondo caso), però, nel primo caso, per, poi, fare applicazione di una norma (quella che prevede l'offesa all'onore del Presidente) che astrattamente prevede il fatto commesso da Fulano, nel secondo caso, per far applicazione di una norma, che di per sè non prevede per nulla il (secondo) fatto addebitato a Fulano (gli artt. 624 e segg. non prevedono per nulla il fatto di chi danneggia bensì solo il fatto di chi sottrae).

Discente: Ho capito: alcune volte capita che a un fatto non si applichi la pena prevista in una data norma (ancorchè questa norma preveda come reato proprio tale fatto) in considerazione che esso é punito come reato da un'altra norma.; ora però devi dirmi in che ipotesi ciò capita e come ciò si giustifica.

Docente: Le ipotesi che ti posso prospettare sono le seguenti cinque (ma non é escluso che altre ipotesi si possano fare, dato che in fondo tu puoi giungere alla disapplicazione di una norma in base a vari ragionamenti, difficilmente ipotizzabili ex ante).

Discente: Comincia, dimmi qual'é la prima di queste cinque ipotesi.

Prima ipotesi

Docente: La prima, e senza dubbio più importante, ipotesi che ti posso prospettare é la seguente: la norma SP prevede e quantifica una pena in modo da assicurare un'adeguata tutela sia al bene X sia al bene Y; la norma GN prevede e quantifica una pena in modo da assicurare un'adeguata tutela solo al bene X. Un esempio (di fantasia) di questa situazione ce lo può dare il caso già fatto all'inizio: la norma GN punisce chi “offende l'onore di una persona, con tre anni”, la norma SP punisce chi “offende l'onore del Capo dello Stato, con cinque anni”. Ora poniamo che Fulano dia del “farabutto” al Capo dello Stato: naturalmente si viene a porre il problema se

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punire Fulano: solo con la sanzione prevista dalla norma GN, solo con la sanzione prevista dalla norma SP o con entrambe le sanzioni: tu come risolveresti questo problema?

Discente: Di certo non lo risolverei applicando le due sanzioni, infatti, dato che entrambe in definitiva tutelano lo stesso bene, l'onore di una persona, applicando entrambe farei come il medico che dà una doppia dose di medicina in un caso in cui ne basterebbe una; e di certo neanche mi limiterei ad applicare la norma GN, perché, se così facessi lascerei senza tutela quel bene, costituito dal prestigio dello Stato, che offeso dall'ingiuria di Fulano, non viene tutelato dalla sanzione prevista dalla norma GN, ma solo dalla sanzione prevista dalla norma SP.: in conclusione, applicherei solo la sanzione prevista da quest'ultima norma.

Docente: Ovvia la seconda parte del tuo ragionamento in cui escludi l'applicazione della sola norma GN; un po' meno ovvia la prima parte in cui escludi l'applicazione di entrambe le sanzioni; o meglio, “ovvia” solo a condizione di partire dal presupposto che il Legislatore quantifichi la sanzione (nella norma SP) in base alla considerazione che la norma GN (con relativa sanzione) non verrà (dal giudice) applicata.

Discente: Certo, in teoria si potrebbe anche pensare che il Legislatore abbia ritenuta congrua la pena di 8 anni per chi offende i beni X e Y e si sia limitato a indicare nella norma SP la pena 5, facendo il ragionamento “gli altri 3 anni li aggiungerà il giudice applicando la norma GN”. E mi rendo conto che, partendo da tale presupposto, si dovrebbe giungere ad applicare entrambe le norme (la SP e la GN) ed entrambe le sanzioni. Senonché, che il legislatore abbia quantificato la pena nella norma SP facendo conto che essa sarebbe integrata dalla pena quantificata nella norma GN, é cosa assolutamente da escludere, perché contraria ad ogni buona tecnica legislativa.

Docente: Sono d'accordo con te; ma era bene porre il ragionamento su basi cristalline. E sempre per evitare equivoci e impostare con esattezza i nostri ragionamenti in una materia senza dubbio molto complicata, a questo punto, prima di andare avanti, io debbo chiarire una cosa.Si tratta di questo: noi abbiamo parlato di una norma SP che tutela due beni X e Y e di una norma GN che anch'essa tutela il bene X; ma così facendo abbiamo operata una semplificazione, forse utile per la chiarezza del discorso ma che, per evitare equivoci, é bene segnalare.

Discente: In che consiste tale semplificazione?

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Docente: Consiste nel fatto che nella realtà ci può essere, sì, il caso di due norme, l'una, che tutela i beni X e Y e, l'altra, che tutela il (solo) bene X, ma.... la realtà é varia! possono farsi almeno altre due ipotesi. Prima ipotesi, delle due norme, l'una, la GN-I, tutela il bene X e, l'altra, la SP-I, tutela sempre lo stesso bene X, ma, tenendo conto di una modalità della possibile azione lesiva di esso, che richiede una risposta punitiva maggiore, di quella contenuta nella precedente norma GN-I. Un esempio (di fantasia) può essere questo: la norma GN-I punisce “chi cagiona la morte di un uomo”, la norma SP-I punisce (più severamente) “chi cagiona la morte di un uomo usando una sostanza venefica” (un altro esempio, assai simile a quello ora fatto, lo studioso lo può trarre dagli articoli 624 e 624bis – l'art.624, che punisce il furto, l'articolo 624bis, che punisce il furto con strappo).Seconda ipotesi, delle due norme, l'una, la GN-II, tutela il bene X e, l'altra, la SP-II tutela sempre il bene X però tenendo conto di una circostanza, che consiglia una attenuazione della risposta punitiva. Un esempio (di fantasia) potrebbe essere questo: la norma GN-II punisce “chi cagiona la morte di un uomo”, la norma SP-II punisce (in maniera più attenuata) “la donna che cagiona la morte del neonato nello stato di depressione che spesso segue al parto” (un altro esempio, simile a quello ora fatto, lo studioso lo può trarre dagli articoli 624 e 626 – l'articolo 624 che punisce il furto, l'articolo 626 che punisce con pena più attenuata il furto commesso per far uso momentaneo della cosa).

Discente: E nelle ipotesi da te fatte andrà ancora ritenuto il concorso solo apparente o si applicheranno tutte due le norme?

Docente: Ovviamente andrà ritenuto il concorso apparente: forse che il legislatore nelle norme SP-I e SP-II (624bis, 626) già non tiene conto, nel calibrare la pena, della quantità di essa necessaria per contrastare l'offesa al bene X, tutelato dalle norme GN-I e GN-II (624)?Chiarito questo proseguiamo nel nostro discorso. Dunque, abbiamo visto che, se vi sono due norme, l'una, che tutela i beni X e Y, e, l'altra, che tutela solo il bene X, si applica solo la prima, la norma SP; e similmente, se vi sono due norme SP-I e GN-I che tutelano lo stesso bene X, ma, la prima, la SP-I con più rigore o con meno rigore rispetto alla seconda, la norma GN-I, ancora si applica solo la norma SP-I; ma a questo punto per noi “pratici” si pone il problema, come fare ad essere sicuri che le due norme, nella cui previsione di per sé rientrerebbe la fattispecie, tutelino lo stesso bene (per cui entrambe non vanno applicate: vi é concorso “apparente” tra di loro)? come fare a stabilire quale delle due norme va applicata?Tu, come faresti?

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Discente: Semplice, cercherei di vedere se un fatto punito dalla norma GN viene punito anche dalla norma SP, e, se ciò si verificasse, ne dedurrei che entrambe le norme tutelano lo stesso bene.

Docente: Non hai capito nulla: noi già partiamo dal presupposto che un dato fatto sia punito dalle due norme, ma partiamo anche dalla considerazione che, non perché due norme prevedono, per punirlo, lo stesso fatto, si può dire che esse tutelino lo stesso bene (ed é questa la cosa importante!). Ti faccio un esempio per chiarirti le idee: metti che la norma GN punisca “chiunque sottragga un bene custodito in un pubblico ufficio” e la norma SP punisca “chi con minaccia si impossessa della cosa mobile altrui” (tu puoi, mutatis mutandis, pensare al disposto degli artt. 351 e 628); metti ancora che Fulano entri nella cancelleria di un tribunale e rivoltella alla mano si faccia consegnare il coltello tempestato di diamanti con cui l'assassino ha ucciso: certamente questo fatto rientra nella previsione (e quindi viene punito) sia dalla norma GN (mutatis mutandis, la norma di cui all'art. 351) sia dalla norma SP (mutatis mutandis, la norma di cui all'art. 628), questo, però, non significa per nulla che la norma GN (art. 351) e la norma SP (art. 628) tutelino lo stesso bene, chè, tutto al contrario, la prima norma, la GN (art. 351), tutela l'interesse dello Stato alla sicura conservazione di certe cose (questo per gli scopi più vari: di giustizia, di difesa ecc.ecc.), la seconda norma tutela l'interesse (che ciascuna persona ha) all'incolumità e alla conservazione dei propri beni.

Discente: Ho capito; ma se mi domandi come fare per individuare se due norme tutelano lo stesso bene e, se sì, quale delle due va applicata, lo stesso non ti so rispondere.

Docente: Rispondo allora io per te. Prima di tutto, individui quella che dovrebbe essere la norma “speciale” (cioé la norma che, secondo la tua intuizione, tutela oltre al bene Y anche il bene X già tutelato dalla norma GN oppure tutela il bene X, già tutelato dalla norma GN, ma con più o con meno severità).

Discente: E come la individuo tale norma speciale?

Docente: La individui perché, la descrizione della fattispecie da lei fatta, contiene un quid pluris, il così detto “elemento specializzante”, rispetto alla descrizione della fattispecie fatta dall'altra norma.

Discente: Fa qualche esempio di “elemento specializzante”.

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Docente: Nel caso della norma di cui all'art.278, l'elemento specializzante, rispetto alla norma di cui all'art. 594, é dato dalla qualità della persona offesa, che deve essere il Presidente della Repubblica, nel caso della norma di cui all'art. 624bis rispetto alla norma dell'art. 624, é dato dalla modalità con cui si attua la sottrazione della cosa, lo “strappo”.

Discente: Ma questo elemento specializzante non potrebbe mancare?

Docente: Se effettivamente le due norme tutelano uno stesso bene, no, non potrebbe mancare. E invero, il fatto lesivo dei beni X e Y, non può non essere diverso da un fatto lesivo del solo bene X, e, quindi, la norma SP per descriverlo deve per forza indicare un quid pluris, rispetto alla descrizione, che la norma GN fa del fatto lesivo del solo bene X. E mutatis mutandis il discorso va ripetuto per quel che riguarda la norma SP-I (se essa effettivamente tutela, sì, lo stesso bene della norma GN, ma più gravemente o lievemente, non può, nel descriverlo, non indicare un quid pluris ecc.ecc.).

Discente: Orbene, una volta individuata la norma speciale?

Docente: Il più é fatto, si tratta di vedere se tutti, ma dico tutti, nessuno escluso, i fatti incriminati dalla norma speciale, se essa non esistesse, sarebbero lo stesso puniti in forza dell'altra norma, la norma generale. Se la risposta é “sì”, sta sicuro: le due norme tutelano lo stesso bene.

Discente: Ma basta che due norme tutelino lo stesso bene, perché si possa parlare di concorso apparente di norme e di conseguenza applicare solo una delle due norme?

Docente: Sì, se la norma Gn (la norma generale) tutela solo il bene X, che trova anche tutela nella norma SP (la norma speciale); no se la norma NG tutela, oltre al bene X, un bene Z, non tutelato dalla norma SP. Infatti, se così fosse, non si potrebbe più dire che il legislatore, quando ha determinato la sanzione nella norma SP, l'ha determinata tenendo conto anche della tutela dovuta per i beni tutelati dalla norma GN, appunto perchè questa norma mira anche alla tutela del bene Z, a cui invece la norma SP non mira.

Discente: Fai un esempio di un concorso di norme non apparente per i motivi da te ora detti.

Docente: Pensa al concorso di queste due norme: la norma SP punisce “chi

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offende l'onore del Presidente della Repubblica”, la norma GN punisce “chi offende l'onore di una persona dandole uno schiaffo”. Evidentemente la norma SP tutela il bene X (bene dell'onore) e il bene Y (bene del prestigio dello Stato) e la norma GN tutela il bene X (l'onore) e il bene Z (il benessere fisico turbato dalla sensazione dolorosa provocata dallo schiaffo). Ora mettiamo che Fulano dia uno schiaffo al Presidente della Repubblica, egli verrebbe a ledere tre dei beni che il legislatore dimostra di voler tutelare (i beni, X, Y, Z), ma se venisse punito solo con la sanzione prevista dalla norma SP, verrebbe punito con una sanzione costruita, diciamo così, solo per reprimere la lesione a due beni e quindi insufficiente a svolgere quella funzione di prevenzione generale e speciale, che invece una sanzione dovrebbe avere.

Discente: Però, se venissero applicate tutte due le sanzioni, quella prevista dalla norma SP e quella prevista dalla norma GN, si determinerebbe l'ingiustizia che Fulano verrebbe punito due volte per la lesione da lui provocata a uno stesso bene, il bene X.

Docente: Ciò é perfettamente vero. Ma in questi casi, che gli Studiosi definiscono di “specialità reciproca”, comunque si rivolti....la frittata, si determina inevitabilmente una irrazionalità: se applichi una sola norma, si verifica l'irrazionalità che viene comminata una pena inferiore, a quella necessaria per la funzione di prevenzione, che essa deve svolgere; se applichi tutte due le norme, si determina, come tu bene hai notato, una ingiustizia. Purtroppo non c'é nulla da fare. V'é da dire che nella pratica, a evitare troppo stridenti ingiustizie, sovvengono vari istituti (il potere ampiamente discrezionale del giudice nell'applicazione della pena, le attenuanti generiche di cui all'art. 62bis, il reato continuato....), che saggiamente utilizzati dal giudice, possono portare a correggere gli inconvenienti sopra denunciati.

Discente: Però, per concludere, per stabilire se esiste o no un concorso tra le norme SP e GN, basta che io verifichi se tutti i fatti previsti nella norma SP (la norma che ritengo “speciale”), in assenza di questa, sarebbero puniti dalla norma GN (in quanto questa tutela anche e solo uno o più dei beni tutelati dalla norma SP). Se la risposta é, sì, ritengo il concorso apparente di norme; se la risposta é no, in quanto alcuni dei fatti previsti nella norma SP non sono puniti dalla norma GN, escludo l'apparenza del concorso e applico tutte due le norme, la SP e la GN. E' così?

Docente: Di solito é così; non sempre é così. Metti che vi sia: una norma GN che punisce “chi percuote una persona”, una norma Gnbis che punisce “chi minaccia una persona” e la norma SP che punisce “chi percuote o minaccia un pubblico

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ufficiale che compie un atto del suo ufficio” (mutatis mutandis, tu puoi tenere presenti le norme di cui agli artt. 581, 612, 337): tu, trovandoti a difendere Fulano, che ha percosso un pubblico ufficiale mentre compiva ecc.ecc., sosterresti il concorso apparente tra la norma SP e la norma GN (tra la norma dell'art. 581 e quella dell'art 337)?

Discente: Certamente, no: infatti non tutti i fatti puniti dalla norma SP sono puniti dalla norma GN; in particolare non sono puniti i fatti di minacce.

Docente: E invece sbaglieresti; e per convincerti del tuo errore, io ti ripropongo il caso di prima, ma formulato un po' diversamente: metti dunque, che vi sia: una norma GN che punisce “chi percuote una persona”, una norma Gnbis che punisce “chi minaccia una persona”; una norma SP-I che punisce “chi percuote un pubblico ufficiale che compie un atto del suo ufficio”; una norma SP-II che punisce “chi minaccia un pubblico ufficiale che compie un atto del suo ufficio”. Ora, se io ti domandassi se vi é concorso tra la norme GN (che punisce “chi percuote ecc”) e la norma SP-I (che punisce “chi percuote un pubblico ufficiale ecc.”), tu cosa risponderesti?

Discente: Risponderei che certamente il concorso apparente c'é, perché tutti i fatti previsti dalla norma SP, se essa non esistesse, ricadrebbero sotto la punizione prevista dalla norma GN.

Docente: Ottima risposta. E penso che eguale risposta tu mi daresti se ti chiedessi se la norma Gnbis concorre o no con la norma SP-II. Ma se é così, non ti pare illogico e assurdo di adottare una differente soluzione (cioé di negare il concorso apparente), solo perché il Legislatore, per esprimere la sua volontà, invece di quattro norme ha preferito formularne (encomiabilmente) solo tre, riunendo le fattispecie di cui alle norme SP-I e SP-II in un solo articolo?

Discente: D'accordo sarebbe illogico: nel caso si deve ritenere il concorso apparente delle norme e applicare solo la norma SP. Però, proprio dal caso ora fatto, mi pare risulti che il criterio, che tu avevi dato per stabilire quando c'è e quando non c'é il concorso apparente, non porta sempre a risultati sicuri.

Docente: Diciamo piuttosto che porta a risultati sicuri se...usato cum grano salis. E per dimostrati quanto di sale occorra in zucca per fare il giurista, ora farò ancora un passo avanti nella strada (perigliosa) ormai intrapresa.Mettiti in questo caso: una norma SP punisce “chiunque usa violenza a un pubblico ufficiale mentre compie un atto d'ufficio con due anni”; una norma GN, punisce “chi

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percuote con un anno”, una norma Gnbis punisce “chi provoca lesioni con tre anni”; una norma GNter punisce “chi provoca la morte con 10 anni”. Se ti domando: Fulano che ha causata la morte del pubblico ufficiale ecc. va punito solo con la norma SP oppure va punito sia con la norma SP sia con la norma Gnter, ebbene, tu, cosa rispondi?

Discente: Rispondo che va applicata solo la norma SP; dato che, come tu mi hai insegnato, si deve intendere che questa norma SP sia dovuta alla formulazione in forma sintetica delle tre norme seguenti: SP-III, che punisce “chi causa la morte di un pubblico ufficiale mentre compie un atto di ufficio”, SP-II, che punisce “chi causa una lesione a un pubblico ufficiale mentre compie ecc.”; SP-I che punisce “chi percuote un pubblico ufficiale ecc.ecc.”; e dato che tutti i fatti rientranti nella norma SP-III, se questa non esistesse, sarebbero puniti dalla norma GNter.

Docente: Ma come! Tu daresti 10 anni di galera a chi causa la morte di un uomo, e gliene daresti solo due se causa la morte di un pubblico ufficiale?! Valuti ben poco la vita dei pubblici ufficiali! Chiaro che hai sbagliato in qualche cosa. E' vero che la norma SP idealmente si può dividere in tre (e a dir il vero, in ben più di tre, ma fingiamo per chiarezza espositiva, solo in tre) norme autonome; ma é anche vero che ciascuna di queste tre norme va interpretata autonomamente, quindi con possibilità di risultati diversi. Pertanto, mentre si può ben ritenere (e si deve ritenere!) che l'applicazione delle norme SP-III e SP-II non escluda per nulla la applicazione delle norme Gnter e Gnbis, si può ben ritenere (anzi, si deve ritenere) che la norma SP-I (percosse a un pubblico ufficiale mentre ecc.) escluda la applicazione della norma Gen (che punisce, chi percuote con un anno di galera: infatti tale disapplicazione non dà luogo alla assurdità che, chi compie un reato verso un pubblico ufficiale, viene punito meno gravemente di chi commette lo stesso reato verso quivis de populo).

Discente: D'accordo, ma così l'interprete viene a perdere quella guida sicura data dal criterio da te all'inizio datomi.

Docente: Diciamo che nella maggior parte dei casi, non la perde: potrà applicare tale criterio con sicurezza e tranquillità. In alcuni casi, effettivamente, la perde; con conseguente pericolo di finire per disapplicare una norma (ritenendo il “concorso apparente”) anche quando invece andrebbe applicata. Contro questo pericolo il legislatore cercherebbe di creare un argine (secondo l'opinione di alcuni Studiosi) con il disposto dell'articolo 15 - articolo (assai confuso) che andrebbe interpretato nel senso che, la norma speciale deroga alla norma generale, come noi prima si é detto, solo se entrambe sono relative alla stessa materia.

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Discente: Non capisco il perché di questo limite.

Docente: Neanch'io. Comunque di seguito ti riporto, a che tu stesso possa meglio giudicare, sia il testo dell'art.15, sia quello degli articoli 84 e 68, che in definitiva rappresentano, del principio contenuto nell'art.15, delle applicazioniArt.15: “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”.Art.84: “Le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato. (….)”-Art. 68: “Salvo quanto disposto dall'articolo 15, quando una circostanza aggravante comprende in sé un'altra circostanza aggravante, ovvero una circostanza attenuante comprende in sé un'altra circostanza attenuante, é valutata a carico o a favore del colpevole soltanto la circostanza aggravante o la circostanza attenuante, la quale importa, rispettivamente, il maggior aumento o la maggior diminuzione di pena.Se le circostanze aggravanti o attenuanti importano lo stesso aumento o la stessa diminuzione di pena, si applica un solo aumento o una sola diminuzione di pena.”

Discente: Ma l'unico criterio per stabilire, se vi é un concorso apparente tra due norme, e, quindi, se solo una di esse va applicata, é quello della “specialità”?

Docente: No a tal fine servono anche altri strumenti argomentativi; così come constateremo esaminando le altre ipotesi di concorso apparente.

Discente: Cominciamo dunque a vedere una seconda ipotesi (di concorso apparente).

Seconda ipotesi di concorso apparente

Docente: La seconda ipotesi di concorso apparente la possiamo così schematizzare: la norma A punisce il fatto X e la norma B punisce il fatto Y in quanto questo fa sospettare la commissione del fatto X.Un esempio di tale tipo di concorso potrebbe essere questo: la norma A punisce “chi commette un furto” (pensa agli artt. 624 e segg.); la norma B punisce chi “essendo pregiudicato per furto viene trovato con arnesi da scasso” (pensa all'art. 707). Domanda che ti faccio: se Fulano viene sorpreso mentre sta commettendo un furto con l'uso di arnesi da scasso, va punito con entrambe le pene, quella prevista

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dalla norma A e quella prevista dalla norma B, oppure va punito con la sola pena prevista dalla norma A (quella che punisce il furto)?

Discente: Ovviamente, va punito solo con la pena prevista dalla norma A.

Docente: E infatti la norma B é evidentemente una “norma di sospetto” (si punisce chi viene trovato con arnesi atti allo scasso perché si sospetta che abbia commesso o stia per commettere un furto) e la pena da essa comminata si giustifica col ragionamento “Io, Stato Italiano, non posso punire te, Fulano, per furto, perché non ne ho le chiare prove, però, per il solo sospetto che tu stessi per commettere un furto, ti punisco con tot”. Ora é chiaro che tale ragionamento però più non regge quando lo Stato può punire Fulano per il reato sospettato (cioé, per il furto).

Discente: Ed é anche chiaro che vi é un concorso apparente tra le norme A e B (per cui si applica una sola di tali norme), ancorchè tale “apparenza” (nel concorso) non sia rivelata da un qualche rapporto di genere a specie tra le due norme (e in effetti tra le norme A e B non vi é nessun rapporto di specialità).Passiamo alla terza ipotesi di concorso apparente (che viene rivelato da un strumento argomentativo che non utilizza il concetto di specialità).

Terza ipotesi di concorso apparente.

Docente: La terza ipotesi di concorso apparente la possiamo così schematizzare: la norma A punisce il fatto AA perché ha causato l'evento X; la norma B punisce il fatto BB perché ha fatto sorgere il pericolo dell'evento X.Possono servire ad illustrare i seguenti due esempi.Primo esempio: la norma B punisce con tre anni chi crea il pericolo di un disastro ferroviario (mutatis mutandis, puoi pensare alla fattispecie di cui all'art. 450); la norma A punisce con nove anni chi per colpa causa un disastro ferroviario (puoi pensare alla fattispecie prevista dall'art. 449).Secondo esempio: la norma B punisce con tre anni chi provoca la caduta di una valanga (così creando pericolo per l'incolumità altrui – mutatis mutandis, pensa alla fattispecie prevista dall'art.426); la norma A punisce con un mese chi cagiona ad altri per colpa una lesione (pensa alla fattispecie di cui all'art. 590).

Discente: Ebbene nei casi da te esemplificati c'é o non c'è il concorso apparente?

Docente: Bisogna distinguere. Nel primo caso in cui la condotta BB viene punita per il timore che scateni il verificarsi dell'evento X e solo dell'evento X, il concorso

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apparente va ritenuto e quindi va disapplicata la norma B e va applicata solo la norma A: Fulano, il casellante che non facendo abbassare le sbarre del passaggio a livello, causa un disastro ferroviario, viene punito solo per il disastro ferroviario causato E infatti il legislatore, nel prevedere la pena di anni 3 per chi crea un pericolo di disastro ferroviario, ha fatto evidentemente questo ragionamento “Io, legislatore, non posso punire Fulano con la pena severa di 9 anni, perché il disastro non si é verificato, però per insegnargli a essere più diligente lo punisco con tre anni”. Ora chiaramente questo ragionamento perde di validità quando il legislatore può invece punire con 9 anni (perché il disastro ferroviario c'é stato).Nel secondo caso, in cui la condotta BB viene punita per il timore, non solo che ne derivi l'evento X (nell'esempio, la lesione di una persona, punita dalla norma A), ma una molteplicità di altri eventi (la morte di una persona, la morte di più persone....), il concorso apparente invece va escluso ed entrambe le norme vanno applicate.

Discente: Perché?

Docente: Ma per le incongruenze e le vere proprie assurdità che potrebbero conseguire derivare dalla sola applicazione della norma A – incongruenze e assurdità con tutta evidenza risultanti nell'esempio fatto: dalla caduta della valanga per fortuna sono conseguite solo lesioni lievissime a una persona, ma ne sarebbe potuta seguire una strage: il mese di galera affibbiato a Fulano appare del tutto incongruo rispetto all'allarme sociale, che il pericolo di una strage ha determinato e, a prescindere da questo, punendo Fulano solo con le sanzioni previste dalla norma A (nell'esempio la norma che punisce le lesioni) si avrebbe l'assurdo che, mentre Fulano, che ha pur sempre causato un evento dannoso, sarebbe punto con solo un mese di galera, un qualsiasi altro Tizio, che avesse provocato la valanga senza però provocare nessunissimo danno, sarebbe punito.... con tre anni.

Discente: Passiamo a esaminare un'altra ipotesi di concorso apparentemente

Quarta ipotesi di concorso apparente

Docente: La quarta ipotesi di concorso apparente si può così schematizzare: la norma A punisce il comportamento AA; la norma B punisce il comportamento BB perché propedeutico alla commissione di AA.Un esempio potrebbe essere questo: la norma A punisce chi spende banconote false (puoi pensare, mutatis mutandis, al reato previsto dall'articolo 455), la norma B punisce chi stampa banconote false (pensa all'art.453).I motivi, per cui va riconosciuto il concorso apparente e va applicata solo la norma

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A, sono di tutta evidenza (e sono gli stessi che portano il legislatore ad escludere l'applicazione delle pene previste per il reato tentato nel caso questo venga effettivamente consumato – vedi l'ultima parte, primo comma, art. 56): il ragionamento che giustifica la punizione di chi compie il comportamento BB (l'attività propedeutica al reato A) é “Io, legislatore, non posso punire Fulano con le gravi pene previste per il reato A, perché l'omessa consumazione di questo reato non ha determinato quel grave allarme sociale, che solo le giustificherebbe, ma non voglio lasciare Fulano totalmente impunito e allora lo punisco con le più lievi pene ecc.”. Ora però tale ragionamento viene a mancare di giustificazione nel caso in cui il legislatore può punire Fulano per il reato A.

Discente: Passiamo ad esaminare la quinta ipotesi di concorso apparente.

Quinta ipotesi di concorso apparente.

Docente: La quinta ipotesi di concorso apparente, che intendo proporti, riguarda i così detti (dagli Studiosi) “antefatti” “post-fatti” e “fatti in progressione criminosa” - riguarda cioé fatti, che di per sé sarebbero previsti come reato autonomo, ma che appaiono così strettamente connessi al reato che loro segue o che li precede o in cui tendono a svilupparsi, da far ritenere (ad alcuni Studiosi) che in tale reato debbano ritenersi assorbiti. Noi di seguito faremo un esempio per ciascuna di tali categorie di fatti e ci ragioneremo sopra.

Discente: Comincia a portare un esempio di “ante-fatto”

Docente: Mi fai iniziare male, perché io non conosco alcun caso di “antefatto”, che non possa rientrare negli schemi che sopra abbiamo esposti (dando la relativa soluzione). Ti porterò quindi un esempio da me tratto dal bel libro di Giorgio Marinucci e Emilio Dolcini “Manuale di diritto penale” (edito da Giuffrè – p.393) - eccolo: secondo gli illustri Autori, la contraffazione di carta filigranata (punita dall'art. 460) costituisce “antefatto” non punibile della contraffazione di monete (punita dall'art. 453). Voglio ricordare che anche noi avevamo fatto un esempio simile (trattando della quarta ipotesi di concorso) e anche noi lo avevamo risolto nel senso della non punibilità dell'antefatto.

Discente: Fai ora un esempio di post-fatto.

Docente: Come esempio di post-fatto ti posso portare il caso (a cui prima avevamo già accennato – ma che non si può risolvere con nessuno degli strumenti argomentativi che prima avevamo esposti) di Fulano che, dopo aver rubato un'auto

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(artt. 624 e segg), la distrugge (art. 635).

Discente: E come risolveresti tu questo caso?

Docente: Lo risolverei applicando solo la norma sul furto (e disapplicando quella sul danneggiamento).

Discente: Perché ritieni di giungere a tale conclusione?

Docente: Non già perché non ci possa essere un interesse della parte offesa (in vista di una possibile individuazione del reo e di un possibile recupero della refurtiva) ad evitare la distruzione dell'auto e quindi all'intimidazione che sul ladro può effettuare la sanzione prevista dall'art.635.

Discente: E allora, perché?

Docente: Perché, dal momento che il legislatore non punisce il ladro che vende la refurtiva (cosa che comporta in pratica la futura irrecuperabilità di questa, non meno di quanto la comporti la sua distruzione) diventa ingiusto punire chi la danneggia.

Discente: Mi pare che la tua sia la classica spiegazione che....va spiegata: perché il legislatore non punisce il ladro che vende la refurtiva?

Docente: Perché l'utilizzazione della refurtiva da parte dal ladro é un fatto “scontato”, cioé già messo dal legislatore “in conto” nel calcolare la pena per il furto (e perché mai il ladro ruberebbe se non per usare della cosa rubata?!).

Discente: Allora diciamo che questa é la vera spiegazione della non punibilità nel caso di post-fatto da te portato.

Docente: Diciamolo pure.

Discente: Fai ora un esempio di “fatto in progressione criminosa”.

Docente: Pensa a Fulano che, subito dopo aver dato a Caio un pugno (art. 581), gli dà una coltellata (art. 582). In un caso simile io riterrei che a Fulano, delle due norme in discussione, quella dell'art. 581 e quella dell'articolo 582, vada applicata solo la seconda: quella prevista dall'art. 582, che punisce le lesioni.

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Discente: Perché giungi a tale conclusione?

Docente: Non già, perché – come qualche Studioso sostiene – la lesione sia un'inevitabile e quindi prevedibile (dal legislatore) escalation dell'iniziale percossa: grazie al Cielo la maggior parte delle dispute, che cominciano con delle percosse, finiscono....con delle percosse.Ritengo però che - dal momento che, se Fulano subito, invece di dare un pugno, avesse dato una coltellata (per poi reiterare con una seconda coltellata), sarebbe punito come se avesse commesso uno solo (e non due) reati di lesioni (il perché di questa soluzione, che é pacifica, ci riserviamo di darlo in altra lezione) - sarebbe assurdo punire Fulano come se avesse commesso due reati, solo perché, invece di dare due coltellate, si é limitato a dare una percossa e una coltellata.

Discente: Con l'esame ora fatto della sesta ipotesi di concorso, io penso che noi ci si possa fermare, rinunciando a fare altre ipotesi; dato che, mi pare, ormai dovrebbe risultare, a chi ci segue, la tecnica argomentativa con cui, secondo te, va affrontato il problema dell'esistenza o meno di un concorso apparente di norme.Ma anche gli altri Studiosi adottano, per la soluzione di tale problema, i criteri da te proposti?

Docente: No. La maggior parte degli altri Studiosi risolve tale problema in base a tre altri criteri: quello della specialità, quello della sussidiarietà e quello della consumazione.

Discente: Del criterio della specialità, che a dir il vero viene anche da te accettato, abbiamo già abbondantemente parlato, puoi fare un cenno, anche se telegrafico, agli altri due criteri?

Docente: Lo farò attingendo all'opera, già indicata, del Marinucci e Dolcini. Secondo gli illustri Autori (Op. cit., p. 387) quando una norma “sussidiaria” concorre con una norma “principale” la norma “di minor rango, come norma sussidiaria, cede il passo alla norma principale”. E quando una norma é sussidiaria di un'altra? Quando “rispetto ad un'altra (norma principale) tutela, accanto al bene giuridico (da questa) protetto, uno o più beni ulteriori ovvero reprime un grado di offesa più grave dello stesso bene”. Secondo gli illustri Autori (Op.cit. p. 389) “in un rapporto di sussidiarietà tacita si pongono ad es. la norma che configura il reato di strage (art. 422 c.p.) e una serie di norme che configurano altri delitti contro la pubblica incolumità, come l'incendio (art. 423 c.p.), l'inondazione, frana o valanga (art. 426 c.p.), il naufragio, sommersione o disastro aviatorio (art. 428 c.p.), etc.”.

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Discente: Vediamo ora in che consiste il criterio della consunzione.

Docente: Il criterio della consunzione permette di individuare “i casi in cui la commissione di un reato é strettamente funzionale ad un altro e più grave reato, la cui previsione “consuma” e assorbe in sé l'intero disvalore del fatto concreto “(sempre ex Marinucci e Dolcini, Opera cit. p.390). L'esempio di “consunzione” che gli illustri Autori danno é il seguente: Fulano si introduce nell'altrui abitazione al fine di commettere un furto: in tal caso il reato di violazione di domicilio (art. 614) é consumato dal più grave reato previsto dall'art. 624bis (furto in abitazione)..

Discente: Ma tu non ritieni utili i criteri di sussidiarietà e consunzione?

Docente: Possono servire per rivestire di belle parole paludate le conclusioni a cui l'interprete giunge seguendo i percorsi argomentativi da noi suggeriti. Insomma limitarsi a dire la norma A é consumata dalla norma B, perché prevede “un reato strettamente funzionale ad un altro e più grave reato”, significa solo fare una affermazione apodittica (un'affermazione che invece si dovrebbe spiegare come abbiamo tentato di fare noi).

Discente: Ma il legislatore non interviene, nel caso di norme in concorso, per dire se entrambe vanno applicate oppure no?

Docente: Certo che interviene, e lo fa con clausole del tipo (la norma A va applicata): “qualora il fatto non costituisce più grave reato” “se il fatto non é preveduto come più grave reato da altra disposizione di legge ““fuori del caso indicato nell'art. X”.

Discente: Ma il legislatore si baserà bene su dei criteri per le soluzioni, che egli di volta in volta dà del concorso di norme: l'interprete non si può basare su tali criteri per distinguere quando c'é e quando non c'é un concorso apparente di norme?

Docente: No, perché i criteri adottati da chi, come il legislatore, ha il potere di modificare la legge, non possono essere adottati da chi ha solo il dovere di osservare la legge.Ti faccio un esempio, prendi l'articolo 351 – quest'articolo recita: “Chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora corpi di reato, atti, documenti, ovvero una cosa mobile particolarmente custodita in un pubblico ufficio o presso un pubblico ufficiale o un impiegato che presti un pubblico servizio, é punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto con la reclusione da uno a cinque anni”. La “clausola di raccordo” inserita in tale articolo comporta che, se Fulano, rivoltella alla mano,

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entra in una cancelleria e sottrae il preziosissimo coltello usato dall'assassino che ivi é custodito, é punito solo per il reato di rapina, comporta cioé che tra le due norme in ballo, quella dell'art. 351 e quella dell'art. 628, va applicata solo la seconda: soluzione giustissima, ma che può prendere il legislatore e solo il legislatore (e non l'interprete), in quanto ad essa non si può arrivare per via di ragionamento e in particolare di deduzione da altre norme: é una scelta di politica criminale e basta.

Lezione 7 - Reati di pericolo

Docente: Metti che il legislatore, con la norma A (pensa alla norma di cui all'art. 589), punisca con una pena di afflittività cento, “l'automobilista che, tenendo il comportamento X (pensa a una marcia contromano), causi non intenzionalmente l'evento (dannoso) D (morte di un uomo). Domanda: secondo te, avrebbe senso, sussistendo tale norma A, una norma B, che punisse, con pena di afflittività dieci “l'automobilista che, tenendo il comportamento X (marcia contromano), qualora fosse esistita la circostanza Y (arrivo in senso contrario di un altro automobilista), avrebbe potuto determinare l'evento D”?

Discente: Io lo escluderei: perché mai punire Fulano che, sì, ha tenuto il comportamento X (sì, é andato contromano), ma, sia pure grazie al fatto che nessun veicolo sopraggiunse in senso contrario, nessun danno ha causato? perché, insomma, punire Fulano per un comportamento innocuo?1

Docente: Tu non tieni conto, che la condanna di Fulano avrebbe l'utile funzione di prevenire (ti ricordi della c.d. funzione di prevenzione generale della pena?) che il suo scorretto comportamento (marcia contromano) sia in un domani ripetuto, con esito questa volta infausto, da altro automobilista.

Discente: Capisco quel che vuoi dire: la norma B punirebbe Fulano a...memoria futura: per dissuadere altri utenti della strada dall'andare contromano. Ma tale funzione forse che non la svolge già la norma A?

Docente: Certamente, sì, la minaccia di pena contenuta nella norma A, già svolge una funzione dissuasiva dal comportamento X (marcia contromano); però é anche

1 Mantovani (in, Scritti Mortati, vol IV, p. 447): “Nel mondo degli accadimenti naturali retto dalle legge di causalità, naturalisticamente il pericolo non esiste ed il fatto che l'evento non si sia verificato sta, appunto, a dimostrare che non esistevano tutte le condizioni causali del suo verificarsi”.

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vero che tale funzione dissuasiva viene corroborata dalla minaccia di pena contenuta nella norma B.

Discente: Perché?

Docente: Per capirne il perché, parti dal presupposto che, tenendo il comportamento X ci siano 20 probabilità su cento di causare l'evento D (e quindi di violare la norma A) e una probabilità su due di essere scoperti e condannati (per cui vi sarebbero dieci probabilità su cento di essere puniti in forza della norma A) e che, sempre tenendo il comportamento X, ma senza causare l'evento D (ciò che pur sempre comporta, ovviamente, cento probabilità su cento di violare la legge e cioé la norma B) vi sia sempre una probabilità su due di essere scoperti e puniti (ovviamente per la violazione della norma B); orbene, se esistesse solo la norma A, Fulano potrebbe far conto, tenendo il comportamento X, di avere solo dieci probabilità su cento di essere punito, invece, esistendo anche la norma B, egli dovrebbe far conto di avere comunque, sia che causi sia che non causi l'evento X, cinquanta probabilità su cento di essere punito.

Discente: Sì, ma con le pene previste dalla norma B, che sono minori di quelle previste dalla norma A.

Docente: Però, se tieni conto che, l'efficacia intimidatrice della minaccia legislativa, dipende, non solo dal quantum di pena minacciato, ma anche dalle probabilità che questa venga effettivamente inflitta, devi convenire con me che la norma B opera in modo molto significativo ai fini di evitare l'evento D.

Discente: Ma, se questo é vero, vi é da domandarsi perché il legislatore non rimetta la tutela del bene D (nell'esempio, l'incolumità degli utenti della strada) solo a norme del tipo B, di norme cioé che puniscono il comportamento pericoloso a prescindere che il danno temuto (nell'esempio, il danno D) si sia verificato; escludendo le norme di tipo A, che fanno dipendere la punizione dal verificarsi di tale danno.

Docente: A dir il vero non manca chi sostiene ciò2; ma per la conservazione delle norme di tipo A, depone la necessità di dare una forte risposta all'istanza di 2 Dai seguaci della Scuola positiva, che criticano il sistema dei reati colposi, come quello che introduce inammissibili forme di responsabilità obiettiva.“Che la colpa raffiguri una responsabilità obiettiva, non vi é dubbio, responsabilità che l'ordinamento giuridico fa conseguire a determinati stati della persona (negligenza ecc.) in quanto questi stati determinano un evento dannoso volontario” - così, Grammatica (Sulla irrazionalità della colpa, in La scuola positiva,1930, X, 304)

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vendetta delle vittime del comportamento pericoloso (i figli dell'incidentato hanno visto il loro padre sanguinante sulla strada, se punisci solo con dieci l'autista imprudente, ci pensano loro con coltelli e bastoni a insegnare a questi il rispetto per la vita altrui!).

Discente: Ma il fatto che la norma B punisca Fulano, per un comportamento in definitiva innocuo, non contrasta con i principi (sulla funzione della pena) da noi studiati nelle prime lezioni?

Docente: Per nulla: la norma B, non contrasta col “principio di lesività”, dato che essa ha pur sempre la funzione di impedire la lesione del bene D; non contrasta, poi, col “principio di materialità”, perché essa, subordinando la punizione di Fulano, al compimento di un preciso atto (la marcia contromano, nell'esempio), mette effettivamente alla prova la sua “sensibilità” (il modo in cui reagisce) alla minaccia legislativa: Fulano ha guidato contromano? Ciò significa che la minaccia di essere punito con dieci non ha per lui effetto (per cui va messo in carcere per fargliela assaggiare).

Discente: Autorevolmente si sostiene l'incostituzionalità, per contrasto col “principio di lesività”, dei c.d. reati di “pericolo presunto”, come la guida senza patente3: tu, che ne pensi?

Docente: Certamente sarebbe incostituzionale una norma che punisse il comportamento X, ancorché ritenuto per nulla pericoloso (ma bada, ritenuto tale, non dal giurista Pinco Pallino, ancorché autorevolissimo, ma dal legislatore stesso); ma certamente non contrasterebbe con nessuna norma costituzionale quella che punisse il comportamento X in quanto, in base all'id quod plerumque accidit, é ritenuto (dal legislatore, non dal giurista Pinco Pallino) probabile fonte di danno.Peraltro negli esempi di pericolo presunto che si portano, tale pericolo é ben fondatamente presunto. Chi non lo vede é perché non guarda nel punto giusto. Volendo riferirci all'esempio della guida senza patente da te proposto: certo, si può negare che un campione del volante come Nuvolari, anche se non si é sottoposto all'esame di guida, non creerà nessun pericolo marciando sulla pubblica via. Però non é il guidare un'auto che va visto come fonte di pericolo, ma il guidare un auto 3 “Non vi é dubbio – si sostiene da M. Gallo, in I reati di pericolo, in, Foro penale,1969, 8) - che, nell'assenza di ogni e qualsiasi pericolosità concreta della condotta, la pena avrebbe qui una funzione puramente e semplicemente preventiva e nei confronti dei terzi e nei confronti dell'agente. Rispetto a quest'ultimo, infatti, la ragione determinante la pena non sarebbe il comportamento realizzato, bensì un atteggiamento personale che, violando una regola di obbedienza, lascerebbe desumere un certo grado di pericolosità sociale. In altre parole non si punirebbe il fatto ma l'autore”.

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senza essersi sottoposto ad un esame di guida: é, o no pericoloso che una persona si metta alla guida senza essersi sottoposto ad un esame che ne valuti la perizia? Certamente sì, dato che questa persona potrebbe essere il signor Nuvolari, ma anche il signor Fulano, che non saprebbe neanche all'occorrenza ingranare la retromarcia. Et de hoc satis!

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Lezione 8 - Il delitto tentato

Docente: Il delitto tentato é previsto dall'art. 56, che recita: “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica.Il colpevole di delitto tentato é punito: con la reclusione da ventiquattro a trenta anni, se dalla legge é stabilita per il delitto la pena di morte; con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita é l'ergastolo e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi”.

Discente: Fai qualche esempio di delitto tentato.

Docente: Poniamo che Fulano, avendo deciso di uccidere Caio: A) si rechi a comprare un fucile; B) si introduca nel giardino di Caio; C) si apposti all'angolo del portone, da cui questi deve uscire, ma prima di D) premere il grilletto e uccidere, venga sorpreso e bloccato.Mutatis mutandis, ci riproponiamo il quesito della precedente lezione: dal momento che il legislatore già con la norma AA stabilisce un pena per il caso che Fulano perpetri il reato di omicidio (art.575), c'é ragione a che – pur non essendo tale reato consumato, pur non essendosi realizzato l'omicidio – egli, con una norma BB, punisca Fulano per le azioni (le azioni, A,B,C) a questo propedeutiche?Tu quale risposta daresti a tale domanda?

Discente: Darei la stessa risposta che, nella lezione precedente, si é data per il reato di pericolo: sì, la norma BB avrebbe una ragion d'essere, poiché, punendo le azioni A,B,C, ancorché abbiano abortito nel nulla, si crea una difesa “avanzata” contro la lesione del bene tutelato (nell'esempio, la vita), in quanto, chi ha in animo di uccidere, alle probabilità di essere individuato e punito una volta consumato il reato (realizzato l'omicidio), deve aggiungere le probabilità di essere sorpreso e punito, ancorchè, dell'iter criminis, non sia giunto al capolinea e non abbia realizzato il suo scopo criminoso. In buona sostanza, se non esistesse la norma BB (che punisce le azioni propedeutiche, A,B,C), Fulano potrebbe fare il ragionamento: compro il fucile, me ne vado sul luogo dove di solito passa Caio, mi apposto e....se qualcuno mi scopre, pazienza, me ne torno a casa e.....ritento un'altra volta. Esistendo la norma BB, tale ragionamento non può da lui più essere fatto.

Docente: La tua risposta é ineccepibile e ci permette di concludere che la punizione del reato tentato é un'ottima soluzione dal punto di vista della difesa

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sociale.Però presenta almeno due rischi.

Discente: Quali?

Docente: Il primo rischio é quello che dia luogo a persecuzioni giudiziarie immotivate.

Discente: Non comprendo il perché.

Docente: Per comprenderlo devi far partire il tuo ragionamento un po' da lontano (ma, ahimé! é necessario, la verità non sempre é a portata di mano); precisamente devi partire dal dato di comune esperienza che, se tu esamini una serie di atti diretti a uno scopo, ti accorgi che i singoli atti, che la costituiscono, tanto più sono a monte, tanto meno chiaro ti rivelano lo scopo per cui sono stati compiuti.

Discente: Porta un esempio.

Docente: Posso portare l'esempio fatto all'inizio della lezione: l'essersi Fulano appostato col fucile proprio lì dove deve passare Caio, il suo nemico, parla chiaro sull'intenzione omicida di Fulano; ma riferiamoci, non all'ultimo, ma al primo atto della serie: l'acquisto del fucile: che ti dice esso sull'intenzione omicida di Fulano? Nulla: questi avrebbe potuto comprare il fucile, sia per uccidere Caio, sia per cacciare quaglie e fagiani. Fatta la premessa, veniamo al dunque: se, tu, legislatore, stabilisci “E' reato un qualsiasi atto che sia diretto a commettere un delitto”, quindi, nell'esempio fatto, vieni a configurare come reato anche l'acquisto del fucile da parte di Fulano, il risultato sarà che quei membri della Polizia e della Magistratura, che sono animati da sacro zelo e si ritengono quasi beffati se lasciano impunito un reato, saranno portati a ritenere sufficiente prova, che un atto é diretto al crimine, anche quella che tale non é: Fulano rischierà di essere condannato per tentato omicidio in base al solo acquisto di un fucile (“Tu, Fulano, hai esternato il proposito di vendicarti di Caio, hai comprato il fucile...che cosa si deve volere di più per condannarti?!)4.

Discente: Per ovviare a tale rischio, basterebbe che il legislatore, con una norma ad hoc del codice di procedura, imponesse ai giudici di non ritenere diretto alla

4 Proprio per ovviare a tale rischio il codice Zanardelli distingueva tra “atti preparatori” esclusi dalla punizione e “atti esecutivi” invece punibili. Più precisamente il codice Zanardelli (art. 61) puniva “colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei la esecuzione”.

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commissione di un reato un atto, se di ciò non vi é la evidente prova.

Docente: Ed é appunto quel che il legislatore fa, anche se non nelle codice di procedura, che sarebbe, ne convengo la sua sede appropriata, nel codice penale5 e precisamente nell'articolo 56, che abbiamo letto: rileggilo con attenzione e vedrai che tale articolo, non punisce tutti gli atti diretti a commettere un delitto, ma solo quelli “diretti in modo non equivoco” a commetterlo.6

Discente: Passa a dire del secondo rischio, che la punizione del “tentativo” comporta.

Docente: Il secondo rischio é che si venga a punire anche chi - non avendo maturato ancora una salda volontà criminosa, al momento di compiere l'atto lesivo (nell'esempio introdotto, al momento di premere il grilletto) - avrebbe spontaneamente desistito dal reato.

Discente: E ciò avrebbe rilievo?

Docente: E certo che sì, dal momento che, come vedremo nella prossima lezione, non viene punito chi desiste spontaneamente dalla consumazione di un reato, anche se é giunto quasi alla fine dell'iter criminis: Fulano ha comprato il fucile, si é 5 Con ciò veniamo a concordare col Vassalli (Il problema del tentativo, in Convegno nazionale di studi su alcune tra le più urgenti riforme del diritto penale, 1958, p. 26) quando afferma che “inteso nel senso di mera prova dell'intenzione, il requisito della univoca direzione degli atti andrebbe eliminato da un codice rispondente alle moderne esigenze sistematiche, che mal sopportano l'inclusione di criteri probatori nelle norme di diritto penale sostanziale”.6 Va ricordato che quando il legislatore volle escludere dal codice la distinzione tra “atti preparatori” e “atti esecutivi”, le Corti e le Università si opposero vedendo in ciò un pericolo per la libertà individuale. E proprio al fine di tacitare tale opposizione il legislatore introdusse il requisito della “univocità” degli atti. Sul punto cfr., Petrocelli, Il delitto tentato, Padova, 1955, p. 53 ss.Su quando deve essere ritenuta la “univocità” degli atti, sono state proposte due teorie. Secondo una prima teoria (teoria soggettiva), la prova che l'atto era diretto al delitto, può essere desunta, non solo dall'atto stesso, ma anche aliunde. Secondo una seconda teoria (teoria oggettiva) tale prova, invece, può essere desunta solo dall'atto stesso.Alla prima teoria si obietta, che essa giunge a una “interpretatio abrogans” (così, Fiandaca, Diritto penale – Parte generale, Zanichelli, 2004, p. 428), in quanto già in base ai principi l'elemento soggettivo si può ritenere sussistente solo in quanto non dubbio, quindi “univoco”. Tale obiezione si può, però, a nostro parere, superare ritenendo che il legislatore, parlando di “univocità” minus dixit quam voluit: in realtà egli volendo, non semplicemente che risulti dalle prove dedotte dalla P.A. la volontà delittuosa, ma che risulti in modo evidente.

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appostato, ma al momento di premere il grilletto, ci ripensa: non viene punito.

Discente: In buona sostanza, punendo Fulano, che é stato bloccato al momento di compiere l'atto propedeutico (al crimine) A, lo si punisce quando ancora non si può escludere che, giunto al momento decisivo, non avrebbe avuto un ripensamento: in definitiva é come se lo si privasse di una chance, quella della desistenza e di assicurarsi con essa la piena impunità.Però, mi pare che già il requisito della univocità (nel senso dell'intenzione criminosa, che deve presentare l'atto propedeutico per essere punito) già dovrebbe garantire che tale atto sia espressione di una matura e salda volontà criminosa.

Docente: Per nulla: pensa a certo Bresci che: compra una rivoltella, compra il biglietto della nave, scrive alla sorella che l'indomani si imbarcherà per far la festa al Re d'Italia e in effetti l'indomani si imbarca: é, o no, l'imbarco del Bresci univoco nel dimostrare la sua volontà criminosa?! Certamente, sì; e tuttavia tra il dire e il fare...c'è di mezzo il mare: quante cose possono accadere durante il viaggio in grado di smuovere il potenziale assassino dal suo proposito criminoso!

Discente: E allora? vuoi dire che non é giusto punire il tentativo?

Docente: Rinunciare a punire il tentativo di certo non si può. Però, al fine di evitare patenti ingiustizie, occorre adottare due misure.Prima di tutto, occorre limitare la punizione a quegli atti che, per il fatto stesso di essere stati compiuti nonostante che espongano il loro autore a una sanzione giuridica o sociale, fanno pensare a una volontà criminosa, che ha raggiunto un notevole grado di saldezza.

Discente: Fai qualche esempio.

Docente: Pensa a questo caso: Fulano, che si propone di scassinare la cassaforte di Caio: A) compra degli arnesi da scasso, B) si reca dove abita Caio; C) entra nell'abitazione di Caio e....qui é bloccato. Chiaro che Fulano, compiendo l'atto C) si espone alle sanzioni per chi viola il domicilio altrui (art. 615): ora se Fulano ha deciso di esporsi a tale sanzioni, chiaramente lo ha fatto perché ha maturata una salda risoluzione di commettere il furto.Pensa ancora a quest'altro caso: Bresci, che si propone il regicidio: A) compra la pistola, B) traversa l'Atlantico; C) arriva a Monza; D) si apposta col fucile alla porta da cui deve uscire il Re e.... qui viene bloccato Chiaro che l'atto D (l'appostarsi con un fucile nella pubblica via), anche se di per sé, al contrario della violazione di domicilio, non é previsto da nessuna norma come reato, e quindi non espone a

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nessuna sanzione giuridica, espone, però, al rischio di una sanzione sociale (la riprovazione del pubblico, e, ancor più, la reazione del pubblico): l'accettazione di tale rischio non depone forse per la saldezza della risoluzione criminosa del Bresci? Chiaramente, sì7.

Discente: Però il legislatore non fa nessuna menzione del requisito di cui tu parli. Di più, mentre il Codice Zanardelli, distingueva, tra gli atti propedeutici alla consumazione di un reato, quelli “preparatori” e quelli “esecutivi”, per escludere la punibilità dei primi, tale distinzione, nel Codice Rocco, non é stata ripetuta.

Docente: E' così, é vero: non fu ripetuta perché si ritenne che tra le due categorie di atti non vi fosse una chiara linea di demarcazione. Con tutto ciò, a mio parere, una distinzione si impone8.Discente: Passa ora a dire dell'altra misura che é necessario adottare per limitare l'ingiustizia insita nella punizione del mero tentativo.

Docente: Per compensare l'incertezza su un possibile ripensamento (anche in extremis) del reo (e per compensarlo della perdita della chance di effettuare tale ripensamento) bisogna ridurre la pena.

7 Naturalmente il reo si esporrà alla riprovazione e alla reazione del pubblico solo quando l'atto da lui compiuto indicherà in modo “oggettivo”, cioé di per sé, il suo intento criminoso. E forse é questo che trae in inganno i fautori della teoria oggettiva (di cui alla precedente nota); ma un conto é il dire che l'atto, perché riveli al pubblico la sua intenzione criminosa, deve rivelarla di per sé (cioé oggettivamente) e un conto il dire che l'atto, per essere apprezzato dal giudice come intenzionato a compiere un crimine, deve rivelare tale sua intenzionalità oggettivamente: la prima affermazione é vera, la seconda é falsa.8 E' un fatto che la maggior parte degli ordinamenti stranieri (cfr. Petrocelli, Il delitto tentato, Padova, 1955, p. 59) distingue tra “atti esecutivi” e “atti preparatori”. E ancor oggi, nonostante la proclamata intenzione del nostro legislatore di abolire tale distinzione, ne riconoscono la rilevanza, autorevoli Studiosi -. ad esempio, il Battaglini G. (Diritto penale, p. 4278) e il Ranieri (Diritto penale, I, 755, 357). Del resto, alla necessità di aggiungere al requisito della univocità e della idoneità (di cui parleremo nella prossima lezione), un terzo requisito, porta l'interpretazione sistematica della legge. E, precisamente, la considerazione dell'art. 115 C.P. che – comportando la non punibilità di tutta una serie di atti, ancorchè di per sé “idonei” ed “univoci” (l'accordo di due persone per commettere claris verbis un dato reato, la visitazione delle armi e dei luoghi compiuta da una parte per decidere se concludere tale accordo – vedi descritti, tali atti, da Petrocelli, Op. cit., p. 77) - fa dedurre che atti simili (idest, atti ancorché“idonei” ed “univoci”) non siano puniti, pur non essendo compiuti nel contesto di un accordo o di una istigazione criminosa; e quindi obbliga a cercare un terzo requisito per la punibilità di un atto propedeutico (alla consumazione del reato). Requisito che la logica non potrebbe ravvisare che nella “serietà” dell'intenzione criminosa.

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Discente: Cosa che il nostro legislatore nel secondo comma dell'articolo 56 mi pare che faccia.

Docente: Non dico di no: anche il nostro legislatore certe volte si comporta saggiamente.

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Lezione 9 - Reato putativo – Delitto impossibile – Tentativo inidoneo – Desistenza

Docente: Il reato putativo é previsto dal primo comma dell'art. 49, che recita: “Non é punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato”E' il caso di chi va con la moglie altrui ritenendo che l'adulterio costituisca reato (reato putativo per errore di diritto) o di chi spaccia come droga un quid, che crede cocaina, mentre é solo innocua polvere bianca (reato putativo per errore di fatto)9.

Discente: Strano che il legislatore lasci impunito chi compie un reato putativo, dato che, chi lo compie, non lede, sì, nessun bene (dal legislatore tutelato), però, dimostrandosi insensibile alla minaccia legislativa (di una sanzione), con ciò stesso si dimostra anche capace di compiere in un domani, non un reato esistente solo nella sua fantasia, ma un reato punito dal codice.

Docente: Effettivamente, sia il reato p. per errore di diritto, sia il reato putativo per errore di fatto, sono rivelatori di una pericolosità sociale.(Anche se, bisogna rilevarlo, sono indici di una pericolosità di intensità diversa: infatti, mentre il reato p. per errore di diritto é, di per sé, unicamente sintomo di una generica inclinazione a non conformarsi ai precetti legislativi ritenuti inopportuni o ingiustificati10, il reato p. per errore di fatto, rivela altresì che il suo autore non condivide i valori accettati dal legislatore: io, legislatore, ritengo che l'uso della droga sia male e tu, Fulano, spacciando quella che tu credi cocaina, dimostri di ritenere il contrario)11.9 E' discusso se l'articolo 49 si riferisca, per sancirne l'impunità, sia all'una che all'altra figura di reato putativo. Sul punto v., Neppi Modona, Il reato impossibile, p. 33.Certo é che la non punibilità del reato putativo per errore di diritto, a prescindere dal disposto dell'articolo 49, risulterebbe dal semplice fatto che, volendo punirlo, non si saprebbe....con quale pena punirlo.10 Ma fu proprio di un orientamento giuridico, affermatosi durante il Nazional-socialismo e di cui il Welzel fu il massimo esponente, il vedere, la ragione profonda che giustifica la punizione del reo, nella sua disubbidienza al precetto legislativo (nella ribellione al “potere spirituale che informa la vita del popolo”, dice il Welzel, in Das Deutsche Strafrecht, 7° ediz. 1960, p.171 – riferendosi proprio al reato tentato).Proprio per reazione (eccessiva) a tale orientamento, si é venuto in questo dopoguerra affermando l'orientamento, che vuole esclusa la punibilità di un'azione, se non é lesiva di un concreto bene.11 E' significativo che, nella Relazione del Guardasigilli Rocco sul Progetto definitivo (in, Lavori preparatori, vol. V, parte I, 1929, pp. 92-93), si giunga ad escludere, in relazione al

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Discente: Ma se é così, se il reato putativo é rivelatore di una pericolosità sociale, perché il legislatore non lo punisce?

Docente: Probabilmente per la difficoltà di individuare una pena congrua per ciascun reato putativo: difficoltà certamente più forte nel caso di reato putativo per errore di diritto (che pena infliggere per chi crede di versare in re illicita commettendo adulterio e che pena infliggere per chi crede di commettere reato gridando”Viva il re”? evidentemente una pena diversa nei due casi, ma quale? insomma il legislatore dovrebbe accanto al codice penale per i reati reali scrivere un codice penale per i reati putativi), ma difficoltà certamente non indifferente anche in caso di reato p. per errore di fatto (dato che la pena per il reato putativo certamente dovrebbe essere inferiore a quella del reato reale, ma di quanto?!).

Discente: Ma, comunque sia, la impunità concessa al reato putativo non contrasta con quel “principio di materialità”, che abbiamo studiato parlando della funzione della pena?

Docente: No, perché tale principio vuole, che non sia punito chi non ha commesso un fatto che dimostra la sua insensibilità alla minaccia della pena, ma non pretende che sia punito ogni e qualsiasi persona che dimostri insensibilità alla minaccia legislativa. Insomma la insensibilità (alla minaccia legislativa) é condizione necessaria, ma non sufficiente per la punibilità: perché questa possa esserci occorre un quid pluris.

Discente: Evidentemente questo quid pluris é dato dalla lesione o dalla messa in pericolo del bene tutelato dal legislatore.

Docente: Così sembrerebbe dalla lettura, sia del secondo comma dell'articolo 49, che recita “La punibilità é altresì esclusa quando, per la inidoneità dell'azione o per l'inesistenza dell'oggetto di essa, é impossibile l'evento dannoso o pericoloso”, sia del primo comma dell'articolo 56 che, come già sappiamo, recita “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica”.

Discente: Due parole di commento allora sull'articolo 49 (e non mi riferisco anche

reato putativo per errore di diritto, ogni valore sintomatico di quella pericolosità che, invece, si riconosce al reato putativo per errore di fatto (e che giustificava, nel pensiero del Guardasigilli, la sua assimilazione al reato impossibile e, quindi, la previsione nei suoi confronti di una misura di sicurezza).

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all'articolo 56, dato che questo, in definitiva, non fa che ripetere il concetto già espersso dall'articolo 49).

Docente: Effettivamente é così, il riferimento all'idoneità degli atti contenuta nell'articolo 56 é resa superflua dal disposto dell'articolo 49 – e sul punto mi pare ci sia unanimità tra gli Studiosi. Ma veniamo all'articolo 49. La prima cosa da dire é che non può essere interpretato alla lettera.

Discente: Perché?

Docente: Perché in tal caso condurrebbe ad assoluzioni chiaramente e pacificamente inammissibili. E per convincertene pensa solo a questo caso: l'agente provocatore finge di voler comprare della droga, Fulano gliela “vende”: chiaramente l'azione di Fulano é del tutto inidonea a ledere il bene tutelato dal legislatore, ma chi mai potrebbe sostenere la sua non punibilità?

Discente: Dunque vi sono atti “non idonei” che vanno puniti e “atti non idonei” che invece non vanno puniti”: con che criterio distinguere gli uni dagli altri?

Docente: Il criterio é questo: tu, giudice, devi dichiarare non punibile l'atto inidoneo solo quando la tua sentenza (di assoluzione) non diminuisce la tutela del bene difeso dalla norma incriminatrice e, in primis, quindi, non diminuisce l'efficacia deterrente della minaccia contenuta nella norma incriminatrice. Se diminuisce questa tutela, se diminuisce questa efficacia deterrente (di poco o di tanto, non importa) devi condannare. Infatti, ogni interpretazione della norma che diminuisse la tutela di un bene tutelato dalla costituzione (e tutti i beni la cui lesione comporta una sanzione penale, lo sono), inevitabilmente si porrebbe, é quasi lapalissiano, in contrasto con la Costituzione.

Discente: Fai qualche applicazione pratica di tale criterio.

Docente: Partiamo dai casi facili e pacifici: i casi in cui la idoneità a ledere dell'azione va esclusa in base alle leggi naturali: il caso di Fulano I che per uccidere fa una fattura o che spaccia credendola droga la polvere di borotalco. Sono casi in cui chiaramente l'assoluzione dell'imputato si impone. Infatti il messaggio che la sentenza di assoluzione manda al pubblico é “Non sarà punito chi fa una fattura per uccidere o chi spaccia borotalco”; e può anche darsi che, recependo tale messaggio, qualche testa fuori posto si senta incoraggiata fare delle fatture, come non é escluso che qualcuno si senta incoraggiato a spacciare del borotalco, ma forse che tali atti porrebbero in pericolo o lederebbero quel bene della vita o della

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salute che la norma incriminatrice tutela? No, di certo.

Discente: Per cui può ben dirsi che la tutela dei beni della vita e della salute non risulta per nulla menomata, anche se si lascia via libera a tali atti. Ma questi sono casi facili (di esclusione della punibilità), veniamo a casi un po' più difficili: Fulano I spara e sbaglia la mira: il fatto stesso che la pallottola non abbia raggiunto il suo bersaglio significa che l'azione dello sparatore era inidonea a farglielo colpire12: di conseguenza Fulano I va prosciolto? Ancora: Fulano I fa scoppiare una bomba sotto un letto credendo che vi dorma il suo nemico Beppe, il quale, invece, per sua fortuna, si é recato a bere un caffè nel bar sotto casa: chiaramente anche in questo caso l'azione diretta a uccidere era inidonea, significa ciò che Fulano I va assolto?

Docente: No, non va assolto perché la sua assoluzione manderebbe a Fulano II, un potenziale omicida, il messaggio: “Se tu spari e sbagli il bersaglio (oppure, se tu metti una bomba dove credi che stia il tuo nemico e questo non c'é), non sarai punito”. Ora questo messaggio effettivamente diminuisce il potere deterrente della minaccia legislativa. Infatti ogni mente criminale, al momento di decidere se compiere, o no, la progettata impresa delittuosa, fa il calcolo dei pro e dei contro; e in questi mette anche il rischio di non raggiungere lo scopo criminoso (nell'esempio, di non riuscire ad uccidere) e le conseguenze negative che gliene deriverebbero anche in tale caso di insuccesso (“Mi conviene sparare se vi sono solo dieci probabilità su cento di colpire? No, di certo se, anche qualora fallissi, verrei messo in galera”). Quindi non punire gli atti diretti a ledere, nei casi in cui l'azione criminale non ha raggiunto lo scopo - o per le modalità dell'azione (imperizia del reo....) o per l'assenza di una circostanza ritenuta dal reo presente (Beppe non dormiva nel suo letto) o per la presenza di una circostanza ritenuta dal reo assente (Fulano si reca nella casa di Beppe per rubare e lì ha la sgradita sorpresa.... di trovarvi la polizia) - significa ridurre l'efficacia intimidatrice della minaccia legislativa.

Discente: Fino ad adesso abbiamo fatto casi di lieve o media difficoltà, facciamone uno di rilevante difficoltà: il caso di Fulano I che falsifica, metti, la sua patente, ma in modo talmente grossolano da non poter trarre in inganno nessuno: va punito?

12 “Specie in passato – ma questo orientamento si riscontra ancora oggi nell'ambito della giurisprudenza – si era soliti risolvere il concetto di idoneità in quello di efficienza causale: in tale senso, gli atti realizzati dovrebbero essere capaci di cagionare l'evento preso di mira. (…..... Ma) se fosse veramente adottabile un'ottica di tipo causale, il giudizio relativo all'idoneità dovrebbe compiersi ex post: ma, secondo una valutazione ex post, non vi sarebbe mai tentativo punibile proprio perché il mancato verificarsi dell'evento costituirebbe irrefutabile riprova della “inidoneità” degli atti compiuti a cagionarlo!” -così, Fiandaca – Musco, in Diritto penale – Parte generale, Zanichelli, quarta edizione, p.423).

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Docente: Secondo me, va punito. Certo, la grossolanità del falso fatto da Fulano I non ha posto di per sé in pericolo il bene della fede pubblica; ma non é questo che conta: quel che conta é che l'assoluzione di Fulano I manda il seguente messaggio a qualsiasi Fulano II, falsificatore in pectore: “Il falso, se tale da non ingannare nessuno, non é punito”; al che Fulano II é autorizzato a fare il ragionamento “Io faccio il falso, se riesce bene e quindi riesco ad ingannare chi mi legge la patente, ottimo, il mio scopo l'ho raggiunto, se riesce male...pazienza, ritenterò fino a che, imparata l'arte, saprò falsificare a dovere”. Quel che può indurre a ritenere (erroneamente) l'impunità del falso grossolano é la considerazione della inettitudine criminale del reo, di Fulano I; ma non questo conta: Fulano I può essere inetto, ma Fulano II (il destinatario del “messaggio” che scaturisce dalla sentenza) può ben non esserlo.

Discente: Generalmente si sostiene che, per determinare l'idoneità dell'atto, bisogna fare una sorta di diagnosi postuma, cioé domandarsi, non col senno del poi, ma col senno e le conoscenze che poteva avere una persona avveduta al momento e nel luogo in cui Fulano I ha agito, se l'azione (di Fulano I) poteva avere esito positivo13: tu ritieni che tale criterio abbia pregio?

13 “(Il concetto di idoneità) richiama l'idea di capacità potenziale, attitudine, congruità dell'atto compiuto rispetto alla realizzazione del delitto preso di mira. L'effettiva portata del requisito si chiarisce, puntualizzando sotto quale angolazione ci si deve porre per stabilire se un determinato atto sia o no idoneo rispetto al risultato. Si concorda, oggi, nel ritenere che il parametro di accertamento dell'idoneità consiste in un giudizio ex ante e in concreto (criterio della c.d. prognosi postuma): il giudice cioé, collocandosi idealmente nella stessa posizione dell'agente all'inizio dell'attività criminosa, deve accertare – alla stregua di una valutazione operata in base alle conoscenze dell'uomo medio, eventualmente arricchite delle maggiori conoscenze dell'agente concreto – se gli atti erano in grado, tenuto conto delle concrete circostanze del caso, di sfociare nella commissione del reato. Tale criterio va sotto il nome di “prognosi postuma” perché il giudizio prognostico viene effettuato sì dopo la commissione degli atti di tentativo, ma ponendosi con la mente nel momento iniziale dell'attività delittuosa: soltanto questa prognosi a posteriori consente, d'altra parte, di accertare se l'agente concreto sia in possesso di conoscenze “ulteriori” rispetto a quelle proprie dell'uomo medio. Così ad es. la somministrazione di zucchero ad una persona, considerata ex ante in base a valutazioni medie, non può certo essere ritenuta idonea a cagionare la morte; il giudizio tuttavia muta, se si accerta che il reo era a conoscenza del grave stato diabetico della vittima designata. Rimane, a questo punto, da precisare se il criterio della prognosi postuma debba essere applicato effettuando il giudizio di idoneità su una base parziale ovvero su una base totale. Invero, é attestato nel primo senso l'orientamento dominante, accolto anche dalla manualistica di gran lunga prevalente: il giudizio di idoneità é a base parziale in quanto tiene conto soltanto delle circostanze conosciute o conoscibili, al momento dell'azione, da un uomo avveduto pensato al posto dell'agente concreto; mentre esso non tiene conto di circostanze eccezionali oggettivamente presenti sin dall'inizio, ma conosciute dopo”. - così, Fiandaca-Musco,

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Docente: Io lo negherei: il fatto che Fulano II (l'uomo avveduto di cui fa parola tale teoria) si sarebbe accorto di quell'inidoneità dell'azione che é sfuggita a Fulano I, che cosa dimostra? Al massimo che Fulano I é un inetto criminale; e questo non rileva. Quel che solo rileva infatti é il tipo di messaggio che l'assoluzione di Fulano I manda a un qualsiasi Fulano II, potenziale violatore della legge. E questo messaggio - nel caso che l'uomo avveduto si sarebbe accorto della inidoneità dell'atto ecc.ecc. - potrebbe così formularsi: “Non é punito chi compie un tentativo di omicidio in condizioni in cui qualsiasi uomo avveduto si sarebbe accorto che il tentativo doveva fallire”. Al che Fulano II (il destinatario del messaggio che scaturisce dalla sentenza) potrebbe ragionare “Io il tentativo lo faccio, se sono così stupido di farlo quando qualcuno di me più intelligente avrebbe capito che era destinato al fallimento, pazienza, tornerò impunito a casa e studierò meglio la cosa la prossima volta”. E poco male se Fulano II facendo il tentativo si dimostra imperito e questo fallisce; ma se riesce?!

Discente: Del tentativo inidoneo e del delitto impossibile abbiamo parlato abbastanza: voltiamo pagina: parliamo della desistenza e del c.d. “pentimento operoso”. A te la parola.

Docente: La desistenza é prevista dal terzo comma dell'articolo 56, che recita: “Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso”.Un esempio di desistenza? Pensa all'anarchico che, dopo aver progettato di far saltare il palco delle autorità con una bomba, dopo aver comprata la bomba, dopo averla collocata sotto il palco, ha un ripensamento e non aziona il congegno che a tempo debito avrebbe dovuto far scoppiare la bomba.

Discente: Sì, ma perché il legislatore non punisce l'attentatore che desiste?

Docente: Si é soliti spiegare ciò con l'opportunità di allettare l'attentatore con la promessa dell'impunità come premio della desistenza14. Io penso, però, che l'impunità riconosciuta all'attentatore che desiste, non debba essere considerata un premio, ma che molto semplicemente derivi dalla constatazione che nel reo hanno finito per prevalere, sull'impulso a delinquere, i controimpulsi a questo.

Discente: Ma tali controimpulsi possono essere di varia natura: alcuni, “nobili”

Opera citata, p.424.14 La teoria premiale (a spiegazione della non punibilità della desistenza), si fa risalire al Feuerbach.

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(compassione per la vittima, ritrovato senso dell'onore....), altri, invece, di natura prettamente utilitaristica (timore della sanzione, constatazione della difficoltà dell'impresa criminale e della possibilità di essere facilmente scoperti...). Anche se il reo desiste, mosso da questo secondo tipo d'impulsi, viene a godere dell'impunità?

Docente: Certo: mettiamo pure che l'attentatore abbia desistito solo per paura della sanzione: ciò significherebbe che la minaccia della sanzione ha svolta la sua funzione, senza bisogno di essere applicata: l'optimum per il legislatore!Insomma non c'é bisogno di premiare Fulano I, che desiste a metà dell'iter criminis, più che ci sia bisogno di premiare Fulano II che, non meno criminale di Fulano I, ma più di lui calcolatore, neanche ha iniziato a percorrere l'iter criminis.Del resto di “premio” ci sarebbe ragione di parlare solo se, avendo l'attentatore commesso dei reati al fine di progredire nell'iter criminis (il ladro che rompe i vetri della finestra per entrare nell'abitazione altrui), il legislatore, per tali reati, concedesse l'impunità; il che però non é (rileggiti la citata disposizione di legge).

Discente: Il legislatore subordina l'impunità alla volontarietà della desistenza: quando, però, può dirsi che la desistenza sia volontaria?

Docente: Quando il reo rinuncia a proseguire nell'iter criminis pur avendo ancora delle chances, poco importa se ridotte al lumicino, di giungere con successo al suo capolinea15: il ladro che, giunto nei pressi dell'abitazione in cui deve operare, si accorge che vi é la polizia appostata e solo allora desiste, desiste utilmente, se esistevano delle probabilità anche minime, che, nonostante la sorveglianza della polizia, potesse commettere il furto. Questo vuole la logica: se il legislatore non punisce chi, pur intenzionato a commettere un crimine, non inizia l'iter criminis, solo per le altissime probabilità di essere scoperto, neanche può punire chi non prosegue nell'iter criminis, in considerazione delle altissime probabilità di un insuccesso.

Discente: Vuoi fare un esempio di desistenza invece improduttiva dell'impunità?

Docente: Pensa al borseggiatore che, infilata la mano nella tasca della vittima designata, lesto la ritira, perché questa si é accorta del suo gesto e si é messa in guardia: che possibilità avrebbe in questo caso il ladro di commettere il furto? 15 Identica é l'interpretazione del Manzini (esposta in, Trattato di diritto penale, Torino, 1933, cap. XIII, pagr. 443, p. 393), il quale afferma: “L'impossibilità di un utile prosecuzione del tentativo deve essere assoluta e definitiva per escludere la desistenza giuridicamente efficace. Allorchè sussista tuttora sia pure la mera possibilità (quantunque, non la probabilità) di proseguire utilmente, può benissimo verificarsi la desistenza volontaria esimente la pena”.

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nessuna: la sua desistenza non può dirsi volontaria.

Discente: Abbiamo parlato della desistenza, parliamo ora del “pentimento operoso”.

Docente: Esso é contemplato dal quarto comma dell'articolo 56, che recita: “Se (il colpevole) volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”.Fulano II ha percorso tutto l'iter criminis (per riferirci all'esempio prima intriodotto: ha posto la bomba sotto il palco delle autorità, ha azionato il meccanismo ad orologeria...): tutto quello che egli doveva fare, l'ha fatto: ora...le cose dovrebbero marciare da sole. Però a questo punto ha un ripensamento: torna indietro e blocca il meccanismo ad orologeria: la bomba non scoppierà più. Questo é un esempio di pentimento operoso.

Discente: Ci sarebbe da aspettarsi che il legislatore, come esenta da pena Fulano I (che prima di collocare la bomba é ritornato sui suoi passi), così, da pena, esenti Fulano II che ritorna su i suoi passi per disinnescare la bomba; anzi, ci sarebbe da aspettarsi che, non solo lo esenti da pena (come Fulano I), ma lo premi con un quid pluris: in fondo Fulano I, per impedire l'evento, ha solo dovuto cessare dall'agire (il che é come dire, ha dovuto cessare di esporsi al pericolo), mentre Fulano II, per impedire l'evento, deve ulteriormente attivarsi, esponendosi così al pericolo di essere preso o addirittura ucciso da un poliziotto. E invece? Invece, il legislatore si limita a diminuirgli la pena prevista per il delitto tentato. A me ciò pare ingiusto.

Docente: E forse lo é16. Anche se non si può negare che almeno due buone ragioni depongano per la soluzione adottata dal legislatore. Prima: una volta che Fulano II, ha messo in moto il meccanismo, che deve provocare l'evento dannoso, egli ha anche creato una situazione di pericolo: sì, tale situazione di pericolo da lui é stata

16 Vannini (Il problema giuridico del tentativo, p. 119): “ Non vedo come possa spiegarsi l'effetto soltanto diminuente dell'attuoso ravvedimento in confronto al pieno effetto esimente assegnato alla desistenza volontaria, quando si pensi che la distinzione fra delitto tentato e delitto mancato é stata giustamente abolita per la ragione che non sempre l'esaurimento dell'azione esecutiva implica una più intensa violazione dell'interesse protetto, né sempre esprime una maggiore pericolosità soggettiva in confronto all'azione non ancora esaurita.”E' il Messina, poi, che ricorda (in La desistenza volontaria, Giuffrè, 1954, p.31 nota, 58) come nel Codice tedesco (paragrafo 46) “non soltanto la nostra desistenza volontaria (nel tentativo incompiuto) sia causa di non punibilità, ma anche il pentimento operoso, qualora il volontario impedimento dell'evento si abbia in un momento in cui l'azione non era stata ancora scoperta”.

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eliminata, ma poteva anche non esserlo (anche indipendentemente dalla sua volontà: pensa al caso ch'egli fosse morto, metti per un colpo al cuore, dopo aver innescata la bomba). E chi fa sorgere una situazione di pericolo può ben essere ritenuto meritevole di pena. Seconda (ragione per non esentare completamente da pena Fulano II, il pentito): al contrario di Fulano I (il desistente), Fulano II ha dimostrato, portando a termine il tentativo, di non essere sensibile alla minaccia della pena.

Lezione 10 - Coscienza e volontà dell'atto. I c.d. atti automatici. Colpa per ignoranza e negligenza

Docente: Abbiamo visto, in una delle primissime lezioni, che il nostro Legislatore non punisce una persona solo perché ha delle pulsioni antisociali, ma in quanto il timore della sanzione non é per lei sufficiente freno allo sfogo di tali pulsioni; insomma, perché si dimostra insensibile alla minaccia della sanzione penale. Poco importa che Fulano, come un novello Landrù, sia tentato di squartare le sue amanti, se egli....da ciò si astiene per timore della pena.Quindi, si pone il problema di quali siano le condizioni necessarie a che si possa dire, che il destinatario della minaccia legislativa sia insensibile a questa: breviter, quali siano le condizioni di efficacia della minaccia legislativa.

Discente: Quindi, condizioni, sussistendo le quali, una persona, che compie il fatto-reato, sarà punita e, non sussistendo le quali, non sarà punita.

Docente: Non confondiamo argomenti del tutto diversi: ora vedremo le condizioni di efficacia della minaccia legislativa, in altre lezioni vedremo le condizioni a cui é subordinata l'esistenza del reato.

Discente: Va bene, avevo frainteso: può capitare. Dimmi allora quali sono queste condizioni di efficacia della minaccia legislativa.

Docente: Le condizioni, a che abbia senso e possa (almeno in teoria) sortire effetto, la minaccia fatta da una norma a Fulano, perché si astenga da un comportamento (A), lesivo di un bene da essa tutelato, sono: I- che il comportamento (A)17 possa, con un atto di volontà, essere evitato da Fulano; II- che Fulano abbia conoscenza della minaccia legislativa; III- che Fulano sappia di stare ponendo in essere proprio il comportamento da cui la minaccia legislativa lo vuol

17 Naturalmente qui il termine “comportamento” va inteso ia in senso positivo che negativo <. sia come “azione” che come “omissione”.

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dissuadere.

Discente: Bene, comincia allora a dire quando viene a mancare la condizione sub I.

Docente: Prima di tutto, la condizione sub I viene a mancare quando ci si trova di fronte a una norma che minaccia a Fulano I una pena per un comportamento, non suo, ma di Fulano II.

Discente: Come può accadere una cosa simile? E' evidentemente assurdo punire una persona per il comportamento di un altro.

Docente: Sarebbe assurdo se la minaccia fosse rivolta a Fulano I: é infatti assurdo minacciare una persona per indurla a tenere un comportamento, che non é in suo potere (ma in potere di un'altra persona, nell'esempio, di Fulano II) tenere o no. Ma non é nient'affato assurdo, se la minaccia é in realtà rivolta a Fulano II: “Tu, Fulano II, mi indichi, chi ha compiuto l'atto terroristico, oppure noi uccidiamo tuo figlio, Fulano I”.

Discente: Ma se é così, non si può parlare di una vera e propria pena applicata a Fulano I e tanto meno di una sua responsabilità penale: Fulano I é semplicemente una persona a cui si farà del male per costringere Fulano II a un dato comportamento

Docente: Tu hai ragione, ed effettivamente il comma primo dell'articolo 27 - che, per escludere la liceità di situazioni come quella ora esposta, recita” La responsabilità penale é personale” - imposta assai male la questione a cui vuol dar risposta. Tuttavia, ancorché male impostata, tale disposizione é importante perché permette di argomentare la incostituzionalità di una norma, che punisse una persona per un comportamento, che non era in suo potere di tenere o no (il comportamento solo apparentemente appartiene all'agente, in realtà non é “suo”: manca il requisito della suitas).

Discente: Cioè permette di argomentare la incostituzionalità di una “responsabilità obiettiva”.

Docente: Qui bisogna intenderci. Sì, l'articolo 27, esclude la liceità di una responsabilità obiettiva, se per questa si intende: responsabilità di Fulano I per un comportamento che non é in suo potere di compiere o non compiere; no (cioé non esclude una responsabilità obiettiva), se per questa si intende una responsabilità di

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Fulano per un comportamento mancante di colpa e di dolo. Ed é proprio questa seconda argomentazione che fanno molti studiosi, per escludere ad esempio la costituzionalità dell'articolo 584, che recita: “Chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli articoli 581 e 582, cagiona la morte di un uomo, é punito con la reclusione da dieci a diciotto anni “.

Discente: E infatti pare anche a me molto ingiusto che una persona rischi diciotto anni di carcere solo perché, avendo dato uno schiaffo a uno, questo malamente cade, batte il capo su una pietra e muore.

Docente: Tu non puoi negare che sussiste davvero la probabilità che, chi riceve uno schiaffo, cada malamente e...vada anzitempo al Creatore.

Discente: Certo che sussiste, ma é piccolissima: metti, c'é una probabilità su mille che si realizzi; e una persona non può essere condannata a dieci anni solo perché ha tenuto un comportamento, che v'era solo una probabilità su mille, che conducesse alla morte di chi lo subiva.

Docente: Ma tu non consideri, che, la gravità di una minaccia, va misurata anche tenendo conto delle probabilità, che venga applicata: minacciare una pena, sì, di 18 anni, ma che vi é una probabilità su mille che si applichi, é una minaccia perfettamente adeguata, per dissuadere da un comportamento, che v'é una probabilità su mille, che porti alla morte di chi lo subisce.

Discente: Sia come sia; andiamo oltre. C'é qualche altro caso, in cui manca la condizione sub I, necessaria per l'efficacia della minaccia legislativa?

Docente: Certamente, sì: altro caso in cui la minaccia legislativa non ha senso é quello dei cc.dd. atti automatici: pensa a chi, in preda a una crisi epilettica, muove scompostamente un braccio e colpisce una persona; pensa a chi, preso da un violento conto di vomito, sporca gli abiti di un vicino o a chi, a cagione di uno starnuto irrefrenabile, perde il controllo dell'auto e provoca un incidente. In tutti questi casi, chi ha compiuto l'atto (lesivo), non era in grado di dare ai suoi centri nervosi l'ordine di inibire il movimento muscolare relativo. Bisogna però stare attenti a distinguere gli “atti automatici “da quelli “abituali”, che, appunto in quanto tali, spesso vengono compiuti senza riflettere, per così dire “automaticamente”; così come il gettare via il mozzicone di una sigaretta dopo aver fumato. Infatti, mentre non avrebbe senso una minaccia legislativa per inibire gli atti automatici, essa, invece, può manifestarsi utile per inibire gli atti abituali.

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Discente: Sì, però, come distinguere gli atti automatici da quelli abituali?

Docente: Per distinguere gli atti automatici da quelli abituali c'é un semplice criterio: immaginati che, come per magia, il legislatore si fosse materializzato accanto al reo, al momento in cui stava per compiere l'atto, per minacciarlo di una pena certa e gravissima, metti l'ergastolo, se lo compiva: se devi concludere, che, nonostante ciò, nonostante la fisica vicinanza del legislatore minacciante, il reo avrebbe compiuto l'atto (non essendo, come l'epilettico, come la persona in un acuto stato febbrile, in grado di recepire la minaccia), ti trovi di fronte a un atto automatico, se invece devi concludere che il reo, avrebbe desistito dall'atto (lesivo), ti trovi di fronte a un reato abituale.

Discente: Sì, però tu mi devi spiegare qual'é la funzione della minaccia della pena nei casi di atti abituali; e non solo in questi casi, ma in tutti i casi in cui l'atto (lesivo) viene compiuto per disattenzione, come nel caso del chirurgo, che dimentica le pinze nell'addome del paziente, del casellante, che dimentica di azionare le sbarre del passaggio a livello, e così via. Infatti, é chiaro che il casellante, il chirurgo, non pensando, al momento di omettere l'atto dovuto, di stare violando la legge, neanche subiscono l'effetto della minaccia legislativa.

Docente: Io direi che la funzione della pena in questi casi é...quella di ricordare se stessa. Mi spiego: é un dato di esperienza che, mentre una persona può dimenticare una cosa di poco valore, difficilmente dimentica una cosa di grande valore: ad esempio, il viaggiatore può dimenticare sul treno il suo giornale, ma é molto difficile che vi dimentichi una valigetta carica di banconote. Ora la minaccia della pena, rendendo gravido di conseguenze dolorose l'omissione di un atto, rende questo anche importante e quindi molto più difficile a dimenticarsi18.

Discente: I casi a cui tu fai riferimento sono casi in cui l'agente, omette, sì, un atto ignorando di ometterlo, però, solo perché del dovere di compiere tale atto si é dimenticato; insomma il dovere di compiere quell'atto rientra nel suo bagaglio culturale, occorre solo richiamarlo alla sua mente. Vi sono casi invece in cui

18 L'Exner (“Das Wesen”, p- 208) si pone il problema: com'é possibile comandare di prevedere? E ne trova questa soluzione: “In realtà il diritto chiede un determinato interesse di evitare delle conseguenze antilegali, cioé uno stato psichico dato il quale lo sguardo nel futuro si verifica automaticamente. Più esattamente si rimprovera all'attore, nella colpa incosciente, non la mancanza di previdenza, ma la mancanza di quell'interesse che ha avuto come conseguenza il non riconoscere il pericolo.” La differnza tra la nostra concezione e quella dell'Exner é evidente: per noi, il diritto non punisce una persona perché manca di un dato interesse; ma minaccia una punizione a quella persona per far sorgere in lei un dato interesse.

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l'agente omette un atto (o compie un atto), non perché ha dimenticato di doverlo compiere (o di doverlo omettere), ma perché tout court egli ha sempre ignorato di avere un obbligo di compiere (od omettere) quell'atto. Io penso al caso della collaboratrice domestica analfabeta, che versa della stricnina credendola un dolcificante; o del medico, che omette di rilevare come sintomo di una grave malattia un certa chiazza apparsa sulla cute del paziente, semplicemente perché non sa che quella chiazza é sintomo di quella malattia. In questo secondo tipo di casi, sembra inutile la minaccia di una pena: tu legislatore puoi minacciare quanto vuoi, anche con pene severissime (l'ergastolo!), chi propina del veleno a una persona, ma di tale minaccia, la collaboratrice domestica dell'esempio, non si sentirà per nulla dissuasa dal versare la stricnina, per la semplice ragione che essa non sa che questa é un potente veleno; e similmente la minaccia di una pena, anche di una fortissima pena, al medico, che faccia una diagnosi errata, non eviterà che il medico del precedente esempio licenzi il paziente tranquillizzandolo sul suo perfetto....stato di salute, semplicemente perché ignora il significato di sintomo della chiazza sulla cute.

Docente: Effettivamente in questi casi la minaccia della sanzione, non ha la funzione di far riemergere nozioni dimenticate; essa però ha pur sempre un'utile funzione: quella di costringere una persona ad acquisire tali nozioni: l'aspirante alla professione di Eusculapio, sapendo che il medico, che fa una errata diagnosi, é punito severamente, sarà portato a curvare la schiena sui libri per apprendere i sintomi delle varie malattie, e l'aspirante collaboratrice domestica, sapendo che se mai lei desse per errore un veleno, sarebbe severamente punita, si sentirà costretta a istruirsi, se non su tutti i veleni, almeno su quelli più noti19.

19 Ma che dire se l'agente é stato impossibilitato ad acquisire quella cultura (necessaria per evitare il comportamento dannoso) dalle condizioni ambientali in cui é costretto a vivere o dai suoi limiti intellettuali? E' chiaro che nemo ad impossibilia tenetur: egli andrà liberato da ogni responsabilità, a meno che, ben s'intende, consapevole (o dovendo essere consapevole) dei suoi limiti si sia messo a compiere un'attività in cui questi limiti avrebbero rivelato la loro pericolosità.Nel clima del Nazionalsocialismo fu elaborata da alcuni Autori tedeschi (Mezger, Welzel...) la teoria della Taterschuld (colpa d'autore): il reo non merita la pena per quel “fragmento” della sua vita, che é l'azione prevista dalla norma incriminatrice, ma per la sua personalità, o meglio per non aver emendato la sua personalità dalle pulsioni e dai difetti che l'avrebbero portata a compiere l'azione antisociale. Ma - precisa un Autore italiano, che sostanzialmente aderisce a tale teoria, il Bettiol - “va da sé che (…) se nell'agente non sussisteva, la capacità di superare se stesso e di vincere l'inclinazione al reato (…) di nessuna colpa di autore si potrà parlare”. (Bettiol, “Manuale di diritto penale” p. 330).La principale critica mossa alla teoria della Taterschuld é quella di venire a caricare il giudice di un compito “quasi sovrumano” imponendogli di accertare se l'imputato era in grado “di superare gli aspetti innati del suo carattere (.....) le sue anomalie bio-psichiche”

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Discente: Permettimi un'altra obiezione: tu hai detto, che la minaccia legislativa é vana, inutile, quando é volta a costringere a un atto che non é nel potere del reo di compiere – e hai portato l'esempio dell'epilettico. Ora, un caso molto simile a questo, mi pare quello dell'autista che, inesperto nella guida, trovandosi in una situazione di emergenza, “perde la testa”, come si suol dire, e sbaglia manovra (metti, invece di pigiare il freno, pigia il pedale dell'acceleratore). Eppure l'autista imperito viene punito, se non sbaglio.

Docente: No, non sbagli: se l'autista inesperto provoca la lesione o peggio la morte di una persona viene punito, ai sensi degli articoli 589,590, 43 Cod. pen: i primi due, prevedendo e punendo il caso, che una persona causi una lesione o la morte di un'altra per colpa, il terzo, stabilendo che un delitto “é colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se é preveduto, non é voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Discente: Quindi uno viene punito anche per imperizia. Ma perché? Uno fa quel che può; non si può pretendere di più da lui.

Docente: Ma l'autista imperito e in genere chi esercita un'attività con imperizia, non

oppure no (così, Antolisei, Manuale, p.gen. cit, p.238). Ma chi non vede quanto stonate risultino tali critiche, almeno in una materia, come quella del reato colposo, in cui “sappiamo benissimo – sono parole del Marinucci, in “La colpa per inosservanza di leggi”. Giuffrè, 1965, p. 233 – quanto disperanti (per il giudice) siano le difficoltà suscitate dalla ricerca di un “criterio” capace di individuare le regole di prudenza e di diligenza da osservare nel caso concreto; e quanto incerte e malsicure siano poi le applicazioni di quel criterio”?Chiaro che mentre é giusto tenere conto di una “impossibilità” dovuta a condizioni sociali o a limiti intellettuali, sarebbe inammissibile tenere conto di una “impossibilità” dovuta a una mancanza di “forza di carattere”; e infatti in quest'ultimo caso il legislatore può sempre sperare di sbloccare, con la minaccia della sanzione, l'inerzia della volontà.Semplicistica pertanto appare la tesi di coloro che, come il Binding (in “Die Normen und ihre Ubertretung, IV, 1919, p.344) sostiene che la legge va interpretata come se suonasse “Tu devi evitare un agire illecito, in quanto tu (….) lo possa “. A tale tesi é pertinente la obiezione che fa il Kelsen (in “Hauptprobleme der Staatsrechtslehre”, 1923, p. 136): “Il fatto che una qualche cosa non é stata prevista ed evitata, dimostra a sufficienza che non si poteva evitare e prevedere perché tutto ciò che accade, deve accadere così come accade”. Per cui, se, per metterci in un caso limite, un asso del volante (riflessi prontissimi, ecc.), non volendo sottoporsi allo sforzo attentivo che la guida comporta, investisse un pedone, non si potrebbe a rigore dire che “egli poteva evitare l'incidente”: infatti con la forza di carattere che egli aveva avuto da madre natura, gli era “impossibile” fare lo sforzo di concentrazione necessario (in tal senso, anche, Marinucci Op. cit., p.186).

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viene punito per l'imperizia in sé, ma per l'imprudenza dimostrata mettendosi a svolgere un'attività per cui non era perito.

Discente: Ma se egli si é messo a svolgerla perché ignorava di essere imperito?

Docente: Vuol dire che sarà punito per la sua ignoranza, o meglio, come poco fa abbiamo spiegato, per non aver fatto nulla per eliminare la sua ignoranza.

Discente: Un'ultima domanda prima di chiudere questa lezione: la minaccia legislativa deve considerarsi efficace nei riguardi di chi é “incapace di intendere e di volere” (artt. 85 segg.)?

Docente: Bisognerebbe vedere caso per caso; ma di massima si può dire che la minaccia legislativa é in grado di svolgere un effetto intimidatorio anche nei riguardi dell'incapace. Anche un ubriaco fradicio si sente intimidito se gli spiani in faccia una rivoltella; e ciò dimostra che egli può essere intimidito da una minaccia. Certo, la risposta di una persona ubriaca a una minaccia é verosimilmente diversa, da quella che essa darebbe, se sobria; per cui non si può dire se Fulano, che siede sul banco degli imputati accusato di un omicidio, commesso mentre era ubriaco fradicio, dimostrerebbe, da sobrio, quella stessa insensibilità alla minaccia della pena, che ha dimostrato da ubriaco (e che giustificherebbe l'applicazione della pena nei suoi confronti). E lo stesso deve ripetersi in quei casi di infermità mentale in cui in un individuo vi é un'alternanza di personalità diverse: in lui alcune volte parla il dottor Jekill, altre volte, mister Hyde. Per cui può sembrare ingiusto condannare il dottor Jekill per quel che ha fatto un certo mister Hyde. Ciò non toglie però che mister Hyde, mentre agiva era influenzato dalla minaccia legislativa. Chiaramente poi é sensibile alla minaccia legislativa chi, colpito da una infermità mentale settoriale, agisce in un settore di attività non intaccato dalla infermità: Fulano, affetto da mania di persecuzione, mentre guida l'auto é perfettamente in grado di rispondere appropriatamente alle minacce di pena per le infrazioni al codice stradale20.

Discente: Ma, in buona sostanza, l'imputato, che ha ucciso da ubriaco ma ora é sobrio, il dottor Jekill, Fulano, che ha infranto il codice stradale, vanno puniti oppure no?

20 Daniela Dawan (“I nuovi confini dell'imputabilità nel processo penale “, Giuffrè,2006, p.27): “Alla luce del sapere psichiatrico attuale, che le persone inferme di mente siano insuscettibili di essere motivate mediante minacce di pena appare concetto obsoleto nella sua aprioristicità: non vi é, invero, prova empirica da cui desumere che l'incapace non possa mai essere trattenuto dalla minaccia di sanzioni. Si danno, al contrario, prove empiriche secondo le quali molti incapaci possono essere condizionati dalla minaccia della pena”.

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Docente: Questo é un'altro discorso, che affronteremo parlando della c.d. imputabilità. Ti posso anticipare che, di massima, chi ha agito in stato di incapacità di intendere e di volere, non viene punito, ma viene sottoposto a misure, le c.d. “misure di sicurezza”, idonee a impedire che compia altri atti antisociali.

Discente: E perché mai non viene punito, almeno nei casi in cui era in grado di recepire la minaccia legislativa?

Docente: Non certo per motivi logici; dato che la logica comporterebbe la sua punizione. Giocano per indurre il legislatore all'astensione della pena motivi del tutto irrazionali; quei motivi irrazionali che sempre conducono all'applicazione della pena, ma che pudicamente sono mascherati da esigenze di difesa sociale. La verità (che emerge in istituti come l'imputabilità, il dolo) é che il legislatore punisce il reo perché mosso da una pulsione di odio verso di lui.

Discente: Odio, perché?

Docente: Perché il reo é una persona che non condivide la sua scala di valori: caso classico, il reo ha gridato “viva l'ismo A” (dove ismoA = ideologia che rende lecito il libero amore, l'uso degli stupefacenti ecc.), mentre il legislatore é un convinto anti-ismoA (ritiene nefasto il libero amore, l'uso degli stupefacenti ecc.). Ora questa mancanza di condivisione dei valori, rende meno sicura nella psiche del legislatore (idest, nella psiche della massa di persone che si sente rappresentata dal legislatore), la scala di valori da esso accettata; e la punizione del reo é in buona sostanza la riaffermazione, sopratutto nel suo sé profondo, che il legislatore fa di questi valori: il legislatore punisce il reo per soffocare, punire quella parte di se stesso che sarebbe portata a identificarsi con i valori del reo21. Ma se così é, si comprende come, l'esigenza di questa riaffermazione dei propri valori, sia tanto meno sentita dal legislatore quanto meno il reo é credibile: insomma, io (o meglio il mio subconscio) posso (può) essere tentato di prestare orecchio a chi dice “viva il

21 Secondo un interessante punto di vista di Alexander e Staub (“Il delinquente e i suoi giudici – Uno sguardo psicoanalitico nel campo del diritto penale”, pubblicato nel 1929 e trad. nel 1948, ed. Giuffrè) ogni delitto, specialmente quando si caratterizza per una particolare crudeltà, fa sorgere nella società un intenso bisogno di espiazione (che si scarica nella punizione dell'autore del crimine). Questo desiderio nasce dall'esistenza, in ognuno di noi, dell'inconscio desiderio di compiere l'illecito e dalla necessità di riaffermare, soprattutto di fronte a noi stessi, l'inammissibilità di una sua soddisfazione (di operarne la “rimozione”, per usare un linguaggio psicoanalitico): “Il bisogno di punire il colpevole é parimenti una dimostrazione diretta al foro interno allo scopo di intimidire gli impulsi : A ciò che proibiamo al delinquente, dovete rinunciare anche voi” (Op. cit., p. 111).

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valore A”. se questi é persona apprezzata per la sua intelligenza, la sua profondità di pensiero, é insomma una persona degna di stima, ma se é un “matto” a dire ciò, questo non mi smuove un pollice dalle mie convinzioni.

Discente: Come dire che gli psichiatri, incaricati di diagnosticare l'infermità mentale del reo, dovrebbero prima di tutto puntare i loro riflettori sulla mente malata del legislatore. E con ciò chiudiamo l'esame della prima delle condizioni necessarie per l'efficacia della minaccia penale.

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Lezione 11 - Error iuris. Error facti

Docente: Abbiamo parlato nella precedente lezione della prima delle condizioni di efficacia della minaccia legislativa, parliamo ora della seconda e della terza: siccome non é giusto punire Fulano, se non ha compiuto un atto che dimostra la sua insensibilità alla minaccia legislativa, non é neanche giusto punire Fulano che compie l'atto A, punito dalla norma AA, o perché di questa norma ignora l'esistenza (ruba perché non conosce l'esistenza dell'art. 624 C.P.) o perché, compiendo A ignora di stare compiendo proprio quel comportamento che la norma vieta. (Fulano conosce l'esistenza dell'articolo 624, ma non sa che la valigia che si sta portando via, non é sua, ma di un altro passeggero).

Discente: Certamente l'inefficacia della minaccia legislativa nei due casi da te prospettati é di tutta evidenza. Però ciò non esclude che il Legislatore possa punire Fulano, non per il comportamento A in se stesso, ma per non aver preso conoscenza della norma AA o per non aver prestato quella attenzione, che l'avrebbe reso consapevole di stare ponendo in essere proprio quel comportamento che la norma AA vietava.

Docente: Giustissimo; ed é proprio in questo senso che dispongono, nel nostro Codice penale, l'articolo 47 e l'articolo 5.

Discente: Procediamo allora all'esame di questi articoli; cominciamo dall'articolo 47.

Docente: L'articolo 47, nel suo primo comma, recita: “L'errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell'agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non é esclusa, quando il fatto é preveduto come delitto”.

Discente: Un esempio di applicazione della prima parte della disposizione riportata, é senz'altro dato da quello, già fatto, del passeggero che, alla stazione, scambia per propria la valigia altrui. Ed é chiaro che, in questo caso, il passeggero non viene punito, perché il furto é reato punito solo a titolo di dolo. Fai ora un esempio di errore di fatto punito perché cade su un reato colposo.

Docente: Pensa al cacciatore che, vedendo qualcosa muoversi dietro un cespuglio, spara e uccide un uomo: egli verrà punito con le stesse pene previste

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per il reato di omicidio colposo.

Discente: Viene punito con tali pene perché in effetti commette un omicidio colposo. Voglio dire, anche a prescindere dalla seconda parte del comma primo art. 47, nessuno avrebbe mai dubitato che l'azione del cacciatore rientrasse nella previsione dell'articolo 589 (dell'articolo cioé che punisce appunto l'omicidio colposo).

Docente: Quod abundat non vitiat. L'importante é rilevare che il legislatore punisce l'error facti dovuto a colpa, per stimolare, l'attenzione di chi agisce, a evitare il comportamento punito dalla norma, che prevede il reato colposo.

Discente: E' vero, ma non capisco perché il legislatore, così come adotta questa tecnica, diciamo così, per stimolare l'agente a evitare i delitti colposi, anche non l'adotta per stimolare ad evitare i delitti dolosi e le contravvenzioni.

Docente: Per quel che riguarda le contravvenzioni, ti sbagli: anche se la lettera dell'articolo 47 si riferisce solo ai delitti, tale articolo va interpretato come se suonasse “la punibilità non é esclusa quando il fatto é preveduto dalla legge come delitto colposo oppure contravvenzione”: e in effetti é giusta la tua osservazione: non c'é ragione perché il legislatore pungoli, con la minaccia di una sanzione, ad evitare un delitto e non una contravvenzione.Per quel che riguarda i delitti puniti a titolo di dolo, effettivamente il legislatore non punisce l'error facti che cada su di essi a titolo di colpa; questo fa per vari motivi, di cui il più evidente é che, punire nel caso l'error facti a titolo di colpa, finirebbe per trasformare, in delitto punibile anche a titolo di colpa, quel delitto che il legislatore vuole punito solo a titolo di dolo.

Discente: Ma il legislatore avrebbe potuto punire l'error facti, che cade su un delitto doloso, con le stesse pene previste per tale delitto (doloso).

Docente: Non l'ha fatto perché evidentemente ha ritenuto assurdo punire il comportamento colposo che dà luogo all'error facti con le pene previste per un reato doloso. Ciò va sottolineato perché, invece, tale assurdità, evitata dal legislatore nell'error facti, si verifica, come vedremo, nell'error iuris.

Discente: Parliamo allora dell'errore di diritto.

Docente: Esso trova la sua disciplina, sia nell'articolo 5, sia nel terzo comma dell'articolo 47.

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L'articolo 5 recita: “Nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale”.Ed ecco quel che ci dice l'articolo 47: “L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”.

Discente: Parliamo prima dell'articolo 5.

Docente: Allora per prima cosa va detto che tale articolo ha subito un'importante “correzione” da parte della Corte Costituzionale. Questa infatti, con la Sentenza 24.03.1988 n. 364, lo ha dichiarato costituzionalmente illegittimo “nella parte in cui non esclude dalla inescusabilità della ignoranza penale l'ignoranza inevitabile”.

Discente: Quindi non porterebbe all'esclusione della pena l'ignoranza evitabile – evitabile ovviamente con la diligenza (ovviamente la diligenza nel tenersi informati sui precetti penali dati dal legislatore). Sì, ma evitabile con quale grado di diligenza? la diligenza del “buon padre di famiglia”, la diligenza del “buon professionista” (….)?

Docente: A dir il vero la Corte di Cassazione non manca di dare chiarimenti in materia22. Però non é questo il punto. Il punto é che Fulano, il quale, non informandosi dovutamente sull'esistenza di una norma (comportamento A), tale norma viola (tenendo la condotta B), non viene e non può venire punito per la condotta B (dato che egli, appunto perché ha agito ignorando la norma, non può neanche dirsi insensibile alla minaccia in questa contenuta), ma per il comportamento A (suo mancato attivarsi per la conoscenza della norma).

Discente: Va bene, ma dove sta il problema? Causa causae est causa causati: non vedo nessuna anomalia nel fatto che Fulano sia punito.

Docente: E invece l'anomalia c'é; e sta nel fatto che Fulano viene punito per un

22 E così la Corte ha insegnato:- che scusa l'ignoranza della legge di chi si é uniformato a un pacifico orientamento giurisprudenziale, poi dichiarato erroneo oppure ad assicurazioni erronee di persone istituzionalmente delegate a giudicare sulla liceità del fatto posto in essere; mentre non scusa l'ignoranza di chi si é uniformato, sì, a precedenti giurispudenziali, però contrastati (Cass. 24 – 06 – 2004 n. 28397);- che l'aver attinto agli ordinari mezzi di informazione può scusare il cittadino comune, ma non chi esercita professionalmente in un dato campo, il quale ha il dovere di informarsi sulla legislazione che lo disciplina con una superiore diligenza (Cass. 14 – 5 – 2004 n. 22813; Cass. 09.06.2004 n. 25912).

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fatto colposo (il comportamento A: il suo non attivarsi per avere informazioni ecc) con le stesse pene previste per la condotta B (punita a titolo di dolo quindi con pene più severe di quelle riservate a una condotta colposa).

Discente: Ma questa anomalia é causa di gravi ingiustizie nell'applicazione pratica del diritto?

Docente: Questo non mi sentirei di affermarlo. Infatti il problema della scusabilità dell'errore di diritto si pone per quei fatti, la cui illiceità non può essere ravvisata dal cittadino, se non in base alla conoscenza del dictum del legislatore (c.d. “reati di mera creazione legislativa”), fatti che configurano di solito delle contravvenzioni, come tali punibili sia a titolo di colpa che di dolo, mentre non si pone per quei fatti, la cui illiceità viene avvertita dal cittadino, indipendentemente dalla conoscenza del testo normativo che li contempla, in base semplicemente a un sano sentire morale e sociale (c.d. “delitti naturali”: omicidio, danneggiamento, ingiurie....) - fatti che configurano, questi sì, spesso dei delitti punibili solo a titolo di dolo. Per questo secondo tipo di reati (delitti naturali) il problema di una scusabilità dell'ignoranza della legge non si pone mai, perché, sia pure per una fictio iuris, la conoscenza della legge si presume sempre.

Discente: Sì, ma una rigorosa applicazione del principio di materialità, vorrebbe che, alla punizione di chi ha commesso un illecito, si procedesse solo quando chi ha agito, ha agito, non solo sapendo che il fatto era illecito, ma anche conoscendo il quantum di pena minacciata.

Docente: Non ti posso dar torto: diciamo allora che l'inescusabilità dell'ignoranza delle norme che prevedono i c.d. delitti naturali, si basa sulla presunzione che il cittadino conosca la norma e in particolare la minaccia legislativa in essa contenuta: tale conoscenza (della minaccia legislativa) é chiaramente una fictio iuris, ma una fictio iuris che l'Ordinamento non può non accettare, se non vuole rinunciare a imporre le sue norme di condotta ai cittadini23.

23 Le teorie sulla artio dell'art. 5 si possono sostanzialmenet classificare in tre gruppi.Primo gruppo:L'articolo 5 si giustifica con il timore di addossare, altrimenti, alla P.A. la probatio (diabolica) di provare la conoscenza della legge che l'imputato aveva. In tale ordine di idee il Petrocelli (“La colpevolezza”, Padova,1962,120 ss) attribuisce all'art. 5 la funzione “di non soffocare il giudizio penale con la neecssità di provare uno stato della conoscenza che si può, in genere, intuire e sentire come peresnte, ma che sarebbe estremamente difficile portare in ogni caso alla luce di una stretta ed esplicita dimostrazione”.Secondo gruppo: L'articolo 5 si giustifica con il fatto che non occorre conoscere al legge,

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Discente: Ma se é così non perdiamo altro tempo nell'impossibile tentativo di armonizzare l'articolo 5 con il c.d principio di materialità e passiamo a parlare del terzo comma dell'articolo 47, che, ricordo, recita: “L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”.Prima domanda, che ti voglio fare a proposito di questa disposizione: essa si riferisce – come sembrerebbe suggerire la sua lettera – solo al caso in cui l'illecito sia commesso per un'errata interpretazione della “legge diversa” (da quella penale) o si riferisce anche al caso in cui l'illecito sia commesso tout court per ignoranza dell'esistenza della “legge diversa”?

Docente: E' pacifico che si riferisce anche a questo secondo caso (idest, caso dell'ignoranza dell'esistenza della legge).

Discente: E veniamo alla domanda cruciale: quando non può dirsi che l'errore, l'ignoranza della “legge diversa” (da quella penale), abbia “cagionato un errore sul fatto che costituisce reato”?

Docente: Quando tale errore si risolve si risolve in un errore sull'antisocialità dell'azione o, meglio, sulla valutazione che il legislatore dà sull'antisocialità dell'azione: il legislatore ritiene antisociale l'azione A e Fulano, invece, pensa che come tale non la ritenga.

Discente: E' meglio che tu ti spieghi con qualche esempio.

per astenersi dal commettere il fatto- reato, a ciò bastando una sana sensibilità morale. Tale etsi é fatta propria da molti seguaci della c.d. “etica della responsabilità”. Ecco come si esprime uno di loro, l'Engish (Der Unrechtstatbestand im Strafrecht. Undert jahre deutsches Rechtleben, 1960, p. 422 ss): “ Chi coscientemente e volontariamente uccide un uomo, ferisce, ingiuria, sottrae cose altrui (…) costui sa di fare cosa riprovevole (...) Anche se l'agente non ha sempre davanti agli occhi il divieto legale, si rende almeno conto del contenuto biasimevole, socialmente dannoso, del suo comportamento (...)Il che vale non solo per le azioni (…) la cui dannosità e pericolosità si tocca con mano (….) ma anche per quelle che in sé sono moralmente neutrali (….) che però appartengono ad un ambito di vita, per il quale l'uomo medio sa che vigono prescrizioni giuridiche delle quali ci si deve informare”.Terzo gruppo: E' opportuno che l'ignoranza non scusi, in quanto, se il cittadino sa che non potrà farsi scudo della sua ignoranza della legge per sfuggire alla pena, dalla paura di questa sarà mosso ad informarsi sulla esistenza delle leggi e sul loro esatto contenuto. In tale ordine di idee il Frosali (“Sistema penale italiano”, UTET, 1958, vol. I, p. 139) asserisce che “tale dovere (di conoscere la legge) é un mezzo predisposto dallo Stato per raggiungere un fine: spronare i singoli a far quanto occorre per conoscere le leggi penali”.

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Docente: Primo esempio (di errore che esclude la punibilità): Fulano I sottrae l'oggetto A (un brillante) a Sempronio perché, interpretando male 932 C.C., ritiene che il tesoro appartenga totalmente al ritrovatore (e non per metà anche al proprietario del fondo). In tal caso Fulano I non sottrae il brillante perché fa il ragionamento (errato) “Io posso sottrarre il brillante perché il legislatore non ritiene antisociale che una persona sottragga al comproprietario la cosa comune”. Fulano I ben sa che, tutto al contrario, il legislatore valuta come antisociale tale azione e, per Bacco, egli, tale valutazione del legislatore in pieno condivide: egli sottrae il brillante solo perchè, errando sull'interpretazione della legge, lo ritiene di sua proprietà esclusiva.Secondo esempio (questa volta di errore che non esclude la punibilità): Fulano II, un pasticciere, mette nella pasta, che sta lavorando per far dei dolciumi, la polvere A, di cui la norma B vieta l'utilizzo, in quanto dal legislatore ritenuta dannosa alla salute. Fulano II fa ciò in buona fede, sicuro di non violare la legge, ma dando di questa un'interpretazione (errata) in quanto attribuisce ad essa una valutazione, dell'antisocialità dell'azione, diversa da quella che essa fa effettivamente. Tutto questo in base a un ragionamento, che potrebbe essere così immaginato: “Il legislatore non vieta l'utilizzo della polvere A, perché, posto su un piatto della bilancia, il poco danno che essa provoca, e, sull'altro, il grave danno che subirebbe l'industria pasticciera se non la si potesse usare, ha ritenuto di privilegiare l'interesse dell'industria pasticciera”. Quindi, mentre il legislatore ritiene antisociale che l'interesse dell'industria passi prima dell'interesse della salute dei cittadini, Fulano, gli attribuisce una valutazione (dell'antisocialità) del tutto diversa e, questo é il punto, presumibilmente rispecchiante la propria valutazione dell'antisocialità – cosa per cui, l'errata interpretazione della legge, che fa Fulano, diventa anche indice di una divergenza, tra la valutazione dell'antisocialità dell'azione che fa lui, e quella che fa il legislatore.

Discente: Si, capisco, ma, distinguere tra un caso e l'altro (tra il caso in cui l'errore di diritto implica, una valutazione dell'antisocialità, diversa da quella effettivamente data dal legislatore, e il caso contrario) mi sembra che non sia sempre facile.

Docente: Questo é vero, ma può facilitarti tale distinzione, il seguente criterio, che ti propongo: quando sei in dubbio se l'errore sulla legge scagioni, o no, chi l'ha violata, poniti il quesito: “Con la sua azione, chi ha commesso l'illecito, ha dimostrato, o no, di dare dell'antisocialità del fatto, una valutazione diversa da quella data dal legislatore?”. Se la risposta é, sì, l'errore non esclude la punibilità del fatto, se la risposta é invece, no (“no, l'agente non ha per nulla dimostrato di non condividere la valutazione dell'antisocialità operata dal legislatore”) la punibilità

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del fatto va esclusa24.

Discente: Mi pare di aver capito: voltiamo pagina.

24 Lo studioso comprenderà meglio il discorso che stiamo facendo a proposito della imputabilità leggendo quanto diciamo nella lezione seguente a proposito del dolo.

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Lezione 12 - Colpa. Nesso di causalità. Dolo

Docente: Abbiamo visto le condizioni a cui é subordinata l'efficacia della minaccia legislativa. Però non é che il legislatore...si diverte a minacciare: egli minaccia per ottenere dei risultati, per evitare (o per costringere a) dati comportamenti.

Discente: Comportamenti che egli ritiene lesivi o potenzialmente lesivi di interessi da lui ritenuti meritevoli di tutela.

Docente: Certo. Però, ecco il punto, non vale il contrario: cioé il legislatore non minaccia per vietare tutti (nessuno escluso de) i comportamenti che potenzialmente sarebbero lesivi di un interesse (da lui ritenuto meritevole di tutela). E proprio da qui nasce il problema della punibilità dei fatti colposi.

Discente: Incomincia a spiegarmi quali sono questi “fatti colposi”

Docente: Te lo spiegherò con le parole usate dal legislatore (nell'articolo 43) per definire il delitto colposo (anche se, come ti risulterà da quanto da me detto nella precedente lezione parlando della negligenza, dell'imprudenza e dell'imperizia, non le condivido totalmente). Ecco dunque come il legislatore definisce il delitto colposo: “(il delitto) é colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non é voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Discente: Ora so cosa debbo intendere per fatto colposo. Devi però spiegarmi meglio in che consiste il “problema della punibilità dei fatti colposi”.

Docente: Consiste in questo: mentre, lo abbiamo visto in una delle primissime lezioni, il legislatore é tenuto a indicare con la massima precisione il comportamento da lui vietato, dato che il cittadino ha diritto di sapere con la massima precisione quel che può fare e quello che non può fare, nei reati colposi il legislatore da ciò (forzatamente) é costretto ad esimersi: egli punisce Fulano perché tenendo il comportamento A ha leso o ucciso una persona, ma Fulano in nessuna norma di nessuna legge poteva trovare scritto che “il comportamento A é vietato”. L'unica indicazione data dalla legge a Fulano (prima che avvenisse il fattaccio) era : “Se tu, Fulano, terrai un comportamento che é prevedibile causi la morte o la lesione di un uomo, sarai punito”. E tutto bene, se non fosse che, da una

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parte, prevedibilità in fondo significa calcolo della probabilità che da un comportamento segua una dato evento, e, dall'altra, che tale probabilità (del verificarsi di un evento) ha diverse gradazioni a seconda dei diversi comportamenti: il comportamento A rende probabile al 10 per cento la morte di un uomo, il comportamento B, la rende probabile al 20 per cento, il comportamento C, al 30 per cento; cosa per cui il povero Fulano, (ammesso e non concesso che abbia avuto in dono dal buon Dio tanta intelligenza da sapere che, il comportamento A ha 10 probabilità, il comportamento B ha 20 probabilità ecc.ecc.) non può sapere, prima di agire, se egli può tenere il comportamento C (che ha trenta probabilità di causare l'evento) o solo il comportamento A (che ha 10 probabilità di causare l'evento).

Discente: E per i giudici allora sarà la stessa cosa: essi non sapranno se debbono punire il comportamento C o solo il comportamento A. Quindi, per un imputato di reato colposo, fare un processo sarà...come giocare al lotto: non ha che da augurarsi che dal cappello della Giustizia gli venga estratta la sentenza giusta. Quello che tu mi segnali é davvero un grosso inconveniente, meglio, una grossa ingiustizia.

Docente: Ingiustizia che, almeno in parte, si attenuerebbe se si ricollegasse la pena al semplice verificarsi dell'evento: tu, Fulano, hai tenuto il comportamento D da cui é derivata la morte di una persona? Solo per questo vai punito: poco importa che il tenere tale comportamento comportasse 10 o centomila probabilità della morte di quella persona.

Discente: Però mi sembrerebbe eccessivo punire Fulano per un comportamento che aveva solo una probabilità su centomila di causare l'evento.

Docente: Ti ripeto un discorso, che nella lezione precedente già ti ho fatto: ciò ti ti sembra eccessivo perché tu poni mente all'applicazione della pena e non alla minaccia della pena: minacciare Fulano di applicargli con una probabilità su centomila la pena se terrà il comportamento A, é perfettamente congruo al fatto che vi é una probabilità su centomila, che dal comportamento A derivi la morte di un uomo. Tu non devi dimenticare che la severità della minaccia legislativa dipende, sì, dal quantum di pena minacciato, ma anche dalle probabilità che la pena minacciata sia effettivamente applicata.

Discente: Capisco; però tale soluzione legislativa é adottabile?

Docente: E' adottabile, e dovrebbe secondo me essere adottata, in relazione a quelle attività che non rivestono un'utilità sociale; pensa ad esempio ai fuochi

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artificiali, che si fanno nell'occasione di certe festività. Non é invece applicabile nelle attività socialmente utili; pensa, all'attività edilizia, all'attività medico-chirurgica, all'attività dei trasporti (….). In relazione a tali attività é necessario ammettere un margine di “rischio consentito”; altrimenti si correrebbe il pericolo che nessuno voglia più esercitarle: nessuno farebbe più il chirurgo se sapesse che, solo che il paziente morisse sotto i ferri, egli....verrebbe condannato.

Discente: Quindi per le attività in cui il legislatore accetta il rischio dell'evento dannoso, cioé accetta di non punire ogni e qualsiasi comportamento, che abbia leso l'interesse da lui protetto, si pone l'inconveniente da te prima segnalato.

Docente: Inconveniente che il legislatore però cerca di attenuare, indicando in leggi ad hoc quei comportamenti che vanno evitati in quanto fonte inaccettabile di rischio di un evento dannoso. Pensa a certe norme del codice della strada (a quella ad esempio che impone una distanza di sicurezza nella marcia di un veicolo dietro l'altro), pensa a certe norme contenute nella legge per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (a quella ad esempio che impone all'imprenditore di fornire un casco protettivo ai suoi operai).

Discente: Ma chi ottempera a tali norme é sicuro di non essere punito se, nonostante l'adozione delle cautele imposte dal legislatore, l'evento si verifica?

Docente: Questo lo escluderei. Però io riterrei che, nei casi almeno in cui la legge é molto dettagliata nell'esposizione e imposizione delle cautele necessarie per evitare l'evento dannoso, la pubblica accusa abbia l'onere di indicare la cautela che l'imputato avrebbe dovuto adottare ai fini di evitare l'incidente - la cautela ben s'intende che un homo eiusdem professionis et condicionis avrebbe adottato.

Discente: L'indeterminatezza del comportamento vietato, certamente può essere fonte di gravi ingiustizie nella materia che stiamo trattando, la materia dei delitti colposi; però vi é un'altra ingiustizia, che mi sembra debba essere segnalata ed é questa: Fulano fa un sorpasso in curva, avviene l'incidente, ci scappa il morto: egli viene punito con le gravi pene previste per l'omicidio colposo; Fulano II fa anche lui un sorpasso in curva, gli va liscia, nessun incidente cioè si verifica: viene punito solo per un reato contravvenzionale: non é ingiusto ciò?

Docente: Certamente é ingiusto, ma é questa un'ingiustizia che, se mi permetti il gioco di parole, ha la sua giustificazione.

Discente: Qual'é mai tale giustificazione?

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Docente: La giustificazione é che lo Stato non potrebbe punire, tutti quelli che fanno un sorpasso in curva, col carcere senza aumentare in maniera abnorme le spese destinate agli istituti di pena (al fine di renderli in grado di ospitare....tanti condannati) e, soprattutto, senza mettere in crisi l'apparato produttivo: in sintesi: un uomo in carcere costa e non produce. Di conseguenza lo Stato é costretto a operare una selezione, che però non vulneri l'efficacia intimidatoria della minaccia legislativa. Ed egli ottiene ciò punendo col carcere solo coloro, la cui condotta colposa é legata da un nesso causale alla lesione dell'interesse tutelato; e punendo, quelli che invece hanno posto solo in pericolo tale interesse, con pene più lievi.

Discente: Ma se lo scopo é quello di operare una “selezione dei colpevoli”, perché operarla col criterio del nesso di causalità tra comportamento colposo e lesione dell'interesse; e non con il criterio, metti, dell'estrazione a sorte: saranno puniti tra i colpevoli solo quelli la cui lettera iniziale del cognome sarà stata estratta a sorte?

Docente: Per vari motivi, il più importante e risolutivo dei quali é che il criterio del nesso

di causalità permette di dare soddisfazione alle istanze punitive delle parti lese: se per individuare tra gli autori di un comportamento colposo (da punire gravemente ed esemplarmente con le pene più gravi – per intenderci, le pene previste attualmente per l'omicidio colposo e le lesioni colpose), si adottasse il criterio dell'estrazione a sorte, nulla escluderebbe che restasse impunito proprio quel comportamento, contro cui si indirizzano le ire dei danneggiati; che invece resterebbero placate, adottando il criterio di punire proprio chi ha causato il danno25.

Discente: Tu parli di “comportamento legato da nesso di causalità all'evento”, ma non chiarisci quando un comportamento può considerarsi causa di un evento.

25 Il Trimarchi (“Causalità.....p.199) ritiene che “In un Ordinamento giuridico nel quale il reato consumato viene punito più rigorosamente del semplice tentativo, l'evento viene posto a carico dell'agente per il maggior allarme che esso suscita”Noi riteniamo questa spiegazione insoddisfacente. Infatti, se l'allarme sociale nasce dal timore di un verificarsi in futuro dell'evento dannoso (e da che altro potrebbe nascere?!), non vi é ragione che esso si determini solo in seguito ad un'azione causativa dell'evento e non, semplicemente, in seguito ad un'azione pericolosa (abbia, o non abbia, questa causato l'evento): é più facile che determini un futuro incidente il conducente che, pur guidando a 100 KM h., non ha investito nessuno, che quello che, andando solo a 50 KM, ha avuta la sfortuna di mettere sotto un pedone.

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Docente: Lo chiarisco subito: un comportamento può considerarsi causa dell'evento quando, se fosse mancato, neanche l'evento si sarebbe verificato.Debbo però avvertirti che le mie parole rispecchiano solo quella che é la concezione prevalente del nesso di causalità (concezione detta della conditio sine qua non)26; non mancano però altre concezioni.

Discente: Dimmi le due, secondo te, più seguite.

Docente: Esse sono quella c.d. “della causalità adeguata”, che si deve al Von Kries e quella della “causalità umana”, che si deve all'Antolisei.Secondo la concezione del Von Kries (“causalità adeguata”), a che “per il diritto esista un rapporto di causalità occorre che l'uomo abbia determinato l'evento con un'azione proporzionata, adeguata”, vale a dire con “un'azione che é in generale idonea a determinare l'effetto” (le parole tra virgolette sono dell'Antolisei)27. Secondo la concezione dell'Antolisei (“causalità umana”), per l'esistenza del rapporto di causalità nel senso del diritto, occorrono due elementi: uno positivo e uno negativo. Il positivo. é che l'uomo con la sua azione abbia posto in essere una condizione dell'evento (….). Il negativo é che il risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali”28.

Discente: Perchè tu non ritieni di aderire a queste concezioni?

Docente: Perché esse si traducono, con tutto il rispetto per gli illustri Studiosi che le hanno elaborate, in una vera e propria “truffa delle etichette”. Questi Studiosi ritengono che, il subordinare la punizione di una persona solo all'esistenza del nesso di causalità (nella concezione da noi accolta), porti a conseguenze inique: che, insomma, occorra per la punizione, oltre al nesso di causalità (nella 26 Per tale teoria, infatti, “deve considerarsi causa ogni singola condizione dell'evento, vale a dire ogni antecedente senza il quale non si sarebbe avverato” (ci esprimiamo con le parole dell'Antolisei, “Manuale....” p. gen., p. 170).Fu il Glaser (“Abhaunlungen aus dem osterreichischen Strafrecht”, 1958, p.298) a indicare nel “procedimento di eliminazione mentale” il criterio da usare per stabilire l'esistenza del nesso di condizionamento: esiste un modo sicuro, osservava, per assodare se l'azione é condizione sine qua non: “se dalla somma degli antecedenti si elimina col pensiero la condotta dell'agente, e risulta che l'evento si sarebbe verificato egualmente, allora é chiaro che la condotta non é condizione necessaria; se invece eliminata mentalmente l'azione ci si rende conto che l'evento non si sarebbe potuto verificare, o che si sarebbe verificato con modalità diverse, in tal caso si é legittimati a pensare che fra azione ed evento sussiste un nesso di causalità”.27 Tratte dal suo “Manuale”, pt. gen.,cit. p. 17228 Antolisei, “Manuale” cit. p. 175.

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concezione da noi accolta), un quid pluris. Nel che nulla di male: ognuno ha diritto alle sue opinioni e nulla vieta di sostenere che “requisiti a che il reato sussista sono: I) il dolo o la colpa; 2) il rapporto di causalità; 3) il rapporto di adeguatezza (oppure, il rapporto di causalità umana”). Quel che invece é inammissibile, perché finisce per creare solo confusione, é introdurre surrettiziamente quel quid pluris, che secondo tali Studiosi dovrebbe esistere per la punibilità di un fatto, mettendogli l'etichetta (falsa) di nesso di causalità29.

Discente: Ma lasciamo perdere la faccenda delle etichette: veniamo alla sostanza: vi sono casi in cui l'esistenza di un nesso di causalità (inteso nella accezione da te accolta- teoria della conditio sine qua non) si rivela, sì, condizione necessaria, ma non sufficiente per la punibilità dell'agente?

Docente: Ti rispondo: ci potrebbero essere dei casi in cui una disposizione legislativa, che subordina la punizione all'esistenza del solo rapporto di causalità, dovrebbe interpretarsi restrittivamente, nel senso cioè che, per la punizione, non basti il nesso di causalità, ma occorra la prevedibilità dell'evento da parte dell'agente.

Discente: Fai un esempio.

29 Leggendo le Opere in subiecta materia vien spesso da domandarsi, se il loro Autore pervenga a certe conclusioni (“va escluso, non va escluso il nesso di causalità”) perché le ritiene “giuste” lui o perché ritiene che tali il legislatore le consideri.Questa seconda sembrerebbe (trattandosi di Opere che propongono tesi de iure condito) l'alternativa da accogliere; ma se così (ecco la domanda che, allora, sorge spontanea) perché mai l'Autore vuol giungere alla conclusione, che il colpevole di una data azione non é punibile, attraverso la via tortuosa di negare, nella volontà legislativa, il nesso di causalità (“Tizio non va punito perché secondo il pensiero legislativo mancherebbe nel caso il nesso di causalità”) e non, più linearmente, in base all'esegesi della norma violata (“Tizio che con una sassata ha ucciso Caio non é soggetto alle severe pene dell'art. 584 perché questo va interpretato così e colà” - cfr. per l'esempio, e per la relativa soluzione, Antolisei, “Manuale” cit., p.175)? Appunto questa seconda sarebbe la via da battere per il Green (di tale Autore, v. “Rationale of proximate cause”, Kansas City, Mo.,1927, e, per un'analisi del Suo pensiero nel quadro del c.d. “realismo giuridico”, v. Tarello, “Il realismo giuridico americano”, Milano, 1962). Invero secondo il Green (il cui pensiero espongo con le parole del Trimarchi, “Causalità” cit., p.46) “sotto l'etichetta della causalità si sono discussi problemi e situazioni che poco hanno a che fare gli uni con gli altri. In realtà, una volta accertato il nesso di causalità naturale fra azione illecita ed evento dannoso, il problema se affermare o escludere la responsabilità non può essere risolto applicando una formula generale, bensì solo rifacendosi alla funzione della norma violata, per accertare se l'evento ricada o no nel suo ambito di protezione”.

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Docente: Fulano dà uno schiaffo a Sempronio; uno schiaffo leggero, ma che provoca la morte dello schiaffeggiato perché emofiliaco. Chiaramente la fattispecie rientra nella previsione dell'articolo 584 (omicidio preterintenzionale), che prevede nel minimo una pena di dieci anni; ma chiaramente una tale pena, ai fini dell'emenda di una persona che si é limitata a dare uno schiaffo, potrebbe sembrare eccessiva. Ripeto, potrebbe e non potrebbe: é una questione di politica legislativa per il legislatore e di interpretazione della legge per il giurista. Quel che occorre avere chiaro é che, se la si ritiene eccessiva, tale la si ritiene in considerazione della personalità dell'agente: questi non poteva prevedere, ergo é eccessivo ecc.ecc. Ciò é tanto vero che, se l'agente avesse saputo della malattia dello schiaffeggiato e addirittura avesse fatto conto su tale malattia per determinarne la morte con un semplice schiaffo, nessuno troverebbe iniquo punirlo con dieci anni di galera (e più!). Dico questo perché, invece, i sostenitori della concezione della “causalità adeguata” e della “causalità umana”, sostengono che il criterio da loro offerto per stabilire la punibilità o no, prescinde dall'elemento soggettivo del reato, prescinde dalla personalità del reo: ha carattere “oggettivo”.

Discente: Bada che queste diatribe tra studiosi o pseudo studiosi del diritto non interessano minimamente i tuoi lettori: sii pratico, dì piuttosto se vi sono altri casi, oltre a quello da te fatto, in cui potrebbe rivelarsi l'insufficienza (per la punibilità) del nesso di causalità.

Docente: Io non ne conosco; ma non li escludo. Escludo invece che, negli altri casi portati dai teorici della causalità adeguata e della “causalità umana”, la presenza del nesso di causalità (oltre a quella dell'elemento soggettivo) non sia sufficiente a giustificare la punibilità.

Discente: Porta degli esempi.

Docente: Te ne porto due: primo, un automobilista (disattento) investe un pedone, che viene portato all'ospedale; questo viene bombardato e il pedone muore. Si dice: “Ingiusto punire l'automobilista per omicidio colposo: sì, egli ha tenuto un comportamento colposo, sì andava a 60 Km all'ora, ma il pedone dall'investimento aveva riportate solo lievi ferite: che ne può egli, l'automobilista, se un aereo ha sganciato una bomba proprio sull'ospedale?”.Tale modo di ragionare ha una forte carica suggestiva, però dimentica di considerare che il nesso di causalità é un mero strumento di selezione dei colpevoli: uno strumento ottuso, che di per sé, come prima accennato, potrebbe benissimo essere sostituito da un sorteggio. Tanto é ingiusto punire l'automobilista per la bomba caduta sull'ospedale, quanto é ingiusto punire l'automobilista che,

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andando a solo 60 Km all'ora ha investito un pedone, mentre non viene punto altro automobilista, che pur andando a 100 Km all'ora, ha avuta la fortuna di non vedersi attraversare la strada da un pedone. Secondo caso: sempre un automobilista che mette sotto un pedone; questo però muore, non per una bomba caduta sull'ospedale ma perchè un chirurgo macellaio lo manda al creatore30.

Discente: A questo punto é inutile che tu ripeta la tiritera sul nesso di causalità come strumento ottuso di selezione dei colpevoli: l'abbiamo capita. E' ora di passare ad un altro argomento: parliamo del dolo.Concetto che mi pare davvero importante, dato che, per il secondo comma dell'art.43, “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”.

Docente: Già che ci sei, leggi anche il primo comma dell'articolo 43, che dovrebbe dare, nell'intenzione del legislatore, la definizione del dolo.

Discente: Primo comma dell'articolo 43: “Il delitto é doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che é il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto é dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.Ho letto, come tu hai detto; ma a me la definizione data dal legislatore sembra chiarissima, al contrario di quanto sembri credere tu.

Docente: In realtà tanto chiara non lo é. Del resto dal legislatore non ci si potrebbe aspettare una chiarezza maggiore di quella raggiunta dalla Dottrina, dato che il legislatore si basa per definire i concetti fondamentali del diritto sui risultati, dalla Dottrina, raggiunti; e questa ha sull'argomento le idee tutt'altro che chiare. Tutto questo per dirti che, la definizione data dal legislatore del dolo, abbiamo fatto bene a leggerla, ma in realtà non ci sarà di molto aiuto per capire quando ci si trova davanti ad un'azione dolosa.Tanto premesso, comincerò il mio discorso sul dolo, riservandomi di finirlo, data l'ora tarda, nella prossima lezione. Orbene un punto di partenza abbastanza chiaro l'abbiamo ed é questo: l'azione dolosa viene punita più gravemente di quella colposa ed addirittura in certi casi essa viene punita mentre non lo viene quella 30 Le teorie qui criticate riscuotono, peraltro, un grande successo, non solo presso la Dottrina, ma anche presso la Giurisprudenza; e questo é dovuto proprio a quella loro indeterminatezza (qual'é mai il grado di probabilità che l'evento deve avere perché possa ritenersi adeguata l'azione?), che, difetto criticabile dal punto di vista scientifico, si risolve in pregio nella pratica giudiziaria, permettendo una certa elasticità nelle decisioni dei giudici.

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colposa.

Discente: Perché mai questo?

Docente: A dire o a tentare di dire questo “perchè” ci arriveremo; ma per giungere a tanto dobbiamo partire da lontano. E più precisamente dobbiamo partire da un legislatore che, come é logico che sia, vuole assicurarsi al massimo che tutti i suoi precetti vengano osservati. Che cosa dovrebbe fare secondo te questo legislatore?

Discente: Dovrebbe stabilire nel massimo il quantum di pena minacciato a chi non osservasse tali precetti.

Docente: Cosa che invece non fa; evidentemente, dato che basta sfogliare il codice per accorgersi che i reati sono puniti con pene di severità diversa.

Discente: E perché non la fa?

Docente: Per due buoni motivi.Primo motivo: perché se parificasse tutte le pene (idest, tutti i reati soffrissero tutti la stessa pena) finirebbe per spingere il potenziale reo a commettere, per raggiungere i suoi fini, il reato che gli assicura maggiori vantaggi e maggiori possibilità di impunità, anche se questo reato é, per la società, il più dannoso: Fulano, se furto e omicidio fossero puniti con eguale pena (l'ergastolo!), ucciderebbe il derubato perché ciò in definitiva gli assicurerebbe maggiori possibilità di farla franca.Secondo motivo (il più importante per il discorso che stiamo conducendo): comminare pene troppo elevate per un fatto, finisce per generare nel pubblico un sentimento di compassione per il punito, che contrasta e annulla l'odio nato verso di lui per la azione (antisociale) da lui compiuta.

Discente: Spiegati meglio.

Docente: Cercherò di farlo. Devi partire dalla considerazione che ogni reato crea allarme sociale: sei d'accordo?

Discente: Certo, é così.

Docente: Ora da che cosa nasce l'allarme sociale?

Discente: Dalla paura: dalla paura che ha la gente che il fatto dannoso si ripeta: che Fulano, o altra persona antisociale come lui, ci ritenti: Fulano ha commesso un

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furto, e la gente ha paura che in un domani Fulano (o un altro come lui) ripeta un furto o, comunque, commetta un'altra violazione di legge (forse che egli commettendo il furto non ha dimostrato di non tenere in cale i valori da questa tutelati? chi commette un furto oggi, può, domani, compiere una rapina, un falso, un'estorsione!).

Docente: Ottimo, proprio così: l'allarme é paura di un ripetersi di nuove violazioni di legge. E, quando si ha paura, anche si odia: si odia chi ci fa paura. Quindi il reato genera odio. E la pena, la sofferenza che si procura ad un essere umano, che cosa genera?

Discente: Ovvio, genera compassione. Noi ci mettiamo nei panni della persona punita e per simpatia sentiamo come nostra la sua sofferenza.

Docente: E con ciò possiamo giungere a una prima conclusione: nella quantificazione della pena si combattono due sentimenti: l'odio verso il reo per l'azione antisociale da lui commessa e la compassione per la pena che, in conseguenza di tale azione, dovrà subire. Ed é evidente che, il quantum di pena inflitta, sarà direttamente proporzionale all'odio e inversamente proporzionale alla compassione.

Discente: Non posso non convenire con te. Ma ora devi meglio spiegarmi che cosa genera l'odio: ciò che lo fa aumentare rendendo più severa la pena, ciò che lo fa diminuire rendendo, la pena, meno severa.

Docente: Ciò che genera l'odio é il disprezzo, dimostrato dal reo, nei valori tutelati dalla legge: il reo é odiato perché con la sua azione dimostra di non condividere tali valori e quindi dimostra di essere capace di offenderli. Questo spiega perché venga punito anche chi con la sua azione non si può dire propriamente che leda precisi interessi dei consociati: Fulano che si limita a gridare nella pubblica piazza “Viva l'ismo A” viene punito in quanto e solo in quanto l'ismo A si basa su dei valori diversi dall'ismo B, a cui aderisce il legislatore31.

31 Alcune citazioni, che rispecchiano una concezione del dolo, se non identica, assai vicina alla nostra.Secondo il Jacobs (“Strafrecht........”, pp. 4 ss e 210 ss) chi agisce con dolo non fa altro che negare la vigenza della norma, sostituendo una sua visione della realtà sociale a quella affermata nella norma: punendo il reo doloso l'Ordinamento riafferma la vigenza della norma di fronte a tutti i cittadini e contribuisce così alla stabilizzazione sociale (cfr...................................p.130).Secondo il Canestrari (“Dolo eventuale e colpa cosciente”, pp.70 ss e 295) il reo che agisce con dolo, non offende soltanto l'interesse protetto ma nega al contempo la norma

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Discente: Con ciò mi hai spiegato perché l'articolo 624 punisce il furto semplice col massimo di soli tre anni e l'articolo 609bis punisce la violenza sessuale col massimo di dieci anni; però non mi hai spiegato perché un'azione, che offende uno stesso valore, metti la vita umana, viene punita, nell'articolo 575 (articolo la cui rubrica é “Omicidio”), con il massimo di ventuno anni e, nell'articolo 589 (articolo la cui rubrica é “Omicidio colposo”), col massimo di cinque anni.

Docente: Perché l'azione, nel caso previsto dall'articolo 575, rivela un più intenso disprezzo del valore tutelato, cioé della vita umana, che nel caso previsto dall'articolo 589.

Discente: Quindi il disprezzo verso il bene tutelato da una norma può avere varie gradazioni. Spiegati meglio sul punto.

Docente: Mi spiegherò meglio facendo un esempio proprio in relazione a un delitto di omicidio.Metti che Fulano con la sua azione determini la morte di una persona. Per stabilire, il maggiore o minore disprezzo che albergava in Fulano al momento di compiere la sua azione omicida, bisogna naturalmente investigare sui sentimenti che in lui albergavano in tale momento. Ora sul punto si possono fare queste (principali) ipotesi – ipotesi che io passo ad elencarti in senso inversamente proporzionale al disprezzo che rivelano per il bene tutelato.Ipotesi A: Fulano prevede che dal suo comportamento potrebbe derivare la morte di una persona; ma se fosse sicuro che questa si verificherebbe, si asterrebbe dall'azione: Fulano fa un sorpasso in curva, ma non lo farebbe se sapesse che ciò determinerebbe la morte di Sempronio.

posta allo scopo di tutelarlo.Secondo il Roxin (Strafrecht. Allgemeiner Teil, pp. 446-447) “ chi si decide, anche se solo per un caso eventuale, contro il bene giuridico tutelato, dimostra una disposizione maggiormente ostile al diritto rispetto a chi confida, anche se negligentemente,nella non produzione del risultato” ed é questa disposizione ostile al diritto, che determina la maggior gravità dal punto di vista della retribuzione della figura meno intensa di dolo (quello eventuale) rispetto alla forma più intensa di colpa.Per le più recenti teorie tese a oggettivizzare e normativizzare il concetto di dolo, lo scopo della punizione per dolo, e la sua differenza in ciò dalla colpa, é duplice: da una parte “stigmatizzare” una “Gesinnung” particolarmente pericolosa per i beni giuridici tutelati; e dall'altra e conseguentemente, attraverso sanzioni più dure rispetto (rispetto alla colpa), simbolicamente “tabuizzare” le condotte espressive di un simile atteggiamento interiore. (cfr. pp.132-133)

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Naturalmente l'ipotesi in esame tollera delle sotto-ipotesi; ad esempio, sottoipotesi IA: Fulano compie l'azione prevedendo, sì, l'incidente, ma ritenendolo poco probabile; sottoipotesi IIA: Fulano compie l'azione pur ritenendo l'incidente molto probabile.Ipotesi B: Fulano prevede che dal suo comportamento potrebbe derivare la morte di Sempronio, ma, da tale comportamento, non si asterrebbe anche se fosse sicuro che da esso la morte di questi deriverebbe. E' il caso del terrorista che mette l'esplosivo sotto la sede del partito avversario, ben deciso a metterlo anche se, essendovi delle persone dentro, ciò ne determinerebbe la morte. Anche questa ipotesi tollera delle sottoipotesi. Ad esempio: sottoipotesi IB: il terrorista mette l'esplosivo, sperando che nella sede non vi sia nessuno. Sottoipotesi IIB: il terrorista mette l'esplosivo, indifferente al fatto che ciò possa determinare la morte di qualcuno.Ipotesi C: Fulano agisce proprio al fine che la morte della persona si verifichi. Pure qui si possono fare delle sottoipotesi: sottoipotesi IC: Fulano vuole la morte di Sempronio, non di per sé, ma solo in quanto questa é necessaria per raggiungere un'ulteriore scopo (che potrebbe anche essere lecito: Fulano uccide il guardiano della cassaforte, al fine di riprendersi l'anello di diamanti che precedentemente gli é stato fraudolentemente carpito); sottoipotesi IIIC: Fulano vuole la morte di Sempronio in sé e per sé: egli ucccide Sempronio perché la sua morte soddisfa l'odio che egli cova contro di lui.

Discente: Va bene. Ho capito il discorso. Ma quali delle ipotesi rientrerebbero nella previsione dell'articolo 575 e, quali, nella previsione dell'articolo 589?

Docente: Questo non me lo chiedere: é un problema di interpretazione della volontà legislativa che io a quest'ora non mi sento di affrontare.

Discente: Un problema di interpretazione della volontà legislativa?

Docente: Certo che sì. Un legislatore, il nostro legislatore potrebbe, ad esempio, decidere di punire nell'ipotesi B Fulano con le pene dell'articolo 575 così come potrebbe decidere di punirlo con le pene dell'articolo 589. Nel primo caso noi tradurremmo la volontà legislativa dicendo che, il comportamento descritto sub B, é doloso e, nel secondo caso, dicendo che é colposo32.

32 Ritiene la relatività dei confini del dolo, il Prosdocimi (“Dolus eventualis”, pp. 19 ss); secondo questo Autore, il punto nel quale far cadere l'estremo confine del dolo dipende infatti, entro certi limiti, da una scelta di politica criminale.

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Discente: Ma diremmo ciò in base all'interpretazione degli articoli 575 e 589 o in base all'interpretazione dell'articolo 43?

Docente: In teoria quello che dovrebbe essere interpretato sarebbe l'articolo 43, ma come si fa a parlare di interpretazione di una volontà legislativa espressa nell'articolo 43 quando tale volontà legislativa, come quella espressa nell'articolo 43, già in poartenza si sa che non é chiara perché necessariamente deve basarsi sui risultati della Dotrrina che non sono per nulla chiari ?! Io potrei dire che il disprezzo per il valore della vita, che si manifesta nella ipotesi B, é più vicino al disprezzo della vita, che si manifesta nell'ipotesi C che in quello che si manifesta nell'ipotesi A33; ma oltre non potrei andare.

Discente: Ho capito, sei stanco e vuoi andare a mangiare.

Lezione 13 - La reiterazione nel reato – Il reato continuato

Docente: Ti pongo questo caso: Fulano I, dopo aver compiuto un furto, torna di nuovo a compiere un furto, e poi un'altro furto e così per ben quattro volte; poi....viene arrestato e portato davanti al giudice Severi; invece Fulano II, dopo aver compiuto un primo furto, viene subito arrestato e portato davanti sempre al giudice Severi. Ora, fingi di essere Tu questo giudice Severi: la pena prevista per il furto, metti, é di tre anni: quale pena infliggeresti a Fulano I e quale a Fulano II?

Discente: Io infliggerei a Fulano I e a Fulano II la stessa pena, cioé tre anni di carcere.

Docente: Non ti pare questa una soluzione ingiusta, dato che il primo ha commesso quattro volte un furto e il secondo, solo una?

Discente: Per nulla. Infatti: se per l'articolo 27 della nostra Costituzione, le pene debbono “tendere alla rieducazione del condannato”; se la pena di tre anni é per il legislatore la “cura rieducativa”, la “medicina”, sufficiente per emendare una persona dalla sua prava inclinazione al furto; se questo é vero, il giudice deve ritenere pena adeguata sia per Fulano I sia per Fulano II tre anni di carcere.33 E infatti, secondo la prevalente Dottrina, in questa ipotesi si verifica quella specie di dolo che é il “dolo eventuale”.Più precisamente, secondo la c.d. “formula di Frank” comunemente accettata, “il dolo eventuale sussiste quando é presumibile che il soggetto avrebbe egualmente agito anche se si fosse rappresentato l'evento lesivo come certamente connesso alla sua azione” (cfr......... p. 94).

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Docente: Ma Fulano I ha commesso quattro furti e Fulano II solo uno!

Discente: Poco importa: forse che se io fossi un medico e mi fossero portati da curare due epilettici, Fulano I e Fulano II, al primo ordinerei quattro volte la dose di medicina prevista dal prontuario medico per la epilessia e al secondo un'unica dose, solo perché i parenti del primo hanno aspettato che egli avesse quattro manifestazioni del suo male prima di portarmelo e i parenti del secondo subito me lo hanno portato?

Docente: Prescindiamo dal fatto che anche il medico se deve curare due persone colpite dalla stessa malattia ma in maniera diversamente intensa, somministra a ciascuno di loro dosi diverse della stessa medicina.....

Discente: E, va bene, il medico aumenterà per il malato più grave la dose, ma non necessariamente, anzi raramente, del doppio.

Docente: D'accordo, non voglio negare che il tuo ragionamento manchi di validità: ce l'ha; ma dal punto di vista di un legislatore che si proponga unicamente la emenda, la rieducazione del reo. Se non chè il legislatore quando commina una pena non si propone solo scopi emendativi, ma si propone anche, anzi soprattutto, scopi preventivi. Ora un legislatore che si proponga la realizzazione di tali scopi preventivi non può non tenere conto che tutte le persone, le quali hanno la stessa prava inclinazione a rubare di Fulano I, sapendo che, dopo aver commesso un primo furto A, se ne commetteranno un'altro, per quest'altro reato saranno punite con una pena ridotta, facilmente una volta commesso un primo reato (superando la paura della sanzione per esso prevista) saranno portate a commettere un secondo reato (punito con sanzione meno grave del primo: se Fulano I non fu trattenuto dal primo furto dalla minaccia di tre anni di reclusione tanto meno sarà trattenuto dal secondo furto dalla minaccia di una pena inferiore!)34.

Discente: E allora? Dovrei punire un ladro che, profittando dei dolci sonni della polizia35, si é fatto cento furti prima di essere arrestato, con 300 anni di carcere?

34 C. Castori (Concorso di reati e di pene, in Trattato di diritto penale, a cura di P. Cogliolo, vol. I, pt.III, Milano, 1889,1314) faceva rilevare il “grave pericolo sociale” derivante dal sistema dell'assorbimento (che vuole che di più reati ne venga punito uno solo, la pena degli altri essendo assorbita nella pena prevista per questo) “perché chi ha commesso un delitto, sapendo che la sua condanna non si aggraverà commettendo (altri) misfatti, non trova più nella legge alcun ritegno a delinquere”.

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Peggio che fosse un omicida !!! A me sembra assurdo!

Docente: Forse assurdo non lo sarebbe; certo, però, sarebbe cosa che l'opinione pubblica ben difficilmente accetterebbe. E proprio in considerazione di ciò, o, se si vuole, per “ragioni umanitarie”, il legislatore adotta nei casi di reiterazione nel reato – e poco importa che si tratti di reiterazione “omogenea” (il reo ha violato sempre la stessa norma penale, ad esempio, ha commessi più furti) o di reiterazione eterogenea (il reo ha violato norme penali diverse, ad esempio ha commesso un furto e un omicidio) - il criterio del c.d. “cumulo materiale temperato: egli cioé punisce di massima il reiteratore con la somma (il cumulo) delle pene previste per ogni infrazione; però anche stabilendo che comunque la pena non può essere superiore a un tot (il quintuplo della pena più grave, trattandosi di pene omogenee, i trent'anni, trattandosi di pene eterogenee, vedi melius l'art.78).

Discente: Quindi il legislatore, in caso di reiterata violazione della legge penale, nello stabilire la pena non si lascia evidentemente solo guidare da considerazioni attinenti alla più valida ed efficace prevenzione di nuovi reati (evidentemente, ripeto, perché tali considerazioni porterebbero ad un'applicazione severa e rigida del principio tot paenae quot delicta, il che, ora abbiamo visto, non é), ma anche da altre considerazioni – considerazioni che attengono, e non possono che attenere, alla maggiore o minore pericolosità del reo, alla maggiore o minore sua inclinazione a delinquere36. E con ciò torniamo ai discorsi fatti all'inizio.

36 Nella Relazione della Commissione delle Camere sul progetto Zanardelli (1887, p.213, n.XCIV) si giustificava il rifiuto, in caso di reiterazione di reati, di una punizione pari al cumulo delle pene previste per i singoli reati, con la considerazione che l'allarme sociale non aumenta proporzionalmente al numero dei delitti commessi dal reo (ma che dipende l'allarme sociale se non dalla percezione, da parte del pubblico, della pericolosità del reo?!). Val la pena di leggere le parole della Relazione sul punto: “(Il rifiuto del cumulo materiale delle pene) ha il fondamento rigorosamente giuridico in ciò che i reati non si accumulano, come non si assorbiscono fra loro, ma operano un danno sociale progressivo, il quale, poiché dipende da un fatto puramente morale, dalla opinione, cioé, della scemata sicurezza, non può crescere in ragione aritmetica delle delinquenze. Questo pubblico danno, che é la sola ragione per cui un'azione é considerata quale un reato, non si moltiplicherà mai per il numero dei reati commessi; poiché non può mai avvenire che i cittadini sentano, a mo' di esempio, per due o più lievi delitti quello stesso spavento che proverebbero per un grave delitto. E se questo non può avvenire, e se la responsabilità di un delinquente deve essere proporzionata al danno sociale da lui cagionato, il cumulo assoluto delle pene é privo di un fondamento di giustizia giacchè per esso può avvenire appunto che il reo di più lievi delitti sia tenuto a subire una somma di penalità, quale sarebbe dovuta per un grave misfatto, quale potrebbe anche eccedere la durata ordinaria della vita umana, assumendo in tal modo le proporzioni di una pena perpetua”.

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Docente: Non ti contraddico: effettivamente in un certo momento chi giudica deve spogliarsi della toga del magistrato e indossare il camice bianco del medico. Ma ciò non significa, lo abbiamo visto, ch'egli debba rinunciare ad aumentare la pena (medicinale) di fronte ad una reiterata violazione della legge. Significa solo che nel decidere se aumentare e di quanto aumentare la “medicina” si baserà su criteri e considerazioni diverse da quelle che dovrebbero guidarlo se applicasse la pena perseguendo uno scopo meramente preventivo.Di ciò si ha eclatante dimostrazione nel trattamento del c.d. “reato continuato”.

Discente: Comincia allora a dire quando si ha un reato continuato.

Docente: Ti posso cominciare a dire il concetto e la disciplina del reato continuato che si ricava dal secondo comma dell'articolo 81; il quale così recita: “Alla stessa pena (idest, alla pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo) soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge”.Quindi anche nel reato continuato si ha una reiterazione della violazione di legge, però essa viene punita in modo molto più benevolo di quanto comporterebbe la normativa di carattere generale prevista per la reiterazione dei reati. Per convincertene pensa a questo: Fulano I ha commesso sei furti e la pena che si ritiene giusto irrogare per il più grave di tali furti é tre anni: ebbene in tal caso Fulano per l'articolo 78 (a cui già si é accennato) sarà punito con la pena di 15 anni (il quintuplo della pena che il giudice ritiene giusto irrogare per il reato più grave). Se però la reiterazione dei reati fosse considerata un reato continuato, Fulano I potrebbe essere condannato al massimo a nove anni.

Discente: Quindi é come se il legislatore, nel caso di reiterazione di reati costituente “reato continuato”, spostasse all'indietro l'asticella che segna lo stop: questo non si ha più al quinto reato ma al terzo reato.

Docente: Ma non solo: non é detto che Fulano, se ritenuto autore di un reato continuato venga punito col triplo della pena più grave, potrebbe benissimo essere punito con una pena nettamente inferiore: al limite, la pena più grave essendo di tre anni, potrebbe essere punito solo con tre anni e un giorno (mentre se il reato continuato non fosse configurabile, Fulano non potrebbe essere comunque punito per una pena inferiore a quella data dal cumulo delle pene dei primi cinque reati)

Discente: Come può avvenire ciò?

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Docente: Può avvenire appunto perché la logica di chi deve stabilire la pena ispirandosi al criterio dell'emenda e quindi tenendo conto solo dell'inclinazione a delinquere del reo, é diversa dalla logica che deve seguire chi deve stabilire la pena ispirandosi solo al criterio della prevenzione di nuovi reati.

Discente: Spiegati meglio.

Docente: Mettiti nel caso di Fulano I e di Fulano II che entrambi hanno commesso quattro reati di furto: dal punto di vista di un legislatore che punisce il furto con tre anni e si lascia ispirare solo da esigenze di prevenzione di ulteriori reati, ci sarebbe ragione per minacciare Fulano I di punirlo con altri tre anni di carcere se commettesse un ulteriore reato (il quinto reato!) e per astenersi invece dal formulare tale minaccia nei riguardi di Fulano II?

Discente: Io non saprei proprio trovare una ragione perché nel caso il legislatore attui un trattamento differenziato per Fulano I e Fulano II, dato che sia questo che quello si deve pensare sia animato da un impulso di medesima intensità a commettere il quinto reato (cosa per cui per creare una controspinta al delinquere sia in questo che in quello si deve minacciare eguale pena sia a questo che a quello).

Docente: E in effetti tale ragione non c'é. Mettiti però ora sempre nel caso di Fulano I e di Fulano II che abbiano commesso un egual numero di reati, ma mettiti anche nei panni di un giudice che debba stabilire la pena questa volta, non più col criterio della prevenzione, ma con quello dell'emenda37: ci potrebbe in questo caso essere una ragione per differenziare la pena di Fulano I da quella di Fulano II?

Discente: Ci potrebbe essere se la pericolosità, l'inclinazione a delinquere di Fulano II, nonostante il numero di furti sia eguale, risultasse minore di quella di Fulano I; il che potrebbe dipendere dalla diversa gravità dei reati da questo commessi.

Docente: Ma, no: astrai dalla gravità dei reati, mettiti nel caso che i reati dell'uno

37 Che la disciplina del concorso dei reati debba essere diversa, a seconda che ci si proponga l'emenda o l'intimidazione del reo, fu intuito, sia pure confusamente, dal John (Lehre vom fortgesetzen Verbrechen, p.163 ss., Berlin, 1866); il quale sosteneva che “al danno giuridico dovrebbe rispondere il cumulo materiale delle pene e al dolo giuridico (cioé, facciamo rilevare noi, all'elemento per eccellenza rivelatore della personalità e quindi dell'inclinazione a delinquere) dovrebbe rispondere l'assorbimento”. Il pensiero del John é da noi riportato utilizzando le parole usate dal Pessina (in, Diritto penale, vol. I, Milano, 1904, p.559).

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siano tanto gravi come quelli dell'altro (forse che non vogliamo renderci conto del perché il legislatore attua un trattamento differenziato nel caso del reato continuato previsto dall'art.81 e nel caso del reato semplicemente reiterato previsto dall'art.73? e forse che tale trattamento differenziato non si verifica a prescindere che i reati siano nell'un caso e nell'altro di diversa gravità?!).

Discente: Ebbene se parto dal presupposto che Fulano I e Fulano II abbiano commesso un eguale numero di reati e di identica gravità io potrei trovare l'unica ragione per differenziare il loro trattamento sanzionatorio (ai fini dell'emenda) nella considerazione che due o addirittura tre o più reati commessi da Fulano II vengono a pesare nella bilancia della giustizia (ben s'intende come indice di minore inclinazione a delinquere) meno di due reati di Fulano I38; per cui é come se a due o più reati commessi da Fulano I corrispondesse nella filiera di Fulano II solo un unico reato. Ma come può avvenire questo, partendo dal presupposto che tutti i reati, sia quelli commessi da Fulano I sia quelli commessi da Fulano II, abbiano la stessa gravità? A me sembra cosa impossibile che accada!

Docente: E invece ci sono casi in cui ciò può accadere.

Discente: Dimmeli.

Docente: Un primo caso é quando i reati commessi da Fulano II sono stati propiziati da una circostanza transeunte e come tale venuta a cessare.Esempio: un professore integerrimo “nel mezzo del cammin della sua vita” si innamora perdutamente di una bella bionda (ti ricordi il professore del film “L'angelo

38 Mentre noi,come ancor meglio risulterà dal prosieguo del discorso, sosteniamo che, nel caso di reiterazione dei reati, la pena complessiva da irrogare non va calcolata sommando le pene previste per i vari reati essendo minore la pena occorrente per la rieducazione del reo, da altri autorevolmente si sostiene che la pena complessiva deve essere minore di quella risultante dal cumulo delle pene previste per i singoli reati,in quanto l'afflittività di una seconda pena é maggiore di quella di una prima pena e così via.In particolare il Mittermayer ebbe a sostenere (ne riporto il pensiero usando le parole del Pessina, in Diritto penale, cit., p.559) che “il cumulo materiale delle pene, e, quindi, la non interrotta esecuzione di esse fa sì che il dolore sentito da colui che vi é soggetto sia maggiore della somma dei dolori delle singole pene; onde mentre i reati e le pene inflitte si addizionano, le sofferenze prodotte dalle pene si moltiplicano”. Il Pessina (Op. cit., p. 561) nega che la seconda pena comporti una maggiore afflittività, con le seguenti osservazioni: “Non solo non é dimostrato che le sofferenze prodotte dalla privazione della libertà, protraendosi diventano più intense, ma forse, può sospettarsi tutto l'opposto per l'opera benefica dell'abitudine (…). Tutti gli studiosi della vita carceraria sono concordi nel riconoscere che lo scoraggiamento assale i condannati nei primi giorni, e, appunto nei primi giorni, avviene il maggior numero di suicidi”.

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azzurro”? il professore che perde la testa per le belle gambe di Marlene Dietrich); e per continuare a godere delle grazie della sua amante, commette dei furti. Poi, un bel giono tutto finisce: la bionda va di là e il professore, liberatosi dalla sua schiavitù sessuale, va di quà: chiaro che, eliminata la causa del traviamento del professore, si ha da ritenere che egli in futuro non commetterà più furti: egli ha avuta una “sbandata”, ora ha “ritrovato se stesso”: perché applicargli il severo calcolo “cinque furti commessi, pena totale uguale alla somma di tutti i cinque furti”?

Discente: Debbo ammettere che, dal punto di vista di chi applicando la pena si propone solo scopi emendativi, sarebbe assurdo applicare al professore del tuo esempio la stessa pena che a Fulano I, che ha commesso i furti, non in seguito a una “sbandata”, ma come normale manifestazione della sua personalità. Fai un altro caso in cui due o tre reati di Fulano II dovrebbero pesare di meno (nella bilancia della giustizia) di un solo reato di Fulano I.

Docente: Pensa al caso di Fulano II che, promossa una causa contro Fulano III, avendo questi dedotto il teste Primus, lo induce a fare falsa testimonianza corrompendolo, e, avendo di poi il suo avversario ancora dedotti un teste Secundus e un teste Tertius, pure questi corrompe. Anche in questo caso la corruzione di Secundus e di Tertius dovrebbe pesare di meno (come indice di inclinazione a delinquere) sulla bilancia della giustizia, di due atti corruttivi commessi in due altri autonomi processi.

Discente: Perché?

Docente: Perché la inclinazione a delinquere deve ritenersi di tanto minore quanto maggiore é stata la possanza del motivo che ha indotto a commettere un reato (e nella fattispecie questa maggiore possanza é data dal fatto che impulsavano Fulano II a corrompere Secundus e Tertius, sia il desiderio di vincere la causa sia la considerazione che non corrompendoli, avrebbe reso inutile il rischio e la spesa da lui prima affrontati corrompendo Primus).

Discente: Io nel caso da te ora delineato vedrei ragioni per un aumento e non per una diminuzione di pena riguardo ai reati di corruzione di Secundus e Tertius.

Docente: E io non potrei darti torto, se ci dovessimo porre dal punto di vista di un legislatore che si propone solo uno scopo preventivo: senza dubbio infatti la maggiore pulsione a delinquere da tale punto di vista andrebbe controbattuta con la minaccia di una maggiore pena39. Se non chè noi ora ci poniamo dal punto di vista

39 Qui val la pena di rilevare che nel progetto di codice penale del 1921 (progetto di larga

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di un legislatore che stabilisce la pena con fini emendativi e da tale punto di vista vale senza dubbio ciò che io ho prima detto.

Discente: Sia come sia, fai un terzo caso in cui, secondo te, due o più reati vengono a dimostrare una minore (dell'usuale) inclinazione a delinquere.

Docente: Il terzo caso si verifica quando due o più reati dipendono da un'unica risoluzione criminosa. Per un esempio di ciò possiamo ricollegarci all'esempio prima fatto: Fulano II, però (ecco la differenza dal precedente esempio) già nel decidere di promuovere una causa contro Fulano III, decide di corrompere i testi da questi dedotti.

Discente: Perché la corruzione di Secundus e Tertius nel caso non rivelerebbe la stessa inclinazione a delinquere della corruzione di Primus?

ispirazione positivista) la continuazione delittuosa era considerata come un motivo di aggravamento della pena. E certamente tale soluzione ha una sua validità se ci si pone dal punto di vista di una pena pensata solo a fini preventivi (e non emendativi).Si é posto da Alcuni il problema di come conciliare le aggravanti di cui all'art. 61n2 (aggravante teleologica) e di cui all'articolo 577 n.3 (aggravante della premeditazione). Noi non vediamo dove stia il problema. Se in un reato, metti nel reato B, della filiera di reati a cui ha dato luogo la “continuazione”, si ravviserà una delle aggravanti in questione...la si applicherà e dopo averla applicata i casi saranno due: o tale reato sarà da considerarsi di conseguenza la “violazione più grave” o non lo sarà: nel primo caso l'aumento fino al triplo della pena si calcolerà su tale reato, se no, no: dove sta il problema?Peraltro é da dirsi che la presenza delle aggravanti de quibus nel corpo di un reato continuato é una possibilità, non una necessità logica (anche qualora voglia ravvisarsi il reato continuato solo nei casi in cui i vari reati, che lo compongono, sono decisi con un'unica deliberazione presa ab initio). E giustamente il Maggiore (nel suo Diritto penale, vol.I, t.2°, 5 ediz., 1951, p. 623) osservava che il disegno criminale “ non va confuso con la premeditazione in quanto lungi dal richiedere una persistenza del proposito può avere una formazione ed espressione subitanee”.

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Docente: Per due motivi. Primo motivo, perché la decisione di commettere un reato tanto più rivela riflette la personalità di chi la prende (e quindi la sua eventuale inclinazione a delinquere) quanto più é approfondita40 – ora per un fenomeno psicologico a tutti noto, noi, quando con una unica risoluzione decidiamo di compiere due azioni, prima l'azione A e, quindi, l'azione B, poi quando, compiuta l'azione A, dobbiamo decidere di compiere la B, per prendere tale (ulteriore) decisione ci basiamo di solito semplicemente sul fatto che tale azione B a un precedente esame e a una precedente riflessione ci era parsa utile41. Secondo motivo (sostanzialmente identico a quello preso già in esame trattando di un precedente caso), perché la inclinazione a delinquere é inversamente proporzionale alla forza del motivo che spinge a commettere il reato. Ora, per un fenomeno psicologico a tutti noto, noi siamo portati ad osservare come un principio, che rende forte e sana la nostra personalità, quello che una decisione una volta presa va eseguita: ora proprio questa tendenza ad osservare “per principio” le decisioni una volta prese, viene a costituire, nel caso di una precedente decisione criminosa un ulteriore impulso a delinquere: “io, Fulano II avevo deciso di corrompere anche i testi Secundus e Tertius? e allora tanto ho deciso e tanto faccio: forse che sono una banderuola?!”.

40 E insegna l'Altavilla (Teoria soggettiva del reato, Napoli, 1933, p. 92) che “Vi é una legge psicologica nella quale si riassume tutto il movimento di riforma delle moderne legislazioni: quanto più di un reato si appartiene alla struttura psico-etica del suo autore, tanto maggiore pericolosità rivela”.41 Il Pagliaro (I reati connessi, 1956, p.166) osserva che “ viene facilitata la deliberazione rispetto alle violazioni singole quando, entro un congruo lasso di tempo, si ripresentino alla coscienza gli stessi elementi di motivazione che già una volta, prevalendo sui motivi avversi, avevano indotto alla realizzazione delittuosa (….) In tal caso, poiché la strada già percorsa é più facile da percorrere, la lotta dei motivi viene facilmente appianata, così che la deliberazione é più agevole”.Da una tale maggiore “facilità” a deliberare il crimine, il Pagliaro trae la conclusione di una minor pena per il reato così commesso.

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Discente: Questo vale anche quando la precedente decisione é stata generica? Cioè, non del tipo “Corromperò i testi Primus, Secundus, Tertius”, ma del tipo “Corromperò tutti i testi dedotti dall'avversario” o addirittura “Non esiterò a commettere dei reati pur di vincere la causa”?42

Docente: Certo in ipotesi di decisione generica, ci sarà una maggiore tendenza ad approfondire la nuova decisione (quella, per intenderci, che, una volta compiuto il reato A, deve essere presa per compiere il reato B). Però anche in tal caso se pur meno pregnanti saranno pur sempre valide le considerazioni or ora fatte.

42 Qui val la pena di ricordare che da Alcuni si escluse la configurabilità della “continuazione” tra due reati A e B, quando il soggetto passivo del secondo fosse diverso da quello del primo (il reo prima ha derubato Caio e poi Sempronio) o fosse diversa la norma violata e quindi il bene giuridico leso (il reo prima ha rubato, poi ha violentato sessualmente). E non si può negare che la commissione del secondo reato, quando diversa é la persona o il bene giuridico che con esso si viene a ledere, viene a sollecitare nel reo una nuova e forse approfondita riflessione sui motivi e contro-motivi a delinquere, che mal si concilia con la giustificazione di una riduzione di pena per tale secondo reato in considerazione della superficialità della sua deliberazione.Sull'argomento e sulle discussioni a cui diede luogo specie in Germania, vedi David Brunelli, Azione unica e concorso di reati nell'esperienza italiana, Giappichelli editore, 2004, pp.54 ss.

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Docente: Orbene tu mi hai portato dei casi in cui la reiterazione della violazione di legge indica una inclinazione a delinquere inferiore alla norma: normalmente la reiterazione della violazione di legge per sei volte indica un'inclinazione a delinquere di grado X, però vi sono dei casi in cui indica un'inclinazione a delinquere minore di X. E mi sta bene. Mi sta anche bene che l'articolo 81 sia interpretato nel senso che quando la inclinazione a delinquere va sotto la norma di un certo grado il legislatore deroga alla disciplina della reiterazione del reato, che attua negli artt. 73 e seguenti: egli non punisce più il reo in base al principio tot paenae quot delicta, ma prevede per la reiterazione solo un aumento sulla pena prevista per il reato più grave (aumento che può limitarsi anche a un giorno!). Ma é pur vero che il grado di inclinazione a delinquere può essere, come risulta dagli esempi da te stesso portati, inferiore.sì, alla norma, ma in diversa gradazione (di molto, di poco, di pochissimo...); cosa per cui si pone il problema: di quanto deve essere inferiore alla norma la inclinazione a delinquere a che scatti la deroga (agli artt. 73 segg.) prevista dall'articolo 81?

Docente: Chiaro che questo lo può dire solo il legislatore.

Discente: E lo dice?

Docente: No, non lo dice. E sarebbe stato assurdo sperare che lo dicesse, dal momento che in subiecta materia egli non ha le idee più chiare della Dottrina; la quale le ha.....confusissime.

Discente: E allora?

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Docente: E allora, solo se non si teme il ridicolo, si possono trarre elementi, per stabilire quando nella reiterazione si deroga agli artt. 73 segg., dalle parole usate dal legislatore nel capoverso dell'articolo 81 da noi già letto.

Discente: Ma che si potrebbe dedurre in base alle parole usate dal legislatore?

Docente: In base al fatto che il legislatore si riferisca a “azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso”, in base al fatto che tali parole suggeriscono l'idea di una persona (il reo) che programma ab initio più azioni al fine di raggiungere un dato scopo, si potrebbe escludere, non nego con una certa logica, che rientrino nel reato continuato - non solo i casi di chi commetta più azioni senza averle mai programmate ….......

Discente: Quindi anche i casi da te all'inizio indicati del reo che commette più azioni criminose perché condizionato da una circostanza transeunte (il professore che commette più furti perché succube del fascino della bella ballerina).

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Docente: Esattamente. Ma lasciami proseguire il discorso, dicevo che in base alle parole usate dal legislatore, si potrebbero escludere dal delitto continuato, non solo questi casi, non solo i casi di chi commette più infrazioni avendole, si, programmate, non però per il raggiungimento di un particolare scopo (vincere quella data causa, acquisire quella data eredità...)43, bensì per uno scopo generico (“d'ora in poi mi procurerò da vivere compiendo dei borseggi sui mezzi pubblici”) - ma anche i casi in cui l'azione si inserisce,sì, nell'esecuzione di un programma criminoso diretto a uno scopo, ma non può dirsi che sia esecuzione di tale programma, in quanto ab initio tale programma non la prevedeva (come sarebbe nel caso, da noi invece esemplificato prima come esempio di un'evidente minore sintomaticità di pericolosità sociale, di Fulano II che decide di corrompere il teste Secundus in corso di causa).Ma proprio l'assurdità di escludere, dalla deroga alla disciplina prevista per la reiterazione dei reati, casi che denotano un livello di pericolosità sociale non superiore, anzi spesso inferiore a quello presente nei casi di più azioni compiute in base ad un'unica risoluzione criminosa44 (pensa al caso del professore che chiaramente ha commesso dei reati in seguito a una “sbandata” e che raddrizzata la guida certamente tornerà a comportarsi da probo cittadino), mi convince a rifuggire da un'interpretazione troppo legata alla lettera dell'articolo 81 e a configurare come casi di applicazione di tale articolo tutti quelli da noi esemplificati come casi di ridotta sintomaticità di tale pericolosità.

Discente: Voltiamo pagina, affrontiamo l'argomento della reiterazione del reato da un'altra angolazione. Mettiamoci, nel caso di Fulano I che, incontrato un suo nemico, gli dà una coltellata, e poi un'altra ancora e un'altra ancora, fino a lasciarlo morto; e nel caso di Fulano II, che, aperta la cassaforte altrui, essendo mingherlino,

43 Scopo che appunto per la sua particolarità finisce col delimitare nel tempo l'attività criminosa. Val la pena qui di rilevare che nelle Sentenze dei nostri giudici, si dà di solito rilevanza al poco intervallo di tempo intercorso tra un reato e l'altro per ammettere tra loro la continuazione. Evidentemente la base razionale di tali Sentenze (ammesso e non concesso che chi le scrive abbia avuta in testa una qualche chiara idea sul reato continuato) andrebbe vista nella considerazione che, i reati miranti alla realizzazione di un particolare scopo, di solito vengono tutti a situarsi in un ristretto lasso di tempo.44 Qui va notato che, nel caso che il reo abbia deciso con un'unica deliberazione di commettere i reati A e B, la commissione di B avverrà normalmente dopo un consistente intervallo di tempo. Ora se si riflette che, proprio dalla lunghezza dell'intervallo di tempo passante tra la delibera di un reato e la sua commissione, il legislatore deduce una particolare pericolosità del reo (cosa per cui aggrava la pena – vedi il n. 3 dell'art. 577 che configura la premeditazione come aggravante), non potrà non sembrare strano e illogico che si voglia ritenere come unico caso di reato continuato proprio quello in cui i reati sono stati decisi con un'unica deliberazione, cioé proprio il caso, tra quelli da noi segnalati, per cui più debole appare la tesi di una ridotta pericolosità sociale del reo.

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é costretto a compiere due viaggi da questa alla sua auto per trafugarne il contenuto. A me sembra che sia Fulano I sia Fulano II reiterando la loro azione siano venuti a commettere più infrazioni della legge penale, più reati insomma; sia pure più reati la cui pena non é data dal cumulo materiale delle pene, ma da quella prevista per il più grave dei reati aumentata fino al triplo – così, come prima abbiamo visto, vuole l'articolo 81. Se non chè tale soluzione, debbo dire, non mi convince: perché mai punire Fulano I più gravemente di Fortebraccio che, essendo più forte o semplicemente più abile nell'uccidere, con una sola coltellata ha mandato all'altro mondo il suo nemico; perché mai punire Fulano II più gravemente di Spallagrossa che, di lui più robusto, in un solo viaggio é riuscito a svuotare una cassaforte?! Ciò mi pare assurdo.

Docente: Tu hai ragione a dire che ogni nuova coltellata di Fulano I, ogni nuovo impossessamento dei beni, nella cassaforte custoditi, di Fulano II, rappresenta un nuovo vulnus alla vita e ai beni altrui, e quindi una nuova violazione della volontà legislativa (dato che senza dubbio il legislatore ben vorrebbe che alla prima coltellata non ne seguissero altre, al primo impossessamento altri non ne seguissero). E hai anche ragione nel ritenere che, addebitare a Fulano I e Fulano II ogni reiterazione dell'azione lesiva come reato, sarebbe assurdo.

Discente: Allora quale norma ci permette di evitare tale assurdo.

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“Se voi, dopo non aver raggiunto o raggiunto in pieno il vostro scopo criminoso con una prima azione, reitererete questa, sarete più gravemente puniti”.

Docente: Questo é vero ed ha certamente la sua rilevanza per il caso che il reo ab initio, a mente fredda, già programmi la reiterazione dell'azione. Però allora (per escludere un aumento della sanzione nel caso che lo scopo criminoso sia raggiunto, non con un solo atto, ma reiterando più volte l'atto) entrano in campo quelle ragioni di equità, a cui tu stesso prima hai accennato: sarebbe iniquo punire Fulano I con un aumento di pena rispetto a Fortebraccio che, più esperto nel crimine di lui, riesce ad uccidere con un colpo solo.

Discente: Voltiamo ancora pagina: abbiamo visto il secondo comma dell'articolo 81, non dobbiamo dimenticare di esaminare il suo primo comma.

Docente: Certo che no: comincia a darne lettura.

Discente: Ecco quel che recita il primo comma dell'articolo 81: “E' punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge”.Più violazioni di legge con una sola azione? La cosa non mi é chiara: fai qualche esempio.

Docente: Te ne faccio due, uno riguardante il c.d. “concorso formale eterogeneo”, l'altro riguardante il c.d “concorso formale omogeneo”.Esempio di concorso formale eterogeneo: Fulano I stupra in pubblico la figlia (con ciò violando sia la norma che punisce l'incesto sia la norma che punisce la violenza sessuale).Esempio di concorso formale omogeneo: Fulano II versa del veleno in una bevanda per provocare la morte di più persone.

Discente: A questo punto devi però spiegare perché Fulano, che con un'azione od omissione ha violato la norma A e la norma B, e quindi il bene AA, tutelato dalla norma A con la pena di un anno, e il bene BB, tutelato dalla norma B con la pena di due anni, viene punito, non con una pena corrispondente al cumulo delle pene previste dalla norma A e dalla norma B (tre anni), ma con una pena data da quella più grave (i due anni previsti dalla norma B) aumentata fino al triplo (il che può comportare anche che sia punito con due anni e...un giorno).

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Docente: Dare questo “perché”, ponendoci dal punto di vista di un legislatore che si proponga solo l'emenda del reo, é molto facile: la cura, che “medica” Fulano dalla sua prava inclinazione a ledere il bene AA, può venire effettuata nello stesso tempo in cui viene effettuata la cura, che vuol guarire Fulano dalla sua inclinazione a ledere il bene BB; allo stesso modo che, una persona che si é rotta un braccio e una gamba, nel tempo in cui viene curata della gamba può essere curata del braccio.

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Discente: Tutto questo va bene dal punto di vista di un legislatore che con la pena si proponga solo l'emenda del reo; ma in realtà il legislatore deve anche preoccuparsi di prevenire i reati e pertanto deve quantificare la pena in modo da controbilanciare la pulsione a violare la norma. E ciò comporta che, nel caso in cui il potenziale reo sia tentato di violare due norme, la norma A e la norma B, egli (idest, il legislatore) deve ben tenere conto che la pulsione a delinquere é data dalla somma delle pulsioni a violare la norma A e la norma B.

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Docente: Bravo, é così, quel che hai detto é giusto.

Lezione 14 - Incapacità di intendere e di volere

Docente: Cominciamo a leggerci l'articolo 85: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. - E' imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.

Discente: Ma che cos'é che non si deve essere in grado di intendere (per non essere imputabili e quindi puniti)46? In altre parole: basta, per ritenere Fulano I imputabile, ch'egli abbia la consapevolezza di tenere un comportamento che, per le circostanze in cui si compie o per le conseguenze a cui dà luogo, il legislatore ritiene antisociale e pertanto punisce (“Se io, Beppino, tocco così il bel corpo di Concetta, faccio cosa che questa non vuole, ch'essa sentirà come una violenza”); oppure per ritenere Fulano imputabile occorrerà anche ch'egli sia consapevole che col suo comportamento lederà l'interesse altrui, recherà ad altri un danno (“Se io

atteggiamento antisociale”Se non ché su ogni argomento si può dire.... il dritto e il rovescio; per cui val la pena di sentire l'opinione opposta (a quella dell'Antolisei) che é espressa da S. Prosdocimi (Contributo alla teoria del concorso formale di reati, Padova, 1984, p.15);il quale fa osservare che “se i plurimi risultati sono tutti intenzionalmente perseguiti dal reo, l'unicità della condotta esterna (viene a rappresentare) per il reo medesimo un fortunato “risparmio” di energie, “l'utilizzazione di una felice occasione, tale da giustificare per un certo verso l'opinione che vede in ogni più mite trattamento del concorso formale rispetto al concorso materiale l'espressione di un favore assai poco meritato”.E tra il concorso formale omogeneo e quello eterogeneo qual'é quello che rivela una maggiore pericolosità del reo? Qui risponde La Relazione al disegno di legge governativo presentato il 6 febbraio 1968 (come la vedo riportata in Brunelli, Opera citata, p. 166). Relazione in cui si legge: “si é creduto necessario differenziare il trattamento penale del concorso formale omogeneo dal trattamento previsto per il concorso formale eterogeneo: nel senso cioè di rendere possibile al giudice una pena più adeguata per il concorso formale omogeneo, che molte volte appare più grave del concorso formale eterogeneo (si pensi al fatto di chi con una bomba uccide più persone), nel quale si ha, in ultima analisi, soltanto una lesione di più interessi protetti”.46 Domanda più che lecita, dato che “il codice Rocco lascia assolutamente nel vago e nell'indefinito l'oggetto dell'intendere e del volere”. Sul punto cfr. Daniela Dawan (I nuovi confini dell'imputabilità nel processo penale, Giuffrè, 2006, pag.87).Diversamente altri codici europei esplicitano l'oggetto dell'incapacità. Ad esempio per il codice tedesco (ripreso da quelli spagnolo e portoghese) manca la imputabilità quando vi é incapacità a rappresentarsi l'illiceità (das Unrecht) del fatto e di agire in conformità a tale rappresentazione.

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violento Concetta, questa subirà un trauma, il suo fidanzato forse la lascerà, forse avrà un figlio che ne condizionerà prematuramente la vita....”); oppure ancora, sempre per ritenere Fulano imputabile, occorrerà ch'egli capisca il disvalore morale del suo comportamento, cioé le conseguenze negative che questo può provocare nella società (“Se le ragazze avessero da temere violenza uscendo da sole per la strada, la loro vita di relazione subirebbe un intralcio, avrebbero difficoltà a recarsi al lavoro, a recarsi alla scuola e così via e da ciò tutta la società ne soffrirebbe”)?

Docente: Se noi partiamo, così come dobbiamo, dal presupposto che la pena abbia soprattutto una funzione preventiva dei reati, la risposta alla tua domanda non può essere dubbia: quel che solo rileva per ritenere la imputabilità é che l'agente sia in grado di comprendere che con la sua azione si espone alla pena minacciata dal legislatore47.Ma io direi che, anche partendo dal punto di vista di un legislatore che, con l'applicazione della pena, si proponga solo l'emenda (la rieducazione) del reo, la soluzione non dovrebbe cambiare; infatti anche dal punto di vista di un tale legislatore, nulla potrebbe rilevare, per ritenerne la imputabilità, che l'agente non fosse consapevole di arrecare un danno al soggetto passivo della sua azione o alla società. Anzi l'inconsapevolezza, nel reo, del danno che arreca, é proprio il presupposto e la giustificazione dell'azione rieducatrice (della pena): forse che rieducare non significa instillare nel reo un senso sociale e la consapevolezza degli interessi altrui, che con le proprie azioni può venire a ledere?!48

Discente: Tutto ciò per quel che riguarda la incapacità di intendere, ma per quel che riguarda la incapacità di volere? Quando insomma una persona può essere considerata incapace di volere?

Docente: Quando la minaccia della pena, anche nel suo massimo previsto dalla norma, non é in grado di creare in quella persona, per le condizioni abnormi della

47 Dawan (Op. cit., p. 26) dopo aver ricordato che “il cittadino, mediante la formulazione di direttive di comportamento presidiate da sanzioni, viene motivato all'osservanza delle norme”, rileva che “nei confronti di un soggetto inidoneo, per le sue condizioni psichiche e mentali, ad essere motivato alla predetta osservanza, l'utilizzazione del diritto penale si rivela, in conseguenza, non necessaria e decisamente incoerente”.48 Nella Relazione della commissione speciale (presentata al Senato il 5 giugno 1925) si mette in rilievo che nel progetto del nuovo codice, nella valutazione della “capacità”, non si tiene conto dell'eventuale mancanza di senso morale: “Nella valutazione dell'evento psicologico – si legge nella Relazione - ci si deve limitare a due indagini: capacità intellettiva e capacità volitiva. Questi sono i cardini dell'imputabilità. Sono questi i presupposti necessari, ma anche sufficienti, sui quali si fonda la capacità d'imputazione, la così detta capacità penale”.

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sua psiche, per il modo abnorme con cui reagisce agli stimoli, un valido contromotivo alla violazione della norma stessa. Cosa per cui per il legislatore é inutile effettuare tale minaccia.

Discente: Ma il legislatore, proprio in considerazione dell'abnormità della psiche del potenziale reo, non potrebbe prevedere per lui una pena maggiore?

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Docente: No, e questo é il punto, non lo potrebbe: il legislatore infatti non può, a sua discrezione, aumentare la sanzione ad infinitum: deve sempre far sì che vi sia una giusta proporzione tra il valore del bene leso dal reo e la pena a questi comminata. Certo, anche il cleptomane più gravemente leso dalla sua mania, se gli si minaccia per un furto l'ergastolo, smette di rubare49; ma la società non accetterà mai che chi ha rubato un pezzo di formaggio al supermercato passi tutta la vita in galera!

49 E infatti anche l'incapace di intendere e di volere recepisce la minaccia della pena (sia pure in grado minore della persona normale, cosa per cui il legislatore dovrebbe aumentarne la forza se vuol farla da lui percepire). “E invero – nota Daniela Dawan (Op. cit. p. 27) - non vi é prova empirica da cui desumere che l'incapace non possa mai essere trattenuto dalla minaccia di sanzioni”.

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Discente: Quindi, é esclusa la punizione per chi é incapace di intendere o di volere50. E va bene. Però nell'uomo non esiste solo l'intelletto e la volontà: esiste anche il sentimento, l'affettività – sentimento e affettività che possono assumere aspetti abnormi, e, quindi, disturbatori della personalità del reo.....

50 Nella Relazione cit. si legge: “L'articolo 88 non dice che per aversi irresponsabilità debba mancare la capacità di intendere e di volere, bensì di intendere o di volere e con ciò ha riconosciuto la possibilità che un abulico possa non essere responsabile, perché, sebbene abbia la capacità di intendere non ha normalità volitiva, e, viceversa, a una persona volitiva possa mancare la capacità di intendere”.

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Docente: ….Se tu vuoi dire che in ogni persona esistono degli abiti mentali, che vengono a costituire delle “linee di minor resistenza” in cui si incanala il suo agire, io sono d'accordo con te. E se tu ritieni che il legislatore di questo debba tenere conto, io ti rispondo che in effetti il legislatore ne tiene conto, ma con un distinguo.

Discente: Quale?

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Discente: Cosa per cui deve esistere al momento in cui il reato é commesso.

Docente: Certamente. E ciò ha rilievo nel caso di reati commessi nei cc.dd. “lucidi intervalli” che può lasciare un'infermità mentale: il caso classico é quello dell'epilettico che compie il reato nell'intervallo tra un accesso e l'altro: é pacifico che debba essere condannato.

Discente: Voltiamo pagina. Abbiamo detto di quando l'incapacità di intendere e di volere determina la non punibilità del reo; ma a questo punto diventa ovvia la domanda: esclusa l'applicazione della pena, non si adotta verso gli incapaci nessuna misura per impedire che tornino a commettere un reato?

Docente: Naturalmente, sì: il legislatore, come ti risulta dagli articoli 219,, 222, e ss., adotta nei loro confronti delle cc.dd. “misure di sicurezza”. Misure che, però, in definitiva, concretandosi in una privazione o limitazione della libertà, finiscono per costituire, per chi le subisce, delle vere e proprie pene (ancorché di afflittività minore della reclusione e dell'arresto).

Discente: Ma se così é, se anche le misure di sicurezza finiscono per essere afflittive, esse si applicheranno, penso, solo se l'incapace avrà commesso un reato54.

Prima soluzione (modello psicologico-normativo): si dà rilievo alla infermità (per ritenere la non-imputabilità) solo se essa é causa della incapacità di intendere o volere. E' questa la soluzione adottata dal legislatore italiano e dalla maggior parte dei Paesi europei.Seconda soluzione (modello puramente psicopatologico o biologico puro): per ritenere la non-imputabilità basta l'accertamento che il soggetto é affetto da certe infermità (indicate nella legge) a prescindere che tali infermità abbiano inciso sulla capacità.Terza soluzione (modello puramente normativo o puramente psicologico): per ritenere la non-imputabilità rileva solo l'esistenza di una incapacità di intendere o di volere, a prescindere dall'esistenza di una infermità.Sul punto cfr. M. Bartolini L'imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990; T. Bandini, Riflessioni critiche sulla nozione di infermità in psichiatria forense, in L. Dell'Osso – A. Lomi (a cura di) Diagnosi psichiatrica e D.S.M. - III – R, Milano, 1989, p. 171; G. Canepa, I problemi diagnostici in rapporto ai quesiti della perizia psichiatrica, in L. Dell'Osso - A. Lomi (a cura di), cit., p. 181.54 E la Corte di cassazione ebbe a dichiarare “inammissibile la dichiarazione di non imputabilità dell'autore del fatto (con conseguente sottoposizione a misura di sicurezza) pur non costituendo questo un reato per mancanza di un elemento costitutivo. L'indagine sulla imputabilità va, invero, compiuta soltanto nell'eventualità che il preliminare accertamento degli elemnti costitutivi del reato si sia concluso positivamente”. Sul punto, cfr. D. Dawan (Op. cit., p. 45).

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Docente: Naturalmente.

Discente: Però l'esistenza di un reato dipende non solo da un elemento oggettivo, ma anche da un elemento soggettivo: il dolo, la colpa. Ora può parlarsi di dolo e di colpa con riferimento a un incapace?

Docente: Certamente, sì. E per ottenerne degli esempi non occorre pensare a reati commessi da un sordomuto, da un ubriaco (per causa fortuita), da un minorenne: anche un infermo di mente può compiere un reato sia per intenzionalità sia per colpa: Fulano affetto da mania di persecuzione credendosi inseguito da un'auto lancia la sua a folle velocità e uccide un passante: ecco un esempio di omicidio colposo commesso da un infermo di mente55

Discente: E per avere un esempio di omicidio doloso basterà pensare al caso classico del malato di mania di persecuzione che, credendosi aggredito, uccide il presunto aggressore.

Docente: No, questo tuo secondo esempio é sbagliato: infatti al malato, che credendosi aggredito uccide, si applica l'ultimo comma dell'art. 59 (che prevede la c.d. “erronea supposizione di scriminante”) e pertanto lo si ritiene responsabile solo di omicidio colposo (con la importante conseguenza che contro di lui non potrà applicarsi la misura del ricovero in un istituto psichiatrico – v. co.1 art.222). Per avere un esempio dii omicidio doloso commesso da persona affetta da mania di persecuzione, devi pensare al malato che uccide il presunto persecutore come vendetta (dei presunti atti persecutori) o per por fine ad essi.

Discente: Certamente però sarà ritenuto responsabile di un delitto colposo Fulano che, ritenendo di adempiere a un ordine dell'Arcangelo Gabriele, prende il fucile e uccide il povero Sempronio.Ma sul punto mi pare che si sia detto abbastanza: voltiamo pagina. Si può dire che tutte volte che vi é una incapacità di intendere e di volere manca la imputabilità?

55 E la disciplina delle misure di sicurezza parte appunto dal presupposto che l'azione dell'incapace possa essere dolosa o colposa. Sul punto la Dawan fa notare (Op. cit. p. 40) come “le norme che contemplano le misure di sicurezza stabiliscono dei minimi di durata a seconda della gravità del reato la quale va, tuttavia, desunta, a norma dell'art. 133 c.p., dall'intensità del dolo o dal grado della colpa. Ciò comporta che il giudice possa applicare quelle disposizioni soltanto dopo aver accertato la natura dolosa o colposa del fatto compiuto dall'incapace, stante che alcuna misura di sicurezza potrebbe essere disposta se non si fosse quanto meno in presenza di una semplice imprudenza o negligenza”.

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Docente: Così risulterebbe dall'articolo 85; però l'enunciazione di carattere generale di tale articolo subisce varie eccezioni negli articoli seguenti.La più importante di esse é data dall'articolo 88, che recita: “Non é imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità id intendere e id volere”.Come vedi l'articolo 88 si riferisce a casi in cui la incapacità é dovuta (non a malattia, ma) a infermità – infermità che potrebbe essere anche fisica56, ma che comunque deve influire sulla mente (non il fisico).

Discente: Quindi, se l'infermità deve colpire solo la mente, dovrebbe essere considerato imputabile il casellante che, in seguito a uno svenimento o a una paralisi, omette di azionare i congegni che azionano la chiusura del passaggio a livello.

Docente: Sì, egli dovrebbe essere considerato imputabile, però non dovrebbe lo stesso essere punito avendo egli agito senza quella coscienza e volontà, che il primo comma dell'articolo 39 pretende per la punibilità di chi ha commesso un fatto previsto come reato.

Discente: Ma che differenza fa tra l'essere prosciolto per incapacità di intendere e di volere e l'essere prosciolto per difetto di coscienza e volontà?

Docente: Una differenza non da poco, potendo, nel primo caso, al reo essere applicata una misura di sicurezza, nel secondo caso, no.Però non perdiamoci in queste sottigliezze: veniamo alla cosa veramente importante che si ricava dall'articolo 88.

Discente: Qual'é mai?

Docente: E' che da tale articolo si argomenta facilmente che é imputabile, e quindi punibile, chi, al momento in cui ha commesso il reato, era, sì, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere, ma non per infermità: quindi

56 Nella Relazione cit. si rileva come uno dei (pochi) elementi di discontinuità col codice Zanardelli, nel progetto di codice, stia nel riconoscimento che il vizio mentale possa dipendere anche da infermità fisica. Sul punto cfr. Daniela Dawan (Op. cit. p. 18)Peraltro il concetto di infermità é più ampio di quello di malattia mentale. E giustamente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sent. n. 9163/ 05) ritengono che il termine usato dal codice escluda la riconducibilità dell'infermità “alle sole manifestazioni morbose aventi basi anatomiche e substrato organico (quelle che venivano chiamate “malattie fisiche del sistema morboso centrale”)”. Sul punto cfr. Dawan (Op. cit., passim).

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l'articolo 88, ne devi convenire, fa un'eccezione assai vistosa all'articolo 8557.

Discente: Ne convengo. Confesso che ora io, però, ho le idee piuttosto confuse: credevo che la incapacità di intendere e di volere fosse un'infermità e invece...

Docente: Ma, sì: la incapacità di intendere e di volere é realmente un'infermità, ma non é l'infermità che, come causa dello stato di mente (e quindi dell'incapacità), giustifica nel pensiero legislativo la non imputabilità.

Discente: Ma allora a quali infermità si riferisce il legislatore?

57 E in definitiva ribalta il principio, nell'art. 85, enunciato. Di avviso contrario sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sent. n. 9163/05) secondo cui le cause codificate di esclusione dell'imputabilità non possono considerarsi tassative.

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Docente: Si riferisce a quelle infermità che, come tali, sono considerate dalla scienza medica. Questo, evidentemente, perché il legislatore - partendo dalla considerazione (giustissima!) che il concetto di “incapacità di intendere e di volere”, essendo estremamente indeterminato, può essere interpretato in vario modo (tot capita tot sententiae!) - ha voluto porre un freno a facili proscioglimenti e comunque a sentenze contraddittorie, ancorando il riconoscimento della non-imputabilità a un concetto, che, per essere elaborato dalla “scienza”, dovrebbe dare garanzia di inalterabilità nel tempo e di chiarezza.

Discente: Col risultato, però, che a stabilire quando l'incapacità é causata da un'infermità e quando no, sarà, non il giudice ma il medico legale.

Docente: Più precisamente: il medico legale dirà: se l'imputato era affetto da una infermità mentale (al momento di commettere il reato); se questa infermità influenzava, in quel momento, il suo stato mentale; se lo influenzava nel senso di portare a una diminuzione della capacità di intendere o di volere. Il giudice, poi, dovrà valutare se la diminuzione di capacità riscontrata (dal medico) é tale da rendere non-imputabile l'imputato58.

58 Dawan (Op. cit., p. 29): “L'accertamento dell'imputabilità investe contestualmente un aspetto psicopatologico – la individuazione di una infermità – ed un aspetto normativo rappresentato dalla valutazione della rilevanza giuridica dell'incidenza di quella sulla capacità di intendere o di volere al momento del fatto”. Pertanto – rileva la Dawan - “il vaglio giudiziale non può fermarsi al semplice ed adesivo recepimento delle conclusioni peritali: cosa che generalmente invece avviene (…..) il giudice (finendo) per affidarsi (…) alle risultanze della perizia che ha disposto”.La Cassazione (v. Sent., Sez. I, 4 novembre 1991, Guglietta, in Cass. Pen. 1993, 2269) esclude che rientri nelle competenze del giudice “accertare quale sia in termini percentuali il grado di incidenza del vizio mentale sulla complessiva capacità di intendere o di volere”.

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Discente: E in tale maniera si sono evitate quei facili e contraddittori proscioglimenti di cui tu prima parlavi.

Docente: Per nulla: si é caduti dalla padella alla brace: i criteri con cui la scienza medica individua le infermità mentali variano a seconda delle varie scuole, che sono numerosissime: é facilissimo pertanto che due medici legali, periziando lo stesso imputato, giungano, in perfetta buona fede, a soluzione opposte: l'uno, lo dichiari infermo e, l'altro, no.

Discente: Vi é però un'infermità che, ritengo, non si presta, o almeno non si presta molto, a diagnosi differenti; e con ciò io mi riferisco al sordomutismo, previsto, dall'articolo 96, come causa di non-imputabilità.

Docente: A dir il vero ti dovrei, almeno in parte disilludere, in quanto ha dato e dà luogo a soluzioni differenti, se non la diagnosi di sordomutismo, l'incidenza di questo sulla capacità di intendere e di volere (anche perché tale incidenza é diversa a seconda che si tratti di “sordomutismo congenito” e di “sordomutismo tardivamente acquisito”).

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Discente: Andiamo oltre. Tu dicevi che l'articolo 88 fa eccezione all'articolo 85, ma a me pare che ci sia un articolo che a sua volta fa eccezione...alla eccezione: mi riferisco all'articolo 91, che recita: “Non é imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva la capacità di intendere o di volere, a cagione di piena ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore”.

Docente: E' vero, tuttavia vi é una differenza tra il caso della infermità e quello della ubriachezza: l'infermità acquista rilievo anche quando non esclude, ma “scema grandemente”, la “capacità” - questo per il disposto dell'articolo 89, che recita: “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma la pena é diminuita”. L'ubriachezza invece acquista rilievo solo quando esclude - non quando scema, sia pure “grandemente” - la capacità di intendere.

Discente: A me questa sembra un incongruenza, un'irrazionalità del sistema.

Docente: Tale sembra anche a me.

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Discente: Un'irrazionalità anche mi sembra stabilire una diminuzione di pena in caso di capacità di intendere o di volere scemata. Logica e buonsenso infatti vogliono che tu, legislatore, o ritenga inutile minacciare di pena il potenziale reo (in quanto, incapace di intendere, é anche incapace di recepire la tua minaccia), o, se lo ritieni utile, tu, proprio in considerazione della sua scemata capacità di intendere, faccia minaccia di applicare la pena, non nel minimo, ma nel massimo : se ci si trova a trattare con un sordo o si rinuncia a parlargli (tanto non sentirebbe) oppure se si decide di parlargli, quel che gli si deve dire, gli va gridato, non detto sottovoce.

Docente: Anche qui non posso non concordare con te.

Discente: E già che ho perso l'aire, ti dico quella che, secondo me, é un'altra grossa incongruenza e irrazionalità della normativa in subiecta materia; e con ciò voglio riferirmi all'articolo 90, secondo cui “gli stati emotivi o passionali non escludono o diminuiscono la imputabilità” : perché mai?!

Docente: Qui non ti seguo. Anzi ti dirò che a me sembra che il pensiero legislativo segua con l'articolo 88, con l'articolo 90, con gli articoli 92, 93 una linea perfettamente logica: é giusto che il reo non debba rispondere del reato quando questo é stato da lui commesso, non liberamente, ma coattivamente (e un reato commesso in stato di incapacità di intendere o di volere può ben considerarsi coattivamente commesso); però se la causa cogente avrebbe potuto essere da lui eliminata e non lo é stata, allora, no: allora egli deve rispondere del reato come se da lui liberamente compiuto: causa causae est causa causati.

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Discente: C'é una logica in quel che dici, ma una logica che può spiegare il disposto degli articoli 92,93: può essere giusto punire, salve le obiezioni che mi riservo di farti, Fulano che ha commessa una violenza sessuale, in uno stato di “incapacità” dovuto a ubriachezza o a ingestione di farmaci “non derivata da caso fortuito o da forza maggiore”: egli infatti ubriacandosi (prendendo gli stupefacenti) é venuto a dare liberamente causa a quella incapacità, che a sua volta ha causato il reato; ma il principio causa causae est causa causati che cosa c'entra con gli articoli 88 e 90?

Docente: C'entra, invece. Infatti, la non imputabilità dell'incapace per infermità si giustifica col fatto che l'incapace, neanche sotto la minaccia della sanzione e da essa pungolato, avrebbe potuto eliminare la causa causae del reato, cioé l'infermità; mentre chi é reso incapace da uno stato emotivo o passionale, avrebbe potuto con un'adeguata e ferma autoeducazione eliminare l'habitus mentale, la tendenza del suo carattere, che lo ha reso vittima dello stato emotivo o passionale59.

Discente: E con ciò tu spieghi perché viene punito: punendolo non si fa che applicargli la minaccia della sanzione – ma, se ho capito bene il tuo pensiero, non la minaccia (della sanzione) volta a dissuaderlo dal compiere il reato (tale minaccia una volta che egli era divenuto succube dello stato emotivo o passionale, sarebbe stata inutile), ma la minaccia volta a pungolarlo all'eliminazione dello abito mentale negativo. Ho capito bene?

59 Certamente dà luogo ad una incongruenza l'art. 95, secondo cui “per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool ovvero da sostanze stupefacenti si applicano le disposizioni contenute negli articoli 88 e 89”. E infatti l'intossicazione trova pur sempre la sua causa in un'azione libera del reo (nel suo darsi agli alcoolici o agli stupefacenti) - azione che come tale era coercibile dalla minaccia legislativa.Invece, a nostro parere, l'art. 90 non impedisce di ritenere la non imputabilità di atti compiuti in seguito a un'incapacità dovuta a una nevrosi o a una psicopatia, quando essa non fosse curabile o il reo non avesse avuto modo di curarla per essere intervenuta al momento o a ridosso del reato.Che dire poi nei casi in cui lo stato abnorme della psiche é talmente intenso da non poter essere vinto neanche da una volontà pungolata dalla minaccia della sanzione? In questi casi noi riterremmo la non imputabilità.La Corte di Cassazione (Sent., Sez.I, 9 aprile 2003, De Nardo e altro, in CED Cass.,2003, Riv. 224809), dopo aver premesso che “il concetto di infermità mentale recepito dal nostro codice penale, é più ampio rispetto a quello di malattia mentale”, ritiene che “nella categoria dei malati di mente potrebbero rientrare anche dei soggetti afflitti da nevrosi e psicopatie, nel caso queste si manifestino con elevato grado di intensità e cioé forme più complesse tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi”.

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Discente: Hai capito benissimo: trenta e lode. Ma tu hai prima detto, riferendoti al principio causa causae est causa causati, che avevi qualche obiezione da fare sulla sua giustizia.

Discente: Certo: a me non pare giusto punire alla stessa maniera Fulano I, che, pienamente capace di intendere e di volere, ha commesso uno stupro, e Fulano II, che lo ha commesso in stato di ubriachezza. Mi si dirà che che, quando si é ubriacato Fulano II doveva prevedere, che l'ubriachezza avrebbe potuto portarlo a commettere una sciocchezza. L'osservazione sarebbe fondata, e io potrei trovare giusta la punizione di Fulano II con le pene previste per il reato colposo; trovo invece ingiusta la sua punizione con le pene previste per il reato doloso.

Docente: Io potrei aggiungere che, punire Fulano a titolo di dolo e non di colpa, contrasta con la filosofia insita nel principio causa causae est causa causati: infatti in base a a tale principio il reo viene punito per il comportamento che ha dato causa all'incapacità; e tale comportamento nel caso di Fulano II sarebbe da considerare chiaramente colposo e non doloso. Tuttavia dobbiamo considerare anche che non sempre un reato doloso ha un omologo colposo; il che significa che, se si ritenesse di punire chi compie un reato nello stato di ubriachezza solo a titolo di colpa, molte volte....... non si saprebbe per quale reato e con quale pena punirlo (per rifarci all'esempio, da te prima fatto, di Fulano che commette, ubriaco, uno stupro: se non lo punisci per il reato di violenza sessuale, naturalmente dolosa, per quale reato lo punisci? infatti non esiste nel nostro ordinamento una violenza sessuale colposa !). Come vedi il problema presenta nodi che non possono essere sciolti facilmente. E si può ben perdonare il legislatore se non li ha sciolti.

Discente: Voltiamo pagina: siamo sul finire della lezione, due parole ancora sull'incapacità per minore età prevista dagli articoli 97 e 98.

Docente: Vi é da dire prima di tutto che la non-imputabilità del minore si diversifica, dalle forme di non-imputabilità prima esaminate (non-imputabilità dell'infermo, dell'ubriaco...), perchè la relativa “incapacità” é presunta: l'incapacità del minore degli anni quattordici é presunta iuris et de iure; la incapacità del minore degli anni diciotto é presunta iuris tantum, cioé la pubblica accusa può provare la capacità del minore.In secondo luogo va detto che la non-imputabiltà del minore si diversifica, dalle forme di non imputabilità da noi prima esaminate, anche perché si giustifica, non con una insensibilità del reo alla minaccia della pena, ma con l'inopportunità dell'applicazione della pena. Inopportunità che nasce dalla considerazione (del tutto

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condivisibile) che la punizione e la rieducazione del minorenne é bene sia sopratutto svolta “dai genitori o da coloro che abbiano obbligo di provvedere alla sua educazione o assistenza (confronta con il co. 1 art. 232) e, se proprio necessario, in istituti a ciò particolarmente attrezzati.

Lezione 15 - Pena-base. Circostanze del reato: calcolo degli aumenti e diminuzioni

Docente: Secondo te sarebbe giusto punire tutti coloro che hanno commesso uno stesso reato con la stessa, identica pena: ad esempio, sarebbe giusto punire tutti coloro che hanno commesso un furto con, metti, tre anni; tutti quelli che hanno commesso un omicidio, con, metti venti anni, e così via?

Discente: No, di certo: se la pena é come una medicina (che deve curare il reo dalla sua inclinazione a malfare), il legislatore - così come farebbe un buon medico dovendo curare persone, sì, con la stessa malattia, ma di diversa gravità - dovrebbe quantificare le dosi di pena da infliggere in base alla diversa gravità della malattia del reo (idest, in base al diverso grado della sua inclinazione a delinquere).

Docente: Il tuo riferimento solo all'inclinazione a delinquere é, come vedremo subito, un po' riduttivo, ma sostanzialmente il tuo ragionamento é accettabile. C' é però il fatto che, accettandolo, il legislatore sarebbe costretto a decuplicare e forse a centuplicare le norme, già troppo numerose, del codice penale (se non altro per prevedere tutti i possibili gradi di gravità che la inclinazione a delinquere, nei vari casi concreti, può presentare).

Discente: Ma il legislatore può evitare ciò conferendo al giudice una certa discrezionalità nell'applicazione della pena (indicata nella norma di legge).

Docente: Ma così facendo il legislatore non rischierebbe di cadere dalla padella nella brace? Concedere un potere discrezionale al giudice significa infatti creare il presupposto per inammissibili disparità di trattamento: può verificarsi che due rei, con lo stesso profilo criminale e che debbono rispondere di un fatto di identica gravità, si vedano infliggere da giudici diversi pene di diversa afflittività.

Discente: Il legislatore potrebbe adottare una soluzione di compromesso: concedere al giudice un potere discrezionale, ma nello stesso tempo dandogli precisi criteri per l'esercizio di tale potere.

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Docente: Ed é quello che appunto il nostro legislatore fa: egli dà al giudice il potere di individuare la pena tra un minimo e un massimo e, poi, gli dà dei criteri per procedere a tale individuazione (della pena nel caso concreto). Così come risulta dagli articoli, 132, 133, 133bis.L'articolo 132 (sotto la rubrica “Potere discrezionale del giudice nell'applicazione della pena: limiti”) recita: “Nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la pena discrezionalmente; esso deve indicare i motivi che giustificano l'uso di tale potere discrezionale. - Nell'aumento e nella diminuzione della pena non si possono oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena, salvi i casi espressamente determinati dalla legge”.

Discente: A me sembra piuttosto pleonastico e superfluo il contenuto del capoverso: é ovvio che se io legislatore fisso un minimo nella pena, tu, giudice, sotto tale minimo non puoi scendere. E poi che cosa c'entrano gli aumenti e le diminuzioni di pena: il giudice tra il minimo e il massimo individua la giusta pena e...basta.

Docente: Per comprendere il dettato legislativo devi tenere presente che il legislatore alcune volte prevede in relazione a certe circostanze (cc.dd. circostanze aggravanti e attenuanti) degli aumenti e delle diminuzioni sulla pena (c.d. “pena base”) individuata, come prima ti dicevo, tra un minimo e un massimo (minimo e massimo cc.dd. edittali): ad esempio, il legislatore prevede, per il reato A la reclusione da un anno (minimo edittale) a tre anni (massimo edittale), e una circostanza aggravante da un giorno a un anno: il giudice, individuata (in base agli elementi indicati negli articoli 133 e 133bis di cui subito verremo a parlare) la giusta pena da infliggere, metti che siano due anni e sei mesi di reclusione, su questa (che, ti ricordo, si chiama pena base) applica l'aggravante A, ciò che può portare a una pena anche superiore al massimo edittale (ad esempio, ad una pena di tre anni e sei mesi). Ora il legislatore detta le regole di cui all'articolo 132, 133, 133bis, non solo per disciplinare il potere discrezionale del giudice nell'individuazione della pena base, ma anche per disciplinare il suo potere discrezionale nell'applicazione delle circostanze aggravanti e attenuanti. In altre parole i citati articoli si riferiscono sia alla applicazione della pena base sia all'applicazione delle aggravanti. E siccome la applicazione di una circostanza potrebbe portare a “forare” il minimo o il massimo edittale, il legislatore si preoccupa di avvertire (nel capoverso dell'art.132) che comunque i “limiti stabiliti per ciascuna specie di pena” non debbono essere oltrepassati.

Discente: E da dove risultano tali “limiti”?

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Docente: Tali “limiti” risultano dagli articoli 23 e seguenti.

Discente: Chiarito il punto, passiamo a parlare dell'articolo 133, che (sotto la rubrica “Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena”) recita: “Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente, il giudice deve tenere conto della gravità del reato desunta: 1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. - Il giudice deve tenere conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”.A me sembra giusta e razionale l'indicazione dei criteri a cui si deve ispirare il giudice nella determinazione della “pena base”; e sopratutto logico e razionale il raggruppamento di tali criteri in due categorie fondamentali: una attinente alla “gravità del reato” e una attinente alla “capacità a delinquere”. A te non sembra?

Docente: A me, così, veramente non sembra. Infatti - volendo prescindere, così come fa del resto il legislatore nell'articolo in esame, del criterio attinente la maggiore o minore afflittività della pena - a me sembra che, i criteri in base a cui quantificare la pena, dovrebbero essere distinti e raggruppati a seconda dello scopo al cui raggiungimento la inflizione della pena mira. Scopo che, se tu ricordi quel che abbiamo detto nelle prime lezioni, non si riduce ad uno solo.

Discente: Certo, ricordo bene: la pena viene inflitta per raggiungere due scopi: quello di realizzare la emenda del reo (c.d. prevenzione speciale) e quello di dissuadere chi fosse tentato di ripetere il reato (c.d. prevenzione generale). Quindi tu riterresti più giusto raggruppare i criteri de quibus a seconda che rilevino ai fini della prevenzione speciale o ai fini della prevenzione generale della pena. Pensandoci meglio, debbo riconoscere che ciò é più logico. Comincia allora a dire quali sono secondo te gli elementi, che il giudice deve tenere presenti nella quantificazione della pena ai fini dell'emenda del reo.

Docente: Sono tutti quelli che rivelano il carattere, il temperamento del reo e quindi permettono al giudice di valutare la difficoltà maggiore o minore di una sua rieducazione (corrispondendo ovviamente, a una difficoltà maggiore, una maggiore pena, e, a una difficoltà minore, una pena minore). Quindi tali elementi sono dati: in primo luogo, dalle azioni, dai comportamenti del reo (numeri due e tre del secondo

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comma dell'articolo in esame); dato che il carattere di una persona ci si rivela principalmente dalle sue azioni. In secondo luogo, dalla “intensità del dolo o dalla gravità della colpa” (confronta, n. 3 del primo comma), da una parte, e, dall'altra, da i “motivi a delinquere” (cfr. n1 secondo comma); questo perché sia l'intensità del dolo e della colpa sia i motivi a delinquere, indicano il rispetto che il reo porta verso i beni e gli interessi altrui (e quindi la sua maggiore o minore inclinazione ad aggredire tali beni e tali interessi).

Discente: Perché l'intensità del dolo e la gravità della colpa indicherebbero tale maggiore o minore rispetto?

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Docente: Ti rispondo con una domanda: se Caio guida la sua auto in maniera talmente imprudente da far sorgere 90 probabilità su cento che un pedone ne resti arrotato, e Sempronio la guida, sì, anch'egli con imprudenza, ma con una imprudenza che fa sorgere solo 10 probabilità su cento di un incidente, secondo te dimostra più rispetto per l'incolumità altrui, Caio oppure Sempronio? E se Caio pone una bomba sotto un'auto sapendo e volendo che il suo proprietario salti in aria (dolo diretto) e Sempronio pone, sì, anch'egli una bomba sotto un'auto, ma solo con l'intenzione di far saltare questa e non il suo proprietario, se pur sempre disposto a metterla anche se sicuro che a saltare in aria fossero auto e proprietario insieme (dolo eventuale), secondo te chi dei due dimostra una maggior sprezzo per la vita umana?

Discente: Certamente Caio.

Docente: Tale tua risposta ti dà anche la spiegazione del perché la gravità della colpa e l'intensità del dolo rilevino per individuare la maggiore o minore inclinazione a delinquere del reo (quell'inclinazione che va estirpata dalla pena).

Discente: Capisco. Ma perché anche i “motivi” a tal fine rilevano?

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Docente: Anche qui ti rispondo con una domanda: tra Caio, che guida con grave imprudenza (probabilità del 90 percento che succeda un incidente), ma per correre al capezzale del figlio moribondo e Sempronio, che guida con un'imprudenza minore di quella di Caio (30 probabilità su cento di un incidente), ma per andare a ballare, chi dei due dimostra maggior sprezzo per la vita umana?

Discente: Caio, senza dubbio: riconosco che effettivamente, per determinare la inclinazione a delinquere del reo, bisogna operare una sorta di bilanciamento tra dolo e colpa, da una parte, e “motivi”, dall'altra.E così tu hai preso in considerazione (in quanto rilevanti ai fini della prevenzione speciale), oltre all'elemento di cui al numero 3 del primo comma, anche tutti gli elementi di cui al secondo comma. O meglio, tutti, eccezion fatta, per quello indicato al numero 4: “condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”.

Docente: Non certo perché anche tale elemento non rilevi ai fini della determinazione della pena utile all'emenda del reo.

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Discente: Sì, ma in che senso? Nel senso di un aumento di pena (cioé la vita del reo in un ambiente criminogeno va presa come indice di sue tendenze criminali, secondo il detto “il simile attrae il suo simile”) o nel senso di un eventuale diminuzione di pena (in considerazione che anche una personalità non proclive al delitto può diventarlo se vive in un ambiente criminogeno, cosa per cui basterebbe togliere il reo da tale ambiente per ridurre la sua inclinazione a delinquere e quindi per far ritenere necessaria, per estirpare questa, una pena minore) -?

Docente: Permettimi una soluzione salomonica: la verità é che l'ambiente in cui vive il reo, potrà portare a un aumento o a una diminuzione della pena secondo i casi: porterà a una diminuzione della pena, nel caso la considerazione della personalità del reo, risultando sostanzialmente sana, convinca che la spinta al reato é soprattutto dovuta all'ambiente (in cui solo per un destino ingrato il reo é vissuto), porterà invece a un aumento della pena, nel caso, la vita in un ambiente criminale, possa essere presa invece a indice di una vitiosa constitutio del reo.

Discente: Dobbiamo ora parlare degli elementi che il giudice deve tenere in conto nel quantificare la pena ai fini della prevenzione generale.

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Docente: Naturalmente si tratterà di elementi diversi, da quelli prima presi da noi in esame come indici della personalità del reo. Questo proprio perché, nel caso, non si tratta più di quantificare la pena ai fini di emendare questa personalità, ma ai fini di contrastare quella eventuale spinta a ritentare la impresa criminale (del reo) che può esistere in terzi (la cui personalità é naturalmente sconosciuta). Pertanto é qui che acquistano rilevanza gli elementi indicati nel numero uno e nel numero due del primo comma dell'articolo 133: il giudice dovrà tenere tanto più alta la pena quanto più importante é l'interesse aggredito (dal fatto- reato), quanto più forte é stata la sua offesa, quanto maggiori erano state le probabilità di riuscita dell'impresa criminale (per essere stata questa compiuta, metti, in luogo isolato, di notte, insomma in circostanze in cui la difesa pubblica o privata ne era risultata menomata).

Discente: Parliamo ora dell'articolo 133bis, il quale (sotto la rubrica “Condizioni economiche del reo, valutazione agli effetti della pena pecuniaria”) recita: “Nella determinazione dell'ammontare della multa o dell'ammenda, il giudice deve tenere conto, oltre che dei criteri indicati dall'articolo precedente, anche delle condizioni economiche del reo. - Il giudice può aumentare la multa o l'ammenda stabilite dalla legge sino al triplo o diminuirle sino ad un terzo quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa”.

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Docente: Chiaro che condannare Caio e Sempronio - che hanno commesso un fatto-reato di identica gravità, che hanno dimostrata la stessa capacità criminale - con la stessa sanzione giuridica, metti un anno di reclusione, non significherebbe dare loro la stessa pena, come invece pretende il senso di giustizia, se quella sanzione (quell'anno di reclusione) fosse per loro diversamente penosa (penoso). Quindi é chiaro che il giudice nell'infliggere la sanzione deve tenere conto della sua afflittività per il reo – afflittività che può essere superiore o inferiore alla media (un anno di reclusione é più penoso per ua persona di salute malferma che per un robusto giovanotto, diecimila euro di multa, sono nulla per il signor Nababbo e sono una tragedia per un pensionato): la sanzione deve essere tanto più lieve quanto più nel caso concreto risulta afflittiva. E questo non solo in caso di sanzione pecuniaria ma anche in caso di sanzione detentiva. E non si può argomentare a contrario dal fatto che nell'articolo 133bis il legislatore prende in considerazione solo il caso della sanzione pecuniaria; ciò essendo con tutta evidenza dovuto al fatto che più evidenti sono le ingiustizie, a cui può dare luogo la inflizione di una identica sanzione pecuniaria a persone di diversa ricchezza, e più facile il modo per rimediare a tali ingiustizie.

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Discente: Così abbiamo detto dei criteri con cui il giudice deve individuare, tra il minimo e il massimo edittale, la c.d. pena base. Però tu hai prima accennato al fatto che il legislatore certe volte prende in considerazione delle “circostanze”, al fine di imporre un aumento o una diminuzione della pena base. Mi sembra il caso ora di dire dove il legislatore parla di tali “circostanze” e come queste si applicano.

Docente: Il legislatore disciplina le circostanze del reato negli articoli 59 e seguenti. Quanto al modo con cui le circostanze del reato vanno applicate cercherò ora di spiegartelo con due esempi: uno relativo a un caso di concorso omogeneo di circostanze (cioè le circostanze sono tutte attenuanti o tutte aggravanti), l'altro relativo a un caso di concorso eterogeneo di circostanze (alcune circostanze sono attenuanti altre aggravanti).

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Esempio relativo a un concorso omogeneo: la pena per il reato A é stabilita dal legislatore tra un minimo di tre mesi e un massimo di 12 mesi e vanno applicate due circostanze attenuanti: la circostanza B, per cui é prevista una attenuazione della pena da un giorno a otto mesi, e la circostanza C, per cui é prevista un'attenuazione da un giorno a sei mesi. Ecco come il giudice procede: prima, il giudice, individua la pena base in base ai criteri indicati negli articoli 133 e 133bis: metti che la pena così individuata sia di sei mesi di reclusione; poi, il giudice, quantifica la pena che deve essere detratta per ogni attenuante, metti che per la attenuante B debbano essere detratti 4 mesi e per la attenuante C debbano essere detratti un mese e venti giorni; infine, il giudice, opera le detrazioni così calcolate.

Discente: Quale attenuante applica per prima?

Docente: Vuoi dire quale delle detrazioni opera per prima, se quella relativa all'attenuante B o quella all'attenuante C? Ebbene, la cosa é indifferente: il risultato non cambia: provare per credere.

Discente: Mettiamo che, come viene naturale esprimersi, applichi per prima la attenuante B.

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Docente: Allora il calcolo é questo: sei mesi (pena base) - 4 mesi (per l'attenuante B) =2 mesi – un mese e venti giorni = 15 giorni di reclusione.

Discente: Ti sbagli: due mesi - un mese e venti giorni = 10 giorni.

Docente: Così vorrebbe in effetti la matematica, ma così non vuole l'articolo 132, che, se ti ricordi, impone di non “oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena”. Ora il limite minimo stabilito per la reclusione é 15 giorni: quindi una condanna alla reclusione per soli 10 giorni sarebbe illegittima.A questo punto devo attirare la tua attenzione su un particolare molto importante: un successivo aumento di pena (dovuto a una seconda circostanza aggravante) o una successiva diminuzione di pena (dovuta a una seconda circostanza attenuante), vanno applicati sul risultato ottenuto applicando (alla pena base) la precedente circostanza. Ciò per il preciso disposto del secondo comma dell'articolo 63, che recita: “Se concorrono più circostanze aggravanti, ovvero più circostanze attenuanti, l'aumento o la diminuzione di pena si opera (melius, si calcola) sulla quantità di essa risultante dall'aumento o dalla diminuzione precedente”. Insomma, il legislatore vuole che l'aumento o la diminuzione di pena venga calcolato (non in relazione alla pena base, ma) in relazione al risultato derivante dall'applicazione di una precedente circostanza.

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Discente: Ma l'articolo non parla di “calcolo” ma di “applicazione” (dell'aumento o della diminuzione di pena).

Docente: Effettivamente é così, ma ciò é evidentemente dovuto solo a una cattiva formulazione dell'articolo, che nel secondo comma contiene due errori. Infatti, é ovvio che una seconda diminuzione o un secondo aumento della pena (in considerazione di una seconda circostanza) va applicato sull'aumento o sulla diminuzione dovuti alla prima circostanza, quel che non é ovvio e che il legislatore voleva dire ma ha sbagliato nel dire (ecco il primo errore, di cui parlavo), é che l'aumento e la diminuzione vanno calcolati, non sulla pena base ma sul risultato dell'applicazione della prima circostanza. Il secondo errore é che il legislatore non ha tenuto presente che, come nell'esempio da me prima fatto, ci possono essere casi in cui il calcolo dell'aumento o della diminuzione non vanno fatti né in relazione alla pena base né in relazione al risultato dell'applicazione della precedente circostanza. Il caso da me prima portato ne costituisce un esempio.

Discente: Ma tali casi sono frequenti?

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Docente: No, a dir il vero sono rarissimi: di solito il legislatore stabilisce la quantità di con cui il giudice può aumentare o diminuire la pena base (non indicando, come nel caso di scuola da me prima fatto, un minimo e un massimo per l'aumento e per la diminuzione, ma) semplicemente con riferimento a una quota: ad esempio dice la pena può essere aumentata “fino a un terzo” (vedi gli artt. 64 e segg.), cosa per cui può sorgere effettivamente il dubbio (che l'articolo 63 risolve):” fino a un terzo di che? della pena base o del risultato dell'aumento o diminuzione ecc.ecc.?”.

Discente: Ma cambia il risultato, a seconda che il calcolo si faccia sulla pena base o no?

Docente: E certo che cambia: metti che un'attenuante “fino a un terzo” tu la calcoli sulla pena base di sei mesi, la riduzione (se applichi l'attenuante al massimo) sarà = due mesi; se, invece, la calcoli sul risultato dell'applicazione di una precedente attenuante, e metti che tale risultato sia quattro mesi, la ulteriore riduzione operabile sarà di solo un mese e dieci giorni (prendi la calcolatrice e moltiplica 30, idest i giorni che compongono un mese, per 4, dividi per tre e sottrai il risultato da 120: otterrai 40 giorni cioé un mese e dieci giorni di reclusione: provare per credere). Come quindi puoi constatare, la riduzione della pena in caso di concorso di attenuanti é “regressiva”.

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Discente: Mentre, invece, l'aumento della pena in caso di concorso di aggravanti é progressivo: non mi pare molto giusto.

Docente: Non ti saprei dire se é giusto o no: comunque é così.

Discente: Prima di proseguire con l'esempio del concorso eterogeneo, voglio farti questa domanda: quando un elemento é previsto sia dall'articolo 132 (sto pensando ai “motivi” del reato di cui al n. 1 del capoverso) sia da una “circostanza” (sto pensando all'aggravante di cui al n. 1 dell'articolo 61: “i motivi abbietti”) come deve regolarsi il giudice? Deve tenere conto di tale elemento, oltre che per applicare l'aggravante, anche per calcolare la pena base?

Docente: Chiaramente, no: il giudice determinerà, prima, la pena base come se tale elemento non esistesse (nell'esempio, come se il reo non avesse agito per motivi abietti) e, poi, applicherà la circostanza, a tale elemento, relativa (nell'esempio applicherà l'aggravante dell'articolo 61): questo lo dice la logica e comunque lo dice anche il primo comma dell'art. 63, che recita: “Quando la legge dispone che la pena sia aumentata o diminuita entro limiti determinati, l'aumento o la diminuzione si opera sulla quantità di essa, che il giudice applicherebbe al colpevole, qualora non concorresse la circostanza che la fa aumentare o diminuire”.

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Discente: Ma dalla norma che tu hai ora letta, sembrerebbe doversi dedurre a contrario che il giudice debba invece tenere conto dell'elemento de quo anche per la determinazione della pena base, quando la pena non sia aumentata o diminuita “entro limiti determinati”. Ciò mi sembra assurdo.

Docente: E assurdo é; ma tale assurdità deriva solo da un errore di formulazione della disposizione legislativa (ti sarei accorto che il legislatore non dimostra di avere una mano felice nel scrivere gli articoli che riguardano le “circostanze”!).

Discente: Un'altra domanda: che fare nei casi, sempre possibili, in cui il legislatore abbia omesso di indicare l'aumento o la diminuzione relativi a una data “circostanza”?

Docente: Qui ti rispondono, e mi pare abbastanza chiaramente, gli articoli 64 e 65: in sintesi: nel caso di omissione relativa a una circostanza aggravante, la “pena sarà aumentata fino a un terzo”, nel caso, invece, di omissione relativa a una circostanza attenuante, la pena sarà diminuita “in misura non eccedente un terzo”.

Discente: A questo punto penso che potremmo passare a parlare del concorso eterogeneo di circostanze.

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Docente: Non prima però di aver almeno accennato alle cc.dd. circostanze ad effetto speciale o con pena di specie diversa. Infatti per tali circostanze il legislatore deroga ad alcune delle regole che abbiamo visto presiedere al concorso omogeneo di circostanze. Più precisamente, mentre nel caso di concorso di circostanze comuni, abbiamo visto, il giudice può applicare per prima indifferentemente l'una o l'altra, nel caso invece di concorso di una circostanza a effetto speciale (o con pena di specie diversa) con una circostanza comune, questa va applicata sempre per seconda; ancora, mentre nel caso di concorso di più circostanze comuni esse vanno tutte applicate, nel caso invece di concorso di più circostanze ad effetto speciale (o di specie diversa) solo una di esse, quella che provoca il più forte aumento o la più forte diminuzione, va applicata.

Discente: Quando si ha una per circostanza di specie diversa é abbastanza intuitivo: essa si ha ad esempio quando, essendo il reato A punito nella sua forma semplice, metti, con l'arresto, la presenza della circostanza lo rende punibile con la reclusione; ma vuoi dirmi quando si ha una circostanza ad effetto speciale?

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Docente: Si ha una circostanza ad effetto speciale quando essa importa “un aumento o una diminuzione della pena superiore a un terzo” (v. u.p. comma tre art. 63). Ma, ancor meglio delle mie parole, ti chiarirà le idee la lettura del terzo, quarto, quinto comma dell'articolo 63, che recitano: “Quando per una circostanza la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o si tratta di circostanza ad effetto speciale, l'aumento o la diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta. Sono circostanze ad effetto speciale quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un anno.- Se concorrono più circostanze aggravanti tra quelle indicate nel secondo capoverso di questo articolo, si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave, ma il giudice può aumentarla. - Se concorrono più circostanze attenuanti tra quelle indicate nel secondo capoverso di questo articolo, si applica soltanto la pena meno grave stabilita per le predette circostanze; ma il giudice può diminuirla”.

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Discente: Quindi é circostanza ad effetto speciale senza dubbio quella che consente un aumento “fino alla metà” (com'é il caso per la circostanza prevista nel capoverso dell'articolo 99); ma può considerarsi ad effetto speciale anche la circostanza che cambia la cornice edittale della pena (il reato semplice era punito fino a un anno di reclusione, ma per la circostanza B viene punito da sei mesi a due anni di reclusione)? in parole più tecniche, anche una delle c.d. circostanze “indipendenti” (ciòé che portano a calcolare la pena in modo indipendente dal come é calcolata nel reato semplice, e non con aumenti e diminuzioni rappresentanti frazioni della pena prevista per il reato semplice) può essere una circostanza ad effetto speciale?

Docente: Direi proprio di sì, purché il minimo o il massimo (della nuova cornice edittale) superino di un terzo il minimo o il massimo edittale della vecchia cornice: ad esempio le circostanze previste dall'articolo 625 vanno considerate circostanze ad effetto speciale (mentre tali non vanno considerate quelle dell'articolo 609ter).

Discente: Ma a me pare che anche alle circostanze aggravanti dell'articolo 609ter dovrà applicarsi il terzo comma dell'articolo 63; voglio dire che a me pare che concorrendo una circostanza “indipendente” con altra circostanza, la prima debba essere applicata sempre per prima: sbaglio?

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Docente: No, non sbagli; d'altra parte come potrebbe essere diversamente, data la struttura delle circostanze de quibus?

Discente: A questo punto possiamo davvero procedere oltre, facendo il secondo esempio che ti eri proposto: quello sul concorso eterogeneo di circostanze: la pena base é sempre sei mesi, vi sono sempre due circostanze attenuanti B e C, però vi é anche la circostanza aggravante D: che fare?

Docente: Bisogna fare una sorta di bilanciamento, e se si accerta che “pesano” di più le circostanze aggravanti si applicano solo gli aumenti di pena ad esse relativi, mentre se si accerta che hanno maggior peso le circostanze attenuanti, si applicano solo le diminuzioni ad esse relative.

Discente: E se circostanze attenuanti e aggravanti si controbilanciano perfettamente?

Docente: Non si applicano né le une né le altre. Tutto questo risulta dall'articolo 69, che recita. “Quando concorrono insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti e le prime sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tiene conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti.- Se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tiene conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti. - Se fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza, si applica la pena che sarebbe inflitta se non concorresse alcuna di dette circostanze.- Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole60, esclusi i casi previsti dall'articolo 99, quarto comma,, nonché dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi é divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti61, ed a qualsiasi altra

60 Circostanze inerenti alla persona del colpevole sono ad esempio quelle che attengono alla recidiva, alla miniore età, alla seminfermità di mente.61 Il testo previgente così disponeva: “Le disposizioni precedenti si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato”. Questa disposizione fu riformata nel senso in cui appare ora il quarto comma dell'art.69. Questo (piuttosto ingarbugliato nella sua formulazione, cosa per cui, per capirci qualche cosa, lo studioso farà bene a leggerselo una prima volta omettendo la parte che abbiamo messo in corsivo) “ per un verso conferma – stiamo riportando le parole chiarificatrici contenute nel Codice penale spiegato articolo per articolo, edito da Simone – l'applicabilità delle regole di cui all'art. 69 alle

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circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato”.

Discente: Penso che tale, diciamo così, semplificazione operata adl legislatore nasca dalla volontà di evitare calcoli troppo ingarbugliati; e che pertanto non si applichi nei casi in cui tale pericolo non si verifichi; quindi nei casi in cui il legislatore tiene conto di una circostanza per stabilire la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato; é così?

Docente: Mi pare che tu non abbia seguito con la dovuta attenzione la lettura dell'ultimo comma dell'articolo 69; da questo comma infatti risulta chiaramente che non é per nulla così: anche in caso che la pena sia determinata “in modo indipendente da quella ordinaria del reato” si opera il bilanciamento. Per fare un esempio facciamo riferimento a una precisa disposizione di legge, quella di cui all'ultimo comma art. 577: con questa disposizione il legislatore, per il caso che l'ucciso sia il coniuge, determina la pena in modo diverso da come l'ha determinata per il reato semplice nell'articolo 575: infatti in questo articolo é stabilita una pena “non inferiore ad anni ventuno”, mentre nell'ultimo comma dell'articolo 577 viene stabilita una pena “da ventiquattro a trenta anni”. Ora metti che concorra una circostanza attenuante, ad esempio l'aver agito in stato d'ira (v. melius il n.2 dell'articolo 62), in tal caso il giudice, se riterrà prevalente l'attenuante, non terrà conto della aggravante (e quindi, potrà fissare la pena in 21 anni, e non in 23 anni, e partendo da tale pena base scendere, in considerazione dell'attenuante, fino a 14 anni); se invece riterrà l'aggravante prevalente, potrà fissare la pena base tra i 24 e 30 anni e non opererà da essa nessuna detrazione (così come se la circostanza attenuante non esistesse).

Discente: Però di fatto essa esiste e sarebbe davvero ingiusto non tenerne conto: parificare nella pena l'uxoricida, che uccide frigido animo e quello che uccide in stato d'ira determinato dal fatto ingiusto altrui.

circostanze inerenti alla persona del colpevole, non ché a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato, ma, per converso, pone un'espressa deroga per la fattispecie circostanziale aggravante della recidiva reiterata, nonché per le circostanze che prevedono un incremento sanzionatorio a carico di chi determini al reato una persona non imputabile o non punibile (art. 111 c.p.), ed a carico di chi determini a commettere il reato un minore degli anni 18 o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica, ovvero si sia comunque avvalso degli stessi nella commissione di un delitto per il quale é previsto l'arresto in flagranza, specificando che, rispetto a tali circostanze, sussiste un divieto assoluto di considerare prevalenti eventuali circostanze attenuanti sulle ritenute aggravanti”.

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Docente: Il giudice potrà tenere conto di tale elemento attenuante ai sensi dell'articolo 133.

Discente: Ma se già altri elementi a cui fa riferimento l'articolo 133 portassero ad assestare la pena nel minimo, come potrebbe tenerne conto.

Docente: Hai ragione tu: indubitabilmente in tal caso, non potendosi tenere conto dell'elemento attenuante la pena risulterebbe ingiusta.

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Lezione 16 - Elemento soggettivo e circostanze del reato

Discente: Il legislatore può configurare un elemento di fatto come circostanza del reato anziché come suo elemento costitutivo e viceversa?

Docente: Certamente lo può: un'elementare tecnica legislativa ciò gli permette. Ad esempio, l'elemento configurato come aggravante nel numero 1 dell'art. 577 (l'essere l'omicidio commesso contro il padre) può essere trasformato in elemento costitutivo da una norma che, metti sotto la rubrica “Reato di parricidio”, reciti “Chiunque cagioni la morte del proprio padre é punito con tot anni di reclusione”. E naturalmente l'elemento costitutivo di una tale eventuale norma potrebbe trasformarsi in circostanza aggravante – così come di fatto lo é nel nostro codice (vedi gli articoli 575 e 577).

Discente: Ma, il considerare un elemento come circostanza del reato o come suo elemento costitutivo, é cosa indifferente o comporta diverse conseguenze giuridiche?

Docente: Comporta diverse conseguenze, sia nel calcolo della pena sia nella rilevanza da attribuirsi all'elemento soggettivo.

Discente: Dai un esempio delle diverse conseguenze che, la configurazione di un fatto come elemento costitutivo anziché come circostanza del reato, può comportare.

Docente: L'esempio potrebbe essere questo: prima ipotesi: reato di omicidio punito, metti, col minimo edittale di 18 anni, (non guardare il codice perchè quello che ti sto facendo é un caso di scuola e prescinde da quanto stabilisce in realtà l'articolo 575): in tale ipotesi,un giudice benevolo, in presenza di due circostanze attenuanti, A e B, e dell'aggravante costituita appunto dell'essere stato l'omicidio perpetrato contro il padre, potrebbe, ritenuta la prevalenza delle attenuanti sull'aggravante, giungere a comminare solo 8 anni: infatti, 18 – 6 (per l'attenuante A) - 4 (per l'attenuante B) = 8. Seconda ipotesi: reato di parricidio punito col minimo edittale di 24 anni: il giudice benevolo di prima, ancorché come prima applichi nella loro maggiore estensione le due attenuanti, potrebbe solo giungere ad applicare la pena di 11 anni e 8 mesi; infatti, 24 anni – 8 anni (per l'attenuante A) - 5 anni e 4 mesi (per l'attenuante B) = 11 anni e 8 mesi.

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Discente: Ora devi dire sulla diversa rilevanza che assume l'elemento soggettivo a seconda che un fatto sia configurato come circostanza del reato o come suo elemento costitutivo.

Docente: Tu fammi delle domande sulla rilevanza dell'elemento soggettivo per le circostanze del reato. E io, quando é il caso, ti farò notare le differenze - che non sono moltissime, ma, come vedremo, ci sono - nella disciplina di tale elemento per le circostanze di reato e per gli elementi costitutivi di reato.

Discente: Prima domanda: Bianchi ruba un anello, non sapendo che é cosa di nessun valore: si applica l'attenuante di cui al numero 4 dell'articolo 62 (attenuante concessa per “aver cagionato alla persona offesa dl reato un danno patrimoniale di speciale tenuità”)-?

Docente: Sì, si applica. Così come si valuterebbe a favore di Bianchi un causa di esclusione della pena (stato di necessità, legittima difesa, uno dei rapporti di parentela che per l'articolo 649 escludono la punibilità....) anche se da lui fosse stata ignorata (Bianchi ha rubato un anello di proprietà della madre credendo che invece fosse di proprietà di un terzo - cfr il già citato art. 649). Tutto ciò risulta dal primo comma dell'articolo 59, che recita: “Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti”.Come é facile notare, l'articolo 59, in questo suo primo comma, é in perfetta linea con la disciplina data, al c.d. reato putativo, dal primo comma dell'articolo 49, che, se ti ricordi, recita: “Non é punito chi commette un fatto non costituente reato nella supposizione erronea che esso costituisca reato”.

Discente: Quindi, nell'ipotesi, che il fatto (determinante la attenuazione di pena) fosse configurato come circostanza del reato o come suo elemento costitutivo, nulla rileverebbe. Quid iuris nel caso, in un certo senso simmetrico a quello ora visto, nel caso cioè che il reo creda erroneamente di agire in presenza di una circostanza aggravante.

Docente: Anche in tal caso non si tiene conto della situazione di fatto reputata dall'agente ma di quella effettivamente esistente; e la circostanza aggravante putativa non si calcola: per rifarci all'esempio prima fatto (visto però da una diversa angolazione) Bianchi, che crede di rubare un preziosissimo gioiello (nel qual caso esisterebbe l'aggravante dell'art.61 n.7) mentre ruba cosa di nessun valore, viene punito, sì, per furto, ma nella sua forma semplice, non aggravata.Ciò risulta dal terzo comma (sempre dell'art.59), che recita: “Se l'agente ritiene per

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errore che esistano circostanze aggravanti (….), queste non sono valutate contro (…) di lui”.

Discente: Quindi anche qui può richiamarsi la conformità ai principi espressi nel primo comma dell'articolo 49 ecc.ecc.Vediamo però che succede nel caso inverso a quello ora fatto: il nostro Bianchi questa volta ruba un quadro, credendolo opera di un dilettante, mentre é dovuto al pennello di un maestro e ha rilevantissimo valore.

Docente: Ecco un caso in cui la disciplina legislativa in parte cambia, a seconda che l'elemento di fatto “valore rilevante della refurtiva” venga configurato dal legislatore come circostanza aggravante (cfr. il n.7art.61) o come elemento costitutivo del reato.

Discente: Comincia col dire la parte in cui la disciplina non cambia.

Docente: La disciplina non cambia, nel caso che l'agente non fosse stato a conoscenza, senza sua colpa, dell'elemento di fatto de quo; in tal caso infatti, di tale elemento, non si dovrebbe tenere conto, sia che esso fosse configurato come circostanza aggravante (di conseguenza non si dovrebbe operare il relativo aumento di pena) sia che venisse considerato come elemento costitutivo (e di conseguenza, l'agente non potrebbe essere ritenuto responsabile di nessun reato).

Discente: E ora dimmi dove la disciplina legislativa diventa diversa (a seconda che l'elemento di fatto sia configurato come elemento costitutivo o come circostanza aggravante del reato).

Docente: La disciplina diventa diversa dove dispone che l'ignoranza dovuta a colpa dell'elemento di fatto, nel caso che tale elemento sia costitutivo del reato, rilevi per escludere la responsabilità penale, nel caso invece tale elemento sia configurato come circostanza aggravante, non rilevi per nulla: il Bianchi che per sua grassa ignoranza della storia e dell'arte ha rubato un quadro ignorando che fosse di Raffaello, risponde con una pena aggravata dalla circostanza di cui al numero 7 dell'articolo 61. Tutto ciò risulta dal secondo comma, sempre dell'articolo 59, che recita: “Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa”

Discente: Ma perché mai l'ignoranza di un'aggravante rileva solo se non dovuta a

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colpa? A me sembra che aggravare la pena per una “circostanza” (e aggravarla negli stessi limiti, massimo e minimo!), sia che il reo conosca tale circostanza sia che per colpa la ignori, sia tanto ingiusto come punire con identica pena un omicidio, sia che sia stato commesso con dolo sia che sia stato commesso con colpa.

Docente: Francamente io non ti so dire il perché della soluzione adottata dal legislatore, che anche a me pare assurda. La cosa più probabile é che il legislatore si sia reso conto di essere stato troppo di manica larga, se mi permetti l'espressione, nel non valutare a carico dell'agente una aggravante, solo che sia stata da lui ignorata; e ha allora pensato di restringere, il “beneficio” concesso con troppa larghezza, con il criterio di escluderne i casi in cui la circostanza é, sì, ignorata ma per colpa del reo. Ma questo é un criterio effettivamente non giusto.

Discente: Quale altro criterio avrebbe dovuto adottare, allora?

Docente: Il criterio della ratio che ha dettata la aggravante: se a dettare l'aggravante é stata, ad esempio, la considerazione della maggiore capacità criminale che essa rivela (pensa, all'aggravante prevista dal n. 4 dell''art. 61: l'aver agito “con crudeltà”) o l'esigenza di una maggiore tutela della parte offesa (pensa all'aggravante prevista dal n.10 sempre dell'articolo 61), diventa giusto non aggravare la pena nel caso che il reo ignori di agire in presenza di tale aggravante (il reo ha usato un veleno che dà una morte atroce ignorando gli effetti che produce, il reo ha leso un pubblico ufficiale ignorando tale sua qualità)62; se invece a dettare l'aggravante é stata la considerazione dell'allarme sociale che il reato, in presenza di tale circostanza, provoca (pensa all'aggravante di cui all'art. 61 n. 7: il grave danno provocato dal reato alla parte offesa), allora diventa assurdo tenere 62 Se é vero, com'é vero, che la pena é aumentata per chi agisce crudelmente in considerazione della maggiore capacità a delinquere da lui dimostrata, é intuitivo che non ha senso applicare l'aumento nel caso il reo non sapeva di agire crudelmente, dato che l'agire crudelmente senza sapere di agire crudelmente non rivela per nulla una maggiore malvagità. (in parole più tecniche, una maggiore capacità a delinquere).Prendiamo ora il caso dell'aggravante di cui al numero 10 dell'articolo 61. Evidentemente l'aumento di pena minacciato a chi offende un pubblico ufficiale ha la funzione di offrire a questi una maggiore tutela: Fulano che non si asterrebbe dell'offesa al p.u se la pena minacciata fosse solo 10, é probabile che se ne astenga se la pena é aumentata a 15. Così pensa il legislatore e così può essere, se Fulano é a conoscenza che la persona che vuole offendere é un p.u.; in caso contrario, così come non sa di stare per offendere un p.u così neanche risente l'effetto intimidatorio della minaccia di un aumento di pena (per il caso offenda un p.u.): minacciare l'aumento di pena a Fulano é come minacciare un sordo. E come, nel caso, non ha senso minacciare, prima, un aumento di pena, così non ha senso, dopo, applicare tale minaccia.

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conto dell'elemento soggettivo: infatti tale allarme sarebbe stato lo stesso sia che il reo sapesse o no di agire in presenza dell'aggravante: il furto della “Gioconda” crea allarme sociale grandissimo sia che il ladro sappia sia che non sappia di rubare un'opera d'arte.

Discente: Trovo giusto quel che dici; ma tu non pensi che si possa procedere ad un'interpretazione restrittiva della legge in base al criterio da te ora indicato?

Docente: A dir il vero io penso di sì.

Discente: Quindi come ci sono degli elementi, e mi riferisco alle condizioni di punibilità, di cui va tenuto conto per affermare la responsabilità penale dell'autore di un fatto, anche se da lui ignorati63 (e questo perché ad essi il legislatore dà rilevanza in considerazione dell'allarme sociale che provocano, non della capacità a delinquere che rivelano), così, secondo te, vi sarebbero degli elementi, di cui andrebbe tenuto conto per un aggravamento della pena, anche se ignorati dal reo (e anche qui perché ad essi il legislatore dà rilevanza solo per l'allarme sociale che provocano). La tesi mi pare dotata di logica e ben fondata; ma ora de hoc satis; ci siamo anche troppo trattenuti a parlare delle circostanze aggravanti, dobbiamo vedere ora che cosa dispone il legislatore per le circostanze attenuanti.

Docente: Lo faremo, ma non prima di aver preso in esame il primo comma dell'art. 60, che recita: “Nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell''agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole”.

Discente: Quindi se Bianchi volendo caricare di legnate Rossi, nella notte vedendoci male, compie un errore di persona e carica di legnate Verdi, che é un pubblico ufficiale, l'aggravante di cui al n.10 dell'articolo 60 non gli si applica. Ma ciò non risultava già dal secondo comma dell'articolo 59?! In definitiva a me sembra che il primo comma dell'articolo 60 sia inutilmente ripetitivo!

Docente: Ma siccome non si può attribuire al legislatore (fin che é possibile!) l'assurdità di dettar norme inutilmente ripetitive, occorre interpretare il comma 1 dell'articolo 60 in modo da fargli dire qualche cosa di diverso dal comma 2 dell'articolo 59; il che si si può ottenere solo interpretandolo nel senso che l'ignoranza di una circostanza aggravante (che riguardi le condizioni o qualità della

63 Art. 44 (Condizione obiettiva di punibilità) - Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato anche se l'evento da cui dipende il verificarsi della condizione, non é da lui voluto”

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persona offesa ecc.ecc)., esclude che tale circostanza sia posta a carico dell'agente, anche se tale ignoranza é dovuta a colpa di questi.

Discente: E ora passiamo veramente a parlare delle attenuanti: il signor Bianchi ritenendo che il signor Rossi lo abbia reso cornuto, nel comprensibile stato d'ira che ciò gli provoca, gli dà un bel pugno; pugno immeritato perché il Rossi sempre si é comportato col massimo rispetto verso la moglie del Bianchi: a questi si applica o no l'attenuante di cui al numero due dell'articolo 62 (l'attenuante per aver agito in stato d'ira determinato dal fatto ingiusto altrui)?

Docente: Almeno in base alla lettera del comma tre dell'articolo 59 la risposta dovrebbe essere positiva; infatti tale articolo recita. “Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze (….) attenuanti, queste non sono valutate (….) a favore di lui “.

Discente: A me sembra veramente assurdo che, nel caso Fulano abbia commesso un reato ignorando l'esistenza di un'aggravante, questa non si applichi, e, nel caso invece abbia commesso un reato ritenendo per errore un'attenuante, questa si applichi: forse che in entrambi i casi Fulano non ha agito nella convinzione di commettere un reato meno grave di quello effettivamente realizzato?

Docente: Non ti posso dare torto. A parziale scusante del legislatore vi é che egli, poi, nel secondo comma dell'articolo 60, dispone che “sono (…) valutate a suo favore (idest, a favore del reo) le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti (idest, “le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole”).

Discente: Anche così la soluzione legislativa non mi sembra molto accettabile: non pensi che, come per le aggravanti, anche per le attenuanti si debba tenere conto, per decidere sulla rilevanza di una loro ignoranza, della ratio delle attenuanti stesse.

Docente: Certo che lo penso; e nell'esempio fatto, in cui l'attenuante é stata con tutta evidenza dettata dal legislatore in considerazione della minore capacità a delinquere del reo, io, se tale attenuante da questi (idest, dal reo) fosse stata ritenuta erroneamente esistente, la applicherei.Debbo inoltre far notare che la soluzione legislativa adottata dal legislatore per le circostanze attenuanti appare tanto più assurda in quanto, per quel che riguarda le circostanze che escludono la pena, il legislatore adotta una soluzione del tutto opposta; infatti il quarto comma dell'articolo 59, recita: “Se l'agente ritiene per

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errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non é esclusa, quando il fatto é preveduto dalla legge come delitto colposo”.

Discente: Per ritornare al discorso da cui eravamo partiti all'inizio della lezione (discorso che riguardava, se ben ricordi, la diversa disciplina data dal legislatore, in relazione all'elemento soggettivo, a un elemento di fatto, a seconda che sia configurato come elemento costitutivo o come circostanza del reato) il comma terzo dell'articolo 59 non ti sembra che dia un esempio di una tale diversità?

Docente: Direi di si.

Lezione 17 - Il reato aberrante

Docente: Il reato aberrante viene dalla Dottrina distinto in tre diverse categorie: quella dell'aberratio ictus, quella dell' aberratio delicti, quella dell'aberratio causae.

Discente: Cominciamo a parlare dell'aberratio ictus.

Docente: No, conviene cominciare dall'aberratio delicti, in quanto la disciplina dell'aberratio ictus si presenta in definitiva come una deroga a quella dell'aberratio delicti.L'aberratio delicti si ha quando il reo provoca un evento diverso da quello voluto: Fulano voleva uccidere, sparando una fucilata, il cavallo di Manuel, sbaglia la mira e, invece del cavallo, uccide il cavaliere.Se tu fossi il legislatore, quale reato o quali reati addebiteresti a Fulano.

Discente: Certamente gli addebiterei il reato tentato di danneggiamento; e in più gli addebiterei anche l'omicidio colposo di Manuel, se l'errore nella mira (l'errore nell'esecuzione del disegno criminoso) fosse dovuto a colpa (il che quasi certamente sarebbe nel caso, mentre in altri invece potrebbe non essere: penso al caso che Fulano tiri la fucilata in un cespuglio, credendo che vi si nasconda la gallina di Manuel, mentre invece del tutto imprevedibilmente vi si nasconde il figlio di Manuel: in un tal caso io addebiterei a Fulano solo il tentativo di danneggiamento e non lo riterrei responsabile di nessun altro reato).

Docente: Bravissimo, la soluzione da te proposta é quasi eguale a quella adottata dal legislatore nell'articolo 83, che (sotto la rubrica “Evento diverso da quello voluto

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dall'agente”) recita: “Fuori dei casi preveduti dall'articolo precedente, se per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un'altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell'evento non voluto, quando il fatto é preveduto dalla legge come delitto colposo. - Se il colpevole ha cagionato altresì l'evento voluto, si applicano le regole sul concorso dei reati”.

Discente: Quasi eguale non significa eguale: dov'é eguale e dov'è diversa la soluzione da me proposta.

Docente: E' eguale là dove prevede la punizione di Fulano, sia pure con le riduzioni di pena relative al tentativo (art. 56), per il reato “ideato” (il danneggiamento).

Discente: Ma leggendo il primo comma dell'articolo 83 non vi vedo per nulla scritto che il tentativo del reato progettato va punito, vi trovo solo scritto quando e come va punito il fatto che ha cagionato “l'evento non voluto”.

Docente: Non ve lo trovi scritto solo per un difetto di formulazione della norma. Infatti sarebbe assurdo che al reo non fosse addebitato il tentativo (del reato ideato) – tentativo che, bada, non può mancare, é in re ipsa. Per convincerti di tale assurdità ripensa all'esempio prima fatto, ma invertendo i termini: Fulano volendo sparare al cavaliere uccide il cavallo: se il tentativo non fosse punito, Fulano per quel che ha fatto (che pure é un fatto che crea grandissimo allarme e indica gravissima capacità a delinquere) non sarebbe punito per nulla: neanche per il danneggiamento, dato che il primo comma dell'art.83 prevede una punizione, per il fatto cagionante l'evento non voluto, solo se tale fatto é previsto come delitto colposo, e il nostro Ordinamento non prevede un delitto di danneggiamento colposo.

Discente: Bene, sono contento che, la soluzione data da me al caso, almeno in un punto sia identica a quella data dal legislatore. Dimmi ora il punto in cui, invece, la mia opinione si divarica da quella del legislatore.

Docente: E' il punto in cui tu ritieni che il reo risponda dell'evento non voluto solo se questo é dovuto a sua colpa. Certamente non é così.

Discente: Ma la lettera della legge, parlando di “errore nell'uso dei mezzi ecc.ecc.” farebbe invece proprio pensare che sia così.

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Docente: Ma se così veramente fosse, se ragionando ab absurdo il legislatore avesse voluto far dipendere la punibilità dell'evento non voluto dall'esistenza di una colpa nell'agente, egli si sarebbe potuto benissimo risparmiare la fatica di scrivere l'ultima parte del comma in questione: infatti anche in sua mancanza nessuno mai avrebbe dubitato che il reo dovesse rispondere come delitto colposo del fatto di aver causato colposamente l'evento. Senza dubbio, dunque, nell'articolo 83 il legislatore fa applicazione del principio espresso nella massima qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu – principio che peraltro trova applicazione anche in altre norme del codice (pensa all'art.584, pensa all'articolo 586) e che é senz'altro giusto, come abbiamo già avuta occasione di dire: chi viola una norma penale deve sapere che lo fa a proprio rischio (deve sapere, cioé, che, così facendo, risponderà anche di eventi da lui non voluti e da lui non causati con colpa), perché il sapere questo sarà per lui un pungolo ulteriore al rispetto della legge (ulteriore rispetto alla minaccia della sanzione prevista per il reato che ha intenzione di compiere).

Discente: Fino ad adesso abbiamo parlato del primo comma, parliamo ora del secondo.

Docente: Il secondo comma prevede il caso che l'azione del reo abbia causato, oltre all'evento progettato, un evento non voluto (cosa per cui nel caso si usa parlare di “reato aberrante bilesivo”, in opposizione al reato aberrante monolesivo”, che si ha, com'é intuitivo, quanto l'azione, come nei precedenti esempi, abbia causato solo un evento). E dà di tale caso una disciplina, direi, ovvia: Fulano ha commesso due reati (ha ucciso cavallo e cavaliere)? se così, deve rispondere di entrambi seguendo le regole sul concorso dei reati: che c'é di più ovvio?! (e purtuttavia, anche se ovvia, la cosa andava detta, perché, avrebbe potuto far sorgere dubbi in contrario, la diversa disciplina che al caso dà il legislatore nell'ipotesi di aberratio ictus.).

Discente: Penso che tali regole sul concorso dei reati si applichino anche nell'ipotesi contemplata nel primo comma: l'ipotesi in cui l'azione del reo, fermatasi al tentativo senza produrre l'evento progettato, concorra, come delitto tentato, col delitto colposo derivante dalla causazione dello “evento non voluto”.

Docente: Certamente é così, anche se il nostro legislatore, un po' pasticcione, espressamente non lo dice.

Discente: In conclusione l'unico elemento di novità che introduce l'articolo 83 é dato dalla punibilità, come delitto colposo, di un'azione, che colposa non é. Tutte le

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altre sono chiacchere, che il legislatore poteva risparmiarsi.

Docente: In buona sostanza é così, anche se le parole da te usate sono troppo forti e irrispettose.

Discente: Lasciamo perdere, passiamo all'articolo 82, che prevede la c.d. aberratio ictus.

Docente: Cominciamo col premettere due considerazioni per inquadrare subito la fattispecie, dall'articolo 82, disciplinata:Prima considerazione: nell'aberratio ictus il reo viene ad offendere una persona che....non vuole offendere: Fulano spara e uccide Manuel, che egli, se non fosse caduto in errore, giammai avrebbe ucciso.

Discente: Allora si ha un'aberratio ictus anche nel caso in cui Fulano uccida la moglie credendo erroneamente che abbia commesso adulterio?

Docente: Assolutamente, no; faresti uno strafalcione dicendo questo: ohibò!!! il reato commesso per errore, immaginalo come un ampio genus, che comprende due diverse species: quella dell'errore-motivo e quella dell'errore-inabilità: si ha errore-motivo nel caso del tuo esempio (marito che fa un uxoricidio ritenendo un'inesistente adulterio), si ha errore.inabilità nel caso di Fulano, che vuole uccidere Francisco e non Manuel, sbaglia mira e uccide il primo. Ora l'aberratio ictus si ha solo quando l'agente provoca un evento (da lui) non voluto in seguito ad un errore-inabilità o come dice il legislatore per un “errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato”.

Discente: Ma questa distinzione tra errore-motivo ed errore-inabilità é importante?

Docente: Certo che é importante, dato che, a seconda che si ricada in una specie di erore o nell'altra, cambia la disciplina legislativa. Come ci riserviamo di indicare, dopo aver esposto la disciplina dell'aberratio ictus. Passiamo ora alla seconda considerazione che ci eravamo ripromessi di premettere a questa esposizione.Seconda considerazione: mentre nell'aberratio delicti, l'evento ideato dal reo e l'evento realizzato erano diversi, nell'aberratio ictus i due eventi sono eguali (diversa é solo la persona offesa).

Discente: La cosa ha importanza?

Docente: Certo, perché é proprio essa che spiega la diversa disciplina

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dell'aberratio delicti rispetto all'aberratio ictus. Nell'aberratio ictus, come subito vedremo, il reo viene punito per il reato ideato; nell'aberratio delicti invece, lo abbiamo visto, così non é, e così non può essere, perché, data la diversità degli eventi, punire il reo solo per l'evento ideato potrebbe significare punirlo in modo irrisorio per un fatto invece gravissimo: metti che Fulano spari una fucilata solo al fine di rompere una vetrata della casa di Manuel e invece uccida Manuel: é chiaro che comminare a Fulano solo le pene previste per il danneggiamento (reato ideato) non costituirebbe per nulla una risposta adeguata alla gravità del reato effettivamente realizzato (un omicidio!). Questo, diciamo così, inconveniente, invece, non si può invece realizzare quando gli eventi (quello ideato e quello prodotto) sono, se non proprio identici, omogenei: per esempio, due omicidi, due danneggiamenti

Discente: Capisco. Ma ora passiamo davvero, prima, alla lettura, poi, all'esame dell'articolo 83, che (sotto la rubrica “Offesa di persona diversa da quella alla quale l'offesa é diretta”) recita: “Quando, per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per altra causa, é cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno alla persona che voleva offendere, salve, per quanto riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti, le disposizioni dell'articolo 60. - Qualora, oltre alla persona offesa, sia offesa anche quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave, aumentata fino alla metà”

Docente: Mettiamoci in questo caso: Fulano spara per uccidere Manuel e invece uccide Francisco, di cui, tanto per drammatizzare un po' l'esempio, mettiamo, egli é figlio. Tu sei il legislatore: quali reati addebiteresti a Fulano?

Discente: Io gli addebiterei il tentativo di omicidio (doloso) nei confronti di Manuel, e, in più (ma solo nel caso che sia dovuto a errore colposo), l'omicidio di Francisco.

Docente: Quindi, nel caso non vi fosse una colpa nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato (cosa ben possibile: Fulano spara, ma Francisco imprevedibilmente si muove e intercetta la pallottola), tu infliggeresti a Fulano solo le pene previste per il reato di tentato omicidio. Eppure il morto c'é stato (e ciò ha commosso l'opinione pubblica)! eppure Fulano ha dimostrato di non essere intimidito e di non desistere dall'azione delittuosa nonostante le gravi pene previste per il reato consumato di omicidio (con ciò dimostrando una notevole pericolosità sociale) !!!

Discente: Sì, mi rendo conto, la pena risulta misera rispetto all'allarme sociale suscitato dall'azione del reo e alla capacità a delinquere da lui dimostrata; ma i

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principi che informano il nostro Ordinamento vogliono questo: anche chi commette un reato putativo (art.49 co.1) rivela una notevole capacità a delinquere, e ancor più la rivela chi fa un tentativo di reato (art.56) anche se impossibile (art.49 co.2), eppure il nostro legislatore punisce con pena ridotta chi fa il tentativo e non punisce affatto che compie un reato putativo o esegue un tentativo impossibile.

Docente: Sì, te ne dò atto, i principi che informano il nostro Ordinamento sono questi; ma sono principi falsi e bugiardi. E fortunatamente in subiecta materia il legislatore, come un pazzo (ahimè momentaneamente!) rinsavito, da tali principi si allontana; così come ti risulta dalla semplice lettura dell'articolo in esame: Fulano viene punito per il reato ideato, non per quello consumato; ciò evidentemente in considerazione della càpacità criminale da lui dimostrata tentando l'omicidio di Manuel e dell'allarme sociale provocato causando la morte di Francisco.

Discente: Ma tale maggiore severità nella disciplina dell'aberratio ictus rispetto a quella dell'aberratio delicti, viene, però, in un certo senso compensata dal fatto che, mentre nell'aberratio delicti il reo é chiamato a rispondere anche dell'evento “non voluto”, nell'aberratio ictus, invece, il reo non viene chiamato a rispondere di tale evento.

Docente: Effettivamente l'azione, che ha causato l'evento non voluto, viene, nell'aberratio ictus, per così dire assorbita nel reato “ideato”, e questo solo viene punito.

Discente: Eppure concentrare la repressione punitiva solo sul reato ideato, non dà soddisfazione a una delle esigenze che tale repressione deve invece soddisfare: quella di acquietare l'allarme sociale. Questo allarme sociale, infatti, é determinato soprattutto dallo “evento voluto”: é il cadavare insanguinato di Francisco, che grida vendetta, non Manuel che ha corso, sì, pericolo, ma ora gira per la città vivo e vegeto!

Docente: Questo é vero; e proprio per questo io ritengo che, sì, “il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere” (Manuel), ma che nel calcolare la pena il giudice deve, per quel che riguarda le circostanze (aggravanti e attenuanti), effettuare una distinzione: per le circostanze prese a indici della capacità criminale (ad esempio, l'attenuante di cui al n.2 art. 62: stato d'ira determinata dal fatto ingiusto altrui) deve riferirsi al fatto ideato, invece per le circostanze prese a indici dell'allarme sociale causato dal fatto (ad esempio, l'aggravante del n.7 art.61: l'avere nei delitti contro il patrimonio cagionato un danno rilevante), deve riferirsi all'evento “non voluto” (ma

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effettivamente realizzato).

Discente: E come si giustifica il richiamo all'articolo 60, che la norma in esame fa?

Docente: Premesso che, evidentemente, le circostanze, che il legislatore ha presenti nel fare tale richiamo, sono quelle relative al reato ideato (non quelle relative allo “evento non voluto”) - e infatti le circostanze menzionate nell'articolo 60, le circostanze cioè che “riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole”, corrispondono a quelle che indicano la capacità criminale, almeno di massima, poi, si sa, il legislatore spesso fa. ….di ogni erba un fascio – tanto premesso, io ritengo che, il richiamo all'articolo 60, si giustifichi con la volontà del legislatore che il giudice tenga conto delle circostanze attenuanti, anche se non esistenti ma solo erroneamente supposte (capv.art.60), e non applichi le circostanze aggravanti ignorate anche se per colpa del reo.

Discente: Fino ad adesso abbiamo parlato del primo comma dell'art. 82, che prevede un reato aberrante monolesivo; parliamo ora del secondo comma, che prevede invece un reato aberrante bilesivo: Fulano ha ucciso Manuel (delitto ideato), ma ha anche ucciso Francisco (evento non voluto).

Docente: In tal caso ci si dovrebbe aspettare che il legislatore, ripeta la disciplina adottata nell'articolo 83 in ipotesi di aberratio delicti: disponga cioé che entrambi i reati siano puniti seguendo le regole previste per il concorso dei reati. Invece così non é: il legislatore – forse per suggestione della disciplina adottata per il reato continuato – stabilisce invece che “il colpevole soggiaccia alla pena stabilita per il reato più grave aumentata fino alla metà” (e non fino al triplo, come previsto per il reato continuato: ciò che può giustificarsi evidentemente solo col fatto che il capoverso é stato pensato dal legislatore solo per l'ipotesi che si aggiunga all'evento ideato un solo evento “non voluto”, dovendosi invece, secondo il suo pensiero, applicare le regole sul concorso dei reati o sul reato continuato nel caso che si aggiungano all'evento ideato, non uno solo, ma più eventi non voluti)..

Discente: Passiamo ad un altro aspetto della problematica: con tutta evidenza nel capoverso in esame il legislatore parte dal presupposto che gli eventi causati (quello progettato e l'altro o gli altri non voluti) siano di diversa gravità (uno, metti, un omicidio, l'altro, metti, una lesione): quindi, mi pare, nel capoverso si fa una deroga alla regola stabilita nel primo comma – regola secondo cui gli eventi debbono essere eguali.

Docente: E' così. Nel primo comma vige la regola che gli eventi, e direi, più che gli

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eventi, i fatti che li causano, siano eguali - eguali però, bada, solo nel senso che debbono dar luogo a uno stesso tipo di reato, non nel senso che debbono avere eguali circostanze aggravanti e attenuanti. Nel secondo comma, invece, tale regola viene abbandonata e gli eventi possono essere di diversa gravità.

Discente: Degli eventi non voluti il reo risponde anche se avvengono senza sua colpa?

Docente: Io ritengo di sì: questa, lo abbiamo visto, é la soluzione che il legislatore adotta nell'articolo 83, e non c'è ragione che egli ne adotti una diversa nell'articolo 82: quindi va ritenuto, che anche in ipotesi di aberratio ictus il reo risponda dell'evento non voluto per il semplice fatto di averlo causato mentre stava agendo illecitamente (in re illicita versabat).

Discente: A questo punto tu devi sciogliere la riserva all'inizio fatta: indicare le differenze di disciplina legislativa tra il reato commesso per un errore-motivo e il reato commesso per un errore-inabilità.

Docente: Semplice: nel primo caso non si applica l'articolo 82; ciò che significa, ad esempio, che se Fulano, volendo uccidere la moglie (da lui ritenuta erroneamente adultera), causa la morte anche di Manuel: primo, egli della morte di Manuel risponde solo se l'ha causata colposamente; secondo, la pena per l'eventuale omicidio colposo (di Manuel), gli si applica in base alle regole sul concorso dei reati.

Discente: Dulcis in fundo, resta da parlare della c.d. aberratio causae.

Docente: L'aberratio causae (od itineris causarum) é frutto di una elaborazione dottrinale e giurisprudenziale e si verifica quando l'evento, che il reo vuole realizzare, si produce, ma attraverso un processo causale diverso da quello,da lui, pensato : Fulano getta giù dal ponte Manuel contando che anneghi nel fiume, e invece questo muore per avere picchiata la testa in un sasso sporgente.Chiaro che la diversità del processo causale non può escludere la responsabilità del reo.

Discente: Ma mettiti in questo caso: Fulano vuole uccidere Manuel e a tal fine gli dà una bella mazzata in testa e...lo lascia esamine sulla strada. Francisco, prende l'esamine Manuel, che però é ancora vivo nonostante la mazzata ricevuta, e lo annega gettandolo nel fiume. Fulano deve essere chiamato a rispondere di omicidio consumato o tentato?

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Docente: Io riterrei che dovrebbe rispondere di omicidio consumato; e questo per le ragioni dette trattando del nesso di causalità, nella cui problematica la questione da te posta (fuori luogo) rientra.

Lezione 18 - Il concorso nel reato

Docente: Il concorso di persone nel reato, é contemplato nell'articolo 110, che (sotto la rubrica “Pena per coloro che concorrono nel reato”) recita: “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salvo le disposizioni degli articoli seguenti”.

Discente: A me sembra che, l'articolo da te ora riportato, dica cose inutili: nessuno avrebbe mai dubitato che Fulano II, che entra nella banca insieme a Fulano I minacciando “O la borsa o la vita”, soggiaccia alle pene previste per la rapina, ciò infatti si può dedurre dalla semplice lettura dell'articolo 628, e, per non riferirci più a un reato a forma vincolata ma a un reato a forma libera, nessuno mai avrebbe dubitato che Fulano IV che, mentre Fulano III lo immobilizza, dà una pugnalata al cuore del suo nemico, risponda di omicidio, infatti,anche qui, la semplice lettura di un articolo della parte speciale del codice, l'articolo 575, sarebbe bastata per saperlo.

Docente: In parte quel che dici é vero; ma, siccome non può pensarsi che il legislatore perda tempo a scrivere articoli superflui, bisogna pensare che l'articolo in questione dica qualcosa di più di quel che tu ci hai visto. E questo quid pluris é che, può soggiacere alla pena prevista da una norma, anche chi (mi metto nel caso di un reato formale, nel caso di Fulano II) tiene un comportamento diverso da quello, da tale norma, previsto, oppure (ora mi metto nel caso di un reato non formale, nel caso di Fulano IV) non causa direttamente l'evento antigiuridico, dalla norma previsto.

Discente: Com'é possibile ciò?

Docente: E' possibile: pensa a FulanoVI che determina Fulano V a pugnalare il suo nemico: forse che egli ha compiuto l'azione direttamente causativa dell'evento antigiuridico (della morte)? pensa a Fulano IX che fa da “palo” mentre Fulano VIII entra nella banca e compie la rapina: forse che la sua condotta la leggi descritta nell'articolo 628? Eppure converrai con me che, sia la condotta di Fulano VI sia la condotta di Fulano IX, vadano represse e sanzionate.

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Discente: Ne convengo; ma a tal fine sarebbe bastata un'intelligente applicazione del principio causae causa est causa causati (per punire, Fulano VI, il determinatore dell'omicidio) e un'intelligente opera di interpretazione estensiva (per punire Fulano IX, il palo).Comunque sia, mi pare necessario - una volta stabilito, che possono soggiacere alla pena anche comportamenti non rientranti nel modello descritto da una norma o che non hanno causato direttamente l'evento giuridico, da una norma, previsto – individuare quelli di questi comportamenti che effettivamente vanno sanzionati. Con quale criterio tu ritieni vada operata tale individuazione?

Docente: Naturalmente ritengo vada operata con riferimento al nesso di causalità; però, ecco il punto, non ritengo necessario, per la punibilità di tali comportamenti, un nesso di causalità tra loro e l'evento antigiuridico, bensì ritengo a ciò sufficiente un nesso di causalità tra loro (idest, i comportamenti de quibus) e il sorgere o il rafforzarsi della decisione criminosa in chi é stato l'esecutore materiale del reato (di Fulano V, di Fulano VIII, negli esempi fatti).

Discente: Questo, perché?

Docente: Perché – se é vero, come é vero, che la difesa sociale esige che vadano repressi anche i comportamenti del tipo di quello di FulanoII (che si limita a fare il “palo”) o di Fulano IV (che si limita a svolgere un'attività volta a far sorgere o a rafforzare in Fulano III la decisione criminosa) - é anche vero che tale difesa sociale si renderebbe impossibile, se si addossasse alla pubblica accusa l'onere di provare il nesso di causalità tra le condotte de quibus e l'evento antigiuridico (chi può escludere che Fulano I avrebbe fatta la rapina anche se Fulano II non avesse fatto da palo? chi può escludere che, anche in mancanza delle parole incitatrici di Fulano IV, Fulano III si sarebbe deciso a commettere l'omicidio?).

Discente: Da quel che capisco i comportamenti in grado di determinare o rafforzare la decisione criminosa non si riducono a parole incitatrici e istigatrici al reato.

Docente: E' così: anche il servo infedele che promette di dare, al ladro, la chiave della cassaforte (che, questi, anche in mancanza di chiave avrebbe comunque aperta scassinandola), agevolando o rendendo più sicuro il furto, rafforza la volontà criminosa del ladro e quindi va punito. Così come, l'adesione di Fulano I a un accordo criminoso con Fulano II e Fulano III, secondo i casi potrebbe determinare o rafforzare la decisione criminosa di

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Fulano II e di Fulano III: la determinerebbe se, in mancanza dell'adesione di Fulano I, essi non avrebbero presa la decisione criminosa (Cassio e Casca che senza l'adesione di Bruto giammai avrebbero deciso il tirannicidio), la rafforzerebbe, se, anche mancando tale adesione, essi avrebbero lo stesso operato (Bruto e Cassio che, pur in mancanza dell'adesione di Casca, da soli si sarebbero avviati sulla via del tirannicidio, anche se su tale via, una volta avvenuta l'adesione di Casca, si avviano con più sicurezza e determinazione, dato che tale adesione aumenta le probabilità di successo della loro impresa).

Discente: Chiarito ciò, affrontiamo un argomento di carattere più generale: Casca, per riferirci all'esempio per ultimo fatto - dopo aver data la sua adesione all'accordo criminoso intervenuto tra Cassio e Bruto, dopo aver pertanto dato anche lui l'input all'impresa criminosa - ci ripensa. La sua può considerarsi una desistenza, utile ai sensi dell'articolo 56, per fruire dell'impunità?

Docente: Assolutamente, no. Casca, dando l'input all'esecuzione del piano criminoso, é come se avesse consumato il delitto (o meglio la sua parte di delitto): solo se Bruto e Cassio arresteranno i loro passi sulla via del crimine e non compiranno il tirannicidio, potrà godere della riduzione di pena prevista per il delitto tentato.

Discente: No, della impunità?

Docente: No, questo lo escluderei. Infatti, la esclusione della pena per chi desiste da un reato si basa, lo abbiamo visto proprio parlando dell'articolo 56, su un calcolo utilitaristico del legislatore: “Io non punisco te, che sei incamminato nell'iter chr porta all'evento antigiuridico, e in cambio tu blocchi i tuoi passi e non commetti il reato”. Ora Casca nulla ha da dare al legislatore in cambio dell'impunità: infatti la consumazione del reato non dipende più da lui, dipende dalle decisioni di Cassio e Bruto.

Discente: Quindi Casca a rigore si troverebbe nella stessa identica situazione di chi ha già consumato un reato: potrebbe godere della diminuzione di un terzo sulla pena stabilita per il delitto tentato solo se...disfacesse quel che ha fatto, convincesse gli altri congiurati a desistere dal delitto. E, sempre a rigore, si dovrebbe ritenere che, se anche – dopo che Casca ha data la sua adesione all'accordo criminoso - questo non avesse avuto nemmeno un principio di esecuzione, Casca andrebbe punito lo stesso: forse che la sua parte di delitto non l'ha consumata?

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Docente: E invece ciò non succede, dato che in senso contrario é la chiara lettera dell'articolo 115, che recita: “Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordano allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di esse é punibile per il solo fatto dell'accordo.- Nondimeno nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza.- Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se la istigazione é stata accolta, ma il reato non é stato commesso.- Qualora la istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato di istigazione a un delitto, l'istigatore può essere sottoposto a misura di sicurezza”.

Discente: Quindi, in buona sostanza, nell'articolo 115, il legislatore tiene conto della ben nota massima “Tra il dire e il fare c'é di mezzo il mare”; e se chi dice, non fa, il legislatore non ritiene necessario punirlo: poco importa, infatti, per il legislatore che una persona abbia delle pulsioni a delinquere: quel che veramente per lui importa é che, questa persona, dimostri di essere sensibile all'effetto intimidatorio della minaccia della pena, e, tale pulsioni, reprima.Con tutto ciò rimane la “stranezza” prima denunciata.

Docente: E in effetti tutta la disciplina sulla desistenza (del concorrente in un reato) e sull'istigazione e accordo criminoso (non seguiti da una esecuzione della decisione criminosa), non brilla per linearità e logica.

Discente: Voltiamo pagina. Dunque vi sono dei casi in cui, più azioni compiute da persone diverse, convergono verso un unico scopo, la causazione dell'evento antigiuridico. Ora, quel che vorrei sapere da te, é questo: ha senso ripartire in due categorie tali casi e porre su una di esse l'etichetta “concorso di persone nel reato”? In altre parole, il concetto di reato concorsuale é una gratuita costruzione della Dottrina, fatta proprio da un legislatore in vene di barocchismi, oppure ha una sua vera ragion d'essere?

Docente: Bisogna vedere se, la categoria con incollata l'etichetta, ha una disciplina legislativa diversa dalla categoria senza etichetta.

Discente: Ma é proprio questo che voglio sapere da te: vi sono casi (casi di convergenza di più comportamenti verso un unico fine delittuoso) che hanno una disciplina particolare, cosa per cui ha senso raggrupparli in quell'unica categoria contraddistinta dalla etichetta “concorso ecc.ecc.?

Docente: Io darei risposta positiva alla tua domanda: il concetto di reato concorsuale non é una gratuita e inutile costruzione dottrinale: effettivamente ha

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senso distinguere tra casi costituenti “concorso di persone nel reato” e casi che concorso non costituiscono. Infatti vi sono casi (di convergenza di più comportamenti verso un unico scopo ecc.ecc.) che hanno come loro identico denominatore una stessa disciplina legislativa (per cui sembra logico farli rientrare in un'unica categoria)

Discente: A questo punto, però, devi indicare anche l'elemento capace di giustificare la stessa disciplina disposta dal legislatore per tali casi; e poi, naturalmente, devi passare all'esame di tale disciplina.

Docente: L'elemento giustificatore (della stessa disciplina) va ravvisato nell'aver dato Fulano I, (cominciamo a dare dei nomi a quelli che saranno i protagonisti dei nostri esempi) l'input all'attività criminosa di Fulano II e Fulano III: questo viene a responsabilizzarlo delle loro azioni.

Discente: Tu con ciò hai detto quella che, secondo te, é la giustificazione della disciplina costituente il comune denominatore dei diversi casi di concorso nel reato. Ora devi dire la cosa più importante, qual'é questa disciplina.

Docente: Questa disciplina é' data: da quella che riguarda, come abbiamo poco fa finito di vedere, la desistenza; dagli articoli 116 e 117; e, aggiungo con una certa perplessità - dato che sto per indicare una normativa a cui, la ratio, da me sopra indicata, non si adatta del tutto - dalle norme sulle circostanze aggravanti e attenuanti.

Discente: Non essere titubante, non fare il “perfezionista”: a me importa soprattutto conoscere meglio le norme che hanno la loro sedes materiae nel capo dedicato dal legislatore al “concorso di persone nel reato”; che, poi, alcune di esse ci stiano un po' a disagio in una categoria del reato concorsuale (costruita con più logica di quella usata dal legislatore) importa molto relativamente, tanto...... il lettore é avvisato.

Docente: Cominciamo, allora, dalla disciplina sulla desistenza. Abbiamo già detto sugli aspetti particolari che assume in caso di concorso. Qui preme soprattutto mettere in evidenza le differenze che si vengono, di conseguenza, ad avere, a seconda che la desistenza si verifichi in un caso di concorso o no.Facciamo prima il caso del concorso: Fulano I e Fulano II decidono di compiere insieme un furto: in itinere, però, Fulano I ci ripensa; Fulano II va avanti da solo e consuma il reato: nonostante la sua desistenza, Fulano I risponderà del furto. Facciamo ora l'ipotesi in cui non vi é concorso: Fulano I e Fulano II

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autonomamente, l'uno non sapendo dell'altro, decidono di compiere un furto nella casa di Mevio: FulanoI, giunto a casa di Mevio, vi trova già all'opera Fulano II; comincia anche lui il suo lavoro, poi ci ripensa, rimette tutto a posto e se ne torna a casa: anche se Fulano II consuma il furto, Fulano I non ne risponde.

Discente: Passa ora a parlare degli articoli 116 e 117.

Docente: L'articolo 116 (sotto la rubrica “Reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti) recita: “Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l'evento é conseguenza della sua azione o omissione. Se il reato commesso é più grave di quello voluto, la pena é diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave”.

Discente: Si tratta di una norma assurda: Fulano I e Fulano II decidono di commettere insieme un furto: in itinere, nonostante l'opposizione di Fulano I, Fulano II commette uno stupro: perché mai Fulano I deve risponderne?

Docente: Perché é lui che, determinando o rafforzando in Fulano II la decisione di commettere il furto, ha in un certo senso introdotto Fulano II nella casa del derubando, così creando la situazione da cui é nato lo stupro.

Discente: Ma egli non poteva prevedere che Fulano II avrebbe commesso uno stupro!

Docente: Concediamolo pure; vuol dire che un'altra volta Fulano I ci penserà due volte prima di incamminarsi sulla via del delitto: l'addebitare al reo anche i reati da lui non voluti e da lui non prevedibili, ha proprio l'utile funzione di aumentare il deterrente della minaccia legislativa (Fulano I sa che, se andrà a rubare, potrà rispondere, non solo per il reato di furto, ma anche per il reato di stupro). Sed de hoc satis: abbiamo già avuto occasione di intrattenerci numerose volte su norme ispirate, come quella in questione, al principio qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu. Qui giova evidenziare soprattutto la differenza di soluzione nel caso che non vi sia un concorso nel reato: Fulano I e Fulano II si ritrovano a rubare, senza previo accordo e ignorandosi a vicenda, nella casa di Mevio: a un certo punto Fulano I commette lo stupro: Fulano I non ne risponde.Mutatis mutandis, quanto detto per l'articolo 116 vale anche per l'articolo 117, che (sotto la rubrica “Mutamento del titolo del reato per taluno dei concorrenti”) recita: “Se, per le condizioni o le qualità personali del colpevole, o per i rapporti fra il colpevole e l'offeso, muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato. Nondimeno, se questo é più grave, il

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giudice può, rispetto a coloro per i quali non sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, diminuire la pena”

Discente: Un esempio.

Docente: Fulano I e Fulano II s'accordano per commettere uno stupro: se Fulano II fosse il padre della vittima, risponderebbero entrambi anche di incesto (naturalmente sussistendo il pubblico scandalo).

Discente: Passiamo ora a parlare delle circostanze aggravanti e attenuanti previste negli articoli 111, 112, 114.

Docente: A dir il vero, per la problematica che ci siamo proposti di approfondire (differenze di disciplina nei casi di concorso e no), tali circostanze non presentano molto interesse: infatti, per la loro stessa struttura, esse non possono pensarsi che riferite a casi di concorso di persone nel reato. Questo eccezion fatta per l'aggravante prevista dal numero 1 dell'articolo 112, che recita: “(La pena é aumentata) se il numero delle persone, che sono concorse nel reato, é di cinque o più, salvo che la legge disponga altrimenti”. Rispetto a questa aggravante effettivamente può rilevare lo stabilire se, le varie persone coinvolte in un delitto, sono concorrenti o no. Si pensi a Fulano I, Fulano II, Fulano III, Fulano IV e Fulano V, che commettono un furto: se sono concorrenti (perché hanno agito di comune accordo), il furto sarà aggravato dalla circostanza de quo; se no, no. La ragione, poi, dell'applicazione dell'aggravante solo in caso di concorso, é evidente: un conto, é la forza e la temibilità di cinque persone, che agiscono coordinando la loro azione e aiutandosi a vicenda, un altro conto, é la temibilità di cinque persone che agiscono ignorandosi a vicenda.

Discente: Ora non ritieni di dare un cenno sulle aggravanti e attenuanti de quibus?

Docente: Lo darò certamente, ma nel corso di un excursus (molto rapido: ahimè, la natura dell'opera non mi permette di soffermarmi troppo su problematiche in fondo secondarie) sugli elementi, che il giudice deve prendere in considerazione per differenziare, se del caso, la pena da applicare ai vari concorrenti: a questo solo tre anni, a quello tre anni e qualcosa.

Discente: Quali sono questi elementi?

Docente: In sintesi si può dire che tali elementi sono i seguenti.Primo, la conformità o meno della condotta del correo al modello descritto nella

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norma incriminatrice. Se non fosse conforme (pensa a Fulano I che fa il palo, mentre Fulano II entra audacemente nella banca) la pena potrebbe essere diminuita.

Discente: “Potrebbe”, quindi questo elemento non sempre acquista rilevanza..

Docente: Effettivamente acquista rilevanza solo in quei casi in cui il legislatore, nel indicare gli elementi a cui subordina l'applicazione di una data pena, ha in mente una particolare “figura d'autore”. Come nel caso dell'articolo 628; nello scrivere il quale il legislatore ha chiaramente pensato a una personalità criminale dotata di particolare audacia, e che quindi non si lascia intimidire che da una pena particolarmente grave.

Discente: Per cui diventa congruo applicare tale pena a Fulano II, che effettivamente con la sua azione dimostra tale audacia criminale, mentre diventa incongruo applicarla a Fulano I, che ha il cuore di un coniglio e si limita a far da palo. Ho capito bene?

Docente: Hai capito benissimo. Stando così le cose l'ideale sarebbe che, per Fulano I, che si limita a far da palo, una norma ad hoc prevedesse una pena ad hoc (diversa da quella prevista per Fulano II); ma questo é un ideale inattuabile, perché costringerebbe il legislatore ad elevare in modo esponenziale il numero degli articoli, già troppo numerosi, del codice: cosa per cui il legislatore si limita a dettare una norma, che dà la possibilità al giudice di attenuare la pena in casi come quello da noi ora preso in esame.

Discente: Qual'é questa norma?

Docente: E' l'articolo 114, che recita: “Il giudice, qualora ritenga che l'opera prestata da taluna delle persone, che sono concorse nel reato a norma degli articoli 110 e 113, abbia avuta minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione del reato può diminuire la pena”.

Discente: Questo articolo - riferendosi esso all'ipotesi in cui l'opera di un correo “ha avuto minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione di un reato” - viene, mi pare, a riguardare anche i casi di chi si limita ad agevolare un impresa criminale, che in ogni caso sarebbe stata eseguita (penso a Fulano I che, servitore infedele, porge la chiave della cassaforte a Fulano II, che, comunque, la cassaforte, avrebbe scassinata) e di chi si limita a renderla più sicura (penso a Fulano III, che si limita a fare da palo, quando Fulano IV, palo o non palo, la rapina l'avrebbe comunque

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fatta).

Docente: Potrebbe riguardare anche tali casi (se naturalmente per essi si potesse parlare veramente di “concorso: ad esempio, Fulano I si fosse impegnato a dare la chiave e tale suo impegno avesse determinato o rafforzato in Fulano II la decisione di rubare) se la “minima importanza nella preparazione ecc.ecc.” potesse essere presa a indice di una ridotta capacità a delinquere.

Discente: Non di una minima efficienza causale?

Docente: Che rilevanza può avere la “minima efficienza causale”? di certo essa non rende minimo nessuno dei due elementi che, come abbiamo visto in commento all'art.133, il giudice deve prendere in considerazione per commisurare la pena: la capacità criminale e l'allarme sociale.

Discente: Ovvio, lo ammetto, che la minima partecipazione al reato non rilevi per determinare la intensità della capacità a delinquere: il senatore Casca, che, spettatore, alle idi di marzo, dell'aggressione a Cesare, si aggregasse ai congiurati, già più che sufficienti a sopraffare la resistenza del Dittatore, compirebbe certo un'azione di minima efficienza causale, ma, accettando lo stesso rischio degli altri congiurati, dimostrerebbe anche la loro stessa capacità criminale. Meno ovvio, invece, mi pare, che non rilevi per determinare l'allarme sociale.

Docente: Forse che l'opinione pubblica sarà meno allarmata dal furto solo perché Fulano II ha potuto commetterlo senza affaticarsi a scassinare il forziere (mi sto riferendo all'esempio prima fatto del servitore infedele che porge la chiave della cassaforte ecc.ecc.)? Semmai lo sarà di più!

Discente: Forse hai ragione. Passa a indicare un altro elemento che il giudice deve tenere presente nella graduazione della pena.

Docente: L'aver il concorrente determinato altri a commettere il reato. Questo giustifica un aumento di pena in quanto, superare le titubanze e le perplessità di altri a concorrere nel reato, implica, come il superamento di ogni altra difficoltà,un particolare sforzo, il che é come dire una particolare forza, intensità della volontà criminosa, oltre a una particolare persistenza nel tempo di questa: quindi una maggiore capacità criminale. Va notato che, di questo elemento, il legislatore senza dubbio tiene conto nel configurare alcune aggravanti a carico di un concorrente; e mi riferisco alle aggravanti previste: nell'art111, nel numero 3 del primo comma dell'articolo 112 e

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nel terzo comma sempre dell'articolo 112. Peraltro, l'aggravamento di pena per l'esercente la patria potestà, per l'insegnante (…) che determina chi é sottoposto alla sua autorità (vigilanza...) a commettere il reato, si spiega anche col fatto che, in mente legislatoris, la figura del “determinatore” é associata all'idea di una persona che, non contenta di commettere lei stessa il male, vuole “traviare”. vuole indurre a commettere il male anche una persona, che invece dovrebbe tutelare ed educare: quindi il “determinatore” é visto dal legislatore come una persona particolarmente malvagia”: quindi meritevole di una maggior pena.

Discente: Maggior pena che, da quel che capisco, non ha tanto la funzione di dare una maggior tutela al bene (leso dal reato concorsuale), ma di punire l'opera di traviamento del correo.

Docente: E' proprio così.

Discente: E ovviamente, così come la pena é aumentata per il determinatore, così é diminuita per il “determinato”.

Docente: Ovviamente, e in tal senso provvede l'articolo 114 (vedi melius il suo terzo comma).

Discente: C'é ancora qualche altro elemento, che il legislatore tiene presente ai fini della graduazione della pena?

Docente: Già abbiamo visto gli elementi risultanti dai numeri, 1,3,4 del comma primo dell'articolo 112, resta allora solo da parlare della circostanza aggravante prevista dal n. 2 (del primo comma di questo articolo), che recita: “(La pena é aumentata) per chi (…) ha promosso od organizzato la cooperazione nel reato ovvero diretto l'attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo”.Tale aggravamento di pena con tutta evidenza si giustifica con la considerazione che, chi si sobbarca in un'attività di promozione, organizzazione, direzione, dimostra una volontà criminosa particolarmente intensa e persistente.

Discente: Abbiamo finora visto casi in cui più persone si accordano al fine di causare un evento antigiuridico, ma vi possono essere certamente anche casi di persone che si accordano per compiere un'azione, non diretta a causare un evento antigiuridico, ma che solo fa sorgere il pericolo del verificarsi di un evento antigiuridico. Io penso al caso di Fulano che, guidando un auto, col pieno consenso anzi con l'incitamento delle persone trasportate, la spinge a folle velocità. Anche in

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tal caso si rientra nel concorso del reato?

Docente: Sostanzialmente sì, anche se cambia il nome, non si parla più di concorso ma di cooperazione nel reato, e la norma, non si applica più l'articolo 110 ma l'articolo 113; che però sostanzialmente é una fotocopia dell'articolo 110, in quanto recita: “Nel delitto colposo quando l'evento é stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso.- La pena é aumentata per chi ha determinato altri a cooperare nel delitto, quando concorrono le condizioni stabilite nell'articolo 111 e nei numeri 3 e 4 dell'articolo 112”.

Discente: Ti faccio questo caso: due automobilisti, l'uno, andando a velocità eccessiva, l'altro, non rispettando la precedenza, determinano un incidente stradale con conseguente morte di un trasportato: é questo un caso di cooperazione in un delitto colposo?

Docente: No, dato che si ha cooperazione colposa quando vi é un accordo tra più persone nel tenere un comportamento colposo.

Lezione 19 - Stato di necessità. Primi cenni sulla “legittima difesa”

Docente: Il problema che ci porremo in questa lezione é: può un legislatore, che abbia ritenuto giusto tutelare un dato interesse (l'interesse di Fulano I, alla esclusiva disponibilità di un bene, o alla libertà di scelta sessuale, o all'onore...) fino al punto di minacciare di una sanzione penale la condotta C, che lo leda, astenersi, poi, dall'infliggere tale sanzione, in considerazione dell'inesigibilità di tale condotta e/ o del venir meno (nel senso che poi meglio chiariremo) del danno sociale (dell'antisocialità) di tale condotta -?

Discente: Spiegati meglio. E comincia a dire in che senso parli di inesigibilità della condotta A?

Docente: Ne parlo in due sensi.I- Nel senso che Fulano II (così indicheremo d'ora in poi l'autore dell'azione lesiva), al momento di decidere se compiere o no la condotta C in violazione della norma N, si trova in tale turbatio animi, per la minaccia incombente su un suo bene B1, da impedirgli di recepire la minaccia legislativa. L'esempio classico di ciò é quello del naufrago, che impedisce, spinto dall'istinto di sopravvivenza, a un suo compagno di sventura di aggrapparsi al salvagente, per timore che questo non sopporti il peso di

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due persone.II- Nel senso che la sanzione penale minacciata dalla norma N, risulta meno afflittiva della perdita del bene B1, che l'osservanza di tale norma porterebbe a sacrificare: la sanzione ha un'afflittività =100 e la perdita del bene B1 ha un'afflittività = 150.

Discente: In questo secondo caso, quindi, la inesigibilità troverebbe la sua ragion d'essere nella inadeguatezza della sanzione (a creare in Fulano II un controimpulso alla commissione di C). Ma, se é così, basterebbe che il legislatore aumentasse la sanzione per rendere esigibile la osservanza della norma da parte di Fulano II.

Docente: Ma il legislatore non può mica aumentare a sua libido una sanzione! Una sanzione, sproporzionata per eccesso all'importanza del bene che tutela, potrebbe non trovare più il consenso dell'opinione pubblica!

Discente: Però, punire Fulano II, anche nei casi in cui esso non possa considerarsi ricettivo alla minaccia legislativa, potrebbe, a me sembra, essere utile, sia ai fini della prevenzione speciale (cioé ai fini di rieducarlo a una concezione dei doveri sociali, che ne imponga la osservanza anche se l'inosservarli non comporti svantaggi ma vantaggi) sia ai fini della prevenzione generale (per evitare che, il pubblico, vedendo Fulano II impunito anche se ha commesso C, si formi la fallace idea che si possa commettere C impunemente).

Docente: Può essere. E io non ti sto qui dicendo che, nei casi di inesigibilità della condotta (osservante della norma), la sanzione non debba essere inflitta: ti sto solo esponendo i pro e i contro delle due possibili soluzioni da dare alla questione.

Discente: Ho capito. Vai avanti, passa a spiegare, perché la condotta inosservante, può non essere punita (non più per la sua inesigibilità, ma solo) per un suo difetto di antisocialità.

Docente: Per comprendere come ciò possa avvenire, non dobbiamo più confrontare, l'afflittività che determina in Fulano II la perdita del bene B1, alla afflittività della sanzione penale, bensì all'afflittività che può provocare in Fulano I (del tutto “innocente” del pericolo che incombe sul bene B1 di Fulano II) il sacrificio del bene B2, tutelato dalla norma penale. Orbene, un legislatore potrebbe stabilire che, se il risultato di tale comparazione porti a concludere, metti, che il bene B1 di Fulano II (il violatore della norma penale) ha molto maggior valore del bene B2 (dello “innocente” Fulano I), il primo non vada punito.

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Discente: Questo evidentemente in base al principio che il legislatore deve mirare ad assicurare il massimo di felicità sociale; cosa per cui se, Fulano II, violando il domicilio di Fulano I, ottenesse una ofelimità 100, mentre Fulano I, se venisse tutelato il suo interesse all'esclusiva disponibilità di tale suo domicilio avrebbe solo una ofelimità = 50, dovrebbe darsi soddisfazione all'interesse del primo e non del secondo. Però, un legislatore che ragionasse così, dimostrebbe di non rendersi conto del principio eversivo dell'ordine sociale, che così verrebbe a introdurre.

Docente: Eversivo, perché?

Discente: Ma il perché mi pare ovvio: una volta che si é fatto il primo passo di stabilire di non punire Fulano II che, privo di un tetto sulla testa, occupa uno dei due appartamenti di Fulano I, logica vuole che si faccia anche il secondo e si attribuisca, a chi non ha nessun appartamento, uno degli appartamenti di chi ne ha due.

Docente: Le tue osservazioni, non sempre condivisibili, hanno avuto almeno il pregio di chiarire i termini in cui si pone il problema oggetto, in questa lezione, del nostro studio. Vediamo ora la soluzione che gli dà il legislatore nell'articolo 54, che (sotto la rubrica “Stato di necessità”) recita: “Non é punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.- Questa disposizione non si applica a chi ha particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.- La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità é determinato dall'altrui minaccia; ma in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l'ha costretta a commetterlo”.Quindi gli elementi costitutivi dello “stato di necessità”, per il nostro legislatore, sono: 1) il pericolo che un bene venga leso; 2) l'attualità di tale pericolo; 3) la qualità del bene esposto al pericolo;4) la gravita della lesione; 5) una proporzione tra il pericolo e il fatto; 6) l'evitabilità della violazione della norma; 7) l'involontarietà della causazione del pericolo; 8) il difetto nell'agente di un dovere giuridico di esporsi al pericolo.

Discente: Passiamo in rivista, anche se rapida, gli elementi da te menzionati. Cominciamo dal primo: pericolo che un bene venga leso.

Docente: Siccome é ovvio che di “azione necessitata” non possa più parlarsi quando il male temuto si é ormai verificato; siccome, quindi, anche nel silenzio del legislatore, non si poteva non ritenere che di azione necessitata si potesse parlare

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solo quando essa servisse a sventare un pericolo; siccome, infine, non si può attribuire al legislatore l'assurdità di dire cose inutili, si deve attribuire, al richiamo fatto dalla norma al “pericolo”, la funzione di escludere che occorra, per la non punibilità dell'agente, la certezza o la forte probabilità che da una data situazione derivi la lesione del bene: basta a ciò un apprezzabile pericolo.

Discente: Passiamo al secondo elemento: attualità del pericolo-

Docente: L'azione lesiva dell'interesse protetto dalla norma penale deve essere una extrema ratio: siccome un pericolo, col tempo può attenuarsi o addirittura sparire, il legislatore vuole che l'azione lesiva sia posta in essere solo al momento in cui un ritardo pregiudicherebbe il salvataggio del bene minacciato.

Discente: Qualità del bene minacciato.

Docente: Prima abbiamo fatto cenno al carattere potenzialmente eversivo dell'istituto dello “stato di necessità”. Dobbiamo ora aggiungere che, proprio per questo, il legislatore ci tiene a mettere precisi “paletti” alla sua applicabilità. Siccome tra questi di certo non può farsi rientrare l'elemento della “proporzione” (di cui in seguito diremo), il legislatore aggiunge a tale elemento, come limite sicuramente invalicabile dell'applicabilità dell'istituto, la qualità del bene (la cui tutela può giustificare la violazione della norma): questo bene deve essere attinente alla “persona”: Fulano II non può sottrarre a Fulano I degli attrezzi antincendio, anche se ciò gli permetterebbe di salvare un bene di grandissimo valore, metti, un quadro di autore famoso: potrebbe fare ciò solo per salvaguardare un bene attinente alla “persona”.

Discente: Ma il termine “persona” va riferito solo alla persona fisica o anche a quella, diciamo, morale?

Docente: Anche a questa, a parere mio (e di molti Studiosi). Pertanto dovrà ritenersi che non sia punibile, non solo l'azione mirante a salvaguardare la vita o da una lesione, ma anche quella volta a impedire una menomazione della libertà, e secondo Alcuni, addirittura dell'onore.Peraltro é da porre in rilievo che la norma scrimina, non solo la azione (lesiva) “egoistica”, volta cioè alla salvaguardia di un bene dell'agente, ma anche quella “altruistica”: Fulano II che, notando che in una casa si é sviluppato un incendio, sotttrae la pompa anti-incendio a Fulano I, per salvarne gli abitanti, é scriminato, non viene punito.

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Discente: Ma il fatto che il legislatore scrimini anche l'azione compiuta a tutela della persona altrui, non dimostra che egli non si lascia guidare dal criterio dell'inesigibilità, nello stabilire la non punibilità dell'azione (lesiva): infatti, non si può parlare di una turbatio animi per chi agisce a salvaguardia della altrui persona.

Docente: Questo non é detto. Comunque la tua osservazione non tiene conto del fatto che il legislatore, per dichiarare la non punibilità dell'agente, in alcuni casi, si potrebbe lasciare guidare dal criterio dell'inesigibilità, in altri, da quello dell'antisocialità

Discente: Passiamo al quarto elemento costitutivo dello “stato di necessità”: la gravità della lesione.

Docente: Questo é un ulteriore “paletto”, posto come limite invalicabile all'applicabilità dell'istituto: anche se la lesione temuta fosse perfettamente proporzionata all'offesa al bene tutelato dalla norma penale, essa non scriminerebbe, se non fosse una “grave lesione”.

Discente: Parliamo quindi dell'elemento della “proporzione” tra il “fatto” e il “pericolo”.

Docente: Più precisamente la proporzione va fatta tenendo conto, da una parte, della gravità della lesione alla persona (alla persona di Fulano I per seguire gli esempi fatti), dall'altra, sia del valore del bene in pericolo, sia dell'entità di tale pericolo, cioé delle effettive probabilità che si realizzi.

Discente: Quindi può essere che un lievissimo pericolo a un bene molto importante non scrimini e, invece, scrimini il fortissimo pericolo a un bene non molto importante.

Docente: E' così.

Discente: Però il dire, come fa in pratica il legislatore, che vi deve essere una “proporzione” tra A (l'interesse di Fulano I tutelato dalla norma) e B (il bene di Fulano II minacciato di lesione), é dire troppo poco, lascia senza risposta troppe domande: il bene A deve essere proporzionato al bene B nel senso che deve avere eguale valore di questo? nel senso che deve avere un valore maggiore di questo? e, se sì, di quanto? e, a parte ciò, con criterio si determina il valore di un bene?

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Docente: Dovendo integrare la lacunosità del discorso legislativo, io direi che il bene B dovrebbe essere maggiore del bene A, non solo, ma dovrebbe essere evidentemente maggiore. Il criterio con cui determinare il valore di un bene io riterrei, poi, che si dovrebbe ricavarlo, sia dalla normativa costituzionale sia dall'entità della sanzione, che il legislatore ritiene giusto comminare in difesa di tale bene.

Discente: Parliamo ora dell'inevitabilità dell'azione lesiva.

Docente: Richiedendo, per la non punibilità dell'agente, anche questo elemento, il legislatore vuole escludere la scriminante, non solo nei casi in cui la salvaguardia del bene minacciato può attuarsi senza violare nessuna norma penale, ma anche nei casi in cui potrebbe attuarsi con la violazione di una norma di minor valore: se Fulano può salvaguardare la sua incolumità, sia uccidendo, (violazione dell'art.575) sia percuotendo (violazione dell'articolo 581), egli deve scegliere di percuotere e non di uccidere (di violare l'art.575 e non l'art.581)

Discente: Ma che succede se Fulano II ha optato per la violazione della norma maggiore?

Docente: Se ha sbagliato per colpa si applica l'articolo 55, che ci riserviamo a suo tempo di esaminare. Se, invece, ha optato volontariamente per la violazione maggiore, gli si applicano le pene da questa previste.

Discente: Parliamo ora del sesto elemento necessario a che possa applicarsi la scriminante in questione: l'involontaria causazione del pericolo.

Docente: Normalmente la situazione di pericolo é determinata da forze della natura o da un terzo. Però può essere causata anche dall'agente, da Fulano II, per intenderci. In tal caso bisogna vedere, se Fulano II l'ha causata senza colpa o con semplice colpa, oppure se l'ha causata volontariamente.

Discente: Certo, se l'ha causata proprio al fine di precostituirsi un alibi per, poi, giovarsi della scriminante, Fulano II, alla scriminante, naturalmente non avrà diritto; ma mi pare eccessivo escludere la scriminante tutte le volte che Fulano II ha causato volontariamente il pericolo: metti che Fulano abbia provocato un incendio per distruggere la casa del vicino, che crede però disabitata; e si accorga invece che vi sono delle persone, che rischiano la morte: perché minacciarlo di pena se egli allora sottraesse al vicino gli strumenti necessari per spegnere l'incendio? A me

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ciò sembrerebbe assurdo: Fulano II dovrebbe essere incoraggiato, e non inibito con la minaccia di una pena, a compiere l'azione salvatrice.

Docente: Effettivamente punire Fulano nel caso sarebbe assurdo. Direi di più, sarebbe assurdo anche punirlo se, rischiando di diventare vittima di un incendio da lui causato volontariamente, sottraesse al legittimo proprietario l'occorrente per spegnerlo. Evidentemente qui la norma va sottoposta a un'interpretazione restrittiva.

Discente: Passiamo ora all'ultimo degli elementi voluti dal legislatore, a che si possa applicare la scriminante: il non avere l'agente “il dovere giuridico di esporsi al pericolo”.

Docente: Certe persone, ad esempio i vigili del fuoco, hanno infatti l'obbligo giuridico di attivarsi a favore di chi é in pericolo, anche se ciò le espone a loro volta a un pericolo. Da questo il legislatore deduce che tali persone non possono giovarsi della scriminante. Ma é una deduzione assurda. Certo il vigile dovrà entrare nella casa in fiamme anche a rischio della vita, se ciò serve a salvare una persona che vi é rimasta intrappolata. Però, se egli si accorge che per fare ciò non basta il suo coraggio ma occorre anche un dato attrezzo, e lo sottrae a un terzo, oppure se, per salvare la donna usa violenza per vincere la sua resistenza e gettarla a forza nel telone sottostante, perché punirlo per tali azioni? Anche qui chiaramente l'articolo 54 va sottoposto a un'interpretazione restrittiva.

Discente: Abbiamo con ciò passato in rivista gli elementi costitutivi dello stato di necessitàMi pare opportuno aggiungere due parole sull'ultimo comma dell'articolo 54.

Docente: Questo comma contiene una disposizione in realtà superflua. Pur nell'assenza di tale comma, nessuno avrebbe potuto dubitare dell'applicabilità della scriminante anche ai casi in cui la situazione di pericolo deriva dalla minaccia di un terzo.: né la ratio né la lettera del primo comma impediscono di giungere a tale conclusione. Il fatto, poi, che, se Fulano III minaccia Fulano II per costringerlo a violare una norma penale (per costringerlo, metti, a rubare), della violazione di questa norma, risponda Fulano III e non Fulano II, non é che una intuitiva applicazione del principio causa causae est causa causati.

Discente: Però il legislatore, forse, nella seconda parte del comma, ha messo più pepe di quel che tu credi: forse ha voluto dire che, il minacciante Fulano III, risponde del reato A, commesso dal minacciato Fulano II, anche se la sua

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minaccia, non era diretta a costringere Fulano II a commettere A: Fulano III insegue Fulano II per bastonarlo e questi, terrorizzato, imprevedibilmente, entra con la forza nella casa di Fulano I, un terzo qualsiasi.

Docente: Io non riterrei ammissibile l'interpretazione che tu proponi; interpretare una norma come se prevedesse casi di responsabilità obiettiva (quindi casi simili a quelli che abbiamo visto commentando gli articoli 584,586) é possibile, ma solo in presenza di sicuri elementi in tal senso. Ciò che nel caso non può dirsi.

Discente: Una domanda per concludere il nostro studio sull'istituto dello stato di necessità: secondo te, a quale dei criteri all'inizio indicati, si ispira il legislatore, per ammettere, o no, la scriminante?

Docente: Io direi a quello del persistere o meno di quell'antisocialità, che giustifica (normalmente) la punizione dell'azione lesiva, in presenza di dati elementi: quelli appunto indicati nel primo comma dell'articolo 54.

Discente: Prima di chiudere la lezione, facciamo in tempo a dare alcuni cenni sulla “legittima difesa”?

Docente: Se si tratta di cenni veramente telegrafici, sì. Possiamo cominciare a dire che la “legittima difesa” é in definitiva una species nel più ampio genus dello stato di necessità.

Discente: Qual'é il suo elemento specificante?

Docente: E' il fatto che la situazione di pericolo, che fa nascere in Fulano II la necessità della violazione della norma che tutela un interesse di Fulano I, é causata dallo stesso Fulano I. Ma per andare con più ordine leggiamoci l'articolo 52, che (sotto la rubrica “legittima difesa”) nel suo primo comma, recita: “Non é punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa”.

Discente: Però la norma non dice che il pericolo deve derivare dalla stessa persona che dovrà subire le conseguenze dell'atto necessitato.

Docente: No, non lo dice. Ma é pacifico che sia così. Se Fulano II, per salvarsi dall'aggressione di Fulano I violasse il domicilio di Fulano III, é pacifico che egli, per escludere la sua punizione (per la violazione dell'articolo 614), non potrebbe

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invocare l'articolo 52, ma dovrebbe richiamarsi all'articolo 54. Invece proprio all'articolo 52 (legittima difesa) dovrebbe appellarsi qualora, per salvarsi dall'aggressione di Fulano I, gli sparasse una rivoltellata.

Discente: Quali sono in buona sostanza gli elementi costitutivi della legittima difesa?

Docente: Sono:1) un comportamento (di Fulano I, l'aggressore) contra ius, che ponga in pericolo l'interesse di un'altra persona (di Fulano II, l'aggredito); 2) l'implicare tale comportamento la lesione di un interesse penalmente protetto di chi reagisce (di Fulano II); 3)la necessità di Fulano II di ledere (per sventare il pericolo di cui sub 1) un interesse penalmente tutelato di Fulano I (l'aggressore); 4) l'essere la difesa dell'aggredito (di Fulano II) proporzionata all'offesa dell'aggressore (di Fulano I).

Discente: Passiamo in rapidissima rassegna tali elementi: il comportamento contra ius.

Docente: Chiaro, che un comportamento di Fulano I, sì, lesivo, ma conforme a diritto, non potrebbe giustificare per nulla la violazione della norma penale fatta da Fulano II per impedirlo. Il requisito che il comportamento scriminante la reazione “difensiva”debba essere contra ius, risulta dal fatto che la norma parla della necessità “di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo di un'offesa”.

Discente: Passiamo al secondo elemento: l'essere, tale comportamento, posto in essere con un comportamento tendente alla lesione di un interesse penalmente protetto.

Docente: Se Fulano si limitasse a tenere un comportamento contra ius, ad esempio si limitasse a non pagare un debito verso Fulano II, oppure a sbarrare un sentiero su cui Fulano II ha diritto di passo, senza però trascendere in un'azione tendente alla lesione di un interesse (di Fulano II) penalmente protetto, questo non potrebbe ancora scriminare la violazione della norma penale fatta, “per difendersi”, da Fulano II: a ciò occorre che il comportamento contra ius implichi la messa in pericolo di un interesse di Fulano II tutelato penalmente: l'esempio classico é quello di chi si avvicina a una persona brandendo un bastone o una pistola.

Discente:Da che risulta che il comportamento contra ius deve tendere alla lesione di un interesse tutelato ?

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Docente: Risulta dal fatto che il legislatore, non si limita ad indicare come elemento costitutivo della legittima difesa la “offesa” di “un diritto”, ma pretende un quid pluris: pretende che l'offesa sia ingiusta.

Discente: Passiamo a parlare del terzo elemento costitutivo della legittima difesa:l'essere la lesione dell'interesse dell'aggressore “necessitata.

Docente: Proprio perché la “difesa” ricade su un aggressore, il legislatore le lascia, nell'articolo 52, più spazio che nell'articolo 54. Di ciò é già indice il fatto che l'aggredito può attivarsi, ledendo interessi penalmente protetti dell'aggressore, anche per difendere beni di cui, nell'ambito dell'art.54, non sarebbe ammessa la tutela a scapito del terzo “innocente”: ad esempio, l'aggredito può attivarsi per difendere anche dei beni patrimoniali.Con tutto ciò la lesione di un interesse penalmente protetto, anche se di tale interesse é titolare un aggressore, deve essere, nel pensiero del legislatore, una extrema ratio. Ciò significa che tale lesione é scriminata solo quando il pericolo si é attualizzato, nel senso già spiegato parlando dello stato di necessità, e solo quando non é possibile la tutela dell'interesse minacciato con un'azione non lesiva.

Discente: Col commodus discessus, cioé evitando o addirittura fuggendo dall'aggressore?

Docente: La risposta é no, se, nell'ambiente in cui vive l'aggredito, il commodus discessus viene considerato disonorevole e se il non l'adottarlo non costringe a un'attività difensiva sproporzionata rispetto ai beni, che può portare a ledere.

Discente: Parliamo del quarto elemento costitutivo:la proporzione tra difesa e offesa.

Docente: Anche quando la situazione non offre altra possibilità di difesa che la lesione di un interesse penalmente tutelato dell'aggressore, non si deve credere che all'aggredito sia permessa ogni e qualsiasi azione necessaria per difendere il suo bene minacciato: deve esserci pur sempre una proporzione tra il pericolo, che corre il bene minacciato, e l'interesse dell'aggressore, che si viene a ledere. Proporzione calcolata tenendo presente il valore attribuito ai vari beni dalla Costituzione e dal legislatore ordinario, soprattutto penale, così come abbiamo spiegato parlando dello stato di necessità. Naturalmente nel fare tale proporzione si terrà conto che i beni di un aggressore meritano minor rispetto di quello che l'articolo 54 assicura alla parte “innocente”.

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Discente: Quindi può anche accadere che l'aggredito sia costretto a tollerare l'offesa, se non dispone che di difese eccessive rispetto ai beni dell'aggressore, che verrebbe a ledere.

Docente: E' così. Ma ora dobbiamo chiudere. Con la speranza di aver modo di approfondire meglio l'argomento in altra lezione.

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PARTE SECONDA

LA PROCEDURA PENALE RAGIONATA

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SEZIONE PRIMA

LE LEZIONI

Lezione 1 - L'iter di un procedimento penale a....volo d'uccello

E' utile allo studioso, per comprendere i discorsi che andremo a fare sui vari istituti del procedimento penale, avere almeno un'idea di massima su come questo si svolge.Per darla possiamo partire dal “esposto”, che lo studioso trova nella sezione seconda del libro (Doc A1): é una piccola mostruosità giuridica (come se ne trovano tante nella “pratica”): non é una denuncia (e tanto meno un esposto) perché in esso ci si premura di fare quella richiesta di “procedere all'azione penale” che qualifica e caratterizza l'atto di querela (vedi l'articolo 336 e, nella sezione seconda del libro, la formula sub I) e non si presenta come una querela perché é intitolato “Esposto penale”. Comunque sia, ed é questo che qui importa, é uno dei tanti atti - denunce, referti, querele ecc. - di cui parla il codice all'inizio del suo libro quinto dedicato alle “Indagini preliminari e all'udienza preliminare” e che hanno la funzione di veicolare una “notizia di reato” al Pubblico Ministero e alla Polizia Giudiziaria. I quali, sì, possono “prendere notizia dei reati di propria iniziativa” (art. 330), ma di solito si muovono dietro l'input di un atto (appunto, una denuncia, un referto...) che li “notizia” di un reato commesso.Qual'é il primo passo che il P.M. (Pubblico Ministero) compie, una volta che ha acquisito una “notizia di reato”? La risposta ce la dà l'art. 335: il primo passo é l'iscrizione della “notizia” in un registro che si chiama appunto “Registro delle notizie di reato” e che si trova in ogni Procura della Repubblica.Tale iscrizione deve essere comunicata dal P.M. “alla persona alla quale il reato é attribuito, alla persona offesa e ai rispettivi difensori (solo) ove ne facciano richiesta” (co. 3 art. 335).L'iscrizione della “notizia” é fatto importante perché da esso decorre il termine entro cui il P.M. deve decidere se archiviare (la notizia) oppure se esercitare l'azione penale (art. 405). Tale termine però può essere prorogato (vedi nella Sezione seconda, il “Doc.D” e il “Doc.E”).E se il P.M. non decide né di archiviare né di esercitare l'azione penale? In tal caso la sua ulteriore attività diventa “inutilizzabile”, per il disposto del co.3 art. 407, che recita: “Salvo quanto previsto dall'articolo 415 bis, qualora il pubblico ministero non abbia esercitato l'azione penale o richiesto l'archiviazione nel termine stabilito dalla

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legge o prorogato dal giudice, gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine non possono essere utilizzati”.Ma come si esercita l'azione penale? Si esercita “formulando l'imputazione”, cioé facendo sapere quale reato si vuole addebitare all'indagato. La “formulazione dell'imputazione” deve necessariamente essere espressa nel contesto di una “citazione a comparire davanti al giudice” come avviene nel processo civile? No, al contrario, ciò avviene solo eccezionalmente nel “decreto di citazione” davanti al giudice monocratico (art. 550) e al Giudice di Pace (art. 20, non del codice di procedura p., ma del D. L.gs 28 agosto 200 n. 274); di norma, però, la formulazione dell'imputazione avviene, o in presenza e quando già l'imputato é davanti al giudice (caso del giudizio direttissimo – art. 451 co. 4) o nella richiesta al GIP di un decreto di condanna (art. 460, lett.b), o in quello “invito a presentarsi” per rispondere a un interrogatorio (vedi l'art. 375 e in particolare l'ultima parte del suo comma tre) che é necessariamente propedeutico (per il primo comma art. 453) a una richiesta (fatta dal P.M. al GIP) di “giudizio immediato” (cioé di giudizio effettuato, omettendo l'udienza preliminare) o, in fine, in una richiesta sempre al GIP di “rinvio a giudizio”(richiesta che dà l'input al GIP per fissare la c.d. “udienza preliminare – art. 416).A questo punto però é meglio lasciare parlare il codice e più precisamente il suo articolo 405, perché dalla lettura di questo lo studioso potrà avere subito un quadro abbastanza chiaro delle strade che si aprono al P.M., una volta iscritta nel Registro la “notizia”.L'articolo 405 recita: “Il pubblico ministero quando non deve chiedere l'archiviazione, esercita l'azione penale formulando l'imputazione, nei casi previsti nel titolo II (che si riferisce all'istituto della “Applicazione pena su richiesta” – chiarisco subito che tale caso non é stato da me menzionato più sopra, perché la richiesta di “applicazione pena”, salva rarissima avis, avviene, ed è logico, quando già l'imputazione é formulata), nel titolo III (che si riferisce al giudizio direttissimo), nel titolo IV (che si riferisce al giudizio immediato), nel titolo V (che si riferisce al procedimento per decreto) ovvero nella richiesta di rinvio a giudizio (di cui all'art. 516)”.Ma ritorniamo all'iscrizione della “notizia” nel “Registro”. Una volta che questa é avvenuta, si apre la possibilità al P.M. di compiere, per accertare il reato, le “indagini preliminari” (ben inteso, di compierle usando dei poteri concessigli dal libro quinto del codice – artt. 326 ss -, ché, naturalmente, indagini, il P.M., al pari di qualsiasi privato, può compierle in ogni momento). Anche il difensore (sia dell'imputato sia delle altre “parti private” di cui agli artt. 74 e ss) naturalmente può avere interesse a svolgere investigazioni sui fatti che sono o possono (art. art. 391nonies) diventare oggetto di un procedimento penale e il legislatore lo agevola in ciò concedendogli dei poteri, che il privato non ha (ad esempio, il potere di

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ottenere dalla Pubblica Amministrazione dei documenti – art. 391 quater) - questo dal momento in cui ha ricevuto “l'incarico professionale “(co.1 art. 327bis), anche se, poi, anche lui dovrà aspettare l'iscrizione della “notizia” per compiere quegli atti che richiedono “l'autorizzazione o l'intervento dell'autorità giudiziaria” (art. 391 nonies) - atti che sono tutt'altro che pochi (ad esempio, tu, difensore puoi, sì, chiedere informazioni, ma se l'interrogato si rifiuta di risponderti, dovrai passare la palla al P.M. - v. co. 10 art.391bis -; tu, difensore, puoi, sì, entrare in luoghi non aperti al pubblico, ma solo su “autorizzazione del giudice” - vedi art 391 septies).Torniamo alle indagini preliminari del P.M., e chiariamo subito una cosa: il fatto che egli possa fare delle indagini non significa che debba farle: le farà solo se lo riterrà necessario per prendere le sue decisioni (alla denuncia di un'estorsione é allegata la lettera estorsiva: perché fare indagini se il reato risulta documentalmente provato?!) - solo l'interrogatorio dell'imputato non potrà mancare, come vedremo, a meno che il P.M. decida di procedere per uno di quei reati minori per cui é ammessa la richiesta di decreto penale (artt. 453 ss) o la citazione diretta davanti al giudice (artt.549ss) o anche decida di procedere per un reato per cui l'imputato é stato colto in flagrante (caso in cui però, dir il vero, un interrogatorio dell'imputato c'é sempre – anche se un interrogatorio subito a ridosso del giudizio - dato che questo va preceduto dalla convalida dell'arresto e nel contesto della convalida il Giudice interroga l'imputato – vedi gli artt. 449 ss). Non va neanche detto che il P.M. potrà chiedere l'archiviazione senza procedere all'interrogatorio del persona indagata (anche se, a dir il vero, potrebbe non mancare un interesse dell'indagato ad avere, invece dell'archiviazione, una sentenza che, prosciogliendolo con formula ampia, metta una pietra tombale sull'accusa (art.648): infatti il decreto di archiviazione potrebbe successivamente essere revocato (art. 414), essendo il P.M riuscito successivamente a raccogliere quelle prove che prima gli mancavano – ma proprio questo il legislatore non vuole: che l'indagato profitti di una difficoltà del P.M., che può essere superata, per carpire una sentenza di proscioglimento!).Dunque siamo arrivati al punto in cui il P.M. può essere costretto, dalla necessità di vederci chiaro sui fatti, a fare delle indagini. In tal caso deve sobbarcarsi da solo il peso di queste? No, nell'espletarle può contare sulla collaborazione della Polizia giudiziaria (che, si badi, già prima dell'iscrizione della “notizia di reato” aveva, sia pur limitati, poteri di indagine, e che, dopo tale iscrizione, se li trova potenziati). Il rapporto tra P.M. e Polizia giudiziaria é paritario? No, é un rapporto di subordinazione della Polizia al P.M.. Ciò risulta dall'art. 337, che recita: “Il pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria che, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, continua a svolgere attività di propria iniziativa secondo le modalità indicate nei successivi articoli”.Di grande rilievo, tra gli atti che la Polizia può compiere di sua iniziativa, é quello della privazione della libertà di una persona colta nella flagranza (art. 382) di un

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reato (artt.380 ss) o che, indiziata di un reato (grave), sia sospetta di darsi alla fuga (c.d “fermo di indiziato di delitto – fermo che, sì, per il primo comma dell'art. 384, deve essere disposto dal P.M., ma che, per il secondo comma dello stesso articolo, può essere attuato anche dalla Polizia “qualora il P.M. non abbia ancora assunto la direzione delle indagini”). Però anche se il Legislatore non lega le mani alla Polizia e le concede di compiere degli atti di sua iniziativa, Egli, almeno per i più incisivi di tali atti (un sequestro, un arresto....) adotta la cautela di subordinarne l'efficacia alla loro “convalida” da parte della Autorità Giudiziaria (particolarmente importante é la convalida dell'arresto o del fermo, su cui in altra parte del libro ci soffermeremo).Ma alla persona sottoposta alle indagini non viene concessa nessuna possibilità di influire su di esse (ad esempio, chiedendo che venga eseguita un'ispezione, sentita una data persona...) e di controllare la loro regolare esecuzione (ad esempio, di controllare la regolare esecuzione di una perquisizione o di un sequestro)?Certo che sì, che, sia pure in ristretti limiti, tale possibilità le viene concessa. Infatti per l'articolo 367, la parte, sia pure, non direttamente, ma solo tramite il suo difensore “ha facoltà di presentare memorie e richieste scritte al pubblico ministero”.Si dirà: ma perché la parte possa interagire utilmente col P.M. occorre, in primo luogo, che sappia qualcosa sull'andamento delle indagini (se non sa che Tizio ha detto A, come può pensare di chiedere che venga sentito Caio in grado di smentire A?), in secondo luogo, occorre (proprio perché, come ora abbiamo visto, non può interloquire direttamente col P.M.) che abbia un difensore: il legislatore le permette di conoscere qualcosa sull'andamento del processo? le affianca un difensore a che l'assista?Rispondo alla prima domanda. Una completa informazione della parte potrebbe essere chiaramente controproducente per il buon esito delle indagini e pertanto questa informazione viene data alla parte solo a conclusione delle indagini (vedi l'art. 415bis in generale, vedi in particolare il comma 5 dello stesso articolo 415bis e il comma 3, nella sua ultima parte, dell'articolo 375, che al P.M. impongono (sul punto é esplicito, per il “giudizio immediato”, il primo comma dell'articolo 453), prima di decidere di trarre a giudizio l'indagato, il suo interrogatorio – ben inteso un interrogatorio funzionale a permettergli un'utile difesa, cioé un interrogatorio in cui gli vengono esposti gli elementi su cui si basa l'accusa in modo che lui possa contrastarli (sul punto vedi, oltre l'ultima parte del comma tre art. 375, sopratutto il primo comma dell'art. 65), quindi non un interrogatorio diretto solo a permettere al P.M. di acquisire elementi utili per le sue indagini (interrogatorio, peraltro, certamente legittimo e previsto dall'art. 375 e in particolare dalla prima parte del suo terzo comma). E' poco, ma é anche vero che i difensori della parte sono ammessi, come subito vedremo, a partecipare a certi atti e a leggersi i relativi

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verbali – e, se sono intelligenti, da ciò possono ben trarre utili elementi per orientare la loro attività difensiva.E veniamo all'assistenza di un difensore. Naturalmente l'indagato (o chi sospetta di venire indagato) può nominarsi un difensore di fiducia quando sa dell'iscrizione di una “notizia di reato” a suo carico (e anche prima). Vero é che potrebbe non nominarlo, per ignoranza (dell'avvenuta iscrizione della “notizia di reato” o del suo diritto ad essere assistito da un difensore) o per sue difficoltà economiche. Il legislatore si fa carico di tale eventualità e impone al P.M due “atti informativi”: la “informazione di garanzia” e la “informazione sul diritto di difesa”.Con la prima, prevista dall'articolo 369, il P.M., indica “alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa” “le norme di legge che si assumono violate, la data e il luogo del fatto e la invita a esercitare la facoltà di nominare un difensore”. Vero é che questo atto di informativa, può non essere fatto, anzi, non deve essere fatto all'inizio delle indagini, ma “solo quando il P.M. deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere” (idest, un interrogatorio, una individuazione di persona, un confronto, un'ispezione....) - questo a tutela sopratutto della privacy della parte (dato che, nell'immaginario del pubblico, la informazione di garanzia si é venuta trasformando in un'affermazione di colpevolezza). Con la “informazione sul diritto di difesa”, prevista dall'art. 369bis, il P.M. fa “alla persona sottoposta alle indagini la comunicazione della nomina del difensore d'ufficio” (naturalmente quando non risulta un difensore di fiducia). Tale comunicazione va fatta “al compimento del primo atto a cui il difensore ha diritto di assistere”- quindi non obbligatoriamente “prima del compimento di un atto ecc”. - invece obbligatoriamente tale comunicazione dovrà essere fatta prima di tale atto quando esso consiste in un interrogatorio (vedi meglio il primo comma dell'art. 369bis).Con ciò abbiamo accennato ai diritti che spettano all'indagato. Ma a questo punto lo studioso mi domanderà: perché parli sempre di indagato e non di imputato? Risposta: perché il Legislatore vuole (art. 60) che la qualifica di “imputato” sia riferita solo alla persona contro cui il P.M., concluse le indagini, può formulare l'accusa di aver commesso il reato, con la convinzione di poterla vittoriosamente sostenere in giudizio, il che accade quando a tale persona – e qui cominciamo ad usare le parole dell'articolo 60 - “é attribuito il reato nella richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto penale di condanna, di applicazione della pena a norma dell'art. 417 comma 1, nel decreto di citazione diretta a giudizio e nel giudizio direttissimo”. Peraltro l'art. 61 estende “alla persona sottoposta alle indagini preliminari”, nel primo comma, “i diritti e le garanzie dell'imputato” e, nel secondo comma, tout court “ogni altra disposizione relativa all'imputato salvo che sia diversamente stabilito”.

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Dunque il Legislatore riconosce all'indagato dei diritti (anche nella fase delle indagini preliminari); e al suo difensore non riconosce dei diritti? Chiaramente non può non riconoscerli. E in effetti li riconosce, oltre che nel già visto articolo 121: nell'articolo 103 (intitolato significativamente “Garanzie di libertà del difensore”), vietando intercettazioni e controlli sulla corrispondenza tra i difensori e i loro assistiti, vietando perquisizioni e ispezioni nei loro uffici (vedi meglio il contenuto dell'articolo in questione), nell'art. 356, riconoscendo al difensore il diritto di partecipare (senza però preavviso) ad alcuni atti (come le perquisizioni), nell'articolo 364, riconoscendo al difensore il diritto di assistere (qui con diritto al preavviso) ad altri atti (come gli interrogatori, le ispezioni, le individuazioni di persone, i confronti a cui “la parte ha diritto di partecipare”), infine, nell'art. 366, riconoscendo al difensore il diritto di esaminare ed estrarre copia dai verbali degli atti a cui ha diritto di assistere (verbali che a tal fine debbono essere depositati in cancelleria per un dato tempo).Abbiamo visto, sia pure sommariamente, i diritti che il legislatore riconosce all'indagato e al suo difensore.Ma riconoscere tali diritti servirebbe ben poco se non ci fosse chi, di tali diritti, garantisse l'osservanza. Ecco perché il Legislatore introduce, tra i protagonisti delle indagini preliminari, il GIP (giudice delle indagini preliminari); i cui compiti risultano dall'art. 328, che recita: “Nei casi previsti dalla legge, sulle richieste del pubblico ministero, delle parti private e della persona offesa dal reato, provvede il giudice per le indagini preliminari”.Infatti, il Legislatore non permette al P.M. di compiere di sua sola iniziativa certi atti particolarmente “gravi” e con ciò lo costringe a chiederne il compimento ad altra Autorità: appunto al GIP. E il legislatore, così come non vuole rimettere alla sola volontà del P.M. il compimento di un atto, ch'egli reputa necessario per l'accusa, così non vuole far dipendere dalla mera volontà del P.M. il compimento di un atto che la parte ritiene necessario per la sua difesa (ad esempio il sequestro di un documento, il cui esame può provare l'innocenza dell'indagato) e pertanto concede alla parte di richiedere, pur nella negativa del P.M, tale atto al GIP.Tra gli atti che vanno richiesti al GIP meritano particolare menzione, le richieste di misure cautelari e le richieste di “Incidenti probatori”.Per quel che riguarda le misure cautelari dispone l'articolo 291, che recita: “Le misure sono disposte su richiesta del pubblico ministero, che presenta al giudice competente (che, durante la fase delle indagini preliminari, é il GIP) gli elementi su cui la richiesta si fonda, nonché tutti gli elementi a favore dell'imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate”. (Ma abbiamo già visto che un'importante eccezione al principio che una persona può essere privata della libertà personale solo per atto di un giudice, é dato dalla possibilità della Polizia di

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operare un arresto in flagrante e dalla possibilità del P.M. e della Polizia di operare il c.d. “fermo”).Sull'incidente probatorio dispone l'articolo 392, dando la possibilità, sì, di anticipare alla fase delle indagini preliminari atti che di per sé dovrebbero essere compiuti nel dibattimento, quando un ritardo potrebbe portare all'impossibilità di compierli (almeno utilmente), però con una procedura che dia quelle stesse garanzie che dà la procedura dibattimentale: quindi, in primis: possibilità per le parti di conoscere “tutti gli atti di indagine compiuti” dal P.M. se la “richiesta” da lui parte (vedi c.2bis dell'art. 393); “assunzione delle prove” con le forme stabilite per il dibattimento (vedi comma 5 art.401); e, fondamentale garanzia, con la direzione del procedimento da parte del GIP. Esempi di casi in cui si può chiedere l'incidente probatorio? Eccoli: “l'assunzione della testimonianza di una persona, quando vi é fondato motivo di ritenere che la stessa non potrà essere esaminata al dibattimento per infermità o altro grave impedimento” (lett.a co.1 art. 392); “una perizia, se la prova riguarda una persona, una cosa o un luogo il cui stato é soggetto a modificazione non evitabile”. (lett.f co 1 sempre dell'art. 392).Dell'importante funzione di “filtro” che ha il GIP rispetto alle richieste del P.M. di portare al pubblico dibattimento l'imputato, parleremo subito dopo aver accennato a un importante incombente, che grava il P.M. una volta che ha concluse le sue indagini.E infatti concluse le indagini (meglio, scaduto il termine entro cui le indagini potevano essere svolte, ancor meglio, “prima della scadenza” di tale termine), il P.M. - “se non deve formulare richiesta di archiviazione” e se non intende chiedere un decreto penale (artt. 459 ss), o il giudizio immediato (artt. 453 ss) o la citazione diretta (artt.549ss) - deve (per l'art.415bis) “notificare alla persona sottoposta alle indagini e al difensore” (e in alcuni casi anche alla parte offesa, vedi meglio co. 1 dell'articolo citato) “avviso della conclusione delle indagini preliminari”. Ma il P.M. non si deve limitare a informare le parti della conclusione delle sue indagini, deve anche contestualmente informarle di alcuni loro diritti e porle in grado di esercitare questi utilmente.Ecco infatti quel che recita sempre l'art. 415bis citato nei suoi commi due e tre: “L'avviso contiene la sommaria esposizione del fatto per cui si procede, delle norme che si assumono violate, della data e del luogo del fatto, con l'avvertimento che la documentazione relativa alle indagini espletate é depositata presso la segreteria del pubblico ministero e che l'indagato e il suo difensore hanno facoltà di prenderne visione ed estrarne copia.“L'avviso contiene altresì l'avvertimento che l'indagato ha facoltà, entro il termine di venti giorni di presentare memorie, produrre documenti, depositare documentazione relativa ad investigazioni del difensore, chiedere al pubblico ministero il compimento di atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare

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dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio. Se l'indagato chiede di essere sottoposto ad interrogatorio il pubblico ministero deve procedervi”.In base alle “difese” avanzate e alla prove prodotte dalle parti il P.M. deciderà quale delle cinque strade seguenti imboccare: 1) richiesta di archiviazione (se non l'ha già presentata), 2) richiesta di decreto penale (se non l'ha già presentata); 3) richiesta di giudizio immediato (se non l'ha già presentata);4) citazione diretta (se non l'ha già fatta); 5) richiesta di rinvio a giudizio.Tutte queste strade (salvo quella della citazione diretta) possono essere sbarrate da un “no” del GIP: I -“No, io GIP nego a te, P.M., il decreto penale – vedi co. 3 art.459- libero tu di portare a giudizio l'imputato per altra via”; II- “No, io GiP, ti nego il giudizio immediato – v. co 1 art. 455 - libero tu di portare a giudizio l'imputato per altra via”; IIIA- “No, io GIP (con questa mia ordinanza) ti nego l'archiviazione: tu devi proseguire nelle indagini (co.4 art.409)” oppure IIIB“Ti nego l'archiviazione, tu devi formulare l'imputazione (co 5 art. 409)”; IV- “No, ti nego (con questa mia sentenza di non doversi procedere) il rinvio a giudizio: questo rinvio lo potrai ottenere solo se sarai in grado di dimostrare che sono sopravvenute o scoperte ““nuove fonti di prova” (artt. 434 ss)”.I “no” sub I e sub II vengono pronunciati dal GIP de plano, cioé senza sentire le parti; e in effetti da questi “no”, anche se errati, non possono derivare gravi conseguenze. I “no” invece sub III e sub IV, date le gravi conseguenze di un errore del giudice (meno gravi nel caso sub III, ma sempre gravi) vanno pronunciati in udienza. Un'udienza celebrata, nel caso sub III, nelle forme dell'art.127 (v. co 2 art. 409), quindi senza la presenza del pubblico e senza la presenza necessaria del p.m. e dei difensori, e, nel caso sub IV, celebrata nelle forme di cui agli artt. 420 e ss (che contemplano la presenza necessaria del P.M. e dei difensori).Chiarito tutto questo vediamo come prosegue l'iter nel caso di “procedimento ordinario” (“ordinario” in contrapposizione ai procedimenti, per decreto penale, per giudizio immediato, per direttissima, per giudizio abbreviato e per “applicazione della pena su richiesta”, che sono considerati dal Legislatore “procedimenti speciali” e sono disciplinati nel libro sesto del codice – vedi il titolo che tale libro porta).Primo passo del P.M. sulla strada che porta a quella “udienza preliminare” che caratterizza il procedimento ordinario: il deposito (ai sensi del co 1 art. 416) nella cancelleria del GIP della “Richiesta di rinvio a giudizio”.Però il P.M. non si limita a depositare la richiesta, provvede anche (v. co 2 art.416) a che sia trasmesso al GIP il “fascicolo contenente la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate e i verbali degli atti compiuti davanti al giudice per le indagini preliminari” (per questi si pensi a un verbale di convalida dell'arresto o a un verbale di incidente probatorio).

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Qui va attirata l'attenzione dello studioso sulla “documentazione relativa alle indagini espletate”. Infatti il Legislatore impone (vedi gli artt. 357, 353), sia alla Polizia Giudiziaria sia al P.M. di far verbale, se non di tutte, di quasi tutte le attività di indagine da loro svolte. Perché? Perché il giudice del dibattimento possa farsi un'idea, leggendo tale documentazione, su come sono andati i fatti? Assolutamente, no: il Legislatore vuole che il giudice, entrando nell'aula dibattimentale, sia assolutamente vergine da ogni idea preconcetta (non vuole che accada, come accadeva invece sotto il vigore del Codice Rocco, che il giudice tenga udienza avendo tra le pagine del codice un foglietto in cui ha già scritta, in base ai verbali di testimonianze, ispezioni ecc. trovati nel fascicolo, la sentenza: il difensore si sgola, ma a che serve? é difficile far cambiare al giudice l'idea che, soletto soletto, si é fatta). Ma si dirà: questo pericolo (di un giudice che si presenta al giudizio con una sentenza già fatta) non esiste anche per il GUP (giudice dell'udienza preliminare)? Sì, certo che esiste anche per lui tale pericolo, ma é un pericolo che va accettato, per ragioni di economia processuale (se al GUP non si permettesse di leggere il verbale in cui sono state raccolte le dichiarazioni di Caio, si dovrebbe far venire Caio all'udienza del GUP per escuterlo, ma allora il processo davanti al GUP rischierebbe di prendere troppo tempo).Allora, se non é per permetterne la lettura al giudice, perché mai il Legislatore pretende che Polizia e P.M. facciano verbale degli interrogatori, delle ricognizioni, delle ispezioni, insomma dei più importanti atti da loro fatti? Per due motivi. Primo motivo, per dare efficacia a quell'arma che é la “contestazione”: al dibattimento il P.M. - (e anche se qui ci riferiamo al P.M. il discorso potrebbe essere esteso a tutte le parti processuali, dato che, come vedremo, tutte le parti processuali possono visionare il fascicolo del P.M. e sulla sua base fare delle contestazioni) - potrà contestare efficacemente al teste Rossi “Tu nella fase delle indagini preliminari hai detto bianco, perché ora dici nero?” solo se non potrà sorgere il dubbio che anche nelle indagini preliminari il teste Rossi abbia detto nero – quel dubbio che la possibilità di una defaillance nella memoria del contestante potrebbe far sorgere ma che la verbalizzazione esclude. Secondo motivo (dell'imposizione da parte del Legislatore della verbalizzazione): evitare che non emergano quegli elementi negativi per la accusa a cui le indagini hanno condotto: il teste Rossi ha detto che il colore dell'auto da lui vista era bianco, ciò che non conforta la tesi accusatoria: il P.M. si potrebbe guardare bene dal fare emergere tale elemento al dibattimento, ma in tal caso, se tale elemento risulta dal verbale, lo potrà far emergere la difesa.Ma cerchiamo di non perdere il filo del discorso: eravamo arrivati al momento in cui il P.M. ha fatto pervenire nella cancelleria del GIP (che ora si trasforma in GUP, giudice dell'udienza preliminare) la sua richiesta di rinvio a giudizio e il suo fascicolo. A questo punto la palla passa al GUP, il quale deve fissare la data dell'udienza preliminare e tenerla – artt. 420 ss. Finita l'udienza, il GUP dovrà

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decidere se pronunciare una sentenza (non di proscioglimento, ma) di non doversi procedere oppure se emettere un decreto di citazione davanti al giudice del dibattimento (vedi primo comma art. 424).Poniamo che opti per questa seconda alternativa. Emesso il decreto il GUP ha espletate tutte le sue incombenze? No, l'articolo 431 ancora gli impone di “provvedere nel contraddittorio delle parti alla formazione del fascicolo per il dibattimento”. Perché “nel contraddittorio delle parti”? Perché è molto importante quel che si mette nel fascicolo, di cui stiamo parlando, infatti i documenti inseriti nel fascicolo per il dibattimento possono essere letti dal giudice prima del udienza dibattimentale (e quindi bisogna stare attenti a che essi non siano tali da permettere al giudice di formarsi quell'idea preconcetta sulla soluzione da darsi alla causa, di cui più sopra abbiamo parlato), ma non é questo il solo pericolo che un'errata formazione del fascicolo può portare: infatti di tali documenti (e solo di tali documenti) può essere data lettura nel dibattimento (vedi co.1 art. 511) e su tale lettura si può fondare la motivazione della sentenza : quindi, se nel fascicolo fosse inserito il verbale che riporta le dichiarazioni di Rossi, e Rossi non fosse comparso al dibattimento, il giudice potrebbe essere tentato di evitare il rinvio necessario per escuterlo, dando semplicemente lettura delle sue dichiarazioni – così come accadeva sotto il Codice Rocco e come il Legislatore dell'attuale codice non vuole che accada.Ecco perché il legislatore fa (nell'art. 531) un elenco preciso degli atti che possono essere inseriti nel fascicolo, ecco perché Egli vuole che il fascicolo sia formato nel contraddittorio delle parti.Una volta formato il fascicolo, il Giudice può dire davvero di aver svolto tutti gli incombenti a lui spettanti. E la palla passa al cancelliere il quale deve provvedere a inviare i due fascicoli, quello del P.M. e quello per il dibattimento, il primo, alla segreteria del P.M., il secondo, alla cancelleria del giudice del dibattimento.Termina così la fase delle indagini preliminari e inizia quella degli atti preliminari al dibattimento (artt. 465 ss)- fase questa che il processo ordinario ha in comune con il giudizio immediato e il giudizio per citazione diretta.In questa fase grava sulle parti (PM e difensori) un importante incombente: il deposito della “lista”. Infatti per il primo comma dell'articolo 468 “Le parti che intendono chiedere l'esame di testimoni, periti, o consulenti tecnici devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria, almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con la indicazione delle circostanze su cui deve vertere l'esame”. Perché “sette giorni prima”? Per permettere alla controparte di portare già al dibattimento le controprove sulle circostanze indicate nella “lista” (“Risulta dalla lista che tu, P.M., vuoi provare “bianco”, ebbene io, difensore ho dei testi che possono provare “nero” e, avendo avuta la possibilità di leggermi la tua “lista” sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, sono in grado di

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portare questi testi davanti al giudice per questa data senza chiedere nessun rinvio dell'udienza”).La parte che deposita la lista deve indicare, così come si fa nel processo civile, anche le persone che vuole siano esaminate (sulle circostanze, nella lista, indicate)? No, essa può presentarle direttamente al giudice del dibattimento. Se dubita, però, che tali persone compaiano spontaneamente all'udienza, può chiedere al Presidente del tribunale (o della Corte di Assise) di essere autorizzato a citarle (cosa che gli darà modo di ottenere, poi, la loro comparizione coattiva, qualora esse spontaneamente, davanti al giudice, non compaiano).Può il presidente rifiutare l'autorizzazione? Sì, ma solo nel caso si tratti di “testimonianze vietate dalla legge” o “manifestamente sovrabbondanti”. E infatti, ed é cosa che va subito ben chiarita, spetta al giudice del dibattimento (e non al presidente) decidere quali prove vanno ammesse e quali, no. Ed é questa una decisione che, naturalmente, il giudice prende in limine litis: subito dopo che: si é controllata (art. 484) “la regolare costituzione delle parti”; che eventualmente si sono trattate (art. 491) delle “questioni preliminari”; che é stato dichiarato aperto il dibattimento (art. 492) e P.M e difensori hanno “indicato i fatti che intendono provare e chiesta l'ammissione delle prove”(art. 493) - il giudice (che presiede al dibattimento) “provvede con ordinanza all'ammissione delle prove”- così stabilisce l'incipit dell'art. 495.Provvede come? Chiaro, applicando l'art. 190 comma 1 e 190bis (vedi sempre il primo comma art. 495) - cosa per cui egli potrà fare quel che invece il presidente non poteva fare: ad esempio, escludere una prova testimoniale (non solo se “sovrabbondante”, ma anche se) superflua o irrilevante o non ammettere un documento perché “illecitamente acquisito”.Dopo la decisione sulle prove, inizia l'istruzione dibattimentale (art. 496): prima si assumono le prove del P.M., poi quelle della parte civile e del responsabile civile, per ultime quelle dell'imputato.Ben può essere che le risultanze dell'istruttoria facciano risultare, il fatto addebitato all'imputato, diverso da “come é descritto nel decreto che dispone il giudizio”; in tal caso “il P.M. modifica l'imputazione e procede alla relativa contestazione” (vedi meglio l'art. 516); e ben può essere che le risultanze istruttorie facciano “emergere un reato connesso a norma dell'art. 12 comma 1lett.b ovvero una circostanza aggravante e non ve ne sia menzione nel decreto che dispone il giudizio” (art. 517): in tal caso il P.M.”contesta il reato e la circostanza” (vedi meglio l'art. 517). Sia nel caso previsto dall'art. 516 sia in quello previsto dall'art.517, “l'imputato può chiedere un termine a difesa” (art. 519). E se nel corso del dibattimento” risulta a carico dell'imputato un fatto nuovo non enunciato nel decreto che dispone il giudizio”? In tal caso il P.M. “procede nelle forme ordinarie” (quindi iscrive, la “notizia di reato”

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così ricevuta, nel Registro di cui sappiamo ecc.ecc.) - vedi meglio gli artt. 518 e 519.Qui facciamo stop, lasciando le altre cose da dire alla restante parte del libro.

Lezione 2 - Il concetto di prova – La prova “al di là di ogni ragionevole dubbio” - Prova di efficacia diversa secondo i diversi fatti da provare

Discente: Che cos’è la prova?

Docente: E’ un fatto la cui esistenza rende probabile l’esistenza di un altro fatto: il fatto che Tizio abbia testimoniato che Caio aveva in mano un coltello insanguinato rende probabile il fatto che sia Caio l’assassino.

Discente: “Probabile” e non “certo”?

Docente: No: di certo non c’è nulla in questo basso mondo e tanto meno nel processo penale.

Discente: Ma, metti, che dieci testi, concordi, senza la minima contraddizione, facciano testimonianza di aver visto Caio, che ora siede sul banco degli imputati, vibrare, allora, la fatale coltellata che uccise Caia.

Docente: Senza dubbio in tal caso il giudice condannerà Caio. Con tutto ciò non potrà dirsi “certo” che sia stato proprio Caio a uccidere. Non potrebbero i dieci testi aver mentito spinti da un loro comune, segreto, astio verso l’imputato? Ciò non è da escludere. E’ molto poco probabile che tutti i dieci testi si siano accordati per mentire. E’ molto probabile che abbiano detto il vero e che Caio abbia effettivamente ucciso. Ma dirsi “certo” di ciò il giudice non potrebbe.

Discente: Ma allora se è in base alle probabilità che nel processo penale si condanna o assolve, il Legislatore dice almeno il quantum di probabilità che la prova deve dare di un fatto perché il giudice possa di questo fatto ritenere l’esistenza?

Docente: Qualche cosa il Legislatore la dice; ma in maniera non precisa. Ad esempio nell’articolo 533 Egli ci indica, o meglio vorrebbe indicarci, le prove che il giudice deve pretendere dalla pubblica accusa per giungere a una condanna: debbono essere prove tali da far risultare l’imputato colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Più precisamente il primo comma dell’articolo 533 suona così:

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“Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato ascrittogli al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Discente: Ma che significa “al di là di ogni ragionevole dubbio”?

Docente: Il Legislatore partendo dalla realistica constatazione che raramente le risultanze di un processo portano univocamente alla condanna o alla assoluzione, ci dice, da una parte, che alla condanna si deve pervenire solo se sussistono elementi che, per usare le sue parole, fanno “risultare” l’imputato colpevole, dall’altra parte, che alla condanna si deve giungere anche se sussistono elementi che potrebbero far sorgere il dubbio sull’innocenza dell’imputato, se di tale dubbio non terrebbe conto ogni persona “ragionevole”.

Discente: E’ appunto il riferimento alla persona “ragionevole” che non capisco. La ragionevolezza di una persona può solo permetterle di stabilire se un dubbio ha, scusa il bisticcio di parole, “ragion d’essere”, cioè fondamento, oppure no. Mentre per decidere se, nonostante un dubbio non infondato a favore dell’innocenza, si debba lo stesso ritenere la colpevolezza, entra in gioco, non la ragionevolezza, ma la severità o la mitezza del giudicante.

Docente: D’accordo, ma queste sono sottigliezze. Povero legislatore, non infieriamo contro di lui! E’ doveroso piuttosto osservare che il dire che, dei dubbi a favore dell’innocenza, non si deve tenere conto quando ogni persona equilibrata – evidentemente equilibrata tra la severità e la mitezza – non ne terrebbe conto, significa dire nulla, se non si dice anche dove va situato il giusto equilibrio tra severità e mitezza. Cosa che invece il Legislatore non fa.

Discente: E come il Legislatore non dice il quantum di prove che occorre per giungere alla condanna, così, penso, non dice il quantum di prove necessario per l’applicazione di una misura cautelare o per condannare al risarcimento dei danni l’imputato (nel caso che l’azione civile di risarcimento sia stata fatta valere nel processo penale).

Docente: Hai detto bene. In effetti per quel che riguarda le misure cautelari – e qui per brevità mi riferisco solo alle misure cautelari personali – il Legislatore si limita a disporre nell’articolo 273 che “nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi”.

Discente: E naturalmente quando un indizio deve considerarsi “grave” non lo dice. E per quel che riguarda la prova del risarcimento del danno?

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Docente: Oh, a tal riguardo il legislatore non dice assolutamente nulla.

Discente: Mi pare allora di poter concludere che è rimesso alla discrezione del giudice decidere quale sia la prova sufficiente per ritenere un fatto.

Docente: Si, puoi concludere proprio così; però aggiungendo che il buon giudice deve lasciarsi guidare nell’esercizio di tale potere discrezionale da almeno due criteri.

Discente: Quali sono?

Docente: Il primo criterio è questo: tu, giudice, devi pretendere di un fatto una prova tanto più grave e chiara, quante più gravi sono le conseguenze che da tale fatto derivano. Ciò significa che i fatti che portano alla condanna debbono essere provati più rigorosamente che i fatti che portano all’assoluzione; dato che la condanna di un innocente è un fatto grave per la società e tanto più grave quanto più dura è la condanna.

Discente: Ma anche che un colpevole non sia condannato è un fatto grave per la società.

Docente: Fino a un certo punto. In fondo la Società non ha interesse a riempire le carceri (che costano) e a svuotare gli uffici e le fabbriche (che producono) con tutti quelli che hanno commesso un reato. La Società ha solo interesse a mantenere l’efficacia deterrente della minaccia della pena, e al che basta che venga punita solo una percentuale di chi viola la legge penale. Naturalmente quanto ora detto non vale per tutti i tipi di reati: non vale per i reati che mettono in pericolo la sicurezza interna o esterna dello Stato o che sono particolarmente “odiosi” (pensa alla tratta dei minori)- e in effetti per tali reati sono previste norme procedurali più rigide. Ma di massima tieni per vero quel che prima ti ho detto: lo Stato, la Giustizia penale non ha interesse a punire tutti gli autori di reati, ma solo quelli raggiunti da chiare prove. Ciò che, tra l’altro, corrisponde anche a un criterio di economia processuale: limitarsi a punire e, quindi, a sottoporre a processo solo le persone raggiunte da chiare prove, fa risparmiare tempo a giudici, pubblici ministeri, cancellieri ecc., per l’ovvia considerazione che, quando la prova di un reato è chiara, si fa prima a concludere il processo.

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Discente: Ciò, mi pare, spieghi anche perché per la punibilità e, quindi, per il sottoporre a processo, certi reati minimi (come l’ubriachezza, il gioco d’azzardo) occorra addirittura la flagranza del reato.

Docente: Esatto.

Discente: Tu hai detto che un fatto deve essere tanto più chiaramente provato quanto più gravi sono le conseguenze che dal suo accertamento derivano: da ciò mi pare che si dovrebbe concludere che la prova dei fatti che portano ad una misura cautelare (come la custodia in carcere, gli arresti domiciliari, il divieto di espatrio ecc.) esige minor rigore di quella dei fatti che portano ad una condanna.

Docente: E sarebbe una conclusione esatta. Posso aggiungere che le misure cautelari più gravi – per intenderci, quelle che limitano la libertà dell’indagato, come gli arresti domiciliari, la custodia in carcere – debbono essere provate con più rigore che le misure meno gravi – come ad esempio un sequestro conservativo o preventivo.

Discente: Quanto hai detto trova un riscontro nel diritto positivo?

Docente: Certo. Infatti - mentre il Legislatore, nell’articolo 273 comma 1, subordina l’adottabilità di una misura cautelare personale (custodia in carcere ecc.) alla sussistenza di “gravi indizi di colpevolezza – per l’adottabilità delle misure cautelari reali (sequestri) non richiede ciò.

Discente: Ma precisamente che cosa richiede per questo tipo di misure, che sono le meno gravi tra quelle previste dal nostro codice?

Docente: Per quel che riguarda il sequestro conservativo, l’articolo 316 si limita a subordinarlo al fatto che “vi sia fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie” delle obbligazioni pecuniarie nascenti dal reato. Quanto al sequestro preventivo esso viene subordinato dall’articolo 321 al “pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati”. Quindi, come vedi, le misure cautelari reali, al contrario delle misure cautelari personali possono essere adottate anche in mancanza di “gravi indizi di colpevolezza”.

Discente: Ti faccio ora una nuova domanda: come reati diversi possono richiedere una prova di diverso rigore, così anche elementi diversi di uno stesso reato possono richiedere una prova più o meno rigorosa?

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Docente: Si, perché due elementi, anche se entrambi sono costitutivi dello stesso reato in quanto entrambi sono necessari per giungere alla sua condanna, possono denotare, l’uno, un’antisocialità del reo, e, l’altro, no o denotarla in maniera diversa; ed è logico che il legislatore subordini la condanna soprattutto alla prova dell’elemento che dimostra o più dimostra l’antisocialità del reo.

Discente: Dacci un esempio di elementi costituivi denotanti, l’uno, l’antisocialità del reo, e, l’altro, no.

Docente: La colpa e il nesso di causalità.

Discente: Non capisco perché l’uno dimostra l’antisocialità del reo e l’altro, no.

Docente: Per capirlo pensa a questi due casi: Caio Primo affronta una curva senza suonare il clacson, causa la morte di una persona, é condannato per omicidio colposo; Caio secondo affronta la stessa curva anche lui senza suonare il clacson, ma perché ha la buona ventura di non trovare nessun pedone sulla sua strada, non uccide nessuno e non é condannato per omicidio colposo. Ora è evidente che l’antisocialità dimostrata nei due casi è identica ed è rivelata dall’elemento, colpa: il non aver suonato il clacson. Mentre l’elemento, nesso di causalità, presente nel primo caso e non nel secondo, giustifica la condanna di Caio Primo e non di Caio Secondo solo per ragioni, peraltro rispettabilissime, di politica criminale: cioè perché il legislatore ritiene eccessivo punire ogni comportamento colposo (che avrebbe potuto causare la morte di una persona) con le gravi pene previste dall’articolo 589 Codice Penale e quindi si limita per così dire a fare una decimazione delle persone che hanno tenuto quel comportamento colposo, prendendo come criterio di selezione il fatto dell’aver esse col loro comportamento causato o no la morte di una persona.

Discente: Capisco la diversa sintomaticità che ha la colpa rispetto al nesso di causalità, ma perché ciò dovrebbe portare a pretendere per la prima una prova più rigorosa che per il secondo?

Docente: Perché l’eventualità di un errore giudiziario sull’esistenza della colpa, è più temuta e deprecata dal legislatore che l’eventualità di un errore giudiziario sull’esistenza del nesso di causalità. Infatti, nel primo caso, verrebbe ad essere condannata una persona che non avrebbe denotata nessuna antisocialità, diciamo così, un probo cittadino, nel secondo caso, invece, verrebbe condannato chi ha tenuto effettivamente un comportamento antisociale e che, solo perché per mera

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fortuna il suo comportamento antisociale non ha causato danno, sarebbe dovuto andare esente da pena.

Discente: La tesi da te ora esposta, cioè la tesi che il giudice si può accontentare di una probatio levior per gli elementi i quali, pur necessari per la condanna, non sono sintomo di antisocialità, è certamente interessante, ma trova un riscontro nel diritto positivo?

Docente: Per quel che riguarda il nesso di causalità, questa tesi trova un riscontro in non poche sentenze in materia di responsabilità del medico. Tu sai che certe volte, mentre la colpa del medico è certa, è dubbio se il paziente sarebbe morto anche se gli fossero state fate fatte le cure omesse. Ebbene in tal caso, se si deve ritenere probabile che il paziente con tali cure sarebbe sopravvissuto, molti dei nostri giudici condannano.

Discente: Anche se le probabilità che invece sarebbe lo stesso deceduto sono così alte da rendere sul punto il dubbio “ragionevole” (per usare il termine da noi già incontrato leggendo l’articolo 533)?

Docente: Se ho bene interpretato tali sentenze, si.

Discente: Ma prescindiamo dal nesso di causalità. Riferiamoci a una condizione di procedibilità, come la valida proposizione di una querela o a una causa di estinzione (remissione di querela, prescrizione del reato….). Sono tutti eventi questi che vanno accertati dal giudice, ma che non indicano di per sè nulla sulla antisocialità dell’imputato: ebbene rispetto a tali elementi la tua tesi ha dei riscontri nel diritto positivo?

Docente: Un qualche riscontro potrebbe rinvenirsi nel fatto che il legislatore ci dice, con l’articolo 533, quando in genere debba ritenersi provata la colpevolezza dell’imputato e, a parte, con due altre disposizioni ad hoc, e precisamente i secondi commi degli articoli 529 e 531, ci dice quando deve ritenersi provata l’esistenza di una condizione di procedibilità o di una causa di estinzione del reato. Ciò fa pensare che il Legislatore si è reso conto che la prova degli elementi non sintomatici di antisocialità va valutata con criteri particolari.

Discente: Già che le abbiamo citate vogliamo leggerci le disposizioni degli articoli 529 e 531?

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Docente: Il secondo comma dell’articolo 529 recita: “Il giudice provvede allo stesso modo (idest, pronuncia sentenza di non doversi procedere) quando la prova dell’esistenza di una condizione di procedibilità è insufficiente o contraddittoria”. Il secondo comma dell’articolo 531 con formula leggermente diversa suona: “Il giudice provvede nello stesso modo (idest, proscioglie) quando vi è dubbio sull’esistenza di una causa di estinzione del reato”.

Discente: Riprendiamo il discorso. Tu all’inizio dicevi che il potere discrezionale del giudice nella valutazione della prova va esercitato tenendo conto di due criteri. Uno l’hai detto ed è la gravità delle conseguenze che conseguono al factum probandum. Ora devi dirci l’altro.

Docente: L’altro criterio è quello che possiamo denominare “il criterio della prova migliore”. E consiste in ciò che il giudice deve rifiutare come insufficiente una prova quando la parte era in grado con la comune diligenza di offrirgli una prova più sicura, quindi migliore.

Discente: Un esempio.

Docente: Tu, imputato, non puoi pensare di provare l’avvenuta oblazione o sanatoria di un reato edilizio portando dei testi: devi mettere sotto gli occhi del giudice la relativa documentazione.

Discente: Lo dice il codice?

Docente: No, lo dice la Corte di Cassazione che in questa sua interpretazione del Codice merita ogni consenso: lo Stato fa bene a non accettare, con una prova meno rigorosa, un maggior rischio di errore giudiziario, quando tale maggior rischio poteva essere evitato dalla diligenza della parte.

Discente: Cambiamo argomento: esiste un onere probatorio nel processo penale? Il codice di procedura dice qualcosa al proposito?

Docente: No, non c’è nessun articolo del codice che dica a chi incomba l’onere di provare questo e a chi incomba l’onere di provare quello.

Discente: Però ci sono degli articoli – tu prima ne hai citati alcuni - che, dicendo quando deve ritenersi provato un fatto, implicitamente permettono di dedurre su quale parte gravi il rischio della mancata prova di quel fatto. Ebbene leggiamo tali articoli, una volta che, metti, un articolo ci dirà che grava sul pubblico ministero la

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mancata prova del fatto A, noi sapremo anche che è interesse, quindi onere, del pubblico ministero dare la prova del fatto A.

Docente: Il tuo ragionamento all’apparenza non fa una grinza e io ti leggerò gli articoli in questione, se non altro perché è sempre bene leggersi il codice; però vedrai che i conti non ti torneranno: che da tali articoli non ti verrà la soluzione dell’onere probatorio da te cercata.Leggo.Comma secondo dell’articolo 529: “Il giudice provvede nello stesso modo (idest, assolve) quando la prova dell’esistenza di una condizione di procedibilità è insufficiente o contraddittoria”.Comma secondo dell’articolo 530: “Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”Comma terzo sempre dell’articolo 530:”Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull’esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1 (idest, indicandone la causa nel dispositivo)”.Comma secondo dell’articolo 531: “Il giudice provvede nello stesso modo (idest, assolve) quando vi è il dubbio sull’esistenza di una accusa di estinzione del reato”Con ciò ho terminato la mia lettura delle disposizioni da cui tu vorresti trarre la indicazione di quale parte abbia l’onere di provare un fatto.

Discente: E infatti mi pare di poterla trarre. Ad esempio dal secondo comma dell’articolo 529 mi pare ben di poter dedurre che tocca al pubblico ministero provare che è stata proposta una querela.

Docente: D’accordo. Ma metti che il querelato opponga che vi è stata, sì, querela, ma vi è stata anche una sua rimessione tacita in quanto il querelante ebbe a scrivergli una lettera in cui senza possibilità di equivoci dichiarava di non volere più procedere giudizialmente contro di lui, ebbene, l’articolo 529 ti dice a chi, in tale ipotesi, tocca provare l’esistenza di tale lettera, se al pubblico ministero o alla difesa?

Discente: Debbo ammettere che non lo dice.

Docente: E devi anche ammettere che il buon senso suggerisce di porre l’onere, di provare l’esistenza della lettera, al querelato che la invoca.

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Discente: Debbo ammetterlo; ma almeno mi concederai di dedurre, dal fatto che la disposizione in questione impone la assoluzione quando la prova è contraddittoria, che non occorre che il querelato dia la piena prova dell’esistenza della lettera, basta che ne dia una qualche prova. Infatti basterà questo a rendere contraddittoria la prova dell’effettiva esistenza della condizione di procedibilità e per imporre il proscioglimento, a meno che, ben s’intende, il pubblico ministero elimini ogni dubbio sul punto, fornendo la chiara prova dell’inesistenza della lettera.

Docente: Questo te lo concedo senz’altro: la tua è una conclusione logica.

Discente: Mi concederai anche allora che, applicando i risultati a cui siamo giunti nell’esame dell’articolo 529 anche agli altri articoli da te letti, potrò ad esempio dire che, se il signor Rossi, imputato di aver commesso a Roma il 12 dicembre un omicidio, porta a suo alibi il fatto che il 12 dicembre si trovava a Honolulu, ebbene in tal caso incombe certamente al signor Rossi dare una qualche prova di tale fatto, del fatto cioè che si trovava a Honolulu, ma che, una volta datala, incombe alla pubblica accusa l’onere di provare che ad Honolulu egli il 12 dicembre per nulla c’era; e mi concederai altresì che, se la pubblica accusa non assolve a tale onere, il giudice deve prosciogliere perché il fatto non è stato commesso dall’imputato.

Docente: Te lo concedo: è giustissimo quel che dici: complimenti.

Discente: E ancora mi concederai che, se l’automobilista, accusato di aver travolto il pedone sulle strisce pedonali, sostiene che il pedone aveva inequivocabilmente rinunciato alla precedenza e ne dà una qualche prova, ebbene allora toccherà al pubblico ministero l’onere di provare che il gesto inequivocabile di rinuncia alla precedenza sussiste solo nella fantasia dell’imputato e che, se a tale onere il pubblico ministero non adempie, il giudice dovrà ancora assolvere perché il fatto non è stato commesso dall’imputato.

Docente: Tutto giusto quel che tu dici, fuori che per quel che riguarda la formula di assoluzione che dovrà adottare il giudice. Infatti il giudice, quando assolve per difetto dell’elemento soggettivo del reato, come nel caso in cui manca la colpa, deve adottare per “formula terminativa”, “il fatto non costituisce reato”.

Discente: Me ne ricorderò: voglio dire, mi ricorderò sia che le varie forme che può assumere la decisione del giudice espressa nella sentenza si chiamano “formule terminative” sia che quando fa difetto l’elemento soggettivo la formula terminativa suona “il fatto non costituisce reato”.

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Docente: Bravissimo. Però tu che sei tanto perspicace non hai notata una cosa.

Discente: Che cosa?

Docente: Una diversità molto interessante tra i commi 2 e 3 dello stesso articolo 530.

Discente: In che consiste tale diversità?

Docente: Consiste nel fatto che nel comma 2 il legislatore impone l’assoluzione quando “manca la prova che il fatto sussiste” ecc. ecc.; nel comma 3 invece impone l’assoluzione, non quando manca, ma quando “vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione” (come potrebbe essere la legittima difesa) o di “una causa di non punibilità” (come potrebbe essere il rapporto di coniugio per chi è accusato di furto). Con tutta evidenza il Legislatore vuole sollevare la pubblica accusa dal peso di provare tutte le possibili cause di giustificazione e di non punibilità che potrebbero giocare a favore dell’imputato.

Discente: E invero si tratterebbe di un peso ben grave per la pubblica accusa il provare che l’imputato non agì né in stato di legittima difesa, né in stato di necessità ecc. ecc. E mi pare che quel che si è ora detto, per le cause di giustificazione e di non punibilità previste dall’articolo 531, possa ripetersi anche per le cause di estinzione del reato previste dall’articolo 530: mutatis mutandis, la pubblica accusa non dovrà provare che non vi è stata oblazione, non vi è stata prescrizione ecc. ecc.

Docente: Giustissimo. Ma ricordati anche il nome che si dà a questo fenomeno – voglio dire al fenomeno per cui il pubblico ministero è sollevato dal peso di provare tutti i fatti ostativi a una condanna. Questo nome è “semplificazione analitica della fattispecie”.

Discente: Me lo ricorderò. Però, tirando le somme, debbo riconoscere che avevi ragione tu: da nessuna delle disposizioni passate in rivista si ricava un chiaro criterio per stabilire a quale parte incomba l’onere della prova di un fatto. Debbo concludere che è rimesso all’arbitrio del giudice stabilire a quale parte incomba l’onere probatorio?

Docente: No, di certo; il giudice, nello stabilire a chi incomba l’onere probatorio, non potrà agire arbitrariamente ma dovrà farsi guidare dalle regole elaborate dai

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giuristi nel corso dei secoli; regole che hanno una loro saggezza anche se vanno applicate con elasticità e buon senso.

Discente: Mi puoi indicare alcune di tali regole?

Docente: Ti dirò la principale, che è questa: l’onere di provare va addossato a chi più facilmente può assolverlo. Di conseguenza, dovendosi decidere, se incomba all’imputato provare il fatto (negativo) che egli non ha mai posseduto una rivoltella o se incomba al pubblico ministero provare il fatto (positivo) che egli ha posseduto una rivoltella, si dovrà decidere per la seconda alternativa: infatti la prova di un fatto negativo è più difficile a darsi che la prova di un fatto positivo (anche se spesso – ecco perché va fatta attenzione nell’applicazione di ogni regola! - la prova di un fatto negativo si risolve facilmente nella prova di un fatto positivo: l’imputato può provare facilmente che il 12 dicembre non era a Roma provando che il 12 dicembre era a Honolulu).Può considerarsi un corollario di questa regola quella che vuole che l’onere probatorio sia addossato alla parte a cui riesce più facile procurarsi la prova. Per rifarci ad un esempio già introdotto, deve essere l’imputato a portare al giudice la documentazione comprovante l’avvenuta oblazione del reato, perché per procurarsela non ha…che aprire il cassetto in cui l’ha riposta.Altre regole si potrebbero ancora enunciare ma non vale la pena di farlo, perché in definitiva il modo migliore per risolvere i problemi che presenta la materia dell’onere della prova è quello di affidarsi, non a delle regole rigide, ma al buon senso.

Lezione 3 - Scienza privata, regole di esperienza, fatto notorio, prova legale

Discente: Se davanti a un giudice si discute la causa in cui certo Pasqualino accusa certo Bacciccia di averlo ingiuriato dandogli del “cavilloso”, e fortuna ha voluto che il giudice sia stato presente al litigio, quale migliore prova il giudice potrà avere, di quel che è effettivamente passato tra i due litiganti, di quel che i suoi occhi e le sue orecchie gli possono dare? che bisogno c’è che il pubblico ministero e il querelante si affannino e perdano tempo a portare le prove di quel che il giudice già, per sua scienza privata, conosce?

Docente: E invece il divieto per il giudice di attingere alla sua scienza privata – divieto che costituisce un principio non chiaramente espresso in nessuna norma del nostro Ordinamento, ma non per questo meno sicuro e indiscutibile – è giustificato da varie e ottime ragioni.

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La prima è che le parti hanno diritto di conoscere gli elementi di fatto su cui il giudice può essere portato a fondare la sua sentenza.

Discente: Perché?

Docente: Perché solo conoscendo tali elementi le parti potranno discuterne la rilevanza giuridica. Mi spiego meglio, riferendomi all’esempio da te introdotto: nessuna prova è emersa nel processo che il buon Bacciccia abbia dato del cavilloso a Pasqualino, però il giudice con le sue orecchie ha sentito tale parola e …pronuncia una bella sentenza di condanna: perché ciò sarebbe ingiusto e lesivo dei diritti di difesa dell’imputato? Perché il suo difensore - che di fronte alla mancanza di ogni prova contro il suo assistito aveva laconicamente chiesto la sua assoluzione “perché il fatto non sussiste” – se mai avesse saputo che il giudice aveva di persona sentita la parola “cavilloso” uscire dalla bocca del Bacciccia, si sarebbe comportato in maniera ben diversa.

Discente: E come? che avrebbe potuto dire contro una prova così irrefutabile come quella che le sue proprie orecchie al giudice avevano fornito?

Docente: Avrebbe se non altro potuto sostenere che il fatto non costituiva reato; avrebbe potuto sostenere che la parola “cavilloso” non costituisce un’ingiuria.

Discente: Se è questo l’inconveniente – voglio dire, l’inconveniente che comporterebbe l’utilizzazione della scienza privata del giudice – facile sarebbe trovargli il rimedio: si permette, sì, al giudice di attingere alla sua scienza privata dei fatti di causa, ma dopo averla comunicata alle parti: aperto il dibattimento, il giudice dichiara: io di persona ho sentito dire ecc. ecc.

Docente: Certo, allora l’inconveniente, da me prima denunciato, più non sussisterebbe; però, ne sorgerebbero altri.

Discente: Quali?

Docente: Primo inconveniente, quello che si verrebbero a cumulare nella stessa persona le funzioni di giudice e di teste; dato che, è chiaro, che non si potrebbe negare alle parti il diritto di porre delle domande al giudice: per sapere che cosa ha esattamente visto e sentito, per sapere se era in grado di vedere e sentire bene. Secondo inconveniente, quello che il giudice, facendo una dichiarazione inevitabilmente favorevole a questa o a quella parte, perderebbe la sua “imparzialità”, la sua capacità di valutare serenamente quelle ulteriori prove, che

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pur potrebbero dimostrare ad un occhio più obiettivo l’eventuale errore di percezione in cui eventualmente egli fosse caduto. Ecco perché è assolutamente pacifica la bontà e la fondatezza del principio che fa divieto al giudice di attingere alla sua scienza privata dei fatti di causa. C’è da aggiungere però che questo, come ogni buon principio che si rispetti, ha la sua brava eccezione.

Discente: Quale?

Docente: Quella data dai cosiddetti “fatti notori”.

Discente: Parliamo dunque di questi fatti notori.

Docente: Ne parleremo, ma prima è opportuno dire qualche cosa sulle “massime d’esperienza”.

Discente: Che cosa sono le “massime d’esperienza”?

Docente: Sono generalizzazioni basate su un certo numero di esperienze precedenti. Si esperimenta che dati i fatti: A1, A2, A3 ecc. si verifica l’evento X e si generalizza affermando: tutte le volte che viene in essere un fatto A (cioè un fatto che presenta le stesse caratteristiche di: A1, A2, A3 ecc) viene ad esistenza anche l’evento X.

Discente: Quindi ogni massima d’esperienza deriva dalla conoscenza di certi fatti, per cui chi afferma e, comunque, si basa, su una massima d’esperienza, afferma e comunque si basa sulla conoscenza ch’egli ha, direttamente o indirettamente, di certi fatti.

Docente: Giustissimo, sei veramente bravo; e senza dubbio cominci a capire perché ti sono venuto a parlare delle massime d’esperienza, subito dopo averti parlato del divieto per il giudice di utilizzare la scienza ch’egli abbia di certi fatti.

Discente: Capisco perfettamente: invero logica vorrebbe che, come al giudice è fatto divieto di far uso della conoscenza ch’egli per ventura abbia di certi fatti, così gli venisse fatto divieto di far uso delle massime d’esperienza, dato che basarsi su una massima d’esperienza, ad esempio sulla massima che dopo un lampo nel cielo segue un tuono, è possibile solo utilizzando la conoscenza dei fatti su cui la massima si fonda: il giudice non potrebbe dire che dopo un lampo segue un tuono, se non avesse mai assistito a un temporale.

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Docente: Oppure, se non avesse appreso la massima d’esperienza, che dopo un lampo segue un tuono, da chi ha assistito a un temporale. Il che non cambia la sostanza del discorso.

Discente: Che è, se ho ben capito, che come vi è un divieto per il giudice di utilizzare la sua scienza privata (cioè le conoscenze che ha appreso, direttamente, dai suoi sensi, o, indirettamente, da terzi fuori del processo), così dovrebbe esserci un divieto per il giudice di utilizzare le massime d’esperienza da lui apprese direttamente, o indirettamente fuori dal processo.

Docente: E in effetti anche in materia di massime d’esperienza vige un principio assai affine a quello del divieto della scienza privata del giudice, che abbiamo prima visto. E questo principio vuole che il giudice, anche se sa ed è convinto di una massima d’esperienza, non se ne serva, salvo quanto diremo subito dopo, finché tale massima non è espressa nel dictum di un perito da lui nominato o di un consulente tecnico nominato dalle parti.

Discente: Il principio di cui tu parli è espresso da una norma di legge?

Docente: No, nel codice di procedura non c’è nessun articolo che imponga al giudice di procedere a una perizia per acquisire al processo una massima d’esperienza. Anzi, come vedremo subito, il nostro legislatore sembra più preoccupato di porre limiti al ricorso a perizie, finalizzate all’acquisizione di massime d’esperienza, che a imporre il ricorso a tali perizie. Però l’esistenza del principio di cui Ti dicevo costituisce un autorevole insegnamento della nostra Suprema Corte di Cassazione; insegnamento che, cosa interessante, è ricavato dal principio del contraddittorio, cioè, dallo stesso principio che, come abbiamo visto, giustifica il divieto della scienza privata del giudice. E in effetti solo quando la massima d’esperienza emerge, per così dire, nel processo, le parti e i loro consulenti possono attivare un contraddittorio efficace sull’effettiva esistenza della massima e sui suoi limiti.

Discente: Ma tu hai detto che il Legislatore pone dei limiti all’ammissibilità di perizie volte a ricavare delle massime d’esperienza.

Docente: In effetti il nostro Legislatore nell’articolo 220 così dispone: “La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati e valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche”.

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Discente: Non contraddice tale disposizione l’esistenza del principio di cui tu parlavi?

Docente: No, ma ne limita, e giustamente, la portata.

Discente: Perché dici che giustamente ne limita la portata?

Docente: Perché nel nostro Ordinamento non vi è solo il principio del contraddittorio ma anche il principio di economia processuale. Guai a noi, se il giudice potesse utilizzare ai fini della sua decisione solo le massime d’esperienza espresse dal dictum di un perito o di un consulente tecnico: i costi dei processi salirebbero in modo esponenziale e i ritardi nella loro conclusione anche. Il giudice deve poter utilizzare per la sua decisione, anche se non risultanti dal dictum di una persona in materia perita, tutte quelle massime d’esperienza che rientrano nella cultura comune. Dirò di più. Può utilizzare anche quelle massime d’esperienza, che pur non rientrando nella cultura comune, rientrano nella comune cultura degli Uomini di legge che sono specializzati nella materia trattata nel processo. E così il giudice di una causa per lesioni colpose cagionate da violazione delle norme sulla circolazione stradale, senza ricorrere a perizia, potrà mettere a base della sua decisione le massime di esperienza sui tempi di frenatura dei veicoli procedenti ad una data velocità.

Discente: Ma ci potrebbe anche essere il difensore che non conosce tali massime perché non aduso ai processi per infortunistica stradale.

Docente: Peggio per lui, e peggio per il suo cliente, che doveva scegliersi come difensore un avvocato specializzato nella materia dell’infortunistica.

Discente: La possibilità di utilizzazione da parte del giudice di massime d’esperienza rientranti nella presumibile comune cultura degli Uomini di legge ……

Docente: Scusa se ti interrompo: possibilità, bada, di utilizzazione senza necessità che il giudice ponga per così dire sul tappeto la sua conoscenza della massima ….

Discente: Si, certo, è importante rilevarlo, ebbene questa possibilità di utilizzazione delle massime presumibilmente rientranti nella cultura comune degli Uomini di legge, senza necessità per il giudice di porle, come tu osservavi, sul tappeto processuale, costituisce certamente una eccezione al principio del divieto della scienza privata del giudice. Ma non l’unica eccezione, debbo dedurre da quel tuo precedente cenno riferito ai fatti notori.

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Docente: Si, come il giudice può utilizzare la conoscenza ch’egli abbia di certe massime d’esperienza, senza avere il dovere di comunicarlo alle parti, così egli può utilizzare la conoscenza ch’egli abbia di certi fatti senza avere tale dovere. Tali fatti, per cui è ammessa la deroga al divieto della scienza privata del giudice, si chiamano appunto “fatti notori”.

Discente:E risulta chiaro da quel che tu hai detto, che, la deroga per i fatti notori, ha fondamento in quello stesso principio di economia processuale che giustifica la deroga per le massime d’esperienza – naturalmente mi riferisco a quelle massime che non debbono entrare nel processo necessariamente tramite la perizia.Vuoi, per finire, dare qualche esempio di fatto notorio?

Docente: Pensa, all’alluvione che colpì Firenze, alla guerra del golfo… insomma a tutti quegli eventi che puoi leggere su un giornale. Anche se devi tenere presente che vi possono essere fatti notori mai saliti agli onori della stampa: l’importante perché un fatto sia ritenuto notorio è solo che si possa presumere che rientri nella comune cultura degli Uomini di legge.

Discente: Cambiamo ora completamente argomento: parliamo della prova legale. Che cosa si intende per prova legale?

Docente: Per quel che riguarda la valutazione della prova, un legislatore può seguire due diverse linee di condotta: può rimetterla al giudice, oppure può riservarla a sé medesimo. Gli ordinamenti in cui la valutazione della prova è prevalentemente rimessa al giudice, si dicono ispirati al principio del libero convincimento; quelli in cui la valutazione della prova è prevalentemente riservata al legislatore, si dicono ispirati al principio della prova legale.

Discente: Quali sono i motivi che possono spingere un legislatore ad adottare il principio del libero convincimento?

Docente: La sfiducia nella propria capacità di prevedere tutte le possibili situazioni che possono presentarsi a un giudice e la volontà di evitare quei casi dolorosi in cui la valutazione legislativa della prova, rivelandosi imperfetta e lacunosa, porterebbe alla condanna di una persona sicuramente innocente o all’assoluzione di una persona sicuramente colpevole.

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Discente: E ora, quali i motivi che possono spingere un legislatore ad adottare il sistema della prova legale?

Docente: Presto detto: la sfiducia del legislatore nella capacità del giudice di far buon uso dei poteri discrezionali eventualmente rimessegli e la volontà di evitare disparità di trattamento dovute alla possibilità che giudici di mentalità diversa diano di identiche prove valutazioni diverse.

Discente:Il nostro Ordinamento a quale principio si ispira?

Docente: Senza dubbio a quello del libro convincimento. Anche se non mancano le norme che vincolano il giudice a una determinata valutazione della prova.

Discente: Ad esempio?

Docente: L’esempio, diciamo così, classico, si trova nell’articolo 240, che nel suo primo comma recita: “I documenti che contengono dichiarazioni anonime non possono essere acquisiti né in alcun modo utilizzati salvo che costituiscano corpo di reato o provengano comunque dall’imputato”.

Discente: Tu hai detto che l’adozione del principio del libero convincimento comporta il pericolo di abusi da parte del potere giudiziario; contro tale pericolo non è possibile nessuna difesa?

Docente: Si, una difesa è possibile anche se molto imperfetta, ed è l’imposizione al giudice dell’obbligo di motivare l’uso del potere discrezionale a lui concesso. Consapevole di ciò il nostro legislatore nell’articolo 192 stabilisce: “Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati e dei criteri adottati”.

Discente: Certamente se il giudice fosse costretto a scrivere nella sentenza i veri motivi che l’hanno indotto a emetterla, egli ben si guarderebbe dal prendere una decisione per motivi inconfessabili, ad esempio per favorire o nuocere all’imputato. Ma in realtà chi mai può costringere il giudice a scrivere dei motivi veri e non dei motivi di comodo in grado di nascondere i motivi veri? Io giudice condanno l’imputato perché mi è antipatico e poi motivo “Le dichiarazioni concordi dei testi Primo e Secondo non lasciano dubbi sulla colpevolezza dell’imputato”.

Docente: Quello che dici tu è verissimo. Vero è anche che, come le bugie hanno le gambe corte, anche le motivazioni di comodo molto spesso cadono in contraddizioni. E studiando la motivazione vedremo che, in caso di motivazione

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contraddittoria, l’articolo 606 nella lettera (e) del suo primo comma impone l’annullamento del provvedimento (contraddittoriamente motivato). Va aggiunto che sempre l’articolo 606 e sempre nella sua lettera (e) impone l’annullamento in caso di mancanza di motivazione. E va notato, perché è cosa importantissima per bene inquadrare l’effettivo potere che il giudice ha nella valutazione della prova, che è equiparata dalla nostra Corte Suprema di Cassazione alla motivazione mancante una motivazione cervellotica, avulsa da ogni collegamento ad una valida regola di esperienza: per intenderci, una motivazione del tipo: “io giudice ho condannato sulla base delle dichiarazioni del teste Rossi perché questi mi ha ispirato un’assoluta fiducia”.

Discente: Come dovrebbe invece risultare una motivazione sull’attendibilità di una testimonianza per non essere equiparata a una motivazione mancante?

Docente: Dovrebbe far riferimento a valide regole di esperienza; ad esempio dire: “la testimonianza di Rossi va considerata attendibile per essere egli completamente disinteressato nella causa e per la coerenza delle sue dichiarazioni”.

Discente: Dove le valide regole di esperienza che nel caso entrerebbero in gioco, anche se non espresse, sarebbero: “Chi non ha interesse a mentire di solito dice il vero” “Chi dice il vero di solito non si contraddice”. Capisco. E capisco anche perché tu hai prima detto che la considerazione che andavi a fare sulla equiparazione tra motivazione cervellotica e motivazione mancante era importantissima per bene inquadrare la natura del potere che il giudice ha nella valutazione della prova. E penso di poter concludere, alla luce proprio di questa tua considerazione, che tale potere è, si, discrezionale, ma non arbitrario, in quanto va esercitato in base a un ragionamento e non in base ad impressioni e più o meno confuse intuizioni. Ho concluso rispecchiando bene il tuo pensiero?

Docente: Hai concluso benissimo: di meglio io no avrei saputo dire.

Lezione 4 - Terminologia sulla prova

Discente: In quale parte del codice il nostro Legislatore dà una disciplina sistematica alla materia delle prove?

Docente: Nel libro terzo; articoli 187 e seguenti. In tale sede, dopo aver date delle disposizioni di carattere generale in pochi articoli che costituiscono il titolo primo del libro, disciplina, nel titolo secondo, i mezzi di prova e, nel titolo terzo, che

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costituisce anche l’ultimo titolo del libro dedicato alle prove, i mezzi di ricerca della prova.

Discente: Col termine, “mezzi di prova” a che si riferisce il Legislatore?

Docente: Alla testimonianza, a cui dedica il capo I, artt. 194 segg.; all’esame delle parti, a cui dedica il capo II, artt. 208 segg.; ai confronti, a cui dedica il capo III, artt. 211 segg.; alle ricognizioni, a cui dedica il capo IV, artt. 213 segg.; agli esperimenti giudiziali, a cui dedica il capo V, artt. 218 segg.; alla perizia, cui dedica il capo VI, artt. 220 segg.; e infine ai documenti, a cui dedica il capo VII, artt. 234 segg.

Discente: E a che intende riferirsi il nostro Legislatore col termine “mezzi di ricerca della prova”?

Docente: Alle ispezioni, a cui dedica il capo I del titolo terzo, artt. 244. segg.; alle perquisizioni, a cui dedica il capo II, artt.247 segg.; ai sequestri, a cui dedica il capo III artt. 253 segg.; e, infine, alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, a cui dedica l’ultimo capo del titolo terzo, il capo IV, artt. 266 segg.

Discente: L’elenco, fatto dal legislatore, dei mezzi di prova e dei mezzi di ricerca della prova è tassativo?

Docente: No, tale elenco non è tassativo; ciò che significa che nel processo si può, ad esempio, utilizzare un mezzo di prova che non risulta indicato nel codice.

Discente: Lo dice un articolo del codice stesso?

Docente: Lo dice l’articolo 189, che, sotto la rubrica “Prove non disciplinate dalla legge”, recita: “Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione, sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova”. Come ti risulta dalla lettura ora fatta, due sono i requisiti per l’ammissione di una prova non disciplinata dalla legge. Primo requisito: la prova deve essere idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti. Secondo requisito: la prova (melius, l’assunzione della prova) non deve pregiudicare la libertà morale della persona.

Discente: Il primo requisito, mi sembra ovvio: sarebbe assurdo assumere una prova che non fosse idonea a contribuire all’accertamento dei fatti.

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Docente: Bada che la prova di cui parliamo, la prova non disciplinata dalla legge, per essere ammessa, non solo deve essere idonea a contribuire all’accertamento dei fatti, ma deve essere idonea ad “assicurare (sottolineo, assicurare) l’accertamento dei fatti”. Cioè il Legislatore, mentre per l’ammissione di una prova codificata si accontenta che la sua assunzione possa portare luce sui fatti, per cui anche una persona, sospetta perché interessata alla causa, deve essere ammessa a testimoniare, insomma il giudice non può dire aprioristicamente “Questo teste non lo sento perché so già che non dirà la verità”; invece per quel che riguarda le prove non codificate vale il contrario: tu. giudice, non devi ammetterle, se hai ragione di dubitare che i risultati dell’assunzione della prova non diano affidamento di far luce sui fatti. Pensa al lie-detector, lo scopri-bugie, la cosiddetta macchina della verità: a priori non si può escludere che, se utilizzata, porti a scoprire le bugie dell’interrogato e quindi a accertare la verità. Ma siccome sul punto è lecito il dubbio e si tratta di prova non codificata, tu, giudice non devi ammetterla.

Discente: Veniamo al secondo requisito: quand’è che si deve ritenere che l’assunzione di una prova pregiudichi la libertà morale di una persona?

Docente: Non è facile rispondere a tale domanda; perché, se si prendesse la disposizione legislativa alla lettera – siccome può propriamente dirsi che una prova pregiudica la libertà morale di una persona solo quando di per sè stessa o per le modalità della sua assunzione viene a condizionare le scelte della stessa - si dovrebbe ritenere che anche l’assunzione di una testimonianza pregiudica la libertà morale della persona interrogata: questa infatti sentendosi minacciata di pena se ritenuta, a torto o a ragione, colpevole di dire il falso, potrebbe essere portata ad astenersi dal dire cose che, se si fosse sentita pienamente libera, avrebbe detto.

Discente: E allora?

Docente: Allora, per ottenere il vero significato dell’articolo 189, l’articolo che abbiamo iniziato a esaminare, dobbiamo chiedere lumi all’articolo che lo precede, l’articolo 188 – il quale ci dice che “Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti”.

Discente: Perché ritieni che l’articolo 188 sia così importante per comprendere che cosa realmente intende dire il legislatore nell’articolo 189 quando parla di prova che “pregiudica la libertà morale della persona”?

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Docente: Perchè l’articolo 188, pur portando in rubrica la dicitura “libertà morale della persona nell’assunzione della prova”, poi viene a vietare tecniche idonee - non a

condizionare la volontà della persona (solo caso in cui si potrebbe parlare propriamente di lesione alla sua libertà morale), ma - ad alterare la volontà della persona; autorizzando così la conclusione che il legislatore solo per improprietà o per un sussulto demagogico abbia detto nell’articolo 188 di vietare le prove idonee a pregiudicare la libertà morale.

Discente: Per capirti meglio, vuoi darci un esempio di volontà “condizionata” e un esempio di volontà “alterata”?

Docente: Un esempio di volontà condizionata lo abbiamo già visto: è quello del teste che fa le sue dichiarazioni dovendo tenere conto della minaccia della sanzione che lo sovrasta. Un esempio di volontà alterata è quello dell’uomo sotto suggestione ipnotica.

Discente: Si, ma che differenza c’è tra il caso del teste e dell’uomo sotto ipnosi?

Docente: Questa: la persona che sta testimoniando, è nel pieno possesso delle sue facoltà e in particolare della sua volontà, semplicemente questa sua volontà deve tenere conto di certi elementi che ne condizionano le scelte. Invece, la persona sotto ipnosi, si trova ad avere una volontà indebolita, in quanto è succube dell’ipnotizzatore.

Discente: E perché il legislatore si preoccupa di vietare le tecniche di assunzione della prova che implicano un’alterazione della volontà?

Docente: Perché le tecniche che alterano la volontà, così come del resto quelle, di cui parla l’ultima parte dell’articolo 188, che alterano le facoltà che presiedono alla memoria e alla valutazione dei fatti, fanno correre il rischio che il dichiarante, reso incapace di censurare le pulsioni autodistruttive e comunque patologiche che emergono dal suo subconscio, venga a dire, in buona fede, cose false.

Discente: Quindi, se ho ben capito, secondo te il legislatore farebbe divieto di tali tecniche, non tanto per salvaguardare la libertà morale, quanto per garantire la genuinità della prova.

Docente: Esatto.

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Discente: Abbiamo visto alcuni casi di prove non codificate che sarebbero inammissibili: prove ottenute col lie-detector, con l’ipnosi, con la somministrazione di farmaci. Facci ora qualche esempio di prova non codifica invece ammissibile.

Docente: L’individuazione fotografica.

Discente: Che si ha?

Docente: Quando si invita una persona, ad esempio la persona rapinata, a dire se, in una delle fotografie che le si mostrano, riconosce un dato individuo: nell’esempio introdotto, il rapinatore.

Discente: Ed ora dacci un esempio di mezzo di ricerca della prova non codificato.

Docente: Come tale si porta di solito il pedinamento.

Discente: Voltiamo pagina. Prima di addentrarci ancora più nell’argomento della prova riterrei opportuno dire qualcosa sulla terminologia usata in tale materia. D’accordo?

Docente: Si, ma tieni presente che, la terminologia nella materia che stiamo trattando, è una vera e propria torre di babele: è cosa frequente che lo stesso termine assuma nelle pagine di Autori diversi un diverso significato.

Discente: Limitati allora a dirci il significato che tu ritieni più appropriato per i termini più usuali: tema di prova, elemento di prova, fonte di prova, mezzo di prova, mezzo di ricerca della prova. Diccelo però saltando le definizioni: che queste non fanno altro che complicare il discorso.

Docente: D’accordo, lo dirò partendo da degli esempi.

Discente: Dacci per cominciare degli esempi di temi di prova.

Docente: Poni che il tre gennaio alle ore 21 certa Addolorata sia stata accoltellata in casa sua e poni che secondo la tesi della pubblica accusa: 1) l’omicida sia penetrato nella casa della povera Addolorata attraverso il giardino; 2) alle ore 20 l’imputato sia stato visto entrare in tale giardino. In tal caso sarebbero temi di prova per la pubblica accusa i fatti indicati sub 1) e sub 2) e cioè che l’omicida sia penetrato attraverso il giardino ecc.; che l’imputato sia stato visto entrare ecc. ecc.

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Discente: E ora dacci un esempio di fonte di prova.

Docente: Poni che la signora Maria Rosa sia (secondo la pubblica accusa) la persona che ha visto l’imputato entrare nel giardino. In tal caso, Maria Rosa deve considerarsi una fonte di prova (dal punto di vista della pubblica accusa, naturalmente).

Discente: Nel caso la fonte di prova è una persona, ma, se ho capito bene, in un altro caso potrebbe essere un documento.

Docente: Certo: ad esempio la lettera in cui l’imputato confessa il suo delitto: il sogno di ogni pubblico ministero.

Discente: E ora facci un esempio di elemento di prova.

Docente: La signora Rosa, chiamata al banco dei testimoni, dichiara: “Si, ho visto l’imputato entrare nel giardino”.

Discente: Ovviamente l’elemento di prova è dato dalla dichiarazione della signora Rosa. Ora andiamo nel difficile: un esempio di mezzo di prova.

Docente: Qui effettivamente andiamo nel difficile. Per capire il concetto di mezzo di prova bisogna che tu tenga presente un fatto che a tutta prima ti può sembrare strano.

Discente: E cioè

Docente: Che l’elemento di prova tu lo puoi ricavare dalla fonte di prova con vari mezzi, o, se più piace così esprimersi, in vari modi. Ad esempio la preziosa (preziosa per il pubblico ministero) dichiarazione di aver visto l’imputato entrare nel giardino dell’uccisa,il pubblico ministero la può cavare, scusami l’espressione, dalla bocca della signora Rosa in almeno due modi. Ponendole semplicemente la domanda: “Ha visto entrare nel giardino l’imputato?”Al che la signora risponderà (se tutto va secondo i piani del pubblico ministero): “Si, l’ho visto”.

Discente: Risposta questa però che lascerà aperto il dubbio che la signora Rosa abbia scambiata una persona per un’altra.

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Docente: Cosa per cui, tu, pubblico ministero intelligente, come mezzo per ottenere il tuo prezioso elemento di prova, non userai la sempliciotta tecnica di porre al teste la domanda “Ha visto l’imputato entrare ecc. ecc.”, ma dopo, e solo dopo, che l’imputato sarà stato messo tra più persone, porrai la domanda “Lei riconosce tra queste persone quella che vide entrare nel giardino?”.

Discente: Cioè il p.m. farà la domanda nel contesto di una ricognizione, il mezzo di prova disciplinato dal legislatore negli articoli 213 e seguenti del codice.

Docente: Per cui concludendo, nel caso il pubblico ministero per ottenere il suo elemento di prova avrebbe a disposizione due diversi mezzi: l’esame del teste (il mezzo di prova disciplinato dal legislatore negli articoli 194 e seguenti), e la ricognizione di persone (il mezzo di prova disciplinato negli articoli 213 e seguenti).

Discente: Dulcis in fundo: un esempio di mezzo di ricerca di prova.

Docente: Qui la risposta è veramente facile: la perquisizione.

Discente: Chiarito cosa si deve intendere per tema di prova, elemento di prova eccetera, cerchiamo ora di chiarire alcune distinzioni usualmente adottate in materia di prova. Prove personali e prove reali: a che ci si riferisce quando si parla delle une e delle altre?

Docente: Quando si parla di prove personali, ci si riferisce alle fonti di prova costituite da una persona: un testimone, l’indagato, la parte civile, sono tutte prove personali.Quando si parla di prove reali, ci si riferisce alle fonti di prova costituite da cose: una lettera, una impronta digitale, il coltello usato per uccidere o ferire sono tutte prove reali.

Discente: Che cosa si deve intendere per prove storiche (o rappresentative) e prove critiche (o indiziarie o logiche).

Docente: Quando si parla di prove storiche (o rappresentative) ci si riferisce alle dichiarazioni, poco importa se scritte o orali.

Discente: Dichiarazioni solo di terzi?

Docente: Di terzi o anche delle parti in causa: la lettera in cui l’indagato confessa il reato è una prova storica o rappresentativa.

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Discente: E le prove critiche o indiziarie o logiche?

Docente: Esse sono date dalle deduzioni logiche che da un fatto si possono trarre. Ad esempio, dal fatto che l’indagato fu visto con l’abito macchiato di sangue si deduce ch’egli abbia commesso l’omicidio.

Discente: Quindi prova storica o rappresentativa sarebbe quella che permette direttamente di arrivare al factum probandum e prova critica, indiziaria o logica sarebbe quella che permette di arrivarvi solo per deduzione.

Docente: Questo è il criterio distintivo che autorevolmente si propone.

Discente: A dir il vero non mi sembra un criterio molto centrato. Infatti a rigore anche una testimonianza ha valore di prova per le deduzioni logiche che da essa si traggono. La signora Rosa mi dichiara di aver visto il Bacciccia entrare un po’ brillo nel giardino della Beppa e io: dal fatto che in base all’id quod plerumque accidit nessuna persona accusa di un delitto un’altra se contro questa non ha motivi di astio; dal fatto ancora che la mia buona signora Rosa, che mi dichiara di aver visto ecc. ecc., non ha motivi di astio contro il Bacciccia, deduco che effettivamente questi un bel giorno, ubriaco fradicio, decise di entrare nel giardino della Beppa.

Docente: Non posso che essere d’accordo con te. E personalmente io riterrei miglior criterio di distinzione tra i due tipi di prova il seguente: sono prove storiche o rappresentative quelle fonti di prova che una volta ritenute sincere e veridiche provano irrefutabilmente il factum probandum.

Discente: Spiegati meglio.

Docente: Pensa alla nostra signora Rosa che ti viene a dichiarare di aver visto il Bacciccia entrare ecc. ecc.: tu puoi dubitare che la signora Rosa dica il vero, ma, risolto positivamente tale dubbio (perché non ha motivi d’astio col Bacciccia, perché nonostante l’età ha un’ottima vista ecc.), non puoi non ritenere provato che il Bacciccia sia entrato nel giardino della Beppa. Diverso il caso della prova critica o indiziaria o logica: per rifarci all’esempio prima introdotto: anche se ritieni certo e sicuro che effettivamente l’indagato avesse il vestito macchiato di sangue, non per questo puoi dedurre con assoluta certezza che l’indagato sia l’assassino: forse che egli non avrebbe potuto macchiarsi il vestito cercando di soccorrere una persona infortunatasi?

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Discente: Capisco e…passo a proporti un’altra distinzione che di solito si fa: quella tra prova precostituita e prova costituenda.

Docente: Questa è una distinzione che non presenta problemi. Prove precostituite sono: un documento (una lettera, il verbale di un altro processo…), la traccia lasciata nel locus delicti, il corpo del reato, insomma ogni prova che si sia formata al di fuori del processo. Prove costituende sono invece: la testimonianza, una ricognizione, un esperimento giudiziale, insomma ogni prova che deve formarsi nel processo.

Discente: Ultima distinzione: quella tra prova generica e prova specifica.

Docente: La prima si riferisce all’esistenza del reato, cioè prova se vi fu, o no, un omicidio, un falso, un furto. La seconda si riferisce all’autore del reato, cioè prova se fu, o no, Pinco Pallino a commettere l’omicidio, il furto, la rapina.

Discente: Da che derivano questi termini un po’ astrusi e soprattutto un po’ sfuorvianti: “prova generica” “prova specifica”?

Docente: Derivano dai giuristi medioevali. I quali essendo portati ad approfondire le cose, e forse più di noi, rifletterono che la semplice prova di un reato, per esempio di un omicidio, non permetteva ancora di dire di che reato si trattasse, la sua specie insomma; in quanto un omicidio potrebbe essere un parricidio se ne è autore il figlio, un uxoricidio, se ne è autrice la moglie e così via. E pertanto chiamarono generica la prova dell’esistenza del reato e specifica la prova dell’autore del reato.

Discente: Specifica con tutta evidenza perché permetteva di individuare la specie, il tipo di reato commesso. Ma ha ancora importanza questa distinzione?

Docente: Secondo alcuni, si – e questo perché la prova che si dovrebbe pretendere dell’ingenere, cioè dell’esistenza del reato, dovrebbe essere più chiara e forte di quella relativa allo specifico, cioè relativa a chi è autore del reato.

Lezione 5 - Affidabilità della prova e diverse modalità di escussione della relativa fonte

Docente: Mettiamo che Ercolino sieda sul banco degli imputati con la grave accusa di aver causato, durante un alterco, la morte di un vecchietto. La signora Filomena,

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come teste presente al fatto, dichiara: “Sì, l’imputato è un assassino: l’ho visto mettere le mani addosso al vecchietto”. Chiaramente se dovessimo dare un voto all’affidabilità di tale dichiarazione dovremmo darle cinque, insufficiente.

Discente: Insufficiente, perché?

Docente: Perché l’affermazione “è un assassino”, non informa su un fatto, ma dà un giudizio – un giudizio che, provenendo da persona digiuna di ogni nozione giuridica, è ben sospettabile d’errore.

Discente: Ma il teste non si è limitato a dire che l’imputato è un assassino; ha detto anche che ha “messe le mani addosso” al vecchietto.

Docente: Si, ma tale affermazione può significare un mucchio di cose: può significare che l’imputato ha dato un pugno o addirittura una gragnola di pugni al vecchietto, può significare che l’ha spintonato, può infine significare che l’imputato si limitò – proprio come la difesa vuole sostenere - a porre la sua manona sulle spalle del vecchietto e che, essendo lui, un omaccione, e, il vecchietto, traballante sulle gambe, questi cadde, picchiò malamente la testa e…rese l’anima a Dio.

Discente: Hai ragione. E’ evidente che bisogna chiarire l’esatto significato delle parole del teste.

Docente: E qui entra in scena il difensore, l’avvocato che Ercolino si è scelto tra i più bravi: un principe del Foro.

Discente: E, certo, se un imputato rischia nel processo la multa e niente più, può accontentarsi di un difensore alle prime armi, ma quando rischia il carcere e per parecchi anni, come il nostro Ercolino, pretende di essere difeso da un avvocato in gamba.

Docente: E appunto perché sveglio e in gamba, il difensore scelto da Ercolino fa alla Filomena delle domande.

Discente: Domande del difensore e risposte del teste: riportiamo le une e le altre come in uno sketch.

Docente: Si, ecco come possiamo costruire questo che sarà il nostro primo skech.

Discente: A cui ne faremo seguire altri?

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Docente: Certo, perché l’idea che ti è venuta è buona.Quindi primo sketch:Difensore: “Ha visto l’imputato dare dei pugni al vecchietto?”Teste: “No”.Difensore: “Ha visto dargli degli schiaffi?”Teste: “No”.Difensore: “Posso dire che l’imputato non ha percosso il vecchietto?”Teste: “Si può dirlo: effettivamente l’imputato non ha percosso il vecchietto”.

Discente: Fine dello sketch e colpo di scena: la situazione si è ribaltata: Ercolino verrà assolto.

Docente: Troppo presto lo dici. Non devi dimenticarti del pubblico ministero, che, certo, non può non trovare equivoca la risposta del teste: essa esclude che l’imputato abbia dato pugni e schiaffi, ma non esclude che abbia spintonato il vecchietto. Di conseguenza anche il pubblico ministero pone delle domande al teste.

Discente: Avanti quindi con il secondo sketch.

Docente: Ecco il secondo sketch in cui, lo dico subito, faremo entrare in scena anche il giudice.Pubblico ministero: “Ma lei prima ha detto che l’imputato ha messe le mani addosso al vecchietto: vuole rimangiarsi quello che tutti abbiamo sentito?”Teste: “No, quando ho detto che l’imputato ha messe le mani addosso al vecchietto ho voluto dire solo che gli ha messa una mano addosso perché si facesse da parte”Pubblico Ministero: “Quando l’imputato ha spinto violentemente da parte il vecchietto ha gridato: brutto scemo, fatti da parte”?Difensore: “Mi oppongo a questa domanda perché dà per scontato che l’imputato abbia spinto violentemente il vecchio”.Giudice: “Opposizione accolta”Pubblico ministero: “Riformulo la domanda: è vero che l’imputato spinse violentemente il vecchietto?”Teste: “Questo lo escluderei: gli mise solo una mano sulla spalla”

Discente: Fine dello sketch. E questa volta veramente con partita vinta per la difesa.

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Docente: Fingiamo di si: un lieto fine ci sta sempre bene. Una cosa è certa, l’ultima risposta del teste è sicuramente più affidabile della prima. Ora se ci poniamo la domanda perché si è potuti giungere a tale prova più affidabile, a tale domanda dobbiamo rispondere così: alla prova più affidabile si è giunti perché sussistevano le seguenti tre condizioni.I-Prima condizione: perché hanno potuto porre delle domande il pubblico ministero e la difesa, cioè persone ben motivate a sostenere una data tesi e quindi non disposte ad accontentarsi di una qualsiasi prima risposta, contraria a tale tesi, data dal teste.II-Seconda condizione: perché il pubblico ministero e soprattutto il difensore erano rappresentati da persone scelte in considerazione dell’importanza della causa. Se l’imputato avesse scelto come difensore, non un principe del Foro, ma un azzeccagarbugli qualsiasi, forse alle risposte chiarificatrici della teste non si sarebbe mai giunti e la sentenza sarebbe stata presa sulla base della prima dichiarazione, secondo cui l’imputato “aveva percosso il vecchietto”.III-Terza condizione: c’era un giudice in grado di bloccare eventuali domande che potessero far dire al teste cose non rispondenti al suo reale pensiero.Di ciò dovremo ben ricordarci quando parleremo dell’utilizzabilità come prove: dei verbali redatti in processi penali (diversi da quello in cui i verbali sono prodotti); dei verbali redatti in processi civili; della testimonianza de relato e delle intercettazioni.

Discente: Perché questo?

Docente: Per quel che riguarda i verbali di un diverso processo penale, perché la loro affidabilità come prova è ridotta dal fatto che, anche se la difesa è stata posta in grado di porre direttamente delle domande, non è detto che tali domande siano state poste da avvocati all’altezza dell’importanza che il fatto accertando avrà nel successivo processo penale in cui i verbali saranno utilizzati. Nel verbale redatto davanti al Giudice di Pace risulta che, alla guida dell’auto marciante in quella data via della città di Roma il giorno tal dei tali, c’era l’imputato. L’accertamento di questo fatto aveva ben poca importanza nel processo davanti al Giudice di pace, però, nel processo in cui il verbale è prodotto, dal fatto che l’imputato si trovasse, o no, a Roma in quel dato giorno dipende la validità dell’alibi dall’imputato avanzato per sfuggire all’accusa di omicidio.Per quel che riguarda i verbali redatti in processi civili, si può dire che la loro affidabilità è ridotta, oltre per la ragione or ora esposta, anche perché raccolgono dichiarazioni fatte su domanda del giudice e non delle parti. E’ vero che il giudice civile formula le sue domande anche tenendo conto delle richieste delle parti, ma è anche vero che egli può non ammettere una domanda proposta da un difensore

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semplicemente perché, non avendo approfondito come questi la causa, di tale domanda non è in grado di cogliere l’importanza.Infine, per quel che riguarda le intercettazioni e le testimonianze de relato, si può dire che la loro affidabilità è ridotta perché, le dichiarazioni acquisite con le intercettazioni o riferite (il teste Rossi dichiara che Pinco Pallino ebbe a dichiarare in sua presenza questo e quest’altro), sono state fatte senza che le parti siano potute intervenire per chiedere chiarimenti (a Pinco Pallino).

Discente: Tutto quel che dici è vero; resta il fatto che tutti i tipi di prova, da te criticati per la loro inaffidabilità, sono però ammessi dal Legislatore: i verbali, con l’articolo 238; la testimonianza de relato, con l’articolo 195; le intercettazioni, con gli articoli 266 e seguenti.

Docente: Si, tali prove sono ammesse; però a certe condizioni e con certe cautele. Su questo punto mi riservo di tornare.

Discente: Negli sketches, che abbiamo sopra riportato, abbiamo dato alcuni esempi di interrogatorio incrociato, di cross-examination: non è opportuno vedere meglio ora come tale tipo di esame è regolato dal codice?

Docente: Si, lo faremo nella prossima lezione.

Lezione 6 - L’esame incrociato dei testi e delle parti

Discente: In che ordine si succedono pubblico ministero e difensori nel porre le domande ai testimoni? Quali domande possono porre e quali no?

Docente: La risposta alla prima domanda la troviamo nei primi tre commi dell’articolo 498, di cui tu cortesemente vorrai darci lettura.

Discente: Leggo: “Le domande sono rivolte direttamente dal pubblico ministero o dal difensore che ha chiesto l’esame del testimone”.

Docente: Stop, vediamo se hai capito: tu hai dedotto come teste la signora Rosa e ora è giunto il momento di sentire i tuoi testi.

Discente: Ma come faccio a sapere che è il momento di sentire i miei testi?

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Docente: Facendo un attenta lettura dell’articolo 496, il quale ha appunto la funzione di dire qual’è l’ordine nell’assunzione delle prove: quando cioè è il momento di sentire i testi del pubblico ministero e quando il momento di sentire i testi del difensore o della parte civile. Ora però parti da questo presupposto: è giunto il momento di sentire i testi da te dedotti e tu hai scelto di sentire per prima la signora Rosa.

Discente: Sono io a scegliere quale teste sentire per primo?

Docente: Certo, sei tu perché sei tu che conosci il teorema difensivo che vuoi dimostrare al giudice e sei tu che sai chi dei tuoi testi sa e può dire le cose che vanno dette per prime, chi sa e può dire le cose che vanno dette per seconde e così via. Ma andiamo avanti: dunque è venuto il momento di sentire Maria Rosa, chi comincerà a porle le prime domande?

Discente: Chiaro, sarò io; perché solo io so quel che sa la teste e quindi le domande a cui può dare risposta.

Docente: Ovvio, com’è ovvio che se la Maria Rosa fosse stata dedotta come teste dal pubblico ministero, naturalmente sarebbe il pubblico ministero a porre le prime domande. Chiarito bene quel che ci vuol dire il primo comma andiamo avanti con la lettura del secondo e terzo comma.

Discente: Leggo il secondo comma: “Successivamente altre domande possono essere rivolte dalle parti che non hanno chiesto l’esame, secondo l’ordine indicato nell’articolo 496”.

Docente: Stop. Seguire l’ordine indicato nell’articolo 496, significa che se tu, difensore dell’imputato, hai iniziato l’esame, ti succederanno nel porre le domande: prima il pubblico ministero, poi la parte civile eccetera. Chiarito questo, avanti con la lettura del terzo comma.

Discente: Leggo il terzo comma: “Chi ha chiesto l’esame può proporre nuove domande”.

Docente: L’esame di un teste, si svolge in tre fasi: la fase dell’esame diretto, in cui, chi ha chiesto l’esame, cerca di ottenere dalle risposte del teste la prova della sua tesi; la fase del controesame, in cui le parti avversarie, a turno, cercano di far dire al teste quelle cose favorevoli alla propria tesi che naturalmente l’esaminatore-diretto non aveva interesse a far risultare oppure cercano di screditare il teste

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dimostrando che (in buona o mala fede) non dice la verità.; e infine la fase del riesame, in cui la parte, che ha già svolto l’esame diretto, può proporre nuove domande al fine di chiarire a proprio favore le risposte che è riuscita ad ottenere la controparte.

Discente: Un esempio.

Docente: Potrebbe essere questo: il pubblico ministero contro- esaminando è riuscito ad ottenere la risposta “L’imputato spinse il vecchietto da parte”; il difensore, ritornato il suo turno, domanda “Lo spinse con l’intenzione di farlo cadere?”, sperando naturalmente nella risposta “No, lo spinse gentilmente per evitare che fosse investito”.

Discente: Il riesaminatore può con le sue “nuove domande” toccare punti, cercare di dimostrare fatti, che non sono stati oggetto dell’esame diretto? Faccio un esempio: il pubblico ministero ha ottenuto già nella fase dell’esame diretto la risposta “L’imputato diede una spinta al vecchietto”, naturalmente c’è il controesame e, quando la palla ritorna al pubblico ministero, egli domanda “E’ vero che l’imputato se ne andò senza preoccuparsi di soccorrere il vecchietto caduto a terra?”.

Docente: La lettera della legge non lo vieta. Però lo vieta il leale svolgersi del contraddittorio. Infatti il principio del contraddittorio pretenderebbe che la controparte, nel caso il difensore dell’imputato, una volta che il pubblico ministero avesse ottenuto la sperata risposta a se favorevole, potesse a sua volta porre delle domande per chiarire la portata di tale risposta: per riferirci all’esempio introdotto, per chiarire che l’imputato se ne andò perché già altre persone stavano soccorrendo il vecchietto.

Discente: E chi impedisce alla controparte di porre queste domande?

Docente: La Corte di Cassazione, che insegna – e secondo me giustamente – che ad un riesame non può seguire un nuovo controesame. E questo perché altrimenti si rischierebbe di andare avanti all’infinito.

Discente: Mettiamoci ora in questo caso: una parte, nella lista testimoniale di cui all’articolo 468 – nell’atto cioè che si deve depositare alcuni giorni prima del dibattimento e in cui dovrebbero essere indicati i testi al cui esame si intende procedere e, ciò che rileva soprattutto per il discorso che ti sto facendo, “le circostanze su cui deve vertere il loro esame” - omette di indicare una di tali

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circostanze: metti, il pubblico ministero dell’esempio prima introdotto, omette di indicare che l’esame verterà anche sulla circostanza che l’imputato omise di soccorrere il vecchietto; ebbene, in tale ipotesi egli potrà nel corso del suo esame porre delle domande sulla circostanza omessa?

Docente: No: sia nell’esame diretto, sia nel controesame, sia nel riesame, non possono farsi domande su circostanze non indicate nella lista. E questo per la ragione intuitiva che, se ciò fosse possibile, si aprirebbe una facile strada all’elusione del contraddittorio: io, pubblico ministero furbone, non indico nella mia lista, come thema probandum, l’omesso soccorso, perché, se lo facessi, la difesa farebbe ancora in tempo a portare testi in controprova (per il che, leggiti il quarto comma dell’articolo 468) e faccio la domanda sull’omissione di soccorso durante l’esame diretto (o il controesame o il riesame) quando cioè la difesa non farebbe più in tempo a portare testi in controprova: troppo comodo, troppo sleale, troppo contrario al principio del contraddittorio. E’ pacifico che ciò non sia ammissibile!

Discente: Con le ultime considerazioni abbiamo cominciato ad affrontare l’argomento: quali domande possono essere fatte al teste, come insomma va condotto l’esame testimoniale. E’ il momento dunque di dire qual’è l’articolo del codice che ci dà le regole per l’esame testimoniale.

Docente: E’ l’articolo 499 che ora passeremo ad esaminare comma per comma. Cominciando dal primo che recita: “L’esame testimoniale si svolge mediante domande su fatti specifici”.

Discente: Che cosa vuole precisamente vietare tale disposizione? Vuole vietare domande del tipo “mi dica come sono andati i fatti” “Mi dica quel che ha visto”?

Docente: La lettera della legge suggerirebbe di rispondere di si a tali tue domande; ma la ratio, la logica della norma impone invece di dare ad esse una risposta negativa.

Discente: Dicci però qual’è la ratio della norma, se no, non riusciamo a seguirti.

Docente: La ratio della norma è ovviamente quella di evitare dichiarazioni testimoniali non veridiche. E quindi in primo luogo le dichiarazioni concordate prima del processo tra esaminatore ed esaminato – che, certo, potrebbero essere anche veridiche, ma che vi è il forte sospetto che siano false. Tali dichiarazioni, idest le dichiarazioni concordate, verrebbero invece facilmente introdotte nel processo se si permettesse all’esaminatore di proporre al suo teste quelle che i giuristi

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anglosassoni chiamano leadings questions, cioè domande con cui passo passo l’avvocato conduce l’esaminato a esporre una data versione dei fatti: (nei sospetti del legislatore) la storiella disonestamente architetta nel suo studio.

Discente: Perché, è chiaro, il teste, non essendo aduso all’udienza penale, quando è chiamato a rendere la sua testimonianza, rischia di andare nel pallone, di dimenticarsi quel che aveva concordato di dire e di fare infine, con grande scorno dell’avvocato azzeccagarbugli, quella che è in fondo la cosa più facile per lui: dire le cose come sono andate veramente.

Docente: Ecco perché il tipo di domande, come quelle da te all’inizio esemplificate, domande cioè al massimo “aperte”, che cioè lasciano il massimo di libertà al teste nella narrazione dei fatti, lungi dal ritenersi inammissibili, debbono al contrario essere preferite in una corretta conduzione dell’esame.

Discente: Ma allora imponendo per la domanda il requisito della specificità, quali domande il legislatore ha voluto vietare?

Docente: Le domande la cui risposta comporterebbe un apprezzamento, un giudizio del teste.

Discente: Un esempio?

Docente: La domanda “L’imputato era ubriaco?” – che andrebbe sostituita dalle domande: “L’imputato si esprimeva correttamente? barcollava? il suo alito puzzava di vino?”.

Discente: Un altro esempio.

Docente: La domanda “L’imputato profferì delle ingiurie nei riguardi del Bianchi?” – che andrebbe sostituita dalle domande: “L’imputato rivolse delle parole al signor Bianchi? si ricorda quali erano?”.

Discente: Quindi per te il Legislatore, con la disposizione che stiamo cercando di interpretare, non fa altro che un’applicazione, alla fase del dibattimento, del principio enunciato, per tutte le fasi del procedimento, dal terzo comma dell’articolo 194. Terzo comma che recita: “Il testimone è esaminato su fatti determinati. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione dei fatti”.

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Docente: Si, se il terzo comma dell’articolo 194 si interpreta come se la sua seconda parte fosse, non tanto una esemplificazione, quanto un chiarimento del reale significato da attribuirsi alla sua prima parte. Data così quella che mi pare la migliore interpretazione del primo comma dell’articolo 499, passiamo all’esame del suo secondo comma, che recita: “Nel corso dell’esame sono vietate le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte”.

Discente: Quali sono queste domande “nocive” di cui il legislatore fa divieto?

Docente: Ti darò subito la risposta ma per comprenderla bene tu devi prima tenere presente un dato fondamentale della psicologia forense.

Discente: Che sarebbe?

Docente: Quello che normalmente un teste, nell’aula giudiziaria, si sente in una posizione di debolezza, di subalternità rispetto all’esaminatore, che lo porta ad evitare il più possibile di entrare con lui in una polemica, che quasi inevitabilmente lo vedrebbe perdente. Cosa per cui, se l’esaminatore dimostra di ritenere per vero il fatto A, il teste trova difficoltà a dire “Guardi, il fatto A non è vero”.

Discente: Di conseguenza?

Docente: Di conseguenza sono da considerarsi “nocive”, e quindi vietate, tutte le cosiddette domande “implicative”, quelle domande cioè che danno per scontato un dato fatto.

Discente: Un esempio.

Docente: La domanda: “Che cosa c’era scritto sulla facciata della casa?” – domanda che dà per scontato che sulla facciata fosse scritto qualche cosa.

Discente: Un altro esempio.

Docente: La domanda: “Il colpo fu vibrato alla testa o alla schiena?” – dove si dà per scontato che il colpo fu vibrato in una di quelle due parti del corpo, mentre invece potrebbe essere stato vibrato anche all’inguine.

Discente: La domanda implicativa è l’unico tipo di domanda nociva?

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Docente: No, altro tipo di domanda nociva è quella “equivoca” – equivoca in quanto usa termini a cui il teste potrebbe dare un significato diverso da quello datogli dall’esaminatore.

Discente: Fai un esempio.

Docente: La domanda: “La rivista, che aveva in mano l’imputato, era pornografica?”. Infatti il termine pornografico può essere riferito a cose ben diverse secondo la diversa pruderie di chi lo usa. Per il teste Virtuosetti può essere pornografica una rivista che riproduce semplicemente dei nudi; mentre per l’avvocato Liberale, che lo esamina, la stessa rivista potrebbe non offendere per nulla il senso del pudore. Quindi la risposta positiva alla domanda, il “si” del teste, avrebbe probabilmente un significato diverso da quello che l’avvocato, e soprattutto, un giudice di sentimenti liberali come quelli dell’avvocato, potrebbero essere portati a ricollegarle.

Discente: Giusto che la domanda che tu hai portato ora come esempio sia ritenuta inammissibile in base al secondo comma; mi pare però che potrebbe già essere considerata inammissibile in base al primo comma: infatti, definire pornografica una rivista, implica un apprezzamento.

Docente: Hai ragione, la maggior parte delle domande equivoche dovrebbero già ritenersi inammissibili in applicazione del primo comma.Ma passiamo ora all’esame del terzo comma, che recita: “Nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte”. Domande che, dico subito, nel linguaggio del Foro, si chiamano “suggestive”.

Discente: Ma quando è “suggestiva” una domanda?

Docente: La risposta, alla questione che tu mi poni, deve partire da un’osservazione di psicologia forense – e precisamente da questa osservazione: il teste è portato tendenzialmente a confermare i fatti che capisce che l’esaminatore, che l’ha chiamato a testimoniare, vuole confermati. Di conseguenza si deve imporre all’esaminatore di formulare le sue domande in modo da non rivelare – ben s’intende nel limite del possibile – la risposta che si attende.

Discente: Tanto premesso facci qualche esempio di domanda suggestiva e di domanda corretta.

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Docente: Un primo esempio di domanda suggestiva sarebbe questo: “L’imputato aveva in mano una pistola?”; mentre la domanda corretta avrebbe invece dovuto essere: “L’imputato aveva qualcosa in mano?”. Un secondo esempio di domanda suggestiva potrebbe essere quest’altro: il pubblico ministero domanda “E’ vero che l’imputato apostrofò il Bianchi con le parole brutto farabutto?”; domanda che il pubblico ministero avrebbe dovuto formulare così: “Con che parole l’imputato si rivolse al Bianchi?”.

Discente: E così abbiamo visto le regole che i primi tre commi dell’articolo 499 pongono nella conduzione dell’esame.

Docente: Regole che, è bene dirlo subito, hanno le loro brave eccezioni.

Discente: Sono molte queste eccezioni?

Docente: Sono tre, almeno le principali.

Discente: Passiamole in rassegna subito, una per una. Comincia a dirci la prima.

Docente: La prima eccezione si riferisce al divieto delle domande implicative e vuole che tali domande siano invece ammesse quando l’esistenza del fatto implicito, alias del fatto presupposto, è pacifica tra le parti o comunque già ammessa dall’esaminato. Di conseguenza la domanda: “Quando l’auto dell’imputato investì il pedone, lei in che punto della strada si trovava?” sarebbe ammissibile se tra le parti in causa fosse pacifico che fosse stata l’auto dell’imputato ad investire il pedone. E la domanda:“Che cosa c’era scritto sulla facciata” sarebbe ammissibile se, rispondendo ad una precedente domanda, il teste avesse detto che sulla facciata c’era una scritta.

Discente: Passiamo alla seconda eccezione.

Docente: Si riferisce sempre alle domande implicative. Esse debbono essere ammesse quando mirano, non ad acquisire la prova del fatto implicito, ma a saggiare l’attendibilità e la buona fede del teste esaminato.

Discente: Come può essere?

Docente: Te lo spiego con un esempio. Fai il caso che il pubblico ministero voglia saggiare la sincerità del teste. Egli sa, come lo sa il giudice e lo sanno le controparti, che l’imputato al momento dei fatti non portava i guanti, e tuttavia

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domanda: “I guanti che l’imputato portava erano neri?”. Qui la domanda, ancorché implicativa, è senz’altro ammissibile, dato che non vi è il rischio che in sentenza, in base alla risposta del teste, si dica che “l’imputato aveva i guanti neri”: è pacifico, tutte le parti del processo lo sanno, che l’imputato non portava guanti.

Discente: Quindi la domanda non può nuocere all’accertamento dei fatti, mentre invece può servire a controllare la veridicità del teste. Ho capito. Passiamo alla terza eccezione.

Docente: La terza eccezione si riferisce, non più alle domande implicative, ma alle domande suggestive. E’ bene ricordare che, tali domande, il terzo comma, di cui abbiamo dato prima lettura, non le ammette solo quando provengono dalla parte che ha chiesto la citazione del teste o da quella che ha con essa un interesse comune. Orbene invece anche in tal caso, idest anche in caso che le domande suggestive vengano formulate da chi ha chiesto la citazione del teste ecc., tali domande sono ammissibili quando il teste si rivela “ostile” all’esaminatore. Infatti non è raro che un teste, chiamato a deporre da una parte, all’udienza cominci a dare una testimonianza a questa chiaramente sfavorevole. In tale caso, è chiaro, sarebbe assurdo ipotizzare una collusione tra esaminatore ed esaminato e, quindi, mantenere per il primo il divieto di domande suggestive di cui al comma tre.

Discente: A questo punto penso che possiamo passare ad esaminare la disposizione del quarto comma.

Docente: Quarto comma che recita: “Il presidente cura che l’esame del testimone sia condotto senza ledere il rispetto della persona”

Discente: Qualche esempio di domande lesive del rispetto alla persona del teste.

Docente: Dovrebbero considerarsi lesive, le domande di carattere intimo; ad esempio la domanda rivolta ad una donna: “Lei è vergine?” – beninteso se tali domande non fossero veramente necessarie per l’accertamento del reato. Ancora dovrebbero considerarsi lesive le domande che facciano trasparire un giudizio negativo sulla personalità del teste: ad esempio la domanda: “E lei vorrebbe farci credere che per due giorni consecutivi ecc. ecc.” – domanda che, mostrando di credere che il teste sia interessato a convincere il giudice di un certo fatto, mostra anche di ritenere ch’egli manchi al suo dovere di imparzialità. A maggior ragione, infine, dovrebbero ritenersi inammissibili affermazioni dell’esaminatore che direttamente ledano l’onore e il decoro del teste: “Lei mente e sa di mentire”.

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Discente: Abbiamo così visto, sia pur rapidamente, le regole che disciplinano l’esame testimoniale. E quindi viene naturale chiederti, ma tali regole sono valide anche per l’esame dei periti e dei consulenti tecnici?

Docente: La risposta sostanzialmente positiva te la dà l’articolo 501 che recita: “Per l’esame dei periti e dei consulenti tecnici si osservano le disposizioni sull’esame dei testimoni, in quanto applicabili”

Discente: A dir il vero, dall’ultima parte dell’articolo 501 sembrerebbe che non tutte le regole, che abbiamo prima visto applicabili per l’esame dei testi, siano applicabili per l’esame dei periti e dei consulenti.

Docente: Certamente le domande che possono portare l’esaminato a dare risposte che tradiscono il suo pensiero, come le domande equivoche e le domande implicative sono vietate anche nei riguardi del perito e dei consulenti. Saranno ammissibili invece le domande specifiche e le domande suggestive vietate invece dal primo e terzo comma dell’articolo 499 nell’esame dei testi.

Discente: E per quel che riguarda le parti? per il loro esame dovranno osservarsi le regole che abbiamo visto valide per l’esame dei testimoni?

Docente: La risposta positiva qui te la dà il secondo comma dell’articolo 503, che, appunto dettando la disciplina dell’esame delle parti, recita: “L’esame si svolge nei modi previsti dagli articoli 498 e 499. Ha inizio con le domande del difensore o del pubblico ministero che l’ha chiesto e prosegue con le domande, secondo i casi, del pubblico ministero e dei difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, del coimputato e dell’imputato. Quindi chi ha iniziato l’esame può rivolgere nuove domande”.

Lezione 7 - Le contestazioni – La “verginità” della prova

Docente: Da quanto detto nella lezione precedente lo studioso potrebbe trarre l’impressione che l’esame dei testi e delle parti consista solo in un susseguirsi di domande. Ma questa sarebbe un’impressione del tutto errata; infatti è normale che nell’esame di un teste o di una parte si alternino domande e contestazioni.

Discente: Parliamo dunque anche di queste.

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Docente: Esse possono essere di due generi: contestazioni tipiche e contestazioni atipiche.

Discente: Che cosa si deve intendere per contestazioni tipiche?

Docente:. Si deve intendere quelle contestazioni previste, nell’ articolo 500, per quel che riguarda i testimoni, e, nell’articolo 503, per quel che riguarda le parti.

Discente: In che consistono?

Docente: Nel richiamo delle precedenti dichiarazioni rilasciate dall’esaminato e risultanti dal fascicolo del pubblico ministero. Il teste Tizio a domanda ha risposto: “L’auto posteggiata davanti alla banca era nera” e la parte che lo sta esaminando gli contesta: “Al pubblico ministero lei ha dichiarato: L’auto posteggiata era bianca”.

Discente: Vogliamo leggere come suonano esattamente le disposizioni dell’articolo 500 e dell’articolo 503 che contemplano la facoltà di contestazione?

Docente: Forse è meglio: fallo tu.

Discente: Leggo il primo comma dell’articolo 500: “Fermi i divieti di lettura e di allegazione, le parti per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. Tale facoltà può essere esercitata solo se sui fatti o sulle circostanze da contestare il testimone abbia già deposto”.Leggo ora il terzo comma dell’articolo 503 (che, ricordo, riguarda le contestazioni alle parti): “Fermi i divieti di lettura e di allegazione, il pubblico ministero e i difensori, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dalla parte esaminata e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. Tale facoltà può essere esercitata solo se sui fatti e sulle circostanze da contestare la parte abbia già deposto”La parte che la effettua deve leggere la contestazione o può semplicemente richiamarla a memoria?

Docente: La questione è discussa. Ma io ritengo preferibile che la contestazione sia fatta mediante lettura. Ciò per evitare quelle deformazioni, volontarie o involontarie, del precedente dictum dell’esaminato, che, operando come affermazioni fortemente suggestive (l’esaminato pensa: se prima ho detto che è così, vuol dire che è così ed ora ricordo male), potrebbero avere il risultato deprecabile di indurlo a mutare una dichiarazione vera (quella fatta rispondendo

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alla precedente domanda: l’auto era nera) in una falsa (quella fatta per uniformarsi al contenuto della contestazione: l’auto era bianca).

Discente: Vero è che il giudice è lì anche per controllare la correttezza delle contestazioni.

Docente: Si, è vero, e come dice il sesto comma dell’articolo 499 – comma che ci riserviamo di leggere integralmente in seguito - “se occorre” ordina “l’esibizione del verbale nella parte in cui le dichiarazioni sono state utilizzate per le contestazioni”. Però è anche vero che certe volte il giudice dormicchia.

Discente: Quando va fatta la contestazione?

Docente: Sei stato poco attento: l’ultima parte delle disposizioni or ora lette lo dice chiaramente: la contestazione va fatta dopo che sui fatti o sulle circostanze da contestare l’esaminato ha già deposto.

Discente: Ma perché il legislatore vuole che la contestazione segua la deposizione?

Docente: Perché teme che, in caso contrario, l’esaminato, avuta lettura della precedente deposizione, sia portato a confermarla. Nel rigore del codice Rocco era così. Si leggeva il verbale delle precedenti dichiarazioni, si chiedeva all’interrogato se confermava, quello (per non fare la figura dello sciocco o peggio del bugiardo) confermava e tutto finiva lì: senza quell’approfondimento che nasce quando ex novo si interroga un teste o una parte.

Discente: Quelle di cui abbiamo parlato sono le contestazioni tipiche; e quelle atipiche che cosa sono?

Docente: Sono contestazioni fatte richiamando le dichiarazioni rilasciate dall’esaminato nello stesso processo o anche massime d’esperienza. Ad esempio, il teste risponde ad una prima domanda “L’auto era nera” e a una seconda domanda “L’auto era bianca”: naturalmente dopo che ha data la seconda risposta gli si contesta la prima. Oppure la parte, che sta facendo dichiarazioni su un fatto avvenuto di notte in un vicolo non illuminato, dice: “Ricordo chiaramente che la targa dell’auto posteggiata aveva il numero ecc.”: naturalmente le si contesta che di notte in un vicolo non illuminato è ben difficile leggere il numero di una targa.

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Discente: Sembrerebbe da quanto detto fino ad adesso che le parti siano le uniche e incontrastate protagoniste nella fase dell’esame dei testi e delle parti, e allora viene spontanea la domanda: il giudice che ci sta a fare, il giudice che fa?

Docente: Che faccia il giudice, quali siano i suoi compiti durante l’esame di un teste o di una parte ce lo dice il sesto comma dell’articolo 499, il quale recita: “Durante l’esame, il presidente, anche di ufficio, interviene per assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni, ordinando, se occorre, l’esibizione del verbale nella parte in cui le dichiarazioni sono state utilizzate per le contestazioni”.

Discente: Ma il giudice può fare domande ai testi e alle parti?

Docente: Si, ma dopo che sono state esaminate dalle parti. Ciò risulta dal secondo comma dell’articolo 506 che recita: “Il presidente, anche su richiesta di altro componente del collegio, può rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici, alle persone indicate nell’articolo 210 ed alle parti già esaminate, solo dopo l’esame e il controesame. Resta salvo il diritto delle parti di concludere l’esame, secondo l’ordine indicato negli articoli 498 commi 1 e 2 e 503 comma 2.”

Discente: Voltiamo pagina, cambiamo argomento: è vero che la “verginità” è un valore prezioso anche in materia di prove?

Docente: E’ verissimo e il perché te lo spiego con un esempio. Metti che il ragionier Parodi, in sede di indagini preliminari, rispondendo ad una domanda del pubblico ministero abbia dichiarato: “Il bandito che sparò al cassiere aveva i baffi”. Ebbene il nostro bravo ragioniere, se interrogato di nuovo sul punto dal giudice in sede di udienza dibattimentale, avrà la netta tendenza a confermare la precedente dichiarazione, a ripetere che “Il bandito aveva i baffi”.

Discente: Lo farà perché la dichiarazione da lui precedentemente fatta al Pubblico ministero era vera.

Docente: Lo potrebbe fare per questo, ma lo potrebbe fare, anche se la precedente dichiarazione non era vera, per non sembrare uno sciocco che non sa quel che dice o peggio un mentitore.

Discente: Tu ti metti nel caso di un teste in malafede.

Docente: Non necessariamente.

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Discente: Ma se ha dichiarato il falso al pubblico ministero io lo direi in malafede.

Docente: Ripeto, non necessariamente; ed è questo il punto: la dichiarazione non veritiera potrebbe essere frutto, non della malafede del teste, ma di una maldestra domanda del pubblico ministero. Metti che questi abbia fatto al teste una domanda fortemente suggestiva – una di quelle domande che il giudice al dibattimento senz’altro bloccherebbe – ad esempio “Il bandito che sparò, aveva i baffi, non è vero?”. Di fronte a tale domanda fatta con grande autorevolezza il povero ragionier Parodi, anche se in realtà é tutt’altro sicuro che il bandito avesse i baffi, per non contrariare l’interrogante nelle sue evidenti aspettative di una risposta positiva, dichiara: “Si, aveva i baffi”. E il pasticcio è bello che fatto!

Discente: E certamente potrebbe essere un pasticcio assai grave, perché ne potrebbe dipendere la condanna di un innocente. L’ideale quindi sarebbe che i testi e in genere tutti quelli che potrebbero fare dichiarazioni utili sui fatti di causa fossero escussi solo al dibattimento, davanti al giudice e con la garanzia dell’esame incrociato.

Docente: Questo sarebbe l’ideale; ma purtroppo non è un ideale realizzabile: il pubblico ministero, per decidere se chiedere il rinvio a giudizio di una persona, deve pur fare delle indagini, sentire i presumibili testimoni dei fatti. Il legislatore se ne rende conto e nell’articolo 362 gli concede di “assumere informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini”. E similmente il legislatore si rende conto che neanche alla Polizia si può negare il potere di raccogliere “informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini dell’indagine”, e con l’articolo 351 glielo concede.

Discente: Si, ma il legislatore dovrebbe anche rendersi conto che, così facendo, rischia di menomare quel marchingegno, e mi riferisco all’esame incrociato, da lui predisposto per garantire l’affidabilità della prova.

Docente: E in realtà se ne rende conto; e, come abbiamo già visto, qualche contromisura l’adotta: se ti ricordi - nel primo comma dell’articolo 500 e nel terzo comma dell’articolo 503 - fa divieto di dar lettura delle dichiarazioni precedentemente rilasciate in sede di indagini preliminari dall’esaminato su una data circostanza, se prima, su tale circostanza, questi non è stato interrogato. E ciò proprio per impedire che l’esaminato resti condizionato dalle precedenti risposte date.

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Discente: Noi fino ad adesso abbiamo visto il pregiudizio che può derivare, alla genuinità e affidabilità della prova, dall’interrogatorio di persone fatto dalla Polizia o dal Pubblico Ministero. Però questo pregiudizio in realtà si può verificare anche in seguito a una ricognizione di persone, effettuata ai sensi dell’articolo 361, o a un accertamento tecnico, fatto ai sensi dell’articolo 360, dal pubblico ministero, o, perché no? anche in seguito ad un accertamento fatto dal consulente della parte ai sensi dell’articolo 233.

Docente: In quel che dici c’è una gran parte di verità, ma anche parecchie inesattezze. Procediamo con ordine. Cominciamo da quella operazione che tu chiami “ricognizione di persone” e che in realtà, quando è effettuata dal pubblico ministero, prende il nome di individuazione. Effettivamente essa pregiudica l’affidabilità della ricognizione vera e propria, che il giudice poi voglia fare in sede dibattimentale o anche in sede di incidente probatorio; e tanto è vero che una precedente individuazione menoma l’affidabilità della ricognizione, che il legislatore impone al giudice, nel primo comma dell’articolo 212, di domandare al riconoscente (apro le virgolette, cito le parole della legge) “se, prima e dopo il fatto per cui si procede, abbia visto, anche se riprodotta in fotografia o altrimenti, la persona da riconoscere”.Detto questo, però, si deve anche aggiungere che il legislatore limita notevolmente nell’articolo 361 la possibilità di ricorrere al mezzo di indagine, di cui stiamo parlando; infatti il pubblico ministero può ricorrere a questo solo “se necessario per la immediata prosecuzione delle indagini” e soprattutto astenendosi dal presentare di persona il riconoscendo: egli può ai fini di permettere la sua individuazione presentare solo delle sue immagini: fotografie, disegni e simili.

Discente: Passiamo agli accertamenti tecnici previsti dall’articolo 360: senza dubbio essi possono pregiudicare una futura perizia del giudice nel dibattimento.

Docente: Diciamo che possono pregiudicare una perizia fatta in sede di incidente probatorio. Infatti una perizia in sede dibattimentale nel caso non sarebbe ipotizzabile dal momento che l’articolo 360 parte dal presupposto che tali accertamenti siano “non ripetibili” in quanto relativi a “cose e luoghi il cui stato è soggetto a modificazione”. Però contro tale pericolo il legislatore dà alle parti una validissima difesa.

Discente: Quale?

Docente: Quella di chiedere appunto che l’accertamento avvenga in sede di incidente probatorio. Ciò risulta dal quarto comma dell’articolo 360 in esame, che

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recita: “Qualora, prima del conferimento dell’incarico, la persona sottoposta alle indagini formuli riserva di promuovere incidente probatorio, il pubblico ministero dispone che non si proceda agli accertamenti salvo che questi, se differiti, non possano più essere utilmente compiuti”

Discente: Ma se la parte non fa la riserva?

Docente: Certamente il pubblico ministero farà eseguire l’accertamento ma (apro le virgolette perché cito il terzo comma dell’articolo in esame) “i difensori nonché i consulenti tecnici eventualmente nominati avranno diritto di assistere al conferimento dell’incarico, di partecipare agli accertamenti e di formulare osservazioni e riserve”.Val la pena ancora di dire che un accertamento tecnico effettuato in sede di indagini preliminari può, sì, pregiudicare una futura perizia del giudice, ma non nel senso che ne può falsare i risultati, ma nel senso che la può impedire o rendere più difficile: una volta che il consulente tecnico avrà “bruciato” otto dei dieci milligrammi di sospetta droga trovati indosso all’indagato, per fare i suoi accertamenti, senza dubbio potrà riuscire difficile ad un eventuale perito nominato dal giudice accertare qualcosa di sicuro con i residui due milligrammi.

Discente: Resta da dire degli eventuali accertamenti fatti, ai sensi dell’articolo 233, dai consulenti nominati da una parte, metti dall’indagato.

Docente: Questi certamente non potranno mai pregiudicare una futura perizia.

Discente: Ma perché?

Docente: Per la semplicissima ragione che il consulente della parte non può in realtà fare nessun accertamento, egli al più può essere autorizzato dal giudice ad “esaminare”, queste le parole precise dell’articolo 233, le cose sottoposte a sequestro o già ispezionate. Val al pena ancora di aggiungere che (apro le virgolette di nuovo perché cito dal comma 1ter dell’articolo in esame) “l’autorità giudiziaria impartisce le prescrizioni necessarie per la conservazione dello stato originario delle cose e dei luoghi”.

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Lezione 8 - Le eccezioni all’esame incrociato

Discente: Il giudice può porre a fondamento della sua sentenza solo le dichiarazioni dei testi e delle parti, ottenute con la tecnica dell’esame incrociato?

Docente: Per regola, si.

Discente: Per regola imposta, penso, dall’ articolo 111 della Costituzione là dove recita “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova.”

Docente: Dubito che la regola di cui stiamo parlando – cioè la regola dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni non raccolte con la tecnica dell’esame incrociato - sia imposta a livello di legge costituzionale; se così fosse si dovrebbero ritenere incostituzionali non pochi articoli del codice, che, come ad esempio l’articolo 422, prevedono, anzi impongono, l’interrogatorio condotto direttamente dal giudice, e non dalle parti.

Discente: Ma qualcuno ha mai eccepita la incostituzionalità di tali articoli?

Docente: Non mi risulta. Sia quel che sia, io, a livello di legislazione ordinaria, ritengo che la regola in questione vada ricavata dal principio secondo cui il giudice può porre a fondamento della sua decisione solo gli elementi di prova la cui conoscenza è da lui compartecipata con tutti coloro che hanno diritto di presenziare alla sua udienza (quindi in primis con i difensori delle parti): tu, giudice, puoi porre a fondamento della tua decisione ciò che le tue orecchie e i tuoi occhi hanno percepito, solo se anche gli occhi e le orecchie di chi aveva diritto di partecipare alla tua udienza erano posti in grado di percepirlo: se un teste bisbigliasse qualcosa all’orecchio del giudice, questo qualcosa con tutta evidenza non potrebbe essere utilizzato come prova.

Discente: E’ ovvio. Ma lasciamo perdere le ovvietà: il principio da te ora enunciato risulta formulato in qualche articolo del codice?

Docente: No, ma si ricava facilmente da varie norme. Te ne cito una per tutte: l’articolo 109 che impone che gli atti del processo – e per atti non devi intendere solo gli atti scritti ma anche quelli orali: ad esempio, le domande e le risposte dei testi – siano compiuti in una lingua accessibile a tutti i protagonisti del processo, lingua che naturalmente è l’italiano.

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Discente: Salvo le eccezioni previste dal capoverso di tale articolo.

Docente: Non perdiamoci nelle minuzie: tu hai compreso il concetto.

Discente: Si, ho compreso quel che vuoi dire, ma non mi sembra che dal principio da te enunciato si possa ricavare la regola dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni non raccolte col metodo dell’esame incrociato.

Docente: E infatti la regola in questione non si ricava solo da questo principio, ma da questo principio e dal divieto contenuto nell’articolo 514 di dar lettura delle dichiarazioni rese al di fuori dell’udienza dibattimentale: tu, giudice del dibattimento, non puoi dare lettura, di quanto la teste Filomena ebbe a dichiarare alla polizia o al pubblico ministero o, anche, al giudice delle indagini preliminari.

Discente: Capisco: se tu, giudice, non puoi dar lettura delle dichiarazioni fatte da Filomena al pubblico ministero, queste dichiarazioni che, mancando la lettura, non possono considerarsi compartecipate da tutti coloro che hanno diritto di presenziare all’udienza (dato che proprio la lettura ha la funzione di creare tale compartecipazione), per il principio da te prima enunciato, sono da considerarsi tamquam non essent e ciò a sua volta significa che tu, giudice, dovrai ricavare la prova necessariamente dalle dichiarazioni fatte da Filomena nel dibattimento.

Docente: Ma siccome tali dichiarazioni per l’articolo 498 debbono essere raccolte con l’esame incrociato di Filomena, ecco che i conti tornano; ecco da dove trae fondamento la regola dell’utilizzabilità solo delle dichiarazioni (delle parti, dei testi, dei consulenti tecnici…) escusse, acquisite al processo col metodo dell’esame incrociato.

Discente: Regola questa però che ha le sue brave eccezioni. A quali motivi dovute?

Docente: Sintetizzando un po’, possiamo dire che tali eccezioni possono essere dovute a tre diverse categorie di motivi.

Discente: Comincia a dirci la prima categoria.

Docente: La prima categoria è data dal motivo della particolare affidabilità della dichiarazione di cui si vuole dare lettura. Particolare affidabilità derivante sia dall’autorità che ha svolto l’interrogatorio, autorità che è, non un pubblico ministero o la Polizia, ma un giudice, sia anche dalle norme che disciplinano tale

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interrogatorio, norme che prevedono addirittura la cross-examination o comunque un potere di intervento attivo delle parti durante l’interrogatorio.

Discente: Quali sono i verbali di dichiarazione che per tale genere di motivo diventano leggibili?

Docente: Prima di tutto, i verbali previsti nell’ultimo periodo dell’articolo 514, cioè i verbali delle dichiarazioni rese nell’udienza preliminare nelle forme previste dagli articoli 498 e 499, cioè nelle forme dell’esame incrociato, alla presenza dell’imputato e del suo difensore.Poi, i verbali delle dichiarazioni assunte nell’incidente probatorio – dichiarazioni che debbono essere assunte per il quinto comma dell’articolo 401 “con le forme stabilite per il dibattimento” cioè con il sistema dell’esame incrociato.

Discente: Ma da che si ricava che anche di esse si può dare lettura?

Docente: Dall’art.-431 lett.e) che impone l’inserimento nel fascicolo per il dibattimento dei “verbali degli atti assunti nell’incidente probatorio” e dal primo comma dell’articolo 511 che impone al giudice di dare lettura degli atti contenuti in tale fascicolo.Infine, rientrano nella categoria dei verbali di cui si può dare lettura per la loro affidabilità, i verbali di cui all’articolo 238.

Discente: Quali sono?

Docente: I verbali di prove di altro procedimento penale purchè si tratti di prove assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento – così come ti risulta dal primo comma dell’articolo citato. E i verbali di prove assunte in un giudizio civile – così come ti risulta dal secondo comma dell’articolo citato.La lettura di tali verbali è ammessa anzi imposta dall’articolo 511 bis che recita: “Il giudice, anche di ufficio, dispone che sia data lettura dei verbali degli atti indicati nell’articolo 238”.

Discente: Comprendo che si ammetta la lettura dei verbali delle dichiarazioni assunte durante un incidente probatorio o durante il dibattimento, dato che essi contengono dichiarazioni assunte col metodo dell’esame incrociato. Non comprendo invece perché si ammetta la lettura dei verbali di un procedimento civile: in tale tipo di procedimento infatti l’interrogatorio avviene, non a opera delle parti, ma a opera direttamente del giudice.

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Docente: Questo è vero, ma è anche vero che il legislatore, rendendosi conto di ciò, subordina la leggibilità di tali atti al fatto che il procedimento civile sia già stato definito con sentenza che ha acquistato autorità di cosa giudicata (il che permette di controllare se le prove assunte siano state contrastate da eventuali successive prove e se e come hanno superato il vaglio critico delle parti e del giudice civile). Va inoltre fatto presente che, per il comma due bis, i verbali, sia quelli previsti nel comma 1 sia quelli previsti nel comma 2, possono, sì, essere letti, ma non possono essere utilizzati contro l’imputato (e bada solo contro l’imputato: quel che sto dire non vale per le altre parti processuali) se il suo difensore non ha partecipato all’assunzione della prova o se nei suoi confronti non fa stato la sentenza civile. Sul punto avremo occasione di ritornare.

Discente: Con ciò abbiamo parlato della prima categoria dei motivi che inducono il legislatore a permettere la leggibilità di un verbale di dichiarazioni. Passiamo a parlare della seconda categoria.

Docente: La seconda categoria di motivi è data dalla non affidabilità delle dichiarazioni rilasciate nel corso dell’esame incrociato. Inaffidabilità che può dipendere da due diverse ragioni. Prima ragione, l’esaminato fa dichiarazioni contrastanti con altre precedenti rilasciate e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. Il difensore domanda: “L’auto era bianca?”. Risposta dell’esaminato: “Si, era bianca”. Difensore: “Le contesto che, dalla pagina due del verbale di suo interrogatorio reso in sede di udienza preliminare, risulta che lei ha dichiarato: “ L’auto era nera”.Seconda ragione: vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinchè non deponga ovvero deponga il falso.

Discente: Bene, ma che succede nelle due ipotesi da te fatte?

Docente: Nella seconda ipotesi, i verbali delle precedenti dichiarazioni contenuti nel fascicolo del pubblico ministero sono acquisiti, per il disposto del quarto comma dell’articolo 500, al fascicolo del dibattimento. Ciò che significa che, per il disposto del primo comma dell’articolo 511, se ne potrà, anzi se ne dovrà, dare lettura.

Discente: Ciò che a sua volta significa che le dichiarazioni verbalizzate potranno esser utilizzate come piena prova dal giudice. Ed è logico: il fatto che il teste sia sospetto di dire che “L’auto era bianca” solo perché intimidito o corrotto non può non portare a valorizzare la precedente sua dichiarazione “L’auto era bianca”.

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Docente: E questo senza distinguere se la precedente dichiarazione sia stata rilasciata alla polizia, al pubblico ministero o al giudice. Tale distinzione invece acquista rilievo nella prima ipotesi da me fatta, quella della contestazione. In tali ipotesi infatti non sempre il verbale della precedente dichiarazione – per intenderci, il verbale da cui risulta, per riferirci all’esempio prima introdotto, che l’esaminato ebbe a dichiarare che l’auto era bianca – può essere acquisito al fascicolo del dibattimento e quindi può essere letto e quindi può valere come elemento di prova. Bisogna distinguere.

Discente: Distinguere tra che cosa?

Docente: Prima di tutto tra il caso che l’esaminato sia una parte oppure un teste. Nel caso in cui l’esaminato sia una parte, le sue precedenti dichiarazioni a cui il difensore aveva diritto di assistere, sono sempre acquisite al fascicolo del dibattimento. Questo in sintesi il contenuto dei commi 5 e 6 dell’articolo 503 che tu ti potrai leggere con calma. Nel caso invece del teste, la precedente dichiarazione portata in contestazione, potrà essere acquisita al fascicolo per il dibattimento e valutata ai fini della prova, solo se assunta a norma dell’articolo 422, cioè dal giudice in sede di udienza preliminare. Questo in sintesi il contenuto del disposto del sesto comma dell’articolo 500, che, anche qui, tu poi ti leggerai con calma.

Discente: Non capisco questa differenza; non capisco perché possono essere acquisite al dibattimento e valere come prova le dichiarazioni fatte dalla parte alla polizia e invece non possano essere acquisite al fascicolo per il dibattimento e valere come prova le dichiarazioni fatte dal teste alla polizia.

Docente: E invece il perché di questa differenza di trattamento è facile a capire: le dichiarazioni della parte sono fatte quando essa aveva o comunque poteva avere, un difensore al suo fianco – e ciò dà una certa garanzia che tali dichiarazioni siano state ben verbalizzate e che le risposte della parte siano state ben chiarite. Il teste, invece, quando faceva le sue dichiarazioni alla polizia o al pubblico ministero, era lì solo soletto: chi ci dice che le sue dichiarazioni siano state fedelmente verbalizzate e interpretate?!

Discente: Ma allora che serve contestare a un teste le dichiarazioni da lui precedentemente rilasciate alla polizia o al pubblico ministero?

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Docente: Serve, perché “le dichiarazioni lette per la contestazione – queste le parole del secondo comma dell’articolo 500 – possono esser valutate ai fini della credibilità del teste”.

Discente: Che significa ciò?

Docente: Non è facile dirlo. Il punto problematico è questo: il giudice può tenere conto delle dichiarazioni precedenti dell’esaminato tanto da escludere in base solo ad esse la credibilità del teste e quindi l’utilizzabilità in sentenza delle dichiarazioni da lui all’udienza rilasciate, cioè il giudice potrebbe in sentenza scrivere: “escludo che l’auto fosse nera, come mi ha detto il teste in udienza e quindi ritengo che fosse bianca come egli ebbe a dire invece al pubblico ministero”? Se la risposta a questa domanda fosse positiva, non resterebbe che concludere che le precedenti dichiarazioni, che si portano in contestazione, sono utilizzabili come vere e proprie prove. Ma, siccome questa conclusione sembra contrastare col fatto che tali dichiarazioni non vengono acquisite al fascicolo del dibattimento, non resta che adottare la conclusione che esse possono essere considerate solo come una mezza prova, cioè hanno in buona sostanza solo il valore di quello “argomento di prova” di cui parla il codice di procedura civile: da sole non provano nulla, possono provare alcunché se unite ad altri elementi di prova: io, giudice, ritengo che l’auto non sia nera, come mi ha dichiarato il teste all’udienza, perché, non solo egli precedentemente ebbe a dichiarare che l’auto era bianca, ma perché è del tutto inverosimile che un’auto nera fosse percepita in una strada senza illuminazione.E con questa mia osservazione penso di dover chiudere l’esame dei casi per cui l’eccezione al divieto di lettura è motivata dall’inaffidabilità delle dichiarazioni rilasciate in sede dibattimentale.

Discente: Restano però da esaminare le eccezioni al divieto di lettura previste dall’articolo 514 là dove recita: “Fuori dei casi previsti dagli articoli 511, 512, 512bis e 513 non può essere data lettura dei verbali di dichiarazioni rese dall’imputato, dalle persone indicate nell’articolo 210 e dai testimoni ecc. ecc.”

Docente: E non solo queste eccezioni restano da esaminare, ma anche quella prevista dal comma terzo dell’articolo 238, che recita: “E’ comunque ammessa l’acquisizione della documentazione di atti che non sono ripetibili. Se la ripetizione dell’atto è divenuta impossibile per fatti o circostanze sopravvenuti, l’acquisizione è ammessa se si tratta di fatti o circostanze imprevedibili”.

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Discente: Presumo che le eccezioni previste dall’articolo 514 e dal comma 3 dell’articolo 238 siano accumunate dal fatto che sono motivate dall’impossibilità di escutere al dibattimento chi ha reso precedentemente delle dichiarazioni.

Docente: Così é. Però, se vogliamo andare con ordine, prima, dobbiamo prendere in esame l’eccezione relativa alle dichiarazioni rilasciate dall’imputato e, poi, le eccezioni relative alle dichiarazioni rilasciate dai testi e dalle persone indicate nell’articolo 210 comma 1.

Discente: Vediamo allora per prima cosa quando si può dare lettura delle dichiarazioni dell’imputato.

Docente: Lo dice il primo comma dell’articolo 513: si può dare lettura di tali dichiarazioni “quando l’imputato è contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all’esame”.

Discente: Insomma se tu, imputato, hai commesso il madornale errore di rispondere a un interrogatorio dell’Autorità … sei bello che fritto: d’ora in poi le dichiarazioni da te fatte potranno essere utilizzate contro di te. A meno che tu non compaia all’udienza e accetti di sottoporti all’esame.

Docente: Eh no, anche in tal caso potranno essere utilizzate contro di lui le dichiarazioni prima fatte: non dimenticarti di quanto dispone il comma 5 dell’articolo 503: l’imputato dice che “è vero bianco”, il pubblico ministero gli contesta che prima aveva dichiarato che “è vero nero” e il giudice può utilizzare come prova che “è vero nero”.

Discente: Ma se l’imputato accetta, sì, di sottoporsi all’esame, però risponde ad alcune domande e ad altre no?

Docente: Tale furberia gli servirebbe poco: il pubblico ministero avrebbe facile gioco: metti che nel precedente interrogatorio l’imputato abbia dichiarato “vero A” “vero B” “vero C”; il pubblico ministero gli domanda: “Vero A?” e l’imputato risponde; il pubblico ministero, poi, gli domanda “Vero B?” ma qui l’imputato tiene la bocca chiusa; che fa allora il pubblico ministero? Gli contesta che nel precedente interrogatorio aveva dichiarato “Vero B”.

Discente: Ma l’esaminatore può muovere una contestazione, non solo quando l’esaminato ha risposto alla sua domanda, ma anche quando si è rifiutato di rispondere?

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Docente: Secondo la migliore interpretazione, si.

Discente: Tutto questo è molto lesivo degli interessi della difesa.

Docente: Certamente, si; e proprio per questo il legislatore – mentre in caso di impossibilità di esame di un teste o di una delle persone indicate nell’articolo 210 comma 1, permette la lettura di precedenti dichiarazioni anche se rese alla polizia in mancanza di delega del pubblico ministero o ai difensori in sede di indagini difensive – nel caso di impossibilità di esame dell’imputato permette solo la lettura (apro le virgolette perché cito le esatte parole dell’articolo 513) “dei verbali delle dichiarazioni rese dall’imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare”.

Discente: Stranamente il legislatore contempla il caso dell’imputato ma non delle altre parti processuali: ciò si spiega col fatto che il legislatore non riconosce alle loro dichiarazioni un valore probatorio?

Docente: Questo no, certamente; dato che l’articolo 503, prevedendo la possibilità di un esame e soprattutto di contestazioni per le parti diverse dall’imputato, dimostra di riconoscere anche alle loro dichiarazioni un valore probatorio. La mancata menzione delle parti diverse dall’imputato (parte civile ecc.), si spiega piuttosto col fatto che il legislatore ha ritenuto inopportuno permettere la lettura delle loro precedenti dichiarazioni qualora non fossero citate come testi; e, qualora lo fossero, allora si applicherebbe anche a loro quanto diremo appunto per i testi. Mutatis mutandis analoghe considerazioni possono spiegare perché il legislatore nel comma 2 dell’articolo 513 contempla solo le persone di cui all’articolo 210 comma1, cioè gli imputati che non possono essere sentiti come testi, e omette di menzionare, cosa che invece fa nell’articolo 514, gli imputati che, come testi, possono essere sentiti.

Discente: Vediamo dunque quando si può dare lettura delle dichiarazioni rilasciate - da un teste o da una delle persone di cui all’art. 210 comma 1 - alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero, ai difensori delle parti private e al giudice nel corso della udienza preliminare.

Docente: Ti sei dimenticata di elencare le dichiarazioni rese in altro procedimento a un giudice civile o penale..

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Discente: L’articolo 512 non ne parla.

Docente: Ma ne parla l’articolo 238 nel comma terzo a cui prima abbiamo avuto occasione di fare riferimento. Chiarito questo, ti dirò che, per rispondere alla tua domanda, bisogna tenere presente soprattutto le disposizioni del primo comma dell’articolo 512 e del comma 1 bis dell’articolo 526.

Discente: Che dicono tali disposizioni?

Docente: Te le leggo. Comma 1 dell’articolo 512: «Il giudice a richiesta di parte dispone che sia data lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dai difensori delle parti private e dal giudice nel corso dell’udienza preliminare quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne é divenuta impossibile la ripetizione». Comma 1 bis dell’articolo 526: “La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame da parte da parte dell’imputato o del suo difensore”.

Discente: Ma l’articolo 512 non parla né di testi né di dichiarazioni rese da testi.

Docente: Si, non ne parla espressamente, però, è chiaro che quando parla di “atti assunti ecc. ecc.” si riferisce anche agli interrogatori. Eliminata questa tua piccola perplessità vengo a darti una risposta unitaria al quesito postici – unitaria nel senso che la ritengo valida sia per i testi sia per le persone di cui all’articolo 210 comma 1.

Discente: Però il legislatore, dopo aver dettato in genere nell’articolo 512 le condizioni per la lettura di una dichiarazione diventata irripetibile o impossibile che dir si voglia, in separate disposizioni e precisamente nell’articolo 512 bis e nel comma secondo dell’articolo 513, dà specifiche disposizioni: con l’articolo 512 bis, per il caso del teste residente all’estero e, con il secondo comma dell’articolo 513, per il caso delle persone di cui all’articolo 210 comma 1.

Docente: Si, questo è vero, ma negli ultimi due articoli da te citati ci sono solo disposizioni marginali, che non inficiano la validità della risposta unitaria che ti vengo a dare.

Discente: Dì allora quali sono le condizioni perché si possa dare lettura delle precedenti dichiarazioni rese da un teste o da una persona di cui all’articolo 210 comma 1.

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Docente: Queste condizioni sono le tre seguenti:Prima: la impossibilità di sentire il teste o la persona di cui all’articolo 210. Impossibilità che può essere dovuta a varie cause: morte, grave malattia, e, più semplicemente e frequentemente, a loro irreperibilità.Seconda condizione: non derivare tale impossibilità dalla volontà libera dell’interrogando di sottrarsi all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore.

Discente: Evidentemente questa condizione deriva dall’articolo 526.

Docente: Si, e significa, volendo esemplificare, che, se è vero che quando un teste è diventato irreperibile si può dare lettura delle sue precedenti dichiarazioni, ciò non è più vero se risulta che il teste si è reso irreperibile proprio al fine di sottrarsi all’interrogatorio.

Discente: Ma, eccezione all’eccezione, la lettura diventa di nuovo ammessa se l’irreperibilità fosse conseguenza di una decisione non libera: caso classico, una decisione presa in seguito alle minacce altrui.

Docente: E, io ritengo, anche in seguito ad un atto corruttivo altrui.

Discente: E passiamo alla terza condizione.

Docente: E’ quella che troviamo espressa nell’articolo 512: la imprevedibilità della situazione di impossibilità a escutere il teste o la persona di cui all’articolo 210.

Discente: Questa condizione evidentemente si giustifica, da una parte, con la possibilità che il legislatore dà, negli articoli 392 e seguenti, di far assumere, dal giudice delle indagini preliminari, un atto con le forme stabilite per il dibattimento, quando vi è il fondato motivo che tale atto non possa essere assunto al dibattimento, dall’altra, col timore che il pubblico ministero non si giovi maliziosamente di tale possibilità (idest, della possibilità di ricorrere all’incidente probatorio) al fine proprio di potersi valere in dibattimento delle dichiarazioni raccolte da lui o dalla polizia giudiziaria. Pertanto la imprevedibilità va stabilita con una sorta di prognosi postuma. Cioé domandandosi: quando il pubblico ministero sarebbe stato ancora in tempo a richiedere l’incidente probatorio, l’impossibilità a sentire il teste, di poi di fatto verificatesi, era prevedibile?

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Lezione 9 - Patteggiamento sulla prova – I cosiddetti “atti irripetibili”

Discente: La domanda che ti voglio porre in questa lezione è questa: le parti, voglio dire il pubblico ministero, l’imputato ecc., possono con una loro dichiarazione di volontà rendere utilizzabili come prova i verbali delle dichiarazioni assunte senza l’osservanza degli articoli 498, 499 cioè senza una cross-examination?

Docente: Chiaramente, si; e non potrebbe essere diversamente. Infatti l’inutilizzabilità di tali verbali deriva dal sospetto che non riportino fedelmente il pensiero del dichiarante. Ma tale sospetto non può che cadere se le parti, che sono le migliori giudici sul punto, dimostrano di non nutrirlo: nel verbale di interrogatorio dell’imputato è scritto “L’auto era nera”, tu, difensore dell’imputato, chiedi che tale verbale sia utilizzato come prova: come dubitare che il verbale non riporti fedelmente le dichiarazioni dell’imputato?

Discente: Debbo pensare, quindi, che il legislatore, che ha tutto l’interesse a sveltire il processo eliminando la perdita di tempo di un interrogatorio incrociato, dia alle parti la possibilità di rendere utilizzabili le dichiarazioni di cui stiamo parlando.

Docente: Si; e precisamente il legislatore dà alle parti la possibilità di rendere utilizzabile, sia un singolo verbale, sia tutti i verbali esistenti nel fascicolo del pubblico ministero.

Discente: La prima possibilità in quali articoli é contemplata?

Docente: I principali articoli che contemplano tale possibilità sono: l’articolo 431 – cioè l’articolo che disciplina la formazione, all’esito dell’udienza preliminare, del fascicolo per il dibattimento – il cui secondo comma recita: “Le parti possono concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché della documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva”; e l’articolo 493 che - disciplinando le richieste di prove da farsi negli atti introduttivi al dibattimento - nel suo terzo comma così dispone: “Le parti possono concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché della documentazione relativa all’attività di documentazione difensiva”.

Discente: Ma mi pare che in tali disposizioni il legislatore non si riferisca solo ai verbali di dichiarazione.

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Docente: E’ vero, in tali disposizioni il legislatore fa un discorso più ampio di quello a cui ci ha condotto l’argomento che stiamo trattando; e in fatti in base ad esse le parti possono concordare l’acquisizione, non solo di un verbale di dichiarazioni, ma anche di un documento, di una lettera.

Discente: Anche di un documento anonimo?

Docente: Il tuo è un caso limite, perché del documento anonimo l’articolo 240 dichiara espressamente l’inutilizzabilità e l’inacquisibilità. Però direi di si: anche di un atto nullo le parti possono concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento. Ma, bada, tale acquisizione fa superare uno, ma non tutti gli ostacoli che si frappongono all’utilizzabilità di un atto: del documento affetto da nullità assoluta il giudice, stando l’acquisizione, darà, come gli impone l’articolo 511, lettura, ma poi ne dovrà dichiarare la nullità.

Discente: Il consenso all’acquisizione nel fascicolo dovrà partire dalla bocca del difensore o da quella dell’imputato?

Docente: Io ritengo che basti la volontà manifestata in tal senso dal solo difensore: a chi ha il potere di decidere se dedurre o no una prova, non si può negare di decidere le modalità di acquisizione di tale prova. Bada però che, non basterà il consenso del difensore dell’imputato, occorrerà anche quello dei difensori delle altre parti e, naturalmente, del pubblico ministero. Tutta un’altra musica per la seconda ipotesi da noi fatta all’inizio del discorso che stiamo conducendo: l’ipotesi del consenso all’utilizzabilità, non di uno, ma di tutti gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero; il che dico subito avviene nel caso di richiesta di giudizio abbreviato.

Discente: Perché dici “tutt’altra musica”?

Docente: Perché in tal caso la richiesta, idest il consenso, deve provenire dall’imputato, non dal suo difensore, e non occorre il consenso delle altre parti processuali. Ma di tutto questo parleremo funditus quando tratteremo di questo tipo di giudizio.

Discente: Affrontiamo un altro argomento: quello degli “atti non ripetibili”.A te la parola.

Docente: Di “atti non ripetibili” fa parola l’articolo 431 nel comma primo lettere b) e c).

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Discente: Che ci dice il legislatore con queste disposizioni?

Docente: Ci dice che “nel fascicolo per il dibattimento” vanno inseriti “b) i verbali degli atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria; c) i verbali degli atti non ripetibili compiuti dal pubblico ministero e dal difensore”.

Discente: Qual’è la conseguenza di tale inserimento nel fascicolo di cui sopra?

Docente: Che, ai sensi dell’articolo 511 comma 1, il giudice potrà, anzi dovrà, dare lettura dei verbali inseriti, con la conseguenza ulteriore che egli potrà porre a base della sua sentenza ciò che viene dichiarato in tali verbali senza sentire come teste chi fa la dichiarazione: il pubblico ufficiale Pinco Pallino nel verbale dichiara: “Il giorno tal dei tali mi sono recato in casa di Rossi e lì ho trovato e sequestrato una pistola”, e diventa Vangelo che Pinco Pallino si sia recato il giorno tal dei tali in casa ecc. ecc…...

Discente: Come si giustifica tale patente deroga alla regola che ogni dichiarazione va acquisita al processo con l’esame, ai sensi degli articoli 498 e 499, del dichiarante?

Docente: Secondo la nostra Corte di Cassazione tale deroga si giustifica con l’irripetibilità dell’atto.

Discente: Ma la dichiarazione contenuta in verbale mi pare perfettamente ripetibile: chi impedisce al bravo pubblico ufficiale del tuo esempio di ripetere davanti ai giudici quel che ha detto a verbale, che cioè il giorno tal dei tali si è recato in casa ecc. ecc.?

Docente: Ma la Corte riferisce l’irripetibilità, non alla dichiarazione, ma al fatto dichiarato; e così ritiene irripetibili “i verbali di sopralluogo e di osservazione, con le riprese fotografiche connesse in quanto riproducenti – sto leggendo da una sentenza del 1999 – fatti e persone individuati in situazioni soggette a mutamento”. E con lo stesso tipo di ragionamento giunge alla conclusione che siano relativi ad atti irripetibili i verbali di sequestro, i verbali dell’ispettorato del lavoro e simili.

Discente: Però nessuno può negare che si tratti di verbali relativi ad atti irripetibili: forse che la scena dell’incidente fotografata dalla Polizia, forse che l’operazione di sequestro si possono ripetere in udienza?

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Docente: Ma certo che i verbali sono relativi a fatti irripetibili! Ma non è questa la ragione per cui il legislatore ne ammette la lettura senza escussione come teste del verbalizzante. Ché se questa fosse la ragione, allora si dovrebbe ammettere la lettura della relazione, fatta da un pubblico ufficiale o addirittura da un qualsiasi privato, di un litigio avvenuto davanti ai loro occhi: forse che la scena del litigio si può ripetere?

Discente: Tu escludi quindi che si possa dar lettura di un verbale di sequestro, di un verbale di sopralluogo?

Docente: Nient’affatto. Di tali verbali senza dubbio si può dare lettura, ma il vero motivo per cui se ne può dare lettura, non sta nel fatto che sono relativi a eventi irripetibili, ma sta in ragioni di economia processuale: siccome ciò che in tali verbali viene dichiarato proviene da persona della cui buona fede non vi è ragione di dubitare; siccome non vi è ragione di dubitare di un errore nella percezione e nel rilievo dei fatti esposti in quanto si tratta di fatti facilmente rilevabili e percepibili, io, legislatore, autorizzo te, giudice, a porre a base della tua sentenza quanto dichiarato in tali verbali prescindendo dalla escussione del verbalizzante – escussione che costituirebbe una pura perdita di tempo.

Discente: Allora se nel suo verbale di arresto un pubblico ufficiale dichiara: “Il giorno tal dei tali ho arrestato Olivares perché nel bus stava infilando la mano nella borsetta altrui”, il giudice potrà porre, a base della sua sentenza di condanna di Olivares, il fatto che era stato visto da un pubblico ufficiale infilare la mano nella borsetta?

Docente: Quello, no. Mentre è da escludere che il pubblico ufficiale dica il falso quando dice di avere arrestato l’Olivares il giorno tal dei tali in via tal dei tali eccetera (sul punto non è pensabile che un pubblico ufficiale si sbagli, così com’è non pensabile, per fare un altro esempio, che si sbagli dicendo di avere, nel corso di un sequestro, trovata una pistola, o, nel corso di un’ispezione, visto del sangue), non è per nulla da escludere che lui abbia equivocato sul gesto che stava compiendo l’Olivares sull’autobus (si, il pubblico ufficiale dice che l’Olivares stava infilando la mano nella borsetta, ma non potrebbe essere che, semplicemente in base ad uno scossone ecc. ecc. ecc.?).

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Lezione 10 - Interessi prevalenti su quello all’accertamento della verità – Diritto al silenzio dell’imputato

Docente: L’interesse all’accertamento della verità è certamente un interesse fondamentale per lo Stato; però la sua realizzazione non costituisce per lo Stato un valore assoluto: essa cede il passo di fronte alla salvaguardia di altre esigenze ritenute, dallo Stato, più degne di tutela.

Discente: Quali sono queste esigenze?

Docente: Posso cominciare a citare la esigenza di tutela della personalità. Tutela della personalità che porta a riconoscere all’indagato/imputato il diritto al silenzio – e di questo ci riserviamo di parlare in coda a questa lezione – e che ancora detta la formulazione di un articolo importante come l’articolo 200.

Discente: Che dispone tale articolo?

Docente: L’articolo 200 dà la facoltà – bada, la facoltà, e non l’obbligo - di astenersi dal “deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione” a tutta una serie di “professionisti”, inteso questo termine in senso molto lato, tanto da comprendervi, non solo gli avvocati, gli investigatori, i medici, ma anche i ministri del culto.

Discente: E questa disposizione sarebbe dettata da un’esigenza di tutela della personalità del professionista?

Docente: Non tanto di tutela della personalità del professionista, quando di quella della persona, che ha bisogno di rivolgersi a lui. Pensa a un imputato: se non ci fosse tale disposizione egli sarebbe posto nell’alternativa (crudele!) di scegliere tra il dire al suo avvocato tutto quanto è a sua conoscenza, in modo da essere difeso al meglio, e il correre il rischio di rivelare, così facendo, al suo avvocato cose che questi potrebbe essere costretto a dire in un domani come testimone.

Discente: Ma mi pare che, in assenza della disposizione dell’articolo 200, non si determinerebbe solo questo inconveniente. Mi pare che ci sarebbe anche il pericolo che l’imputato, tacendo certe cose al suo difensore, per paura che questi in un domani le riveli, venga con ciò stesso a privarlo di quegli elementi che gli permetterebbero di evitare un errore giudiziario. E ciò, mutatis mutandis, si potrebbe ripetere per il cliente del medico: egli potrebbe essere portato a tacere a chi lo cura alcune cose utili per un’esatta diagnosi.

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Docente: L’osservazione è giusta: senza dubbio l’articolo 200, non è posto solo a tutela della personalità, ma ha anche la funzione di assicurare l’utile svolgimento di certe professioni. E ciò è particolarmente evidente per il suo terzo comma, che riconosce ai giornalisti il diritto a tener segreti “i nomi delle persone dalle quali essi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione”.

Discente: Ciò che significa che il giornalista deve testimoniare su quanto è venuto a sapere ma può astenersi dall’indicare la persona che è fonte del suo sapere.

Docente: Esatto. Ora è chiaro che tale possibilità di astenersi dall’indicare il nome di Pinco Pallino che gli ha spifferato certe cose, non è data al giornalista a tutela della personalità di Pinco Pallino, che avrebbe benissimo potuto omettere di dire al giornalista certe cose senza subire alcun inconveniente.

Discente: Quindi tu ritieni che ai giornalisti sia garantito il segreto professionale, sia pure nei limiti sopra detti, solo per permettere alla Stampa di svolgere al meglio la sua funzione di informare il pubblico.

Docente: Esatto. Ma prima di chiudere sull’articolo 200, e al fine di evitare possibili equivoci, vorrei fare presente che i medici – così come gli altri professionisti, ma il discorso vale soprattutto per i medici – hanno diritto a tacere, non solo su quanto è stato loro detto, ma anche su quanto loro hanno visto. Ad esempio il medico che ha curato Caia può tacere sulle lesioni che questa presentava.

Discente: Ma l’obbligo di referto stabilito dall’articolo 365 del codice penale?

Docente: Certo tale obbligo non è escluso dall’articolo 200 in esame, il quale anzi, nel riconoscere il diritto al segreto, fa espressamente salvi, nel suo primo comma, “i casi in cui (i professionisti) hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria”. Quindi, per riferirci all’esempio introdotto, il medico, qualora dovesse ritenere che le lesioni di Caia presentano “i caratteri di un delitto procedibile d’ufficio”, dovrebbe fare referto. Ben inteso se ciò non venisse a esporre Caia a procedimento penale.

Discente: Continuiamo nel nostro discorso. Tu all’inizio dicevi che lo Stato può autolimitarsi nell’accertamento della verità, non solo ai fini della tutela della personalità, ma anche per altri fini. Quali possono questi essere?

Docente: Uno, anche se non il principale, è la tutela dell’istituto famigliare.

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Discente: Qual’è l’articolo che si preoccupa di tale tutela?

Docente: Il 199. Tale articolo dà facoltà – facoltà e non obbligo – di astenersi dal deporre ai prossimi congiunti dell’imputato (e non delle altre parti processuali!) e alle persone a lui legate da vincolo di adozione.

Discente: Ma che si deve intendere per “prossimi congiunti”? il nipote, lo zio sono prossimi congiunti? e la nuora e il suocero? e il coniuge?

Docente: Ti rispondo di si: tutti quelli che hai nominato vanno considerati come “prossimi congiunti”; però per più precise indicazioni ti debbo rinviare al comma quarto dell’articolo 307 del codice penale. Proseguendo il discorso ti dirò che - mentre i famigliari, di cui ora si è detto, possono sic et simpliciter rifiutarsi di sedere sulla sedia dei testimoni - altri famigliari debbono invece assumere l’ufficio di teste, anche se possono rifiutarsi di rispondere a certe domande. Questi famigliari sono indicati nel comma terzo dell’articolo 199 così:”a) chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso; b) il coniuge separato dell’imputato; c) la persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio o del'unione civile tra persone dello stesso sesso”.

Discente: Ma quali sono le domande a cui le persone di cui sopra possono rifiutarsi di rispondere?

Docente: Quelle sui “fatti verificatisi o appresi dall’imputato (quindi non da terzi) durante la convivenza, coniugale o derivante da un'unione civile tra persone dello stesso sesso”.

Discente: Quindi il convivente o ex convivente può rifiutarsi di deporre, non solo sui fatti appresi dall'imputato, ma anche su quelli appresi da terzi durante la convivenza.

Docente: Hai capito perfettamente.

Discente: Dicci ora qual’è la ratio dell’articolo 199.

Docente: La ratio della facoltà concessa ai “prossimi congiunti” e alle persone legate da vincolo di adozione di astenersi, è con tutta evidenza quella della tutela dell’istituto e della morale famigliare: si ritiene giustamente che su questa incide negativamente l’immagine e l’esempio di un figlio che testimonia contro il padre o di

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un fratello che testimonia contro l’altro fratello: infatti, chi vede o sa di tali fatti, può essere spinto ad imitarli assumendo atteggiamenti aggressivi verso i famigliari.La ratio invece della (sia pur limitata) facoltà di astenersi concessa, al convivente o ex convivente, al coniuge separato, insomma ai famigliari o ex famigliari diversi dai prossimi congiunti e dalle persone legate da vincolo di adozione, é quella di salvaguardare l’intimità del focolare domestico: le persone debbono sentirsi sicure di parlare liberamente quando “sono in famiglia”: sicure che se anche, nel futuro, ci sarà una separazione o un divorzio o un annullamento, le cose da loro dette non verranno rivelate.

Discente: Altri fini diversi dalla tutela della personalità e dell’istituto famigliare, fin’ora visti? fini per la cui tutela lo Stato è disposto ad autolimitarsi nei suoi poteri di accertamento della verità?

Docente: Certamente ne esistono. Basti pensare al fine di tutela del segreto d’ufficio perseguito dall’articolo 201 e al fine di tutela del segreto di Stato perseguito dall’articolo 202.

Discente: Dai un esempio di segreto di ufficio.

Docente: Le cose che si dicono i giudici in camera di consiglio.

Discente: Dai un esempio di segreto di Stato.

Docente: Il luogo dove si trova una postazione missilistica.

Discente: E per tutelare tali segreti il Legislatore è disposto a correre il rischio di una condanna dell’innocente o di un’assoluzione del colpevole?

Docente: Il primo rischio non sussiste, perché in caso di segreto di Stato, se la sua opposizione impedisce l’accertamento dei fatti, il giudice, per il terzo comma dell’articolo 202, deve pronunciare sentenza di non doversi procedere.

Discente: Ma in caso di segreto d’ufficio?

Docente: Nel caso di opposizione di un segreto d’ufficio io credo che il giudice dovrà considerare come accertato a favore dell’imputato il factum probandum.

Discente: E il secondo rischio, quello di lasciare a piede libero un colpevole?

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Docente: Questo rischio indubbiamente sussiste, ma i danni che può provocare un colpevole a piede libero potrebbero essere minori dei danni che potrebbero conseguire dalla rivelazione di un segreto di ufficio o di un segreto di Stato; ed è giusto che spetti ad un’autorità, che può avere l’esatta percezione dell’entità di questi ultimi, il dire da che parte deve pendere la bilancia.

Discente: Cambiamo argomento. Fino ad adesso abbiamo visto dei casi in cui l’autolimitazione dello Stato nell’accertamento dei fatti processuali, si manifestava nella rinuncia dello Stato a pretendere da certe persone l’assunzione, completa o parziale, dell’ufficio testimoniale. Ma tale autolimitazione può manifestarsi anche in altre forme?

Docente: Certo che si. Ad esempio l’articolo 251 pone un limite temporale alle perquisizioni: esse non possono essere effettuate prima delle sette di mattina e dopo le sette di sera. Senza dubbio questa è un’autolimitazione del potere di indagine.

Discente: Un altro esempio di autolimitazione potrebbe ravvisarsi nel divieto, fatto dall’articolo 240, di utilizzazione degli scritti anonimi?

Docente: No, io non ravviserei in tale divieto un’autolimitazione dei poteri di accertamento della verità, in quanto tale divieto è posto in considerazione dell’inaffidabilità di tali documenti. Piuttosto, se vuoi pensare ad un altro caso di autolimitazione (diversa da quella che implica una rinuncia all’escussione di testi) pensa al divieto di intercettazioni.

Discente: Le intercettazioni telefoniche previste dall’articolo 266?

Docente: Ma anche le intercettazioni informatiche o telematiche, previste dall’articolo 266 bis, e le intercettazioni ambientali, previste, di nuovo, dall’articolo 266, da te prima citato.

Discente: Ma quando si ha un’ intercettazione ambientale?

Docente: Quando viene captata la conversazione che due persone intrattengono, senza bisogno di telefono o di altri apparecchi per la trasmissione della parola a distanza, dato che appunto si trovano una vicina all’altra, nello stesso ambiente: è il caso di Tizio e Caio che parlano in un autobus, mentre, con un microfono nascosto sotto il loro sedile, una persona ascolta.

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Discente: Chiarito questo, mi vuoi spiegare perché, rispetto alle intercettazioni, si può parlare di autolimitazione?

Docente: Se ne può parlare per due ragioni.Prima, per la ragione che le intercettazioni – e mi riferisco alle intercettazioni di tutti i tre tipi sopra indicati – sono ammesse dal legislatore solo per certi reati.

Discente: I più gravi, penso.

Docente: Non direi che, la selezione dei reati per cui ammette l’intercettazione, sia stata fatta dal Legislatore adottando solo il criterio della loro particolare gravità. Dato che nel loro elenco, fatto dall’articolo 266, accanto a reati, che sono senza dubbio particolarmente gravi, come i delitti per cui è previsto l’ergastolo o la reclusione superiore nel massimo a cinque anni, trovano posto reati di gravità molto modesta come l’ingiuria e la molestia telefonica.

Discente: Scusa l’interruzione: prosegui nel tuo discorso. Stavi dicendo che due sono le ragioni per cui si può parlare di autolimitazione dello Stato. Una l’hai detta; ed è che non per tutti i reati l’intercettazione è ammessa. E l’altra ragione?

Docente: E’ data dal fatto che, come dispone l’articolo 267, le intercettazioni possono essere adottate solo su provvedimento del pubblico ministero (e non della Polizia!) – e solo dopo autorizzazione del giudice delle indagini preliminari.

Discente: Dopo quel che hai detto è ovvia la domanda: quando si può parlare di intercettazione (per cui scattano i limiti da te sopra indicati)?

Docente: Di intercettazione si può parlare solo quando si capta la conversazione tra due o più persone a loro insaputa: basta che solo una di loro sappia, perché di intercettazione non si possa più parlare.

Discente: Quindi non vi è intercettazione quando uno dei due interlocutori, all’insaputa dell’altro, registra le parole che quest’altro gli dice (per poi portare, metti, la registrazione alla Polizia).

Docente: Certamente, no. E neanche vi è intercettazione quando la polizia si mette ad ascoltare, ad esempio utilizzando una derivazione, le parole di un interlocutore col consenso dell’altro.

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Discente: Quindi, se, per riferirci, non più ad un’intercettazione telefonica, ma a una intercettazione ambientale, io mi reco ad un appuntamento con un registratore ben nascosto nella borsa e registro quel che mi dice il mio interlocutore, a sua insaputa, io poi posso portare il nastro registrato alla polizia sicuro che potrà, senza problemi, essere acquisito come prova nel processo?

Docente: Certo che si. In tali casi non è applicabile l’articolo 271 – l’articolo cioè che fa divieto di utilizzare come prova le intercettazioni illecite – per la semplice ragione che non si è in presenza di un’intercettazione.

Discente: Mentre se io avessi registrato a loro insaputa la conversazione di due persone?

Docente: Allora, si, che ci troveremmo di fronte ad un’intercettazione illecita, l’articolo 271 sarebbe applicabile e tu non potresti utilizzare la registrazione come prova.

Discente: Dulcis in fundo. Parliamo adesso del diritto al silenzio – cioè del diritto dell’indagato/imputato di non rispondere alle domande sui fatti di causa. Prima di tutto, da che risulta tale diritto?

Docente: Principalmente dal terzo comma dell’articolo 64, di cui ti pregherei di dare lettura.

Discente: Terzo comma dell’articolo 64: “Prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona deve essere avvertita che: a) le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti, b) salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1, ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso; c) se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone, salve le incompatibilità previste dall’articolo 197 e le garanzie di cui all’articolo 197 bis”.

Docente: Prescindiamo dal disposto di cui alla lettera c, il cui significato apparirà chiaro quando parleremo della testimonianza dell’imputato e dal disposto di cui alla lettera a), che è di facile comprensione, e concentriamoci sul disposto della lettera b.

Discente: E a proposito della lettera b) ti faccio subito la prima domanda: che significa il suo incipit “salvo quanto disposto dall’articolo 66”?

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Docente: Significa che l’indagato può rifiutarsi di rispondere ad ogni domanda salvo a quelle che mirano a determinare la sua identità: cioè domande su: nome, cognome, data di nascita, residenza ecc.

Discente: Chiarito questo, ti pongo ora la domanda più ovvia: ma perché il legislatore si astiene dal punire l’indagato/imputato che rifiuta di rispondere sui fatti di causa o rispondendo dice il falso? perché si priva di uno strumento utile per l’accertamento della verità?

Docente: Perché ritiene incivile porre una persona, l’imputato, di fronte all’alternativa stressante e angosciante tra il dire la verità ed essere condannato dagli uomini e il dire il falso ed essere condannato da Dio.

Discente: Epperò da varie norme risulta che l’Autorità giudiziaria e addirittura la Polizia possono costringere l’indagato a comportamenti collaborativi. Ad esempio, dall’articolo 349 risulta che la polizia può imporre all’indagato di sottoporsi a rilievi dattiloscopici, altimetrici, a prelievi di saliva e di capelli. Dagli articoli 132, 375, 376 risulta che l’Autorità Giudiziaria può imporre all’indagato di sottoporsi ad un esame peritale, di comparire per un interrogatorio e confronto (libero poi naturalmente l’indagato di stare con la bocca chiusa). Ancora, dall’articolo 490 risulta che “il giudice (…) può disporre l’accompagnamento coattivo dell’imputato assente o contumace, quando la sua presenza è necessaria per l’assunzione di una prova diversa dall’esame” - cosa per cui, mi pare di capire, l’imputato potrebbe addirittura essere costretto a collaborare alla ricognizione di cui agli articoli 213 e seguenti.

Docente: Certo e se putacaso si mettesse le mani sul viso per ostacolare l’atto ricognitivo, il giudice potrebbe ordinare di toglierle con la forza: su ciò c’è un chiaro insegnamento giurisprudenziale. Però tutte le disposizioni da te, sopra, così diligentemente citate, non sono in contraddizione con la concessione, fatta dal legislatore all’indagato, del diritto al silenzio. Non è ad esempio che, l’ordine di collaborare all’assunzione di prove diverse dall’esame, ponga l’indagato in quella stressante alternativa di cui prima si parlava: il giudice ordina a Mohammed, sospetto rapinatore, di prestarsi ad una ricognizione: l’alternativa che si pone per Mohammed tra l’ottemperare volontariamente all’ordine o tra… l’ottemperarvi coattivamente, non gli pone nessun problema di coscienza: non è che, se decide di non ottemperare all’ordine del giudice, ha ad temere quel castigo celeste che potrebbe, invece, terrorizzarlo qualora il non ottemperarvi implicasse dire il falso.

Discente: Sia come sia, una volta riconosciuto all’indagato il diritto al silenzio e a mentire, l’interrogatorio perde molto della sua efficacia come strumento di indagine.

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Docente: E infatti il legislatore dimostra di considerare l’interrogatorio soprattutto come un mezzo, un’opportunità offerta all’indagato per esporre gli elementi a sua difesa.

Discente: Lo dimostra come?

Docente: Col disposto dei commi 1 e 2 dell’articolo 65, che così recitano: “L’autorità giudiziaria contesta alla persona sottoposta alle indagini in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito, le rende noti gli elementi di prova esistenti contro di lei e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, gliene comunica le fonti. - Invita, quindi, la persona ad esporre quanto ritiene utile per la sua difesa e le pone direttamente domande”.

Discente: Però il giudice dà l’avviso che ha facoltà di non rispondere, a chi gli sta di fronte, solo se questi è imputato o indagato. Ora ben può succedere che una persona faccia una dichiarazione, che la impicca alla condanna, durante un interrogatorio che non la vede per nulla come indagata. Io penso a questo caso: il giudice, nel corso di un processo per furto contro Rossi, domanda al teste Bianchi: “E’ vero che è stato il Rossi a darle questo brillante?”, e il Bianchi risponde: “Si, me l’ha data in cambio di un etto di eroina che io e il Longo possedevamo”, con ciò confessando il reato di spaccio di droga. Domanda: la risposta del Bianchi sarebbe utilizzabile contro di lui in un futuro e molto probabile processo per spaccio di droga?

Docente: La risposta negativa te la dà l’articolo 63, che recita: “Se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata ovvero una persona non sottoposta alle indagini rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe l’esame, avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona. - Se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate “.

Discente: Quindi, se ho ben capito, l’interrogatorio si blocca, si interrompe, non solo quando le dichiarazioni dell’interrogato lo indicano con chiarezza come autore di un reato, come nel caso da te sopra esemplificato, ma anche quando sono tali da far sorgere il sospetto che sia autore di un reato.

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Docente: E’ così. Per ricollegarci all’esempio prima introdotto: alla domanda del giudice, il Bianchi risponde: “Si, il brillante me lo ha dato il Rossi e io l’ho messo in una scatola insieme a della eroina che vi tenevo”: tanto basterebbe per far sorgere nell’interrogante l’obbligo di sospendere l’interrogatorio.

Discente: Nell’articolo in esame si impone all’autorità procedente di avvertire l’interrogato “che a seguito delle sue dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti”. Quindi le dichiarazioni contra se dell’interrogato saranno, si, inutilizzabili come prova contro di lui, ma saranno utilizzabili per giustificare un’attività di indagine: sbaglio?

Docente: Io direi che saranno utilizzabili - più che per giustificare un’attività d’indagine: in fondo di che giustificazione ha bisogno l’Autorità per iniziare delle indagini?! – per motivare singoli atti d’indagine: ad esempio con le dichiarazioni de quibus il giudice delle indagini preliminari potrebbe motivare, ai sensi dell’articolo 267, la sua autorizzazione alle intercettazioni.

Discente: Un’ultima domanda sull’articolo 63: in questo articolo sembrerebbe operarsi una distinzione tra chi doveva essere sentito sin dall’inizio come imputato o indagato e chi non doveva esserlo: io non vedo il perché di tale distinzione dal momento che in entrambi i casi le dichiarazioni dell’interrogato sono inutilizzabili.

Docente: Eh, no: la distinzione ha invece una sua rilevanza. Nel caso che il Bianchi non doveva essere sentito sin dall’inizio come imputato o indagato, le dichiarazioni da lui fatte non sono utilizzabili contro di lui, ma lo sono contro terzi: nell’esempio fatto, contro il Longo. Nel caso contrario, invece, le dichiarazioni non sono utilizzabili né contro il Bianchi né contro il Longo. Questa soluzione, che ti può sembrare strana, non ti sembrerà più tale se considererai che l’articolo 64 dispone, da una parte, nel suo terzo comma lett. c), che si dia avviso all’interrogato/indagato che per le dichiarazioni concernenti terzi assumerà l’ufficio di testimone, e, dall’altra parte, nel suo comma 3 bis, che in mancanza di tale avviso le dichiarazioni nei confronti di terzi non siano utilizzabili. Il nostro Bianchi doveva essere interrogato sin dall’inizio come indagato; pertanto non sarebbe giusto privarlo di quelle facoltà che in tal caso gli sarebbero spettate: in particolare del diritto di esser avvisato ecc. ecc.

Discente: Ritorniamo alle origini del nostro discorso: una persona ha diritto al silenzio nel processo che la vede come imputato, ma in un altro processo? Metti, Rossi è imputato di furto nel processo A: può essere chiamato nel processo B per rispondere a delle domande, naturalmente su fatti, per il processo B, rilevanti? può

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addirittura essere costretto a rivestire, in tale processo B, la scomoda qualità di teste?

Docente: Rispondo separatamente alle tue domande, cominciando dalla seconda: l’imputato nel processo A può essere costretto a ricoprire l’ufficio di testimone nel processo B? Per rispondere a tale domanda si deve partire dall’ovvia considerazione che sarebbe illogico e assurdo dare a Rossi, imputato di furto davanti al Tribunale di Arezzo, il diritto di astenersi dal rispondere alla domanda A, la cui risposta potrebbe comprometterne le tesi difensive e poi obbligare lo stesso Rossi a rispondere alla stessa domanda A davanti al tribunale di Firenze, e questo solo perché davanti al Tribunale di Firenze siede come imputato, non lui, ma certo Bianchi.

Discente: Allora c’è da aspettarsi che il nostro legislatore dia facoltà all’imputato Rossi di negare la sua risposta alla domanda A, sia che gli venga posta nel processo che lui ha davanti al tribunale di Arezzo sia che gli venga posta in un processo davanti a qualsiasi altro tribunale della Repubblica Italiana.

Docente: Forse questa sarebbe la soluzione più logica; però non è una soluzione praticamente adottabile, perché, a chi mai si può rimettere la decisione se la domanda A pregiudica Rossi nella causa davanti al tribunale di Arezzo? al tribunale di Firenze, davanti a cui Rossi siede come teste? no, perché non si può pretendere che questo tribunale conosca gli atti della causa di Arezzo; allo stesso Rossi? no, perché egli, per liberarsi da una domanda fastidiosa, potrebbe essere portato a mentire e a dire che lo pregiudica nella causa di Arezzo mentre così non è.

Discente: E allora?

Docente: Allora, il nostro legislatore segue un altro sistema: individua alcune categorie di cause, in cui vi è una fortissima probabilità che all’imputato, se sentito come teste, vengano poste domande la cui veridica risposta potrebbe danneggiarlo nella causa penale contro di lui promossa.

Discente: Chiamiamole, cause al calor rosso; e ora dimmi quali sono.

Docente: Sono quelle che riguardano i reati di cui all’articolo 12 comma 1 lettera a.

Discente: E dopo aver previste le “cause al calor rosso”?

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Docente: Il legislatore prevede le cause…al calor blu: cioè le cause in cui tale rischio di domande lesive del diritto al silenzio dell’imputato esiste, ma è meno forte.

Discente: E quali sono tali cause?

Docente: Sono quelle che riguardano i reati di cui al comma 1 lettera c dell’art. 12 e i reati di cui al comma 2 lett. b dell’art. 371.

Discente: Fatto tutto questo, previste le cause al calor rosso e al calor blu, che fa il nostro bravo legislatore?

Docente: Esclude che la persona imputata – e bada io sto parlando di persona imputata, cioè di persona su cui pende ancora il procedimento, ché vedremo che il discorso cambia quando questo è già definito – ebbene, dicevo, il legislatore esclude che la persona imputata possa essere sentita come teste nelle cause al calor rosso. Questo che lei lo voglia o non lo voglia. Quindi, metti che il Rossi sia accusato di aver insieme all’amico Bianchi svaligiato la villa di Paperoni e metti che, per uno di quei disguidi che possono accadere anche nel migliore degli ordinamenti giudiziari, la causa contro il Rossi penda davanti al tribunale di Arezzo e quella contro il Bianchi davanti al tribunale di Firenze; ebbene il Rossi non potrebbe essere sentito come teste dal tribunale di Firenze. Anche, ripeto, se lui si offrisse di testimoniare.

Discente: Mi sembra piuttosto logico. Infatti nell’ ipotesi che, come è nella normalità dei casi, le due cause fossero state riunite, e il Rossi e il Bianchi da bravi compagni di sventura sedessero l’uno accanto all’altro davanti allo stesso giudice nello stesso processo, il Rossi né avrebbe potuto essere chiamato a testimoniare né avrebbe potuto pretendere di testimoniare. Andiamo avanti. Passiamo alle cause di color blu.

Docente: Per esse le cose si presentano in maniera un po’ diversa. Questo in quanto il legislatore per regola esclude che l’imputato possa essere sentito come teste in questo tipo di cause; però a tale regola fa un’importante eccezione.

Discente: Quale?

Docente: Quella prevista dall’articolo 64 nel suo comma terzo lettera c. La quale eccezione comporta che se l’imputato, ancorché avvisato ai sensi di questa disposizione, ha fatto dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri,

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su tali fatti, e bada, solo su tali fatti, può essere sentito come teste. Anche in tale ipotesi è escluso però che possa essere obbligato a “deporre su fatti che concernono la propria responsabilità”. Esempio, Pasqualino, imputato di favoreggiamento reale per aver accettato di nascondere la merce rubata dal cognato Pischedda, ancorché ritualmente avvisato, dichiara: “Mio cognato Pischedda a tavola dichiarò che il giorno prima aveva svaligiato la villa di Paperoni”. In tal caso Pasqualino potrà essere sentito come teste nel processo contro Pischedda; però l’unica domanda che gli si potrà porre sarà questa: “E’ vero che il Pischedda a tavola dichiarò che ecc. ecc.?”. Assolutamente escluse saranno, invece, domande del tipo: “E’ vero che il Pischedda vi pregò di prendere in consegna la refurtiva?”.

Discente: Tutto questo da che articolo risulta?

Docente: Dall’articolo 197 bis di cui faremo presto più diretta conoscenza.

Discente: Tutto quanto tu hai detto vale per l’imputato Rossi mentre è ancora pendente contro di lui il procedimento per furto. Ma che succede una volta che tale procedimento è stato definito con sentenza irrevocabile? Il Rossi può allora essere sentito come teste?

Docente: Si, e allora non si fa più distinzione tra “cause rosse” e “cause blu”.

Discente: Quindi il Rossi condannato con sentenza irrevocabile per avere svaligiato col Bianchi la villa di Paperoni potrà essere chiamato come teste nel processo in cui il Bianchi deve rispondere dello stesso reato (idest di aver svaligiato col Rossi la villa ecc.ecc.) e lì sentirsi fare la domanda: “Mentre lei scalava il muro della villa, il Bianchi le teneva la scala?”.

Docente: E’ così (salvo quanto poi chiariremo meglio).

Discente: Ma non lo trovo molto giusto: Bianchi anche se condannato potrebbe avere sempre interesse a negare la sua partecipazione al furto. Questo per vari motivi, per la speranza di poter ottenere, vantando la sua innocenza, un provvedimento di clemenza; per la speranza di ottenere la revisione del processo; più semplicemente per salvaguardare la propria immagine nella società.

Docente: Ma il legislatore tiene conto di questo. Infatti, il Rossi non potrà essere obbligato a deporre sui fatti per i quali è stato condannato. A meno che abbia

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ammesso nel processo la propria responsabilità – e questo è logico, in tal caso infatti il discorso che tu hai fatto non avrebbe più senso. Inoltre nel quinto comma, sempre dell’articolo 197 bis, il legislatore si premura di stabilire che le dichiarazioni dell’imputato, del Rossi del nostro esempio, non potranno essere utilizzate a suo carico nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto dei procedimenti definiti con sentenza irrevocabile.Ma a questo punto forse è meglio leggere per completezza l’articolo 197 bis. Articolo 197 bis: “-1. L’imputato in un procedimento connesso ai sensi dell’articolo 12 o di un reato collegato a norma dell’articolo 371, comma 2 lett.b, può essere sempre sentito come testimone quando nei suoi confronti è stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444. -2. L’imputato in un procedimento connesso ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera c) o di un reato collegato a norma dell’articolo 371, comma 2, lettera b), può essere sentito come testimone, inoltre, nel caso previsto dall’articolo 64 comma 3 lettera c). -3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2 il testimone è assistito da un difensore. In mancanza di difensore di fiducia è designato un difensore d’ufficio. -4. Nel caso previsto dal comma 1 il testimone non può essere obbligato a deporre sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei suoi confronti, se nel procedimento egli aveva negato la propria responsabilità ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione. Nel caso previsto dal comma 2 il testimone non può essere obbligato a deporre sui fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti. -5. In ogni caso le dichiarazioni rese dai soggetti di cui al presente articolo non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna e in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette. -6. Alle dichiarazioni rese dalle persone che assumono l’ufficio di testimone ai sensi del presente articolo si applica la disposizione di cui all’articolo 192 comma 3”.

Discente: Tu hai detto che un imputato, penso al nostro Rossi degli esempi prima fatti, neppure volendo, può testimoniare nelle cause di cui all’art 12 comma 1 lett. a – quelle che abbiamo convenuto di chiamare le cause al calor rosso. E ciò può essere giusto. Ma l’imputato Rossi può sapere molte cose – cose utili per stabilire l’innocenza o la colpevolezza di un altro imputato, dell’imputato Bianchi – perché non sentirlo comunque nel processo di questi, del Bianchi – beninteso senza gettargli addosso la veste troppo impegnativa del teste?

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Docente: E infatti il legislatore ammette il tuo Rossi a fare, se vuole, dichiarazioni nel processo contro il Bianchi. Ciò ti risulta dal primo e quarto comma dell’articolo 210. Ecco quel che dice il primo comma: “Nel dibattimento le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12, comma 1 lettera a) nei confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente e che non possono assumere l’ufficio di testimone, sono esaminate a richiesta di parte, ovvero, nel caso indicato nell’articolo 195, anche di ufficio”. Ed ecco quel che dice il secondo comma: “Prima che abbia inizio l’esame, il giudice avverte le persone indicate nel comma 1 che, salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1, esse hanno facoltà di non rispondere”.

Discente: Una cosa non capisco. Tu prima hai detto che l’imputato non può mai assumere l’ufficio di teste in una causa relativa ai reati di cui all’articolo 12 comma 1 lett. a. Però il primo comma dell’articolo 210, che ora hai letto, riferendosi a casi in cui “l’imputato in un procedimento connesso ecc” “non può assumere l’ufficio di testimone”, permette di argomentare, a contrario, che in alcune ipotesi tale imputato può ricoprire l’ufficio di teste. Sto equivocando?

Docente: Sei semplicemente vittima degli idola fori. La confusione nasce perché io ho usato una terminologia diversa del legislatore. Questi, quando parla di imputato, si riferisce sia alla persona contro cui pende un procedimento che alla persona contro cui già è stata emessa sentenza irrevocabile. Io invece distinguo le due ipotesi, mi pare più correttamente. Quindi anche per me l’imputato, usata questa parola nel senso in cui il legislatore la usa, sia nell’articolo 197 sia nell’articolo 210, può assumere alcune volte l’ufficio di teste: e quelle volte sono quelle in cui il processo è già stato definito con sentenza irrevocabile (per cui a rigore non ci troviamo più di fronte a un imputato ma ad un ex-imputato).

Discente: Grazie del chiarimento; e procedo con un’altra domanda: se l’imputato, pur non potendo assumere l’ufficio di testimone, può fare dichiarazioni, melius, può accettare di sottoporsi alle domande delle parti e del giudice, nelle cause di cui all’articolo 12 comma 1 lett. a, le cause che ci è piaciuto chiamare al calor rosso, debbo a maggior ragione pensare che l’imputato possa fare dichiarazioni nelle cause al calore blu anche nei casi in cui non potrebbe essere obbligato ad assumere l’ufficio di teste. Ragiono bene?

Docente: Benissimo; e se mi permetti il bisticcio di parole ti dà ragione nelle conclusioni da te prese il sesto comma dell’articolo 210, che recita: “Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche alle persone imputate in un procedimento

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connesso ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lett. c) o di un reato collegato a norma dell’articolo 371, comma 2, lettera b), che non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato. Tuttavia a tali persone è dato l’avvertimento previsto dall’articolo 64, comma 3, lettera c) e, se esse non si avvalgono della facoltà di non rispondere, assumono l’ufficio di testimone (…)”. Come dire l’imputato può fare, sì, dichiarazioni, melius sottoporsi all’esame, nelle cause al calore blu, ma solo accettando di assumere l’ufficio di teste

Discente: Una cosa non riesco ancora a capire bene. Leggo l’articolo 197 e vi trovo tutte le cose che si sarebbero potute ricavare a contrario dall’articolo 197 bis, da noi prima sottoposta ad esame. E ciò mi sta bene: quod abundat non vitiat. Però non capisco il disposto della sua lettera b.

Docente: Perché?

Discente: Perché da esso sembrerebbe dedursi che non possono assumere l’ufficio di teste “le persone imputate in un procedimento connesso ecc. ecc.” “salvo che abbiano fatte dichiarazioni sui fatti altrui e salvo che il procedimento sia stato già definito con sentenza irrevocabile” – questo mentre invece dall’articolo 210 or ora letto risulta che pure le persone imputate in un procedimento connesso, che non hanno fatto dichiarazioni su fatti altrui e il cui procedimento non è stato definito con sentenza irrevocabile, possono assumere l’ufficio di teste: non vi è una contraddizione in ciò?

Docente: Effettivamente vi è; e per eliminarla bisogna interpretare l’articolo 197 restrittivamente, cioè come se dicesse: “Non possono essere assunti coattivamente come testimoni ecc. ecc.”. Insomma il legislatore ha pasticciato un po’.

Lezione 11 - Nullità assolute, nullità intermedie, nullità relative. Inutilizzabilità (di una prova)

Discente: In varie norme il Legislatore ci dice quale autorità è legittimata a compiere un atto e quali incombenti essa deve assolvere nel compierlo. Ora ti domando: che succede se tali norme non vengono osservate, se, ad esempio, una notifica viene fatta dall’ufficiale postale anziché dall’ufficiale giudiziario, se il giudice, nel fare un interrogatorio, non osserva l’incombente di avvisare l’interrogato della facoltà di non rispondere (come prescrive l’articolo 64) o, nel dar inizio al dibattimento, non informa l’imputato della facoltà di fare dichiarazioni (come prescritto dall’articolo 494)?

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Docente: Succede che alcune volte il legislatore reagisce contro l’inosservanza della norma e altre volte… lascia perdere.

Discente: Com’è possibile che il legislatore non reagisca alla violazione di una norma da lui data? Se infatti con quella norma ha imposto che l’atto venga fatto da una certa autorità, se ha imposto che nel compierlo questa autorità assolva certi incombenti, certamente lo ha fatto per uno certo scopo: quello di apprestare una tutela a un certo interesse. Ad esempio se, nel comma sesto dell’articolo 157, il legislatore impone all’ufficiale giudiziario di consegnare l’atto notificando a persona convivente solo in plico chiuso, con tale norma evidentemente vuole tutelare la privacy dell’imputato.

Docente: Giusto, vieni alla domanda.

Discente: La domanda è: se veramente quell’interesse è degno di tutela, se veramente l’inosservanza della norma, tale interesse, vulnera e lede, non vorrebbe la logica che il legislatore, sempre all’inosservanza della norma reagisse e sempre vi reagisse con l’eliminazione dell’atto lesivo?

Docente: Non nego che in apparenza la tua osservazione sia fondata. Di più, ti dirò che il legislatore francese del 1789, proprio in base alla considerazione da te fatta, stabilì – nell’illusione di creare così un ordinamento del tutto logico e razionale – la nullità per ogni atto processuale compiuto in violazione a una norma. Però, solo che si approfondiscano un poco le cose, ci si accorge che, in non pochi casi, stabilire la nullità dell’atto, non riparerebbe il danno da esso causato, ma otterrebbe l’unico risultato di ritardare e complicare la definizione del processo.

Discente: Non capisco.

Docente: Per capirlo pensa proprio all’esempio da te portato: l’ufficiale giudiziario consegna l’atto senza preoccuparsi di inserirlo in una busta: a che servirebbe dichiarare la nullità della notifica? ormai la persona, a cui l’atto è stato consegnato, le sue curiosità se l’è tolte! Imponendo la rinnovazione della notifica il legislatore otterrebbe solo di ritardare il processo!

Discente: Tu hai anche detto che reagire all'atto irregolarmente compiuto comporterebbe delle complicazioni e dei ritardi.

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Docente: Sì certo, infatti l'annullamento di un atto, comporta quasi sempre la sua rinnovazione – rinnovazione che quasi sempre va fatta dalla stessa autorità che ha compiuto l'atto nullo.

Discente: Perché?

Docente: Oh bella, la cosa mi pare intuitiva: vuoi che il giudice del dibattimento, che ha dichiarata la nullità del decreto di citazione fatto dal P.M. (se si tratta di citazione diretta o dal GIP, se si tratta di procedimento ordinario …..) sia lui a riformulare tale decreto? Non é evidente che, se così facesse, verrebbe a cumulare in sé la parte dell'accusatore e del giudice? Con ciò non voglio dire che sia sempre così; ad esempio, se ad essere nullo, non é il decreto di citazione, ma la sua notifica, ben può il giudice del dibattimento disporre egli per la sua rinnovazione; tuttavia spesso é così e quindi spesso la dichiarazione di nullità di un atto comporta un notevole ritardo nell'andamento del processo.Inoltre c'é da considerare che spesso un atto non cade da solo ma trascina, per così dire, nella sua caduta molti altri atti. Pensa alla nullità di un atto propulsivo del processo come appunto é un decreto di citazione: il giudice si accorge che il decreto é nullo, metti perché non ha consesso al imputato quel tempo per preparare le sue difese che il legislatore ritiene giusto concedergli, quindi il decreto va annullato, ma il giudice si é accorto di ciò quando già sono stati esaminati i testi, i consulenti, il perito: ebbene anche tutti questi esami sono da considerarsi nulli. Perché? Ma perché c'é il sospetto che, se all'imputato si fosse dato il tempo di prepararsi, tutti questi atti processuali, tutti questi esami, avrebbero dato risultati diversi (metti in seguito alle intelligenti domande, che il difensore dell'imputato sarebbe stato in grado di proporre ai testi e al perito). Naturalmente con ciò non voglio dire che sempre la nullità di un atto trascini quella di tutti gli atti del procedimento: non é così: ad esempio non é così, nel caso che nel corso del dibattimento sia stata richiesta la revoca di una misura cautelare e il giudice abbia deciso su di questa senza sentire il P.M.: come vedremo il provvedimento del giudice dovrebbe considerarsi nullo. Ma ciò non significherebbe, che dovrebbero considerarsi nulli gli atti dell'istruttoria dibattimentale: infatti l'errore da cui potrebbe essere affetto il provvedimento del giudice (sulla richiesta di revoca) non potrebbe contagiare tali atti.

Discente: C'é della logica nelle cose che dici; ma quel che dici tu ha un riscontro in quel che é scritto nel Codice?'

Docente: C'é l'ha negli articoli 185 e 177.

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Discente: Comincia a leggere l'articolo 185.

Docente: L'articolo 185 (sotto la rubrica “Effetti della dichiarazione di nullità”) recita: “1 - La nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo.2 – Il giudice che dichiara la nullità di un atto ne dispone la rinnovazione, qualora sia necessaria e possibile, ponendo le spese a carico di chi ha dato causa alla nullità per dolo o colpa grave.3- La dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui é stato compiuto l'atto nullo, salvo che sia diversamente stabilito.4. La disposizione del comma 3 non si applica alle nullità concernenti le prove.”

Discente: Prosegui.

Docente: Proseguo quindi con la lettura dell'articolo 177, che enuncia il principio di “tassatività” delle nullità.Art. 177: “(Tassatività) - L'inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento é causa di nullità soltanto nei casi previsti dalla legge”.

Discente: Quindi, niente interpretazione analogica: si direbbe che il legislatore vuole legare le mani all'interprete

Docente: Ma gliele slega subito, con l'articolo 178 che segue; articolo in cui il legislatore adopera espressioni di carattere “generale” e che quindi possono facilmente dare adito a interpretazioni divergenti (per cui il povero giurista non sa se ritenere la nullità in base all'interpretazione del professore A o se negarla in base all'interpretazione del professore B). Ma leggiamo questo articolo.Art. 179:”(Nullità di ordine generale) - E' sempre prescritta a pena di nullità l'osservanza delle disposizioni concernenti:a) le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario;b) l'iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale e la sua partecipazione al procedimento,c) l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante”. Discente: Mi pare di capire che la nullità sub a) si giustifica con la maggiore probabilità di errori che presentano le decisioni del giudice A “incapace” (o meno capace) rispetto al giudice B “capace” (o più capace) e con l'ovvia considerazione

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che se il se il legislatore vuole che la causa M sia decisa dal giudice B lo vuole o perché ritiene la causa M particolarmente difficile o perché ritiene che un errore che la infici sia particolarmente gravido di conseguenze. Cosa per cui diventa logico che sospetti di erroneità e quindi voglia eliminare gli atti inerenti alla causa M, se questa per un qualche disguido fosse stata gestita, non dal “capace” B, ma dall'”incapace” A. E' così?

Docente: Sì, sostanzialmente é così: se, ad esempio, il legislatore annulla la sentenza pronunciata da A in veste di giudice monocratico, senza aver maturato un certo numero di anni come componente di un tribunale collegiale, é perché egli ritiene che A, non avendo fatto parte di un collegio per il tempo dovuto, non abbia maturato l'esperienza necessaria per fare una giusta sentenza.

Discente: Io penso anche che tutti gli atti compiuti dal giudice “incapace” (l'assunzione di una prova, l'ammissione della parte civile ….) e non solo la sua sentenza siano da considerarsi nulli.

Docente: - Anche qui pensi bene. Però, bada, ciò é un dettato dell'articolo 178, non é un dettato della logica; questa vorrebbe che si distinguesse atto per atto. Infatti il giudice A può essere benissimo capace di assumere correttamente una testimonianza o di escludere giustamente una parte civile, ma ciò nonostante può non dare affidamento di decidere senza errori se l'imputato va condannato o assolto.Tanto é vero questo, che il legislatore trattando, nell'articolo 26, degli effetti di una dichiarazione di incompetenza, nel primo comma, stabilisce che “l'inosservanza delle norme sulla competenza non produce l'inefficacia delle prove già acquisite” e, nel secondo comma. “che le dichiarazioni rese al giudice incompetente per materia, se ripetibili (se non lo sono vale in toto il dettato del primo comma) sono utilizzabili” lo stesso, anche se “soltanto nell'udienza preliminare e per le contestazioni”.

Discente: Questa diversità di soluzione, a seconda che si tratta di giudice “incapace” o di giudice “incompetente” non mi pare molto logica.

Docente: E neanche a me pare tale. Ma bada questa non é la sola incongruenza del codice, ad esempio il disposto dell'art. 33 te ne offre un'altra: infatti se leggi questo articolo vedi che “l'inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei reati alla cognizione collegiale o monocratica e delle disposizioni collegate” va rilevata a pena di decadenza in termini molto stretti (cioé all'udienza preliminare o, se questa manca, prima che sia “compiuto per la prima volta l'accertamento della costituzione delle parti” - vedi meglio l'articolo in oggetto), mentre vedremo

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leggendo l'articolo 179, che invece le nullità derivate dalla incapacità del giudice e “dal numero dei giudici necessario per costituire i collegi”, può essere eccepita in ogni stato e grado del processo. Non solo ma l'articolo 33nonies stabilisce che “l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina la invalidità degli atti del procedimento, né l'inutilizzabilità delle prove già acquisite”, mentre invece la “incapacità” del giudice determina la nullità di tutti gli atti da lui compiuti.

Discente: Chiudiamo la parentesi. Io mi aspetto che il legislatore, anche quando ritiene meritevole di una risposta sanzionatoria la violazione di una norma processuale, gradui la severità di tale sanzione in considerazione della gravità della violazione.E infatti tale gravità può essere diversa a seconda del pregio dell'interesse che la norma violata protegge.

Docente: Quel che tu hai detto é verissimo: le norme processuali tutelano interessi diversi, ad esempio, l'articolo 199 (che dà facoltà ai prossimi congiunti di astenersi dal testimoniare) tutela l'istituto famigliare; l'articolo 63, (che impone di interrompere l'interrogatorio di una persona non imputata né indagata che faccia dichiarazioni autoindizianti) tutela quel diritto fondamentale della personalità espresso dal noto brocardo nemo tenetur se detegere; l'articolo 213 (che impone certi preliminari al compimento di una ricognizione di persona) tutela l'interesse dello Stato all'assunzione di prove affidabili e quindi a sentenze che applichino fedelmente il diritto; e così via. Ed é vero che tali diversi interessi hanno una diversa dignità, per cui il loro conculcamento richiede una diversa risposta sanzionatoria.Aggiungo che tale diversa risposta sanzionatoria é richiesta anche dal fatto che la violazione di una norma può risultare più o meno grave a secondo che riveli solo una (scusabile) ignoranza del diritto o faccia temere uno spregio del giudice per la volontà legislativa di tutelare certi interessi. Mi spiego meglio: se il giudice omette di domandare alla persona, chiamata a compiere un atto di ricognizione (art.213 ss), se abbia prima visto, “anche se riprodotta in fotografia o altrimenti, la persona da riconoscere”, ciò può essere spiegato con una (in fondo scusabile) lacuna nella sua conoscenza del codice, ma se un giudice procede a una udienza preliminare nell'assenza del difensore o procede al dibattimento senza che risulti citato l'imputato, siccome l'omissione del decreto o la mancata presenza del difensore non sono cose che si possa pensare gli siano sfuggite, l'unica spiegazione diventa un suo spregio totale dei diritti della difesa – spregio totale che non può non fare pensare a lui come a un “cattivo giudice” (almeno per quella determinata causa).Dunque é logico che vi sia a seconda del tipo di violazione una reazione di diversa durezza.

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Discente: Ma, questa diversità durezza della sanzione, vi é nel nostro codice?

Docente: Certamente, sì: vedremo leggendo gli articoli 179 e seguenti che vi é una diversa graduazione della sanzione a seconda delle norme violate.

Discente: Io penso che la massima durezza ci sia quando é leso l'interesse dello Stato all'esatta applicazione delle sue norme.

Docente: Questa volta, pensi male. E per rendertene conto basta che ricordi il disposto dell'art. 63, più sopra citato: l'interesse dello Stato a una sentenza che rispecchi il diritto (che assolva l'innocente ma condanni il colpevole) vorrebbe che venissero utilizzate come prova le dichiarazioni autoindizianti dell'interrogato (che, proprio perché si sta dando la zappa sui piedi, dimostra assoluta sincerità); e invece no, il legislatore le dichiara inutilizzabili, così dimostrando di privilegiare i diritti della personalità dell'interrogato rispetto al interesse dello Stato ad una sentenza rispecchiante il diritto sostanziale.

Discente: A questo punto, penso, possiamo passare a vedere come si gradua la reazione del legislatore di contro alla violazione di una norma processuale.

Docente: Dico subito che, gli strumenti in possesso del legislatore per graduare la sanzione, essenzialmente sono: il numero dei protagonisti del procedimento legittimati a rilevare o a eccepire la nullità (più é elevato questo numero più aumenta no le probabilità che essa sia applicata), il termine più o meno largo in cui la nullità può essere rilevata o eccepita (ovviamente più questo termine é largo più aumenta la probabilità che la sanzione della nullità trovi applicazione) e infine la possibilità o meno di sanatorie della nullità.

Discente: Tu parli della nullità come di una sanzione, per cui viene spontanea la domanda: ma la dichiarazione di una nullità é solo una sorta di operazione chirurgica, destinata ad espellere dal corpo del processo un elemento, che potrebbe portare a una sentenza errata oppure é la applicazione di una minaccia, fatta dal legislatore al, per dissuaderlo di tenere certi comportamenti, dal legislatore, non desiderati?

Docente: Mentre si può dire che la inutilizzabilità costituisce sempre quella operazione chirurgica di cui tu ora hai detto, la nullità, sì, certe volte, mira ad espellere dal processo un elemento inquinante, la famosa mela marcia che rischia di far marcire tutto il cesto delle mele, di cui parlano i giuristi statunitensi, ma altre

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volte é puramente e solamente l'applicazione di una sanzione: nell'udienza preliminare compiuta nell'assenza del difensore, non si sono raccolte prove, solo si é deciso quel rinvio a giudizio, che potrebbe anche essere errato, ma che di per sé non può determinare una sentenza errata del giudice del dibattimento: eppure, come vedremo, l'assenza del difensore rende nulla, tamquam non esset, la udienza, e la Corte di appello che, tale nullità rileva, deve far tornare il processo, come nel gioco dell'oca, al GUP: il legislatore evidentemente conta che questi, sapendo che, in assenza del difensore, non solo lui, ma anche i colleghi che presiederanno al dibattimento, rischiano di fare un lavoro inutile, si dimostri rispettoso dei diritti della difesa.Anzi, io direi che dovrebbe riconoscersi solamente un carattere sanzionatorio in tutte le nullità che siano eccepibili, non in tutti i gradi del processo, ma solo entro certi precisi termini: infatti, se la nullità fosse veramente diretta ad espellere dal processo la mela marcia di cui prima si diceva, si dovrebbe pensare, che l'inerzia della parte nel chiedere la sua espulsione, nulla dovrebbe rilevare: non sarebbe assurdo di impedire al giudice del dibattimento di rilevare una nullità solo perché la parte nei precedenti gradi non l'ha eccepita: una mela marcia resta tale anche se una parte l'ha ritenuta buona, e lo Stato ha interesse a una sentenza giusta anche se la parte, che di tale giustizia si giova, nulla ha fatto per ottenerla.

Discente: Ho capito. Ma ora vediamo più concretamente come si gradua la risposta legislativa rispetto alle diverse violazioni della norma processuale.

Docente: Posiamo cominciare col dire che, tenendo conto della diversa reazione alla irregolarità di un atto o di una prova, si possono distinguere le seguenti categorie.I- Inutilizzabilità e nullità assoluta:II- Nullità intermedia.III- Nullità relativa.L'inutilizzabilità e la nullità assoluta, vanno rilevate d'ufficio (ma naturalmente il giudice può essere a ciò sollecitato dalla parte) in ogni stato e grado del procedimento e non tollerano sanatorie (salvo quanto diremo a proposito dell'art. 184) – ciò risulta, per la nullità, dall'incipit dell'articolo 179 e, per la inutilizzabilità, dal secondo comma art. 191.Le nullità intermedie, sono sanabili, possono essere eccepite ma comunque vanno rilevate d'ufficio; “ma non possono più essere rilevate né dedotte dopo la deliberazione della sentenza di primo grado ovvero, se si sono verificate nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo” (art. 180). Salvo quanto diremo a proposito del termine di cui all'articolo 183.

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Le nullità relative sono sanabili, possono essere solo eccepite e nei termini (jugulatori) di cui all'articolo 181.Il secondo comma dell'articolo 183 opera una ulteriore restrizione dei termini previsti per la eccezione e rilevazione delle nullità intermedie e relative, recitando “Quando la parte vi assiste, la nullità di un atto deve essere eccepita prima del suo compimento ovvero, se ciò non é possibile, immediatamente dopo.”

Discente: Ma che senso ha non legittimare, chi ha interesse all'annullamento di un atto, a proporre la relativa eccezione (“Tu eri presente all'atto e non hai eccepito, quindi non potrai più eccepire”) nei casi in cui si ammette (così come si ammette nel caso delle nullità intermedie) che il giudice debba, la nullità, rilevare di sua iniziativa? forse che la parte interessata non può sollecitare il giudice alla rilevazione della nullità? forse che il giudice può rifiutarsi a quel rilevamento della nullità che é suo dovere effettuare?

Docente: Concordo con te: non ha nessun senso. Per darglielo occorre interpretare la normativa nel senso che il giudice conserva il suo potere di rilevare la nullità solo fino a che la parte conserva il suo potere di eccepirla (e solo per permettergli, qualora si accorga di una nullità quando ancora é possibile la sua eccezione, di rilevarla, per togliere dal processo la spada di Damocle di un'eccezione futura, che renderebbe inutile l'attività processuale da lui nel frattempo svolta).

Discente: Tu hai indicato vari recipienti: quello dell'inutilizzabilità, quello delle nullità assolute ecc,. Hai detto a che regime sanzionatorio sono soggetti gli atti che rientrano in tali recipienti. Ora devi dire quali sono gli atti (e le prove) che, in tali recipienti rientrano. Comincia dal recipiente-inutilizzabilità: quali prove vi rientrano?

Docente: In prima battuta, a tale tua domanda verrebbe da rispondere: quelle indicate dal comma 1 dell'art. 191; comma che recita “Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”.Senonché tale articolo applicato alla lettera porta a risultati assurdi.

Discente: Perché?

Docente: Perché, ad esempio, é assurdo, da un lato, ammettere le parti a rendere utilizzabile una data prova - metti una testimonianza, non passata al vaglio dell'esame incrociato ma risultante solo da un verbale del P.M. o della Polizia Giudiziaria - con un loro semplice atto di volontà (pensa alla richiesta di giudizio abbreviato – art.438 ss, -, pensa al consenso dato all'acquisizione di un verbale nel

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fascicolo del dibattimento – v.co. 2 art. 431), e, poi, permettere al giudice di cassazione di rilevare d'ufficio l'inutilizzabilità di tale prova, anche se i giudici di merito l'hanno pacificamente utilizzata con l'acquiescenza (acquiescenza che anch'essa esprime una volontà) della parte.

Discente: E allora?.

Doc E allora la Corte di cassazione giustamente fa dei distinguo, e precisamente distingue la categoria delle prove patologicamente invalide e (perdoniamole l'ossimoro) la categoria delle prove fisiologicamente invalide. Questo per far rientrare le prove della prima categoria nella applicazione dell'articolo 191, e per escluderne invece quelle della seconda categoria, che pertanto, non possono essere considerate inutilizzabili ai sensi dell'art. 191 (ciò che non impedisce che possano essere dichiarate nulle: ad esempio, se il giudice invita la parte offesa a operare una “ricognizione” - ai sensi dell'art.213 - senza prima averle chiesto se precedentemente ha avuta occasione di vedere il ricognoscendo, tu, difensore, puoi eccepire la nullità; però, se non la eccepisci in termini, la ricognizione diventa perfettamente utilizzabile, anche “se acquisita in violazione dei divieti stabiliti dalla legge” come recita l'art.191).

Discente: Dammi un esempio di prova inutilizzabile.

Docente: Pensa a uno scritto anonimo, (art. 240), pensa alle dichiarazioni autoindizianti fatte dall'interrogato prima che gli sia dato l'avvertimento di cui all'art. 63.

Discente: Dimmi ora quali prove posso considerare utilizzabili.

Docente: Tutte quelle che tu potresti utilizzare in un giudizio abbreviato.

Discente: Passiamo ora a parlare delle nullità assolute.

Docente: L'articolo 179, così le elenca nel suo primo comma: “Nullità previste dall'art. 178 comma 1 lettera a” – idest, derivanti dall'inosservanza delle norme che regolano la “capacità” del giudice e “il numero dei giudici necessario per la costituzione dei collegi” -, “quelle concernenti l'iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale e quelle derivanti dalla omessa citazione dell'imputato o dall'assenza del suo difensore nei casi in cui ne é obbligatoria la presenza “. A tale elenco fatto nel suo primo comma, l'articolo 179 aggiunge, nel

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suo secondo comma, altresì “le nullità definite assolute da specifiche disposizioni di legge”.

Discente: La ragione perché tutte le nullità indicate dall'articolo 179 debbano essere considerate assolute a me sembra intuitiva: é l'errore nel giudicare che tutte comportano: errore derivante da (presumibile) “incapacità”, nel caso di processo presieduto da persona diversa da quella che la legge chiama a rivestire tale funzione; errore derivante da perdita di obiettività, nel caso il giudice si sostituisca al p.m. “nell'esercizio dell'azione penale” (non é evidente che, ad esempio, sarà portato a condannare il giudice che, senza richiesta del P.M., di sua propria iniziativa, giudica l'imputato di un reato connesso - art. 517?); errore, infine, derivante dalla mancanza di un controllo sull'operato del giudicante, nel caso di omessa citazione dell'imputato o di assenza del difensore. Dico bene?

Docente: Sì, sostanzialmente dici bene, anche se quel che tu dici circa la mancanza di un controllo sull'operato del giudice, non spiega perché mentre é causa di nullità l'assenza del difensore, non lo é, la assenza del pm. (quando é obbligatoria la sua presenza) e neanche spiega perché non é causa di nullità la omessa citazione della parte offesa (che le impedisce di costituirsi parte civile): forse che nell'assenza del p.m. e di una parte civile il giudice non potrebbe compiere addirittura delle nullità (relative, sì, ma che il p.m e la parte civile, se presenti, avrebbero potuto eccepire)?

Discente: Ma questo avviene per il favor rei che anima il codice: le nullità che nuocciono la pubblica accusa non hanno evidentemente, per il legislatore, lo stesso peso delle nullità che nuocciono alla difesa.

Docente: Può essere: é difficile entrare nella testa del legislatore. Comunque sia, permettimi, prima di andare oltre, due telegrafiche precisazioni. Prima precisazione: sono assolute le nullità concernenti l'iniziativa del p.m, “nell'esercizio dell'azione penale”, non quelle concernenti l'iniziativa che il p.m. può svolgere in altro campo (ad esempio, in quello dell'assunzione delle prove).Seconda precisazione: omessa citazione dell'imputato non é sinonimo di omessa notifica della citazione: anche un decreto di citazione regolarmente notificato, ma che non indica il luogo e il giorno della comparizione o non enuncia in forma chiara il fatto addebitato (vedi art. 429) determina una nullità assoluta..

Discente: Hai fatto bene a fare quelle precisazioni, ma ora parliamo delle nullità intermedie: quali sono?

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Docente: Quali siano si ricava semplicemente sottraendo dalle nullità contemplate dall'art. 178 quelle contemplate dall'articolo 179. Quindi determina delle nullità intermedie la inosservanza delle norme concernenti: 1) la partecipazione del p.m al processo penale; 2) “l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato e delle altre parti”; 3) la citazione in giudizio della persona offesa e del querelante”.

Discente: Un esempio di nullità intermedia per ciascuno dei casi sopra elencati.

Docente: Caso sub 1): il p.m. é assente al momento di prendere le conclusioni o, pur essendo presente, non le prende. Caso sub 2): si é proceduto a giudizio immediato omettendo l'interrogatorio dell'imputato (vedi comma 1 art. 453). Caso sub 3): alla parte offesa non é stato notificato il decreto di citazione (v. meglio il co.4 art. 429).

Discente: Passiamo alle nullità relative: quali sono.

Docente: Te lo dice l'articolo 181: sono “le nullità diverse da quelle previste dagli articoli 178 e 179 comma 2”.

Discente: Qualche esempio di nullità relativa.

Docente: L'omessa firma di un verbale da parte del pubblico ufficiale che l'ha redatto (art. 140); l'omessa indicazione dell'ora della comparizione davanti al giudice del dibattimento (art. 429 co.2).

Discente: A questo punto ci resta di di procedere a un esame degli articoli,182, comma primo, 183, 184.Cominciamo dal comma primo art. 182 (il comma secondo già l'abbiamo fatto oggetto di un nostro esame).

Docente: Il comma primo art. 182 recita: “Le nullità previste dagli articoli 180 e 181 non possono essere eccepite da chi vi ha dato o ha concorso a darvi causa ovvero non ha interesse all'osservanza della disposizione violata”.Un esempio di inammissibilità dell'eccezione per avere l'eccipiente dato causa alla violazione della norma: l'imputato chiede la nullità della sentenza, che ha fatto applicazione della pena da lui stesso richiesta, lamentando la tardività della domanda (da lui stesso proposta).Un esempio di inammissibilità della eccezione per mancanza di interesse: l'imputato eccepisce la nullità della notifica del decreto di citazione alla parte offesa.

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Discente: Passo ora alla lettura dell'art. 183, che recita: “1) Salvo che sia diversamente stabilito, le nullità sono sanate:a) se la parte interessata ha rinunciato espressamente ad eccepirle ovvero ha accettato gli effetti dell'atto;b) se la parte si é avvalsa della facoltà al cui esercizio l'atto omesso o nullo é preordinato”.Qualche esempio.

Docente: Esempio di sanatoria di cui sub a): il difensore e l'imputato, per far sì che la decisione del tribunale del riesame (art. 309) avvenga al più presto, una volta presentata la “richiesta”, rinunciano al termine di 10 giorni previsto dai commi 1 e 3 (entro il quale avrebbero potuto aggiungere altri “motivi” per una revoca della misura coercitiva).Esempio di sanatoria sub b). Il decreto penale (art.459) é nullo, ma l'imputato si é valso lo stesso della facoltà di fare opposizione contestualmente formulando richiesta di applicazione di pena ai sensi dell'art. 444 (vedi art. 461 co. 3).

Discente: Veniamo all'articolo 184, che recita: “La nullità di una citazione o di un avviso ovvero delle relative comunicazioni e notificazioni é sanata se la parte interessata é comparsa o ha rinunciato a comparire. 2- La parte la quale dichiari che la comparizione é determinata dal solo intento di far rilevare l'irregolarità ha diritto a un termine per la difesa non inferiore a cinque giorni. 3.Quando la nullità riguarda la citazione a comparire al dibattimento, il termine non può essere inferiore a quello previsto dall'articolo 429”.Questa sanatoria é applicabile anche per le nullità assolute?

Docente: Io ritengo di sì, e che pertanto costituisca una deroga al disposto dell'incipit dell'art. 179: il decreto di citazione non dà nessuna “indicazione del luogo, del giorno e dell'ora della comparizione, quindi é affetto da nullità assoluta; ma l'imputato, sicuro della sua innocenza, si dà da fare, trova le indicazioni mancanti e...compare all'udienza fissata: non sarebbe assurdo dichiarare la nullità del decreto e continuare a far pendere sulla testa dell'imputato la spada di Damocle di un processo, che probabilmente finirà con la sua assolutoria?

Lezione 12 - La notificazione

Docente: Se tu, come giudice, dovessi fare una comunicazione a una parte, che faresti?

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Discente: Oh bella, aprirei la bocca, muoverei la lingua e le farei la comunicazione.

Docente: Questo andrebbe benissimo nel caso la parte, a cui dovessi fare la comunicazione, fosse in tua presenza e la comunicazione fosse breve e facilmente memorizzabile: tu, giudice, hai sospeso il processo, devi indicare alle parti il giorno della nuova udienza: certo non mandi loro uno scritto, apri la bocca e comunichi la nuova udienza. E ti dirò che questa possibilità per il giudice di comunicare oralmente alle persone, davanti a lui comparse, i suoi provvedimenti – meglio, certi suoi provvedimenti, dato che, pur nel silenzio della legge, non sarebbe certo ammissibile che il giudice comunicasse oralmente un decreto di citazione - é espressamente prevista dal nostro codice e precisamente dal suo articolo 148, che recita: “La lettura dei provvedimenti alle persone presenti e gli avvisi che sono dati dal giudice verbalmente agli interessati in loro presenza sostituiscono le notificazioni, purché ne sia fatta menzione nel verbale”. E, se mi è permessa aprire una parentesi nel discorso appena iniziato, ti dirò di più, per dimostrarti come anche il nostro legislatore, quando vuole, sappia essere non formalista: nel nostro codice è prevista anche la possibilità di comunicazioni, non solo orali, ma telefoniche.

Discente: Ah, si? in quale articolo?

Docente: Nell’articolo 149. In sintesi la procedura per una comunicazione telefonica è la seguente: il cancelliere – bada, il cancelliere, e non l’ufficiale giudiziario e tanto meno un commesso –: telefona la comunicazione; prende nota di chi riceve la telefonata; fa seguire a questa un telegramma di conferma: fatto questo la sua comunicazione telefonica ha valore di notificazione. Questa procedura certamente non è tra le più affidabili: per questo può essere utilizzata solo in caso di urgenza ed escluse le notifiche all’imputato.

Discente: Posso inserire ancora una domanda nella parentesi che abbiamo aperta?

Docente: Solo una domanda, perché, se no, perdiamo il filo del discorso.

Discente:Ma una notifica a mezzo fax è possibile?

Docente: Si, in quanto l’articolo 150 prevede che il giudice “quando lo consigliano circostanze particolari”, possa prescrivere che la notificazione sia eseguita “mediante l’impiego di mezzi tecnici”. E, naturalmente, tra tali mezzi tecnici il più usato è il fax. Anche questa forma di notifica non dà particolare affidabilità, quindi non può essere usata nei riguardi dell’imputato.

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A questo punto, però, dobbiamo riprendere il filo del discorso. Parlavamo della possibilità di notificazioni orali e ti osservavo che questa modalità di notifica, sì, può essere accettata, ma solo se il contenuto della comunicazione è breve e facilmente memorizzabile. Debbo aggiungere che la difficoltà di memorizzazione non è il solo elemento che può sconsigliare la comunicazione orale: altro elemento che può giocare in tal senso, è il diritto della persona, a cui va data la comunicazione, ad aver una prova che il contenuto della comunicazione fattagli è A e non B, come potrebbe essergli contestato in causa. Per condurre il nostro discorso con più concretezza, facciamo riferimento a un decreto di rinvio a giudizio: come si può pretendere che l’imputato riesca a memorizzare il contenuto di un atto tanto complesso, tanto importante che ogni sua virgola viene soppesata e conta, come il decreto di citazione? come si può negare all’imputato il diritto di aver la prova che la data di udienza comunicatagli era, metti, il 20 gennaio e non il 30 gennaio come, metti ancora, il pubblico ministero afferma? Chiaro che non si può! E ora ti faccio una domanda, per mettere alla prova la tua abilità di giurista: quale soluzione troveresti tu per le due esigenze che ti sono venuto segnalando?

Discente: Una soluzione molto semplice: il provvedimento o l’avviso da notificarsi viene messo per iscritto; si fanno due copie dell’atto, una, destinata a servire da originale e da inserire nel fascicolo dell’autorità richiedente la notifica, l’altra,da consegnare al destinatario della notifica; si consegna questa seconda copia al notificando; si prende buona nota sull’originale che la copia consegnata è a questo “conforme”. Naturalmente la persona incaricata della consegna dovrà essere persona di particolare fiducia, dal momento che il giudice dovrà basarsi sulla sua dichiarazione per controllare se la notifica è stata fatta bene o no.

Docente: La soluzione da te trovata é sostanzialmente accettabile. Tanto è vero che il legislatore, in alcuni casi, con qualche cautela in più di quelle da te previste, permette di adottarla. Ad esempio, permette di adottarla al cancelliere e al segretario del pubblico ministero. La legittimità di tale procedura è prevista per i cancellieri dal quarto comma dell’articolo 148 e per i segretari dal secondo comma dell’articolo 151. E ti posso dire per mia esperienza professionale che non è affatto raro che l’avvocato, quando va in cancelleria per qualche incombenza, venga bloccato dal cancelliere per la notifica di un atto: “Avvocato Cicero, debbo notificarle un atto, non se ne vada”: e il cancelliere gli dà copia dell’atto e ne prende nota sull’originale. Ancora una semplice annotazione (delle modalità con cui é avvenuta la notificazione dell'atto) é prevista dal co.2 art. 149 (che porta la rubrica “Notificazioni urgenti a mezzo del telefono e del telegrafo”) quando la notifica avviene a mezzo telefono.

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Discente: Ah, sì, la notifica può avvenire a mezzo del telefono?

Docente: Sì, e anche a mezzo del telegrafo.

Discente: E per via telematica, può avvenire?

Docente: Naturalmente sì, dato che una pec, in definitiva, dà una maggior sicurezza, che non il telefono e il telegrafo, che l'atto (da notificare) effettivamente arrivi alla conoscenza del notificando. E, bada, proprio perché é una modalità (di notificazione) più sicura di quella che si ottiene telefonando o telegrafando, l'invio telematico può essere usato sempre, e non solo nei casi di urgenza (com'é per il telefono e il telegrafo).

Discente: Ma l'invio telematico dà veramente la sicurezza che l'atto notificando arrivi a conoscenza del suo destinatario? Non può accadere che, sì, la pec, sia recepita dal computer del destinatario, però mentre questi é detenuto, o in navigazione o all'ospedale, insomma si trova in un luogo e in una situazione che gli rendono assolutamente impossibile interrogare il suo computer sulla posta arrivatigli?

Docente: Certo che può accadere. E proprio tenendo conto di ciò, il Legislatore non ammette la notifica in via telematica nel caso in cui, da una parte, ritiene particolarmente importante che la notifica vada a buon fine, dall'altra, il notificando é pregiudizialmente, diciamo così, sospetto di non condurre una vita “0rdinata” (consultando sistematicamente la posta in arrivo come invece dobbiamo, ahimè, fare noi professionisti)...

Discente: Ti riferisci all'imputato...

Docente: Sei un intuitivo. Sì, mi riferisco all'imputato (e all'indagato – equiparato dall'art. 61 all'imputato). In tal caso il legislatore non ammette la notifica mediante invio telematico, ma vuole che le notifiche all'imputato dirette avvengano mediante consegna a lui fatta di una copia conforme dell'atto – consegna effettuata, non da una persona qualunque, ma da un pubblico ufficiale (l'ufficiale giudiziario o l'ufficiale postale) che in quanto tale dà affidamento di una particolare serietà professionale – serietà professionale che lo porterà a non limitarsi, ad esempio, una volta suonato il campanello dell'abitazione senza avere risposta, ad affiggere alla porta l'avviso (voluto dal co. 8 art. 157) “Vada alla casa comunale se vuole leggere un atto per lei importante”, ma (vedi sempre l'art.157,co.7) a “procedere nuovamente alla ricerca

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dell'imputato” (richiedendo se del caso informazioni, ai vicini, alle persone del luogo). E proprio perché questo pubblico ufficiale non deve limitarsi a battere sul computer alcuni tasti, ma deve compiere un'attività per cui occorre discernimento, il Legislatore altresì vuole che egli faccia di tale attività una “relazione” (art. 168) in modo da permettere, in primis al giudice, di verificare se tale attività effettivamente, con discernimento, é stata effettuata. E siccome lo stesso interesse che ha il giudice a verificare la regolarità della notifica ce l'ha il notificando (in specie quando per una serie di circostanze la notifica non gli é pervenuta, o almeno non gli é pervenuta al tempo debito) il Legislatore vuole che tale relazione sia ripetuta sia nell'originale (che finirà sotto gli occhi del giudice) sia nella copia che finirà (per vie dirette o contorte) nelle mani del notificando.

Discente: Capisco che la notificazione a mezzo di un pubblico ufficiale é un'attività laboriosa e complessa e che, quindi, la possibilità di notificare per via telematica é una grande facilitazione. Penso che anche il difensore (dell'imputato o, in genere, di una parte privata), di tale facilitazione possa godere, per cui un avvocato romano, se deve far pervenire una sua istanza al tribunale di Arezzo, si possa limitare a inviarla telematicamente senza muoversi dal suo studio.

Docente: E invece, no, il nostro bravo avvocato romano (o la sua segretaria....) sarebbe costretto a farsi un bel viaggetto ad Arezzo. Infatti l'articolo 121, recita. “In ogni stato e grado del procedimento le parti e i difensori possono presentare memorie o richieste scritte, mediante deposito nella cancelleria “. E autorevolmente si sostiene che la comunicazione di una memoria o di una richiesta possa essere fatta solo nel modo indicato dall'articolo or ora riportato (e si sostiene questo probabilmente in base al disposto del secondo comma stesso art. 121: si teme che il giudice non possa essere posto in grado di provvedere “senza ritardo” se l'atto perviene, non alla sua cancelleria, ma a un ufficio diverso, quello appunto che sarebbe addetto a ricevere le pec).

Discente: E allora, io, difensore, non potrò mai giovarmi dell'invio telematico per effettuare una notifica?

Docente: No, te ne potrai giovare nel caso di atti che debbono per legge essere notificati (ad esempio, nel caso che tu, parte civile, debba notificare il decreto di citazione al responsabile civile – art. 83).

Discente: E' sicuro questo?

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Docente: Di sicuro a questo mondo non c'é che la morte. Però quanto ti ho detto viene, non da me, ma da altri più autorevoli di me, dedotto dall'art. 152, che (sotto la rubrica “”Notificazioni richieste dalle parti private”) recita: “Salvo che la legge non disponga altrimenti, le notificazioni richieste dalle parti private possono essere sostituite dall'invio di copia dell'atto effettuata dal difensore mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento”.

Discente: Ma l'articolo 152 parla di invio mediante lettera raccomandata e non di invio telematico.

Docente: E' vero; ma é anche vero che il CAD (Codice dell'amministrazione digitale) equipara alla “raccomandata” la pec.

Discente: E se io difensore dovessi fare una notificazione al pubblico ministero?

Docente: Nel caso avresti la possibilità (ma, secondo l'interpretazione che mi sembra migliore, non l'obbligo) di eseguire la notifica mediante consegna di copia alla segreteria del P.M. Più precisamente l'articolo 152, nel suo primo comma recita: “Le notificazioni al pubblico ministero sono eseguite, anche direttamente dalle parti o dai difensori, mediante consegna di copia dell'atto nella segreteria”.

Discente: Da quel che finora hai detto risulta, che la notifica più sicura, diciamo così, la notifica ottimale deve: 1) essere effettuata da persona di particolare qualificazione; 2) essere effettuata mediante consegna di copia conforme; 3) deve avere, la relazione di notifica, apposta sia nell'originale sia nella copia (consegnata al notificando).Dicci ora con più chiarezza gli articoli che impongono tali requisiti.Comincia a dire l'articolo che pretende che la notifica sia effettuata da persona di particolare qualificazione.

Docente: E' l'articolo 148, nel suo comma 1, che recita: “Le notificazioni degli atti, salvo che la legge disponga altrimenti, sono eseguite dall'ufficiale giudiziario o da chi ne esercita le funzioni”.

Discente: Dì ora l'articolo che impone la consegna di copia conforme al destinatario.

Docente: E' sempre l'articolo 148, però nel suo comma 3, che recita: “L'atto é notificato per intero, salvo che la legge disponga altrimenti, di regola mediante

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consegna di copia al destinatario oppure, se ciò non é possibile, alle persone indicate nel presente titolo”.

Discente: Ora, da che articolo risulta che la relazione deve esser apposta sia sull’originale sia sulla copia?

Docente: Risulta dall’articolo 168, che recita: “1- Salvo quanto previsto dall’articolo 157 comma 6, l’ufficiale giudiziario che procede alla notificazione scrive, in calce all’originale e alla copia notificata, la relazione in cui indica l’autorità o la parte privata richiedente, le ricerche effettuate, le generalità della persona alla quale è stata consegnata la copia, i suoi rapporti col destinatario, le funzioni o le mansioni da esse svolte, il luogo e la data della consegna della copia, apponendo la propria sottoscrizione. 2 - Quando vi è contraddizione tra la relazione scritta sulla copia consegnata e quella contenuta nell’originale, valgono per ciascun interessato le attestazioni contenute nella copia notificata”.

Discente: Nell’elenco dei requisiti necessari, perché una notifica possa considerarsi ottimale, ci siamo dimenticati di indicare quello che, direi, è il più importante: cioè quello che riguarda la persona a cui deve essere consegnata la copia. Ovviamente questa persona sarà il notificando, cioè chi deve prendere conoscenza dell’atto da notificare.

Docente: In prima battuta senza dubbio, si. Lo impone l’articolo 157- articolo molto importante, per il discorso che stiamo conducendo, perché, anche se di per sé riguarda solo la notifica all’imputato non detenuto, le procedure di notifica da esso contemplate vengono a costituire un modello, a cui debbono rifarsi, per l’articolo 154, le notifiche alle parti private diverse dall’imputato (parte civile eccetera) e, per l’articolo 167, le notifiche a tutti gli altri soggetti, in primis i testimoni, i periti eccetera.

Discente: Che dice questo così importante primo comma dell’articolo 157?

Docente: Ti leggo la sua prima parte, che è quella che qui interessa: “Salvo quanto previsto dagli articoli 161 e 162, la prima notificazione all’imputato non detenuto è eseguita mediante consegna di copia alla persona”.

Discente: E’ logico.

Docente: Forse è logico, ma non sempre possibile. L’ufficiale giudiziario non sempre ha la fortuna di trovare il notificando. E allora?

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Discente: Allora consegnerà la copia a persona che dia affidamento di consegnarla al notificando.

Docente: E chi potrebbe essere questa persona?

Discente: Una persona che coabiti con lui.

Docente: In realtà, il semplice fatto della coabitazione, per il legislatore non dà sufficiente affidamento che la copia venga trasmessa poi al notificando: e infatti un semplice coabitante – pensa a un coetaneo con cui il notificando divide le spese dell’affitto - potrebbe infischiarsene che il notificando sappia o non sappia dell’atto. Occorre che, il consegnatario di questo, non solo coabiti, ma conviva col notificando.

Discente: Ma chi può qualificarsi convivente e non semplice coabitante?

Docente: Chi coabita e in più, deve presumersi, per i rapporti intimi che intrattiene col notificando, gli porti affetto, abbia a cuore i suoi interessi: non pensare con ciò solo al marito e alla moglie, ai figli e ai genitori, esiste anche la famiglia di fatto: pensa anche a due persone che vivono sotto lo stesso tetto come marito e moglie. Per farla breve due sono i requisiti che il legislatore vuole presenti in colui a cui viene consegnata la copia. Primo, che presumibilmente abbia a cuore gli interessi del notificando; secondo, che, il trasmettere a questo la copia ricevuta, non … gli costi troppa fatica. Infatti il legislatore con un certo cinismo pensa che… l’affetto ha i suoi limiti: tu, ufficiale giudiziario, consegni la copia a Caio fratello del notificando Sempronio che abita a 100 metri da lui? Io, legislatore, non mi fido che Caio voglia fare la fatica di percorrere quei cento metri per consegnare l’atto a Sempronio; tu, ufficiale giudiziario, hai notificato l’atto mediante consegna al fratello Caio che convive, si, con Sempronio, ma al momento e’ per strada? io, legislatore, non mi fido che Caio, rientrato in casa, si ricordi di trasmettere l’atto a Sempronio. Ecco perché il legislatore – nella seconda parte del primo comma dell’articolo 157 stabilisce che, se non è possibile consegnare la copia al diretto interessato, all’imputato, la notificazione “è eseguita nella casa di abitazione o nel luogo in cui questi esercita abitualmente l’attività lavorativa, mediante consegna a una persona che conviva anche temporaneamente o, in mancanza, al portiere o chi ne fa le veci”. Ecco perché il legislatore non ammette neanche la consegna al convivente nell’abitazione, se il notificando è detenuto o militare: in questi casi pretende che la notifica avvenga nel luogo di detenzione o nel luogo in cui il notificando esercita il servizio militare – per il che ti rimando agli articoli 156 e 158.

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Discente: Ma che succede in mancanza di un convivente?

Docente: L’atto viene consegnato a chi, se non per affetto, per l’ufficio che ricopre, dovrebbe sentire il dovere di trasmetterlo al notificando: cioè, come detto nella disposizione legislativa appena letta, al portiere o a chi ne fa le veci.

Discente: Ma se manca anche il portiere o se non si conosce dove abita o dove lavora il notificando ma solo si è a conoscenza di una sua temporanea dimora o recapito?

Docente: Per tutte queste ipotesi il legislatore stabilisce una particolare procedura di notifica nell’articolo 157, a cui sono costretto a rimandarti.

Discente: Ma il legislatore, penso, fa anche l’ipotesi che non si conosca del notificando né dove abita né dove lavora né dove abbia una temporanea dimora né se è in carcere o a fare il militare: l’ipotesi insomma che il notificando sia irreperibile.

Docente: In effetti il legislatore prevede tale ipotesi nell’articolo 159; ma solo per il notificando - imputato.

Discente: Che cosa dispone l’articolo 159?

Docente: Dispone che, qualora non si sappia dove trovare l’imputato notificando, il giudice, prima, faccia fare nuove più approfondite ricerche, e, poi, al loro esito negativo, dichiari la irreperibilità dell’imputato ordinando che le notifiche siano eseguite mediante consegna di copia al suo difensore.

Discente: E perché mai la stessa disposizione non si applica al caso di soggetti diversi dall’imputato?

Docente: Perché, nel caso di altri soggetti processuali, imporre al giudice, prima, di fare nuove ricerche e, poi, di preoccuparsi di far avere la notifica al loro difensore, non avrebbe senso o potrebbe essere eccessivo: non avrebbe senso, per le parti diverse dall’imputato, che, se ci tengono a partecipare al processo, debbono rendersi reperibili, e sarebbe eccessivo per dei testi o dei periti, perché la loro importanza processuale potrebbe non meritare la battuta di arresto, che la loro ricerca inevitabilmente comporta. Per cui è meglio non imporre al giudice l’obbligo di fare nuove ricerche, ma rimettere tale decisione alla sua discrezionalità.

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Discente: Certo, per la economia processuale rappresenta un bel danno la battuta di arresto, che comportano le ricerche di un imputato irreperibile.

Docente: Proprio così. Ma il Legislatore é furbo e ha adottato le sue difese, sia con l'art. 161 sia col co. 8 art. 157.

Discente: Cominciamo dall'art.161; di che si tratta?

Docente: In sintesi. Si debbono fare due ipotesi. Prima ipotesi, il giudice, il pubblico ministero o la Polizia giudiziaria hanno la fortuna di trovarsi, diciamo così, faccia a faccia con l’indagato: si era disposto il compimento di un atto a cui l’indagato aveva l’obbligo o la facoltà di intervenire (pensa a un interrogatorio, pensa a una perquisizione…) e l’indagato è intervenuto. Allora il gioco per l’autorità diventa facile: si invita l’indagato a indicare la sua abitazione, il suo luogo di lavoro, insomma uno dei luoghi in cui, per l’articolo 157, va effettuata una notifica oppure a eleggere domicilio e nello stesso tempo lo si avverte che, se non fa l’indicazione o l’elezione o se la notifica nel luogo indicato o eletto risultasse impossibile, questa si farà al suo difensore. A questo punto i casi sono due: o l’indagato corrisponde all’invito di fare la richiesta indicazione o elezione di domicilio oppure no. Nel primo caso, le future notifiche si faranno naturalmente nel luogo dichiarato o eletto; nel secondo caso, si faranno presso il difensore dell’indagato stesso.

Discente: E se la notificazione nel luogo dichiarato o eletto si rivela impossibile, metti perché maliziosamente l’indagato ha indicato luoghi in cui in realtà non abita, non lavora, eccetera?

Docente: Ebbene in tal caso, senza necessità di procedere alle ricerche previste dall’articolo 159! le future notifiche si faranno presso il difensore.

Discente: E nella seconda ipotesi, quella in cui l’Autorità non ha la fortuna di avere la presenza dell’indagato?

Docente: In questa seconda ipotesi, l’Autorità deve almeno avere la fortuna di riuscire a notificare un atto. Se così è - siccome in tale atto essa avrà avuta l’avvertenza di invitare l’indagato a dichiarare i luoghi di cui all’articolo 157 o a eleggere un domicilio e altresì avrà avuta cura di fargli presente che, nel caso non faccia nessuna dichiarazione o elezione oppure risulti impossibile la notifica nel luogo dichiarato o eletto, le future notifiche si faranno nel luogo in cui l’atto stesso è stato notificato e, se pure qui la notifica fosse impossibile, si faranno presso il

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difensore - anche qui il gioco è fatto: l’autorità notifica, metti, in via Roma l’informazione di garanzia (con i contestuali, invito e avvertenza di cui sopra): l’indagato comunica di abitare in via Firenze: ebbene, se si tenta la notifica di un nuovo atto in via Firenze e in via Firenze non risulta l’abitazione dell’indagato, si ritorna a notificare l’atto in via Roma.

Discente: E se da via Roma l’indagato ha sbaraccato?

Docente: Poco male, si notifica presso il difensore (sempre saltando a piè pari le ricerche previste dall’articolo 159!).

Discente: Abbiamo visto che cosa dice l'art. 161, vediamo ora quel che dice il comma 8bis dell'art.157.

Docente: Il comma 8bis recita: “Le notificazioni successive sono eseguite, in caso di nomina di un difensore di fiducia ai sensi dell'articolo 96, mediante consegna al difensore. Il difensore può dichiarare immediatamente all'autorità che procede di non accettare la notificazione”.

Discente: Abbiamo visto che la notifica va fatta secondo certe modalità: va consegnata copia dell’atto notificando, tale copia va consegnata a certe persone, eccetera. Che succede se non viene osservata una di queste modalità di notifica? viene dichiarata la nullità della notifica?

Docente: Non sempre, bisogna vedere se il legislatore ritiene tale modalità essenziale per raggiungere quel certo grado di probabilità che il destinatario della notifica abbia avuto effettivamente conoscenza dell’atto notificando – grado di probabilità che egli ritiene necessario per dare luce verde al proseguimento del processo - oppure, no.

Discente: Vuoi dire che vi sono modalità di notifica il cui difetto non determina nullità ancorché esse siano state imposte proprio per assicurare una maggiore probabilità che il destinatario della notifica ne venga ad effettiva conoscenza? Danne un esempio.

Docente: Eccolo. Il legislatore impone, nel comma terzo dell’articolo 157, all’ufficiale giudiziario, nel caso consegni copia al portiere, di dare di ciò comunicazione al notificando con lettera raccomandata: ebbene la omissione di tale lettera non determina nessuna nullità della notifica.

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Discente: Ma qual’è l’articolo del codice che dice quando una notifica è nulla e quando no?

Docente: E’ l’articolo 171 che, sotto la rubrica “Nullità delle notificazioni”, recita: “La notificazione è nulla: a) se l’atto è notificato in modo incompleto, fuori dei casi nei quali la legge consente la notificazione per estratto; b) se vi è incertezza assoluta sull’autorità o sulla parte privata richiedente ovvero sul destinatario; c) se nella relazione della copia notificata manca la sottoscrizione di chi l’ha eseguita; d) se sono violate le disposizioni circa la persona a cui deve essere consegnata la copia; e) se non è stato fatto l’avvertimento nei casi previsti dall’art. 161 commi 1, 2 e 3 e la notificazione è stata eseguita mediante consegna al difensore; f) se è stata omessa l’affissione o non è stata data la comunicazione prescritta dall’art. 157 comma 8; g) se sull’originale dell’atto notificato manca la sottoscrizione della persona indicata nell’art. 157 comma 3; h) se non sono state osservate le modalità prescritte dal giudice nel decreto previsto dall’articolo 150 e l’atto non è giunto a conoscenza del destinatario”.

Discente: Ma come fa il giudice a controllare se si è verificata una delle cause di nullità elencate nell’articolo sub c, d, f, h? Voglio dire, il giudice può accertare facilmente: se l’atto è stato notificato in modo incompleto (causa di nullità sub a); se vi è incertezza sull’autorità richiedente (causa di nullità sub b); se sull’originale manca la sottoscrizione del portiere (causa di nullità sub g). Anche si può ritenere che facilmente il giudice possa controllare se é stato dato l’avvertimento di cui all’articolo 161 (causa di nullità sub e): basterà per questo che controlli gli atti di causa (verbale di interrogatorio, nel caso del primo comma art.161; atto in cui doveva darsi l’avvertimento, nel caso di cui al comma 2). Ma, ecco la domanda che ti voglio porre, come farà il giudice a verificare: se nella relazione della copia notificata è stata apposta la firma del notificante (causa di nullità sub c); se la copia è stata consegnata alla persona giusta (causa di nullità d); se è stata omessa l’affissione o non è stata data la comunicazione prescritta dall’articolo 157 comma 8 (causa di nullità sub f); se sono state osservate le modalità prescritte dal giudice nel decreto previsto dall’articolo 150 (causa di nullità sub H)?

Docente: Il controllo sulla esistenza della causa di nullità sub c, è facile immaginare, sarà permesso dallo stesso interessato (alla declaratoria della nullità), che esibirà la copia in suo possesso. Il controllo, poi, sull’esistenza delle cause di nullità sub d, f, h sarà reso possibile dalla relazione dell’ufficiale giudiziario. Infatti, in questa relazione, l’ufficiale giudiziario – oltre a indicare l’autorità e la parte privata richiedente – deve indicare “le ricerche effettuate, le generalità della persona alla

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quale è stata consegnata la copia, i suoi rapporti col destinatario, le funzioni o le mansioni da essa svolte, il luogo e la data della consegna della copia”.

Lezione 13 - Giurisdizione - Questioni pregiudiziali – Competenza per materia – Competenza per territorio

Discente: Prima di tutto, in che parte del codice si parla della competenza e delle questioni pregiudiziali?

Docente: Se ne parla nel titolo primo del libro primo: quindi proprio nei primissimi articoli del codice.

Discente: Ora dimmi a quali organi giudiziari il legislatore demanda l’amministrazione della giustizia penale?

Docente: Te lo dice l’articolo 1 del codice, però rinviandoti alla legge sull’Ordinamento giudiziario; infatti l’articolo 1 del codice suona: “La giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario secondo le norme di questo codice”.

Discente: E quali giudici prevede la legge sull’Ordinamento giudiziario?

Docente: La risposta te la dà il suo articolo 1, il quale recita: “La giustizia nelle materie civili e penali è amministrata: a) dal giudice di pace; c) dal tribunale ordinario; d) dalla corte di appello; e) dalla corte di cassazione; f) dal magistrato di sorveglianza; g) dal tribunale di sorveglianza.”Di tutti questi organi, però, tu limitati ora a tenere presenti solo: giudice di pace; tribunale; corte di assise; perché solo di essi il codice parla e noi solo di essi qui parleremo.

Discente: Dall’articolo or ora letto risulta che uno stesso giudice è competente a decidere sia una causa civile che una causa penale. Ma penso che, specie nei grandi uffici, si determini una specializzazione: ci siano giudici, che trattano solo cause civili e, giudici, che trattano solo cause penali.

Docente: E’ così e, naturalmente, i giudici specializzati in penale tendono a mettere nel dimenticatoio il codice civile. E da qui nascono i problemi che gli articoli 2, 3, 479 del codice, tentano di risolvere.

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Discente: Perché dalla specializzazione dei giudici nascono dei problemi?

Docente: Perché può capitare che la decisione di una causa penale, implichi la soluzione di questioni – cosiddette “questioni pregiudiziali” – di carattere civile o amministrativo.

Discente: Qualche esempio.

Docente: Pensa al caso che l’imputato di furto, per aver sottratto, metti, una collana, si difenda sostenendo che la collana è di sua proprietà. Pensa ancora, a chi, accusato di incesto, si difenda sostenendo che la “ragazza” con cui si è congiunto non è in realtà sua figlia. In entrambi i casi, ecco che una questione civile sorge nell’ambito di una causa penale: nel primo caso, la questione sulla proprietà della collana, nel secondo, la questione sullo stato di filiazione.

Discente: Mi rendo conto che lasciare decidere la questione civile a un giudice che, come quello specializzato in penale, di diritto civile ormai ne mastica assai poco, presenta il forte rischio di un errore giudiziario.

Docente: E questa considerazione porterebbe il legislatore a rimettere la soluzione della “questione pregiudiziale” a un giudice civile. D’altra parte, vi è da considerare che la rimessione implica la sospensione del processo penale con grave ritardo nella sua definizione: e ciò depone per la non remissione della questione al giudice civile. Insomma ci sono, per la remissione, dei pro e dei contro.

Discente: Ma come risolve il dubbio il nostro legislatore?

Docente: Di massima, lo risolve per la negativa: no alla rimessione, no alla sospensione. Infatti, nel primo comma dell’articolo 2, stabilisce: “Il giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito”. Val la pena però di notare, anche se tocca solo tangenzialmente l’argomento che qui ci interessa, che il nostro legislatore, dopo aver detto questo nel primo comma, sente il bisogno di aggiungere, con saggia cautela, nel secondo: “La decisione del giudice penale, che risolve incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale, non ha efficacia vincolante in nessun altro processo”.

Discente: Passiamo agli articoli 3 e 479.

Docente: L’articolo 3 fa eccezione all’articolo 2, da noi appena letto, perché dà facoltà – bada, facoltà, non obbligo - al giudice penale di sospendere il processo

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quando sussistono i tre seguenti presupposti: primo, la decisione della causa penale dipende dalla risoluzione di una controversia sullo stato di famiglia e di cittadinanza (pensa all’imputato di furto, che sostenga di essere figlio del derubato al fine di andare esente da pena ai sensi dell’articolo 649 codice penale); secondo, la “questione è seria”, cioè appare fondata e non pretestuosa, poco importa invece che sia di difficile soluzione, come invece richiede, come vedremo, l’articolo 479; terzo e ultimo presupposto, “l’azione civile è già in corso”, cioè già pende davanti al giudice civile la controversia che nella causa penale si presenta come questione pregiudiziale.

Discente: Vogliamo leggere le testuali parole della legge?

Docente: Si, leggi il comma primo dell’articolo 3 e, già che ci sei, anche il suo comma quattro, che ai fini sistematici riveste una notevole importanza.

Discente: Comma primo: “Quando la decisione dipende dalla risoluzione di una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza, il giudice, se la questione è seria e se l’azione a norma delle leggi civili è già in corso, può sospendere il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la questione”.Comma quarto: “La sentenza irrevocabile del giudice civile che ha deciso una questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza ha efficacia di giudicato nel procedimento penale”.Perché ritieni importante la disposizione del comma quarto?

Docente: Perché da essa, a mio parere, si deve argomentare a contrario il principio che le sentenze del giudice civile, che risolvono questioni diverse da quelle relative allo stato di famiglia o alla cittadinanza, non vincolano il giudice penale.

Discente: Non vincolano il giudice penale neanche quando tutte le parti del processo penale sono state anche parti nel processo civile?

Docente: E come potrebbe essere questo? forse che il pubblico ministero avrebbe potuto partecipare al processo civile? Certo, il principio in questione va inteso cum grano salis e armonizzato con il disposto dell’articolo 2909, che, come tu sai, statuisce che “la sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi e aventi causa”.

Discente: In che senso deve operarsi tale armonizzazione tra i due articoli, l’articolo 3 e l’articolo 2909?

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Docente: Te lo spiego con un esempio: poni che Caio sia imputato di aver rubato il 1 gennaio 2008 una collana a Tizio: se la sentenza civile, che stabilisce che la collana é di Tizio e non di Caio, era già passata in giudicato il 1 gennaio 2008, Caio dovrà essere condannato per furto.

Discente: Perché?

Docente: Perché, giusto o errato che fosse l’accertamento del giudice civile, esso per lui faceva stato. Se, invece, la sentenza civile è passata in giudicato dopo il 1 gennaio 2008, nel processo penale si potrà porre, trattare ed eventualmente risolvere in maniera diversa dal giudice civile, la questione se la collana è di proprietà di Caio o di Tizio.

Discente: Nonostante che la sentenza civile sia passata in giudicato?

Docente: Certo, e questo per varie ragioni; la più evidente delle quali è che la sentenza civile fa stato solo tra le parti (parti naturalmente del processo civile) tra cui non può annoverarsi di certo il pubblico ministero

Discente: Passiamo ora all’articolo 479.

Docente: Tale articolo si pone come una (ulteriore) deroga all’articolo 2, in quanto dà facoltà al giudice del dibattimento - quindi l’articolo 479 non riguarda le fasi processuali antecedenti il dibattimento! – di sospendere il processo quando sussistono le seguenti quattro condizioni. Prima condizione: dalla risoluzione di una controversia civile o amministrativa dipende la decisione sull’esistenza del reato (non quindi, sull’esistenza di una circostanza aggravante!). Seconda condizione: la controversia civile o amministrativa é di “particolare complessità” (quindi, non basta che sia “seria”, cioè non sembri pretestuosa, deve essere di complicata soluzione). Terza condizione: per risolvere la controversia é già pendente una causa civile o amministrativa. Quarta condizione: la legge non “pone limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa” (come invece accade per le questioni di stato).

Discente: Io direi che le disposizioni dell’articolo 3 e dell’articolo 479 sono sostanzialmente eguali.

Docente: Tutt’altro: sono notevolmente differenti. Per convincersi di ciò basta pensare che la sospensione, nel caso dell’articolo 3: può essere giustificata solo da una controversia sullo stato o sulla cittadinanza; può essere disposta anche nella

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fase delle indagini preliminari e all’udienza preliminare; può essere disposta anche se la questione non è di particolare complessità.

Discente: Abbiamo finora parlato di questioni pregiudiziali civili o amministrative, ma mi sembra che potrebbero sorgere nel processo penale anche questioni pregiudiziali penali. Penso al caso in cui il giudice penale deve decidere se Caio deve essere condannato per ricettazione per aver acquistato quel certo quadro asseritamene rubato da Sempronio: forse che egli non deve pregiudizialmente affrontare la questione se il quadro è stato effettivamente rubato, o no? Chiaramente, si. E allora, ecco la domanda: il giudice di Caio, il giudice della ricettazione, per intenderci, dovrà aspettare per emettere la sua sentenza, che il giudice di Sempronio, il giudice del furto, sempre per intenderci, dica se Sempronio è un ladro o no? Io riterrei di si, che debba aspettare.

Docente: Perché?

Discente: Perché, se la questione sull’esistenza del furto verrà decisa incidentalmente nel processo per ricettazione, Sempronio rischierà di vedersi marchiato come ladro senza aver potuto dire una parola, portare una prova a sua difesa.

Docente: Potresti avere ragione; ma nel legislatore ha evidentemente prevalso, sulla considerazione da te esposta, il timore che, la rimessione delle questioni pregiudiziali, ancorché penali, ad altro giudice, finisca per allungare troppo i tempi del processo. Fatto sta che nell’articolo 2 Egli impone al giudice di risolvere “ogni questione da cui dipende la decisione” senza distinguere se tale questione è civile, amministrativa o penale.

Discente: Dobbiamo ora affrontare l’argomento di come si individua il giudice competente a trattare una causa penale.

Docente: Per individuare il giudice a cui compete trattare una causa, bisogna prima di tutto stabilire a quale tipo, diciamo così, di organo giudiziario il legislatore attribuisce la competenza a trattare la causa: la attribuisce al Giudice di pace? al tribunale? alla corte di assise? Fatto questo – determinata cioè la cosiddetta competenza per materia- siccome di tribunali, di giudici di pace, di corti di assise ne esistono a centinaia, sparsi in tutto il territorio dello Stato italiano: a Genova, a Firenze, ad Arezzo ecc. ecc., bisogna stabilire quale tribunale, quale Giudice di pace, quale corte di assise (se quello di Genova o quello di Firenze o quello di

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Canicattì..) è competente – cioè bisogna stabilire la cosiddetta competenza territoriale.

Discente: Siccome mi pare di comprendere che la individuazione della competenza per materia costituisce la operazione preliminare; parliamo prima di questa: poi parleremo della competenza territoriale. Per cominciare, quali sono gli articoli di legge che la disciplinano?

Docente: Sono gli articoli 5 e 6 del codice, per quel che riguarda il tribunale e la corte di assise, e l’articolo quattro del D.ls 28 agosto 2000 n.274, per quel che riguarda il Giudice di Pace.

Discente: Detto questo, vediamo i criteri che il legislatore segue in tali articoli.

Docente: Alcune volte il legislatore adotta un criterio quantitativo, cioè attribuisce, la competenza a conoscere di un reato, in considerazione della quantità di pena che può essere, per tale reato, comminata – e in tale ipotesi si parla di competenza quantitativa. Altre volte, invece, si basa sulla natura, sulla qualità del reato – e allora si parla di competenza qualitativa.

Discente: Un esempio di competenza qualitativa.

Docente: Quello che puoi leggere nella lettera a) dell’articolo 5 “La corte di assise è competente: a) per i delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a ventiquattro anni”.

Discente: E ora un esempio di competenza qualitativa.

Docente: Te lo do rinviandoti ancora alla lettura dell’articolo 5, però non sotto la lettera a), ma b): “La corte di assise è competente b) per i delitti consumati previsti dagli articoli 579, 580, 584 del codice penale”.

Discente: Però, limitandoti a dire che il legislatore, nello stabilire la competenza, certe volte segue un criterio quantitativo, altre volte, un criterio qualitativo, non hai risposto alla mia domanda. Infatti io volevo da te sapere con che logica il legislatore attribuisce il tal reato alla corte di assise e il talaltro al tribunale o al giudice di pace.

Docente: Il legislatore naturalmente parte dal criterio di attribuire le cause, in cui un errore di decisione determina più gravi conseguenze, ai giudici che danno più affidabilità di, tale errore, evitare.

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Discente: E siccome le cause, la cui erronea decisione provoca più gravi conseguenze, sono quelle in cui si tratta di accertare i reati puniti con pene più gravi, egli attribuisce la cognizione, dei reati puniti con pene più gravi, al giudice che dà più affidamento di evitare errori nel loro accertamento. Sì, questo lo capisco, ma chi è questo giudice che dà più affidamento di evitare un errore?

Docente: Di solito è il giudice “superiore”. Per cui, i reati puniti con pena più grave, vanno giudicati dalla corte di assise, quelli con pena meno grave, dal tribunale e, quelli con pena ancora meno grave, dal Giudice di Pace.

Discente: Però se il criterio di ripartizione dei reati fosse così semplice e lineare, dovremmo aspettarci di vedere affidati alla corte di assise tutti i reati puniti con pena più grave. Ma basta leggersi il primo comma dell’articolo 5 per accorgersi che il criterio quantitativo non è sempre adottato dal legislatore: in tale comma infatti il legislatore, da una parte, attribuisce alla competenza della corte i reati puniti “con la reclusione non inferiore nel massimo a ventiquattro anni” e, dall’altra, esclude dalla sua competenza reati, come il tentato omicidio e la rapina, ancorché possano essere puniti proprio con la reclusione non inferiore a ventiquattro anni. Come si spiega ciò?

Docente: Le eccezioni al criterio quantitativo e l’adozione di un criterio qualitativo, con la conseguenza di vedere attribuito a un giudice inferiore il reato A che, per il criterio quantitativo, rientrerebbe nella competenza del giudice superiore, possono spiegarsi, o col fatto che il reato viene considerato dal legislatore di facile accertamento (per cui c’é da aspettarsi che non commetta errori nell’effettuarlo anche il giudice inferiore) o con il fatto che certe volte è proprio il giudice inferiore quello che dà più affidamento di non commettere errori nell’accertamento del reato - il che può essere per vari motivi, ad esempio per una acquisita specializzazione del giudice inferiore nella materia, che l’accertamento del reato implica.

Discente: E mi pare che, proprio con la sua acquisita specializzazione in materia di infortunistica stradale, potrebbe in effetti spiegarsi la competenza del Giudice di Pace per il reato di lesioni colpose. Ma dimentichiamoci ora della competenza qualitativa e concentriamoci su quella quantitativa. Il legislatore attribuisce al giudice superiore i reati puniti, metti, con la pena non minore di dieci anni – e va benissimo; però con che criteri si stabilisce se il reato A è punito con pena superiore o inferiore ai dieci anni? si tiene conto delle circostanze aggravanti e attenuanti? e se una persona è imputata, oltre che del reato A, anche del reato B, le pene previste per i due reati si sommano?

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Docente: A tutti questi interrogativi ti dà la risposta l’articolo 4, che recita: “Per determinare la competenza si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o di quelle ad effetto speciale”.

Discente: A dir il vero, la ratio di parecchie disposizioni dell’articolo ora letto, io non la capisco.

Docente: Fai delle domande: io tenterò di darvi un risposta.

Discente: Ecco allora la prima domanda. Facciamo il caso che il legislatore stabilisca la competenza del tribunale solo per i reati puniti con pena non superiore nel massimo a dieci anni – così non è, ma, fingere che così sia, mi semplifica l’esposizione. Facciamo ancora il caso che Tizio sia imputato di due reati: il reato A, punito nel massimo a otto anni, e il reato B, punito nel massimo di nuovo a otto anni. Nell’ipotesi, per il dettato della prima parte dell’articolo in questione, si dovrebbe ritenere la competenza del tribunale; eppure, se a Tizio la causa va storta e viene condannato per entrambi i reati e per entrambi i reati al massimo, egli rischia di prendersi, non dieci, ma sedici anni. Ora, la logica del criterio quantitativo nella determinazione della competenza, non imporrebbe che questa fosse determinata in considerazione delle conseguenze negative, che possono derivare all’imputato dalla decisione del giudice?

Docente: Non in considerazione delle conseguenze negative derivanti dalla decisione, ma, ecco il punto, in considerazione delle conseguenze negative derivanti da un ipotetico errore del giudice. Ora un errore del giudice nell’accertamento del reato A non si ripercuote nell’accertamento del reato B.

Discente: Non sempre, però; dato che potrebbe essere che l’accertamento del reato A e del reato B dipenda dalla soluzione di un identica questione. Fai il caso: Tizio è accusato di essere entrato nell’appartamento di Caio, e di avere, una volta entrato, rapinato e ingiuriato Caio. In questo caso, tu, giudice, sia per condannare Tizio per rapina sia per condannarlo per ingiurie, devi rispondere positivamente alla questione di fatto: “Tizio è entrato o no in casa di Caio?”.

Docente: In tal caso in effetti la soluzione erronea di tale questione produrrebbe le sue conseguenze negative sia nell’accertamento del reato A che nell’accertamento

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del reato B. Questo è vero, ed è un’imperfezione della legge. Ma un’imperfezione necessaria e inevitabile, dato che per rimediarla il legislatore avrebbe dovuto fare tante “distinzioni”, da rendere la disciplina della competenza stessa un’inestricabile ginepraio: il rimedio, sarebbe stato peggiore del male.

Discente: L’articolo in questione stabilisce che “non si tiene conto della continuazione”: non me lo spiego: se Tizio è imputato del reato continuato A, dove A nel massimo è punito con quattro anni di reclusione, siccome, per l’articolo 81 del codice penale, la pena per il reato base può essere aumentata fino al triplo, la sua condanna può arrivare a dodici anni e così superare la competenza del tribunale – sempre fingendo che tale competenza arrivi solo ai dieci anni.

Docente: In realtà la disposizione sul reato continuato è in linea, in perfetta coerenza con la disposizione, prima presa in esame, che, per determinare la competenza, si deve aver riguardo alla pena stabilita per ciascun reato. Rifletti: non sarebbe assurdo che la competenza del tribunale fosse ritenuta, nel caso di Tizio accusato dei reati A, B, C, D ciascuno punito nel massimo con quattro anni – cosa per cui Tizio rischia la pena complessiva di sedici anni; e non fosse ritenuta nel caso, da te fatto, del reato continuato A, in cui Tizio rischia solo dodici anni?

Discente: Continuo a esporti i miei dubbi e le mie perplessità. Io trovo logico che non si tenga conto delle attenuanti: Tizio è accusato di un reato che prevede 12 anni di reclusione: che importa che sia ipotizzabile a suo favore un’attenuante? dal momento che questa gli può essere riconosciuta o no, egli rischia sempre una pena superiore ai dieci anni. Quindi - se la competenza del tribunale fosse di dieci anni, come ci è piaciuto convenire - questa competenza per il reato di Tizio sarebbe giusto fosse esclusa. Mi sembrerebbe logico però che delle circostanze aggravanti si tenesse conto: Tizio è imputato del reato B, che è punito con nove anni; gli è contestata però anche l’aggravante C: se questa viene riconosciuta dal giudice, Tizio rischia 12 anni.

Docente: Effettivamente l’irrilevanza delle circostanze aggravanti costituisce un’anomalia. Che potrebbe essere spiegata col fatto che spesso un’aggravante emerge solo al dibattimento; cosa per cui, riconoscerle rilevanza ai fini della competenza, potrebbe costringere il giudice a spogliarsi della causa, quando già ha compiuto un lavoro, forse notevole, per giungere alla sua definizione.

Discente: Parliamo ora della competenza per territorio.

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Docente: Il sistema migliore per parlarne, è quello di commentare, comma per comma, l’articolo 8 – l’articolo che dà appunto le regole generali per determinare la competenza per territorio.

Discente: Leggo allora il suo primo comma, che recita: “La competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato”. La ragione per cui, se una rapina è stata commessa a Palermo, competente territorialmente è il giudice di Palermo, io la capisco: i testimoni del fatto delittuoso presumibilmente sono tutti di Palermo: presumibilmente risiedono a Palermo, Caio e Sempronio, che hanno visto l’imputato puntare la pistola contro il funzionario di banca. Però, ecco il punto e lo strano per me almeno, il comma in questione radica la competenza, non dove è stata commessa l’azione delittuosa, ma dove il reato “si è consumato” – e il reato si consuma nel luogo in cui si verifica l’evento antigiuridico – luogo che può essere diverso da quello in cui è stata compiuta l’azione. Metti, un terrorista fabbrica a Palermo quella bomba che, da lui spedita, esploderà in una banca di Napoli: competente sarà il giudice di Napoli e non di Palermo.

Docente: Ciò è vero, ma, se ci pensi, è anche giusto. E’ giusto cioè che - nei casi in cui si deve scegliere, tra il radicare la competenza nel luogo in cui si è compiuta l’azione e il radicarla nel luogo in cui l’evento si è verificato ed anche ha creato il maggior allarme sociale - si opti per questa seconda alternativa: è la gente di Napoli che è stata più colpita dall’azione terroristica ed è soprattutto alla gente di Napoli che deve permettersi di seguire lo svolgimento del processo, che farà giustizia dei danni da lei subiti.

Discente: Il secondo comma dell’articolo 8 fa però eccezione alla regola ora vista. Infatti stabilisce che “Se si tratta di fatto dal quale è derivata la morte di una o più persone, è competente il giudice del luogo in cui è avvenuta l’azione o omissione”. Cosa per cui, se Lestaguida investe con la sua auto Piedelento a Palermo, e Piedelento, trasportato in un ospedale di Napoli, vi muore, competente a giudicare sarà il giudice di Palermo, anche se l’evento giuridico si è verificato a Napoli.

Docente: Effettivamente questa è un’eccezione alla regola stabilita nel primo comma. Tale eccezione trova la sua giustificazione nel fatto che molto spesso, il luogo in cui muore la vittima di un reato, non corrisponde per nulla a quello in cui si è creato l’allarme sociale: Piedelento muore nell’anonimato di una corsia di ospedale a Napoli: puoi giurare che a nessuno dei napoletani la notizia è pervenuta.

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Discente: Passiamo al terzo comma dell’articolo 8 – esso recita: “Se si tratta di reato permanente, è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, anche se dal fatto è derivata la morte di una o più persone”.A me sembra che questa disposizione faccia eccezione, non solo al disposto del secondo comma, ma anche a quello del primo.

Docente: Si, e il motivo di tale deroga va trovato nel fatto che, radicare i reati permanenti, nel luogo in cui sono stati consumati, si presterebbe a maliziose manovre, da parte del reo, per scegliersi il giudice: ovviamente il giudice meno severo. Poniamo che Romeo rapisca Giulietta a Verona. Ora, se il giudice competente venisse individuato con il luogo in cui cessa la permanenza, il nostro baldo Romeo, che, deciso a por fine al sequestro, sapesse di poter contare sulla particolare benevolenza del giudice di Napoli, avrebbe un facile sistema per radicare la competenza del suo futuro processo proprio a Napoli: portare la bella Giulietta nella bella città partenopea e lì liberarla, con ciò stesso facendo cessare la permanenza del reato là dove ha sede il giudice che a lui garba.

Discente: Passiamo all’ultimo comma dell’articolo 8, che recita: “Se si tratta di delitto tentato, è competente il giudice del luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a commettere il delitto”.Questa disposizione mi sembra in perfetta armonia e coerenza col disposto del primo comma.

Docente: E il nostro legislatore poteva evitarsi di dettarla. Forse lo ha spinto a farlo il timore che, non potendosi correttamente parlare di consumazione per il delitto tentato, potesse nascere nell’interprete il dubbio sull’applicabilità, sia pure mutatis mutandis, del primo comma. Comunque, quel che importa è che la soluzione adottata dal legislatore - il radicare la competenza per il delitto tentato nel luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a commettere il delitto - appare più che opportuna: infatti, l’ultimo atto nell’iter criminis, è anche quello in cui, di solito, si rivela più chiaramente l’intenzione criminosa del reo e che quindi più allarma la popolazione.

Discente: Quid iuris, se al giudice non risulta dove il reato è stato consumato, dove è morta la vittima, dove è iniziata la permanenza; se, insomma, non gli risultano gli elementi per l’applicabilità dell’articolo 8?

Docente: Il legislatore si fa carico di questa ipotesi e nell’articolo nove detta delle “regole suppletive”; che sono tre.

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Discente: Cominciamo dalla prima.

Docente: La prima regola è espressa nel primo comma, che recita: “Se la competenza non può essere determinata a norma dell’articolo 8, è competente il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione”. Pertanto, se non si conosce il luogo dove Romeo rapì Giulietta ma si sa che la tenne rinchiusa a Napoli, il processo si radica a Napoli.

Discente: E se risultasse che Romeo ha tenuta sotto chiave la sua Giulietta prima a Napoli e poi a Milano?

Docente: In tal caso la competenza si radicherebbe a Milano. Infatti, la competenza si radica, non in un luogo qualsiasi in cui è stata compiuta una parte dell’azione, ma nel luogo in cui è stata compiuta l’ultima sua parte.

Discente: Ma se non si sa assolutamente nulla sul luogo in cui l’azione è stata compiuta: nulla si sa del luogo dove Romeo rapì e tenne rinchiusa Giulietta?

Docente: Allora si applica la seconda regola suppletiva, che è espressa dal secondo comma dell’articolo 9 così: “Se non è noto il luogo indicato nel comma 1, la competenza appartiene successivamente al giudice della residenza, della dimora o del domicilio dell’imputato”. Non si sa dove Romeo rapì e tenne Giulietta, ma si sa che egli abita a Verona? La competenza si radica a Verona.

Discente: Ma se neanche tale criterio fosse applicabile?

Docente: Non bisogna disperare: il nostro legislatore tutto prevede e a tutto provvede; nel caso, col terzo comma dell’articolo 9, che recita: “Se nemmeno in tale modo è possibile determinare la competenza, questa appartiene al giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall’articolo 335”. Quindi, se non risulta dove Romeo ha sequestrata la povera Giulietta, né si sa dove egli risieda (o dimori, o abbia un domicilio), però risulta che è stato il pubblico ministro di Arezzo a iscrivere per primo la notizia di reato, forse perché Giulietta è stata trovata mentre stordita e in piena confusione mentale girava per le strade aretine, ebbene in tal caso la competenza sarà del tribunale di Arezzo.

Discente: Certe volte, si sa dove il reato è stato consumato, la permanenza iniziata, insomma si conoscono tutti gli elementi indicati nell’articolo 8, ma

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quest’articolo non è lo stesso applicabile per la semplice ragione che il reato è stato commesso all’estero: che si fa allora?

Docente: Quel che prevede l’articolo 10 nel suo primo comma, che così recita: “Se il reato è stato commesso interamente all’estero la competenza è determinata successivamente dal luogo della residenza, della dimora, del domicilio, dell’arresto o della consegna dell’imputato. Nel caso di pluralità di imputati, procede il giudice competente per il maggior numero di essi.”

Discente: E se non si conosce la residenza, la dimora ecc. dell’imputato?

Docente: Si torna a quel criterio che, già per l’articolo 9, costituiva la extrema ratio; e diventa competente il giudice del luogo in cui ha sede il pubblico ministero, che per primo iscrisse nel registro la notizia del reato; tanto dispone il comma secondo dell’articolo 10 recitando: “Se non è possibile determinare nei modi indicati nel comma 1 la competenza, questa appartiene al giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall’articolo 335”.Però, bada, nessuna delle disposizioni prima citate, né quella del primo comma né quella del secondo comma, si applica qualora il reato fosse stato commesso anche solo in parte nel territorio nazionale; per il caso infatti il terzo comma dell’articolo 10 così dispone: “Se il reato è stato commesso in parte all’estero, la competenza è determinata a norma degli articoli 8 e 9”.Finisco il mio (rapido) esame delle regole, che disciplinano la competenza per materia e per territorio, avvertendoti che esse possono essere totalmente sparigliate nei casi in cui due o più reati vengano, per connessione, accertati insieme in uno unico processo. Ma di ciò mi riservo di parlare quando tratteremo appunto della cosiddetta connessione dei reati.

Lezione 14 - Riunione e separazione dei processi –Competenza per connessione – Provvedimenti sulla giurisdizione e sulla competenza – Conflitti di giurisdizione e di competenza

Discente: Da quale articolo è prevista la riunione dei processi?

Docente: Dall’articolo 17 che così recita: “La riunione di processi pendenti nello stesso stato e grado davanti al medesimo giudice può essere disposta quando non determini un ritardo nella definizione degli stessi: a) nei casi previsti dall’articolo 12; c) nei casi previsti dall’articolo 371, comma 2, lettera b”.

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Discente: Si, ma che ci dicono l’articolo 12 e l’articolo 371, comma 2, lettera b?

Docente: Per saperlo ci basta leggerli. Articolo 12: “Si ha connessione di procedimenti: a) se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione fra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento; b) se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione ovvero con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso; c) se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri”.Art. 371 co.2 lett.b: “(Le indagini di uffici diversi del pubblico ministero si considerano collegate) se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza”.

Discente: Mi pare di capire che la riunione di due procedimenti, A e B, è ammessa solo in via di eccezione e solo se essi presentano, o almeno vi è la forte probabilità che presentino, alcune questioni comuni.

Docente: Esatto. Proprio questa forte probabilità che abbiano questioni comuni – questioni che, se i processi fossero affrontati separatamente, richiederebbero la antieconomica ripetizione di una stessa attività conoscitiva o decisionale da parte del giudice - spiega perché, tanto per far degli esempi, il legislatore consenta: la riunione dei processi contro Caio Primo e Caio Secondo accusati di avere insieme svaligiato la villa del ragionier Brambilla (ipotesi di procedimenti connessi per aver, gli imputati, concorso nello stesso reato); la riunione dei due processi A1 e A2 in cui Caio, in uno (A1), è accusato di avere ucciso Sempronio e, nell’altro (A2), di aver ucciso Filippo, per eliminare tutti i successibili in grado prioritario, che gli avrebbero impedito di beneficiare dell’eredità di Pinco Pallino (ipotesi di procedimenti connessi perché relativi ad azioni od omissioni esecutive di un identico disegno criminoso); la riunione dei processi A1 e A2 quando, in A1, Caio è imputato di aver ingiuriato Sempronio e, in A2, Sempronio è imputato di avere, in risposta, bastonato Caio (ipotesi di procedimenti collegati, non più connessi! perché i relativi reati sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre).

Discente: Quali i vantaggi di una riunione dei procedimenti in questi casi?

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Docente: In primis, quello di evitare una contraddittorietà, nel dispositivo o nella motivazione, delle sentenze. In secundis, quello di permettere un’economia di attività e di spese sia per le parti sia per l’Ufficio.

Discente: Che la riunione eviti, nei casi fatti sopra di procedimenti connessi o collegati, una possibile contraddittorietà nelle sentenze è ben chiaro. Meno chiaro perché eviti uno spreco di attività processuale.

Docente: Per renderti conto di questo, pensa a Caio accusato di due reati diversi: se per ciascuno dei due reati ci fosse un procedimento autonomo, Caio dovrebbe recarsi a rendere l’interrogatorio, prima, dal giudice Brambilla dell’uno, e, poi, dal giudice Napoletano dell’altro, con notevole spesa se, metti, un procedimento fosse radicato a Milano e l’altro a Palermo.

Discente: Questi sono i vantaggi delle parti, ma i vantaggi dell’Ufficio?

Docente: Neanche essi mancano: metti che l’escussione di un teste sia rilevante tanto per il processo A quanto per il processo B, se tali processi fossero autonomi, il teste dovrebbe essere escusso due volte, una, nell’ambito del processo A, e, l’altra, nell’ambito del processo B.

Discente: Capisco il vantaggio della riunione di due procedimenti, ma quali gli svantaggi?

Docente: Il più evidente sta nel ritardo, nella definizione di un procedimento, che la trattazione unitaria può comportare: per accertare che Tizio ha commesso il reato di truffa, occorre sentire dieci testimoni, per accertare che Caio ha commesso il reato di ingiurie, basta leggersi un documento: perché far battere il passo al secondo processo in attesa del primo?

Discente: Però si potrebbe dare al giudice il potere di valutare le probabilità che un procedimento ritardi l’altro e, solo in caso di esito positivo di tale valutazione, di disporre la riunione.

Docente: Tu scopri l’acqua calda. La soluzione che tu proponi, è proprio quella che, dal legislatore, è stata adottata. Rileggiti l’articolo 17, vi è scritto che “la riunione…può esser disposta quando non determini un ritardo nella definizione (dei procedimenti)”.

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Discente: Risolto questo dubbio, me se ne presenta un altro, originato dall’incipit dell’articolo 17, che recita: “La riunione di processi pendenti nello stesso grado davanti al medesimo giudice” ecc..

Docente: A me pare ovvio che il legislatore limiti la possibilità di riunione al caso che i procedimenti pendano nello stesso grado: infatti se il procedimento A fosse in grado di appello e il processo B in primo grado, oppure A fosse in primo grado e B nella fase delle indagini preliminari, è in re ipsa che l’unificazione in un simultaneus processus di A e B comporterebbe un ritardo nella definizione di A.

Discente: Questo lo capisco e non da lì nasce il mio dubbio, ma dal fatto che per la loro riunione i procedimenti debbono pendere “davanti al medesimo giudice”.

Docente: Non capisco che problema ci sia.

Discente: Se i procedimenti da riunire sono di competenza dello stesso giudice nessun problema, ma metti che A fosse di competenza del giudice Brambilla di Milano e B di competenza del giudice Napoletano di Palermo, oppure A fosse di competenza della corte di assise e B del tribunale, la riunione, pendendo i processi davanti a giudici diversi, mi pare, non si potrebbe fare.

Docente: E in effetti di regola non si fa; salvo l’eccezione rappresentata da alcuni procedimenti, i cosiddetti procedimenti “connessi”, la cui riunione il legislatore ritiene tanto opportuna da togliere l’ostacolo da te segnalato.

Discente: E come lo toglie?

Docente: Stabilendo per tale categoria di procedimenti una deroga alle regole generali, sulla competenza per materia e per territorio, che abbiamo visto in una precedente lezione. In base a tale deroga il giudice Brambilla di Milano, di cui al tuo esempio, diventa competente anche per il procedimento per cui, in base alle regole generali, sarebbe competente il giudice di Palermo E una volta divenuto competente a conoscere di tale procedimento……. ne prende effettiva cognizione.

Discente: Scusa se ti interrompo, ma se il processo B fosse già radicato presso il tribunale di Palermo e quindi il relativo fascicolo si trovasse presso la cancelleria di Palermo?

Docente: Nessun problema, il giudice Brambilla in tal caso scriverebbe una “missiva” al cancelliere di Palermo e si farebbe spedire il fascicolo (anche se nulla

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esclude che il giudice possa prendere le sue decisioni, senza avere la materiale disponibilità del fascicolo e quindi senza poterlo consultare, basandosi semplicemente su documentazione, ad esempio un decreto di citazione, prodottagli). Quindi, riprendendo il discorso, il giudice Brambilla prende cognizione del secondo processo B e se, sentite le parti (vedi articolo 19), lo ritiene opportuno, con ordinanza (vedi sempre articolo 19) dispone la riunione.

Discente: A questo punto devi dirci gli articoli che permettono questo giochetto, questa deroga alla competenza.

Docente: Deroga alla competenza e alla giurisdizione, perché può anche presentarsi il caso che, per operare la riunione, proprio a questa, si debba derogare.Chiarito questo, ti rispondo: gli articoli che comportano una deroga alle regole generali sulla giurisdizione e sulla competenza sono gli articoli, 13, 15, 16 del codice di procedura e gli articoli 6, 7, 8 del D.Lgs 28 agosto 2000 n. 274 (il decreto legislativo che disciplina il procedimento davanti al giudice di pace).Come è logico, la deroga, nel caso di competenza per territorio, opera nel senso di attribuire la competenza del reato meno grave al giudice competente per il reato più grave, e, nel caso di competenza per materia, nel senso di attribuire la competenza per tutti i procedimenti al giudice superiore: quindi alla corte di assise quando si tratta di riunire un procedimento di tribunale e un procedimento di corte di assise.

Discente: E se si tratta di riunire un procedimento appartenente alla competenza del giudice di pace e un procedimento appartenente alla competenza del tribunale o della corte di assise?

Docente: Naturalmente in tal caso il giudice di pace è spogliato della competenza a favore del tribunale o della corte. Però tieni presente che l’articolo 6 del citato D. LGS. 274/2000, che disciplina appunto per il giudice di pace la competenza per materia determinata dalla connessione, ammette deroghe alla generale competenza per materia in limiti molto più ristretti che gli articoli 12 e seguenti del codice di procedura: infatti nel suo prima comma limita i casi di connessione a quelli in “cui una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione” – e, limitando i casi di connessione, indirettamente limita le deroghe alla competenza, in quanto queste sono determinate solo dalla “connessione “dei procedimenti.

Discente: Che succede se il presupposto in base a cui è stata disposta la riunione di due procedimenti, nel corso del processo, si rivela fallace?

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Docente: In questi casi, che sono dettagliatamente previsti dall’articolo 18, il giudice può disporre la separazione.

Discente: Ma il procedimento A, che era stato attribuito alla competenza della Corte in deroga alle regole generali sulla competenza per materia, o era stato attribuito al giudice di Milano, in deroga alle regole generali, che avrebbero preteso che fosse attribuito al giudice di Palermo, continuerà a rientrare nella competenza, della corte di assise e del giudice di Milano?

Docente: No, sul punto la regola è questa: nel caso venga meno la riunione dei procedimenti o perché è stata disposta la loro separazione o per qualsiasi altra ragione, metti perché stato archiviato o definito con sentenza il procedimento dotato di vis actractiva (il Gup, putacaso, all’udienza preliminare ha assolto uno dei due coimputati), il procedimento svincolato dalla riunione, ritorna al giudice che sarebbe stato competente a trattarlo secondo le regole generali, a meno che ciò comporti una sua regressione in una fase anteriore.

Discente: E quando avverrebbe questo, ad esempio?

Docente: Ad esempio, quando il giudice del dibattimento proscioglie per il reato A e condanna per il reato B. In tal caso il procedimento relativo al reato B continua ad essere di competenza della Corte di assise, anche se, in base alle regole generali, sarebbe stato di competenza del tribunale e questo perché, opinare il contrario, significherebbe far regredire il procedimento nella fase delle indagini preliminari.

Discente: L’articolo 19 richiede che il provvedimento di riunione sia adottato sentite le parti e con la forma dell’ordinanza, e da ciò si argomenta facilmente che solo il giudice, e non il pubblico ministero, può disporre la riunione. Questo, certo, non impedisce al pubblico ministero di svolgere contemporaneamente indagini su due reati diversi, se i due reati appartengono alla competenza del “suo” tribunale o della “sua” corte; ma può il p.m. di Milano svolgere indagini preliminari, oltre che sul reato A, rientrante nella competenza del tribunale di Milano, sul reato B, rientrante nella competenza del tribunale di Palermo?

Docente: Certo, lo può, se si tratta di reati “connessi” o “collegati” ai sensi degli articoli 12 e 371 – e questo per un preciso disposto di quest’ultimo articolo. Qualora poi si tratti di reati connessi, egli, al termine delle sue indagini, chiederà il rinvio a giudizio per entrambi i reati, così come se fossero riuniti già in un unico processo

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e…se nessuno dice niente, né il giudice né le parti, si intenderà che implicitamente sia intervenuto un provvedimento di riunione.

Discente: Ma così, senza che le parti siano sentite, come imporrebbe l’articolo 19?

Docente: L’articolo 19 va interpretato nel senso (limitativo) che le parti debbono avere la possibilità di interloquire sulla riunione: non importa che siano formalmente invitate a dire la loro opinione.

Discente: Voltiamo pagina. Abbiamo finora visto le norme che attribuiscono, la competenza a trattare un processo, a questo o a quel giudice. Ma che succede se queste norme sono violate? Per cominciare, che succede se sono violate le norme sulla competenza per materia? se il tribunale prende cognizione di una causa, di cui sarebbe in realtà competente la corte di assise, o la corte di assise prende cognizione di una causa, di cui sarebbe in realtà competente il tribunale?

Docente: Prendiamo per primo il caso del giudice inferiore (il tribunale) che prende cognizione della causa spettante al giudice superiore (la corte di assise). In questo caso, chiaramente gli atti compiuti dal giudice incompetente non possono che considerarsi nulli (salvo quel che diremo a proposito delle prove e delle misure cautelari).

Discente: Perché?

Docente: Ma è ovvio: tu, legislatore, hai attribuito, la competenza a decidere quella causa alla corte di assise e non al tribunale, perché hai ritenuto che questo non desse lo stesso affidamento di quella nel ben giudicare: se, poi, per qualche disguido, è proprio il tribunale a giudicare quella causa, non puoi non ritenere sospetta di errore la sua decisione. Potranno solo salvarsi, fino a un certo punto, le prove acquisite.

Discente: Perché potranno salvarsi fino a un certo punto?

Docente: Perché anche nell’escussione di una persona (un teste, una parte…) potrebbe aver pesato la minore capacità del giudice inferiore, che potrebbe ad esempio aver ammesso domande suggestive e comunque inammissibili. Di conseguenza, mentre per le prove in genere (le prove documentali…) varrà la sanatoria, diciamo così, prevista dal primo comma dell’articolo 26, per le prove costituite da dichiarazioni, invece, bisognerà distinguere se sono irripetibili o no: nel primo caso, anch’esse saranno coperte dalla sanatoria, nel secondo caso, invece,

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saranno “utilizzabili soltanto nell’udienza preliminare e per le contestazioni a norma degli articoli 500 e 503”.

Discente: Ma se il tribunale incompetente ha emesso la sua sentenza e nessuno ha rilevato o ha eccepita l’incompetenza, se nel giudizio di appello si discute su tale sentenza senza che ancora nessuno rilevi ed eccepisca la incompetenza, arrivati in cassazione si può ancora eccepire e rilevare questa incompetenza?

Docente: E’ logico: se era incompetente il giudice di primo grado, non può non essere incompetente anche il giudice di appello; se erano sospette di erroneità le decisioni del giudice di primo grado, non possono non essere sospette di erroneità le decisioni del giudice di appello. Quindi perfettamente logica e consequenziale è la disposizione del primo comma dell’articolo 21, che recita: “L’incompetenza per materia è rilevata in ogni stato e grado del processo, salvo quanto previsto dal comma 3 e dall’articolo 23 comma 2”.

Discente: Ma a che si riferisce l’articolo 23 comma 2?

Docente: Si riferisce al caso che ci sia stato, non un difetto, ma un eccesso di competenza: il giudice superiore, metti la corte di assise, ha giudicato di una causa di competenza del giudice inferiore. In tal caso, le decisioni del giudice incompetente non possono naturalmente essere sospette di essere erronee; e per il legislatore si tratta solo di impedire che il giudice superiore sprechi la sua attività per una causa, per cui potrebbe bastare l’attenzione del giudice inferiore. E tale scopo il legislatore raggiunge permettendo, sì, di rilevare ed eccepire l’incompetenza, ma solo in limine iudicii. Ecco quel che precisamente dispone il secondo comma dell’articolo 21: “Se il reato appartiene alla cognizione di un giudice di competenza inferiore l’incompetenza può essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall’articolo 491, comma 1”.

Discente: E l’altra eccezione alla rilevabilità in ogni stato e grado dell’incompetenza per materia, l’eccezione data dal terzo comma dell’articolo 21, a che si riferisce?

Docente: Si riferisce a un caso del tutto analogo a quello previsto nell’eccezione data dal 2 comma dell’art. 23. Infatti il terzo comma, a cui hai fatto cenno, recita: “L’incompetenza derivante da connessione è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro i termini previsti dal comma 2” – termini che sono dati dalla conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, dal termine previsto

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dall’art. 491 comma 1, termine questo che, come già sappiamo, è posto in limine litis.

Discente: Perché dici che questo è un caso analogo a quello previsto dal comma 2 dell’articolo 23?

Docente: Perché, l’ incompetenza derivante da una cattiva applicazione delle norme sulla connessione, può essere, salvo decisioni abnormi, solo relativa o a casi in cui un reato minore, in forza di una connessione erroneamente ritenuta, è stato attratto nella competenza di un giudice superiore (ricordati dell’articolo 15), o a casi, in cui un reato, che doveva essere attratto nella competenza di un giudice superiore, per una connessione erroneamente disconosciuta, è stato trattato e deciso dal giudice competente in base alle regole generali sulla competenza (artt. 5 e segg.). In entrambe le ipotesi, il procedimento relativo a tale reato, verrebbe trattato e deciso da un giudice che il legislatore ritiene capace (o addirittura, ipercapace) di trattarlo e deciderlo correttamente.

Discente: Passiamo alla incompetenza per territorio: la causa pende davanti al giudice Brambilla di Milano mentre, in base al codice, competente a conoscerne dovrebbe essere il giudice Napoletano di Palermo.

Docente: In tal caso l’inconveniente, diciamo così, derivante dal fatto che, a giudicare, sia il giudice Brambilla e non il giudice Napoletano, non sta in una sospettata incapacità del primo a giudicare bene come il secondo, ma semplicemente nella frustrazione di esigenze di economia dell’attività processuale.

Discente: Di conseguenza, penso, il legislatore nel caso adotterà la stessa soluzione che già gli abbiamo visto adottare a proposito della competenza per materia per eccesso (comma 2 art. 23).

Docente: Sostanzialmente è così; infatti il secondo comma dell’articolo 21 recita: “L’incompetenza per territorio è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine previsto dall’art. 491 comma 1”.

Discente: A dir il vero, però, una differenza c’è tra il termine di rilevabilità, dell’incompetenza per materia, stabilito dall’articolo 23 e quello previsto per l’incompetenza per territorio: per rilevare la prima, si può aspettare fino al dibattimento (anche se solo fino alle prime battute del dibattimento), indipendentemente dal fatto che ci sia stata o no un’udienza preliminare, per

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rilevare la seconda, invece, se nell’iter processuale è prevista una udienza preliminare, bisogna provvedere prima della conclusione di questa.

Docente: Si, questa differenza c’è; ma è una differenza che si spiega facilmente col fatto che, fino a quando non è conclusa l’udienza preliminare e il GUP (giudice dell’udienza preliminare) non ha disposto il rinvio a giudizio, le parti non possono sapere quale sia il giudice da questi ritenuto competente per materia (se la corte di assise, se il tribunale…) e quindi non possono rilevare un eventuale suo errore nell’ applicazione delle norme sulla competenza.

Discente: Il riferimento che ora abbiamo fatto all’udienza preliminare, mi suggerisce questa domanda: ma in caso di incompetenza del GIP (Giudice delle indagini preliminari) o del GUP, che succede? Infatti, è vero che né per l’uno né per l’altro si può parlare di incompetenza per materia, però di incompetenza per territorio, sì, che se ne può parlare.

Docente: Nel caso di incompetenza del GUP, egli molto semplicemente dichiarerà la sua incompetenza con sentenza. Questo per il disposto del comma 3 dell’articolo 22, che recita: “Dopo la chiusura delle indagini preliminari il giudice se riconosce la propria incompetenza per qualsiasi causa la dichiara con sentenza e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente”. Nel caso del GIP, invece, si devono applicare i disposti del primo e secondo comma dell’articolo 22, che recitano: “1 - Nel corso delle indagini preliminari il giudice, se riconosce la propria incompetenza per qualsiasi causa, pronuncia ordinanza e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero. 2 - L’ordinanza pronunciata a norma del comma 1 produce effetti limitatamente al provvedimento richiesto”.

Discente: Ma perché il legislatore non prevede per il GIP una pronuncia di incompetenza con sentenza, ma solo con ordinanza?

Docente: Probabilmente perché ha ritenuto che, nella fase delle indagini preliminari, l’accertamento del reato è in continua evoluzione (prima, si riteneva che il reato fosse stato consumato a Genova e, poi, ci si accorge che è stato consumato ad Arezzo); quindi giustamente è parsa prematura una decisione presa in una forma, come quella della sentenza, che potrebbe dare il via a un meccanismo perverso di impugnative e di conflitti tra giudici.

Discente: Abbiamo parlato della competenza; ma non dimentichiamoci che esiste anche il difetto di giurisdizione.

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Docente: Sul difetto di giurisdizione dispone l’articolo 20, che naturalmente adotta per esso le stesse soluzioni che abbiamo visto adottate per l’incompetenza (in difetto) per materia. Cosa per cui noi qui possiamo richiamare le osservazioni già fatte per questo tipo di incompetenza.

Discente: Comunque leggiamo almeno il primo comma dell’articolo 20.

Docente: Si. Tale comma recita: “Il difetto di giurisdizione è rilevato, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento”.

Discente: Abbiamo visto quando vanno eccepite l’incompetenze per materia e per territorio. Ma che succede se io eccepisco l’incompetenza e il giudice erroneamente me la respinge e va avanti nel processo?

Docente: In caso di incompetenza (in difetto) per materia (quella, per intenderci dell’articolo 21, non quella di cui al secondo comma dell’articolo 23), tu ripeterai la tua eccezione davanti al giudice superiore il quale accogliendola rinvierà al giudice competente.

Discente: E nel caso di incompetenza territoriale?

Docente: Qui dovrai stare più attento. Nonostante che tu abbia già sollevato l’eccezione relativa, dovrai ripeterla nei motivi di appello e se il giudice superiore accoglierà tali motivi dichiarerà l’incompetenza e rinvierà al giudice competente.

Discente: Quindi, per rifarci ad un esempio prima fatto, andrà in fumo tutta la attività giurisdizionale del nostro bravo Brambilla, giudice, sì, incompetente, ma senz’altro professionalmente capace a ben decidere come il giudice Napoletano, a cui aveva sottratto la competenza! Una competenza che, è bene ricordarlo, il legislatore voleva attribuita al giudice Napoletano solo per venire incontro ad esigenze di economia processuale!!! E’ davvero un bel modo di tutelare tali esigenze il costringere un giudice, il giudice Napoletano, a ripetere tutto il lavoro fatto, e presumibilmente fatto bene, dal suo collega Brambilla!!!

Docente: Certo, ciò può parere assurdo, ma se di assurdità si tratta, bisogna riconoscere che è un’assurdità inevitabile: una sanzione, che spinga i giudici a non mettersi sotto i piedi le norme sulla competenza, ben ci vuole e questa non può che essere la nullità del loro operato, in caso che, di tali regole, essi non facciano applicazione. Comunque, quanto ora detto, risulta dal disposto dell’articolo 24, che

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recita: “Il giudice di appello pronuncia sentenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al giudice di primo grado competente quando riconosce che il giudice di primo grado era incompetente per materia a norma dell’art. 23 comma 1 ovvero per territorio o per connessione, purché, in tali ultime ipotesi, l’incompetenza sia stata eccepita a norma dell’art. 21 e l’eccezione sia stata riproposta nei motivi di appello. 2- Negli altri casi il giudice di appello pronuncia nel merito, salvo che si tratti di decisione inappellabile”

Discente: Ma in tale articolo non si fa espressa menzione della incompetenza (in eccesso) per materia!

Docente: E’ vero; ed è vero che tale omissione può portare a concludere che il legislatore, proprio in base ad osservazioni analoghe a quelle da te così brillantemente fatte, abbia escluso, per tale tipo di incompetenza, che essa, nonostante sia stata eccepita, ed erroneamente negata, possa dar luogo ad un annullamento delle decisioni prese dal giudice incompetente (in eccesso).

Discente: Restano da esaminare gli articoli 26 e 28.

Docente: Si, ma trattandosi di articoli sostanzialmente chiari ci limiteremo a leggerli, dopo aver solo osservato, che, a nostro parere, l’articolo 26 si applica anche ai casi in cui, nonostante l’eccepita incompetenza, il giudice abbia, dopo averla rigettata, raccolto delle prove. Vuoi leggere tu?

Discente: Volentieri. Art. 26: “1- L’inosservanza delle norme sulla competenza non produce l’inefficacia delle prove già acquisite”. 2- Le dichiarazioni rese al giudice incompetente per materia, se ripetibili, sono utilizzabili soltanto nell’udienza preliminare e per le contestazioni a norma degli artt. 500 e 503”.Art. 27: “1- Le misure cautelari disposte dal giudice che, contestualmente o successivamente, si dichiara incompetente per qualsiasi causa cessano di aver effetto se, entro venti giorni dalla ordinanza di trasmissione degli atti, il giudice competente non provvede a norma degli artt. 292, 317 e 321”.

Discente: Due parole sui conflitti di giurisdizione e di competenza.

Docente: Può capitare che, sia il giudice Brambilla di Milano sia il giudice Napoletano di Palermo, prendano cognizione della stessa causa oppure che entrambi rifiutino di prendere cognizione della medesima causa. Nel primo caso, si avrebbe una duplicazione inammissibile dei procedimenti, nel secondo, un altrettanto inammissibile stallo dell’attività giurisdizionale. L’unico modo per evitare i

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due inconvenienti è che intervenga un terzo giudice - che nel caso non può essere che la Corte di Cassazione – il quale dica chi è il giudice incompetente e quello competente. Tutto questo risulta dagli articoli 28 (che dà la nozione di “conflitto”) e dall’articolo 32 (che dice chi è il giudice competente a risolvere il conflitto). Ne riporto il testo.Articolo 28:” 1- Vi è conflitto quando in qualsiasi stato e grado del processo: a) uno o più giudici ordinari o uno o più giudici speciali contemporaneamente prendono o ricusano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona; b) due o più giudici ordinari contemporaneamente prendono o ricusano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona. 2- Le norme sui conflitti si applicano anche nei casi analoghi a quelli previsti dal comma 1. (omissis)”Articolo 32:”I conflitti sono decisi dalla Corte di cassazione con sentenza in camera di consiglio secondo le forme dell’art. 127. (omissis)”.

Lezione 15 - Parte offesa - Parte civile

Discente: Che significa far valere un diritto civile nel processo penale?

Docente: Significa che l’accertamento del diritto civile avverrà seguendo le norme del codice di procedura penale e non le norme del codice di procedura civile. Ad esempio, chi farà valere il diritto non dovrà preoccuparsi di convenire in giudizio l’avversario notificandogli un atto di citazione, come previsto dall’articolo 163 del codice di procedura civile.

Discente: Questo è un vantaggio.

Docente: Senza dubbio, ma la scelta di far valere nel processo penale un diritto civile comporta anche degli svantaggi. Ad esempio, chi fa valere il diritto non potrà deferire né il giuramento nè l’interpello alla controparte.

Discente: Quindi, se io faccio valere un mio diritto nel processo penale, non posso deferire all’avversario né il giuramento né l’interpello; ma basta che io scelga di far valere tale diritto davanti al giudice civile che lo posso e naturalmente con le conseguenze che il codice di procedura civile ricollega a tali atti: se ad esempio la controparte non risponde all’interpello i fatti che ne sono oggetto potrebbero essere ritenuti provati dal giudice. Come dire che la stessa persona, il mio avversario, avrebbe, nel processo penale, diritto al silenzio, nel processo civile, invece no: è un po’ strano.

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Docente: Si, è un po’ strano, ma è così.

Discente: Ma con che limiti si può far valere un diritto civile nel processo penale?

Docente: Te lo dice l’articolo 74 del codice di procedura penale – articolo, che sotto la rubrica “Legittimazione all’azione civile”, recita: “L’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all’articolo 185 del codice penale può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”.

Discente: Ma perché il legislatore pone dei limiti all’esercizio dell’azione civile nel processo penale?

Docente: Li pone nel timore, più che fondato, che in un processo, come quello penale, in cui si chiede al giudice di emettere la sua decisione subito dopo la discussione della causa, senza quindi aver il tempo necessario per una riflessione approfondita, far a questi carico di risolvere, oltre alle questioni penali, anche delle questioni civili, spesso delicate e complicate, comporti il pericolo di portarlo alla confusione mentale e quindi all’errore nella decisione.

Discente: E i limiti risultanti dall’articolo servirebbero a ridurre tale pericolo?

Docente: Senza dubbio, si. Per rendercene conto, non abbiamo che da passare in rivista i limiti che il legislatore con l’articolo 74 pone all’esercizio dell’azione civile – limiti che sono tre.

Discente: Comincia a dire qual è il primo limite.

Docente: Il primo limite è che nel processo penale non si può far valere che un diritto al risarcimento e alle restituzioni. Ponendo questo limite, il legislatore ottiene di restringere al massimo le problematiche di carattere civilistico che si possono presentare al giudice penale: dall’esercizio dell’azione civile può sorgere per il giudice penale la necessità di risolvere solo una questione relativa al risarcimento e alle restituzioni; non, ad esempio, una questione relativa alla risoluzione o all’annullamento di un contratto.

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Discente: Quindi io, che sono stato vittima del reato previsto dall’articolo 610, una violenza privata, non potrei chiedere al giudice civile l’annullamento del contratto, che l’imputato mi ha costretto a firmare puntandomi una rivoltella alla tempia?

Docente: Io risponderei di no. Ma il tuo è un caso estremo, e penso che non pochi giudici risponderebbero invece di si.

Discente: Passiamo al secondo limite.

Docente: Esso risulta dal riferimento che l’articolo 74 fa all’articolo 185 codice penale – articolo che recita: “Ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili - Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”. Quindi, tu, nel processo penale, non puoi far valere qualsiasi tuo diritto alle restituzioni e al risarcimento, ma solo quei diritti alle restituzioni e al risarcimento che derivano dal reato e, bada, dal reato derivano direttamente.

Discente: Ma quando un diritto al risarcimento deriva direttamente dal reato e quando no?

Docente: Quando il giudice penale, accertati i fatti costitutivi del reato, per stabilire l’esistenza del diritto al risarcimento (il cosiddetto an debeatur, non il quantum debeatur), non è costretto a risolvere altre questioni di fatto.

Discente: Quindi in una causa per furto in un alloggio, io non potrei far valere contro l’imputato, il mio diritto al risarcimento, per aver egli, entrando nell’alloggio, calpestato gli ortaggi del mio campicello?

Docente: No, non lo potresti. Le questioni: “l’imputato è entrato nell’alloggio passando dal campicello?” “passando per il campicello ha danneggiato degli ortaggi?”, possono, sì, entrare nel processo penale per furto, ma solo tangenzialmente: all’economia di questo serve solo stabilire: “l’imputato è entrato nell’alloggio?” (non importa da dove) “l’imputato vi ha commesso un furto?”.

Discente: E, in una causa che vede l’imputato accusato di strage per aver messo, metti, una bomba in una stazione ferroviaria, io posso far valere il mio diritto al risarcimento per i vetri del mio appartamento andati a pezzi a seguito dell’esplosione?

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Docente: Di nuovo, no; e questo perché la soluzione della questione “i vetri dell’appartamento di Pinco Pallino si sono rotti in seguito all’esplosione?”, non rileva ai fini del decidere sull’esistenza del reato di strage.

Discente: Passiamo al terzo limite, posto all’esercizio di un diritto civile nel processo penale.

Docente: E’ dato dal fatto che l’azione civile può essere esercitata solo dal “soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori universali”.

Discente: E chi altro mai potrebbe aver la pretesa di esercitarla?

Docente: Ad esempio la persona a cui il danneggiato ha ceduto il suo diritto al risarcimento: Tizio ha ceduto il suo diritto a Caio e Caio potrebbe pretendere di far valere tale diritto nel processo penale (così come gli permetterebbe il codice di procedura civile). E, invece, non lo potrebbe: il codice di procedura penale non glielo permetterebbe.

Discente: Perché?

Docente: Non è facile rispondere a tale domanda; dato che tutte le risposte che le si potrebbero dare, alla fin fine, risultano criticabili.

Discente: Dimmi la meno insoddisfacente.

Docente: Te la dirò. Prima però debbo premetterle una premessa, che è questa. Per il legislatore, chi fa valere un diritto in sede penale, dovrebbe limitarsi ad esporre le ragioni che giustificano tale diritto: certo, egli potrebbe spendersi per dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi del reato, ma nello stretto necessario per dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi del suo diritto al risarcimento. Insomma il legislatore non vuole che, chi fa valere un diritto in sede penale, sia la voce di un’accusa penale. Inevitabilmente, però, l’esercizio dell’azione civile dà l’opportunità di sostenere l’accusa contro l’imputato; opportunità che chi lo vuole può facilmente cogliere. E con ciò vengo a dare la risposta alla tua domanda: il legislatore non ammette il cessionario di un diritto a far valere tale diritto nel processo penale, perché teme che tale diritto sia stato, dal cessionario, acquistato, non al fine di intascarsi la somma del risarcimento, ma per dare sfogo al suo malanimo verso l’imputato sostenendo l’accusa contro di lui.

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Discente: Tu non hai elencato tra i limiti all’esercizio dell’azione civile, il difetto, in chi vorrebbe esercitarla, della qualità di parte offesa. Devo dedurne che anche chi non è parte offesa può fare valere un suo diritto al risarcimento nel processo penale?

Docente: E’ così.

Discente: Puoi fare un esempio di danneggiato legittimato all’azione pur non essendo parte offesa?

Docente: Nel processo per corruzione contro un pubblico ufficiale, Pinco Pallino, danneggiato dall’atto corruttivo, può chiedere il risarcimento, ancorché la parte offesa del reato di corruzione sia la pubblica amministrazione, e non lui.

Discente: Confesso che trovo un po’ ostica questa distinzione tra parte offesa e danneggiato dal reato.

Docente: Se può esserti d’aiuto una definizione, ti offro la seguente: parte offesa è il titolare dell’interesse, la cui lesione giustifica l’applicazione della pena – per cui si può dire che in mancanza di tale lesione neanche ci sarebbe la consumazione del reato. Danneggiato, invece, è il titolare di un interesse che il legislatore ritiene, sì, meritevole di tutela, ma di una tutela unicamente civilistica.

Discente: A conti fatti, stabilire quando un diritto alle restituzioni o al risarcimento possa essere fatto valere nel processo penale, non è poi molto difficile.

Docente: Si, però, in molti casi, se non difficile, diventa molto controversa la soluzione da darsi alla questione dell’effettiva esistenza di un diritto al risarcimento.

Discente: Mi riesce strana l’idea di una questione che, pur essendo facile, diventa molto controversa.

Docente: Meno strana ti apparirà la cosa, sapendo che in molti casi c’è un fortissima pressione, di enti e associazioni potenti, ad entrare nel processo penale; e non per far valere un diritto al risarcimento, ma per sostenere l’accusa privata.

Discente: Cosa che, per quel che tu mi hai detto prima, non si dovrebbe ammettere.

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Docente: Però il mondo va come va; e i nostri giudici, per permettere l’ingresso nel processo a tali enti e associazioni, fingono di vedere l’esistenza di un diritto al risarcimento, dove non vi è. Ti faccio degli esempi. Un sindacato dei lavoratori vuole costituirsi parte civile nel processo contro Caio, accusato di aver fatto violenza sessuale a una sua dipendente nel luogo di lavoro: sostiene di voler chiedere il risarcimento per il danno subito dai lavoratori in seguito alla perdita di tranquillità dovuta al pericolo di un ripetersi di episodi simili. Tu ce lo vedresti questo diritto al risarcimento?

Discente: No, di certo; e, poi, perché, in ogni caso, i soldi del risarcimento dovrebbe intascarli il sindacato e non i singoli lavoratori?

Docente: Eppure si è ritenuto che il sindacato possa costituirsi parte civile nel processo penale. Ancora un esempio: il comune di Vattelapesca vuole costituirsi parte civile nel processo contro Caio, accusato di essere l’autore della strage verificatisi nel comune stesso durante la guerra: sostiene di voler chiedere il risarcimento per il danno subito, dalle persone residenti, per lo choc e lo stress che le affliggono al ricordo della strage. Tu lo vedresti questo diritto al risarcimento?

Discente: Io, no.

Docente: Eppure si è ritenuto che quel tale Comune di Vattelapesca potesse costituirsi parte civile. E molti altri esempi del genere si potrebbero portare. Vi è da aggiungere, però, che certe volte è lo stesso legislatore ad ammettere espressamente la costituzione di parte civile di un ente, a prescindere che tale ente chieda nel processo un risarcimento del danno. Ad esempio il WWF è ammesso a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali, anche se non può chiedere un risarcimento per il danno conseguente a tali reati – risarcimento che spetta solo al Comune interessato.

Discente: Tu mi sembravi scandalizzato dai fatti a cui hai accennato.

Docente: No, affatto, alla mia età non ci si scandalizza più di nulla. Però non ritengo ammissibile fare violenza alla legge, anche se per scopi nobili. Peraltro, va notato che la stessa legge, lo stesso codice di procedura penale, dà alla parte offesa e agli enti e alle associazioni “senza fine di lucro” che hanno “finalità di tutela degli interessi lesi dal reato” – cosiddetti “enti esponenziali” - ampli poteri nel processo penale.

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Discente: Parliamo allora di questi “enti esponenziali” e della parte offesa. Prima di tutto, in quale sua parte il codice ne parla?

Docente: Nel titolo sesto del libro primo, articoli 90 e seguenti.

Discente: Parliamo per prima cosa della parte offesa: quali poteri il legislatore le riconosce?

Docente: La parte offesa, anche se non può discutere la causa e controbattere le argomentazioni degli avversari oralmente, può “in ogni stato e grado del procedimento – per l’articolo 90 – “presentare memorie e indicare elementi di prova”.

Discente: Anche tramite un difensore?

Docente: Si, l’articolo 100 le dà la facoltà di nominarne uno. Anzi c’è da dire che certe attività la parte offesa può compierle solo attraverso un difensore: ad esempio l’articolo 401 concede solo al difensore della parte offesa, e non a questa, di partecipare all’udienza sorta da un incidente probatorio.

Discente: Ma penso che, a prescindere dal diritto di presentare memorie e indicare prove, il legislatore concederà bene altri poteri alla parte offesa.

Docente: Certo, in primis quello di costituirsi (se ha sofferto danno dal reato) parte civile, venendo così a godere degli ampli poteri, alla parte civile, concessi.

Discente: Ma non è che la parte offesa si può costituire parte civile in ogni stato e grado del processo; anzi, deve aspettare un bel po’ per poterlo fare, dato che l’articolo 79 stabilisce che “la costituzione di parte civile può avvenire per l’udienza preliminare e successivamente fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’articolo 484”. Quindi la parte offesa può trasformarsi in parte civile, diciamo così, solo al momento dell’udienza preliminare o, se questa udienza manca, solo al momento dell’udienza dibattimentale. Ora prima di tali momenti si possono compiere attività importantissime, come, ad esempio: l’incidente probatorio, previsto negli articoli 392 e seguenti; l’accertamento tecnico su iniziativa del pubblico ministero, previsto dall’articolo 360 - attività che, se eseguite erroneamente, possono pregiudicare i diritti della (futura) parte civile. Possibile che il legislatore non riconosca alla parte offesa un potere di intervento in tali attività?

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Docente: In realtà il codice in varie sue norme, sparse nel codice, riconosce alla parte offesa ulteriori poteri, oltre a quello di presentare memorie e indicare testi, di cui ho fatto menzione. Ad esempio, e per riferirci alle attività da te menzionate – attività effettivamente importantissime – il legislatore concede alla parte offesa il diritto di parteciparvi, sia pure solo tramite il suo difensore, come ho già accennato. Va fatta anche menzione che la parte offesa può, per l’articolo 410, opporsi alla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero e, se ne ha fatta espressa domanda, ha diritto, per l’articolo 408, di essere avvisata di tale richiesta.

Discente: Abbiamo parlato della parte offesa. Parliamo ora degli enti esponenziali.

Docente: Tali enti sono previsti dall’articolo 91, che recita: “Gli enti e le associazioni senza scopo di lucro ai quali, anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede, sono state riconosciute in forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi dal reato, possono esercitare, in ogni stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato”.

Discente: Quindi, perché un ente o un’associazione possa esser ammesso a partecipare al processo deve: primo, essere senza scopo di lucro; secondo, essere costituito anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede; terzo, avere tra i suoi scopi la tutela dell’interesse leso dal reato; quarto, deve essere stato, tale suo scopo, riconosciuto in forza di una legge.

Docente: Aggiungi - come quinto requisito, preteso, non più dall’articolo 91, ma dall’articolo 92 - l’aver, egli, ottenuto il consenso della parte offesa. Consenso che, va rilevato, non può essere, da questa, dato a più di un ente esponenziale – tanto dispone sempre l’articolo 92, evidentemente per evitare una proliferazione delle parti nel processo penale.

Discente: Ma perché il legislatore subordina, la legittimazione dell’ente esponenziale a stare nel processo penale, al consenso della parte offesa?

Docente: Perché vuole tutelare l’interesse di questa a non vedere sostenute nel processo tesi da lei non condivise o in modo da lei non condiviso.

Discente: Ma perché il Legislatore adotta tante cautele?

Docente: Per evitare che divengano parti nel processo enti che perseguono, non la tutela dell’interesse leso dal reato, ma altri interessi.

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Discente: Ad esempio?

Docente: Interessi di tipo patrimoniale.

Discente: Come sarebbe possibile ciò dal momento che gli enti in questione, così come la parte offesa, non possono far valere nessun diritto patrimoniale nel processo?!

Docente: Si, ma potrebbero pur sempre spillare soldi all’imputato, più o meno velatamente ricattandolo: “Dacci tot e non interveniamo nel processo o, se vi interveniamo, lo facciamo in maniera tanto soft da farti assolvere”. Peraltro, non c’è solo il pericolo che un ente persegua fini patrimoniali, c’è anche quello che persegua, si, fini “non patrimoniali”, ma pur sempre diversi da quello della tutela dell’interesse leso dal reato: “io, ente, prendo parte al processo, non per evitare che nel futuro reati del tipo di quelli addebitati all’imputato si ripetano, ma perché questi è un avversario politico e gliela voglio far pagare cara”.I requisiti previsti dall’articolo 91 e da te elencati, dovrebbero servire a fugare i pericoli di cui sopra.

Lezione 16 - Garanzie e diritti dell’indagato e dell’imputato

Discente: Chi ha interesse a un procedimento, può compiere indagini sui fatti che ne sono oggetto?

Docente: Certamente, si; certamente se Pinco Pallino vuole sapere se il fidanzato di sua figlia ha veramente commesso quella violenza carnale su cui la Procura della Repubblica ha aperto un procedimento, può compiere delle indagini, parallele a quelle del P.M., raccogliendo informazioni da Tizio e Sempronio, scattando fotografie e operando rilievi nell’appartamento di Cornelio e così via; però….

Discente: …però, che cosa?!

Docente: Però non ha nessun potere di obbligare Tizio e Sempronio a rispondere alle sue domande, di obbligare Cornelio ad aprirgli la porta dell’appartamento. Tanto meno potrebbe obbligare la Pubblica Amministrazione a rilasciargli copie dei suoi atti o l’Autorità Giudiziaria a fagli visionare le cose sequestrate.

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Discente: Eppure se chi indaga non ha il potere di obbligare altri a un comportamento collaborativo, ben difficilmente può raccogliere frutti dalle sue indagini.

Docente: Tu hai ragione e il Legislatore di ciò tiene ben conto, e quando ritiene giusto dare a una persona la possibilità di fare indagini fruttuose, le concede senz’altro il potere di obbligare altri a collaborare a tali indagini.

Discente: Ma quand’è che ritiene giusto dare a una persona la possibilità di compiere indagini, diciamo così, coattive, indagini, voglio dire, a cui i terzi siano tenuti a collaborare.

Docente: Quando il procedimento, in relazione al quale tale persona intende compiere indagini, può essere definito da una sentenza che venga a incidere nella sua sfera giuridica.

Discente: Quindi diciamo che il potere di compiere indagini coattive viene concesso, all’indagato, alla parte civile e naturalmente al responsabile civile e al civilmente obbligato per l’ammenda.

Docente: Aggiungi, la parte offesa.

Discente: Anche la parte offesa?!

Docente: Certo; e non solo perché la parte offesa, se querelante, potrebbe, per l’art. 427, essere condannata, nella sentenza, alle spese, ma,e soprattutto, perché la parte

offesa, in potenza, in prospettiva, é una parte civile, e proprio in considerazione di ciò è legittimata (dall’art. 90) a indicare “elementi di prova”: e non sarebbe assurdo che il legislatore desse alla parte offesa il potere di indicare prove e poi le negasse i poteri necessari per raccogliere tali prove?!

Discente: Ma non è pericoloso concedere a un privato, a un qualsiasi Pinco Pallino, il potere di obbligare dei terzi alla perdita di tempo e al disagio di collaborare ad atti di indagini,che potrebbero essere cervellotici o addirittura inammissibili (metti, perché miranti a costringerlo a fare dichiarazioni contra se o contro un prossimo congiunto)?

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Docente: Certamente è pericoloso; e proprio per questo il Legislatore adotta le opportune cautele al fine di impedire i possibili abusi.

Discente: Diamo alcuni esempi di tali cautele.

Docente: Una cautela, diciamo così, di carattere generale è data dal fatto che il potere di indagine è concesso solo al difensore (vedi la chiara lettera degli artt. 327 bis, 391 bis e seguenti), non al suo rappresentato o assistito; anzi questi, a certi atti particolarmente delicati, come quelli consistenti in colloqui con persone informate sui fatti, non può neanche assistere (vedi il co. 8 dell’art. 391bis). A prescindere da tale cautela di carattere generale, il Legislatore, poi, ne adotta altre in relazione ai vari atti di indagine.

Discente: Danne qualche esempio.

Docente: Cominciamo dagli atti di indagine senza dubbio più inflazionati: la conferenza, la richiesta di una dichiarazione scritta, l’assunzione documentata di informazioni da terzi. L’avvocato Cicero……….

Discente: Stop. Prima di andare avanti spiegaci meglio in che consistono le attività investigative a cui ti sei prima riferito.

Docente: Sono tre tipi di investigazione contemplati dall’art. 391 bis. Il primo si ha quando il difensore si limita solo a richiedere informazioni senza preoccuparsi di documentare le risposte in uno scritto, il secondo si ha quando richiede alla persona informata una dichiarazione scritta, il terzo si ha quando il difensore documenta in uno scritto le risposte avute.Orbene metti che l’avvocato Cicero voglia avere una risposta alle domande A e B da parte di Pinco Pallino: egli per, l’art. 391bis or ora citato, può senza dubbio obbligare questi a dare una risposta a tali domande - ma, bada, solo se queste gli sono poste dal P.M. e non da lui.

Discente: Spiegati meglio.

Docente: Dunque l’avvocato Cicero ha deciso di fare le domande A e B, a Pinco Pallino.; e pertanto lo invita nel suo studio: a questo punto Pinco Pallino ha due possibilità: presentarsi e rispondere alle domande (ben si intende, rispondervi veracemente, chè se rilasciasse dichiarazioni false verrebbe punito ai sensi dell’art. 371 ter C.P.) oppure non presentarsi o comunque non rispondere alle domande.

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Discente: Se non si presenta o presentandosi non risponde alle domande fa cosa illecita?

Docente: Per nulla, egli esercita un suo diritto.

Discente: E il difensore però rimane con le pive nel sacco!

Docente: No, il difensore, a sua volta, ha due possibilità: chiedere al P.M. di disporre un’udienza per l’audizione di Pinco Pallino, udienza in cui egli (per bocca del P.M.) porrà a Pinco Pallino quelle domande A e B, a cui tiene tanto (ben s’intende se il P.M. non riterrà tali domande inammissibili o comunque esorbitanti dal perimetro probatorio disegnato dall’art. 187) oppure, ecco la seconda strada da lui (idest, dal difensore) percorribile, potrà chiedere l’incidente probatorio (possibilità, questa, che gli concede il comma 11 dell’art. 391Ter). Questo è il marchingegno ideato dal legislatore per soddisfare, da una parte, le esigenze difensive di espletare certe indagini e, dall’altra, per impedire abusi ai danni di chi verrebbe chiamato a collaborare a tali indagini.

Discente: Penso che un marchingegno simile il legislatore abbia adottato anche per gli altri atti di investigazione il cui espletamento può prestarsi ad abusi.

Docente: Sostanzialmente, si: si, nel senso che la persona, richiesta dal difensore di un comportamento collaborativo nell’indagine, ha diritto di rifiutarlo. Al che il difensore può richiedere l’intervento dell’Autorità Giudiziaria – intervento che assume però forme diverse da quelle prima viste (per il caso che l’atto investigativo consista in una conferenza, in un’assunzione di informazioni…).

Discente: Vuoi dire che l’Autorità non si sostituisce al difensore nel compimento dell’atto?

Docente: No, non si sostituisce: nel caso che l’atto richiesto sia l’accesso a un luogo privato o non aperto al pubblico, l’autorità si limita a emettere un decreto in cui (vedi l’art. 391 septies) specifica “le concrete modalità” dell’accesso (evidentemente per evitare che questo si risolva in un danno o in un eccessivo disagio per il proprietario del luogo). Nel caso di una richiesta di documentazione alla Pubblica Amministrazione seguita da un rifiuto, l’Autorità Giudiziaria, deve, per l’art. 391quater, applicare “le disposizioni degli articoli 367 e 368” (articoli con cui il legislatore disciplina la richiesta di un sequestro avanzata da una parte).

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Discente: E che cosa viene a risultare dall’applicazione di tali articoli?

Docente: Dall’applicazione di tali articoli viene a risultare che il P.M., a cui la richiesta di acquisizione della documentazione va rivolta, non può rigettarla, ma deve o disporre per l’acquisizione (della documentazione), se del caso coattiva, o rimettere la questione al Giudice dell’udienza preliminare il quale può, lui si, rigettare la richiesta (se inammissibile, perché ad esempio diretta ad ottenere una documentazione coperta dal segreto d’ufficio o di stato).

Discente: Ma la documentazione acquisita sarà data al difensore richiedente o sarà tenuta in custodia dall’Autorità Giudiziaria, proprio così com’é per le cose sequestrate?

Docente: Io credo che debba essere data al difensore; dal momento che, in realtà, non si tratta di un sequestro. Peraltro tale problema non si pone, quando il difensore si limita, come si deve ritenere che possa, a richiedere solo copia della documentazione; dato che il rilascio di una copia può incidere, si, sul diritto al segreto, ma non priva di un bene il proprietario (bene da convenientemente custodire per il caso che vada restituito).

Discente: Eguali disposizioni valgono nel caso di richiesta di documentazione a un privato?

Docente: Il codice di procedura penale, mentre prevede il caso della richiesta di documentazione alla Pubblica Amministrazione, non prevede il caso della richiesta di documentazione a un privato: insomma nel codice di procedura penale non c’è l’equivalente della richiesta di esibizione contemplata negli articoli 210 e segg. del codice di procedura civile. Tuttavia un autorevole dottrina ritiene applicabile, per analogia, l’art. 391 quater, di cui or ora abbiamo parlato. Mi pare un’opinione condivisibile; purché si tenga presente che un conto è quando la parte chiede semplicemente di aver copia o visione di un documento e un conto quando chiede l’acquisizione al processo del documento in originale: in questo secondo caso il giudice incontrerebbe, nel concedere quello che è un vero proprio atto di sequestro, i limiti che all’adozione di quest’atto pone l’art. 253.

Discente: Bene, fino ad adesso ci hai detto dei poteri di investigazione concessi alle parti. Ora, riferendo, per semplicità, il tuo discorso solo alla persona che nel processo corre il rischio di una condanna penale (quindi dimenticandoti di, parte civile, responsabile civile ecc.), dicci da qual momento questa persona viene ad avere tali poteri di investigazione.

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Docente: Bisogna distinguere. I poteri di investigazione coattiva (cioè i poteri di cui abbiamo finora parlato) il difensore di Pinco Pallino viene ad averli solo dal momento in cui viene ad esistenza il procedimento penale.

Discente: Tu ti riferisci evidentemente al procedimento che vede Pinco Pallino iscritto nel registro degli indagati. Però potrebbe essere che Pinco Pallino, pur non essendo indagato, abbia ragione di temere di essere indagato in un procedimento (per ora, metti, contro il solo Sempronio): in tal caso il suo difensore sarà ammesso a svolgere indagini, ben s’intende indagini “coattive”.?

Docente: Nonostante che sul punto l’articolo 327bis non sia chiarissimo, io riterrei di si.

Discente: Mi par di comprendere che il difensore di Pinco Pallino a prescindere dall’esistenza di un procedimento penale (che veda Pinco Pallino indagato o che lo possa vedere indagato) ha dei poteri di investigazione, però non “coattivi”. Da che cosa risulta?

Docente: Risulta dall’articolo 391 nonies che, sotto la rubrica “Attività investigativa preventiva”, recita: “L’attività investigativa prevista dall’articolo 327 bis, con esclusione degli atti che richiedono l’autorizzazione o l’intervento dell’autorità giudiziaria, può essere svolta anche dal difensore che ha ricevuto apposito mandato per l’eventualità che si instauri un procedimento penale (…)”.

Discente: Cosa significa che il difensore può compiere “l’attività investigativa...con esclusione degli atti che richiedono l’autorizzazione o l’interevnto dell’autorità giudiziaria”?

Docente: Significa che tu, difensore, potrai avere un colloquio, assumere informazioni documentate, da una persona informata dei fatti, potrai ottenere copia di un atto dalla P.A., potrai accedere a un luogo privato, ma solo se la persona informata, la P.A., il dominus del luogo a ciò consentono: non potrai superare l’ostacolo del loro rifiuto a consentire la tua attività investigativa con una richiesta di intervento all’Autorità Giudiziaria – e questo per il semplice motivo che un’Autorità Giudiziaria competente a prendere le necessarie decisioni su tale richiesta non esiste ancora..

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Discente: Ma se, la persona informata sui fatti, consente al colloquio, documentato o no, dovrà dire al difensore la verità?

Docente: Certo e se non la dicesse sarebbe passibile delle sanzioni di cui all’art. 371 ter Cod. Pen.

Discente: Noi abbiamo finora parlato dei poteri di investigazione spettanti all’indagato, ma, a prescindere da questi, all’indagato spettano delle garanzie, dei diritti (ad esempio, il diritto di essere avvisato del compimento di un atto di ispezione – vedi art. 364 – il diritto di essere avvisato di un “accertamento tecnico” – vedi art. 360…); ora mi pare che anche rispetto a tali garanzie, a tali diritti si ponga lo stesso problema che abbiamo or ora visto per gli atti di investigazione: queste garanzie, questi diritti, spettano, a chi corre il rischio di una condanna penale, solo dal momento in cui il suo nome è iscritto nel registro delle notizie di reato?

Docente: Chiaramente ciò sarebbe ingiusto e più che ingiusto, assurdo: infatti sarebbe ben assurdo far dipendere garanzie e diritti verso un’autorità (nel caso il P.M.) dal beneplacito di tale autorità

Discente: Quindi se il P.M., maliziosamente o meno, ritardasse l’iscrizione (nel registro di cui all’art. 335) di una persona, nonostante che essa già fosse gravata da indizi di reato, e compisse una perquisizione, un sequestro, insomma un atto a cui il difensore di questa persona avrebbe avuto diritto di intervenire, compirebbe un atto nullo?

Docente: A mio parere, si.

Discente: Noi abbiamo parlato finora di “indagato”, ma nel codice è contemplata l’esistenza, oltre che di un indagato, anche di un imputato. E’ intuitivo chi sia l’indagato: è la “persona sottoposta alle indagini preliminari”; ma quando è che ci troviamo di fronte a un “imputato”?

Docente: Te lo dice l’articolo 60, che recita: “Assume la qualità di imputato la persona alla quale è attribuito il reato nella richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto penale di condanna, di applicazione della pena a norma dell’articolo 447 comma 1, nel decreto di citazione diretta a giudizio e nel giudizio direttissimo”. In sintesi si può dire che l’indagato si trasforma in imputato quando le

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indagini preliminari sono approdate a tali risultati da far ritenere fondata la “notizia di reato” (idest, la colpevolezza dell’indagato).

Discente: E da che cosa risulta che le indagini sono approdate a risultati tali da far ritenere fondata la notizia di reato?

Docente: Risulta o dal fatto che il P.M. ha deciso di imboccare la strada per lui senza ritorno dell’esercizio dell’azione penale, correndo il rischio di una sentenza di non doversi procedere all’esito dell’udienza preliminare o, ancora peggio (per lui !), di una sentenza di proscioglimento all’esito dell’udienza dibattimentale oppure dal fatto che è stata presentata una richiesta di applicazione pena, ma non, bada bene, una richiesta unilaterale (quella prevista dal comma 3 dell’art. 447): una richiesta con il consenso dell’indagato (il quale con il fatto stesso di dare tale consenso dimostra di ritenere che le prove contro di lui raccolte rendano appunto fondata la notizia di reato).

Discente: Tu rappresenti la decisione del P.M. di esercitare l’azione penale come una decisione seria, una decisione che il P.M. avveduto prende solo quando sicuro della fondatezza dell’accusa, una sorta di “salto del Rubicone”, ma è così davvero?

Docente: Certo che è così. Infatti il P.M. fino a che l’azione penale non è esercitata, fino a che, quindi, si è nella fase delle indagini preliminari, anche se è costretto - per l’infruttuosità delle indagini da lui finora svolte che non gli hanno fornito la prova della fondatezza della “notizia di reato” – a chiedere l’archiviazione …….

Discente: Scusa se ti interrompo: io credevo che il P.M. dovesse richiedere l’archiviazione prevista dall’art. 408 solo quando le indagini fossero giunte a un risultato positivo per l’indagato: cioè quando risultasse la prova ch’egli non aveva commesso il fatto (o che il fatto non sussisteva) o anche (come risulta dall’art. 411) quando “mancasse una condizione di procedibilità, il reato fosse estinto, o il fatto non fosse previsto dalla legge come reato”.

Docente: No, in realtà alla richiesta di archiviazione il P.M. può, anzi deve, giungere anche quando, come recita chiaramente l’articolo 125 delle disposizioni di attuazione, “ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Ma lasciami proseguire il discorso: stavo dicendo che il P:M., anche quando è costretto a chiedere l’archiviazione, con ciò non si preclude la possibilità in futuro di “nuove

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indagini”: certo, per espletare tali nuove indagini, gli occorrerà l’autorizzazione del GIP, ma questi, come risulta chiaramente dall’art. 414, tale autorizzazione dovrà dargliela anche se, dopo il decreto di archiviazione non sono emersi nuovi elementi a favore dell’accusa e il P.M. si limiti a prospettare un nuovo piano di indagine.

Discente: Quindi con il decreto di archiviazione la partita non è definitivamente persa per la Pubblica Accusa.

Docente: Diverso il caso che, avendo il P.M. incautamente esercitato l’azione penale, questa abortisca in una sentenza di non luogo a procedere all’udienza preliminare o, peggio, in una sentenza di proscioglimento al dibattimento.

Discente: Perché?

Docente: Perché nel primo caso, nel caso cioè di sentenza di non luogo a procedere, il P.M. potrà chiedere e ottenere dal Giudice delle indagini preliminari (giusto il disposto dell’art. 434) la revoca di tale sentenza, e quindi la possibilità di espletare nuove indagini, solo se (dopo la sentenza di non luogo a procedere) sono “sopravvenute o sono state scoperte nuove fonti di prova che da sole o unitamente a quelle a quelle già acquisite, possono determinare il rinvio a giudizio”.

Discente: E nel secondo caso?

Docente: Nel secondo caso, il caso cioé di sentenza di proscioglimento emessa al dibattimento e naturalmente divenuta irrevocabile (ai sensi dell’art. 649) – ahimé per il P.M. ogni speranza sarebbe perduta: infatti per l’articolo 649 “l’imputato prosciolto (…) con sentenza divenuta irrevocabile non può essere di nuovo sottoposto a procedimento per il medesimo fatto neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo per il grado o per le circostanze”.

Discente: In conclusione, la distinzione tra “indagato” e “imputato” nasce solo al momento dell’esercizio dell’azione penale o di una richiesta congiunta di applicazione pena: nella fase delle indagini preliminari non possono esistere un indagato e un imputato insieme: esiste solo un indagato; per cui non avrebbe senso neanche chiedersi se un indagato ha maggiori o minori poteri di un imputato.

Docente: Però questo, si, si può dire: che, nell’indicare i poteri spettanti all’indagato, il codice fa riferimento ai poteri spettanti all’imputato; infatti l’articolo 61 (con formula non del tutto felice) così recita: “I diritti e le garanzie dell’imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari”.

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Lezione 17 - Diritto della persona accusata di essere informata della natura e dei motivi dell’accusa

Discente: Il terzo comma dell’art. 111 della Costituzione enuncia solennemente che “nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico”. Si, ma quand’è che il precetto costituzionale può dirsi osservato, quand’è che, per cominciare, l’accusato può dirsi “informato della natura e dei motivi dell’accusa”?

Docente: Nello stabilire ciò molto spazio ha la valutazione discrezionale del giudice. Possono servire ad aiutarlo a fare buon uso della discrezionalità che praticamente, anche se non teoricamente, egli viene ad avere in tale valutazione, le seguenti considerazioni.Prima: Chi è accusato ….

Discente: Senti, non fare un discorso troppo generico, parti dal caso di un certo ragioniere Parodi che, finita male per lui l’udienza preliminare, è stato rinviato a giudizio per rispondere del reato A.

Docente: D’accordo, ebbene questo ragionier Parodi, per organizzare al meglio la sua difesa, dovrà – oltre conoscere, naturalmente, l’esistenza di un processo contro di lui…

Discente: ….al che provvedono i disposti delle lettere a) e g) dell’articolo 429…….

Docente:...oltre conoscere il tempo e il luogo dove potrà svolgere le sue difese…

Discente: …al che provvede la lettera f) sempre dell’articolo 429…

Docente: ….ebbene oltre a tutte queste cognizioni, che non riguardano direttamente l’argomento di questa lezione, il ragionier Parodi dovrà ancora avere cognizione: A) del rischio che corre nel processo; B) dei fatti che a lui si addebitano e degli elementi di prova che la pubblica accusa porta a dimostrazione di tali fatti.

Discente: Perché è importante che abbia cognizione del rischio che corre nel processo?

Docente: Perché, a seconda del rischio che corre, il ragionier Parodi si attiverà con diversa energia nell’attività difensiva: se, io Parodi, sono accusato di una

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contravvenzione punibile solo con l’ammenda, sceglierò come difensore un qualsiasi azzeccagarbugli e forse neanche mi scomoderò a comparire all’udienza, se invece sono accusato di un omicidio mi precipiterò a bussare allo Studio di un principe del Foro.

Discente: Ho capito; passa alla seconda considerazione che dovrebbe aiutare il giudicante a stabilire quando può considerarsi adempiuto il precetto costituzionale di informare l’imputato della natura e dei motivi dell’accusa.

Docente: La seconda considerazione è che, per garantire il diritto di difesa, non è necessario che tutte le cognizioni di cui ho prima detto (la cognizione del rischio inerente al processo, la cognizione dei fatti addebitati e delle prove) siano fornite in un unico atto e in un unico tempo. Alcune di tali cognizioni potranno e dovranno essere fornite nel contesto del decreto di citazione, altre invece potranno essere date anche a ridosso dell’udienza.

Discente: Ovviamente le cognizioni che debbono essere fornite necessariamente nel contesto del decreto di citazione sono quelle il cui difetto determinerebbe la nullità del decreto stesso ai sensi del secondo comma dell’articolo 429.

Docente: Chiaro che si; e a questo punto è meglio che tu legga quel che dice questo secondo comma.

Discente: Questo secondo comma recita: “Il decreto è nullo se l’imputato non è identificato in modo certo ovvero se manca o è insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dal comma 1 lett. c) e f)”.

Docente: Ora lascia perdere la lettera f) che qui non ci interessa e leggi quel che ci dice la lettera c.

Discente: La lettera c) recita “(il decreto contiene) l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge”. E val la pena di dire che disposizione del tutto analoga è contenuta nel secondo comma e nel primo comma lett.c) dell’art. 552 che riguarda il decreto per la citazione davanti al tribunale - citazione “diretta”, cioè saltando l’udienza preliminare. Però veniamo al dunque: dicci quali sono quelle cognizioni che debbono essere necessariamente date col decreto di citazione ai sensi della lettera c) ora letta.

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Docente: Sono quelle cognizioni necessarie all’imputato per misurare il rischio a cui il processo l’espone.

Discente: Quindi è il difetto nell’indicazione del tipo di reato contestato (l’omessa indicazione che si contesta un furto, o un’estorsione, o una rapina…) che, secondo te, determinerebbe la nullità del decreto di citazione.

Docente: No; al contrario ritengo che tale omissione non possa determinare nessuna nullità. E questa risposta negativa la deduco facilmente dall’articolo 521 che nel suo primo comma recita: “Il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione”. Ora se la definizione giuridica del fatto, insomma il titolo del reato addebitato all’imputato, può essere cambiato in corso di causa, come potrebbe dirsi che la sua indicazione (nel decreto di citazione) è utile per l’imputato per misurare il rischio che nel processo corre?

Discente: E allora?

Docente: Allora quel che può determinare la nullità del decreto non è la mancata indicazione di elementi di diritto ma di elementi di fatto.

Discente: Quindi una lacunosa descrizione in fatto della fattispecie addebitata all’imputato determinerà la nullità del decreto?

Docente: Ancora, no. E per convincerti della giustezza di questa risposta nuovamente negativa fa il caso che all’imputato Rossi si addebiti “il reato previsto e punito dagli artt. 624, 625 per aver sottratto il portafoglio a Bianchi“: chiaramente qui sarebbe omesso (almeno) un elemento di fatto necessario per l’esistenza del reato di furto, cioè “il fine di trarre profitto dalla res sottratta”, riterresti con ciò menomato in qualcosa il diritto di difesa? Io penso di no! Solo la mancata indicazione di quegli elementi, che costituiscono per così dire il “nucleo duro” della fattispecie addebitata, può determinare la nullità del decreto.

Discente: Ma come si individuano questi elementi costituenti il “nucleo duro” dell’accusa?

Docente: Un criterio per distinguere tra gli elementi essenziali (gli elementi costituenti quello che ci è piaciuto chiamare il “nucleo duro” dell’accusa) e gli elementi accessori (la cui mancata indicazione non determina nessuna nullità) potrebbe essere questo: tu, giudice, fingi che quel tale elemento di fatto (non indicato nel decreto) sia (invece) stato contestato e fingi ancora che tale elemento

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in seguito all’emergere, metti di nuove prove, abbia subito una mutazione, invece di essere A si è rivelato come B, ebbene se tu, giudice, potresti, ciò nonostante, continuare nel processo, allora tu puoi considerare tale elemento solo accessorio e ritenere che la sua mancata indicazione non determini la nullità del decreto di citazione. Mi sono espresso chiaramente?

Discente: Non tanto.

Docente: Cerco di spiegarmi meglio; anche se per fare ciò dovrò partire da una considerazione un po’ a monte dell’argomento che qui trattiamo. E la considerazione è questa: che l’escussione delle varie prove durante l’istruttoria dibattimentale può aprire scenari inaspettati: prima si credeva che i fatti si fossero svolti così e invece poi un teste dopo l’altro viene a dire che i fatti si sono svolti cosà: era stato contestato all’imputato Rossi di aver ingiuriato Bianchi chiamandolo fascista e, invece, il querelante riferisce che le parole dette furono, non fascista, ma “cornuto”; era stato contestato che il fatto si era verificato in via Amendola e invece i testi vengono a dire che il fatto avvenne in via Pio XII, e così via: tutto questo è fisiologico e il Legislatore lo prevede consentendo (con l’articolo 516) che il processo continui anche se l’imputato è costretto così a difendersi da un’accusa diversa da quella mossigli nel decreto di citazione: prima doveva difendersi dall’accusa di un fatto avvenuto in via Amendola, poi deve difendersi di un fatto avvenuto in via Pio XII. Ora vengo al punto che qui ci interessa: non è logico che se Tu, Legislatore, ritieni che la difesa non sia menomata nel caso che l’imputato apprenda solo nel corso dell’istruttoria dibattimentale che il fatto contestatogli è avvenuto in via Pio XII, Tu, Legislatore, neanche ritenga che la difesa sia menomata se nel decreto di citazione si è omesso di indicare il luogo in cui è avvenuto il fatto (di modo che l’imputato può venire a sapere che tale luogo è via Pio XII solo al momento del giudizio)? La risposta positiva a tale domanda mi sembra ovvia!

Discente: Non tieni però conto che il legislatore proprio nell’articolo 516 da te citato, nel caso che “nel corso dell’istruzione dibattimentale il fatto risulti diverso da come è descritto nel decreto” impone al pubblico ministero di “modificare l’imputazione e di procedere alla relativa contestazione”; non solo, ma nell’articolo 519, su richiesta dell’imputato, impone anche al presidente, nell’ipotesi anzidetta di contestazione suppletiva, di sospendere il dibattimento “per un tempo non inferiore al termine per comparire previsto dall’articolo 429” e, dulcis in fundo, dà all’imputato il diritto di “chiedere l’ammissione di nuove prove”.

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Docente: Ma io non ti ho detto che quegli elementi accessori la cui mancata indicazione non determina la nullità del decreto di citazione non debbono mai essere contestati: certo che debbono essere contestati, però non necessariamente nel decreto di citazione: potranno essere contestati prima o nel corso dell’istruttoria dibattimentale (in base a un’interpretazione estensiva dell’art. 516).

Discente: Andiamo oltre: abbiamo visto quelle informazioni che debbono essere fornite necessariamente, cioè a pena di nullità, nel decreto di citazione. Veniamo a quelle informazioni che all’imputato possono essere date anche dopo la notifica del decreto di citazione.

Docente: Esse sono quelle che riguardano gli elementi di prova.

Discente: Ma a dir il vero l’articolo 429 nella su lettera d) dispone che il decreto contenga “l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono”.

Docente: Si, però non a pena di nullità. Ciò significa che il pubblico ministero potrà indicare le prove in suo possesso anche solo al momento (quindi anche solo sette giorni prima dell’udienza) in cui, ai sensi dell’articolo 468, deve presentare la “lista” dei suoi testimoni, periti e consulenti tecnici. E questo, bada, è un ulteriore argomento per ritenere che, non tutti, ma solo gli essenziali elementi del fatto addebitato debbano essere indicati nel decreto di citazione.

Discente: Perché?

Docente: Perché per l’imputato è certe volte più importante, specie in un procedimento indiziario, conoscere gli elementi da cui l’Accusa pretende di dedurre il fatto-reato, gli elementi cioé che costituiscono prove contro di lui (ad esempio è più importante per lui conoscere che, secondo l’Accusa, egli é stato visto comprare una pistola il giorno prima del delitto), che gli elementi descrittivi del fatto-reato (ad esempio, la circostanza che il fatto si è realizzato nella via A anziché nella via B; nel giorno A anziché nel giorno B). Pertanto se il Legislatore consente che le prove siano rivelate dalla Pubblica Accusa anche in un momento posteriore alla notifica del decreto di citazione, non vi è ragione che non consenta che anche le modalità, le circostanze del fatto addebitato, quelli insomma che ci è piaciuto chiamare gli elementi accessori dell’imputazione, siano rivelati alla difesa dopo la notifica del decreto di citazione.

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Discente: Fino ad adesso ci siamo messi nel caso di un imputato che - avendo già, il P.M., concluse le sue indagini - si vede rinviato a giudizio e deve pensare e preoccuparsi di ben difendersi nell’udienza dibattimentale, quella alla cui conclusione sarà riconosciuto colpevole oppure prosciolto. Però l’imputato ha interesse ad attivarsi per la sua difesa ancor prima che venga contro di lui emesso un decreto di citazione a giudizio, cioè quando ancora sono in corso le indagini del P.M.; e, quindi, ha interesse ad essere informato, quando ancora sono in corso le indagini, in primo luogo, dell’esistenza del processo (contro di lui intentato) e, in secondo luogo, di quale fatto e reato gli viene, in tale processo, addebitato: il legislatore tutela, dà soddisfazione a tale interesse?

Docente: Si, compatibilmente con le esigenze della Pubblica Accusa.

Discente: Quali esigenze?

Docente: L’esigenze di poter procedere a certi atti senza che l’indagato sappia del processo; esigenza che nasce dal timore che, se l’indagato sapesse del processo, potrebbe inquinare le prove.

Discente: Ma allora l’indagato viene informato del processo solo alla fine delle indagini?

Docente: No, perché ci sono atti talmente “delicati” che il Legislatore non permette che siano compiuti senza che sia data al difensore la possibilità di assistervi, certe volte con preavviso – e sono gli atti previsti dall’art. 364: interrogatorio, ispezione, confronto a cui debba partecipare l’indagato – altre volte senza preavviso – e sono gli atti previsti dall’art. 365: perquisizioni, sequestri. Al momento in cui tali atti sono compiuti quindi l’esistenza del processo non può più essere tenuta celata…

Discente: Né può essere tenuto celato il fatto e il reato per cui si sta indagando.

Docente: A dir il vero questi due elementi potrebbero benissimo continuare a restare celati…

Discente: ….com’è possibile: quando il P.M. invita una parte a presenziare a un atto del processo dovrà ben dirgli l’oggetto di questo processo.

Docente: Non necessariamente; come ti risulta dalla lettura dell’articolo 375, che, disciplinando lo “invito a presentarsi” (appunto a uno degli atti di cui stiamo

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discorrendo), impone (vedi il suo terzo comma) “la sommaria enunciazione del fatto” solo per il caso che l’invito sia fatto per un interrogatorio.

Discente: Quindi l’indagato neanche in occasione degli atti a cui il suo difensore e lui stesso ha diritto di assistere sarà informato dell’accusa che gli si muove?

Docente: No io non ho detto questo, ho solo detto che di per sé l’invito ad assistere a certi atti non implicherebbe l’indicazione dell’oggetto dell’accusa. Ora debbo aggiungere però, che il legislatore impone al P.M. di notificare all’indagato, in concomitanza con il compimento del primo atto a cui l’imputato ha diritto di assistere, la così detta “Informazione sul diritto di difesa” e la così detta “informazione di garanzia”. La prima, prevista dall’art. 369 bis, ha solo la funzione di informare l’indagato della nomina, da parte dell’Ufficio, di un difensore e di alcuni suoi diritti attinenti alla difesa. La seconda, prevista dall’art. 369, ha invece proprio la funzione di informare l’indagato “delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del fatto”.

Discente: Mi pare di capire che l’informazione di garanzia non contiene neppure quella “sommaria enunciazione del fatto”, che, come abbiamo visto, rientra, per l’art. 375, nei contenuti dell’avviso a presentarsi per rispondere all’interrogatorio.

Docente: No, effettivamente non la contiene: il Legislatore ha ritenuto di non imporre tale enunciazione nell’informazione di garanzia, perché il primo atto a cui il difensore ha diritto di assistere, potrebbe essere un’ispezione, un sequestro, una perquisizione… un atto insomma che non presuppone, come l’interrogatorio, che il P.M. abbia già le idee chiare sul fatto addebitabile all’indagato.

Discente: E, certo, al momento dell’interrogatorio il P.M. deve ben avere le idee ormai chiare sul fatto da contestare, dal momento che per l’art. 65 deve, tale fatto, contestare “in forma chiara e precisa”; mentre al momento di compiere un’ispezione potrebbe ancora annaspare nel buio.

Docente: E’ proprio così; e puoi aggiungere che ogni nuovo atto di indagine può cambiare lo scenario processuale: si credeva che l’imputato avesse commesso il fatto A (metti avesse sottratto con violenza i soldi alla prostituta) mentre, sentiti i testi Caio e Sempronio, comincia ad apparire un’altra realtà (metti, che la prostituta spontaneamente abbia consegnato i soldi all’indagato che ne era il “protettore”) o al fatto, prima addebitato se ne aggiunge un altro (si, c’è stata la sottrazione violenta, ma anche lo sfruttamento): insomma la caratteristica delle indagini è la fluidità.

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Discente: Tale fluidità è, sì, particolarmente caratteristica della fase delle indagini, ma, l’abbiamo visto, sussiste, sia pure in modo molto meno accentuato, nella fase dell’istruttoria dibattimentale; tanto è vero che si era fatta prima l’ipotesi che durante l’istruttoria dibattimentale il fatto da addebitare all’imputato si rivelasse diverso da come contestato nel decreto di citazione.

Docente: E avevamo anche visto che, per l’art. 516, ciò non comporta l’affossamento del processo, ciò non costringe l’Autorità Giudiziaria a ricominciare, come nel gioco dell’oca, il processo: questo prosegue sia pure dopo una contestazione suppletiva e dando la possibilità all’imputato di ottenere una sospensione dello stesso che gli permetta di riorganizzare la sua difesa.

Discente: Ma dall’istruttoria dibattimentale può emergere, non la diversità del fatto contestato, ma addirittura l’esistenza di un altro fatto da contestare all’imputato come reato.

Docente: E’ vero e ciò è previsto nell’art. 518; il quale, dispone che, nel caso, il P.M. “procede nelle forme ordinarie”.

Discente: La cosa è ben naturale: non si può certo sottoporre a giudizio l’imputato per il nuovo fatto, senza dargli la possibilità di nominare un difensore – difensore che egli potrebbe volere diverso da quello che al momento lo assiste, perché diversa è la gravità del nuovo fatto contestatogli o sono diverse le competenze che richiede la sua trattazione. E neanche si può privarlo del diritto di chiudere il procedimento, fuori delle luci del dibattimento e della curiosità dell’opinione pubblica, con un decreto di archiviazione.

Docente: E tuttavia questa soluzione che ti sembra tanto naturale ha le sue due brave eccezioni: una ovvia e l’altra molto meno ovvia.

Discente: Dì l’eccezione ovvia.

Docente: E’ quella prevista dal secondo comma dell’art. 518, il quale, sempre riferendosi all’emersione di un fatto nuovo durante l’istruttoria dibattimentale, recita: “Tuttavia il presidente, qualora il pubblico ministero ne faccia richiesta, può autorizzare la contestazione nella medesima udienza, se vi è consenso dell’imputato presente e non ne deriva pregiudizio per la speditezza dei procedimenti”

Discente: E ora dì l’eccezione molto meno ovvia.

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Docente: E’ quella prevista dall’art. 517 il quale recita: “Qualora nel corso dell’istruzione dibattimentale emerga un reato connesso a norma dell’art. 12 comma 1, lett.b), ovvero una circostanza aggravante e non ve ne sia menzione nel decreto che dispone il giudizio, il pubblico ministero contesta all’imputato il reato o la circostanza, purché la cognizione non appartenga alla competenza di un giudice superiore”.

Discente: Non capisco che cosa vi sia di “eccezionale” nel fatto che il p.m. possa contestare una nuova circostanza aggravante (senza necessità di ricominciare dall’inizio tutto il processo o, peggio, di rinunciare ad addebitare all’imputato l’aggravante): ammesso che il processo non sia costretto a ricominciare solo perché nuovi elementi rendono diverso il fatto contestato nel decreto di citazione (ad esempio perché è emerso nell’istruttoria che l’imputato, non si è limitato a sottrarre la res, commettendo così il solo reato di furto, ma l’ha sottratta con minaccia, giungendo così a compiere il reato di rapina), si deve ammettere anche che il processo non sia costretto a ricominciare solo perché emerge una circostanza aggravante prima non contestata (l’imputato non ha solo sottratta la res ma l’ha sottratta “con destrezza”: art.625 co.1 n.4): in fondo anche in questo caso si ha una semplice diversità del fatto.

Docente: Tu hai ragione per quel che riguarda le circostanze aggravanti, ma l’art. 517 autorizza la contestazione suppletiva anche nel caso di una nuovo fatto: il reato connesso: qui l’eccezione al disposto dell’art. 518 mi pare evidente anche se giustificata da ottime ragioni di economia processuale.

Discente: Abbiamo visto che il fatto contestato può rivelarsi diverso nel corso dell’istruttoria dibattimentale e che in tal caso il P.M. può fare una contestazione suppletiva; ma che succede se il P.M. dormicchia e non si accorge o non contesta la diversità del fatto oppure, ipotesi anche questa da tenere in conto, fa sì una contestazione suppletiva, ma non coglie la vera diversità del fatto?

Docente: Questa ipotesi è prevista dal secondo comma dell’art. 521 che recita: “Il giudice dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero se accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli articoli 516, 517 e 518 comma 2”. Quella così adottata dal Legislatore è una soluzione del tutto naturale: non sarebbe giusto che l’imputato fosse condannato per un fatto da cui non gli si è dato modo di difendersi.

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Discente: Ma mi pare che, anche quando il P.M. ha contestato all'imputato (ai sensi dell'art. 516) il fatto nella sua diversità o ha contestato (ai sensi dell'art. 517) la circostanza aggravante o il reato connesso, l'imputato subisca un'ingiustizia.

Docente: Quale?

Discente: Quella di essere privato della possibilità di chiedere, l'applicazione pena (art. 444), il giudizio abbreviato, l'oblazione e, infine, l'ammissione di nuove prove.

Docente: E' vero, ma la Corte costituzionale con varie sue sentenze ha eliminata l'ingiustizia da te segnalata.

Lezione 18 - Atti relativi alla notizia di reato e alla sua iscrizione nel registro di cui all’art.335

Docente: Un certo avvocato Cur presenta, in nome e conto del suo cliente, un atto qualificato nella sua intestazione come “esposto” (anche se ha i requisiti di una querela). E’ l’atto di cui puoi vedere la prima pagina nella sez.II (doc.A1).

Discente: Da che cosa risulta che questo atto ha i requisiti della querela?

Docente: Risulta dalla penultima sua pagina: va a sez.II doc.A2, guarda dove si appunta la freccia 1: vedrai che c’è scritto che il sottoscrivente l’atto “chiede fin d’ora la procedibilità dell’azione penale e la punizione dei colpevoli”. Ora quel che fa di un atto una querela è proprio la presenza in esso di una “dichiarazione nella quale (…) si manifesta la volontà che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato” (v. art. 336). Se tu, dovendo redigere per un cliente una querela, ti dimentichi di inserire tale dichiarazione, poco importa che tu abbia intestato l’atto come querela, il giudice chiuderà il processo con una bella (“bella” per l’imputato, brutta per il tuo cliente) sentenza di non doversi procedere per mancanza di querela. Occhio, dunque!

Discente: Però tu hai detto che l’avv. Cur qualifica l’atto, nella sua intestazione, come “esposto” (v sez.II doc.A1).

Docente: E in effetti gli atti “esposti”, melius, denunciati, configurano un reato procedibile d’ufficio (più precisamente un’estorsione, art. 629 C.P.), e non un reato procedibile a querela. La formale richiesta di procedere penalmente ecc. per i fatti esposti (che è la formula caratterizzante la querela) è probabilmente dovuta al

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timore che nel corso del procedimento i fatti denunciati si “sgonfino”: si rivelino, non un reato procedibile d’ufficio, ma un reato procedibile solo a querela (metti, il reato di minacce, art. 612).

Discente: Tu hai detto prima che l’atto qualificato dall’avv. Cur come “esposto” dovrebbe essere qualificato come “denuncia”: quando ci si trova davanti a una “denuncia” e quando davanti a un “esposto”?

Docente: Sia con l’esposto che con la denuncia si fanno presenti all’Autorità dei fatti che potrebbero configurare dei reati. Ma, mentre nell’esposto si fa ciò (non per ottenere la punizione del loro autore, ma) solo per provocare l’intervento dell’Autorità ad altri fini (ad esempio, perché diffidi l’autore del fatto dal ripeterlo, perché predisponga misure per evitare che il fatto si ripeta), nella denuncia invece si fa ciò al fine di ottenere la punizione dell’autore del fatto.

Discente: Ma nell’articolo 332, che indica “il contenuto della denuncia”, non si indica come elemento costitutivo di questa la richiesta che si proceda penalmente.

Docente: Non si indica come necessaria tale richiesta perché, se si tratta di reato procedibile d’ufficio, la sua denuncia è valida, cioè l’Autorità procede alla punizione dell’autore del fatto, anche in mancanza della richiesta de qua.

Discente: Allora, perché rileva la distinzione tra esposto e denuncia? ai fini delle spese?

Docente: No, infatti nè l’esponente nè il denunciante corrono il rischio di essere condannati alle spese del procedimento a cui il loro atto ha dato l’input: questo rischio lo corre solo il querelante (vedi gli artt. 427, 542). E a dir il vero questa distinzione è assai poco importante, anche se non è del tutto irrilevante (ad esempio rileva ai fini dell’art. 199: il prossimo congiunto dell’imputato può essere chiamato a deporre se ha fatto una denuncia, non può essere chiamato a deporre se ha fatto un’esposto).Sed de hoc satis. Passiamo ad esaminare l’atto B, che é una “relata di ratifica” (per vederlo va a sez.II doc.B).

Discente: Ma in realtà nell’intestazione c’è scritto “Relata di notifica”.

Docente: E’ un lapsus, non formalizziamoci.

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Discente: Va bene, non formalizziamoci: ma in che consiste la “ratifica” di una querela?

Docente: Consiste nelle formalità di cui al 4° comma dell’art. 337; il quale recita: “L’autorità che riceve la querela provvede all’attestazione della data e del luogo della presentazione, all’identificazione della persona che la propone e alla trasmissione degli atti all’ufficio del pubblico ministero”.

Discente: Però vedo che il pubblico ufficiale ebbe a identificare l’avvocato Cur, non il querelante, che è il Mi: questi evidentemente non si era recato alla stazione dei Carabinieri per presentare la querela.

Docente: E aveva fatto bene. Infatti non occorre che il querelante presenti la querela di persona: può dare incarico di presentarla a un terzo qualsiasi, metti, la segretaria, un collaboratore domestico o addirittura può presentarla tramite posta, purchè….

Discente: Purché che cosa?

Docente: Purché abbia l’avvertenza di fare autenticare la sua firma (vedi ult. parte co.1 art. 337).

Discente: Ma questa non è una formalità da poco!Docente: Al contrario, è una formalità da pochissimo, almeno per noi avvocati. Infatti l’articolo 39 disp. att. c.p.p. concede anche al difensore di effettuare “l’autenticazione della sottoscrizione di atti per i quali il codice prevede tale formalità”, quindi anche della sottoscrizione della querela.

Discente: Se ho capito bene, qualora volessi, per sollevare il cliente dall’incombente, provvedere io alla presentazione della querela, dovrei: primo, farmi rilasciare la nomina a difensore; secondo, autenticare (nella qualità di difensore) la sottoscrizione apposta dal cliente alla querela. Ho capito bene?

Docente: Hai capito benissimo; e tieni presente che una volta che avrai autenticato (come difensore!) la sottoscrizione, la querela potrà essere presentata anche dalla tua segretaria o da un collega di studio.

Discente: L’avvocato Cur tutte queste cose, le ha fatte?

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Docente: Certo che le ha fatte: guarda dove si appunta nella penultima pagina dell’atto (sez.II doc.A2) la freccia 2.

Discente: Guardo, ma non vedo la firma per autentica dell’avvocato sotto la sottoscrizione del querelante.

Docente: E in effetti tale firma non si trova immediatamente dopo la sottoscrizione della querela, ma (va a sez.II doc. A3) e guarda dove si appunta la freccia 3) dopo la sottoscrizione della nomina a difensore. E la Corte di Cassazione ci insegna che la autentica di questa seconda sottoscrizione comprende anche l’autentica della prima sottoscrizione. Se tu vuoi proprio trovare una pecca, il pelo nell’uovo, nell’operato dell’avvocato Cur tu devi guardare all’atto di ratifica (va a sez.II doc.B): l’avvocato Cur ratifica la querela pur non avendone nessun potere: infatti può confermare il contenuto di una querela, ovviamente, solo chi ha una querela speciale (v. art. 336) a proporre la querela, mentre all’avvocato Cur era stata, conferita, sì, una procura speciale (ma non a proporre querela, bensì) “per il presente procedimento” (va a sez.II doc.A2 – leggi la nomina a difensore). Però tale pecca era del tutto innocua: quel che importava era che l’avvocato Cur potesse presentare la querela (e lo poteva, come abbiamo visto!): la conferma della querela era una superfluità. E veniamo all’atto C, che è l’atto con cui la Polizia Giudiziaria trasmette alla Procura della Repubblica competente lo “esposto” del Mi (va a sez.II doc. C).

Discente: Lo trasmette senza prima svolgere nessuna indagine?

Docente: Si, perché il comma 1 dell’articolo 347 impone alla P.G. di “riferire” “senza ritardo” al pubblico ministero sulle “notizie di reato” (v. melius l’art.347) ricevute. Ciò che peraltro non impedisce alla P.G. di procedere ad attività di indagine (v.1° co. art. 348)Discente: Perché porre tanta fretta alla Polizia?

Docente: Per due buoni motivi: per permettere al p.m. di assumere quella direzione delle indagini che gli spetta per l’articolo 327, primo motivo; secondo motivo, per permettergli anche, anzi soprattutto direi, l’adempimento dell’incombente che l’articolo 337 nel suo primo comma gli impone.

Discente: E cioè?

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Docente: La iscrizione “immediata” della notizia nel registro ad hoc, il c.d. “registro delle notizie di reato”.

Discente: Anche qui, perché fare tanta fretta al P.M.?

Docente: Perché proprio dalla iscrizione della notizia decorre il tempo concesso al P.M. per svolgere le sue indagini.

Discente: Perché? il P.M. ha dunque il tempo contato per svolgere le indagini?

Docente: E giustamente: il processo in se stesso è una pena per l’indagato e, ripeto giustamente, il Legislatore non vuole che tale pena duri troppo nel tempo.

Discente: Ora capisco, se si permettesse alle indagini della Polizia o del P.M. di ritardare la iscrizione della notizia, si verrebbe a falsare il meccanismo creato dal legislatore. Ma quanto tempo è concesso al P.M. per svolgere le indagini?

Docente: -Te lo dice il co 2 dell’art. 405: a seconda della gravità del reato (vedi meglio l’art. citato) il P.M. deve “chiudere” le indagini entro sei mesi o entro un anno.

Discente: Non mi pare poco.

Docente: E infatti non lo è; ma tale può rivelarsi in certe circostanze. Ecco quindi che il legislatore concede (con l’art. 406) al P.M la possibilità di chiedere ed ottenere una proroga “per (una qualsiasi) giusta causa” (metti, per malattia, per la complessità delle indagini…). Così come fa il P.M. del procedimento in esame (va a sez.II doc.D).

Discente: A chi rivolge la sua richiesta il P.M.?

Docente: Naturalmente al G.I.P. - il Giudice per le indagini preliminari, previsto dall’articolo 328 – cioè a quel magistrato chiamato a prendere quelle decisioni che si impongono nella fase delle indagini e che richiedono, per essere giuste, una capacità di valutare e di bilanciare le esigenze della difesa e della pubblica accusa con quella obiettività che il P.M. non può avere. E il G.I.P. per prima cosa dispone (guarda là dove si appunta la freccia 1) che la richiesta del P.M. sia notificata all’indagato a che egli possa far valere eventuali ragioni contrarie alla proroga.

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Discente: E alla parte offesa non viene notificata? In fondo la parte più interessata a opporsi alla proroga è proprio lei!

Docente: Nel caso alla parte offesa la richiesta non viene notificata perché non ha mai dichiarato (né nella querela né dopo) di voler essere informata di eventuali richieste di proroga. Se lo avesse fatto il G.I.P. avrebbe dovuto (per il co.3 dell’art. 406) disporre la notifica anche a lei

Discente: Per prima cosa il GIP ordina la notifica della richiesta e per seconda?

Docente: Per seconda… l’accoglie (v. sez.II doc.E).

Discente: Ma il P.M. può ottenere solo una proroga?

Docente: No, dopo la prima può ancora ottenerne altre purché queste altre proroghe siano giustificate (non più solamente da una qualsiasi giusta causa, ma) dalla “particolare complessità delle indagini ovvero dalla oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine prorogato” (v. co.1 art. 406). In ogni caso le indagini non possono prolungarsi oltre un termine massimo; che l’articolo 407 fissa tenendo conto della gravità del reato.

Discente: Abbiamo visto che nel caso in esame il GIP concede la proroga; ma che cosa sarebbe successo se l’avesse rifiutata?

Docente: Sarebbe successo che il P.M. avrebbe bon grè mal grè dovuto formulare le richieste contemplate dall’art. 405; cioè quelle richieste (di archiviazione o di rinvio a giudizio o di giudizio immediato ecc) che normalmente egli prende una volta esaurite le indagini preliminari.

Discente: E se egli non formulasse nessuna richiesta?

Docente: Allora interverrebbe il Procuratore Generale il quale disporrebbe con decreto la avocazione delle indagini e entro 30 giorni dal decreto provvederebbe lui a fare quelle richieste non fatte dal Procuratore della Repubblica (art. 412).

Discente: Il legislatore fissa al Procuratore Generale un termine per la formulazione delle richieste, ma gli fissa anche un termine entro cui emettere il decreto di avocazione?

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Docente: Quello no; per cui in teoria potrebbe passare anche moltissimo tempo senza che il processo, nell’inerzia sia della Procura della Repubblica che della Procura Generale, muova un passo. Proprio per ovviare a tale inconveniente il legislatore con l’articolo 413 dà il potere sia alla parte offesa che all’indagato di fare richiesta al Procuratore Generale di provvedere all’avocazione.

Discente: Entro quale termine il Procuratore Generale deve decidere su tale richiesta?

Docente: L’articolo 413 questo non lo dice. Io penso che debba decidere entro i quindici giorni previsti dal co.2 dell’articolo 121.Qui finisce la nostra lezione. Nella prossima lezione parleremo della attività di indagine delegata (dal P.M.).

Discente: Prima di finire la lezione lasciami fare ancora una domanda.

Docente: Quale?

Discente: Con l’iscrizione della notizia di reato nel registro il processo diventa pubblico?

Docente: Assolutamente, no. Nel nostro ordinamento processuale vige il principio del segreto investigativo: non si ritiene opportuno che l’indagato venga subito a conoscenza delle indagini nei suoi confronti perché si teme che possa prendere iniziative dirette al loro fallimento e alla loro frustrazione. Proprio a tal fine l’articolo 329 impone a chi partecipa o assiste a un atto di indagine l’obbligo del segreto: se tu fossi sentito come testimone (melius, come “persona informata”) dall’Autorità Giudiziaria, tu non potresti rivelare a terzi le domande e le risposte che hai dato.

Discente: Quindi non potrei parlare con terzi, metti con un giornalista, di quel che so sui fatti del processo?

Docente: Si, quello tu lo potresti sempre fare (salvo il caso eccezionale, che il P.M. eserciti il potere concessogli dall’art. 391 quinquies di “vietare alle persone sentite di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza): dovresti tacere solo sulle parole dette nel tuo interrogatorio davanti l’Autorità Giudiziaria.

Discente: E se come difensore presenzio all’interrogatorio del mio assistito? posso poi riferirne metti a un giornalista?

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Docente: Certo, perché l’obbligo del segreto non è eterno: l’articolo 329 gli pone un limite che è dato dalla (legittima!) conoscenza dell’atto da parte dell’indagato. Siccome il tuo assistito-indagato conosce (è lapalissiano!) il contenuto….del suo interrogatorio, rispetto a questo cessa l’obbligo del segreto per tutti e in specie per te, il suo difensore.

Discente: Ancora una domanda e poi basta: per procedere il P.M. ha sempre bisogno dell’input costituito da una notizia di reato fattigli pervenire da terzi?Docente: No, lo esclude l’articolo 330, che recita: “Il pubblico ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di reato presentate e trasmesse a norma degli articoli seguenti”.

Discente: Significa questo che il P.M. può compiere un’attività volta alla ricerca di notizie di reato (in relazione, metti, a una data persona)?

Docente: No, il P.M. può procedere solo in base a notizie che siano già “emerse” o perché comunicate al suo ufficio o perché diventate di pubblico dominio (metti perché risultanti dalla cronaca giornalistica). Il P.M. se viene a conoscenza diretta di un reato, e quindi è suo potenziale testimone, può e deve farne denuncia ma non può fare indagini su di esso. Tanto meno il P.M. può puntare i riflettori su una persona per controllare che non commetta o abbia commesso reati.

Discente: Perché mai?!

Docente: Perché sono poche le persone che non hanno qualche scheletro nell’armadio. E ai fini di mantenere l’efficacia deterrente della minaccia legislativa della pena, basta che solo una percentuale di queste persone sia sottoposta a processo e condannata: la percentuale appunto per cui è emersa la notizia di reato. Il P.M. solo relativamente a tale percentuale deve svolgere la sua attività di indagine. Se, invece, a prescindere da una notitia criminis, puntasse i riflettori, parlando metaforicamente, su una data persona per vedere se per caso avesse commesso dei reati, ebbene allora farebbe sospettare di essere mosso da animosità e volontà pèrsecutoria verso questa persona.E con ciò poniamo veramente termine alla lezione.

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Lezione 19 - Atti di indagine della Polizia Giudiziaria

Docente: Nella precedente lezione abbiamo visto come la Polizia trasmette al P.M. un “esposto” (in realtà una denuncia-querela) presentata da certo Mi. Che fa a questo punto il P.M.?

Discente: Mi pare ovvio: sente i testi indicati nell’esposto e in particolare la parte offesa.

Docente: Forse è ovvio ma per il P.M. sarebbe praticamente impossibile. Se il P.M. dovesse sentire tutti i testi di tutti i processi che gli sono assegnati, certamente non riuscirebbe a chiuderne neppure uno nei stretti termini che, come abbiamo visto, la legge gli impone. Ecco perché il Legislatore gli dà con l’art. 370 la “facoltà di avvalersi della polizia giudiziaria per il compimento di attività di indagine e di atti specificamente delegati”.

Discente: Quindi il PM ha a sua disposizione la polizia.

Docente: No, non sarebbe esatto dire questo. Quella di cui il P.M. può disporre non è tutta la Polizia di Stato ma la Polizia Giudiziaria cioè quella branca della Polizia – branca formata da agenti e ufficiali tratti dai vari corpi della Polizia stessa (Arma dei carabinieri, Guardia di Finanza, Guardie carcerarie, ecc.) - che ha il compito di acquisire le notizie e le prove dei reati e di impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori (v. melius il co.1 art. 55). Proprio perché il P.M. lasciato senza aiuto della Polizia sarebbe come un uomo senza braccia e senza gambe, cioè impossibilitato a svolgere i suoi compiti, è importante, non solo ch’egli abbia alle sue dipendenze la Polizia Giudiziaria ma che l’abbia alle sue “dirette” dipendenze (come vuole l’art. 109 Cost.).

Discente: Che significa “polizia alle dirette dipendenze del P.M.”?

Docente: Significa che l’agente e l’ufficiale a cui il P.M. rivolge un ordine non è costretto, prima di eseguirlo, a chiedere il placet del superiore gerarchico (il quale potrebbe essere condizionato dal potere politico e comunque intralciare l’esecuzione dell’ordine: ad esempio ritardando la sua esecuzione “per esigenze di servizio”).

Discente: Tutti gli agenti e ufficiali di Polizia Giudiziaria sono alle dirette dipendenze del P.M.?

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Docente: No, solo gli agenti e ufficiali appartenenti alle “sezioni di Polizia Giudiziaria” (art.56) – sezioni peraltro esistenti presso ogni Procura della Repubblica (art.58). E se tu vai a doc.M di sez.II e segui poi la freccia 1 vedrai che appunto il P.M. indirizza le sue istruzioni “all’aliquota C.C. della Sezione di P.G.”.

Discente: - Che significa il “s.i.t.” su cui si appunta la freccia 2?

Docente: Significa “sommarie informazioni”.

Discente: Questo vuol dire che la Polizia delegata non potrebbe approfonditamente ed esaurientemente interrogare la persona informata sui fatti?

Docente: No, la Polizia delegata ha gli stessi poteri del P.M. delegante (salve chiare istruzioni contrarie). Siccome il P.M. può (per l’art.363) assumere (dai potenziali testimoni) informazioni senza nessuna restrizione; lo stesso ha da ripetersi per la polizia delegata. In realtà quello del P.M. è un lapsus: la polizia deve limitarsi ad assumere sommarie informazioni solo quando agisce su sua iniziativa (art.351) non quando agisce su delega del P.M.. Peraltro anche quando agisce su sua iniziativa la polizia non è impedita di svolgere un interrogatorio esauriente e approfondito (sarebbe assurdo il contrario !); semplicemente il legislatore aggiungendo l’aggettivo “sommarie” al sostantivo “informazioni” vuole inibire alla Polizia di procedere (senza delega del P.M.) a interrogatori troppo impegnativi e stressanti per l’interrogato (ad esempio a un interrogatorio sulla gestione della contabilità di una azienda). Peraltro se tu vai a doc.N di sez.II potrai vedere che la Polizia svolge l’interrogatorio di Se, la persona informata, in modo completamente esauriente.

Discente: Conclusione: parlando di sommarie informazioni il P.M. ha sbagliato.

Docente: Se ti piace cercare il pelo nell’uovo, puoi dirlo. Ma allora volendo cercare il pelo nell’uovo ci sarebbe un altro lapsus del P.M. da rilevare.

Discente: Quale?

Docente: Guarda dove si appunta la freccia 3: vi si indica come oggetto della missiva “delega di indagini”. In realtà con la sua missiva il P.M. non delega alla polizia il compimento generico di indagini (“Individui la Polizia le persone presenti al diverbio e le interroghi”) ma due ben “specifici” atti di indagine: l’interrogatorio dell’indagato e l’assunzione di informazioni da Se.

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Discente: E ciò ha la sua rilevanza?

Docente: Certo che ce l’ha. Solo gli “atti specificamente delegati” godono del particolare regime degli “atti delegati”.

Discente: E’ importante stabilire se un atto può essere qualificato come “delegato” o no?

Docente: Eccome! per far degli esempi: se l’interrogatorio dell’indagato era stato delegato lo puoi acquisire al fascicolo del dibattimento (vedi melius, art.503 co.5), se, invece, non era stato delegato, non lo puoi acquisire; ancora, se tale interrogatorio era delegato, esso serve a interrompere (almeno secondo opinioni autorevoli) la prescrizione, se non lo era, no.

Discente: Veniamo proprio alla delega dell’interrogatorio che fa il P.M. nella missiva che stiamo esaminando.

Docente: Nel dare la delega il P.M. si preoccupa di ricordare alla Polizia delegata il disposto dell’ultima parte co.1 art.370: l’assistenza all’interrogatorio di un difensore è necessaria: in mancanza di un difensore l’interrogatorio non si può fare (vedi sez.II doc. M, segui freccia 4).

Discente: Così come per gli interrogatori fatti dal P.M.

Docente: Eh, no! Il P.M. al difensore deve (a pena di nullità) dare avviso dell’interrogatorio (vedi co.3 art. 364) ma se poi il difensore non compare…peggio per lui e per il suo assistito: il P.M. l’interrogatorio lo fa senza la presenza di un difensore e l’interrogatorio è anche così perfettamente valido.

Discente: Ma la Polizia di sua iniziativa non può procedere all’interrogatorio dell’indagato?

Docente: Certo che si, ma con i precisi limiti indicati dall’art. 350.

Discente: Che dice quest’articolo?

Docente: In sintesi l’art. 350 contempla due tipi di interrogatorio; entrambi mirati all’acquisizione di informazioni utili per la prosecuzione dell’attività investigativa, ma con questa differenza…

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Discente: Scusa se ti interrompo, ma a me sembra che tutti gli interrogatori servano a reperire elementi utili per le investigazioni.

Docente: E invece ti sbagli: l’interrogatorio che fa il giudice all’indagato mira soprattutto a permettere a questi di far presenti gli elementi a sua difesa. Tanto è vero che il Legislatore (nell’art. 65) pone al giudice l’obbligo di “contestare alla persona sottoposta alle indagini in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito, di renderle noti gli elementi di prova esistenti contro di lei e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, di comunicargliene la fonte” e, inoltre, ecco il punto, di invitarla “ad esporre quanto ritiene utile per la sua difesa”. Ora un tale obbligo alla Polizia l’art. 350 non lo pone per nulla. Pone, sì, a chi svolge l’interrogatorio di cui al 1° comma (ma, bada, non a chi svolge l’interrogatorio di cui al 2° comma) l’obbligo di adottare le modalità e di dare gli avvertimenti di cui all’art. 64; ma oltre a questo non va.

Discente: Seguendo le indicazioni della freccia 5 vedo che il P.M. fa riferimento, nel delegare l’interrogatorio, all’art. 350. Ciò comporterebbe che la Polizia delegata, per quel che tu ora hai detto, non sarebbe tenuta a fare all’interrogato le contestazioni di cui all’art.65. Dico bene?

Docente: Dici bene: continua.

Discente: Però il P.M. delegante tali contestazioni invece le avrebbe dovute fare se avesse proceduto direttamente all’interrogatorio.

Docente: Esattissimo: infatti senza dubbio l’art. 65 riferendosi genericamente alla “autorità giudiziaria” si riferisce sia al giudice sia al p.m.

Discente: Ora non è strano che l’interrogatorio fatto dalla polizia delegata ai sensi dell’art. 350 possa essere acquisito (per il 5° co. art. 503 da te prima citato) al fascicolo del dibattimento, anche se sfornito di quelle garanzie, che sarebbero state pretese (dall’art. 65) se l’interrogatorio fosse stato svolto dal P.M., cioé dall’autorità delegante?

Docente: Effettivamente sarebbe strano, se così fosse. Ma non è così. Evidentemente il riferimento all’art. 350 fatto dal P.M. è dovuto a un lapsus: la polizia quando fa un interrogatorio di sua iniziativa, lo fa ai sensi dell’art. 350, ma quando lo fa come delegata deve farlo con l’osservanza dell’art. 65.

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Discente: Prima che io ti interrompessi tu stavi dicendo che vi sono delle diversità tra l’interrogatorio che la Polizia di sua iniziativa può fare ai sensi del 1° comma dell’art. 350 e l’interrogatorio che, sempre di sua iniziativa, può fare ai sensi del 5° comma sempre dell’art. 350.

Docente: E anche notevoli: l’interrogatorio di cui al co.1 può avvenire solo con la presenza di un difensore, quello, invece, di cui al co.5 può avvenire anche in assenza di un difensore; ancora, all’interrogatorio di cui al co.1 non può procedersi se l’indagato è in vinculis, invece all’interrogatorio di cui al comma 5 può procedersi anche se l’indagato è stato arrestato (perché colto in flagranza di reato) o fermato a norma dell’art. 384.

Discente: Come si spiegano tali differenze?

Docente: Si spiegano col fatto che all’interrogatorio di cui al co. 5 la polizia procede per ottenere informazioni che, se non ottenute immediatamente, perderebbero di valore.

Discente: Ma la lettera della legge non dice proprio questo: infatti il co. 5 ult. parte si limita a dire che le “notizie e le indicazioni” che la Polizia può richiedere all’indagato debbono essere “utili ai fini dell’immediata prosecuzione delle indagini”(e poco importa se pur servendo all’immediata prosecuzione delle indagini avrebbero conservato la loro utilità anche se chieste un…mese dopo).

Docente: Ma è chiaro che il semplice fatto che le informazioni permettano l’immediata prosecuzione delle indagini non sarebbe di per sé sufficiente giustificazione per un interrogatorio così poco garantito come quello di cui al 5° comma: è chiaro che la norma va interpretata nel senso da me prima indicato: cioè l’interrogatorio in assenza di difensore è ammesso quando l’informazione da richiedere si rivelerebbe utile solo se data nell’immediatezza: metti, vi è stata una rapina commessa da due persone, la Polizia arriva (cosa strana !) tempestivamente e agguanta uno dei due rapinatori: è urgente sapere in che direzione l’altro è scappato, con che auto (blu, gialla…): se si aspetta l’avvocato per avere dall’indagato queste informazioni…addio: il compare si rende uccel di bosco.

Discente: A questo punto sugli atti delegati della P.G. direi stop: parliamo degli atti su iniziativa (e non più su delega) della Polizia. Prima domanda: concedere come fa il Legislatore, con il 1° co dell’art. 55 e con gli artt.347 e segg….cito bene gli articoli?

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Docente: Li citi benissimo

Discente: Allora proseguo nella mia domanda: concedere alla P.G. il potere di compiere indagini di propria iniziativa non presenta il pericolo ch’essa prenda iniziative controproducenti (ad esempio, interroghi una persona che sarebbe stato meglio lasciare all’oscuro dell’esistenza delle indagini)?Docente: In teoria tale pericolo esiste, in pratica, no. Prima di tutto, perché il P.M. conserva sempre la direzione delle indagini (vedi art. 327) e quindi può in ogni momento interdire alla P.G. una certa attività. In secondo luogo, perché il legislatore, come ulteriore cautela per evitare il pericolo da te segnalato, limita il numero degli atti che la P.G.può compiere (ad esempio, essa non può compiere di sua iniziativa delle intercettazioni – v. artt.266 segg.) e riserva solo ai suoi componenti più qualificati, gli ufficiali, il compimento di certi altri atti (ad esempio, una perquisizione la può fare solo un ufficiale di P.G. – v. art. 352).Tanto chiarito, prendiamo, per parlare degli atti in questione, lo spunto da una disavventura giudiziaria capitata a quattro giovani: tre ragazzi e una ragazza arrestati dalla Polizia per detenzione e spaccio di droga mentre si recavano in auto a Roma. La Polizia li adocchia mentre, scesi dall’auto, si rilassano nei pressi di un autogrill: li perquisisce, trova la droga, la sequestra, arresta i quattro, gli nomina un difensore avvisandoli della facoltà di nominarne un’altro di loro fiducia.

Discente: E di ciascuno di questi atti la Polizia redige verbale?

Docente: Naturalmente: il Legislatore vuole che tutta la attività di indagine sia della polizia sia del P.M. venga documentata o mediante verbale o, in caso di atti di non grande importanza, con una semplice annotazione (vedi gli artt. 357 e 373). La documentazione così raccolta confluisce poi nel fascicolo del P.M.(v.co.4 art.357 e co.5 art. 373) – fascicolo del quale, al momento opportuno, sarà permessa la consultazione: alle parti, al Giudice delle indagini preliminari, al Giudice dell’udienza preliminare (non invece, per ragioni particolari che ci riserviamo di chiarire in altra sede, al giudice del dibattimento).

Discente: E quando cade questo “momento opportuno”?

Docente: Quando la consultazione del fascicolo non può più nuocere alle indagini (per esempi di quando ciò si verifichi vedi: il 1 co. art. 408, il 2° co. art. 416, il 2° co. art.454….).

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Discente: E questa possibilità, concessa al giudice e alle parti, di consultare tutta la documentazione in possesso del P.M. giova veramente all’accertamento dei fatti?

Docente: Chiaro che sì: il P.M. è naturalmente portato a valorizzare e ad ostendere i risultati delle indagini che confortano le sue tesi; quindi è opportuno permettere alle parti di consultare tutta la documentazione, via via raccolta, delle indagini, per controllare che non vi siano elementi invece contrari alle tesi del P.M. – elementi, che questi, non necessariamente per malizia, non ha fatto emergere dal mare magnum delle carte processuali. Ma naturalmente ciò ha senso solo se si impone alla polizia e al P.M. di documentare tutta la loro attività, e non solo quella che ha portato a risultati per la Pubblica accusa favorevoli.

Discente: Ma chi garantisce che effettivamente Polizia e P.M. documentino fedelmente anche le risultanze delle indagini negative per l’accusa.

Docente: Una garanzia assoluta di ciò non ci può essere, ma già l’obbligo di verbalizzare le più importanti attività è una buona garanzia: infatti il verbale va sottoscritto dall’interessato (l’indagato, l’informatore…) e si spera che nessuno sia tanto sciocco da firmare un verbale se in esso sono travisate o addirittura omesse certe operazioni e/o dichiarazioni.

Discente: Tu hai detto che è utile per le parti poter consultare il fascicolo del P.M.; ma in pratica, come risulta dagli stessi articoli del codice da te richiamati, ciò avviene al termine delle indagini; mentre già nel corso di queste il Giudice può essere chiamato a prendere decisioni rilevantissime per le parti: pensa al Tribunale e al GIP che, il primo, in sede di riesame (art. 309), il secondo, in sede di udienza di convalida di un arresto (art. 390), sono chiamati a decidere sulla libertà dell’indagato – e questo solo sulla base di quella documentazione che il P.M. ritiene a suo arbitrio di estrarre dal suo fascicolo.

Docente: Tu hai ragione, in tali casi il pericolo che la decisione del giudice venga presa nell’ignoranza di documenti, importanti per la difesa ma non prodotti dal P.M., ancorché esistenti nel suo fascicolo, effettivamente c’è. Non per nulla il legislatore sente il bisogno nel co.1 dell’art. 291 e nel co.5 art. 309 di imporre al P.M. di produrre “tutti gli elementi a favore dell’imputato”.

Discente: Questo a dir il vero è un obbligo che al P.M. già deriverebbe dal principio contenuto nell’articolo 359 – articolo che imponendogli di “svolgere altresì

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accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”, gli impone anche di esercitare tutte le sue funzioni con una particolare equanimità.

Docente: E tuttavia, imporre espressamente l’obbligo di cui si è detto, non è stato per nulla male: certi P.M. sono di dura cervice. Ma veniamo all’esame del primo verbale, il verbale di perquisizione. Per vederlo vai a doc.O di sez.II.

Discente: Ho letto l’atto: non mi pare che nella fattispecie esistessero i presupposti voluti dall’art 352 per procedere a una perquisizione.

Docente: In effetti se fai riferimento all’art. 352 i presupposti per la perquisizione mancavano; in particolare mancava la flagranza del reato. Senonchè, nel caso, l’articolo applicabile, non era il 352 del C.P.P., ma il 103 del D.P.R 9 ottobre 1990 n.309 (legge sugli stupefacenti). Orbene per tale articolo la flagranza del reato non occorre per procedere alla perquisizione. Vero è però che tale art. 103 - limitandosi a dare alla Polizia solo il potere di “procedere in ogni luogo al controllo e all’ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali” - non sembra autorizzarla a compiere quella perquisizione personale (a cui invece l’autorizza l’art. 352, però, ecco il punto, solo in presenza di particolari presupposti: flagranza, evasione ecc.).

Discente: Quel che dici mi pare particolarmente giusto, anche tenendo conto della particolare delicatezza di una perquisizione personale.

Docente: La stessa “delicatezza”, usiamo pure questo termine, che porta il legislatore ad escludere (nel 3° comma art. 354) che la polizia possa procedere ad ispezioni.

Discente: E veramente io non riesco a comprendere in che cosa, nel punto “lesione della privacy” si differenzi una ispezione personale da una perquisizione.

Docente: E neanche io lo capisco. Per cui escluderei che la polizia in base alla legge sugli stupefacenti possa procedere a perquisizione personale; a questa può procedere solo in base all’art. 352 (e quindi in presenza della flagranza ecc.ecc.).Come che sia, legittima o no che fosse la perquisizione, la Polizia la droga la trova e trovatala che fa?

Discente: La sequestra.

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Docente: Si, naturalmente, la sequestra; e questo in forza del co.2° ultima parte dell’art.354. Se vai al doc. P di sez.II potrai vedere il verbale di sequestro (non riguarda Sab ma il suo compagno di sventura Piz, ma la cosa, per il discorso che stiamo facendo, non rileva).Ora veniamo all’atto Q: è la convalida della perquisizione e del sequestro. Infatti il legislatore concede, sì, alla polizia di compiere degli atti di indagine; ma si rende anche conto che la polizia, nel compierli, può facilmente cadere in errore e,quindi, (indipendentemente, bada, da una istanza della parte, che ha subito la perquisizione e il sequestro) impone al P.M. di effettuare un controllo sulla regolarità dell’operato della polizia (e di effettuarlo entro un brevissimo tempo, dato che, se errore ci fosse stato, si dovrebbe provvedere al più presto a contenerne le nefaste conseguenze!). Il P.M. controlla e naturalmente …..trova tutto perfetto.Passiamo ora all’esame del verbale di arresto (Doc.R in sez.II). Certamente tra le iniziative che la Polizia può prendere, quella dell’arresto è la più grave: quella cioè in cui più pesanti e gravi si farebbero risentire gli effetti negativi di eventuali errori. Per questo il legislatore dà agli appartenenti alla Polizia – cioè a persone che non si possono presumere particolarmente qualificate e comunque debbono presumersi meno qualificate di un magistrato – il potere di compiere un arresto di sua iniziativa solo quando la probabilità di questi errori è particolarmente bassa, in quanto l’esistenza di un dato reato e la sua attribuibilità a una data persona è di tutta evidenza: quando insomma, per usare le parole della legge, il reato è flagrante (vedi gli artt 379 e segg. e per il concetto di flagranza l’art. 382).

Discente: Capisco. Ma che cosa vuol mettere in evidenza la freccia 1?

Docente: Vuol mettere in evidenza il fatto che, al fine di controllare se i quattro arrestati avevano (come fanno molti tossicodipendenti) ingoiata la droga, la Polizia aveva ritenuto necessario procedere ad esami radiologici. E per fare questi esami – che ovviamente richiedevano “specifiche competenze tecniche” - aveva esercitata la facoltà concessale dal 4° comma dell’art. 348 di “avvalersi di persone idonee” (estranee alla polizia stessa).

Discente: Ma poteva la Polizia procedere di sua iniziativa a un’operazione che comportava un’ispezione corporale – cioè un’attività che, come tu hai prima detto, le è interdetta?

Docente: Se l’esame radiologico avesse comportato un denudamento anche parziale del corpo - (e quindi l’esposizione agli occhi di terzi di parti del corpo, che l’interessato teneva coperte, forse per proteggerle dal freddo o forse – ecco il punto – per proteggerle dagli sguardi altrui, cioè per pudore) - io direi di no, che la Polizia

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non avrebbe potuto procedere agli esami radiologici. Ma se, come pare, questi non comportavano nessun denudamento, la Polizia col farli agiva lecitamente.Discente: Passiamo agli ultimi due “atti” che ci eravamo riservati di esaminare: il verbale di comunicazione del difensore d’ufficio (vai a doc.S di sez.II) e il verbale di avviso del diritto di nomina di un difensore di fiducia. (va a doc. T).

Docente: Abbiamo visto che il nostro Legislatore sente l’esigenza di tenere il più possibile segreta l’attività di indagine della polizia e del P.M. (ti ricordi l’articolo 329?); però questa esigenza si scontra a un certo punto con un’altra esigenza non meno, anzi ancora più importante: quella di garantire con la presenza del difensore la regolarità di certi atti di particolare importanza.

Discente: Quali sono questi atti?

Docente: Sono quelli che ti indicano gli articoli: 360, 364, 365, 350, 356. Cioè, per quel che riguarda il P.M.: gli accertamenti tecnici non ripetibili (art. 360), gli interrogatori, le ispezioni, i confronti (art. 364), le perquisizioni e i sequestri (art. 365); per quel che riguarda la P.G.: gli interrogatori (art. 350 co.1), le perquisizioni e i sequestri (art.356.)

Discente: Ma mi pare che si debba ricavare, sia da un argomentum a contrario sensu tratto dall’art. 364 (che non fa menzione né delle perquisizioni né dei sequestri) sia direttamente dalla lettura dell’art. 356, che la P.G non ha l’obbligo di avvisare il difensore di quelle perquisizioni e di quei sequestri che intenda compiere.

Docente: E’ così; e se non fosse così sarebbe assurdo, dato che perquisizione e sequestro sono tipici “atti a sorpresa”: cioè sono atti che, per essere fruttuosi, debbono svolgersi senza che prima nulla ne sappiano l’indagato, il suo eventuale difensore e il soggetto passivo (della perquisizione o del sequestro).

Docente: Ma perché parli distintamente di indagato e di soggetto passivo della perquisione e del sequestro? il soggetto passivo di una perquisizione o di un sequestro non è necessariamente l’indagato?

Docente: Non necessariamente: pensa al caso che l’indagato abbia usato per delinquere un’arma altrui o ci sia il sospetto che dopo il delitto abbia nascosta l’arma in casa altrui.

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Discente: Capisco, ma ti faccio ora una domanda di carattere più generale: che serve concedere al difensore il diritto di assistere a un atto (di indagine) se, del compimento di tale atto, prima non lo si avvisa?

Docente: L’atto di perquisizione o di sequestro potrebbe prolungarsi tanto nel tempo da permettere l’intervento del difensore.

Discente: Difficile.

Docente: Tieni comunque presente che il difensore, in quanto avente “diritto ad assistere all’atto”, avrà anche diritto a leggersi e ad estrarre copia del relativo verbale. Infatti per l’art. 366 “i verbali degli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria ai quali il difensore ha diritto di assistere, sono depositati nella segreteria del pubblico ministero (…) con facoltà per il difensore (non per la parte!) di esaminarli ed estrarne copia”. Ad evitare equivoci su questo punto è però bene chiarire che questo diritto di esaminare i verbali in segreteria spetta, non solo al difensore che non ha potuto (o voluto) assistere all’atto (verbalizzato), ma anche al difensore che vi ha assistito: e infatti anche a questi può essere utile controllare il contenuto di un verbale, che, forse, nell’eccitazione e confusione del momento, potrebbe aver sottoscritto (art. 137) dopo una lettura troppo frettolosa.

Discente: Noi abbiamo fino a qui ragionato come se la parte, un difensore, lo avesse; ma in realtà è assai poco probabile che una persona, che sia tenuta all’oscuro di un procedimento contro di lei promosso, pensi a nominarsi un difensore.

Docente: Il legislatore si fa carico di questo problema e fa obbligo (con l’articolo 369bis) all’Autorità Giudiziaria di notificare “al momento del primo atto a cui il difensore ha diritto di assistere” una “informativa sul diritto di difesa”; cioè un atto con cui in sintesi si nomina un difensore d’ufficio alla parte indagata e la si avvisa della sua facoltà di nominare un difensore di fiducia.

Discente: Però dare questa “informativa” al momento in cui si compie l’atto (a cui il difensore ha diritto di assistere) è come ….chiudere la stalla quando i buoi sono già fuggiti: fuor di metafora, l’atto previsto dal legislatore nell’art. 369bis viene ad informare la parte del suo diritto ecc.ecc. quando…è troppo tardi per permettere un fruttuoso esercizio di tale diritto !

Docente: Questo è vero, ma è anche vero che il Legislatore corregge tale inconveniente in varie norme (vedi l’art. 354, vedi l’art.360…) in cui è imposto

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all’Autorità - non solo di preavvisare l’indagato (e in certi casi, come quello previsto dall’art. 360, anche la parte offesa) del compimento (prossimo) dell’atto - ma anche di nominare all’indagato un difensore d’ufficio e di avvisarlo della facoltà di nominare un difensore di fiducia.

Discente: Va bene, concediamo pure che l’indagato sia (in tempo utile) avvisato della facoltà di nominare un difensore di fiducia; però una persona sceglie il difensore in ragione dell’accusa che gli viene mossa, non lo sceglie “al buio”.

Docente: Il legislatore si fa carico anche di questo problema e nell’articolo 369 impone al P.M. “quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere” di inviare all’indagato la c.d. “informazione di garanzia”; cioè un atto in cui, in sintesi, si informa l’indagato dell’accusa mossegli.

Discente: Ma la norma di legge dice anche che l’atto di cui tu ora hai detto, la “informazione di garanzia”, può essere inviata “solo” quando ecc.ecc.: e ciò farebbe pensare che il legislatore voglia porre un freno all’invio dell’informativa de qua.

Docente: E così è, dal momento che il suo invio spesso si è rivelato controproducente, nel senso che ha finito per esporre alla gogna pubblica, come autore di un reato, chi invece era, di quel reato, solo indagato.Detto questo, occhio ai verbali che ci hanno dato pretesto per questa (forse troppo lunga) chiacchierata.

Discente: Essi mi pare non corrispondono né alla informativa voluta dall’art. 369bis né a quella voluta dall’art. 369.

Docente: Però, integrati tra di loro, finiscono col fornire tutte o quasi tutte le informazioni che le due “informative” de quibus sarebbero destinate a dare: pertanto, come atti “equipollenti” a queste, le sostituiscono e le rendono inutili (sgravando così l’Autorità Giudiziaria da un incombente).Con questa osservazione chiudiamo la lezione; nella prossima parleremo dell’udienza di convalida dell’arresto che ha visti protagonisti i nostri quattro giovani e delle misure cautelari che a loro sono state appioppate.

Lezione 20 - Convalida dell’arresto – Misure cautelari – Tribunale del riesame

Discente: Misure cautelari: che sono?

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Docente: Sono provvedimenti con cui lo Stato vuole cautelarsi contro due diversi tipi di pericoli.

Discente: Dimmi qual’è il primo di questi pericoli.

Docente: E’ il pericolo che l’imputato/indagato ostacoli o l’accertamento dei fatti (inquinando le prove – vedi lett.a dell’art. 274) o l’esecuzione della sentenza (dandosi alla fuga – vedi lett.b sempre dell’art.274 - o disperdendo i suoi beni – vedi l’art. 316).

Discente: E il secondo pericolo che lo Stato vuole contrastare?

Docente: E’ quello che l’indagato/imputato o commetta nuovi reati (vedi lett.c del già citato art. 274) o aggravi le conseguenze del reato commesso (vedi l’art. 321)

Discente: Mi pare che si tratti di pericoli radicalmente diversi: infatti i pericula da te per primi citati (per intenderci quelli previsti dalle lettere a e b dell’art. 274 e quello previsto dall’art. 316) pongono in forse la stessa ragion d’essere del procedimento (a cui l’indagato/imputato è sottoposto); mentre gli altri pericula pongono in forse solo la capacità dello Stato di prevenire nuovi reati o nuove conseguenze dannose derivanti dal reato (per cui c’è il processo).

Docente: Effettivamente, le misure prese per contrastare il secondo genus di pericola, vengono ad essere molto affini alle “misure di sicurezza” di cui parla il 3° co. dell’art. 25 della Costituzione.

Discente: Se mi è permessa ancora azzardare una critica, che parte dalla mia mentalità “garantista”, dirò che, a guardar bene, quello che accomuna tutte le “misure” di cui stiamo parlando è che esse scattano sulla base di un sospetto: il sospetto che l’indagato/imputato commetta qualcosa d’illecito, il che stride un po’ con lo spirito della nostra Costituzione, in specie con quello espresso nel co.2 art.13

Docente: Non però con la lettera; infatti il co.2 dell’art. 13 si limita a stabilire, a proposito della “restrizione della libertà” di una persona, la doppia riserva di legge e di giurisdizione, senza subordinare i provvedimenti che la dispongono (idest dispongono la restrizione della libertà personale) a un qualche particolare presupposto: “non è ammessa forma alcuna di detenzione…….né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e

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nei soli casi e modi previsti dalla legge”: ecco quel che si limita a disporre il 2° co. dell’art. 13. Peraltro il legislatore si rende conto della, diciamo così, “anomalia” che vengono a rappresentare le “misure cautelari” e ne subordina l’adozione a precisi presupposti: ad esempio il 1° co. dell’art. 273 dispone che “nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza”.

Discente: Ma l’articolo da te ora citato non si riferisce a tutte le misure di sicurezza, se non sbaglio.

Docente: No, non sbagli: è vero, la disposizione da me ora citata si riferisce solo alle così dette “misure cautelari personali” (che sono le più gravi tra le misure); e non anche alle cosiddette “misure reali” (che non oltrepassano per gravità quella di un sequestro, quale può essere disposto anche da un giudice civile). Però è anche vero che per tutte le misure, personali o reali che siano (eccezion fatta forse per il sequestro preventivo previsto dall’art. 321), il legislatore richiede che i pericula, di cui si è parlato e che costituiscono il presupposto della loro applicazione, siano “concreti”, per usare le parole dell’art..274, o, per usare le parole dell’art. 316, “fondati”: certamente insomma le misure cautelari non sono per il legislatore provvedimenti da prendere alla leggera!

Discente: Tu hai or ora parlato di misure personali e di misure reali: vi sono dunque vari tipi di misure cautelari.

Docente: Si, le misure si distinguono in “personali” e “reali”. “Personali” sono quelle che vengono, o a restringere la libertà dell’indagato/ imputato - e allora prendono il nome di “misure coercitive” e ne sono esempio, la custodia cautelare in carcere, gli arresti domiciliari, il divieto di espatrio e tutte le alter misure disciplinate nel capo II del titolo I, artt. 280 segg. – oppure a interdire l’esercizio di diritti e potestà dell’indagato/imputato – e allora prendono il nome di “misure interdittive” e ne è esempio la “sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori” e tutte le altre misure disciplinate nel capo III del titolo I, artt. 287 segg.. “Reali” sono poi quelle misure che vengono a limitare il potere di disporre di una cosa, mobile o immobile: ne sono esempio il sequestro conservativo (contemplato dall’art. 316, a cui abbiamo già accennato) e il sequestro preventivo (contemplato dall’art. 321, articolo anche questo da noi già citato).

Discente: Però in nessuno dei due articoli da te per ultimi citati si prevede il sequestro del corpo del reato e delle altre cose pertinenti il reato - sequestro che

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pure sarebbe opportuno proprio per ovviare a uno dei pericula da te prima citati: il pericolo di inquinamento delle prove.

Docente: Questo è vero, ma non è già che il legislatore non preveda questo tipo di sequestro; al contrario lo prevede nell’art 253: semplicemente non vuole considerare questo tipo di sequestro, che porta il nome di sequestro probatorio, come una misura cautelare. Le ragioni di ciò non mi sono chiare.

Discente: Chi è competente ad adottare una misura cautelare? penso il P.M.

Docente: No, è il giudice (più specificatamente: il GIP o, se la fase delle indagini preliminari è già superata, il giudice che sta procedendo – v. art.279) Però è vero che per l’adozione di una misura, in un certo senso occorre la concorde volontà sia del Giudice sia del P.M.: infatti il giudice può adottare una misura solo se vi è una richiesta in tal senso da parte del P.M. (principio della domanda cautelare, v. art. 291).

Discente: Vuoi dire che il giudice è tenuto a prendere proprio quella “misura” richiesta dal p.m.?

Docente: Questo, no; voglio solo dire che il giudice non può prendere una misura cautelare se una misura cautelare non è richiesta dal p.m.; però senza dubbio il giudice, mentre non può prendere una “misura” più afflittiva di quella richiesta dal p.m., può prenderne una meno affittiva: se il p.m. richiede la custodia in carcere, il giudice, ad esempio, può disporre gli arresti domiciliari.

Discente: Ma prima che il p.m. faccia pervenire la sua istanza al giudice, prima che questi la esamini ed emetta la sua bella ordinanza di custodia cautelare…l’indagato già ha preso il volo.

Docente: Il legislatore tiene conto di ciò e quando: il reato ha una certa gravità, sono altresì “gravi” gli indizi che l’abbia commesso l’indagato, e, infine, vi è il “fondato pericolo” che questi si dia alla fuga, concede al p..m. il potere di “fermare” (idest, di privare della libertà) l’indagato, senza necessità di ottenere un’ordinanza in tal senso dal giudice (art.384).

Discente: Ma anche così, mi pare che la procedura venga ad essere troppo macchinosa: prima che la polizia comunichi la notizia criminis al p.m., prima che questi ne prenda conoscenza, ci pensi un po’, organizzi le sue idee ecc. …..l’indagato è bello che scappato.

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Docente: Il legislatore tiene conto anche di ciò e dà alla polizia il potere di operare il “fermo” (c.d. “fermo di polizia), direttamente, senza mandato del p.m., quando, sussistendo tutti i requisiti di cui ho prima detto (gravità del reato, gravi indizi di colpevolezza, fondato pericolo di fuga) il p. m. “non ha assunto (ancora) la “direzione delle indagini”.

Discente: Ma quand’è che la polizia potrà ritenere che il p.m. “ha assunto la direzione delle indagini”? quando ha fatto pervenire alla procura della Repubblica la notitia criminis?

Docente: No, perché il p.m., pur avendo ricevuta la notitia criminis, può non aver avuto tempo di studiare la nuova pratica: la polizia riterrà che il p.m. ha assunto la direzione delle indagini, solo quando il p.m. le avrà fatto pervenire al proposito delle istruzioni.

Discente: Quindi, per concludere sul punto, mi pare di poter dire che hanno il potere di privare della libertà una persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per un grave reato, sia il giudice che il p.m. e la polizia giudiziaria; ma questi due ultimi solo quando vi è un suo fondato pericolo di fuga.

Docente: Puoi dirlo, ma dicendolo commetti una piccola inesattezza; in quanto ti dimentichi che la polizia – oltre alla facoltà di fermo (prevista dall’art.384) ha quella di arresto in flagranza (prevista dall’art. 380 e segg.) e che essa può esercitare questa facoltà (di arresto) anche quando non vi è un pericolo di fuga. Metti, Caio ha dato un pugno all’ufficiale che si era recato in casa sua per arrestare il suo figliolo tossicodipendente: forse che c’è un fondato pericolo che Caio si sottragga con la fuga a un processo che lo vedrà condannato solo a pochi mesi di reclusione (coperti dall’immancabile “sospensione condizionale della pena”)? Certamente, no; eppure egli può essere legittimamente arrestato.

Discente: Ha, si?! perché la polizia possa procedere all’arresto basta la flagranza?

Docente: Questo, no: il co. 4 art. 381, per ritenere giustificato l’arresto (ma quanto ti sto dicendo vale solo in caso di arresto facoltativo e non di arresto obbligatorio, cioè vale solo nei casi previsti dall’art. 381 e non in quelli previsti dall’art. 380) richiede, non solo la flagranza, ma anche la “gravità del fatto” e la “pericolosità del soggetto”; però non richiede specificatamente né il pericolo di fuga né gli altri requisiti (pericolo di inquinamento delle prove, pericolo che l’indagato commetta altri reati di un certo tipo) che invece richiede l’art. 274: per cui può effettivamente

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verificarsi che legittimamente un agente o ufficiale di polizia arresti una persona che non potrebbe essere raggiunta né da un fermo né da una misura cautelare.

Discente: Non mi pare molto giusto.

Docente: Potrebbe anche non essere giusto; ma è certamente opportuno. E questo per almeno due motivi: I - per il motivo che di fronte a una patente violazione della legge, lo Stato, se non reagisse prontamente, perderebbe di prestigio; II- per il motivo ché all’agente o all’ufficiale di polizia, coinvolto in una vicenda che ha fatto schizzare la sua adrenalina al massimo, devi pur dare uno sfogo …lo sfogo appunto di fare scattare le manette.Discente: A proposito dell’arresto: si era parlato nella precedente lezione di quattro ragazzi arrestati dalla polizia per detenzione di droga: vogliamo proseguire nel discorso, vedere che succede dopo il loro arresto?

Docente: La prima cosa che succede è che la polizia adempie agli incombenti di cui la grava l’art. 387. Due di essi sono di particolare importanza, dato che vanno svolti entro il breve termine perentorio di 24 ore: la trasmissione al p.m. del verbale di arresto; e la “messa a disposizione” del p.m., dell’arrestato.

Discente: Ma perché la polizia dovrebbe “mettere a disposizione “del p.m. l’arrestato? forse che il p.m. ha bisogno del placet della polizia per disporre di questi? forse che non lo può interrogare dove e quando gli piaccia?

Docente: Tu hai ragione, e in realtà l’espressione usata dal legislatore non corrisponde alla sua effettiva volontà: quel che il legislatore vuole in realtà è che la polizia – non già “metta a disposizione” del p.m.ecc – ma che essa si spogli della disposizione dell’arrestato. E questo perché il restare, l’arrestato, in un luogo in cui chi l’ha tratto in arresto (e forse ha ancora cariche di aggressività da smaltire) può disporre liberamente, lo espone al pericolo di abusi: insomma il legislatore pensa che l’arrestato sia più sicuro e sereno in una casa circondariale o mandamentale o in altro luogo scelto dal p.m., che nella caserma dei carabinieri o della polizia (v. commi 4 e 5 dell’art. 386).

Discente: Dunque la Polizia mette i ragazzi “a disposizione” del p.m.. E lo stesso, penso, farebbe se i ragazzi non fossero stati arrestati ma “fermati”.

Docente: Certo, tutto quel che verremo a dire vale sia per l’arresto che per il fermo. Mutatis mutandis, naturalmente.

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Discente: Che fa il p.m. una volta che viene informato dell’arresto?

Docente: Opera un primo controllo sulla legittimità dell’arresto.

Discente: Verifica cioè se effettivamente l’arresto fu compiuto nella flagranza del reato e, naturalmente, per uno di quei reati per cui l’arresto è obbligatorio o consentito.

Docente: Certo controlla questo (e a dir il vero altri elementi che farai bene a leggerti nell’art. 389), ma soprattutto controlla, in caso di arresto facoltativo, se la privazione della libertà sia “giustificata dalla gravità del fatto ovvero dalla pericolosità del soggetto” (vedi co. 4 art. 381) e, comunque, e questo sia in caso di arresto facoltativo che obbligatorio, se sussistano i pericula in libertate e tutti gli altri elementi che abbiamo visto giustificare l’adozione di misure cautelari: infatti, come vedremo, la privazione della libertà dell’indagato deve trasformarsi in una misura cautelare coercitiva o deve cessare: quindi, se in prospettiva il p.m. ritiene di non poter chiedere una misura cautelare (e qui, interpretando restrittivamente l’art. 121 disp. att., direi, “ritiene di non poter chiedere la misura cautelare della custodia in carcere”), non ha senso e non deve continuare a privare della sua libertà l’arrestato.

Discente: E se il controllo è negativo?

Docente: Lo libera

Discente: E tutto finisce lì.

Docente: Eh no, anche se il p.m. libera l’arrestato deve rimettere al giudice, come vedremo subito, la questione se l’arresto fu legittimamente effettuato o no.

Discente: A che scopo se ormai l’arrestato è stato liberato?

Docente: Però, tanto o poco, con le manette ai polsi (parlando per metafora) c’è stato e il co.2 dell’art. 314, come va letto dopo l’intervento della Corte Costituzionale, dà diritto - non solo a chi ha subita la misura cautelare della custodia in carcere - ma anche a chi è stato arrestato (prosciolto o condannato che poi sia stato, poco importa) di ottenere una “equa riparazione”, se il provvedimento privativo della sua libertà è stato preso fuori dalle condizioni volute dal legislatore.

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Discente: Allora poco importa che il p.m. abbia, o no, liberato l’arrestato: in ogni caso deve “passare la mano” al giudice.

Docente: In realtà importa e non poco distinguere il caso che il p.m. abbia restituita la libertà all’arrestato o no: infatti, nel secondo caso, egli dovrà chiedere la convalida dell’arresto (con tale richiesta infatti si attua quel “passaggio delle carte” di cui tu prima parlavi, in maniera inammissibilmente grossolana) entro 48 ore dal momento in cui l’arresto è stato effettuato dalla polizia (e non, bada, dal momento in cui la polizia ha informato, il p.m., dell’arresto !), nel primo caso, invece potrà richiedere la convalida…con suo comodo.

Discente: E se il p.m. non libera l’arrestato e neanche fa la sua richiesta di convalida entro le 24 ore?

Docente: L’arresto diventa inefficace (vedi co.3 dell’art. 390). Però questo non fu il caso di quei 4 ragazzi di cui prima parlavamo : infatti, nel caso, il P.M. chiese, nel più perfetto rispetto del termine impostogli, la convalida, e il GIP, con altrettanta tempestività, osservò il termine impostogli dalla legge (sempre a pena di inefficacia dell’arresto) ed “entro le 48 ore” (“successive al momento in cui l’arrestato…era stato messo a sua disposizione” – idest, successive al momento della richiesta del p.m.) iniziò la sua brava “udienza di convalida”, in cui, nel contraddittorio della difesa, decise sulla libertà dei ragazzi, purtroppo per loro negativamente.

Discente: Ai “ragazzi” andò male, ma almeno, prima di prendere la sua decisione, il giudice ascoltò anche la campana della difesa (e non solo quella della p.a.). Mentre nel caso essi, non fossero stati arrestati in flagrante, ma contro di essi fosse stata chiesta dal p. m. una misura cautelare, questa sarebbe stata presa dal giudice senza permettere al loro difensore di dire né ai né bai.

Docente: Per forza di cose: l’esecuzione di una misura cautelare deve avvenire “a sorpresa” (se no, l’indagato scappa!) e la sorpresa verrebbe meno se la decisione della misura avvenisse dopo l’interrogatorio dell’indagato. Questo però non fa difetto: infatti in caso di misure cautelari personali (quindi, non solo in caso di misure coercitive – quelle per cui è nato il tuo discorso - ma in genere per tutte le misure personali, coercitive o interdittive che siano) il legislatore impone (con l’art. 294) al giudice di procedere all’interrogatorio dell’indagato (cosidetto, interrogatorio di garanzia) alla presenza del suo difensore entro un termine perentorio (cioè da osservarsi a pena di inefficacia della misura adottata) – termine brevissimo, quando si tratta della misura della custodia in carcere, un po’ meno breve ma pur sempre breve,quando si tratta di altra misura personale (coercitiva o interdittiva).

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Discente: A questo punto sono veramente curioso di vedere gli atti in cui si è sostanziata l’attività del p.m. e del giudice. A cominciare dalla richiesta di convalida dell’arresto.

Docente: Poni sotto i tuoi occhi, prima il doc.AC1 e poi il doc.AC2 (che riproducono due pagine di uno stesso atto).Doc AC1. Il punto indicato dalla freccia 1, ti fa subito comprendere che l'atto contiene, non solo una richiesta di convalida di un arresto, ma anche una richiesta di misura cautelare. Dove si appunta la freccia 2 si indicano gli elementi che giustificano la convalida. Gli elementi invece che giustificano la richiesta di misure cautelari sono indicati dalle frecce 3,4, 5. Freccia 3 - Si appunta dove sono indicati i “gravi indizi” di colpevolezza pretesi dal co.1 art. 273 per la applicazione di una misura (non “reale”, ma) “personale”. Freccia 4 - Non basta che esistano gravi indizi di colpevolezza, per la applicazione di una misura, occorre anche che questa serva ad evitare uno dei pericula indicati dall’art. 274: così è nel caso (secondo il p.m. e…non gli si può dar torto). Passiamo al docAC2. Freccia 5 - In materia di misure cautelari vige il cosiddetto principio di gradualità: se più misure servono ad ovviare i pericula di cui all’art. 474, tu, giudice, devi adottare la meno affittiva. Nel caso, sostiene il p.m., se si vuole evitare il periculum in libertate di cui alla lett.c dell’art 274, non è possibile adottare che la più severa delle misure: la custodia in carcere.Freccia 6- Il nostro legislatore pone, su un piatto della bilancia, l’afflittività che comporta una misura cautelare e, sull’altro piatto, sia la gravità del reato di cui all’accusa sia le probabilità che l’accusa si dimostri fondata. E se la pesantezza della afflittività della misura non è controbilanciata dalla gravità del reato e dalle probabilità che per tale reato l’imputato venga condannato, non permette la misura: così detto principio di proporzionalità, che può comportare che nessuna misura venga applicata anche in casi in cui esiste il pericolo che l’indagato inquini le prove, fugga, commetta altri reati. Per la rilevanza che assume la gravità del reato (nello stabilire l’opportunità di permettere una data misura cautelare), vedi i commi 1 e 2 dell’art. 280 e l’art. 287. Per la rilevanza che assumono le probabilità che l’imputato venga condannato, vedi il comma 2ter dell’art 275. Per la considerazione, nel calcolo della afflittività di una misura, anche delle condizioni soggettive della persona a cui la misura dovrebbe applicarsi, vedi i comma 4 e segg. sempre dell’art. 275.

Discente: Va bene, ma che c’entra tutto questo col fatto che il p.m. nel punto indicato dalla freccia 6 sente il bisogno di affermare che “la possibilità di beneficiare

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della sospensione condizionale della pena è incompatibile con la prognosi di recidiva”?

Docente: C’entra perché nel co. 2bis (dell’art. 275) il legislatore stabilisce che “non può essere disposta la misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena”. E il legislatore stabilisce questo evidentemente perché ritiene che, se un reato è così “lieve” da permettere la concessione della sospensione della pena, non può anche non essere così “lieve” da non riuscire a controbilanciare la afflittività di una misura cautelare così grave come quella della custodia in carcere (mentre può benissimo essere compatibile con altre misure cautelari meno afflittive).

Discente: Chiarito ciò diamo un’occhiata al verbale dell’udienza di convalida.

Docente: Di questo verbale vedremo solo le pagine essenziali. Vai al doc. AD1 Sezione II): ti appare la prima pagina del verbale. Dove si appunta la freccia 1 viene indicata l’ora di inizio dell’udienza: è importante perché nelle 48 ore stabilite dal co. 7 art.391 l’udienza deve avere inizio.

Discente: Ma in realtà il co.7 dice che nelle 48 ore l’ordinanza deve essere pronunciata o depositata.

Docente: Sì, questa è la lettera della legge, ma l’interpretazione che ne dà la Corte di Cassazione è quella che ti ho detto ora. Va a sez.II doc.AD2: ti appare la seconda pagina del verbale: la freccia 1 si appunta dove il verbale dà atto che il p.m. non è comparso: e invero il co 3bis dell’art 390 lascia libero il p.m. di comparire o no (mentre invece la partecipazione del difensore è sempre necessaria – v. il 1 co. art. 391).

Discente: Ma se il p.m. non compare chi contesterà all’arrestato gli elementi di prova a suo carico?

Docente: Tieni presente che quando il p.m. decide di non comparire deve far pervenire al giudice, prima dell’udienza di convalida, non solo “le richieste in ordine alla libertà personale”, ma anche “gli elementi su cui le stesse si fondano”. E il difensore ha diritto di prendere visione di tali elementi; come si argomenta facilmente dal co.3 art. 293: se al difensore di chi è colpito da una misura cautelare è data la possibilità di visionare le richieste e i documenti presentati, ai sensi del co.1 art.291, al giudice (al fine di ottenere appunto la misura cautelare), eguale possibilità non può non essere concessa al difensore dell’arrestato rispetto alle

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richieste e ai documenti trasmessi (al fine di ottenere la convalida dell’arresto e una misura cautelare) dal p.m. al giudice ai sensi dell’art.390 co.3bis. A prescindere da ciò il giudice, se il p.m. non compare, dovrebbe leggere o ostendere al difensore le richieste e i documenti trasmessi dal p.m.. Così come…non fa il giudice nel caso in esame: clicca (va a doc AD3) e segui la freccia 1: nel caso in esame il giudice si limita a “contestare gli elementi di prova a carico (dell’arrestato)come desumibili” (melius, come da lui desunti!) “dal verbale di arresto e dagli eventuali ulteriori atti trasmessi dal p.m.”: ma chi mi dice che il giudice non sia stato capace di desumere da questi atti elementi favorevoli all’arrestato, che l’occhio più attento del suo difensore sarebbe riuscito a cogliere?

Discente: Giusto, già il p.m. non mostra al giudice tutte le carte che ha in mano ma solo quelle che gli comoda mostrare, se poi anche tali carte vengono “oscurate” (agli occhi del difensore), dove vanno a finire le garanzie difensive?!

Docente: Facciamo un passo indietro, torna di nuovo al doc.AD2. Le frecce 2 e 3 si appuntano dove sono effettuati gli adempimenti voluti dal co.3 art.64 e dall’art. 65.Ora rifacciamo un passo avanti: va al doc. AD3: la freccia 2 ti indica dove incomincia l’interrogatorio vero e proprio. Saltiamolo a piè pari, dato che non ci direbbe nulla di interessante. Va a AD4: in questo doc. puoi leggere la verbalizzazione di quel che è avvenuto, a interrogatori degli indagati esauriti. Sono le 11,20 e il giudice ammette alla sua presenza i due difensori degli imputati: il dif. di Ib c’è già perché ha partecipato all’interrogatorio di questa, il difensore degli altri tre (che naturalmente non era stato presente all’interrogatorio di Ib) viene fatto entrare. Occhio alla freccia 1: il giudice “dà lettura delle richieste presentate per iscritto dal p.m.” (ma non di tutta la documentazione dal p.m. presentata! – e del resto tale lettura risulterebbe oramai tardiva). Gli avvocati presentano le loro richieste – richieste che sono “remissive” per quel che riguarda la convalida, mentre sono di opposizione per quel che riguarda le misure cautelari. E in ciò non vi è nessuna contraddizione, dato che il giudice potrebbe benissimo convalidare un arresto e rigettare le domande di misure cautelari; il che sarebbe come dire: “I carabinieri hanno agito legittimamente nell’operare l’arresto (c’era la flagranza ecc.ecc.), però mancano i presupposti voluti dagli articoli 273 e segg.”.Voltiamo pagina, andiamo a doc.AD5. Freccia 1: dopo aver sentiti i difensori, il giudice si é ritirato in camera di consiglio per scrivere la sua ordinanza. Scrittala, ritorna alla presenza dei difensori e degli arrestati e la legge: malauguratamente per i quattro arrestati, nell’ordinanza, non solo convalida l’arresto, ma a tutti quattro applica la misura della custodia in carcere. Voltiamo ancora pagina e andiamo a doc. AD6: la freccia 1 si appunta là dove l’ausiliario del GIP adempie agli incombenti di cui all’art. 293: sarebbe stato meglio

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per la difesa poter leggere la documentazione prodotta dal p.m. prima che il GIP facesse l’interrogatorio; ma anche poterla leggere dopo, è per lei un gran vantaggio: le permetterà di costruire una eventuale (ma probabile!) istanza di revoca o di modifica della misura o una futura (e altrettanto probabile !) impugnazione di questa senza cadere in affermazioni che le carte processuali inesorabilmente smentiscano.

Discente: Tu parli di revoca della misura cautelare: revoca da parte dello stesso giudice che l’ha emessa?

Docente: Diciamo meglio, revoca da parte del giudice che al momento gestisce il processo: GIP, GUP, tribunale ecc. secondo la fase in cui il procedimento è giunto. E certamente può accadere che a revocare una misura cautelare sia lo stesso giudice che l’ha emessa. E questo è proprio il caso di cui all’ordinanza che, se vai al doc. AE1, puoi vedere. La freccia 1 ti indica il contenuto dell’ordinanza: “Ordinanza di sostituzione ecc.ecc.”. Se poi vai al doc. AE2 e guardi dove si appunta la freccia 1, trovi l’articolo del codice che è alla fonte del potere (di sostituzione della misura) del giudice: è l’articolo 299, che recita nei suoi due primi commi: “Le misure coercitive e interdittive sono immediatamente revocate quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 o dalle disposizioni relative alle singole misure ovvero le esigenze cautelari previste dall’art. 274. – Salvo quando previsto dall’art. 275, comma 3, quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura non appare più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, il giudice sostituisce la misura con un’altra meno grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità meno gravose”. Se tu poi fai un passo indietro, torni al doc. AE1 e guardi dove si appunta la freccia 2, vedi indicato l’elemento che ha fatto cambiare idea al giudice (“Prima era necessaria la misura della custodia in carcere ora, no: bastano gli arresti domiciliari”).

Discente: Ma è il semplice passare del tempo! niente è avvenuto realmente dopo l’esecuzione della misura che faccia pensare che l’indagato in libertate venga oggi a costituire un minor pericolo che ieri alle esigenze (cautelari) di cui all’art. 274!

Docente: E’così; il semplice trascorre del tempo non potrebbe (o almeno rarissimamente potrebbe) giustificare la revoca della custodia in carcere, se essa fosse veramente solo una misura finalizzata a soddisfare le esigenze cautelari di cui all’art. 274; la può giustificare solo se la custodia è vista come un anticipo pena: in questo secondo caso allora, sì, che si può ragionare: “Il Ri è stato in carcere due mesi? forse questo come lezione gli può bastare!”.Peraltro va fatto notare che nulla

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vieta a un giudice di revocare o modificare una precedente ordinanza cautelare sulla base di una semplice rilettura e rivisitazione dei fatti – come si può (secondo noi, altri la pensa diversamente) argomentare dall’inciso “anche per fatti sopravvenuti” contenuto nel primo comma or ora citato.

Discente: Ma a ritenere che una misura cautelare possa essere revocata o modificata anche quando nessun fatto nuovo è intervenuto (a rendere meno negativo per l’indagato il quadro probatorio, a rendere meno concreti i pericula di cui all’art. 274…) non c’è il rischio di aprire un troppo largo varco a un petulante e defatigante (per il magistrato) reiterarsi di istanze (tutte eguali) della difesa?

Docente: Senza dubbio questo rischio c’è; e, appunto per costruire un argine contro di esso, si ritiene ben motivata l’ordinanza che rigetta un “istanza-petulante” semplicemente per il motivo che non aggiunge elementi nuovi a una istanza de libertate precedentemente proposta. Questo usbergo, chiamiamolo così, contro la petulanza di certi difensori, che porta il nome di “giudicato cautelare”, di solito lo si giustifica con un’ardita interpretazione estensiva dell’art. 649; noi preferiamo giustificarlo con una intelligente interpretazione degli artt. 121 co.3, 606 lett.e (che escluda il difetto di motivazione quando il giudice sollecitato da un’istanza ripetitiva…ripete la motivazione resa in precedente ordinanza o semplicemente la richiama – interpretazione questa che non verrebbe a legare le mani al giudice come invece finisce per legarle l’ancoraggio del giudicato cautelare all’art 649). Val la pena di dire che comunque il “giudicato cautelare” secondo l’opinione prevalente, scatta solo se l’istanza de libertate è stata rigettata dal Tribunale del riesame o dalla Corte di Cassazione: insomma, se io chiedo la revoca della misura al GIP; e questi rigetta la mia istanza; e io imperterrito chiedo il riesame dell’ordinanza del GIP al tribunale della libertà e questo rigetta la mia istanza; ebbene solo allora scatta il giudicato cautelare (per cui se io torno a bussare alla porta del GIP egli…può sbattermi la porta in faccia); mentre se io dopo aver avuto un primo “no” dal GIP torno di nuovo alla carica da lui (senza prima essermi esposto al “no” del tribunale della libertà) il giudicato cautelare non scatta.(idest, l’analogia con l’art 649 non scatta; però, se si accetta la nostra interpretazione, il GIP anche in questo caso può sempre, se lo crede opportuno, motivare il rigetto nel modo sbrigativo prima da noi fatto presente).

Discente: Tu hai parlato del tribunale della libertà: chi è costui?

Docente: E’ l’organo giudiziario, costituito presso ogni sede di Corte di Appello (vedi melius, il co.7 art.309) a cui compete di decidere sulle richieste di riesame e sugli appelli proposti contro le ordinanze de libertate pronunciate da un qualsiasi

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ufficio giudiziario ricompreso nel distretto della Corte. Ad esempio, in Toscana il tribunale ha sede a Firenze e ad esso può rivolgersi sia chi “reclama” contro un’ordinanza del giudice di Arezzo, sia chi “reclama” contro un’ordinanza del giudice di Siena o di Pisa. Questo assicura alle decisioni de libertate una certa uniformità impedendo assurde disparità di trattamento: il GIP di Pisa è severo e Caio che ha la sfortuna di averlo come giudice…se ne sta in carcere; il GIP di Siena è “buono” e Sempronio che ha la fortuna di essere da lui giudicato….se ne esce libero e felice. Facendo sì che tutte le decisioni de libertate della Toscana (per seguire l’esempio introdotto) alla fine vengano sottoposte all’esame di un unico giudice, il tribunale sedente a Firenze, si evita, almeno a livello regionale, una tale assurdità.Discente: Tu parli, di richiesta di riesame, di appello al tribunale, e va bene; ma io vorrei sapere: in generale a chi può rivolgersi la parte che, a torto o a ragione, ritiene errata un’ordinanza de libertate.

Docente: Se l’ordinanza è una convalida di arresto (art. 391) può rivolgersi alla Corte di Cassazione (art 568 co.2), e solo alla Corte di Cassazione e nei limiti in cui il ricorso a questa è permesso dall’art. 606 (cioè potendo lamentare solo: il difetto di flagranza, il fatto che il reato non rientra in quelli per cui l’arresto in flagranza è consentito, la mancata osservanza di uno dei termini di cui gli artt. 386 e segg. gravano la procedura di convalida…).Se invece l’ordinanza riguarda la materia delle misure cautelari, allora gli organi a cui può rivolgersi sono sia la Corte di Cassazione sia il tribunale della libertà.

Discente: Può rivolgersi indifferentemente all’uno o all’altro organo?

Docente: No; e qui la cosa si fa complicata. Per semplificarne l’esposizione facciamo prima il caso che il GIP applichi al tuo assistito una misura coercitiva : in questo caso tu puoi percorre due strade: prima strada, proporre (ai sensi dell’art.309) una “richiesta di riesame” al tribunale (che provvederà, appunto, a “riesaminare” la posizione del tuo assistito cioè a controllare con quella stessa ampiezza di poteri che aveva il GIP, l’esistenza o meno dei “gravi indizi”, delle “esigenze cautelari” ecc. – e questo, bada, senza essere vincolato dai motivi con cui tu hai confortato la tua istanza; addirittura, anche se non avessi messo nessun “motivo”, il tribunale procederebbe al riesame); seconda strada: proporre ricorso alla Corte Suprema di Cassazione (la quale, però, si limiterà solo ad esaminare la fondatezza dei tuoi “motivi” – motivi, con cui, bada, potrai per il 2° co. art. 311, lamentare solo una “violazione di legge”: ad esempio potrai lamentare che la custodia in carcere è stata applicata ancorché si tratti di reato punibile nel massimo

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solo con un anno, ma non potrai lamentare, il difetto di motivazione dell’ordinanza del GIP, o che questa fu emessa in difetto di gravi indizi ecc.).

Discente: Ma io posso ricorrere alla cassazione senza prima aver adito il tribunale di riesame?

Docente: Chiaro che, sì: non ti ho detto che tu puoi adire alternativamente o il tribunale o la corte: più chiaro di così! E che il legislatore ti dia la possibilità di adire subito, “per saltum”, la Cassazione non ti deve meravigliare: infatti egli ritiene che l’ordinanza che applica (non una misura reale, non una misura interdittiva, ma) una misura coercitiva, sia di tale gravità da giustificare sia una particolare celerità da imprimere alla procedura davanti al tribunale della libertà (quando giudica su una richiesta di riesame - mentre ritiene tollerabile una procedura più lenta quando il tribunale giudica, non su una richiesta di riesame, ma su un appello), sia una particolare ampiezza di poteri del tribunale di riesame, sia, infine la possibilità di adire per saltum la Corte di Cassazione.Tutto questo, però, ribadisco solo se l’ordinanza è applicativa di una misura coercitiva.

Discente: E se invece l’ordinanza applica una misura reale o interdittiva, oppure rigetta un’istanza del p.m. volta ad ottenere l’applicazione di una misura, oppure modifica una precedente ordinanza de libertate?

Docente: In questi casi il legislatore ritiene le conseguenze di un eventuale errore del giudice meno gravi (anche se, bada, l’ordinanza che modifica una precedente misura, potrebbe rivelarsi in concreto di una gravità superiore a quella di un’ordinanza che applica per la prima volta, ex nihilo come si dice nella pratica, una misura coercitiva – pensa a una modifica della misura del divieto di espatrio in custodia in carcere – ma qui entra in gioco l’esigenza del legislatore di definire in maniera sicura i confini tra i casi in cui ammettere la richiesta di riesame e i casi in cui non ammetterla); e, proseguendo il discorso, poiché ritiene le conseguenze di un errore meno gravi, il legislatore dà alla parte che tale errore lamenta (parte che può essere sia l’imputato che il p.m. – mentre nel caso di richiesta di riesame da noi prima esaminato, poteva essere solo l’imputato e ovviamente il suo difensore) solo la possibilità di impugnare con appello l’ordinanza al tribunale della libertà (v. art. 310).

Discente: Ma anche nel caso dell’ordinanza applicativa di una misura coercitiva si faceva appello al tribunale della libertà.

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Docente: Nella sostanza è così; in tutti e due i casi (il caso dell’impugnazione di una ordinanza applicativa di una misura coercitiva e quello dell’impugnazione di un’ordinanza non applicativa di una misura coercitiva) ci troviamo in buona sostanza di fronte ad un appello; ma il giudice che presiede al primo “appello” è dotato di poteri così ampli che il legislatore ha preferito parlare, per la procedura davanti a lui, di procedura di riesame e non di appello. Ma non complichiamoci la vita con dei formalismi; diciamo pure che, anche in caso del cosiddetto “riesame” di un’ordinanza applicativa di una misura coercitiva, ci troviamo di fronte a un “appello”, ma a un “appello” caratterizzato da poteri così ampi nel giudice, che il legislatore al suo proposito ha preferito parlare di “giudizio di riesame”.

Discente: Dì, allora, quali sono i poteri del tribunale della libertà quando decide come “giudice d’appello” e non “del riesame”.

Docente: Sono poteri limitati dai motivi proposti nell’atto di impugnazione; quindi si torna ad applicare in tutto il suo rigore il principio tantum devolutum quantum appellatum. Ciò a sua volta comporta che quando tu “appelli” contro un’ordinanza, perché metti ti è stata rifiutata la modifica in melius di una misura cautelare, devi ben stare attento a mettere i “motivi” nel tuo atto (di appello). Se no questo ti viene dichiarato inammissibile.

Discente: Ma posso io ricorrere in Cassazione contro un’ordinanza del tribunale della libertà?

Docente: Certo; se il tribunale emette un’ordinanza alla parte contraria, questa – sia che abbia adito il tribunale con una richiesta di riesame sia che l’abbia adito con un appello – può ricorrere in cassazione. Naturalmente solo per i motivi di cui all’art. 606 (violazione di legge, mancanza di motivazione ecc.ecc.). Quindi, per riassumere sul punto: se l’ordinanza è applicativa di una misura coercitiva, l’imputato e il suo difensore (non il p.m.!) possono alternativamente chiedere o il riesame al tribunale della libertà o ricorrere per saltum in cassazione (ma solo per il motivo di violazione di legge, non per gli altri motivi indicati nell’art. 606). Se optano per la richiesta di riesame, contro l’ordinanza del tribunale possono ancora ricorrere in cassazione (e questa volta per tutti i motivi indicati nell’art. 606). Se l’ordinanza non è applicativa di una misura coercitiva, le parti (imputato, difensore, p.m.) possono, prima, appellare al tribunale della libertà e, poi, ricorrere in cassazione (per tutti i motivi di cui all’art. 606) contro l’ordinanza del tribunale del riesame.

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Discente: Mi pare di aver finalmente le idee chiare. Sarei curioso di vedere a questo punto un’ordinanza del tribunale della liberta.

Docente: Vai ai doc. AF1 e AF2 e la vedrai.

Lezione 21 - Le scelte del P.M. al termine delle sue indagini

Docente: Il P.M., giunto alla fine delle sue indagini – indagini che si è fatto solo soletto, salvo qualche sporadico intervento del G.I.P. (Giudice delle indagini preliminari) – deve tirare le somme: vedere se gli elementi da lui raccolti, per usare le parole dell'art. 125 disp. att., “sono idonei a sostenere l'accusa in giudizio” o se comunque il fatto (addebitato), per la sua particolare tenuità, non merita di essere penalmente sanzionato.

Discente: E se gli elementi raccolti non sono idonei a sostenere l'accusa e comunque il fatto é di particolare tenuità?

Docente: In entrambi i casi chiede al GIP (giudice delle indagini preliminari) l'archiviazione (vedi gli artt, 408 e 411).

Discente: Mettiamoci nell'ipotesi, che mi pare più interessante, quella che il P.M. chieda l'archiviazione, perché si accorge che gli elementi (in suo possesso) non sono idonei a sostenere l'accusa e il GIP gliela conceda: quali effetti produce l'archiviazione così concessa?

Docente: L’archiviazione è un provvedimento a double face: da una parte, ha l’effetto di sollevare il P.M., non solo dall’obbligo di esercitare l’azione penale, ma anche di compiere ulteriori atti di indagine (tu, P.M., non sei più obbligato a procedere a interrogatori, ispezioni ecc. al fine di verificare la fondatezza dell’accusa), dall’altra, ha l’effetto di gravare il P.M. dell’obbligo di non compiere atti di indagine (nel senso che preciserò in seguito).

Discente: Ma perché imporre al P.M. di rivolgersi al GIP per ottenere l’archiviazione della “notizia”? perché non dargli il potere di archiviarla egli stesso?

Docente: Perché è opportuno che qualcuno (il GIP) controlli che l’archiviazione non venga disposta per incompetenza, negligenza o, addirittura, malizia del P.M. (a me, P.M., l’imputato è simpatico e….archivio). In tale ordine di idee poi diventa naturale che si conceda al GIP (art.409 commi 4 e 5), non solo il potere di rifiutare

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l’archiviazione, ma altresì il potere, se ritiene sufficienti le prove già raccolte, di imporre al P.M. di esercitare l’azione penale (scegliendo uno di quei tanti mezzi che poi vedremo: richiesta di rinvio, richiesta di decreto penale ecc.), se invece non le ritiene sufficienti, di imporre al P.M. di compiere (non genericamente delle ulteriori indagini: in tal caso potrebbe accadere che il P.M. non sapendo che altre indagini compiere rimanga…a braccia conserte determinando un impasse del processo!) ma quei determinati atti di indagine, che egli, il GIP, ha l’obbligo di indicare. Val la pena di dire che riguardo al primo caso – imposizione al P.M. dell’obbligo di esercitare l’azione penale - si parla di “imputazione coatta”.

Discente: Ma il provvedimento di archiviazione può essere revocato o è irrevocabile (come le sentenze contro cui non è ammessa impugnazione ordinaria – v. melius art. 648) -?

Docente: E’ revocabile, ma solo con ben precisi limiti. Limiti che sono posti a garanzia dell’indagato: questi, sottoposto allo stress del processo, a un certo punto deve essere rassicurato: “Paga il tuo difensore e torna tranquillo ai tuoi traffici: salvi casi eccezionali, il processo non continuerà più”.

Discente: Ma quand’è che, sia pure eccezionalmente, il decreto può essere revocato?

Docente: Te lo dice chiaramente l’art. 414: il decreto può essere revocato quando sorge “l’esigenza di nuove investigazioni”.

Discente: A me tanto chiaro l’art. 444 non sembra: se come tu dici, l’avvenuta archiviazione, impedisce al P.M. di svolgere ulteriori indagini, come può egli acquisire quel quid novi che gli rivela l’esigenza di “nuove indagini”? certo si può pensare che questo quid novi gli sia conferito su iniziativa di terzi (un testimone che prima si è occultato e che ora si fa vivo bussando alla sua porta), ma questi sono casi eccezionalissimi di cui chiaramente non si può far conto.

Docente: Tu hai ragione e la formula legislativa non è tra le più felici: in realtà, con la revoca del decreto, non si rida al P.M. il potere di compiere investigazioni: questo potere in realtà lui non lo ha mai perduto: gli si ridanno i poteri coercitivi necessari per costringere i terzi a collaborare alle sue investigazioni: prima il P.M. poteva sentire un teste solo se questi consentiva a venire nel suo Ufficio, dopo la revoca del decreto, può costringerlo a venire nel suo ufficio.

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Discente: Anche in caso di procedimento contro ignoti il P.M. deve chiedere il provvedimento di archiviazione?

Docente: Si, e con la particolarità che egli deve richiedere l’archiviazione, non solo quando è risultata infondata la notitia criminis (Caio ha denunciato di aver subito una rapina ed è invece risultato che tale rapina esiste solo ….nella sua fantasia), ma anche “quando è ignoto l’autore del reato” (art. 415). Naturalmente, siccome nel procedimento contro ignoti non c’è nessun indagato (stressato dal procedimento e quindi da tranquillizzare che questo non continuerà salvo casi eccezionalissimi ecc.ecc.), il decreto di archiviazione potrà essere revocato senza limiti.

Discente: A questo punto dopo averne tanto parlato, posso vedere una richiesta di archiviazione?

Docente: Certo, la puoi vedere andando alla sez.II: doc. V1 e V2. Poni attenzione alle frecce 1 e 2 che si trovano in V2: la freccia 1 ti rimanda al disposto del c.2 dell’art. 408; la freccia 2, ti rimanda al disposto dell’art. 410.

Discente: Bene, da questi due articoli mi risulta che la parte offesa può fare opposizione alla richiesta del P.M.; ma il Procuratore Generale - che nel sistema nel Codice svolge un po’ una funzione di controllo sull’operato della Procura della Repubblica – non può opporsi alla richiesta di questa? mi sembra strano. Docente: E infatti sarebbe ben strano che la Procura Generale, che (come vedremo studiando l’art. 570) pur nell’inerzia della procura della Repubblica può esercitare l’azione penale impugnando una sentenza (che di tale esercizio ha negato il fondamento), non possa, solo perché vi è un contrario avviso della procura della Repubblica, esercitare l’azione penale quando nessuna sentenza sul fondamento di tale esercizio si è ancora pronunciata. E in effetti tale “stranezza”nel Codice non c’è, in quanto Questo, se non concede al Procuratore Generale di opporsi, gli concede però di avocare le indagini preliminari (eo ipso acquisendo il potere di presentare al G.I.P. richieste difformi da quelle del P.M. che l’ha preceduto), se non sempre, almeno nel caso il GIP non accolga de plano la richiesta di archiviazione, ma fissi udienza per sentire le parti (segno evidente, questo, che non tutto liquet, per cui effettivamente un controllo del Procuratore Generale potrebbe essere opportuno).

Discente: Ma il Procuratore Generale viene avvisato della richiesta di archiviazione?

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Docente: No; viene avvisato solo nei casi in cui potrebbe avocare le indagini, cioè, come ti ho accennato, quando il GIP - ritenendo di dover approfondire la fondatezza della “richiesta”, nel contraddittorio delle parti - fissa ad hoc un’udienza (v. c.3 art. 409).

Discente: Abbiamo visto cosa deve fare il p.m. nel caso gli risulti infondata la notizia di reato; ma che deve fare se, invece, gli risulta fondata?

Docente: Deve prendere la decisione su quale strada (può o deve) imboccare per giungere ad una sentenza di condanna. E infatti il codice (v. co.1 art. 405), a tal fine, gli apre davanti, non una, ma ben sei strade.

Discente: Dio mio, che complicazione!

Docente: Non poi tanta, come vedremo studiandole separatamente. Per ora puoi limitarti a ricordare che: in due di tali percorsi, quello della richiesta di rinvio a giudizio (art.416) e quello della richiesta del giudizio immediato (art 453) il p.m. giunge all’udienza dibattimentale dopo un controllo del giudice, che gli può dare lo stop (controllo che, nel caso dell’art. 416, vien fatto nel contraddittorio delle parti e in un’udienza ad hoc, la c.d. “udienza preliminare, nel caso dell’art. 453, vien fatto, in ragione dell’evidenza della prova, de plano). In altri due di tali percorsi – quello della citazione diretta (art 550) e del “giudizio direttissimo” (art. 449) il p. m. giunge all’udienza dibattimentale senza nessun previo controllo del giudice (nel primo caso, in considerazione della non particolare gravità dei reati contestati, nel secondo caso, in ragione dell’evidenza della prova); negli ultimi due casi, - quello della “richiesta del decreto penale (art.459) e quello della “richiesta della pena” (art.444) - il p.m. giunge direttamente, non all’udienza dibattimentale, ma addirittura a una decisione di condanna (nel caso dell’art. 459, in considerazione della parvità della pena richiesta, nel caso dell’art. 444, in considerazione del consenso dell’imputato).Questo in via di estrema sintesi e con qualche inevitabile inesattezza che a tempo debito correggeremo; e, quindi, solo come facilitazione alla tua memoria. Quel che tu devi ora tenere presente è che il p.m., se non chiede l’archiviazione, deve esercitare (nei tempi brevi stabiliti dagli articoli 405, 406, 407) l’azione penale.

Discente: Ma il p.m. prende la decisione di archiviare o di esercitare l’azione penale, di esercitarla seguendo questa o quella strada, senza dar modo al diretto interessato, all’indagato voglio dire, di proporre le sue difese?

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Docente: Bisogna distinguere. Le decisioni di chiedere al giudice il rinvio a giudizio (art. 416) o di procedere alla citazione diretta (art. 550) possono essere prese dal p.m. solo se ha dato modo all’indagato di far valere le sue difese.

Discente: Vuoi dire che il p.m. può prendere tali decisioni solo dopo aver interrogato l’indagato?

Docente: No, questo non garantirebbe in pieno il diritto di difesa. E’ vero che il p.m. quando procede a un interrogatorio dell’indagato deve contestargli il fatto che gli è attribuito, indicargli gli elementi di prova (ma non necessariamente le fonti!) che contro di lui depongono (così come abbiamo visto studiando l’art. 65 che l’interrogatorio disciplina); ma è anche vero che l’indagato, così su due piedi non è in grado di esporre ordinatamente ed efficacemente le sue difese e tanto meno di portare le prove che le confortano. Per far questo egli - e il suo difensore! – debbono potersi leggere con calma le accuse e con calma debbono poter esporre oralmente e per iscritto le loro difese. Ed è proprio questo che il legislatore intende loro concedere con l’art. 415bis, che tu avrai la pazienza di leggerti.

Discente: Tutto questo per quel che riguarda la decisione di chiedere il rinvio a giudizio o di citare direttamente l’imputato. Ma per quel che riguarda la decisione di archiviare o di chiedere il giudizio immediato o insomma di percorrere una delle altre strade che, come tu prima hai detto, al p.m. si aprono per l’esercizio dell’azione penale?

Docente: Per quel che riguarda la richiesta di archiviazione, risulta espressamente dall’art. 415bis che essa può essere fatta dal p.m. ignorando completamente l’indagato. E ciò a me pare giusto.

Discente: A me non tanto: il decreto di archiviazione non impedisce che l’azione penale sia di nuovo (sia pure eccezionalmente) esercitata e pertanto la difesa potrebbe avere interesse a un rinvio a giudizio che, finendo con una sentenza di proscioglimento, la salvaguarderebbe totalmente (art.648) da un ritorno di fuoco dell’azione penale.

Docente: Vuol dire che tu sei più garantista di me e del legislatore. Veniamo alle decisioni diverse, dall’archiviazione, dalla richiesta di rinvio a giudizio e dall’emissione di un decreto di citazione diretta….

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Discente: Dalla lettera dell’art. 415bis sembrerebbe doversi dedurre che tali decisioni possono essere prese dal p.m. solo dopo che si è dato modo alla difesa di esporre con calma e a ragion veduta le sue difese, come da te prima detto.

Docente: E invece ragioni di carattere sistematico impongono di derogare anche per tali decisioni al disposto dell’art. 415bis e di ritenere che il p.m. possa richiedere il giudizio immediato, il decreto penale, procedere ad una direttissima (…) senza dar modo all’indagato di consultarsi con calma la documentazione ecc.ecc.

Discente: E in che consistono tali “ragioni di carattere sistematico”?

Docente: Consistono nel fatto che, imporre al processo quella battuta d’arresto che comporta la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, il deposito della documentazione ecc.ecc. (come disposto dall’art. 415bis), significa frustrare quelle esigenze di speditezza che invece il legislatore con tutta evidenza persegue aprendo al p.m. le strade del giudizio direttissimo, del decreto penale, del giudizio immediato.Del resto è pur vero che al giudizio direttissimo (per l’art.449 commi 4 e 5) e al giudizio immediato (per l’art.453 c.1) si può procedere solo previo interrogatorio dell’indagato.Quindi anche in tali casi non si può dire che i diritti della difesa siano conculcati.

Discente: Ma tu stesso poco fa hai detto che un interrogatorio non dà alla difesa quelle garanzie che invece le dà l’art.415bis (specie se l’interrogatorio, intervenendo quando le indagini non sono concluse, permette all’indagato di replicare solo agli elementi d’accusa fino al momento raccolti – mentre invece l’imputato avrebbe diritto di poter controbattere a tutti gli elementi d’accusa e non solo a quelli già raccolti al momento del suo interrogatorio). E a parte ciò il p.m. può procedere alla richiesta di decreto penale anche se l’indagato mai è stato interrogato.

Docente: Sì, ma in caso di decreto penale l’imputato potrà sempre far valere le sue difese opponendosi al decreto stesso.

Discente: Finiamola qui; perché ho già capito che bel tipo di garantista tu sei!

Lezione 22 - l’Udienza preliminare

Discente: Udienza preliminare a che cosa?

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Docente: All’udienza dibattimentale; cioè all’udienza in cui si deciderà se l’imputato è colpevole o innocente, alla presenza del pubblico e seguendo una particolare procedura, macchinosa, sì, però ritenuta più idonea al sicuro accertamento dei fatti (e del diritto).

Discente: E nell’udienza preliminare che si fa? qual’è insomma l’oggetto dell’accertamento del giudice?

Docente: Quale sia l’oggetto dell’accertamento del giudice nessun articolo te lo dice espressamente; però lo puoi ricavare indirettamente dall’art. 425 (che propriamente riguarda i possibili contenuti della sentenza con cui il GUP, idest il giudice dell’udienza preliminare, dichiara il “non luogo a procedere”) e più precisamente dal suo terzo e primo comma.

Discente: Che cosa risulta dal terzo comma dell’art. 425?

Docente: Risulta che il giudice deve accertare se “gli elementi acquisiti” “sono o no “insufficienti, contraddittori e comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”.

Discente: Tu parli di “elementi acquisiti”, ma acquisiti da che cosa?

Docente: Dal fascicolo del p.m. (che questi, per il disposto del secondo comma dell’art. 416, al momento della sua richiesta di rinvio al giudizio deve far pervenire al GUP) nonché dagli altri “atti e documenti ammessi dal giudice prima dell’inizio della discussione”.

Discente: Evidentemente col disposto del terzo comma dell’art. 425 il legislatore vuole costituire un filtro contro le imputazioni azzardate; ma già a questa funzione di filtro non può provvedere il GIP (giudice dell’udienza preliminare) emettendo un decreto di archiviazione? Abbiamo visto infatti che, per l’art. 125 disp. att., il GIP deve emettere tale decreto quando “ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Insomma io non vedo una sostanziale differenza di contenuto tra l’art. 125 disp. att. e il c. 3 dell’art.425 (a parte una certa ridondanza nella formulazione del secondo rispetto al primo, certamente più sobrio: questo si limita a parlare di elementi “inidonei a sostenere l’accusa”, il 3° co. art 425 parla anche di elementi “insufficienti e contraddittori”: è chiaro però che questi sono per forza “inidonei a sostenere l’accusa” e tanto sarebbe bastato dire).

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Docente: Si, senza dubbio l’art. 125 disp.att. e il co.3 art. 425 dicono la stessa cosa: sul punto hai ragione. Hai torto però nel ritenere che, il potere concesso al GIP di emettere un decreto di archiviazione, renda superfluo il potere dato al GUP di emettere una sentenza di non luogo a procedere (per inidoneità degli elementi ecc.ecc.). Infatti il GIP può accendere la luce rossa all’azione penale solo su iniziativa del P.M. – iniziativa che potrebbe mancare. Invece il GUP la luce rossa la può accendere anche nell’inerzia del P.M.

Discente: Ho capito. Passiamo al 1° co. dell’art. 425: che cosa si può ricavare da esso (a proposito dell’argomento che ora stiamo trattando, cioè di quel che deve essere l’oggetto dell’accertamento del GUP)?

Docente: Si può ricavare che il GUP si deve preoccupare di accertare – non solo se gli “elementi acquisiti” rendono sostenibile l’accusa – ma anche se: 1) “una causa estingue il reato”; 2) sussiste una causa “per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita”; 3) – “il fatto non è previsto dalla legge come reato”; 4) -”il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso”; 5) - “il fatto non costituisce reato”; 6)- “si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa”.

Discente: Con ciò abbiamo visto quali sono gli accertamenti che il giudice ha il compito di effettuare. Tali accertamenti però non sono fine a se stessi: penso che mirino a permettere al giudice di decidere se pronunciare una sentenza di proscioglimento o di condanna.

Docente: Eh no, qui ti debbo correggere: il GUP non deve optare tra una sentenza di condanna o di proscioglimento, ma tra una sentenza di non luogo a procedere e un decreto che disponga, invece, il giudizio. Lo puoi leggere nel primo comma dell’art. 424 (mentre, leggendo l’articolo 426, puoi conoscere il contenuto che deve assumere la sentenza di non luogo a procedere e, leggendo l’articolo 429, il contenuto che deve darsi al decreto che dispone il giudizio.).

Discente: Va bene; però il succo della domanda che intendo farti non cambia ed è questo: non ti sembra che il disposto del co. 3 dell'art. 425 renda pleonastico quello del co. 1? una volta che, tu, legislatore, hai detto (nel comma 3) che si deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando gli “elementi acquisiti” “non sono idonei a sostenere l’accusa”, che bisogno c’è che tu dica anche che la sentenza di non luogo a procedere va pronunciata quando risulta che il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso ecc. ecc.? è chiaro che, se risulta che il

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fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, inevitabilmente risulteranno anche insufficienti gli elementi per sostenere l’accusa!

Docente: Questo è vero, ma la deduzione che si deve fare dalla tua (giusta!) osservazione è che il co. 1, non ha la funzione nè di dirci che, quando risulta che l’imputato non ha commesso il fatto (o il fatto non è previsto come reato o manca una condizione di procedibilità ecc), il giudice deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere, né di dirci che, quando è insufficiente la prova che il fatto sussiste o è commesso dall’imputato (…), il giudice, di nuovo, deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere – infatti tutto questo, come tu ben hai rilevato, risulta già dal terzo comma.

Discente: Ma allora che funzione ha il 1° comma dell’art. 425?

Docente: Ha la funzione di dirci che, se risulta che il fatto non sussiste (non costituisce reato ecc), il giudice, non deve limitarsi a dire in sentenza: “non vi è luogo a procedere” No, egli (al contrario di quanto può fare il GIP quando emette un decreto di archiviazione) nel dispositivo deve indicare la “formula” con cui dichiara il non luogo a procedere (perché il fatto non sussiste? perché il fatto non è previsto come reato? perché è insufficiente la prova che il fatto sussista?….). E infatti a seconda della “formula” prescelta deriveranno per le parti diversi effetti: il non luogo a procedere è stato pronunciato perché il fatto non sussiste? allora tu, imputato, non puoi impugnare (ma lo potresti se fosse stato pronunciato per insufficienza degli elementi di accusa – v. art.428) e tu, invece, parte offesa puoi essere condannata alle spese (ma non potresti esserlo nel caso il non luogo a procedere fosse stato pronunciato perché il fatto non costituisce reato).

Discente: Mettiamoci nel caso che il GUP, a conclusione dell’udienza, debba rilevare che la trama accusatoria presenta delle lacune – lacune che però potrebbero essere colmate da un supplemento di attività (nell’investigazione o nell’assunzione delle prove): che fa? fa il ragionamento “peggio per il p.m. che non è stato abbastanza competente e diligente” e pronuncia sentenza di non luogo procedere o fa come il GIP che, posto davanti a una richiesta di archiviazione nata da indagini lacunose, ordina al p.m. di integrarle?

Docente: Fa come il GIP, nel senso che cerca di provvedere a che le lacune siano colmate (e quindi si astiene da quel ragionamento cinico e baro di cui tu hai fatta menzione: e del resto, se non c’è ragione di “punire” il p.m. che negligente o incompetente ha fatta una prematura richiesta di archiviazione, non ci può essere neanche ragione di “punire” il p.m. che con altrettanta negligenza e incompetenza

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ha fatta una prematura richiesta di rinvio a giudizio: tanto più che ad essere punito, nel caso, non sarebbe il p.m., ma la società che ha interesse che, chi ne viola le leggi, ne subisca il fio). Però, a differenza del GIP, il GUP a tal fine non ha una sola opzione: l’ordine al p.m. di ulteriori investigazioni, ma ne ha due: l’ordine di ulteriori investigazioni e l’assunzione diretta della prova da parte sua.

Discente: Quali sono le norme che ci danno i criteri con cui il GUP deve operare la sua scelta nell’alternativa da te ora indicata.

Docente: Le norme che ci danno, o meglio ci dovrebbero dare, tali criteri sono due: l’art. 421bis, là dove stabilisce che “il giudice, se le indagini preliminari sono incomplete, indica le ulteriori indagini, fissando il termine per il loro compimento”; l’art. 422, là dove stabilisce che il giudice, quando non ritiene “di poter decidere allo stato degli atti” (v. co.4 art. 421) e quando “non provvede…a norma dell’art.421bis” (or ora da noi richiamato) “può disporre, anche d’ufficio, l’assunzione delle prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere”. Purtroppo entrambe le norme non sono di facile decriptazione.

Discente: Cominciamo a decriptare la norma dell’art. 422. Una volta decriptata questa e stabilito quando il giudice deve personalmente attivarsi per colmare le lacune presenti negli atti acquisiti al processo, se, come tu hai detto, il giudice non può decidere (il non luogo a procedere) se riscontra delle lacune (ovviamente delle lacune colmabili da un’ulteriore attività), risulterà a contrario quando egli può (e deve!) personalmente astenersi e demandare l’attività (di integrazione) al p.m..

Docente: D’accordo: partiamo pure dall’art.422. Quest’articolo (nel suo comma primo) pone, come abbiamo visto, due condizioni all’attivarsi diretto del giudice (per l’integrazione degli atti): 1) la decisività della prova da assumere, vale a dire la sua rilevanza ai fini della decisione; 2) la “evidenza” di tale “decisività”. Però l’imposizione della prima condizione è superflua e l’imposizione della seconda contrasta con un preciso principio giuridico che regge la nostra procedura penale.

Discente: Perché la imposizione della prima condizione è superflua?

Docente: Perché è del tutto logico che il GUP non assuma una prova che non è rilevante per la sua decisione.

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Discente: Forse il legislatore ha voluto escludere che il GUP assuma prove sull’esistenza o no di questa o quella circostanza aggravante o attenuante quando, esista o no tale circostanza, egli dovrebbe comunque rinviare al dibattimento.

Docente: Ciò sarebbe accettabile solo partendo dal presupposto che il legislatore ritenga preferibile che sia il giudice del dibattimento, e non il giudice dell’udienza preliminare, a farsi carico dell’assunzione di tali prove (sulle circostanze aggravanti e attenuanti). Il che è molto discutibile, dato che sembra piuttosto logico che, se appaiono all’udienza preliminare delle lacune, sia il GUP a farsi carico della loro eliminazione (evitando così di trasferire tale carico a un’udienza, come quella dibattimentale, già oppressa da numerosi incombenti).

Discente: Si potrebbe allora pensare che, parlando di “decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere”, il legislatore abbia voluto limitare il potere di intervento del GUP all’assunzione delle sole prove a favore dell’imputato.

Docente: Allora ci si dovrebbe aspettare che anche le ulteriori indagini di cui parla l’art. 421bis possano essere ordinate dal giudice solo se a favore della difesa; mentre invece ciò non risulta. Del resto, come il legislatore non può volere un condanna dell’imputato a scapito della verità (che lo vorrebbe assolto), così non può volere un proscioglimento dell’imputato a scapito della verità (che lo vorrebbe condannato).

Discente: Va bene potrei anche accettare che quella basata sulla “decisività” sia una condizione superflua ma ….quod abundat non nocet. Dimmi ora perché ritieni contraria ai principi la seconda condizione, quella sulla “evidenza” della decisività della prova.

Docente: Perché subordinare l’assunzione di una prova alla evidenza della sua rilevanza contrasta col principio enunciato nell’art. 190 e secondo cui il giudice deve ammettere una prova a meno che non sia “manifestamente” “irrilevante”.

Discente: Mi arrendo: dì tu il criterio che il GUP deve usare per stabilire quando deve essere lui ad attivarsi a colmare le lacune rilevate negli atti processuali e quando invece deve essere il p.m.

Docente: Tale criterio è quello di compiere solo quella attività istruttoria che non appesantisca un’udienza, come quella preliminare, che deve essere caratterizzata da snellezza e celerità nel suo svolgimento.

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Discente: Va bene, ma il criterio da te proposto mi sembra un po’ vago. Dà un criterio, se mi permetti l’espressione, più “spicciolo”.

Docente: Potrei dire che competono al GUP (quando non vanno riservati, come subito spiegherò, al giudice del dibattimento) quegli ulteriori accertamenti che implicano solo l’escussione delle fonti di prova (l’escussione di un teste, di un documento…); mentre competono al P.M. quegli ulteriori accertamenti che implicano la ricerca delle fonti di prova. Però così dicendo lascerei nel dubbio se rientrano, o no, nella competenza del P.M. le perizie (220 ss) e gli esperimenti (218 ss): mentre per me è indubbio che vi rientrino. Per questo preferisco offrirti un criterio meno “bello” ma più sicuro e dirti semplicemente che è del GUP (quando non vada riservata al giudice del dibattimento) la competenza ad escutere persone o documenti, mentre è del P.M. la competenza a ogni altro accertamento.

Discente: Spiegati con un esempio.

Docente: Eccolo: se è rilevante stabilire se l’imputato quando si recò all’aeroporto aveva le mani… lorde di sangue e si conosce chi lo trasportò, a escutere questo (teste) provvede il GUP (salvo che non si debba riservare l’escussione al giudice del dibattimento); se invece bisogna individuare la persona che lo trasportò, tocca al p.m. svolgere le relative indagini.

Discente: Da quel che hai detto sembrerebbe che ci siano dei casi in cui il GUP debba, nonostante le lacune probatorie degli atti acquisiti, rinviare a giudizio, lasciando con ciò stesso al giudice del dibattimento l’onere di colmare tali lacune..Docente: Si; sono i casi in cui la “lacuna” attiene all’escussione di una persona. Ora appunto all’escussione di questa persona alcune volte può e deve provvedere il GUP, altre volte il giudice del dibattimento. Il criterio da adottare nel decidere quando si ricada in un’ipotesi e quando, nell’altra, è, a mio parere, questo: tu, GUP, procedi direttamente all’escussione di Pinco Pallino quando è evidente che il suo interrogatorio incrociato rappresenterebbe una superflua garanzia (perché la domanda che gli si deve porre è “secca” e senza possibilità di equivoci, perché non ci possono essere dubbi sulla sua sincerità e veridicità), negli altri casi devi disporre il rinvio a giudizio, con ciò stesso rimettendo l’escussione di Pinco Pallino al giudice del dibattimento (il quale vi provvederà con la tecnica dell’interrogatorio incrociato –tecnica che deve essere adottata nell’udienza dibattimentale mentre non può essere adottata nell’udienza preliminare, vedi c.3 art. 422).

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Discente: Fai un esempio di caso in cui il GUP non può procedere all’assunzione della prova e deve lasciare colmare la lacuna al giudice del dibattimento (con le maggiori garanzie nell’accertamento della verità che l’escussione di una persona al dibattimento presenta).

Docente: L’esempio può essere dato riallacciandoci a quello precedentemente introdotto: si deve escutere il taxista che accompagnò l’imputato all’aeroporto perché dica se questi aveva le mani sporche di sangue: in tal caso può essere necessario porre al teste domande per saggiarne l’attendibilità (“l’abitacolo dell’auto era illuminato bene” “l’imputato le dette i soldi con la mano destra o sinistra” ecc) ed è chiaro che la difesa non può essere defraudata dalla possibilità di porle direttamente.

Discente: Ma chi impedirebbe alla difesa, pur nel caso che l’interrogatorio fosse effettuato all’udienza preliminare, di porre le sue domande al dibattimento (qualora il GUP rinviasse al dibattimento e al dibattimento l’interrogatorio fosse di nuovo richiesto)?

Docente: Nessuno; ma certo in tal caso le domande della difesa rischierebbero di giungere tardive ed inefficaci: ben difficilmente il teste cambierebbe la versione data all’udienza preliminare.

Discente: Capisco quel che vuoi dire. Ora però dammi un esempio di escussione che il GUP può direttamente effettuare.

Docente: Si deve chiedere a un funzionario dello Stato se la sottoscrizione presente in un dato documento è sua.

Discente: Cambiamo argomento: tu prima hai detto che l’udienza preliminare è caratterizzata da una particolare snellezza procedurale. Da che si ricava ciò?

Docente: Da vari punti della normativa che la riguarda. In particolare: A) dal fatto che tale udienza si svolge senza la presenza del pubblico, ma in camera di consiglio (art 420 co.1); B) dal fatto che - dopo un’esposizione “sintetica” fatta dal P.M. sui “risultati delle indagini preliminari e sugli elementi di prova che giustificano la richiesta di rinvio a giudizio” – la discussione si svolga, senza possibilità di repliche (confronta il co.3 dell’art. 421 con il co.4 dell’art. 523) e solo sulla base degli atti e documenti acquisiti (le parole precise del co.3 dell’art. 421 sono “il pubblico ministero e i difensori formulano e illustrano le rispettive conclusioni utilizzando gli atti contenuti nel fascicolo trasmesso a norma dell’art. 416 comma 2

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nonché gli atti e i documenti ammessi dal giudice prima dell’inizio della discussione”); C) dal fatto che quando, per l’art. 422, si deve procedere all’audizione di persone, alla loro escussione provveda (senza la tecnica dell’interrogatorio incrociato) solo il giudice; D) dal fatto che, in ipotesi di modificazione dell’imputazione, l’art. 423 non conceda alla difesa il diritto di chiedere quel termine che invece per il dibattimento l’art. 519 le concede; e qui mi fermo, anche se potrei continuare.

Discente: Ma se il GUP, al termine di un’udienza così priva di garanzie per la difesa, prende la decisione (non di emettere sentenza di non luogo a procedere) ma di rinviare a giudizio, l’imputato può impugnare tale decisione?

Docente: No, questa decisione, che prende la forma (non di una sentenza) ma di un decreto, non può essere impugnata; ed è logico che sia così, dato che l’imputato potrà sempre operarne la critica davanti al giudice del dibattimento.

Discente: E invece può essere impugnata, dall’imputato e dal P.M., una sentenza di non luogo a procedere?

Docente: Si, ma per l'imputato, nei precisi limiti postigli dalla lettera b, co.1 art. 428. Quindi, per esemplificare: si al appello nel caso che la sentenza abbia dichiarato il n.d.p. per difetto di imputabilità, no al appello, nel caso abbia dichiarato il n.d.p perché il fatto non è stato commesso dall’imputato.

Discente: La parte offesa e la parte civile possono impugnare?

Docente: La parte civile, no. La parte offesa, sì, ma solo se sono state violate quelle norme che hanno la funzione di permetterle di costituirsi parte civile.Più precisamente la prima parte del co.2 sempre dell'art. 428 recita: “La persona offesa può proporre appello nei soli casi di nullità previsti dall’art. 419, comma 7”.

Discente: Passiamo ad altro argomento: è stata emessa sentenza di n.d.p. ed ormai non è più impugnabile: domanda: l’imputato può rasserenarsi ed escludere di poter essere di nuovo sottoposto a processo (per il reato per cui è stata pronunciata sentenza di n.d.p.)?

Docente:No, in realtà egli potrà ancora essere rinviato a giudizio; però, non in base ad un semplice riesame e una semplice rivalutazione delle stesse prove già dedotte o deducibili (in quanto già note alla pubblica accusa) nella passata udienza preliminare (“Il precedente GUP ha pronunciata sentenza di n.d.p. perché ha

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ritenuti inattendibili i testi A e B portati dalla P.A., io invece, nuovo GUP, li ritengo attendibili e rinvio a giudizio”); ma (come si argomenta dall’art. 434) solo in conseguenza del sopravvenire o della scoperta “dopo la pronuncia della sentenza” di “nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a quelle già acquisite”, il rinvio a giudizio, giustificano.

Discente: A me pare quasi illogico che il Legislatore, dopo essersi preoccupato con varie norme (in primis, con gli artt.405 ss) di limitare i tempi delle indagini preliminari al fine di liberare quanto prima l’imputato dallo stress del processo, poi, esaurite le indagini preliminari, gli mantenga indefinitamente sul capo …la spada di Damocle del processo.

Docente: Ma il legislatore si rende conto di ciò e subordina la reviviscenza del processo (dopo una sentenza di n.d.p.) a delle condizioni che vengono a renderla un evento del tutto eccezionale.

Discente: Quali sono tali condizioni?

Docente: La prima, è che, non solo al rinvio a giudizio si giunge dopo una nuova udienza preliminare, ma a tale nuova udienza preliminare si giunge solo dopo un’udienza in cui, nel contraddittorio delle parti, si decide sull’istanza di revoca della sentenza di n.d.p. proposta dal p.m. (artt. 435, 436). Quindi non è, come abbiamo visto essere nell’istituto dell’archiviazione, che il giudice decide de plano sulla semplice istanza del P.M. (di riapertura delle indagini); no, una volta intervenuta una sentenza di n.d.p., il GIP può, sì, autorizzare il p.m. a quelle ulteriori indagini a lui necessarie per l’acquisizione delle nuove fonti di prova, può, sì, se tali nuove indagini non sono necessarie, fissare la nuova udienza preliminare, ma tutto nel contraddittorio delle parti (v. melius l’art. 436).

Discente: E la seconda condizione, destinata a restringere i casi di revoca della sentenza di n.l.p. (e quindi di una riapertura del processo con il possibile esito in un rinvio a giudizio)?

Docente: Essa è data dall’onere imposto (dall’art. 435) al P.M. di indicare nella sua richiesta di revoca della sentenza di n.l.p. “le nuove fonti di prova”: quindi non ci troviamo più di fronte a un p.m. che, dopo un’archiviazione, può limitarsi (per bypassarla) a far semplicemente presente la “esigenza di nuove investigazioni” (metti, per accertare se l’imputato è stato trasportato all’aeroporto da un taxista il quale abbia visto ecc), ma ci troviamo di fronte a un p.m. che ha già individuata la “nuova fonte di prova” (il taxista tal dei tali che ha trasportato l’imputato ecc.ecc”) e

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chiede di essere reintegrato dal GIP nei poteri necessari per costringerlo a presentarsi davanti a lui e a dire quel che sa.

Discente: Ma, se il P.M. ha già individuata la fonte di prova, perché, invece di autorizzarlo ad escuterla, non si fissa subito l’udienza preliminare in cui la fonte di prova possa venire escussa nel contraddittorio delle parti.

Docente: Perché - a prescindere che potrebbe non essere opportuno l’escussione del teste all’udienza preliminare (bensì solo al dibattimento con l’interrogatorio incrociato) - quella che appare un’utile fonte di prova potrebbe…fare flop (potrebbe rivelarsi che il taxista nulla ha visto e nulla ha sentito): e allora perché perdere tempo con una nuova udienza: è meglio dare al p.m. la possibilità di chiedere l’archiviazione (c.4 art. 436) e lasciare che tutto finisca lì….con gran sollievo dell’imputato.

Discente: Dopo aver visto che cosa può succedere dopo che è stata emessa una sentenza di n.d.p., vediamo cosa succede una volta che il GUP abbia emesso un decreto di rinvio a giudizio. Penso che il GUP trasmetterà gli atti al giudice del dibattimento.

Docente: Non subito: infatti egli prima deve formare il c.d. “fascicolo del dibattimento”: cioè il fascicolo contenente gli atti, che è permesso, al giudice del dibattimento, di leggersi prima dell’udienza

Discente: Perché al giudice del dibattimento non è permesso di consultare tutti gli atti e documenti acquisiti nell’udienza preliminare?

Discente: No, perché il legislatore teme che la lettura di tali atti e documenti possa portarlo a formarsi un’idea preconcetta e addirittura a scrivere la sentenza prima dell’udienza dibattimentale. Di conseguenza permette che vengano a formare il “fascicolo del dibattimento” solo i così detti “atti non ripetibili” (di cui abbiamo parlato ampiamente in altra parte dell’opera) e gli altri atti da lui tassativamente elencati nell’art. 431.

Discente: E che ne è degli atti che il giudice decide di non inserire nel fascicolo del dibattimento?

Docente: Vengono a far parte del fascicolo del c.d. “fascicolo del pubblico ministero” (che naturalmente a lui viene inviato – v. art. 433)

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Lezione 23 - Gli atti preliminari al dibattimento

Docente: Dunque il GIP ha rinviato Pinco Pallino a giudizio davanti al tribunale e ha fissato come data dell’udienza il 15 novembre 2010.

Discente: E se il tribunale, il 15 novembre, non avesse spazio e tempo per dare udienza alla causa contro Pinco Pallino? A me sembra che sarebbe più logico che il GIP passasse le “carte processuali” al presidente del tribunale e che poi fosse questi a fissare l’udienza, tenendo conto dei suoi impegni.

Docente: No, perché se è il GUP a fissare l’udienza dibattimentale si evitano le notifiche alle persone comparse (all’udienza preliminare): il GUP avvisa, le persone comparse davanti a lui, della data della futura udienza e tale avviso vale come notifica (ai sensi del co.5 art 148). D’altra parte per ovviare al pericolo da te paventato il legislatore impone al presidente del tribunale di comunicare preventivamente all’ufficio del GUP le udienze in cui ha, se mi permetti le parole, posti liberi per trattare nuove cause (vedi melius l’ar. 132 c.2 disp. att.).

Discente: Dunque le parti vengono a sapere della nuova udienza direttamente dalla bocca del GUP.

Docente: Se sono comparse; e se non lo sono, tramite la notifica del decreto loro dovuta ai sensi del co.4 dell’art. 429.

Discente: Il legislatore si preoccupa che imputato e parte offesa siano informati dell’udienza dibattimentale: ma per quel che riguarda le altre parti del processo, mi riferisco particolarmente al difensore dell’imputato, al p.m. e alla parte civile? non provvede egli a che queste altre parti siano informate dell’udienza?

Docente: Per quel che riguarda il difensore dell’imputato e il p.m. il problema da te posto in realtà non sussiste: infatti essi sono parti necessarie all’udienza preliminare (v. c.1 art 420): quindi ricevono l’avviso dalla bocca del giudice. Per quel che riguarda la parte civile, essa non viene informata, al contrario della parte offesa, in quanto per questa ci può essere il dubbio che non abbia avuto conoscenza neanche dell’udienza preliminare, mentre tale dubbio non può esserci per la parte offesa (melius, il danneggiato) che si è costituito parte civile, dato che la costituzione di parte civile va fatta (art.79) proprio in riferimento all’udienza preliminare (che pertanto non può non essere conosciuta da chi si costituisce).

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Discente: Abbiamo visto che, finita l’udienza preliminare, il fascicolo del dibattimento viene fatto pervenire alla cancelleria del giudice del dibattimento e, il fascicolo del pubblico ministero, a quella della procura della Repubblica. Questi fascicoli possono essere consultati solo dai difensori o anche dalle parti, e da che momento?

Docente: Entrambi i fascicoli sono consultabili (anche al fine di estrarre copia degli atti in essi inseriti): quello del dibattimento, per l'art. 466, quello del P.M., per l'art. 433. La legittimazione alla consultazione dei fascicoli è invece diversa a seconda che si tratti del fascicolo del dibattimento e del fascicolo del p.m.: il primo è consultabile sia dai difensori che dalle parti, il secondo, solo dai difensori (almeno così risulta dalle parole letterali dell’art. 433 e tali parole non vanno interpretate estensivamente dato che il legislatore può essere stato determinato, a restringere solo ai difensori la legittimazione alla consultazione, dalla considerazione, non saprei dire quanto fondata, che il fascicolo del p.m. contenga documenti particolarmente importanti).

Discente: Le parti possono dedurre altre prove oltre a quelle acquisite all’udienza preliminare?

Docente: Chiaramente, sì.

Discente: E quando debbono dedurle, al momento dell’udienza dibattimentale?

Docente: No - salvo che dimostrino di essere state nell’impossibilità di farlo (v. co.2 art. 493 – debbono dedurle prima dell’udienza, nella così detta fase degli “atti preliminari al dibattimento”. Ed è facile comprenderne il perché: se le prove fossero dedotte all’udienza, siccome alla controparte del deducente non si può certo negare il tempo di reperire le prove da controdedurre, inevitabilmente si dovrebbe rinviare il dibattimento con relativo ritardo nella definizione della causa.Questo spiega il primo comma dell’art. 468, che recita: “Le parti che intendono chiedere l’esame di testimoni, periti o consulenti tecnici, nonché delle persone indicate nell’art. 210 devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria, almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con la indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame”.

Discente: Sì, dal primo comma da te riportato risulta l’onere di dedurre le prove prima del dibattimento, ma da che cosa risulta il potere dato alla controparte di controdedurre?

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Docente: Risulta dal quarto comma dello stesso articolo 468, che recita: “In relazione alle circostanze indicate nelle liste, ciascuna parte può chiedere la citazione a prova contraria di testimoni, periti e consulenti tecnici non compresi nella propria lista ovvero presentarli al dibattimento”.

Discente: Dal comma da te ora citato risulta, sì, il diritto di controdedurre, però non risulta il termine entro cui va esercitato.

Docente: Effettivamente è così: è questa una lacuna della legge; che però l’interprete può facilmente colmare: è infatti evidente che il diritto di controdedurre può essere esercitato fino al momento utile che l’art.493 fissa per le “richieste di prova” (momento che cade subito dopo l’apertura del dibattimento).

Discente: Quindi il deducente rischia di conoscere le prove che la controparte intende dedurre solo al dibattimento: non è troppo tardi?

Docente: No, perché veramente importante é che prima del dibattimento le parti conoscano i fatti e le circostanze che le controparti intendono provare (così detta discovery): la conoscenza anticipata dei mezzi di prova che intendono utilizzare allo scopo, certo può avere una certa importanza ma non è fondamentale.Almeno tale non è ritenuta dal legislatore.

Discente: Entrambe le disposizioni da te citate si riferiscono alla deduzione di prove personali ma tacciono sulla deduzione di prove documentali: debbo arguirne che le parti possono produrre in giudizio dei documenti senza limite di tempo? La cosa mi suonerebbe un po’ strana: forse che una parte non potrebbe avere delle prove personali sulla circostanza che tende a provare il documento avversario? e come essa potrebbe controdedurre tali prove personali (l’esame di un teste, di un consulente….) se il documento viene prodotto solo al momento dell’udienza?

Docente: Sì, è vero: nella così detta lista, non debbono essere inserite le circostanze che la parte intende provare documentalmente. Ed è vero che la cosa non è molto logica. Forse si spiega con la convinzione (discutibile!) del legislatore che la prova contraria relativa alle circostanze provate da un documento possa essere data solo da un altro documento e che la produzione in giudizio di quest’altro documento riesca facile alla controparte anche se la sua necessità si palesa solo al dibattimento. Una riprova che questo sia il pensiero del legislatore potrebbe trovarsi nella volontà legislativa, espressa nel comma 4bis dell’articolo 468, che l’intenzione della parte di ottenere l’acquisizione di “verbali di prove di altro procedimento” risulti dalla “lista” (quindi prima dell’udienza dibattimentale).

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Evidentemente il legislatore pensa che il thema, che una parte tende a provare con un documento in cui sono verbalizzate prove personali, richieda come controprova soprattutto delle prove personali

Discente: Ma cosa dice precisamente il comma 4bis da te ora citato?

Docente: Eccone il testo: “La parte che intende chiedere l’acquisizione di verbali di prove di altro procedimento penale deve farne espressa richiesta unitamente al deposito delle liste. Se si tratta di verbali di dichiarazioni di persone delle quali la stessa o altra parte chiede la citazione, questa è autorizzata dal presidente solo dopo che in dibattimento il giudice ha ammesso l’esame a norma dell’articolo 495”.

Discente: Passiamo ora ad un altro tipo di problemi. Le persone che una parte intende escutere al dibattimento (testimoni, consulenti, coimputati…) possono anche non avere piacere di perdere il loro tempo a Palazzo di giustizia ….

Docente: Proprio per questo il legislatore prevede (nell’art. 133) il loro accompagnamento coattivo e delle sanzioni per la mancata loro comparizione.

Discente: Questo è il punto: come si può lasciare alla discrezione (che può essere cervellotica) del difensore Pinco Pallino o della sua cliente, signora Beppa, l’imposizione a un terzo dell’obbligo di comparire nel processo?

Docente: Non si può, d’accordo. E infatti il legislatore subordina ad autorizzazione del giudice il potere della parte di citare il terzo. Questo nel comma 2 dell’art. 468, che recita: “Il presidente del tribunale o della corte di assise, quando ne sia fatta richiesta, autorizza con decreto la citazione dei testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’articolo 210, escludendo le testimonianze vietate dalla legge e quelle manifestamente sovrabbondanti (….) In ogni caso, il provvedimento non pregiudica la decisione sull’ammissibilità della prova a norma dell’articolo 495”.Vero è che il presidente incontra dei limiti nella sua azione di filtro contro le citazioni “cervellotiche”: egli infatti può rifiutare la sua autorizzazione (a citare) solo nel caso la citazione di un teste (di un teste, bada, e non di un consulente tecnico o di un perito) miri a una “testimonianza vietata dalla legge” (pensa alla citazione di un pubblico ufficiale perché testimoni su un segreto di stato – art. 202) o sia sovrabbondante (pensa al caso in cui l’avvocato Pinco Pallino cita tutte e dieci le persone presenti a un fatto, dove ne basterebbero tre): egli perciò non potrebbe rifiutare la sua autorizzazione adducendo ad esempio la irrilevanza del fatto che la

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parte vuol provare (questo infatti richiederebbe una conoscenza dei fatti di causa che egli non può avere).Val la pena di attirare la tua attenzione sul fatto che l’autorizzazione del presidente occorre anche per la citazione delle persone dedotte in controprova ai sensi del comma 4°.

Discente: Il presidente, nell’esercizio dei suoi poteri, può ben sbagliare: non autorizzare quando dovrebbe e autorizzare quando non dovrebbe: non c’è rimedio ai suoi possibili errori?

Docente: Certo che c’è. Se tu hai fatto attenzione (ma evidentemente non l’hai fatta) il comma secondo (dell’art. 468) nella sua ultima parte è esplicito nel dire che il provvedimento presidenziale, in ogni caso, “non pregiudica la decisione sull’ammissibilità della prova a norma dell’articolo 495”: il presidente non ti ha autorizzato la citazione di un teste? poco male: tu in sede dibattimentale chiedi (non più, ovviamente, al presidente, ma) al giudice del dibattimento l’ammissione del teste: e il giudice del dibattimento te lo può benissimo ammettere. Così come, viceversa, il giudice del dibattimento può non ammetterti un teste alla cui citazione il presidente ti aveva autorizzato.

Discente: Sì, ma anche se il giudice del dibattimento mi ammette un teste, come posso fare in tempo a citarlo per l’udienza se…all’udienza ci sono già?!

Docente: Il giudice ammettendo il teste può rinviare l’udienza proprio per permetterti la sua citazione. Ciò è pacifico e si argomenta (forse un po’ forzatamente) dall’art. 507.Peraltro, se il teste (o il consulente, non però il perito o il coimputato) è disposto a venire sua sponte all’udienza, tu puoi bypassare il rifiuto dell’autorizzazione presidenziale, portandolo all’udienza. Questo te lo dice espressamente il co. 3, che così recita: “I testimoni e i consulenti tecnici indicati nelle liste possono anche essere presentati direttamente al dibattimento”. E ciò è perfettamente logico: se il terzo viene spontaneamente, senza coazione, l’autorizzazione presidenziale perde la sua funzione (che è appunto di impedire che un terzo sia costretto volente o nolente a comparire all’udienza).

Discente: Quindi io posso portare all’udienza un teste senza indicarlo nella lista.

Docente: Eh, no: lo puoi portare solo se l’hai indicato nella lista: rileggi il comma 3 or ora citato.

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Discente: Dopo l’esame, mi pare assai approfondito dell’art. 468, c’è ancora dell’altro da dire sulla fase degli atti preliminari al dibattimento?

Docente: Ci sarebbe da dire sull’articolo 467 e sull’articolo 469.L’articolo 467 conferisce al presidente (del tribunale e della corte di assise) il potere di assumere delle prove negli stessi casi in cui l’articolo 392 consente l’incidente probatorio (caso classico: un teste è malato e si teme che non sia più tra i viventi al momento dell’udienza dibattimentale); più precisamente il comma primo dell’art. 467 recita: “Nei casi previsti dall’art. 392, il presidente del tribunale o della corte di assise dispone, a richiesta di parte, l’assunzione delle prove non rinviabili, osservate le forme previste per il dibattimento”.L’articolo 469 stabilisce a quali condizioni e in quale ipotesi “il giudice” (e qui deve intendersi, non il presidente, ma il giudice del dibattimento) può prosciogliere prima del dibattimento. Il disposto dell’articolo 469 si differenzia da quello dell’articolo 129 principalmente perché: I - subordina il proscioglimento al consenso delle parti; II – ammette il proscioglimento solo in due delle ipotesi previste dall’art. 129: l’ipotesi che “l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita “e l’ipotesi che risulti che “il reato è estinto” Quindi prima del dibattimento non si potrebbe prosciogliere perché: il fatto non sussiste; l’imputato non lo ha commesso; il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Più precisamente l’articolo 469 recita: “Salvo quanto previsto dall’art. 129 comma 2, se l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita ovvero se il reato è estinto e se per accertarlo non è necessario procedere al dibattimento, il giudice, in camera di consiglio, sentiti il pubblico ministero e l’imputato e se questi non si oppongono, pronuncia sentenza inappellabile di non doversi procedere enunciandone la causa nel dispositivo”.

Lezione 24 - Il giudizio abbreviato

Docente: Il giudizio abbreviato nasce da una sorta di do ut des tra Stato e imputato: questi rinuncia ad alcune “forme” (che sarebbero per lui altrettante garanzie contro un errato accertamento dei fatti a suo scapito, ma la cui adozione provocherebbe un rallentamento del processo) e quello gli riduce la pena (di metà, se si procede per una contravvenzione e di un terzo, se si procede per un delitto – v.co.2 art. 442).

Discente: Evidentemente il legislatore prende, la disponibilità dell’imputato ad abbreviare l’iter del processo, come segno di una sensibilità sociale e di una minore antisocialità, e ne deduce la necessità di una minore sanzione sociale per

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ottenerne quella rieducazione che deve essere lo scopo della pena (co. 3 art. 27 Cost.).

Docente: E’ difficile crederlo, dato che è notorio che alla richiesta del “giudizio abbreviato” si inducono gli imputati (più avveduti e meglio assistiti) solo per un calcolo utilitaristico: “Rinuncio a “forme processuali” (di cui non sento il bisogno) per ottenere, nell’ipotesi infausta di una condanna, una riduzione di pena”. La realtà è che a quel do ut des, a cui prima accennavo, anche lo Stato giunge in base ad un calcolo prettamente utilitaristico (che con una retta e sana amministrazione della giustizia nulla ha da vedere!). Se la pena avesse veramente una funzione rieducativa e dovesse veramente essere, dal giudice, misurata al fine di ottenere la rieducazione del reo, si potrebbe dire che nel giudizio abbreviato il legislatore rinuncia alla rieducazione del reo (dato che dare a un malato – nel caso a un malato di antisocialità - solo i due terzi della medicina necessaria per guarirlo significa …rinunciare a guarirlo) per ottenere una riduzione del carico lavorativo dei suoi giudici.Discente: E’ inutile prendersela; effettivamente lo Stato deve risparmiare tempo e denaro nell’amministrazione della giustizia e….pensiamo ad altro: dimmi quali sono le limitazioni alle garanzie difensive che l’imputato viene ad accettare con la richiesta di “giudizio abbreviato”.

Docente: Le limitazioni – almeno le principali - che l’imputato accetta richiedendo il giudizio abbreviato sono date dal fatto che: I- il procedimento viene regolato dalle “disposizioni previste per l’udienza preliminare, fatta eccezione per quelle di cui agli articoli 422 e 423” (v. co. art. 441): non devi quindi pensare, se difendi in un giudizio abbreviato, che siano utilizzabili solo i documenti di cui il giudice dà lettura, questo per la semplicissima ragione che nel giudizio abbreviato non si applica l’art. 511: il giudice può utilizzare un atto anche se su di questo non è stata attirata l’attenzione delle parti mediante la sua lettura: dovrai essere tu tanto diligente da consultare (prima dell’udienza) per bene le carte processuali, per renderti conto dei documenti che ti nuocciono e, naturalmente, per indicare o addirittura leggere al giudice quelli che confortano le tue tesi; e neanche devi pensare di poter procedere all’esame incrociato di un teste (nei casi, che vedremo poi, in cui un teste, più in genere una persona, può essere escussa nell’udienza): no, l’esame incrociato non è ammesso nel giudizio abbreviato;II - il giudizio si svolge in assenza del pubblico: in camera di consiglio; a meno che a richiedere la udienza pubblica siano “tutti gli imputati” (quindi, se l’imputato che difendi chiede la pubblicità dell’udienza ma il coimputato – non il p.m. il cui consenso è irrilevante – si oppone, il processo si fa a porte chiuse);

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III – l’impugnazione della sentenza che conclude il giudizio è ammessa solo nei casi di cui all’art. 443;IV – dulcis in fundo – ed è questa la limitazione più importante – il processo viene, come dice l’articolo 438, “definito all’udienza preliminare allo stato degli atti, salve le disposizioni di cui al comma 5 del presente articolo e all’articolo 441, comma 5”.

Discente: Che significa che il processo viene “definito allo stato degli atti”? significa che viene definito solo in base alle prove già raccolte, non potendosene aggiungere delle altre?

Docente: Questo è in effetti il significato che suggerirebbe l’espressione usata dal legislatore. Però tale espressione non esprime tutto il pensiero legislativo, è come una parola monca. In realtà la volontà legislativa è che il processo (fatto col rito abbreviato) sia definito: I- senza assumere nuove prove (“salve le disposizioni di cui al comma 5 ecc.ecc.”, di cui tra poco diremo); II - utilizzando, però, gli atti già acquisiti, anche quando la loro utilizzazione non sarebbe permessa dalle norme che disciplinano il dibattimento. Tale volontà legislativa risulta espressa meglio, sia pure ancora incompiutamente (per un difetto di tecnica legislativa), nel co.1bis dell’articolo 442, che recita: “ai fini della deliberazione il giudice utilizza gli atti contenuti nel fascicolo di cui all’articolo 416 comma 2, la documentazione di cui all’articolo 419, comma 3, e le prove assunte nell’udienza”.

Discente: Che cosa vuoi dire quando parli di un’utilizzazione degli atti anche quando non sarebbe permessa dalle norme disciplinanti il dibattimento.

Docente: Abbiamo visto nelle precedenti lezioni relative alla prova, che il giudice del dibattimento “non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite al dibattimento” (art. 526) e che non si può dare lettura e pertanto acquisire al dibattimento (dato che la lettura di una carta processuale è appunto il mezzo voluto dal legislatore per tale acquisizione – arg. ex art 511) tutta una serie di atti e documenti (“verbali delle dichiarazioni rese dall’imputato, dalle persone indicate nell’articolo 210 e dai testimoni alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero ecc. – vedi melius l’art. 514). Orbene il legislatore invece dà al giudice del processo abbreviato il potere di utilizzare anche tali atti e documenti (e, come abbiamo visto poco sopra, senza che ne sia data lettura).

Discente: Di conseguenza il giudice può porre a base della sua sentenza anche il verbale in cui la polizia ha raccolto le “spontanee dichiarazioni” dell’imputato, o le “informazioni” di una persona presente ai fatti: ho capito bene?

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Docente: - Hai capito benissimo.

Discente: L’ideale di “giudizio abbreviato” è quindi per il legislatore quello in cui non si assumono nuove prove e si decide utilizzando (nel senso testè chiarito) gli atti già acquisiti al processo. Però, mi pare di capire che sia un ideale non raggiunto, dato che nell’articolo 438 il legislatore - dopo aver affermato che il processo celebrato col rito abbreviato è “definito all’udienza preliminare allo stato degli atti” - fa “salve le disposizioni di cui al comma 5 del presente articolo e all’articolo 441, comma 5”. Mi pare opportuno quindi visitare le due disposizioni ora citate.

Docente: D’accordo. Cominciamo dal comma 5 dell’art. 438, che recita: “L’imputato, ferma restando la utilizzabilità ai fini della prova degli atti indicati nell’articolo 442, comma 1bis, può subordinare la richiesta ad un’integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. Il giudice dispone il giudizio abbreviato se l’integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili. In tal caso il pubblico ministero può chiedere l’ammissione di prova contraria. Resta salva l’applicabilità dell’articolo 423”.

Discente: Quindi la richiesta di integrazione è accolta: I - se tale integrazione “risulta necessaria ai fini della decisione”; II – se è “compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento”. Ma quand’è che la integrazione probatoria chiesta dall’imputato si riterrà “necessaria ai fini della decisione”?

Docente: Nel tentare una risposta alla tua domanda partiamo da una considerazione che mi sembra incontrovertibile: se si interpretasse la norma de qua come se esprimesse una volontà legislativa intesa ad escludere l’assunzione di una prova (richiesta dall’imputato) quando tale prova verta su un fatto irrilevante ai fini del decidere, si dovrebbe anche riconoscere, di tale norma …. la assoluta superfluità: nessun giudice mai penserebbe di assumere una prova su un fatto che non rilevi per la decisione che deve prendere.

Discente: Ma il legislatore può aver voluto escludere che il giudice (nel rito abbreviato) sia tenuto ad assumere una prova a meno che essa sia “manifestamente rilevante”.

Docente: Tale interpretazione potrebbe anche accettarsi: infatti il consenso dell’imputato potrebbe giustificare una deroga al principio, espresso dall’art. 190,

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secondo cui il giudice non può rifiutarsi di assumere una prova a meno che sia “manifestamente superflua o irrilevante”. Però io credo che, limitare a ciò il significato della norma de qua, sarebbe inammissibilmente riduttivo: anche l’assunzione della testimonianza di persona che, in sede di sommarie informazioni, ha detto A (metti,”Io, taxista, ho visto che il trasportato sanguinava dal collo”) ai fini di sondarne con appropriate domande l’attendibilità (“Ma l’abitacolo dell’auto era ben illuminato?”), dovrebbe considerarsi “manifestamente rilevante” (tanto è vero che nessun giudice del dibattimento, di certo, in sede di esame incrociato, bloccherebbe una tale domanda). Tuttavia assumere un tale tipo di prova chiaramente svuoterebbe di ogni significato il giudizio abbreviato.

Discente: Che ne concludi allora?

Docente: Ne concludo che com’è monco, e lo abbiamo visto, il pensiero legislativo espresso nel primo comma (dell’art. 438), così deve considerarsi monco il pensiero legislativo espresso nel quinto comma. Questo pensiero, completato, in realtà si articolerebbe così: I- tu, giudice, devi ritenere esistenti i fatti provati da una “carta” processuale (dal verbale di polizia o dal verbale di altro procedimento risulta che il taxista ha detto che il collo dell’imputato sanguinava? tu, giudice, devi ritenere che l’imputato fosse ferito al collo e tu, imputato, accettando il rito abbreviato implicitamente sai e quindi accetti che il giudice ritenga come risponde a verità che il collo dell’imputato ecc. ecc.) a meno che da altra “carta” processuale risulti una prova con la prima contrastante (il taxista ha detto che il collo dell’imputato sanguinava, l’hostess dell’aereo ha detto di non aver notato nessuna ferita al collo dell’imputato); II - tu, giudice, devi escludere la necessità di assumere la prova su fatti che già risultano provati dalle carte processuali (tu, quindi, per riallacciarci agli esempi prima fatti, non solo dovrai escludere la riassunzione come teste del taxista per porgli domande miranti a sondarne la attendibilità, ma altresì dovrai escludere l’assunzione del teste Pinco Pallino per dimostrare che il collo dell’imputato non presentava tracce di ferite – a meno che dalle stesse carte processuali la testimonianza del taxista risulti confutata).Questa è quel che mi pare debba essere la giusta interpretazione dell’articolo 438 e mi conforta in tale opinione il fatto che si sostenga autorevolmente che presupposto della integrazione probatoria sia, non la necessità, ma la “novità” della prova: tale tesi, infatti, mi pare assai vicina alla mia (purchè si intenda come prova “nuova”, quella che mira a provare un fatto che non è stato ancora provato, né a favore né a sfavore dell’imputato).

Discente: Quanto detto vale per quel che riguarda il primo dei presupposti dell’ammissibilità dell’integrazione dall’imputato richiesta; e che hai da dire sul

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secondo presupposto: la “compatibilità” dell’integrazione “con le finalità di economia processuale proprie del procedimento”.

Docente: A me sembra che il dettato legislativo qui non presenti difficoltà interpretative: il legislatore evidentemente vuole che anche l’assunzione di prove “necessarie” (nel senso da noi prima chiarito) non sia ammessa, quando le prove sono troppo numerose e comunque la loro assunzione prenderebbe troppo tempo: il taxista ha detto A, l’hostess ha detto B: io, difensore, chiedo di assumere anche le altre dieci hostess dell’aereo per provare che è vero B e non A: la mia richiesta va respinta.

Discente: Ma a me sembra che, anche nell’esempio da te fatto, le finalità di economia processuale, che il legislatore si propone con il rito abbreviato, siano raggiunte: assumere 10 testi al dibattimento prenderà sempre più tempo che assumerli nel giudizio abbreviato.

Discente: Hai perfettamente ragione. La verità é che, con la disposizione de qua, il legislatore vuole solamente scoraggiare e disincentivare l’imputato da proporre l’assunzione di troppe prove. E il secondo presupposto, per l’accettazione di una domanda di integrazione (proposta dall’imputato), in realtà dovrebbe essere così formulato: “La domanda è inammissibile se le prove richieste sono troppe”. Ma una formulazione così è stata forse ritenuta troppo brutale dall’ipocrisia del legislatore.

Discente: Che succede, se la domanda di integrazione è respinta?

Docente: Il giudice respinge con ciò stesso anche la domanda di giudizio abbreviato: non può essere altrimenti.

Discente: Ma l’imputato potrebbe essere disposto ad accettare un giudizio abbreviato “non integrato”.

Docente: Nulla gli impedisce di ottenere ciò rinnovando la domanda (senza naturalmente subordinarla all’integrazione probatoria).A prescindere da ciò tieni presente che l'imputato, per il disposto del comma 3bis, “con la richiesta presentata ai sensi del comma 5, può proporre, subordinatamente al suo rigetto, la richiesta di cui al comma 1, oppure quella di applicazione pena ai sensi dell'art. 444”.

Discente: Ma a me pare che un imputato il quale dica al giudice “Io ti domando il giudizio abbreviato, ma a patto che tu accolga la seguente domanda di integrazione

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probatoria” e poi soggiunga “Restando inteso che, se la domanda di integrazione probatoria non é accettata resta valida la domanda di giudizio abbreviato”, venga a cadere in...flagrante contraddizione.

Docente: Senza dubbio é così: il legislatore ha pasticciato. I commi 5 e 5bis vanno interpretati in questo senso: “Tu, imputato, puoi presentare una domanda di giudizio abbreviato subordinata all'accoglimento di una tua domanda di integrazione probatoria (e in tal caso farai bene a cautelarti chiedendo subordinatamente al rigetto di questa seconda domanda, l'applicazione pena). Ma tu puoi anche sic et simpliciter aggiungere alla domanda di giudizio abbreviato una domanda di integrazione probatoria senza subordinare la validità della prima domanda all'accoglimento della seconda”.

Discente: Con ciò abbiamo visitato una delle norme che fanno eccezione al principio che la decisione il giudice la deve prendere “allo stato degli atti” (esistenti al momento della richiesta del rito abbreviato). Dobbiamo ora visitare l’altra norma, il comma quinto dell’art. 441.

Docente: Tale comma così recita: “Quando il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione. Resta salva in tale caso l’applicabilità dell’articolo 423”.

Discente: Il potere di integrazione probatoria nel caso dell’art. 441 (integrazione disposta dal giudice) incontra dei limiti come abbiamo visto essere nel caso dell’art. 438 (integrazione richiesta dall’imputato)?

Docente: Non ci sarebbe motivo di imporli: nel caso dell’imputato, i limiti all’integrazione probatoria si spiegano come il prezzo che lui devi pagare per ottenere la riduzione di pena: nel caso del giudice, tali limiti non si spigherebbero con nulla.

Discente: Potrebbero spiegarsi con una doverosa tutela del principio del contraddittorio: l’imputato, quando ha chiesto il rito abbreviato, si è spogliato con ciò stesso del diritto di assumere a suo favore delle prove (oltre a quelle alla cui assunzione ha subordinato, ai sensi del co.5 art.538, la sua richiesta) – e ha fatto questo (presumibilmente) dopo aver ben consultato le carte processuali e aver constatato che esse non provavano la sua colpevolezza: ammettere altre prove sarebbe insomma come un’inammissibile cambiare le carte in tavola.

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Docente: Non nego un certo fondamento alla tua tesi (del resto da molti condivisa); ma il suo accoglimento contrasta con l’esigenza dell’accertamento della verità, in un contesto che si presta a facili giochi machiavellici, da parte della difesa, per occultarla: un abile e avveduto difensore, avendo notate le lacune che presenta la trama accusatoria costruita dal p.m.(il taxista ha detto A, però controbilancia perfettamente la sua dichiarazione il fatto che la hostess abbia detto B: manca la prova che l’imputato fosse ferito al collo) chiede il rito abbreviato: e il machiavello gli riuscirebbe facilmente se si accogliesse la tua tesi e il giudice non potesse assumere nuove prove (per riallacciarci all’esempio prima introdotto: non potesse, interrogare di nuovo la hostess per sondarne la attendibilità, escutere le altre hostess dell’aereo per vedere se la loro versione combacia con quella della collega).

Discente: Si dovrebbe almeno concedere all’imputato di controdedurre, nel caso che il giudice decida di assumere ulteriori prove.

Docente: Anche qui non posso negare la ragionevolezza della tua tesi. Ma essa non mi pare accoglibile nel silenzio della legge – la cui valenza contraria alla tua tesi viene a risaltare per il dettato dell’art. 441bis.

Discente: Che dice tale articolo?

Docente: In sintesi in tale articolo si fa l’ipotesi che il p.m., nell’ambito del giudizio abbreviato, muova (come gliene danno la facoltà l’art. 438 co.5 e l’art. 441 co.5) le contestazioni di cui all’art. 423 (idest, contesti che il fatto è “diverso”, che esiste un reato connesso ecc.ecc.). E, in tale ipotesi, il legislatore concede all’imputato o di chiedere che il “procedimento prosegua nelle forme ordinarie” o di proseguire “nelle forme del giudizio abbreviato”. Orbene, non solo (ovviamente) nel primo caso, ma anche nel secondo il legislatore concede all’imputato di “chiedere l’ammissione di nuove prove” (nel caso di opzione per il rito abbreviato, solo “in relazione alle contestazioni ai sensi dell’articolo 423 “anche se “oltre i limiti previsti dall’articolo 438, comma 5”). Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.

Discente: Siamo giunti alla fine dei nostri discorsi sul giudizio abbreviato, e mi restano ancora da farti due domande. La prima è questa: fino a quale momento processuale la difesa ha tempo di avanzare la richiesta del rito abbreviato?

Docente: La risposta diventa intuitiva se si tiene conto dell’interesse del legislatore a trarre il maggior vantaggio possibile dalla disponibilità dell’imputato al rito abbreviato: che utile darebbe (in termini di economia processuale) al legislatore

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l’adozione di questo rito quando avvenisse a dibattimento già iniziato? Ovvio che il legislatore ammetta la richiesta solo: prima dell’apertura del dibattimento, nei casi di processo per citazione diretta (art. 552 co.2) e per direttissima (art.452 co.2 e 558 c.8); entro quindici giorni dalla notifica del decreto che lo dispone, nel caso di giudizio immediato (art. 458 co.1); sempre entro 15 giorni dalla notifica (però) del decreto penale, nel caso di procedimento per decreto (art. 461 co.3); prima che siano “formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e e 422”, nel caso che il procedimento preveda l’udienza preliminare (art. 438 co.2).

Discente: Passiamo alla seconda domanda; se il giudice cervelloticamente e comunque erroneamente decide di rigettare la richiesta di giudizio abbreviato, l’imputato, contro tale decisione, può proporre impugnazione?

Docente: No, però egli può, in forza di vari interventi della Corte Costituzionale modificatori della normativa, riproporre la domanda prima dell’apertura del dibattimento, ottenendo così la celebrazione del processo con il rito speciale; comunque il giudice del dibattimento, se riterrà erronea la decisione del GIP, dovrà, nel pronunciare condanna, concedere la riduzione premiale (prevista dal co. 2 dell’art. 442).

Lezione 25 - Applicazione pena su richiesta (art. 444)

Docente: Il rito alternativo della “applicazione della pena su richiesta” – nella pratica detto anche “patteggiamento” – in sintesi consiste in questo: l’imputato individua la pena per i reati ascrittigli, che ritiene conforme alla legge penale, e la diminuisce “fino a un terzo “(ciò significa che, se ritiene giusta la pena di 90 la può diminuire al massimo di trenta) e il giudice, se ritiene la pena come diminuita “congrua”, senza procedere a una istruttoria (senza cioè esaminare l’imputato, eventuali testi, ecc.), senza ammettere le parti a una vera e propria discussione della causa (nelle forme dell’art. 523), applica la pena (così come diminuita).Più precisamente il primo, il terzo, il quarto comma dell’art. 444 recitano:Comma I (dell’art. 444): “L’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria. Comma III (dell’art. 444): “Se vi é il consenso anche della parte che non ha formulato la richiesta e non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129, il giudice, sulla base degli atti, se ritiene corretta la

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qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, nonché congrua la pena indicata, ne dispone con sentenza l’applicazione enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti. (…..)”.Comma IV (dell’art. 444): “La parte nel formulare la richiesta, può subordinarne l’efficacia alla concessione della sospensione condizionale della pena. In questo caso il giudice, se ritiene che la sospensione condizionale non può essere concessa, rigetta la richiesta”

Discente: Ma il giudice come dovrà procedere per stabilire la congruità della pena proposta dalle parti?

Docente: Prima, determinerà la pena che, ai sensi di legge, meritano i fatti e le circostanze calcolati nella “richiesta” come reato e come sue aggravanti /attenuanti.Poi, stabilisce la diminuzione di pena di cui è meritevole l’imputato. Se la pena finale, così da lui calcolata, combacia con quella “richiesta”, la applica.

Discente: Dal momento che nel rito alternativo in esame – al contrario di quel che avviene nel giudizio abbreviato – la diminuzione di pena (a cui dà diritto l’accettazione del rito alternativo) non è di un terzo secco, ma la sua ampiezza è variabile (sia pure nel massimo di un terzo), con che criteri il giudice stabilirà la congruità della diminuzione di pena “richiesta”?

Docente: Con il criterio dell’utilità per lo Stato del rito alternativo: la diminuzione dovrà essere inversamente proporzionale alla probatività delle prove raccolte dal p. m. e alla laboriosità della loro assunzione: un reo confesso potrà anche meritare le attenuanti generiche e il minimo della pena (ai sensi degli artt. 62bis, 133 C.P.), ma non avrà diritto che al minimo della diminuzione (idest, di quella diminuzione che il legislatore concede in considerazione della accettazione del rito alternativo).

Discente: Ma se si parte dal presupposto, che pena “congrua” = pena necessaria alla rieducazione del reo (v. art 27 Cost.) e questa pena (necessaria alla rieducazione) risulti dalla legge penale, non si dovrebbe considerare, direi per definizione, meno che “congrua” una pena inferiore (in quanto diminuita ai sensi dell’art.444) a quella stabilita da questa legge?

Docente: Chiaramente, sì: applicando al reo una pena “diminuita” il giudice gli applica una medicina insufficiente (a guarirlo della sua antisocialità): l’articolo 444 è espressione della “giustizia” come la può vedere, con le lenti deformate dall’utilitarismo, una società ispirata a ideali mercantili.

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Discente: Sarebbe ammissibile una “richiesta” in cui il proponente si limitasse solo a indicare: i fatti, le circostanze aggravanti e attenuanti, e la pena finale (senza indicare l’entità della diminuzione di pena, senza indicare la pena che ritiene congrua per i fatti contestati…)? insomma sarebbe ammissibile una richiesta del tipo: “Ammessi i fatti e le circostanze contestate chiedo l’applicazione di nove mesi di reclusione”?

Docente: La cosa é dubbia, ma io una siffatta richiesta, la riterrei irregolare e non conforme alla volontà legislativa, ma ammissibile (né più né meno della presentazione, in sede di discussione della causa, co. 1 art. 523, di conclusioni non accompagnate dalla loro “illustrazione”).

Discente: La parte richiedente ha l’onere di richiedere la sospensione condizionale della pena?

Docente: La parte naturalmente può: chiedere la sospensione condizionale sic et simpliciter; chiedere al sospensione condizionale subordinando alla sua concessione l’efficacia della applicazione della pena; non chiedere la sospensione condizionale.

Discente: Ma se non la chiede il giudice può lo stesso concederla?

Docente: La cosa è discutibile, ma io riterrei di si. Infatti nel comma terzo (sopra riportato) dell’art. 444 il legislatore si limita a disporre che “se la parte subordina la richiesta alla concessione della sospensione condizionale e il giudice non ritiene di concederla, egli non può “applicare la pena”, ma deve rigettare la richiesta”; quindi il comma tre non esclude per nulla che il giudice possa concedere la sospensione condizionale anche nel silenzio della parte; e del resto è naturale che tutti “i benefici” (la sospensione condizionale di cui all’art.163 C.P., il “perdono” di cui all’art.169 C.P., la “non menzione” di cui all’art.175C.P.…) siano concedibili all’imputato indipendentemente da una sua richiesta (per il che si può argomentare anche dal co. 1 dell’art.445, che prevede, come effetto automatico della sentenza quindi senza che occorra richiesta ad hoc, l’esenzione, dal pagamento delle spese processuali, dalle pene accessorie e dalle misure di sicurezza – vedi melius, la disposizione citata).

Discente: A dir il vero a me sembrerebbe addirittura pleonastico il dettato del terzo comma: è chiaro che il giudice non può procedere alla “applicazione della pena”

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contro la volontà dell’imputato e che, se l’imputato chiede la “applicazione” subordinata alla concessione della “sospensione”, non la vuole in difetto di tale concessione.

Discente: Non sono completamente d’accordo con te: nel silenzio della legge infatti, avrebbe potuto essere discutibile se la parte potesse subordinare la sua richiesta alla concessione della sospensione condizionale; questo, in quanto, il condizionare la richiesta alla concessione di un “beneficio”, tale termine latamente inteso, può costituire una sorta di pressione psicologica sul giudice a che lo conceda (e in effetti il giudice può essere portato, pur di non rigettare una richiesta di “applicazione pena” che per lui rappresenta un significativo risparmio di attività processuale, ad accogliere la richiesta di un beneficio, anche se questa molto fondata non gli appare) – mentre è invece opportuno che il giudice sia assolutamente libero da ogni condizionamento, nel decidere su “misure”, anche qui il termine dovendo essere latamente inteso, volte alla difesa sociale della comunità e alla prevenzione di nuovi reati.

Discente: Da quel che tu ora hai detto deduco che riterresti inammissibile una “richiesta” subordinata alla non applicazione o alla applicazione solo in un dato tempo limitato, di una pena accessoria o di una misura di sicurezza.

Docente: Si, con un “distinguo”: la richiesta di pena superiore ai due anni sarebbe effettivamente inammissibile; invece, quella di pena inferiore ai due anni (vedi melius l’art.445) sarebbe ammissibile per la semplice ragione ….che in tal caso nessuna pena accessoria e nessuna misura di sicurezza è dal legislatore prevista (vedi melius, l’art. 445). (Aggiungo tra parentesi, ma la cosa non manca di significato per il discorso che stiamo conducendo, che il legislatore non prevede nessuna diminuzione premiale per quel che riguarda le pene accessorie e le misure di sicurezza)

Discente: Il legislatore nel primo comma dell’art. 445, come abbiamo visto, fa la distinzione tra il caso in cui la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva ecc. e il caso in cui li superi, per farne derivare solo nel secondo caso l’applicabilità di pene accessorie e di misure di sicurezza. E’ questo l’unico effetto che da tale distinzione deriva?

Docente: Assolutamente, no. Infatti, nel terzo comma, solo nel primo caso (pena irrogata in misura inferiore ai due anni) si prevede l’estinzione del reato se durante un certo tempo, di durata diversa, a seconda che la condanna sia per delitto o per contravvenzione, il reo non ritorni a delinquere (v. melius, il comma 2 dell’art. 445).

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Discente: Ma la pena potrebbe essere anche non coperta dalla sospensione condizionale: l’estinzione del reato non può arrivare allora troppo tardiva, quando cioè il reo ha già espiata tutta la pena?

Docente: In teoria, si; in pratica data la lentezza dello Stato nell’eseguire le pene, no.E’ opportuno aggiungere, per chiudere il discorso sugli effetti penali conseguenti a una sentenza che irroghi una pena non superiore ai due anni ecc.ecc., che, sempre se il reo si astiene dal delinquere per un certo dato periodo di tempo, non solo viene estinto “ogni effetto penale”, ma “se è stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva, l’applicazione non è comunque d’ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena” (v. ult. parte del comma 2 dell’art. 445).

Discente: Cambiamo argomento. Non vi è il pericolo che un imputato chieda la “applicazione pena” pur essendo innocente?

Docente: Certo, ben può essere che un imputato ancorché innocente chieda la “applicazione pena” (metti per ignoranza del diritto, per sfiducia che la giustizia umana sappia riconoscere la sua innocenza…). E proprio per ovviare a tale pericolo il legislatore (nel secondo comma dell’art. 444) dà al giudice il potere di “pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129”. Cioè quando “riconosce che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità”.

Discente: Ma un imputato, non solo può cadere nell’errore di richiedere la “applicazione pena” in casi in cui il reato non sussiste e comunque egli meriterebbe il proscioglimento, ma può anche cadere nell’errore di chiedere l’applicazione di una pena più severa del giusto (ad esempio non riconoscendo in un fatto un’attenuante, mentre lo è, oppure ravvisando un’aggravante in un fatto mentre non lo è): in tal caso il giudice non ha il potere di diminuire la pena?

Docente: No, il nostro legislatore inspiegabilmente non ha ritenuto di attribuire al giudice un tale potere.

Discente: Ma il giudice non può neanche rigettare la richiesta per incongruità della pena?

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Docente: Effettivamente, a tutta prima sembrerebbe rimandare a una risposta positiva il secondo comma dell’art. 444, là dove dà al giudice il potere di rigettare la richiesta quando non è “congrua la pena indicata”, dato che, senza dubbio, nell’ipotesi da te fatta, la pena non potrebbe considerarsi “congrua”; ma una più matura riflessione ci porta a una risposta negativa: il giudice non potrebbe rigettare (per eccessività della pena) la “richiesta” perché, così facendo, esporrebbe inammissibilmente l’imputato al rischio che il giudice d’appello su impugnazione del p.m., o egli stesso, mutando idea in seguito all’istruttoria e alla discussione delle parti, irroghi una pena maggiore (di quella richiesta).

Discente: Come c’è il pericolo che la “richiesta” risulti ingiusta verso l’imputato, così anche c’è il pericolo che ingiustamente mortifichi l’esigenza punitiva della società: il legislatore non ha adottato cautele contro l’avverarsi di tale pericolo?

Docente: Certo che le ha adottate. Prima di tutto stabilendo che il rito alternativo, di cui stiamo trattando, non si può adottare nel caso dei reati più gravi, individuati dal fatto che la pena “congrua”, che per essi si potrebbe richiedere, “supera i cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria” (sul punto vedi il primo comma dell’art. 444). In secondo luogo imponendo implicitamente al giudice di rigettare la “richiesta” quando non ritiene “corrette” : la qualificazione giuridica del fatto (nella “richiesta” il fatto viene configurato come il reato A mentre è il reato B); l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti (la parte non ha calcolata l’aggravante di cui al co.3 art. 628 C.P., rapina aggravata dall’uso di un’arma, non ritenendo che una pistola giocattolo possa configurare un’arma); la valutazione della “congruità” della pena indicata (la parte richiedente, facendo mal governo dell’art. 133, ha ritenuto congrua la applicazione nel minimo edittale della pena, mentre invece la pena congrua è il massimo).

Discente: Ma come può il giudice stabilire la “correttezza” (l’esistenza o meno di una circostanza aggravante o attenuante …) e la congruità della pena, se non conosce i fatti di causa?

Docente: Il legislatore si è fatto carico di questo problema e ha imposto al p.m. di far avere il suo fascicolo al giudice (v. co.1 art. 447 C.P.P., art. 135 disp. att.) : il giudice quindi viene così ad avere la disponibilità e può consultare sia il fascicolo del dibattimento sia il fascicolo del p.m. - cioè si trova nelle stesse condizioni in cui si troverebbe se fosse chiamato a pronunciare sentenza in un “giudizio abbreviato”.

Discente: Ma nel giudizio abbreviato il comma quinto dell’articolo 441 gli concederebbe, nel caso si accorgesse di “non poter decidere allo stato degli atti”, di

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“assumere gli elementi necessari ai fini della decisione”: ha egli questo potere nel rito che stiamo trattando?

Docente: No, il comma 2 dell’art. 444 è chiaro e inequivocabile nell’imporre al giudice di prendere la sua decisione “sulla base degli atti”.

Discente: E allora, nel caso in cui non liquet l’esistenza del fatto reato (di una condizione di procedibilità…), di una circostanza (aggravante o attenuante)?

Docente: Bisogna a mio parere distinguere: se il giudice, avendo rilevato degli elementi che potrebbero deporre per l’inesistenza del fatto-reato, (o di una circostanza aggravante…) ha il dubbio che l’accoglimento della “richiesta” avvenga a scapito dell’imputato, egli deve ciononostante…fidarsi che la parte non abbia fatta o assentito a una richiesta contra se e deve applicare di conseguenza la pena (indicata nella “richiesta”). Se invece il dubbio è che l’accoglimento della richiesta porti a una sentenza ingiusta, ma per un errore, non a sfavore, bensì a favore dell’imputato (metti, nella richiesta non è stata calcolata l’aggravante di cui al n.1 comma tre dell’art. 628 C.P. mentre vari elementi indicano che il rapinatore minacciò con un’arma), è chiaro che il giudice non potrà fidarsi di quel che risulta dalla richiesta (soprattutto quando questa è proposta dall’imputato nel dissenso del p.m.) e dovrà rigettarla.

Discente: Mi pare che si sia sviscerato abbastanza l’art. 444: cambiamo argomento. Da chi può essere presentata la “richiesta”?

Docente: Può essere presentata dal p.m. o dall’imputato (non dal difensore, a mano che non sia munito di procura speciale – v. melius il co. 3 art. 446), congiuntamente o disgiuntamente. Però mentre l’assenso dell’imputato è sempre necessario, quello del p.m. può (come vedremo meglio postea) mancare.

Discente: Quando può essere presentata la “richiesta”?

Docente: Naturalmente, date le finalità di economia processuale che con l’adozione del rito de quo il legislatore persegue, la richiesta va presentata quando già non si è inoltrati nel dibattimento. Più precisamente il primo comma dell’articolo 446 stabilisce che “Le parti possono formulare la richiesta prevista dall’art. 444, comma 1, fino alla presentazione delle conclusioni di cui agli articoli 421, comma 3, e 422, comma 3, e fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato,

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la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabilite dall’articolo 458, comma 1”.

Discente: Sì, ma l’articolo 446 da te ora citato, non mi dice quando debbo presentare la richiesta nel caso di un procedimento per decreto penale (artt. 459 e ss) e nel caso di “un procedimento con citazione diretta” (artt. 550 ss.).

Docente: Quel che non ti dice l’articolo 446 te lo dicono il comma 3 dell’art. 461 (“Con l’atto di opposizione al decreto penale l’imputato può chiedere….l’applicazione della pena a norma dell’art. 444”) e il comma 2 dell’articolo 555 (“Prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, nel procedimento per citazione diretta, l’imputato o il pubblico ministero può presentare la richiesta prevista dall’articolo 444 comma 1”).

Discente: Tu hai accennato al fatto che all’applicazione della pena si può addivenire anche nel dissenso del p. m.. Puoi meglio spiegare cosa succede in caso di dissenso del p.m. sulla richiesta?

Docente: Nel caso di dissenso del p.m. il giudice, in prima battuta, diciamo così, non può accogliere la richiesta dell’imputato; così come ti risulta a contrario dall’incipit del comma 2 dell’art. 444 (“Se vi è il consenso anche della parte che non ha formulato la richiesta….il giudice …dispone con sentenza l’applicazione” della pena)Però il dissenso del P.M. può essere superato.

Discente: Come?

Docente: Nei modi indicati dall’art.448 che recita: “Nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice per le indagini preliminari, l’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, può rinnovare la richiesta e il giudice, se la ritiene fondata, pronuncia immediatamente sentenza. La richiesta non è ulteriormente rinnovabile dinanzi ad altro giudice. Nello stesso modo il giudice provvede dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione quando ritiene ingiustificato il dissenso del pubblico ministero o il rigetto della richiesta”.

Discente: -Ti confesserò che io trovo assai confusa la norma da te ora letta.

Docente: La trovi confusa perché in effetti è confusa. L’interpretazione che ti propongo è questa.

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Nel caso l’imputato abbia presentata la richiesta e il giudice non l’abbia accolta in considerazione del dissenso del p.m., l’imputato può rinnovare la richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Il giudice, se la ritiene fondata, pronuncia subito sentenza con cui applica la pena richiesta – ed è questa la cosa più logica perché, evitando il dibattimento, realizza quel risparmio di attività giurisdizionale a cui mira il rito alternativo de quo. Se la ritiene infondata, non la rigetta, ma riserva la sua decisione alla chiusura del dibattimento (art. 524), quando, esaurita la istruttoria dibattimentale, sentita la discussione delle parti, potrà avere le idee più chiare. Naturalmente, un’accoglimento della “richiesta” fatta al termine del processo di primo grado, non realizza appieno quell’economia processuale che il legislatore si aspetta dal rito alternativo de quo; però rappresenta un atto riparatorio verso la parte che ingiustamente si è vista, per un qualche errore, non accogliere la richiesta.

Discente: E se alla chiusura del dibattimento il giudice respinge la richiesta?

Docente: In tal caso, l’imputato potrà impugnare il suo provvedimento di rigetto, e il giudice dell’impugnazione, se ritiene fondata la richiesta potrà ancora accoglierla (nonostante che sia ormai minimo il risparmio di attività processuale che ciò comporta).

Discente: Non capisco perché mai il legislatore conceda al giudice del dibattimento il potere di accogliere la “richiesta” dell’imputato nonostante il dissenso del p.m., e lo neghi al giudice delle indagini preliminari o al giudice dell’udienza preliminare.

Docente: La spiegazione migliore di ciò, è che il legislatore ravvisa nel diniego del p.m. un sintomo che la res iudicanda non si è ancora abbastanza chiarita e addirittura teme che un callido imputato, temendo il deteriorarsi della sua posizione processuale in seguito a nuove indagini e a nuove prove, voglia inchiodare il giudice a una decisione prima che ciò accada. Di conseguenza il legislatore rimanda la decisione del giudice a un momento in cui il magma processuale dovrebbe essersi chiarificato: appunto al momento dell’apertura del dibattimento.

Discente: Una richiesta (di applicazione pena) può non trovare accoglimento sia in conseguenza di un errore del p.m., che rifiuta il suo consenso, ma anche in conseguenza di un errore del giudice (che ritiene un’aggravante dove non c’è o rifiuta un’attenuante dove c’è …): quali sono i rimedi in questo secondo caso?

Docente: Quelli indicati dal legislatore sempre nell’articolo 448 nel punto da noi sopra riportato.

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Discente: Ragionando a contrario dalla lettera dell’articolo 448, si dovrebbe concludere che – mentre la richiesta rigettata dal giudice delle indagini preliminari, per essere presa in esame dal giudice del dibattimento, deve essere riproposta prima dell’apertura di questo – la richiesta rigettata dal giudice dell’udienza preliminare, può essere presa in esame e accolta anche se non ripresentata prima dell’apertura del dibattimento: è effettivamente così, o il legislatore è caduto in un lapsus?

Docente: Io credo che sia effettivamente così e che la diversità di disciplina si possa spiegare con la convinzione del legislatore (non immune da critiche) che, la riproposizione della richiesta rigettata dal GIP, sia opportuna in considerazione ad un possibile ripensamento dell’imputato giustificato da nuove prove a suo favore – cosa che è ben difficile che accada quando già si è pervenuti all’udienza preliminare (vero è che ciò è anche difficile che accada nel caso di richiesta fatta dopo un decreto di fissazione del giudizio immediato o dopo un decreto penale, per cui ci si dovrebbe aspettare che anche in tali casi la riproposizione della richiesta non fosse ritenuta necessaria : il non aver disposto in tal senso è proprio la critica che si può muovere al legislatore).

Discente: Giunti al termine della nostra disamina del rito alternativo della “applicazione di pena su richiesta”, mi debbo accorgere che ci siamo dimenticati di dire che cosa succede nell’ipotesi che vi sia stata una costituzione di parte civile.

Docente: Te lo dice l’ultima parte del secondo comma dell’art. 444, che recita: “Se vi è costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda; l’imputato è tuttavia condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salvo che ricorrano giusti motivi per la compensazione totale o parziale. Non si applica la disposizione dell’articolo 75, comma 3”.Non va neanche detto che, per la accoglimento della richiesta di pena, non occorre e non rileva il consenso della parte civile.

Lezione 26 - Le disposizioni generali sulle impugnazioni: premessa

Docente: Le considerazioni che convincono il legislatore a rimettere alla decisione di un giudice Secundus una questione già decisa da un giudice Primus sono essenzialmente due: che il giudice Primus possa aver commesso degli errori e che il giudice Secundus sia in grado di rilevarli e di correggerli, se effettivamente esistenti.

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Discente: Questo perché più preparato e intelligente del giudice Primus?

Docente: In parte per questo, ma non soprattutto per questo. Infatti il legislatore affida la sua speranza che il giudice Secundus sia in grado di rilevare eventuali errori, in cui il giudice Primus sia caduto, soprattutto alle maggiori possibilità che gli offre di approfondire le questioni.

Discente: Gli offre come?

Docente: Con due tecniche, diciamo così. La prima, è quella di limitare le questioni che il giudice Secundus deve fare oggetto del suo esame: la causa presentava al giudice Primus le questioni A, B, C, D; ebbene, il giudice Secundus viene chiamato a pronunciarsi solo sulla questione A, mentre le questioni B, C, D vengono considerate “ben decise “dal Giudice Primus e non vengono riproposte all’esame del Giudice Secundus. Il criterio in base al quale il Legislatore opera la selezione delle questioni (quelle da devolvere all’esame del Giudice Secundus e quelle, no, lo vedremo in seguito).

Discente: Ho capito: il giudice Secundus, avendo meno questioni da studiare, le può studiare meglio. Dimmi ora la seconda tecnica, che il legislatore adotta per dare al giudice Secundus la possibilità di meglio approfondire le questioni rimessigli.

Docente: Per comprenderla devi tenere presente che al giudice Primus le questioni (da risolvere) spesso si pongono in maniera improvvisa all’udienza (quando, cioè, pressato dalla necessità di decidere varie cause, non ha tempo per approfondirle): il teste Bianchi dice questo, il teste Rossi dice quest’altro e da ciò nascono (inopinate) le questioni A, B, C; oppure, una delle parti solleva (all’udienza, non prima) una questione difficile di nullità o di costituzionalità. Ora il legislatore cerca di ottenere che non sorgano, improvvise e inopinate, delle questioni all’udienza del giudice Secundus, sia proibendo che in tale udienza si raccolgano (salvo casi eccezionali) nuove prove (il giudice Secundus non sente direttamente i testi Rossi e Bianchi ma si limita a leggere – prima dell’udienza e nella tranquillità del suo studio ! - i verbali delle testimonianze da loro rese davanti al giudice Primus) sia imponendo alle parti di indicare in un atto, che debbono depositare in cancelleria parecchi giorni prima dell’udienza (il c.d. “atto di impugnazione”), i “motivi” per cui ritengono erronea la sentenza del giudice Primus (ciò che le porta a palesare, non necessariamente sempre, ma quasi sempre, le questioni giuridiche e di fatto che al giudice Secundus intendono sottoporre).

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Discente: Quindi il giudice Secundus giudica la causa “sulle carte”; ma un conto è sentire Rossi mentre rende la sua testimonianza, un conto leggersi il verbale della sua testimonianza – verbale che può anche essere accuratissimo, ma che non può palesare quelle inflessioni della voce, quelle piccole esitazioni, quella mimica del volto che a un giudice esperto possono ben permettere di valutare l’attendibilità di ciò che viene testimoniato.

Docente: Questo è vero; e certo questo può fare cadere il giudice Secundus in errori che il giudice Primus aveva evitato. Che vuoi che ti dica ? ogni soluzione presenta dei pro e dei contro, e il legislatore ritiene evidentemente che i vantaggi (per l’accertamento della verità) che le tecniche, che ti ho illustrato, presentano, superano i svantaggi (che pure indubbiamente comportano).

Discente: Ma se così è, se il legislatore ritiene che un nuovo esame delle questioni che una causa presenta possa diminuire le probabilità di una sua erronea decisione, debbo concludere che il legislatore sempre demandi a un giudice Secundus tutte le questioni decise dal giudice Primus.

Docente: No, dicendo questo non rifletti che, se mai il legislatore ammettesse un riesame di tutte le cause e di tutte le questioni che presenta una causa, verrebbe a gravare il giudice che deve procedere a tale riesame, il giudice Secundus, di un tale carico di lavoro da rendergli impossibile quell’approfondimento su cui, come abbiamo prima visto, si basano invece le migliori chances ch’egli ha, rispetto al giudice Primis, di non cadere in errore. E’ chiaro che il legislatore, se vuole mantenere l’efficienza e l’utilità del processo in corte di appello o in corte di cassazione - per riferirci direttamente ai due principali giudizi in cui nel nostro ordinamento si compie il riesame di una precedente sentenza – deve compiere una selezione delle cause e delle questioni per cui ammettere l’appello e il ricorso per cassazione.

Discente: E in base a quali criteri compie tale selezione?

Docente: Il primo criterio, e il più ovvio, è dato dal comportamento delle parti interessate di fronte alla decisione del giudice: se nessuna di esse muove lagnanze contro questa decisione, è poco probabile che essa sia erronea, quindi sarebbe contrario al principio di economia dell’attività processuale impegnare il tempo e l’attività del giudice Secundus nel riesaminarla. E’ in base a questa considerazione che il legislatore ammette il riesame di una questione solo se contro questa le parti

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hanno proposta impugnazione (e naturalmente se a questa impugnazione poi non hanno rinunciato - così come gliene dà la possibilità l’art. 589).

Discente: Da che risulta questo?

Docente: Da nessuna espressa disposizione; ma si argomenta dal fatto che il legislatore non parla mai di “casi nei quali i provvedimenti del giudice sono sottoposti a un riesame”, ma di “casi in cui i provvedimenti del giudice sono soggetti a impugnazione” (vedi co.1 art. 568)

Discente: Ma una parte può non lamentarsi dell’erroneità di una decisione solo perché troppo ignorante (di cose giuridiche) o troppo stupida per scoprirla.

Docente: Questo è vero; ed è per questo che il legislatore dà il potere di impugnare, pur nell’inerzia dell’imputato, sia al suo difensore (v. co. 3 art. 571) sia, bada, anche al pubblico miniestero (sì, perché l’art. 570 va interpretato nel senso che il p.m. possa impugnare, non solo per ottenere una riforma in danno dell’imputato, ma anche per ottenere una riforma in suo favore).

Discente: Va bene: l’esistenza di una lagnanza o meno delle parti contro la decisione del giudice, è un criterio valido per ammettere o escludere il riesame di questa decisione. Penso che non sia il solo, però.

Docente: E in effetti ce ne sono altri due. Il primo di questi tiene conto, sia della innocuità degli eventuali errori contenuti nel provvedimento del giudice (e sul punto ci diffonderemo commentando il co.4 dell’art. 568, che nega il potere di impugnare alla parte che non vi ha interesse: ed è ovvio che manca l’interesse della parte a impugnare un provvedimento per lei innocuo), sia della possibilità che l’eventuale errore (contenuto nel provvedimento del giudice) si riveli innocuo.

Discente: Un esempio di questa seconda ipotesi.

Docente: Il giudice non ammette una prova richiesta dalla difesa: commette un errore, però un errore che, qualora poi il giudice assolvesse l’imputato, si rivelerebbe innocuo (rendendo, per quanto poco più sopra detto, inoppugnabile il provvedimento): allora perché non dar tempo …al tempo? E’ la soluzione che, come vedremo, il legislatore segue per le ordinanze dibattimentali (per cui l’art. 586 ammette l’impugnazione solo dopo che è stata emessa la sentenza, cioè solo quando si chiarisce se sono risultate lesive, o no, per la parte).

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Discente: E ora parla del secondo o meglio terzo criterio che un legislatore può tenere presente per escludere l’impugnabilità di un provvedimento del giudice.

Docente: Questo terzo criterio fa conto dell’entità del danno che, da un eventuale errore, alla parte può conseguire: se questo danno è bagatellare, cioè di così poco conto da non giustificare la perdita di tempo del giudice superiore per individuarlo e correggerlo, il legislatore non ammette l’impugnazione. Esempio di ciò te lo dà il co. 3 dell’art. 593, che non ammette l’appello per sentenze di condanna alla sola ammenda.

Discente: Se il legislatore ritiene che il tempo e il lavoro della Corte di Appello sia troppo prezioso per sprecarlo nella correzione di un errore dalle conseguenze bagatellari, a maggior ragione riterrà che sia troppo prezioso il tempo della Corte di Cassazione per impiegarlo nella individuazione di un tale tipo di errore (bagatellare).

Docente: E invece no. Il legislatore ammette il ricorso per cassazione contro ogni sentenza anche se può produrre solo un danno bagatellare (vedi il co. 2 dell’art. 568 e il co.7 dell’art. 111 della Costituzione).

Discente: Mi riesce difficile spiegare la cosa.

Docente: Neanche a me riesce facile spiegarla. Tuttavia una spiegazione si può trovare nel fatto che il ricorso per cassazione è ammesso, in sintesi, solo per errore di diritto e per omessa motivazione. Ora che la Cassazione spenda il suo tempo a correggere un errore di diritto (anche se dalle conseguenze bagatellari per la parte) si può giustificare col fatto che, il riaffermare la giusta interpretazione che deve darsi a una Legge, corrisponde sempre all’interesse generale (in quanto evita che l’erronea interpretazione si ripeta e si propaghi).

Discente: E che la Corte spenda il suo tempo prezioso per annullare una sentenza viziata da omessa o contraddittoria motivazione? qui trovare una giustificazione é…più dura.

Docente: Più dura ma non impossibile: tale giustificazione potrebbe essere vista nel fatto che la minaccia di un ricorso in cassazione serve come arma alle parti per costringere il giudice a quella meditata ed equa decisione (che è doverosa anche quando le conseguenze di un errore sarebbero bagatellari).

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Lezione 27 - Sempre sulle disposizioni generali relative alle impugnazioni: il principio di tassatività

Docente: Il principio di tassatività in materia di impugnazione è espresso dal 1° comma dell’art. 568, che recita. “La legge stabilisce i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti a impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati”.Quindi in realtà il 1° comma dell’art. 568 contiene due diversi principi di tassatività: uno che vuole limitata solo ai provvedimenti, per cui è espressamente prevista, la possibilità di una loro impugnazione; e l’altro che vuole limitata l’impugnazione (quando è prevista) di un provvedimento solo ai mezzi (di impugnazione) espressamente indicati.

Discente: Che cosa si intende per mezzo di impugnazione?

Docente: Il legislatore può concedere, sì, alla parte di impugnare, ma ponendole diversi limiti e imponendole diverse procedure. Ad esempio, abbiamo visto che contro una sentenza di condanna all’ammenda il legislatore ammette la parte a tentare solo il ricorso per cassazione – il che significa che la parte: potrà chiedere il riesame della sentenza solo per certi “motivi” (quelli indicati nell’art. 606), dovrà farsi rappresentare in giudizio da un avvocato “cassazionista”, dovrà insomma seguire tutte le norme procedurali espresse nell’art.606 e segg. Se invece la sentenza fosse di condanna, non alla ammenda, ma metti alla reclusione, il legislatore ammetterebbe la parte a tentare (prima ancora che il ricorso per cassazione) l’appello.

Discente: E in pratica cosa significherebbe per la parte l’essere ammessa ad appellare?

Docente: Significherebbe poter essere difesa in giudizio anche da un avvocato non “cassazionista, non essere più jugulata, nel chiedere il riesame, dai motivi di cui all’art. 606 ma poter devolvere al giudice superiore ogni punto della sentenza sia per motivi di fatto che di diritto, e, insomma, significherebbe dover seguire le norme procedurali (non più dell’ art. 606 e segg., ma) dell’ art.593 e segg. Ora l’appello, il ricorso per cassazione (così come anche il ricorso per revisione di cui all’ art. 629 e segg., l’opposizione a decreto penale, di cui all’art. 461….) sono i “mezzi di impugnazione” di cui parla l’art. 568.

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Discente: Ora ho le idee più chiare, ma l’avrei ancor più chiare se tu mi portassi qualche esempio di disposizione che prevede l’impugnazione e il mezzo con cui può essere esercitata.

Docente: Pensa all’art. 310 co.1 che recita: “(…) il pubblico ministero, l’imputato, e il suo difensore possono proporre appello contro le ordinanze ….”. Pensa all’art. 311 co.1 che recita: “Contro le decisioni emesse a norma degli articoli 309 e 310, il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore possono proporre ricorso per cassazione…”. Se, poi, vuoi un esempio di provvedimento per cui non è ammessa nessuna specie di impugnazione pensa all’ordinanza (prevista dall’art.81) che espelle dal processo chi vi si era costituito parte civile.

Discente: Io comprendo perché il legislatore stabilisce il principio di tassatività: se si potesse arrivare all’impugnabilità di un provvedimento anche in base a una interpretazione analogica, data la inevitabile soggettività di questa, si verrebbe a costruire l’impugnazione su basi fragili e incerte (e tale incertezza renderebbe esitante la parte nell’impugnare e soprattutto il giudice nel giudicare: “Sì, io, giudice di appello, in forza di un’interpretazione analogica della norma A, ammetto l’impugnazione, però la Corte di Cassazione darà alla norma A la mia stessa interpretazione?”. E un lavoro, nel caso il lavoro di riesame della precedente decisione, fatto col sospetto che i suoi frutti non siano raccolti ma gettati nel nulla, inevitabilmente sarà fatto male !). Tutto questo lo comprendo, però mi domando, com’è possibile che un legislatore sia tanto bravo da prevedere tutti i provvedimenti che meritano la impugnazione? Mi pare inevitabile che ci siano dei casi, in cui il legislatore non ha previsto l’impugnazione di un provvedimento, per la semplice ragione che non ha previsto che potesse essere emesso un tale provvedimento erroneo.

Docente: Certo, tali casi ci sono. Basta pensare al caso in cui il GUP (giudice dell’udienza preliminare) rigetta un’istanza di giudizio abbreviato secca (cioè non condizionata). Ora, non essere ammesso al rito alternativo del giudizio abbreviato, costituisce certamente per l’imputato un gravissimo danno (gli fa perdere il beneficio della riduzione di un terzo della pena in caso di condanna!). E’ chiaro quindi che un’eventuale errore del giudice, nel negare il giudizio abbreviato, deve avere un rimedio. Però il legislatore non prevede nessun rimedio, nessuna possibilità di impugnazione, nel caso di rigetto di un’istanza di giudizio abbreviato (prevede, sì, dei rimedi, ma solo per il rigetto di istanza condizionata).

Discente: E allora?

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Docente: E allora si è ritenuto giusto fare una deroga al principio di tassatività ed ammettere contro il provvedimento di rigetto il ricorso in cassazione. Questo in base al ragionamento: “Il legislatore non ha data alla parte la possibilità di impugnare la ordinanza di rigetto solo perché non poteva prevedere che un giudice potesse rigettare un’istanza non condizionata di giudizio abbreviato: se l’avesse previsto, certamente avrebbe ammesso l’impugnazione”.

Discente: Ma sempre, in tutti i casi in cui si stabilisce un divieto di analogia si accetta il rischio che eventuali lacune legislative non possano essere corrette!

Docente: E’ così; ma….ambasciator non porta pena: io riferisco solo il tipo di ragionamento che si fa, per rimediare ad una lacuna dovuta al principio di tassatività, ragionamento che si può sintetizzare così: il principio di tassatività non vale per i provvedimenti “abnormi”.

Discente: E sono molti i provvedimenti che la giurisprudenza considera abnormi?

Docente: Non molti, ma moltissimi. E infatti la giurisprudenza ha costruito – oltre alla categoria dei provvedimenti viziati da “abnormità strutturale” in quanto hanno, come quello che or ora abbiamo portato ad esempio, un contenuto, una struttura diversa da quella prevista e prevedibile dal legislatore – la categoria dei provvedimenti viziati da “abnormità funzionale” in quanto si pongono come macigni sulla strada del procedimento impedendone il funzionamento.

Discente: Un esempio di abnormità strutturale tu l’hai già dato; sarebbe ora opportuno che tu ne dessi un altro, ma di abnormità funzionale.

Docente: Un primo esempio di caso in cui è stata ritenuta l’abnormità funzionale è questo: il GIP, richiesto di un decreto di archiviazione (art. 408), rigetta la richiesta e (interpretando erroneamente il co.5 dell’art.409) ordina al p.m. (non di formulare l’imputazione in uno dei vari modi previsti dall’art. 405, ma) di richiedere il rinvio a giudizio (così pretendendo di inibire al p.m.: la richiesta del decreto penale, quella di giudizio immediato…); il p.m. rifiuta di richiedere il rinvio a giudizio.

Discente: Oh bella, e allora che succede? il processo si blocca?

Docente: No, perché la corte di cassazione ritiene che nel caso ci si trovi, appunto, di fronte a un caso di “abnormità funzionale”, che autorizza la deroga al principio di tassatività; e di conseguenza ammette il p.m. a impugnare la ordinanza del GIP con il ricorso in cassazione.

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Un secondo esempio (di ritenuta abnormità funzionale): il giudice del dibattimento, ritenendo che la notifica del decreto di citazione emesso dal GIP (artt. 424 e 429) sia nulla, dispone la trasmissione degli atti a questi a che rinnovi la notifica del decreto. Il GIP si rifiuta, ritenendo (giustamente !) che a provvedere alla nuova notifica sia competente il giudice del dibattimento: come uscire dall’impasse? La risposta della corte di cassazione è: se ne esce ritenendo l’abnormità (funzionale) dell’ordinanza del giudice del dibattimento e ammettendo contro di essa il ricorso del GIP.

Discente: Dagli esempi da te portati direi che nei casi di abnormità funzionale si determina una situazione assai simile a quella che si verifica in ipotesi di conflitto negativo di competenza (previsto dagli artt. 28 e segg.). Per cui mi domando: non si sarebbero potuti risolvere i casi da te esemplificati molto semplicemente con un richiamo al co.2 dell’art. 28?

Docente: Anche secondo me il richiamo al co.2 dell’art.28 (che permette di adottare, il meccanismo di soluzione dei conflitti negativi o positivi tra giudici, ai “casi analoghi”) sarebbe pertinente; ma evidentemente tale non lo ritiene la corte di cassazione. Non ti saprei dire perché. E in fondo poco importa quale delle due strade si batte (richiamo all’art 28 o al concetto di abnormità funzionale): quel che importa che entrambe portano allo stesso risultato: l’ammissibilità dell’impugnazione.

Discente: Mi ricordo che del principio di tassatività si parlava anche a proposito delle nullità (art. 177); però lì la rigorosità di tale principio veniva temperata dalla previsione di “nullità di ordine generale” (art. 178): accade lo stesso anche in materia di impugnazione? il legislatore prevede categorie generali di provvedimenti contro cui è ammessa sempre l’impugnazione?

Docente: Si; infatti l’art. 568, dopo aver affermato nel suo primo comma il principio di tassatività, nel suo secondo comma recita: “Sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze, salvo quelle sulla competenza che possono dare luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell’art. 28”.

Discente: Evidentemente tale disposizione è sulla scia del co.7 dell’art. 111 della Costituzione, il quale recita: “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”.

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Docente: Si, l’art. 568 del codice rispecchia l’articolo 111 della Costituzione, ma lo supera in garantismo: infatti ammette il ricorso alla Corte di cassazione, non solo per violazione di legge, ma per tutti i motivi indicati nell’art. 606 (quindi anche per difetto e contraddittorietà della motivazione - salvo il caso che si tratti di sentenza di conferma di altra di proscioglimento, per cui vale il disposto del co.1bis art.608).

Discente: Però è anche vero che alla ricorribilità in cassazione opera una vistosa eccezione per le “sentenze sulla competenza che possono dar luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell’art. 28”.

Docente: Un’eccezione più apparente che reale. Infatti i casi sono due: o la sentenza di incompetenza del giudice A (a favore del giudice B) dà luogo a un conflitto (negativo – in quanto il giudice B si dichiara a sua volta incompetente) oppure non lo dà. Nel primo caso, la questione sulla competenza sarà sottoposta all’esame della Corte di Cassazione attraverso il meccanismo previsto dall’art. 30; nel secondo caso (nel caso cioè in cui non sorga il conflitto in quanto il giudice B si ritiene competente), le parti potranno pur sempre portare davanti alla Corte di Cassazione la questione di competenza impugnando la sentenza del giudice B (melius, l’ordinanza con cui il giudice B ha rigettato l’eccezione di incompetenza e la sua sentenza).

Discente: Ma tu fai il caso in cui A si dichiari incompetente (così potenzialmente dando luogo a un conflitto negativo di competenza); ma se A invece si dichiara competente?

Docente: Se una parte eccepisce l’incompetenza del giudice A e questi si ritiene competente, egli lo dichiara con ordinanza e non con sentenza. Ordinanza che poi la parte potrà impugnare, alla fine del processo, insieme alla sentenza (per cui anche nel caso di ritenuta competenza la decisione del giudice non verrà alla fine sottratta a un ulteriore controllo giurisdizionale – controllo, prima, eventualmente della Corte di appello e, poi, della Corte di Cassazione). E con ciò siamo venuti a parlare dell’impugnabilità dell’ordinanze dibattimentali e dell’art. 586 che la disciplina e di cui ti prego di leggere il suo primo comma.

Discente: Primo comma dell’art.586: “Quando non è diversamente stabilito dalla legge, l’impugnazione contro le ordinanze emesse nel corso degli atti preliminari ovvero nel dibattimento può essere proposta, a pena di inammissibilità, soltanto

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con l’impugnazione contro la sentenza. L’impugnazione è tuttavia ammissibile anche se la sentenza è impugnata soltanto per connessione con l’ordinanza.”

Docente: Come vedi il primo comma dell’articolo 586 contiene in realtà, non una, ma due disposizioni. Con la prima, il legislatore ammette la impugnabilità, delle ordinanze emesse nel dibattimento, a prescindere da una specifica norma che, tale impugnabilità, dichiari. Ad esempio il quarto comma dell’art. 80 non ti dice che l’ordinanza, con cui il giudice ammette nel processo la parte civile, è impugnabile: tuttavia tale puoi considerarla in forza della norma di carattere generale contenuta nell’art. 586. Insomma quest’articolo, come già abbiamo visto fare il 2° comma dell’art. 568, enuncia una regola generale che mitiga il rigore del principio di tassatività delle impugnazioni.Con la seconda disposizione, il legislatore stabilisce che, sì, le ordinanze de quibus sono impugnabili, ma non immediatamente, bensì solo contestualmente alla sentenza. Il che è ovvio: se fosse ammessa l’impugnazione immediata, si rischierebbe di far fare un lavoro inutile al giudice “superiore”.

Discente: Perché?

Docente: Il perché te lo spiego con una sorta di ragionamento ad absurdum, cioè partendo dal (falso) presupposto che il legislatore ammetta l’impugnazione immediata delle ordinanze: il giudice A, all’inizio del processo, emette ordinanza dichiarativa della contumacia dell’imputato; io, difensore, appello (dato che, partendo dal falso presupposto di cui ho detto, il legislatore me lo permette); la corte di appello (o la corte di Cassazione) mi dà ragione: “Sì, il difensore ha ragione: il giudice chiaramente doveva ritenere la nullità del decreto di citazione e non dichiarare la contumacia”: bene, ma nel frattempo l’imputato è stato assolto: non era meglio aspettare la conclusione del processo, che la sentenza fosse emessa, prima di far perdere tempo e fatica al giudice “superiore”?

Discente: Ma, posticipando il controllo delle ordinanze alla conclusione del processo, si rischia di far perdere inutilmente tempo e fatica al giudice A, che ha emessa l’ordinanza: egli prosegue nel processo assumendo prove, risolvendo (altre) questioni e poi una sentenza del giudice “superiore” gli annulla tutta la attività compiuta: non sarebbe stato meglio ammettere l’impugnabilità immediata dell’ordinanza del giudice A e stabilire la sospensione del processo (davanti al giudice A) fino a che, su tale ordinanza, non fosse intervenuta una decisione?.

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Docente: Ma di ordinanze nel corso del dibattimento ce ne può essere ben più di una: se per ognuna di queste si ammettesse l’impugnazione con relativa sospensione del processo, il risultato sarebbe un …processo a singhiozzo e un aumento esponenziale del tempo occorrente per concluderlo. No, secondo me, il legislatore ha fatta la scelta giusta !

Discente: Ma nel caso di un’ordinanza che applichi una misura cautelare? Le misure cautelari incidono subito, e non dopo la chiusura del processo, sulla libertà (custodia cautelare in carcere, divieto di espatrio…), sui poteri (sospensione della potestà genitoriale…), sul patrimonio (sequestro preventivo…): possibile che il prevenuto sia costretto ad aspettare la fine del processo (quindi anche parecchi mesi!) prima di poterle impugnare?

Docente: Il nostro legislatore è meno sprovveduto di quel che tu pensi: e almeno per quel che riguarda “le ordinanze in materia di libertà personale” fa una deroga alla regola della posticipazione dell’impugnazione, con il terzo comma dell’art. 586, che recita: “Contro le ordinanze in materia di libertà personale è ammessa l’impugnazione immediata, indipendentemente dall’impugnazione contro la sentenza”.

Lezione 28 - Sempre sulle disposizioni generali relative alle impugnazione: Le parti legittimate ad impugnare – L’interesse ad impugnare

Docente: Così come il codice stabilisce tassativamente i provvedimenti (del giudice) che possono essere impugnati, così ancora tassativamente stabilisce i soggetti legittimati ad impugnarli Ecco come precisamente recita il 3° comma dell’art. 568: “Il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce. Se la legge non distingue tra le diverse parti, tale diritto spetta a ciascuna di esse”.

Discente: Quindi può accadere che il legislatore ammetta, sì, l’impugnabilità di un provvedimento, ma conceda, poi, il diritto di impugnarlo solo alla pubblica accusa e non anche alla difesa; e viceversa.

Docente: Può accadere ed è piuttosto logico che accada; dato che l’interesse che due soggetti possono avere ad impugnare un dato provvedimento può essere di diversa intensità e quindi meritare, uno, di essere tutelato (con la concessione del

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potere di impugnare) e l’altro, no: pensa ad esempio ad una sentenza di condanna: è ben presumibile (e dicendo questo io mi baso sull’id quod plerumque accidit, dato che ci possono ben essere dei casi in cui non è così) che l’interesse dell’imputato a impugnare sia maggiore di quello del p.m.: il primo lotta per liberarsi da una “pena”, il secondo (solo) per ottenerne una maggiore afflittività. E questo forse può spiegare perché contro le sentenze emesse dal GUP a definizione di un giudizio abbreviato sia ammesso solo l’appello dell’imputato e non del p.m. (v. art. 593 e art. 443 co.3).

Discente: Quando il legislatore decide di non tutelare l’interesse di una parte all’impugnazione naturalmente lo fa per ragioni di economia processuale, per non gravare il giudice “superiore” di troppe cause: è vero?

Docente: E’ vero; e il fatto che la decisione di escludere il potere di impugnare in un soggetto nasca da un delicato bilanciamento tra l’interesse (ad impugnare) di questo e l’interesse dello Stato (a economizzare l’attività giurisdizionale) spiega perché tale decisione non tolleri un’interpretazione analogica.

Discente: Il legislatore concede il diritto ad impugnare solo alle parti del processo oppure anche a chi, al processo, è rimasto estraneo?

Docente:. Solo alle parti.

Docente:. La cosa in fondo mi pare logica e naturale: chi è rimasto estraneo al processo non può essere “pregiudicato” dalla sentenza che lo conclude.

Docente:. Io non la farei così semplice: in realtà può ben essere che anche chi è rimasto estraneo al processo venga ad essere pregiudicato dalla sentenza che lo definisce. Pensa al danneggiato che si sia astenuto dal costituirsi parte civile nella causa: la sentenza di proscioglimento che la definisce potrebbe essere adottata con una “formula terminativa” che lo pregiudica in quanto vincola (vedi melius l’art. 652) il giudice civile che in futuro fosse adito (pensa, come ad esempio, alla formula “il fatto non è stato commesso dall’imputato”); eppure non gli è riconosciuto il diritto di impugnare (può solo sollecitare, ai sensi dell’art. 572, il p.m. a proporre impugnazione).

Discente: E’ come se l’articolo 2909 del Codice civile estendesse gli effetti della sentenza (del giudice civile) anche a chi non ha partecipato al processo civile: non mi pare giusto !

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Docente:. Ma, attenzione ! non è che l’articolo 652 produca indiscriminatamente i suoi effetti su tutti coloro che pur “danneggiati dal reato” sono rimasti estranei al processo: in realtà se leggi attentamente l’articolo 652 vedi che questo estende gli effetti della sentenza al danneggiato “sempre che…sia stato posto in condizioni di costituirsi parte civile “(il che ad esempio non sarebbe qualora non gli fosse stata notificata la richiesta di rinvio a giudizio – v. il co.1 art. 419).

Discente: Anche così tanto giusta non mi sembra la cosa: è come se l’art. 2909 del codice civile estendesse gli effetti (della sentenza civile) anche a coloro che avrebbero potuto intervenire nella causa: assurdo.

Docente:. Forse hai ragione; ma questo è il chiaro senso della legge processuale penale et de hoc satis. E’ importante invece notare che, mentre certe volte non può impugnare chi pur ne avrebbe interesse, sempre per impugnare bisogna avervi interesse. Lo afferma il co.4 dell’articolo 568 recitando: “Per proporre impugnazione è necessario avervi interesse”.

Discente: Ma com’è immaginabile che una persona, che non vi ha interesse, perda tempo e denari per impugnare una sentenza?! Se una persona impugna una sentenza vuol dire che vi ha interesse!

Docente: Messa così la questione, è difficile darti torto. Il fatto è, però, che il legislatore nella disposizione citata minus dixit quam voluit: non è che il legislatore vuole che l’impugnante sia portatore di un interesse ad impugnare: egli vuole che sia portatore di un interesse qualificato ad impugnare. Ma qui vengono i guai, dato che il legislatore si “dimentica” poi di dirci quale sia questo interesse qualificato che legittima l’impugnazione.

Discente: E allora?

Docente: E allora ogni tesi è sostenibile e il povero interprete è costretto…a navigare nel buio. E poca luce gli porta la formuletta (adottata dalla Corte di cassazione) secondo cui l’interesse, per legittimare all’impugnazione, deve essere “attuale e concreto”. Di certo si può dire che non legittimerebbe l’impugnazione un interesse meramente scientifico (il p.m. appella perché “la pena è, sì, giusta, però doveva essere ritenuto il reato A e non il reato B”). Meno certo, ma abbastanza certo, é che l’impugnazione neanche sarebbe legittimata da un mero interesse morale (l’imputato impugna

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perché, sì, nel dispositivo lo si assolve dal reato di sfruttamento della prostituzione, però nella motivazione lo si indica come un assiduo frequentatore di prostitute).Dovendo esprimere il mio pensiero io riconoscerei che l’interesse ad impugnare è degno di tutela (o, per seguire la formula del 4° comma dell’art. 568 citato, che “esiste un interesse ad impugnare”) solo quando l’impugnazione mira, modificando la sentenza, ad eliminare effetti giuridici pregiudizievoli all’impugnante.

Discente: Quindi tu ammetteresti l’impugnazione di una sentenza di proscioglimento solo quando potrebbe esporre l’imputato ad una misura di sicurezza; e a prescindere da questa ipotesi non ammetteresti l’impugnazione di nessuna sentenza di proscioglimento.

Docente: No, perché io intendo l’espressione “effetto giuridico pregiudizievole” in senso lato, comprensivo cioè dei casi in cui l’accertamento (di fatto o di diritto) contenuto nella sentenza penale vincola altra autorità, poco importa se amministrativa o giurisdizionale, a uniformarsi ad esso nelle sue decisioni. Per cui io, ad esempio, ammetterei l’impugnazione di una sentenza assolutoria, anche se tale impugnazione fosse solo diretta ad escludere un fatto ritenuto (nella motivazione) dal giudice penale rilevante per la sua decisione (vedi melius l’art. 654), qualora da quel fatto potessero derivare obblighi o comunque conseguenze negative per l’impugnante (in sede civile o amministrativa).

Discente: Però così si corre il rischio di mettere in moto la macchina della giustizia per stornare un danno solo potenziale, che poi nessuno avrebbe intenzione in realtà di provocare: io, imputato, impugno la sentenza perché escluda l’esistenza del fatto A, contenuto nella motivazione penale, perché tale fatto potrebbe essere fatto valere contro di me in un giudizio civile o amministrativo ma….a nessuno in realtà passa per la testa di farlo valere ecc. ecc.

Docente: Questo è vero e probabilmente la Corte di Cassazione ha presente questo aspetto della questione quando richiede che l’interesse (ad impugnare) sia “attuale”. D’altra parte, come può la Giustizia chiudere, a chi si rivolge a lei, la porta in faccia, dicendo “aspettiamo che uno faccia valere contro di te quel fatto e allora, sì, accerteremo se il giudice penale (di primo o secondo grado) ha fatto bene a ritenerlo esistente”? e se il giudizio (davanti al giudice civile o amministrativo) sorgesse quando …i termini per impugnare e modificare l’accertamento contenuto nella sentenza penale fossero ormai scaduti?

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Discente: Dal fatto che l’impugnazione è ammessa solo se chi la propone vi ha interesse, si dovrebbe dedurre che né il difensore né il p.m. hanno diritto di impugnare.

Docente: Certamente né il p.m. né il difensore hanno un interesse personale a impugnare, però il legislatore in base ad una fictio, attribuisce al primo quell’interesse “alla osservanza delle leggi e alla pronta e regolare amministrazione della giustizia”(su cui gli impone di “vegliare” l’art. 73 dell’Ordinamento giudiziario e) che lo legittima a impugnare in ogni caso in cui la legge dal giudice sia stata disapplicata (e poco importa che sia stata disapplicata a favore o in danno dell’imputato), e attribuisce al secondo lo stesso interesse del suo assistito, l’imputato, ciò che lo legittima a impugnare tutte le volte che questi, ad impugnare, avrebbe interesse

Discente: Ma il difensore può impugnare anche se l’imputato non gliene ha dato incarico?

Docente: Ti risponde positivamente il 3° comma dell’art. 571, che recita: “Può inoltre proporre impugnazione il difensore dell’imputato al momento del deposito del provvedimento”. Lo stesso comma 3 però aggiunge anche nella sua ultima parte: “ovvero il difensore nominato a tal fine”. Cioè il nostro Ordinamento prevede una impugnazione effettuata dal difensore, sia motu proprio sia (come detto nell’ultima parte del co.3 ora citata) su mandato dell’imputato.

Discente: E all’imputato viene concesso il diritto di impugnare direttamente, cioè senza il tramite dell’uomo di legge; oppure (così come avviene nel processo civile) si esclude il potere di denunciare l’erroneità di una sentenza a chi, digiuno di ogni nozione giuridica, non è in grado di operarne una competente critica ?

Docente: Sì, all'imputato viene concesso il diritto di impugnare, ma non per adire la Corte di Cassazione. In tal senso dispone l'art. 571, che recita: “Salvo quanto disposto per il ricorso per cassazione dall'art. 613, comma 1, l’imputato può proporre impugnazione personalmente o per mezzo di un procuratore speciale (…)”. Come vedi nel processo penale, non solo l’imputato, ancorché incolto nel diritto, può impugnare, ma può dare procura di impugnare ad altra persona (anche se non è un uomo di legge ma una persona, nella legge, incolta come lui).

Discente: Dunque può capitare che propongano impugnazione sia il difensore che l’imputato: allora che succede?

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Docente: Succede che le due impugnazioni si integreranno l’una con l’altra.

Discente: E se vi fosse contrasto tra l’una e l’altra? Ad esempio il difensore ha chiesto il proscioglimento perché il fatto non sussiste e l’imputato solo la sospensione condizionale della pena?

Docente: Prevarrebbe la impugnazione dell’imputato. Ciò si argomenta dal 4° comma dell’articolo 571 in esame, che recita: “L’imputato, nei modi previsti per la rinuncia, può togliere effetto all’impugnazione proposta dal suo difensore”. Chiaro che se tu, imputato, puoi togliere effetto all’impugnazione del tuo difensore con una dichiarazione espressa; lo potrai togliere anche con un atto di impugnazione che contrasti, in maniera non meno evidente e inequivoca di una dichiarazione espressa, con l’atto del tuo difensore. Però, ripeto, il contrasto (tra le due impugnazioni) deve essere evidente e inequivoco; così come evidenti e inequivoche, per una comunis opinio, debbono essere le dichiarazioni con cui la parte – per quel che qui interessa, l’imputato - toglie effetto (ai sensi del 4° comma ora citato) all’impugnazione del difensore o sic et simpliciter rinuncia ad impugnare (ai sensi dell’art. 589). E nell’esempio da te fatto io negherei l’esistenza di un tale inequivoco contrasto.

Discente: Ma se il difensore, un uomo di legge, ha impugnato, c’è da presumere che egli abbia rilevato qualche errore nella sentenza: ora il legislatore lascia che passi in giudicato una sentenza su cui pesa il sospetto di un errore? e questo solo perché l’imputato così vuole? e se l’imputato accettasse di essere condannato per omicidio allo scopo di coprire il vero colpevole?! A me sembra che, come l’imputato deve essere assolto anche se si dichiara colpevole, così la sentenza, che lo condanna ingiustamente, vada riformata anche se l’imputato non lo vuole.

Docente: Puoi anche aver ragione de iure condendo; ma de iure condito devi almeno ammettere che vi è una coerenza nel nostro Ordinamento: infatti il 4° comma dell’art. 571 è in perfetta linea con il 2° comma dell’art. 99 che recita: “L’imputato può togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all’atto compiuto dal difensore prima che, in relazione all’atto stesso, sia intervenuto un provvedimento del giudice”.

Discente: Ma quale inconveniente può comportare l’impugnazione del difensore se non un aumento delle spese di causa?

Docente: Il più delle volte è così; ma, bada, non sempre è così: possono darsi casi in cui l’esito dell’impugnazione può essere disastroso per l’imputato in quanto gli

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brucia, gli consuma il suo diritto ad impugnare. Questo può succedere quando l’imputato è contumace (ed è per questo che la concessione al difensore del potere di impugnare motu proprio in caso di contumacia dell’imputato fu oggetto di vivacissimi contrasti: non pochi la disapprovarono)

Discente: Non capisco come l’inconveniente da te denunciato possa in pratica verificarsi.

Docente: Te lo spiegherò con un esempio. Il tribunale condanna Mustafà, rimasto (particolare importante) contumace nel processo. Il solerte difensore propone appello. Ora metti che Mustafà nulla sapesse della sentenza che lo ha condannato, perché nessuno si è preso cura di notificargli l’estratto contumaciale di cui al comma 3 dell’art. 548: in tal caso egli dovrebbe considerarsi in termini per proporre appello (infatti fino a che l’estratto contumaciale non è notifica all’imputato, per questi i termini non decorrono – controlla l’art. 585 lett.d). Però, ecco il punto, se egli propone il suo appello quando già è calata sull’appello del difensore una sentenza, ebbene la sua impugnazione va considerata inammissibile.

Discente: E’ una soluzione assai dura per il povero Mustafà !

Docente: Dura ma necessaria per evitare facili elusioni del principio del giudicato penale: io, Mustafà, (anche se non mi è stato notificato l’estratto contumaciale) so del processo, ma fingo di non saperne niente: il mio difensore, con me d’accordo, fa appello, con il retropensiero: “se l’appello va bene, bene; se no, si ritenta facendo valere la nullità dell’estratto contumaciale”. Questo è un gioco a cui non si può dare spazio !

Discente: Ora capisco perché la concessione all’imputato della facoltà di impugnare può dare luogo in alcuni casi a gravi inconvenienti. Ma allarghiamo l’ambito del nostro discorso. Fino adesso abbiamo parlato del difensore dell’imputato; ma il difensore delle altre parti processuali (la parte civile, il responsabile civile, il civilmente obbligato per l’ammenda) può impugnare motu proprio oppure deve sempre dipendere dalla concessione di una procura ad hoc?

Docente: E’ valida la seconda alternativa: il difensore delle parti diverse dall’imputato può impugnare solo se munito di procura ad hoc. Ma, come si desume dal co.3 dell’art. 100, questa non va ripetuta per ogni grado del processo, ma un unico atto può contenere la procura a difendere nei vari gradi del processo e ad eventualmente impugnare : già la formula “Io, Caio, parte civile, conferisco a Te, Cicero, il potere di difendermi in ogni stato e grado del procedimento contro……”

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sarebbe, secondo me, valida per legittimare Cicero sia alla difesa in grado di appello e di cassazione sia anche all’impugnazione delle sentenze di primo e secondo grado”.

Discente: Si era parlato del potere del p.m. di impugnare; ma l’articolo, che tale potere concede, qual è?

Docente: E’ l’articolo 570 i cui primi due comma così recitano: “Il procuratore della Repubblica presso il tribunale e il procuratore generale presso la Corte di appello possono proporre impugnazione, nei casi stabiliti dalla legge, quali che siano state le conclusioni del rappresentante del pubblico ministero. Il procuratore generale può proporre impugnazione nonostante l’impugnazione o l’acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento.- L’impugnazione può essere proposta anche dal rappresentante del pubblico ministero che ha presentato le conclusioni”. Quindi possono impugnare: il titolare della procura della R. presso il giudice che ha emesso il provvedimento (e naturalmente quei sostituti a cui egli abbia dato delega ad hoc, anche non espressa), il p.m. che ha prese le conclusioni e il procuratore generale.

Discente: Evidentemente, la concessione a tanti pubblici ufficiali del potere di impugnare, serve a rendere sicuro il legislatore che una eventuale disapplicazione della legge verrà rimediata. Questo lo capisco. Non capisco però perché riconoscere al p.m. il potere di impugnare in difformità delle “conclusioni” prima prese e addirittura della acquiescenza al provvedimento.

Docente: E invece la spiegazione di ciò è piuttosto facile e va vista, sia nel fatto che nell’eccitazione dell’udienza si possono commettere errori che, poi, re melius perpensa, a mente calma e serena, vengono riconosciuti (e allora perché non dar modo di rimediarli?), sia nel fatto che, una volta riconosciuta l’opportunità di concedere il potere di impugnare anche al titolare della procura della R., non si può poi concedere al p. m di udienza di bloccare tale potere con le sue conclusioni e, una volta riconosciuta l’opportunità di concedere anche al procuratore generale il potere di impugnare, non si può poi concedere, al titolare dell’ufficio della procura R. e al p.m. di udienza, di bloccare tale potere (del procuratore generale) con la loro acquiescenza.

Discente: Allora debbo pensare che il p.m., che dà il suo consenso ad un “patteggiamento” (art. 444), poi può revocarlo e che può revocarlo il titolare della procura R. o il procuratore generale?

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Docente: No. Un ripensamento è ammesso solo rispetto alle tesi accusatorie non alle dichiarazioni di volontà produttrici di effetti giuridici nel processo. Pertanto, una volta che il p.m. ha dato il suo consenso al patteggiamento, egli non può più revocarlo (arg. anche dall’art. 447 co.3 ult. parte) e la sentenza emessa (in base al patteggiamento raggiunto tra difesa e p.m.) sarà inappellabile (vedi co.2 art. 448).

Discente: Però il procuratore generale potrà sempre, contro tale sentenza, proporre ricorso per cassazione.

Docente: Quello sì; e quindi nei limiti (strettissimi) che gli pone l’art. 606 potrà far valere il suo dissenso.

Lezione 29 - Il principio Tantum devolutum quantum appellatum e le sue eccezioni (effetto estensivo….)

Docente: Così com’è rimesso alla discrezione di una parte l’impugnazione o no di una sentenza, così è rimesso alla sua discrezione l’impugnare tutti i capi e tutti i punti di una sentenza o limitarsi ad alcuni solo di essi.

Discente: Tu parli di “capi” e “punti” di una sentenza, ma che intendi con tali termini?

Docente: Per “punto” si intende la decisione di una questione produttiva di effetti giuridici. Mi spiego con un esempio: il giudice, presa in esame la testimonianza di Caio, che nega che l’imputato avesse in mano un’arma, decide che non è attendibile; di conseguenza, esaminata la questione sull’esistenza dell’aggravante di cui al 3° comma n.1 art. 626 (rapina a mano armata), decide di applicare tale aggravante. La seconda decisione costituisce un “punto” della sentenza, la prima, no.Per “capo” (di una sentenza) si intende, poi, quel complesso di “punti”, che gravitano per così dire attorno a un “punto” centrale, dato dalla decisione di quella questione, che da sola avrebbe potuto costituire il contenuto di una sentenza.

Discente: Quindi in una sentenza in cui il giudice abbia: I (a)- condannato Caio per ingiurie; I (b) negata la attenuante della provocazione; I (c) concessa la sospensione condizionale della pena, II (a) condannato l’imputato al risarcimento; II (b) da valutarsi in tot euro; ebbene in tale sentenza, I (a), I(b),I (c), II(a), II(b) isolatamente presi costituirebbero “punti” della sentenza, mentre I (a) + I (b) + I (c)

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(cioè il cumulo dei tre primi “punti”) costituirebbe un “capo” e (II a) + II(b) (cioè il cumulo dei due ultimi “punti”) costituirebbero un altro capo: ho capito bene?

Docente: Hai capito benissimo.

Discente: Questa distinzione tra “punti” e “capi” é recepita dal codice?

Docente: Sì, ad esempio la trovi fatta nell'art. 581.

Discente: Ma é importante stabilire a che “capo” appartiene un “punto”?

Docente: In certi casi, sì. Ad esempio, se tu sei stato condannato per due reati A e B e tu impugni solo perché per il reato B ti é stata applicata una data aggravante, il giudice dell'impugnazione potrà fare applicazione dell'art. 129 e assolverti solo per il reato B, mentre, anche se riconoscesse l'inesistenza del reato A, da questo reato non potrebbe assolverti, proprio perché il punto da te impugnato riguarda il capo relativo a B e non quello relativo ad A. Vero é che questa soluzione potrebbe risulterebbe troppo severa quando tra il capo A e il capo B risultasse uno stretto collegamento. Insomma bisognerebbe distinguere caso per caso.Tanto chiarito, proseguo nel mio discorso: ti stavo dicendo che la parte non deve necessariamente impugnare tutte le “parti” e tutti i “punti” di una sentenza, può limitare la sua impugnazione solo ad alcuni punti e alcune parti. E così l’imputato Caio del precedente tuo esempio potrebbe impugnare solo il punto I (b) (in cui gli è stata negata l’attenuante) e non il punto I (a) o addirittura potrebbe limitarsi a impugnare solo il capo relativo al risarcimento del danno (IIa, IIb) e non il capo “penale” (Ia, Ib, Ic). In tal caso il giudice dell’impugnazione deve limitare il suo “riesame” solo ai “punti” impugnati. Ciò risulta chiaramente dal co.1 dell’art. 597 e meno chiaramente ma sempre indubitabilmente dall’art.606. Vogliamo leggere almeno la prima delle disposizioni citate?

Discente: Leggo il co.1 dell’art. 597: “L’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti”.

Docente: La regola che tu hai ora letto ha però molteplici eccezioni; le principali sono date dagli artt.: 129, 587, 574, 597.Noi nel presente capitolo e nel capitolo XXXI immediatamente seguente, faremo oggetto di esame le eccezioni poste dagli articoli, 129, 587, 597. Delle eccezioni poste dall’art. 574 parleremo incidentalmente nel capitolo XXXI trattando delle impugnazioni del capo civile della sentenza.

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Discente: Cominciamo dunque a parlare dell’art. 129, che recita (nel suo primo comma): “In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza”. Perchè la disposizione che ho finito di leggere contrasta col principio tantum appellatum ecc.?

Docente: Te lo spiego subito: metti che l’imputato Caio del nostro precedente esempio appelli solo sul punto Ib (punto in cui il giudice di primo grado gli ha negato l’attenuante della provocazione): per il principio devolutivo, il giudice non potrebbe entrare nel merito della questione Ia; invece per l’art. 129 tanto vi può “entrare” che può modificarla da condanna in assoluzione.

Discente: L’art. 129 si applicherebbe anche nel caso che l’imputato avesse impugnato solo il capo relativo agli interessi civili (idest, per rifarci al precedente esempio, i punti IIa, IIb)?

Docente: Io direi di si; e direi di sì, anche se la responsabilità civile é stata esclusa in base ad elementi che non giustificherebbero un giudizio di revisione: ad esempio é stata esclusa solo in base a una nuova valutazione delle prove e non a quella scoperta di nuove prove che giustificherebbe per la lett. c) dell'art. 630 il giudizio di revisione

Discente: Parliamo ora dell’art. 587, l’altra eccezione al principio tantum devolutum quantum appellatum. Cominciamo a leggerne il primo comma, che recita: “Nel caso di concorso di più persone in uno stesso reato, l’impugnazione proposta da uno degli imputati, purché non fondata su motivi esclusivamente personali, giova anche agli altri imputati”.

Docente: Ti porto un esempio di applicazione del comma da te letto. Caio I e Caio II sono stati condannati per rapina aggravata dalla minaccia con arma (art.628 co.3 n.1). Caio I, e solo Caio I, impugna la sentenza nel punto in cui ha ritenuta l’aggravante, sostenendo che di nessuna arma né egli né il coimputato erano in possesso (oppure che quell’aggeggio che avevano in mano non può definirsi giuridicamente un’arma). Ebbene la sua impugnazione, in forza del comma da te letto, “giova” anche a Caio II in due sensi:I - in primo luogo, perchè gli permette di partecipare al giudizio di impugnazione (così detto, effetto estensivo

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dell’impugnazione): Caio II può produrre memorie, dedurre prove, discutere…né più né meno che se pure egli avesse impugnato la sentenza (ed è proprio per permettere l’esercizio di tali poteri da parte del non appellante che il presidente della corte di appello “ordina altresì la citazione dell’imputato non appellante…..se ricorre alcuno dei casi previsti dall’art.187” – vedi il 1° co. art. 601); II - in secondo luogo, perché, qualora il giudice accolga la impugnazione, egli deve escludere l’aggravante sia per Caio I sia per Caio II, abbia questi, o no, partecipato al giudizio di impugnazione (così detto effetto estensivo della sentenza di impugnazione). Tutto questo in evidente deroga al comma 1 dell’art. 587, dato che i motivi proposti da Caio I si riferivano solo al “punto”: “applicabilità o meno a Caio I dell’aggravante dell’arma”.

Discente: Ma anche se Caio I avesse appellato sostenendo di non aver partecipato alla rapina, l’effetto estensivo si sarebbe verificato?

Docente: No, perché in tale caso il motivo sarebbe stato “esclusivamente personale”.

Discente: Ma quando si può dire che un “motivo” ha carattere personale e quando no?

Docente: Può dirsi che un “motivo” abbia carattere personale, quando il suo accoglimento, melius, la modifica che il suo accoglimento comporta nella sentenza appellata, non rende questa contraddittoria. Così com’è nell’esempio da te ora portato: il giudice di appello accoglie il motivo di Caio I ed esclude che questi abbia partecipato alla rapina: forse che il fatto che Caio I non ha partecipato alla rapina, contraddice il fatto che Caio II vi ha invece partecipato?

Discente: Veniamo ora all’esame del secondo comma dell’art. 587, che passo subito a leggere: “Nel caso di riunione di procedimenti per reati diversi, l’impugnazione proposta da un imputato giova a tutti gli altri imputati soltanto se i motivi riguardano violazioni della legge processuale e non sono esclusivamente personali”.

Docente: Due esempi di applicazione del comma da te ora letto (uno in positivo e l’altro in negativo). Primo esempio: Caio I è stato condannato per aver rubato un’auto e Caio II per aver ricettato quest’auto. Appella solo Caio I eccependo la nullità della sentenza per “incapacità del giudice” (art. 178 n.1). La sentenza che accogliesse l’appello dovrebbe annullare la sentenza, non solo per Caio I, ma anche per Caio II.

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Secondo esempio: Caio I è stato condannato per furto come sopra e Caio II è stato condannato per ricettazione come sopra. Caio I appella chiedendo di essere prosciolto dal furto per non averlo lui commesso. La sentenza che accogliesse l’impugnazione e assolvesse Caio I non si estenderebbe al capo relativo a Caio II

Discente: Tutto ciò mi pare molto giusto e molto logico. Il fatto che il giudice di prime cure abbia commesso un errore nel ritenere Caio I responsabile del furto, non significa che abbia commesso un errore nel ritenere Caio II responsabile della ricettazione; e, proprio il fatto che Caio II non abbia appellato, fa presumere l’inesistenza di questo secondo errore.Ma a questo punto passiamo all'esame del terzo comma dell'art. 587, che recita: “L’impugnazione proposta dall’imputato giova anche al responsabile civile e alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria”.

Docente: E’ quella, che ora hai letto, una disposizione di evidente logicità. Sarebbe infatti del tutto illogico e ingiusto che, nonostante che l’imputato fosse stato prosciolto perché il fatto non sussiste o perché non è stato da lui commesso, insomma con una “formula ampia” (artt. 529, 530, 531), il responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena pecuniaria fossero tenuti, il primo, al risarcimento, il secondo, al pagamento della pena pecuniaria.

Discente: Ci resta da esaminare, dell’art. 587, il quarto comma. Ne do lettura:“L’impugnazione proposta dal responsabile civile o dalla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria giova all’imputato anche agli effetti penali purché non sia fondata su motivi esclusivamente personali”.

Docente: Per cominciare, è senza dubbio ovvio che l’impugnazione del responsabile civile o del civilmente obbligato per la pena pecuniaria giovi, agli effetti civili, all’imputato : il responsabile appella per ottenere il riconoscimento del concorso di colpa del danneggiato e pertanto una riduzione del risarcimento: se l’impugnazione viene accolta è logico che, non solo l’obbligo al risarcimento del responsabile civile, ma anche quello dell’imputato si riduca.Altrettanto ovvio è, poi, che l’impugnazione del responsabile civile (o del civilmente obbligato per la pena pecuniaria) giovi, anche agli effetti penali, all’imputato (se non è fondata su motivi personali): il responsabile civile dimostra in sede di appello che il fatto non è stato commesso dall’imputato (o manca il nesso di causalità, o il fatto è stato commesso in stato di necessità…) : vuoi mandare in carcere, figuratamente parlando, l’imputato, anche se la sua innocenza é diventata palese?!

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Discente: Tanto più che, se non venisse prosciolto nel giudizio di impugnazione, l’imputato dovrebbe essere prosciolto in un giudizio di revisione (con un aggravio di spese e di attività giurisdizionale per lo Stato).

Docente: A dir il vero un’applicabilità al caso dell’art.630 lett a sarebbe dubbia, dato che è dubbio che la decisione, emessa, sì, in sede di appello di una sentenza penale, ma relativa solo al capo civile di tale sentenza penale, possa, ai fini dell’art. 630 lett. a e b, considerarsi una sentenza penale. Io riterrei di si; ma non pochi riterrebbero di no.

Lezione 30 - Le deroghe al principio tantum devolutum quantum appellatum contenute nell’art. 597 sulla cognizione del giudice d’appello

Discente: Parliamo ora delle deroghe che l’art. 597 apporta al principio tantum devolutum quantum appellatum.

Docente: Esse risultano (principalmente) dal suo secondo e quinto comma. Il secondo comma recita: “Quando appellante è il pubblico ministero: a) se l’appello riguarda una sentenza di condanna, il giudice può entro i limiti della competenza del giudice di primo grado, dare al fatto una definizione giuridica più grave, mutare la specie o aumentare la quantità della pena, revocare benefici, applicare, quando occorre, misure di sicurezza e adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge; b) se l’appello riguarda una sentenza di proscioglimento, il giudice può pronunciare condanna ed emettere i provvedimenti indicati nella lettera a) ovvero prosciogliere per una causa diversa da quella enunciata nella sentenza appellata; c) se conferma la sentenza di primo grado, il giudice può applicare, modificare o escludere, nei casi determinati dalla legge, le pene accessorie e le misure di sicurezza”.

Discente: Io capisco che il giudice di appello possa ritenere il reato A (concorso in rapina) ancorché il p.m. si sia limitato a chiedere la condanna per il reato meno grave B (favoreggiamento) o che possa condannare, metti, a quattro anni, ancorchè il p.m. si sia limitato a chiedere la condanna a soli tre anni: nel processo penale non vige il divieto di ultrapetizione: è abbastanza logico che il giudice di appello possa andare oltre le richieste del p.m., così come lo può il giudice di primo grado.; ma mi pare una davvero ingiustificata deroga al principio tantum devolutum quantum impugnatum che il giudice di appello possa aumentare la pena, escludere

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un’attenuante, riconoscere un’aggravante, pur essendosi il p.m. limitato a richiedere la revoca della sospensione condizionale della pena.

Docente: Tu fai dire al legislatore cose che, almeno in parte, sicuramente nel comma da te letto non dice. Vero è che la lettera della legge sembrerebbe concedere al giudice di appello, nel caso da te prospettato, il potere di modificare la qualificazione del reato e /o di aumentare la pena (bada - lo dico aprendo una parentesi ma è importante dirlo - non di diminuirla: il 2° comma concede al giudice di appello solo di “aumentare”, non di “diminuire”, la pena, in difetto di una impugnazione dell’imputato a ciò diretta: in questo senso si può dire che, come vi è un divieto di reformatio in peius in caso di impugnazione dell’imputato, vi è anche un divieto di reformatio in peius in caso di impugnazione del p.m.). Però io escluderei nel caso da te prospettato un siffatto potere o almeno escluderei il potere del giudice di appello di aumentare la pena, perché mi sembra che la norma nel punto vada interpretata restrittivamente: lex plus dixit quam voluit. In realtà il giudice di appello può aumentare la pena solo quando questo aumento diventa una conseguenza logica dell’accoglimento dell’impugnazione del p.m.: questi ha impugnato per chiedere la revoca di un’attenuante o l’applicazione di un’aggravante? E’ logico che, se il giudice di appello accogliendo l’impugnazione ritiene di escludere l’attenuante o applicare l’aggravante, egli, nel mutato quadro del fatto attribuito all’imputato (prima si credeva che questi avesse fatto una rapina semplice ora risulta che ha fatto una rapina a mano armata), possa e debba procedere a una ridefinizione della pena e se del caso sospendere i benefici prima concessi.

Discente: Abbiamo visto le deroghe al principio tantum devolutum quantum appellatum in caso di impugnazione del p.m.; ma ve ne sono, di tali deroghe, anche in caso di impugnazione dell’imputato?

Docente: Certamente, si. Esse sono espresse dall’art. 597 (principalmente) nel suo quinto comma; che recita: “Con la sentenza possono essere applicate anche di ufficio la sospensione condizionale della pena, la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e una o più circostanze attenuanti, può essere altresì effettuato, quando occorre, il giudizio di comparazione a norma dell’art. 69 del codice penale”.

Discente: Come si spiegano queste deroghe al principio devolutivo?

Docente: Si spiegano col favor rei. Però, bada, la deroga al principio in questione è più limitata di quanto sembri. Infatti, il giudice di appello (in difetto di impugnazione

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sul punto da parte dell’imputato) non dovrà porre ad oggetto di un suo approfondito esame le questioni: “Meritava l’imputato la concessione dell’attenuante A?” “Meritava la concessione dell’attenuante B?” “Meritava la sospensione condizionale della pena?” ecc.ecc. Se così fosse, lo scopo a cui mira il principio devolutivo: permettere al giudice di appello di concentrarsi su poche questioni, verrebbe completamente frustrato. No, il giudice di appello dovrà concedere l’attenuante (non domandata nell’atto di impugnazione) solo se, per così dire, la sua esistenza…. gli cadrà sotto gli occhi (un po’ com’ è per il riconoscimento che il fatto non sussiste, non costituisce reato ecc. imposto dall’art. 129). E, naturalmente, neanche dovrà motivare la mancata concessione dell’attenuante o del beneficio, se tale concessione non è stata, dall’imputato, richiesta (se non nei motivi, almeno durante l’udienza di appello).

Discente: Tu hai detto che la deroga de qua al principio devolutivo si giustifica col favor rei. Debbo allora pensare che il giudice di appello possa diminuire la pena, concedere una pena sostitutiva, escludere un’aggravante anche in difetto di una richiesta ad hoc dell’imputato?

Docente: No, la tua deduzione è di per sé logica, però non è consentita dal divieto di interpretazione analogica delle disposizioni di carattere eccezionale.

Discente: Nel comma in esame vi è un’espressione sibillina: il giudice di appello – vi si dice – può effettuare “quando occorre, il giudizio di comparazione a norma dell’art. 69 del codice penale”: quale significato attribuire all’inciso “quando occorre”?

Docente: Il significato di permettere al giudice il giudizio di comparazione anche in difetto di impugnazione sul punto (da parte dell’imputato) quando, e solo quando, la concessione di un’attenuante in sede di appello, impone il riesame della comparazione prima fatta fra aggravanti e attenuanti (o anche quando la concessione di un’attenuante impone di procedere a quel bilanciamento tra aggravanti e attenuanti che in primo grado non era stato necessario operare, appunto per mancanza di attenuanti ……da porre su un piatto della bilancia).

Lezione 31 - La impugnazione della sentenza agli effetti civili

Discente: L’imputato, condannato in primo grado, può naturalmente impugnare la sentenza sia nel suo capo penale (riconoscimento che il fatto costituisce reato, ch’egli l’ha commesso, che sussiste questa o quella aggravante….) sia nel suo

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capo civile (sua condanna al risarcimento del danno, sua condanna alle spese…). Ma mettiamo il caso che egli impugni solo il capo penale, significa che egli non avrà (davanti al giudice dell’impugnazione) os ad loquendum sulle questioni attinenti al capo civile? significa che il giudice dell’impugnazione potrà, sì,“correggere” il capo penale ma non il capo civile?

Docente: No, se modificare il capo penale senza modificare il capo civile determinerebbe una contraddizione nel decisum. Ciò risulta dal quarto comma dell’art. 574, che recita: “L’impugnazione dell’imputato contro la pronuncia di condanna penale o di assoluzione estende i suoi effetti alla pronuncia di condanna alle restituzioni, al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese processuali, se questa pronuncia dipende dal capo o dal punto impugnato “.

Discente: Fa qualche esempio di modifica del capo penale ininfluente su quello civile.

Docente: - Pensa alla concessione della sospensione condizionale della pena (esclusa dal giudice di primo grado), pensa a un a riduzione della pena, pensa all’esclusione di certe aggravanti, pensa alla concessione di certe attenuanti (ma non di tutte ! ad esempio la concessione dell’attenuante della provocazione potrebbe implicare un riconoscimento di concorso di colpa del danneggiato e giustificare quindi una modifica del capo civile, in cui tale concorso non era stato riconosciuto).

Discente: Fa ora qualche esempio di modifica del capo penale che viene ad incidere sul capo civile.

Docente: Pensa ad un proscioglimento per difetto del nesso di causalità o perché il fatto non è stato compiuto dall’imputato.

Discente: Ma l’imputato potrebbe impugnare la sentenza solo nel capo civile?

Docente: Si, certo: un imputato potrebbe ritenere giusta la sua condanna a una pena, ma ritenere ingiusta la sua condanna al risarcimento (perché l’ammontare del danno è stato sopravalutato, perché il giudice non ha tenuto conto del concorso di colpa del danneggiato…).

Discente: Ma egli potrebbe impugnare anche limitatamente alle spese giudiziali a cui è stato condannato o che non gli sono state riconosciute?

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Docente: Certo: come nel processo civile si ammette una impugnazione per le sole spese processuali, così è giusto che anche nel processo penale si ammetta un’impugnazione solo per queste.

Discente: In che articolo dispone tutto ciò il legislatore?

Docente: Nell’articolo 574, di cui passo a leggerti i primi tre commi: “1- L’imputato può proporre impugnazione contro i capi della sentenza che riguardano la sua condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno e contro quelli relativi alla rifusione delle spese processuali. 2- L’imputato può altresì proporre impugnazione contro le disposizioni della sentenza di assoluzione relative alle domande da lui proposte per il risarcimento del danno e per la rifusione delle spese processuali. 3 – L’impugnazione è proposta col mezzo previsto per le disposizioni penali della sentenza”.

Discente: Che significa il terzo comma? significa che, qualora contro la sentenza il codice di procedura penale non ammetta appello, non può essere appellato il capo civile della sentenza (sebbene l’appello sarebbe stato ammesso qualora l’azione fosse stata proposta davanti a un giudice, non penale, ma civile)?

Docente: Così sembrerebbe essere.

Discente: Ma il capo penale potrebbe essere stato ritenuto inappellabile in considerazione del carattere bagatellare della pena (penso alla condanna alla sola ammenda di cui al terzo comma dell’art. 593), mentre la condanna al risarcimento potrebbe essere per una somma tutt’altro che bagatellare (dato che la commissione di un reato lieve può certe volte avere conseguenze molto gravi sul piano civilistico)!

Docente: Sì, la tua osservazione è giusta, però mi pare che la lettera della legge non lasci dubbi interpretativi.

Discente: Abbiamo visto che l’impugnazione dell’imputato, ancorché limitata al capo penale, può estendere i suoi effetti sul capo civile; succede lo stesso in caso di impugnazione del p.m.? metti, egli appella perché sia riconosciuta la responsabilità penale dell’imputato: può il giudice, accogliendo l’appello, condannare l’imputato al risarcimento del danno?

Docente: Naturalmente qui ci mettiamo nella ipotesi che la parte civile non abbia proposta - come invece, e subito lo vedremo, può - la impugnazione del capo civile.

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Ebbene non c’è nessuna norma ad hoc (nessuna norma che ci dica cosa succede se l’impugnazione del p.m. viene accolta in assenza di una impugnazione della parte civile). Molti nel caso però danno una risposta positiva al quesito da te proposto basandosi sul principio di immanenza della costituzione di parte civile. E io penso che tale risposta sia accettabile nel caso (e solo nel caso) in cui la parte civile, pur non avendo proposta impugnazione, intervenga nel processo di impugnazione per chiedere il risarcimento del danno: in mancanza di una domanda espressa della parte civile, io, invece, non riterrei ammissibile che il giudice penale condanni al risarcimento (chi gli dice che la parte civile nulla domandi perché, metti, ha transatto il suo diritto al risarcimento o per una qualsiasi altra sua personale ragione? il rispetto del principio della domanda si impone in questo caso anche nel processo penale !).

Discente: Parliamo ora del responsabile civile e del civilmente obbligato a una pena pecuniaria; dato che sia l’uno che l’altro possono essere interessati, non meno dell’imputato, a una modifica del capo civile della sentenza.

Docente: Sì, parliamone. Abbiamo già visto,commentando il comma terzo dell’art. 587, come l’impugnazione dell’imputato estenda i suoi effetti a favore del responsabile civile e del civilmente obbligato e, commentando il comma quarto sempre dell’art. 587, come l’impugnazione del responsabile civile e del civilmente obbligato estenda i suoi effetti a favore dell’imputato.

Discente: Non avevi però indicato l’articolo che dà al responsabile civile e al civilmente obbligato il potere di impugnare il capo civile della sentenza.

Docente:. E’ l’articolo 575, di cui ti leggo i due primi commi: “1 - Il responsabile civile può proporre impugnazione contro le disposizioni della sentenza riguardanti la responsabilità dell’imputato e contro quelle relative alla condanna di questi e del responsabile civile alle restituzioni, al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese processuali. L’impugnazione è proposta col mezzo che la legge attribuisce all’imputato. 2 – Lo stesso diritto spetta alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria nel caso in cui sia stata condannata”.

Discente: Però l’articolo 575 ammette l’impugnazione solo contro le disposizioni “riguardanti la responsabilità dell’imputato”; ciò mi pare ingiustamente limitativo dei poteri del responsabile civile, il quale potrebbe avere ben interesse a ottenere la “correzione” anche di un punto non involgente la responsabilità penale: penso al caso in cui il giudice di primo grado non abbia concessa la attenuante della

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provocazione nel capo penale e quindi abbia negato il concorso di colpa del danneggiato nel capo civile.

Docente: Sì, l’illogicità da te denunciata effettivamente esiste e ad essa forse l’interprete potrebbe porre rimedio con una interpretazione estensiva (senza scomodare la Corte Costituzionale).

Discente: Resta da parlare della parte civile, che, naturalmente, ben potrebbe essere interessata alla “correzione” di una sentenza di proscioglimento dell’imputato.

Docente: E anche di una sentenza di condanna; dato che anche una sentenza di condanna potrebbe venire a ledere i suoi interessi, ad esempio quando condannasse ad un risarcimento minore del dovuto o quando non concedesse una dovuta provvisoria esecuzione della condanna (al risarcimento).

Discente: E allora, il legislatore concede, o no, alla parte civile il diritto di impugnare il capo civile della sentenza? E parlo solo del capo civile, dato che è del tutto ovvio che, chi non si può costituire parte civile nel processo per ottenere solo la condanna penale dell’imputato, neanche possa impugnare la sentenza, che definisce il processo, ai soli effetti penali (ad esempio per ottenere l’applicazione di un’aggravante o l’esclusione del beneficio della sospensione condizionale della pena).

Docente: Si, tale diritto il legislatore, alla parte civile, lo concede; e non solo le dà il diritto di impugnare il capo civile nei punti, diciamo così, “scollegati” dal capo penale (“tu, giudice mi hai riconosciuto il diritto a 100 mentre avevo diritto a 150”), ma anche nei punti che dipendono dal capo penale (“tu, giudice, hai escluso che il fatto sia stato commesso dall’imputato o hai negato il nesso di causalità, mentre invece dovevi ritenere il fatto, ritenere il nesso di causalità e condannare l’imputato al risarcimento del danno”).

Discente: Mi pare del tutto ovvia tale soluzione: e infatti sarebbe veramente ingiusto negare al danneggiato, col diritto all’impugnazione, quel diritto al risarcimento che, se fatto valere davanti al giudice civile, gli sarebbe stato riconosciuto (seppure solo in grado di impugnazione): forse che un diritto esiste o non esiste a seconda del giudice alla cui porta si bussa?

Docente: La tua considerazione è giusta; però bisogna anche considerare che non si può far dipendere dalla volontà della parte civile (una volontà che potrebbe

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essere animata da un irragionevole astio) il passaggio in giudicato (la irrevocabilità) di una sentenza di proscioglimento: il perdurare del processo è di per se stesso una pena: non si può rimettere a una parte privata la decisione se applicare o no questa pena: tale decisione la può prendere solo un organo dello Stato: il p.m.

Discente: E allora?

Docente: E allora il legislatore ha adottato una soluzione di compromesso: ha dato alla parte civile il potere di ottenere una correzione anche di quei punti del capo civile che dipendono dalle decisioni adottate nel capo penale (“Io giudice dell’impugnazione riconosco il diritto al risarcimento nel presupposto che sia stato l’imputato a commettere il fatto, anche se nel capo penale della sentenza di primo grado ciò viene negato e si assolve l’imputato”); però ha escluso che la correzione operata nel capo civile si riverberi, estenda i suoi effetti sui punti del capo penale (nell’esempio, il proscioglimento dell’imputato non viene revocato: ai fini penali, si continua a ritenere che lui non abbia commesso il fatto).

Discente: Quindi si avranno su una vicenda, che forse ha commosso l’opinione pubblica, due decisioni contraddittorie !

Docente: Si, e, appunto, questo sistema è detto della “doppia decisione”. Però è meglio leggersi ora l’articolo 576, che recita: “1- La parte civile può proporre impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio. La parte civile può altresì proporre impugnazione contro la sentenza pronunciata a norma dell’art. 442 quando ha acconsentito alla abbreviazione del rito. 2- Lo stesso diritto compete al querelante condannato a norma dell’art. 542”.

Discente: A me pare piuttosto illogico che il legislatore non permetta al giudice di primo grado, in caso di proscioglimento, di pronunciarsi sul diritto al risarcimento (arg. a contrario dall’art.538) e, poi, sempre in caso di sentenza di proscioglimento, dia alla parte civile il potere di proporre (impugnando la sentenza di proscioglimento) la questione, sull’esistenza del suo diritto al risarcimento, al giudice di appello: se il legislatore voleva che tale questione fosse risolta dal giudice penale (nonostante la sentenza di proscioglimento) avrebbe dovuto rimetterne la decisione al giudice di primo grado (e non a quello di secondo grado).

Docente: Può essere che il legislatore provveda a modificare l’art. 538: sarebbe un soluzione.

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Discente: Nell’articolo da te or ora letto, si ammette la impugnazione della parte civile solo per le sentenze emesse “in giudizio”: perché?

Docente: Perché solo le sentenze di proscioglimento emesse in giudizio acquistano (per l'art. 652) autorità di cosa giudicata in un eventuale processo in cui il danneggiato (già costituitosi parte civile) faccia valere la sua pretesa al risarcimento. Insomma il legislatore ammette la parte civile all'impugnazione di una sentenza di proscioglimento quando questa le impedirebbe di ottenere dal giudice civile una condanna dell'imputato al risarcimento.

Discente: Però il legislatore ammette l'impugnazione della parte civile contro la sentenza di proscioglimento del GIP nel contesto di un rito abbreviato – sentenza che non può considerarsi emessa in giudizio.

Docente: Ma questo perché tale sentenza dal 2° co. art. 652 é equiparata a quella emessa in giudizio.

Discente: Che succede se interviene una causa estintiva del reato?

Docente: Se interviene durante il processo di primo grado, il giudice dovrà emettere una sentenza di non doversi procedere.

Discente: Senza decidere sull’azione civile, anche se l’istruttoria dibattimentale è già giunta al termine, le prove sono state raccolte e non resterebbe..che tirare le somme?

Docente:Si, anche in tal caso.

Discente: Ma la parte civile potrà impugnare la sentenza? mi pare che la lettera dell’art. 576 non lo escluda.

Docente: Non lo esclude la lettera ma lo esclude la logica: che senso avrebbe sollevare il giudice di prime cure dal peso della decisione per poi, dando il potere di impugnazione alla parte civile, caricare di tale peso il giudice di seconde cure?

Discente: Poniamo ora che la causa estintiva intervenga nel corso del giudizio di impugnazione: che succede?

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Docente: Succede che si applica l’art. 578, che recita: “Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionato dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili”.

Discente: Evidentemente il legislatore, nell’art. 578, ha tenuto soprattutto presente la situazione del danneggiato che - dopo aver speso soldi e tempo per ottenere in primo grado una sentenza che gli riconosca il diritto al risarcimento - rischia di vedersela tramutare in…carta straccia da un evento attribuibile al malfunzionamento della amministrazione della giustizia italiana. Però perché, tra le varie cause estintive del reato, il legislatore prevede solo la prescrizione e la amnistia? perché non dà, alla parte civile, la possibilità di ottenere una decisione sulla sua richiesta di risarcimento, anche nel caso che sia intervenuta una delle altre cause estintive del reato: la remissione di querela, la morte del reo, l’oblazione?

Docente: Evidentemente perché il legislatore si é preoccupato di tutelare gli interessi di chi, dal reato, ha subito un danno, solo quando questo deriva dal malfunzionamento dell'amministrazione della giustizia (diciamo....quando la coscienza gli rimorde).

Discente: Quindi, in caso di morte dell'imputato, non si ha una semplice interruzione della causa, come nel processo civile,.

Docente: No, perché il legislatore vuole che il procedimento davanti a un giudice penale, anche quando si é ridotto ad avere come oggetto solo una questione civile, sia regolato dalle norme del processo penale.

Discente: Qual'é l'articolo che dice questo?.

Docente: E' l'articolo 573, che recita”L'impugnazione per i soli interessi civili é proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale.

Discente: Certamente il legislatore dando alla parte civile il potere di impugnare la sentenza le ha dato un validissimo strumento di difesa. Però dei suoi soli interessi civili. Questo mentre la parte civile è (di solito) anche la parte offesa del reato – una parte offesa che ha interesse che il suo offensore subisca la giusta pena della

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offesa arrecatile (con tutte le aggravanti che si merita e senza nessuna delle attenuanti e senza nessuno dei benefici che non si merita). Questo interesse (alla giusta condanna dell’imputato) che hanno la parte offesa e la parte civile in quanto parte offesa, trova tutela nel nostro Ordinamento?

Docente: Si, la trova nell’art. 572, che recita: “La parte civile, la persona offesa, anche se non costituita parte civile, e gli enti e le associazioni intervenuti a norma degli artt. 93 e 94, possono presentare richiesta motivata al pubblico ministero di proporre impugnazione a ogni effetto penale”

Lezione 32 - Il divieto di reformatio in peius. L’appello incidentale

Discente: Può il giudice di appello apportare delle modifiche alla sentenza che vadano in senso contrario alle richieste del p.m.?

Docente: Direi senz’altro di si: il p.m. ha chiesto un aumento di pena o l’applicazione di un’aggravante? il giudice così come può, in applicazione dell’art. 129, prosciogliere l’imputato, così, in applicazione del 5° comma dell’art. 597, può concedere una sospensione condizionale della pena (in primo grado rifiutata).

Discente: Può il giudice di appello apportare delle modifiche alla sentenza che vadano in senso contrario alle richieste dell’imputato?

Docente: No, il legislatore non permette al giudice dell’impugnazione una reformatio in peius quando solo impugnante è l’imputato; ciò ti risulta dal 3° comma dell’art. 597, che recita: “Quando l’appellante è il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie e quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benedici, salva la facoltà, entro i limiti indicati nel comma 1, di dare al fatto una definizione giuridica più grave, purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado.”

Discente: Ma se impugnante non è “il solo imputato”, ma anche il p.m.? Naturalmente se l’imputato ha richiesto l’applicazione di un’attenuante e il p.m. ha chiesto un aumento della pena, il giudice potrà aumentare la pena in accoglimento della richiesta del p.m.; ma potrà andare ultra petita (in relazione alle richieste del p.m.)? mi spiego: l’imputato chiede l’attenuante, il p.m. chiede l’aumento della pena: il giudice può applicare un’aggravante?

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Docente: No, perché il 3° comma dell’art. 597 va interpretato restrittivamente e precisamente nel senso che il giudice potrà andare ultra petita (del p.m.) solo nei limiti in cui ciò gli è consentito dal 2° comma.

Discente: Qual’è la ratio del divieto della reformatio in peius?

Docente: Se non esistesse tale divieto, se cioè fosse possibile una riforma in peggio su appello dell’imputato, questi potrebbe astenersi dal dolersi dell’erroneità di un “punto” della sentenza di primo grado, per timore che, sia pur erroneamente, la sua posizione venisse in sede di impugnazione aggravata (“La sentenza del tribunale non mi ha concesso quell’attenuante che io pur meritavo, però io sto zitto e quieto per timore che se faccio appello il giudice mi aumenti la pena)”: il risultato sarebbe che l’imputato verrebbe a subire una decisione ingiusta. Ora questo il legislatore non lo vuole e di conseguenza stabilisce il divieto della reformatio in peius.

Discente: Però il legislatore concede al giudice di appello il potere “di dare al fatto una definizione giuridica più grave”: forse perché la “definizione giuridica più grave” non comporta conseguenze sfavorevoli per l’imputato.

Docente: Dire ciò non sarebbe esatto: anche se la definizione giuridica peggiorativa non può comportare un aggravamento delle sanzioni, può lo stesso comportare un pregiudizio per l’imputato; del resto, se fosse vero il contrario, non si spiegherebbe perché il legislatore ammetta la nuova qualificazione del fatto “purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado”.

Discente: Spiega perché la “definizione giuridica più grave” può comportare un pregiudizio per l’imputato.

Docente: Pensa a questo caso: l’imputato appella sostenendo che il reato addebitatogli non configura il reato A; il giudice dice “Sì, il reato A non c’è ma c’è il reato B”; in seguito interviene un provvedimento di clemenza che dà l’indulto al reato A e non al reato B.

Discente: Come si spiega questa deroga al divieto della reformatio in peius?

Docente: Si spiega col fatto che il legislatore ritiene giusto che, sì, l’imputato non veda peggiorata la sua posizione dall’impugnazione, purchè, però, ciò non la renda immeritatamente migliore: “tu, imputato,sostieni che il fatto a te addebitato non costituisce un’appropriazione indebita e concludi chiedendo di essere assolto: hai

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ragione a sostenere che nel fatto non può ravvisarsi un’appropriazione indebita, e te la dò, ma siccome nel reato deve ravvisarsi un furto non accolgo la tua domanda di proscioglimento (e per spiegare perché non l’accolgo naturalmente cambio la qualificazione del fatto)”.

Discente: Il giudice dell’impugnazione può applicare una pena accessoria (art. 28 e segg. Cod. Pen.) in caso di solo appello dell’imputato?

Docente: Io ritengo (nonostante autorevoli opinioni in senso contrario) che il giudice, così come non può applicare una “nuova misura di sicurezza”, così non possa applicare una pena accessoria.

Discente: Eppure, una volta diventata irrevocabile la sentenza, il giudice dell’esecuzione può applicare una pena accessoria, una misura di sicurezza e addirittura revocare la sospensione condizionale della pena (v. art. 674 e art. 676): non contrasta col principio di economia processuale impedire al giudice di appello di usare di un potere che, appena diventata irrevocabile la sua sentenza, potrà essere usato da altro giudice?

Docente: L’osservazione è giusta e la mia precedente affermazione va rettificata nel senso che il giudice di appello può applicare una misura di sicurezza, una pena accessoria, può revocare la sospensione nei casi (e solo nei casi) in cui lo potrebbe il giudice dell’esecuzione (che sono i casi in cui la applicazione o la revoca non implica una valutazione discrezionale: ad esempio, revoca del beneficio della sospensione “concessa in violazione dell’art.163,quarto comma, in presenza di cause ostative “– cfr. art. 168 co.3 Cod. Pen.).

Discente: Se la ratio del divieto di reformtio in peius è quella da te prima enunciata, si dovrebbe ammettere che il giudice di appello abbia il potere di modificare un “punto” della sentenza in peggio, se tale modifica (di per sè peggiorativa) fosse compensata e, per così dire, resa indolore dalla modifica di altro “punto”. Mi spiego meglio con un esempio: tu, imputato, chiedi a me, giudice di appello, di concederti l’attenuante del risarcimento del danno e di ridurre conseguentemente la pena da 3 a 2; perché io, giudice di appello, non potrei modificare (in senso peggiorativo) il “punto” della sentenza in cui si fissa la pena base a tre mesi, alzandola a 4 mesi e 15 giorni, ma, poi, riconoscerti l’attenuante da te richiesta, riportando la pena da infliggere a tre mesi (4mesi e 15 giorni ridotti di un terzo per l’attenuante = tre mesi)? in che cosa verrei a peggiorare la posizione di te, imputato?

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Docente: E, invece, se ci pensi bene, la peggiori. Metti che il p.m., ricorrendo in cassazione, ottenga l’esclusione dell’attenuante: se, tu, giudice di appello, concedendo l’attenuante, non avessi modificato la sentenza nel punto “quantità della pena base”, l’imputato dopo l’esclusione dell’attenuante avrebbe dovuto scontare la pena di soli tre mesi; avendo invece tu alzata al pena base, dovrà (una volta esclusa l’attenuante) scontarsi quattro mesi e 15 giorni. Proprio in base ad analoghe considerazioni il legislatore nel comma 4 dispone che “In ogni caso se è accolto l’appello dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita”.

Discente: Parliamo ora di un istituto che mi pare in netto contrasto con la ratio da te attribuita al comma tre dell’art. 597, l’istituto dell’appello incidentale.

Docente: Istituto previsto dall’art. 595, il cui primo comma recita: “La parte che non ha proposto impugnazione può proporre appello incidentale entro quindici giorni da quello in cui ha ricevuto la comunicazione o la notificazione previste dall’articolo 584”.

Discente: Sull’appello incidentale dell’imputato nessuna obiezione: “io, imputato, non avrei appellato ai fini di ottenere quella certa attenuante per evitare i fastidi (e le spese !) del giudizio di appello, però, dal momento che l’appello del p.m. mi impedisce di sottrarmi a tali fastidi …impugno anch’io”. Troppo giusto !Però l’appello incidentale può essere proposto anche dal p.m.; e allora ti domando: il timore di questo appello può, o no, costituire per me, imputato, quella remora a proporre l’appello principale (che, con il 3 comma dell’art. 597, il legislatore sembrerebbe voler togliermi)?

Docente: Io ti potrei, in prima battuta, rispondere, che il legislatore, nel 4 comma dell’art. 595 concede a chi ha proposto “l’appello principale” di togliere, rinunciando a questo, efficacia all’appello incidentale.

Discente: Ciò però esclude solo che il timore dell’appello incidentale possa costituire una remora ad appellare; non impedisce però che l’appello incidentale divenga una remora a coltivare l’appello.

Docente: D’accordo: è evidente che si impone un’interpretazione del 1° comma dell’art. 595 tale da armonizzarlo con il terzo comma dell’art. 597. E io ritengo che il contrasto tra queste due disposizioni non ci sarebbe più, o almeno sarebbe meno stridente, qualora si ammettesse l’appello incidentale solo quando la “correzione”

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richiesta (dal p.m.) servisse a riequilibrare la modifica domandata dall’imputato – modifica che, se effettuata senza la “correzione” (domandata dal p.m.) di altro “punto” della sentenza, sortirebbe il risultato di rendere questa iniqua. Mi spiego con un esempio: il giudice di primo grado non ha concessa l’attenuante del risarcimento del danno, e ha sbagliato, però ancora sbagliando, non ha applicato l’aggravante dei futili motivi: risultato, i due errori in un certo senso si compensano e si elidono. Metti ora che la difesa appelli lamentando l’erroneo rifiuto dell’attenuante: è chiaro che se l’impugnazione fosse accolta e l’attenuante concessa, senza nel contempo applicare l’aggravante, quell’equilibrio in cui consisteva la giustizia della sentenza di primo grado verrebbe rotto.

Discente: Fa ora un esempio di appello incidentale inammissibile.

Docente: Se é vero quanto da me sopra sostenuto, qualora l'imputato avesse appellato ai fini di ottenere la sospensione condizionale della pena, sarebbe inammissibile che il P.M. appellasse incidentalmente perché fosse aumentata al pena.

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SEZIONE SECONDA

ATTI E DOCUMENTI DAL “VIVO”

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SEZIONE TERZA

FORMULARIO DELLA PROCEDURA PENALE

I.Atto di querela

Ill.mo Sig. Procuratore della Repubblica- il sottoscritto Giobatta Parodi nato a Genova il 6 agosto 1976 ed ivi residente in via Capo Santa Chiara 2- é costretto alla seguente querela.

Narrativa dei fatti:1) In data 4 maggio 1990, sul Quotidiano “Il Gazzettiere” é apparso un articolo dal titolo “Una dubbia paternità”.2) In tale articolo si diffama la memoria del Padre dell'esponente, Luigi Parodi, morto il 3 maggio 1980 affermando che.....(omissis)...................Tutto ciò premesso, l'esponente presenta

Querela- contro Luigi Rossi res. in Genova, via Roma 4 e Luigi Bianchi res. sempre in Genova, via Firenze 5 e contro quanti altri, da identificare, fossero autori, in concorso o no, dei fatti sopra esposti-chiedendone la punizione per i reati previsti dagli artt. 594-595 C.P. e per quegli altri reati meglio ritenuti.Possono testimoniare sui fatti sub 1-2: 1) Verde Speranza, res. in Genova, Corso Buenos Aires, 3; 2) Leale Dicitore, res. in Genova, Corso XX Settembre 2.Con riserva di indicare altri testimoni, produrre documentazione e costituirsi parte civile.L'esponente nomina suo difensore l'Avv. Cicero I del Foro di Genova presso il cui Studio in Genova, via Fiasella 6 elegge domicilio e Lo incarica (art. 333 co.1) della presentazione all'Autorità competente del presente atto di querela.Ai sensi dell'art. 408 co.2 l'esponente chiede di essere informato di un'eventuale richiesta di archiviazione. Ai sensi dell'art. 459 co.1 l'esponente si oppone all'emissione di un Decreto penale. Ai sensi dell'art. 335 co.3 C.P.P. l'esponente chiede che gli vengano comunicate le iscrizioni di cui ai commi 1 e 2 stesso articolo.Con osservanzaGenova 14 febbraio 2001 (Firma di Giobatta Parodi)

Per autentica (Firma dell'avvocato Cicero I)

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Avvertenze1) I riferimenti legislativi sono a: artt. 120-126 C.P.; artt. 336 ss C.P.P.2) La querela va redatta in carta semplice.3) “Per la valida sussistenza della querela non occorre che l'istanza di punizione sia diretta contro una determinata persona, ma basta che concerna il fatto delittuoso spettando all'autorità giudiziaria l'identificazione del reo” (Cass. 15 luglio 1953, Di Paola).4) “La querela inviata per posta o presentata da un incaricato deve essere munita, a norma dell'art. 337 comma 1 c.p.p., dell'autenticazione della sottoscrizione da soggetto a ciò legittimato e quindi, ai sensi dell'art. 39 disp. att., anche dal difensore, nominato formalmente, con atto precedente o contestuale, ovvero tacitamente.La nomina tacita può essere desunta dalla stessa attività di autenticazione, dall'elezione di domicilio del querelante presso lo studio dell'avvocato, dalla presentazione dell'atto all'autorità competente ad opera del legale, dall'attività difensiva dalla parte svolta nel successivo giudizio” (Cass. Pen.,sez.V, 21. 04. 1999,, n. 8742).5) In tema di querela, non essendo stata posta una precisa delimitazione in ordine ai luoghi ove detto atto é presentabile, deve considerarsi applicabile in via di analogia la disposizione dell'art.5 c.p.p. (che, relativamente alla richiesta di procedimento, indica espressamente qualsiasi ufficio del P.M.), apparendo logico l'intento del legislatore di lasciare ampia possibilità al querelante di presentare l'atto che determina il presupposto necessario per l'incriminalità dell'illecito subito” - Cass. Pen. Sez. V, 08.01.1990 n.51, Trezzi.6) “L'esercizio del diritto di querela per i minori degli anni quattordici spetta a ciascuno dei genitori, in maniera congiuntiva o disgiuntiva; agli effetti della querela, pertanto, ogni genitore può, indipendentemente dalla volontà manifestata dall'altro genitore, svolgere la stessa attività con effetti identici ed autonomi; ne consegue che, in caso di contrasto fra la volontà dell'uno e dell'altro genitore, prevale la volontà del genitore che intende esercitare il diritto di querela (...)” - Cass. 22.12.1969 Marciano.7) “Nel caso di società per azioni la querela nell'interesse della società può essere validamente presentata dal consiglio di amministrazione, direttamente o a mezzo di tutti i suoi componenti o a mezzo di mandato speciale rilasciato caso per caso, o anche dal consigliere delegato, poiché l'art. 2381 c.c. stabilisce che il consiglio di amministrazione può delegare le proprie attribuzioni ad uno dei suoi membri, escluse solo quelle attinenti alla redazione del bilancio, all'aumento e alla riduzione del capitale” (Cass. 10 maggio 1867, Tretti).8) “L'atto di querela nell'interesse di enti collettivi si arricchisce di un elemento

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ulteriore: l'art. 337.3 esige che in tali casi sia indicata la fonte dei poteri di rappresentanza del soggetto che si attiva per proporre querela, talchè l'autorità giudiziaria sia messa in condizioni di effettuare agevolmente il riscontro circa la legittimazione del legale rappresentante” - Renzo Orlandi, Commentario al nuovo codice di procedura penale, a cura di Chiavario.

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II.Rimessione di querela

La remissione di querela é prevista dagli artt. 152 ss. C.P. e 340 C.P.P.Il modo più semplice per effettuarla é che la parte offesa faccia la relativa dichiarazione (orale) in udienza davanti all'Autorità Giudiziaria procedente oppure recandosi a una qualsiasi Stazione della Polizia o dei Carabinieri. In entrambi i casi verrà redatto verbale; unica differenza: nel primo caso il verbale non verrà fatto sottoscrivere (dal Giudice), nel secondo caso invece il P.U. dovrà farlo sottoscrivere (dal remittente) - v. art. 340 in relazione al co.1 art. 339Naturalmente nulla impedisce che la dichiarazione sia fatta per iscritto (v. formula A). Si dovrà tenere presente per l'ipotesi, che la dichiarazione (scritta) potrebbe anche essere portata (all'Autorità indicata dall'art. 340 !) da un incaricato o spedita per posta, ma (arg. ex art. 337 c.1 C.P.P.) solo se la sottoscrizione fosse autenticata (ma basterebbe anche l'autentica del difensore – v. art. 39 disp. att.).

Formula A: Remissione scritta di querela

Ill.mo Procuratore della Repubblica (1)presso il Tribunale di Genova

il sottoscritto Giobatta Parodi nato il 06.09.1986 a Genova e ivi residente in via Roma 3

premesso- che con precedente atto presentato in data.....si querelava contro il sig. Luigi Bianchi;- che di conseguenza si instaurava contro lo stesso Bianchi un procedimento per il reato p.e p. dall'art. 646 in relazione a fatti avvenuti il........a Genova;- tutto ciò premesso

rimettela querela di cui alla premessa per tutti i reati ravvisati o ravvisabili nei fatti in essa lamentati rinunciando così per tali fatti ad ogni istanza punitiva sia contro il Bianchi Luigi sia contro qualsiasi altra persona.Con osservanza.Genova 12 febbraio 1991 (Firma di Giobatta Parodi)

Avvertenze

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- L'atto di rimessione va in carta semplice.- L'atto va indirizzato all'autorità procedente (Procura, Tribunale....).

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III.Ricorso immediato al Giudice di Pace

Il ricorso é disciplinato dagli artt. 21 ss d.lgs 28 agosto 200 n. 274.Si redige il ricorso (v. formula ad hoc) in carta libera, in duplice copia e con doppia sottoscrizione (come evidenziato nella formula). Indi il ricorrente (o il suo difensore) presenta le due copie dell'atto alla segreteria della Procura della Repubblica: il funzionario addetto (della Procura) appone in calce alle copie annotazione di avvenuto deposito, restituendo una copia. A questo punto il ricorrente deposita la copia restituitagli (come or ora detto dal funzionario della Procura) nella “cancelleria del giudice di pace competente per territorio”. Fare attenzione al “termine di tre mesi dalla notizia del fatto che costituisce reato”, entro cui l'incombente, a pena di decadenza, deve essere (art. 22) espletato!Dopo il deposito del ricorso, il ricorrente, lasciati passare alcuni giorni, torna nella cancelleria del giudice di pace per fare copie autentiche del ricorso e del “decreto di convocazione” (art. 27) del giudice, ai fini di operare (“almeno venti giorni prima dell'udienza”!) le notifiche dello stesso decreto e dello stesso ricorso: “al pubblico ministero, alla persona citata in giudizio e al suo difensore” (v. melius co,.4 art. 27). “Almeno sette giorni prima della data fissata per l'udienza di comparizione” il ricorrente deve depositare “nella cancelleria del giudice di pace l'atto di citazione con le relative notifiche” (v. art. 29 co1).N.B. “Se per il medesimo fatto la persona offesa ha già presentata querela deve farne menzione nel ricorso, allegandone copia e depositando altra copia presso la segreteria del pubblico ministero” (co. 2 art. 22).N.B. La costituzione di parte civile “deve avvenire, a pena di decadenza, con la presentazione del ricorso”. Ma “la richiesta motivata di restituzione o di risarcimento del danno contenuta nel ricorso é equiparata a tutti gli effetti alla costituzione di parte civile” (art. 23).

Formula A: ricorso immediato al giudice di paceIll.mo Giudice dfi Pace- la Viribus Unitis, Associazione non riconosciuta con sede in Genova via Garibaldi 1- in persona del suo legale rappresentante pro tempore, il suo Presidente, dott. Giobatta Parodi nato a Genova il 6 settembre 1067- assistito dall'avv. Cicero del Foro di Genova che nomina suo difensore

premesso- che il 3 dicembre 2001, in presenza di più persone, il Bianchi Alfredo denigrava

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l'Associazione affermando che “ era un covo di omosessuali”;- che il 5 gennaio.......................................................- tanto premesso, visti gli artt. 21 ss d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274

ricorre- a V.S. ill.ma a che fissi un'udienza a cui citare in giudizio penale1) Bianchi Alfredo nato a Genova il 6 ottobre 1957, res. sempre in Genova via

Mazzini 2- a che si senta condannare per il reato p. e p. dagli artt. 81, 595 C.P. o dagli altri meglio visti, per avere offeso la reputazione dell'esponente Associazione Viribus Unitis affermando a più riprese e comunicando con più persone che era “un covo di omosessuali”. In Genova il 3 dicembre 2001 e il 5 gennaio 2002.- e a che altresì si senta condannare al risarcimento dei danni morali e materiali, patiti e patiendi, conseguenti al fatto delittuoso come sopra addebitato- a tal fine, la ricorrente Associazione,costituendosi col presente atto anche parte civile.Deduce a testi:1) Volpe Angelo res. in Genova via Mazzini 6;2) Gatto Alfredo, res. in Genova via dei Compari 8;a che siano esaminati sulla verità dei fatti addebitati al Bianchi Alfredo, ad essi trovandosi presenti.Ai sensi dell'art. 17 d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274 il ricorrente chiede di essere informato nel caso denegato di una richiesta di archiviazione.Con osservanzaGenova 3 febbraio 2002. (Firma del Giobatta)

sottoscrive anche per autentica (Firma di avv. Cicero)

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IV.Costituzione di parte civile

Per sapere se già è maturato il tempo utile per la tua costituzione (termine iniziale) oppure se devi ancora aspettare, vedi “Avvertenze” in calce a “formula” A, sub. 9. Per sapere se sei ancora in tempo per costituirti (termine finale) vedi sempre “Avvertenze” sub.11. Una volta che sai di poter costituirti e vuoi costituirti devi seguire formalità diverse a seconda che tu voglia costituirti in udienza (vedi postea sub 3) o fuori d’udienza (vedi postea sub 5). Se ti costituisci in udienza dovrai per prima cosa redigere (possibilmente nella tranquillità del tuo studio) l’atto di costituzione seguendo la falsariga della formula A. L’atto lo redigerai in carta semplice. Basterà una copia (+ un’altra per tuo promemoria) nel caso normale in cui tu ti costituisca per un solo danneggiato e contro un solo imputato; tu mi domandi: se i danneggiati o gli imputati sono più di uno? La risposta la trovi in “Avvertenze” sub 7. Sarà opportuno che già prima di recarti in udienza tu ti prepari le “conclusioni” (vedi formula B); questo ad evitare quegli errori in cui potresti cadere compilando tali atti nella confusione dell’udienza. Dovrai ricordarti di recarti in udienza munito della marca (che mentre scrivo é del valore di circa 8 euro) da consegnare al cancelliere per le cosìdette “spese forfettarie”. Appena che è chiamato il processo tu ti avvicini allo scranno del presidente e dicendo che vuoi costituirti (“Sono l’avvocato Cicero, mi costituisco per il danneggiato Pinco Pallino”) gli consegni l’atto di costituzione. E con ciò la costituzione in udienza è perfezionata. Passiamo alla costituzione fuori d’udienza. Se tu vuoi costituirti prima dell’udienza devi comportarti come detto di seguito sub 5A.5A -Per prima cosa devi redigere l’atto di costituzione (come già detto sub 3, cioè seguendo la falsariga della formula A). In teoria ti basterebbe fare, di tale atto, una copia (dato che una sola copia ne richiede la cancelleria): siccome però l’atto di costituzione andrà poi notificato (come vedremo subito sub 5B) è opportuno, per guadagnare tempo predisporre (nella tranquillità del tuo studio) le copie occorrenti per la notifica. Sempre per guadagnare tempo è opportuno predisporre in tali copie la “relata di notifica” (con l’avvertenza di lasciare, prima di redigere tale relata, uno spazio vuoto di 3,4 righe: in tale spazio il cancelliere potrà scrivere la formula di certificazione della copia all’originale).5B – Redatto come detto sopra l’atto di costituzione ti recherai (portandoti dietro, originale e copie dell’atto) nella cancelleria del giudice presso cui pende il

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procedimento (quindi, in caso di costituzione prima dell’udienza preliminare, ti recherai nella cancelleria del GUP, in caso, invece, di costituzione nella fase degli atti preliminari al dibattimento, ti recherai nella cancelleria del tribunale o della corte d’assise). Giunto nella cancelleria ad hoc consegnerai l’originale dell’atto al cancelliere. Facendo ciò ti sarai costituito. Ma perché tale tua costituzione abbia effetto per le altre parti devi notificarla (vedi co. 2 art. 78 C.P.P.).A tal fine devi procedere come di seguito detto sub 5C.5C – Per prima cosa chiederai al cancelliere (presso cui hai effettuata la costituzione) le copie autentiche necessarie per la notifica (tale incombente ti risulterà naturalmente semplificato se avrai avuta, come suggerito sub 5A, l’avvertenza di predisporre le copie dell’atto prima di depositarlo). Ma quante saranno le copie necessarie per la notifica? Dipenderà dal fatto che tu abbia optato per la notifica tramite ufficiale giudiziario (art. 148 1° comma) o per la notifica a mezzo posta (art. 152). Nel primo caso, saranno necessarie all’ufficiale giudiziario (e quindi dovrai richiedere al cancelliere) tante copie quante sono le parti a cui deve essere consegnata copia dell’atto (per sapere quali sono tali parti vedi “Avvertenze” sub 7) più una (su cui l’ufficiale giudiziario stenderà la relata della notifica effettuata a tutte le parti, il così detto “originale di notifica”). Nel secondo caso, saranno necessarie tante copie autentiche quante sono le persone a cui è necessario spedire copia dell’atto; a queste copie autentiche ne dovrai aggiungere una non autentica per i fini di cui all’art. 56 disp. att. Vediamo ora gli altri incombenti che dovrai assolvere a seconda che tu abbia optato per una notifica a mezzo ufficiale giudiziario (come detto sub 5D) o a mezzo posta (come detto sub 5E).5D – Nel caso di notifica tramite ufficiale giudiziario, dovrai: A) portare le copie all’ufficiale giudiziario (dopo aver predisposta la relata di notifica); B) lasciato passare qualche giorno, tornare da lui per ritirare il c. d. “originale di notifica”;C) depositare l’originale di notifica nella cancelleria del giudice davanti al quale pende la causa (ciò al fine di comprovare che è stata eseguita quella notificazione a cui il 2° comma art. 78 subordina l’efficacia della costituzione).5E- Nel caso di notifica a mezzo posta dovrai: A) spedire le copie autentiche mediante lettera racc. con avviso di ricevimento; B) ritornato l’avviso di ricevimento, attestare, in calce alla copia (non autentica) dell’atto di costituzione che “copie conformi al sovraesteso atto sono state spedite in busta chiusa (o “in piego”, a seconda che tu abbia scelto questo o quel sistema di spedizione – v. art. 56, 2° co.) ai sensi dell’art. 152 alle parti risultanti dagli avvisi di ricevimento allegati”; C) depositare l’atto di cui sub B + gli avvisi di ricevimento in cancelleria (ciò al fine di comprovare che è stata eseguita quella notificazione a cui il 2° comma art. 78 subordina l’efficacia della costituzione).

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Formula A: Atto di costituzione di parte civile

Tribunale di GenovaAtto di costituzione di parte civile

di Giobatta Parodi – parte danneggiata (avv. Cicero Claudio)nel procedimento controBianchi Alfredo – imp. del reato p. e p. art.589 C.P. – Giudice Dott. Ricci – r.g.n.r. 4/90.

xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx

Ill.mo Giudice dell’Udienza Preliminare - Il sottoscritto Avv. Cicero Claudio del Foro di Genova -per nomina in calce al presente atto (art.100 C.P.P.) difensore di Giobatta Parodi - in forza di procura speciale (art. 78 C.P.P.) rilasciatigli sempre in calce al presente atto

si costituiscein nome e conto del prefato Giobatta Parodinel procedimento penale controAlfredo Bianchi chiamato a rispondere del reato di omicidio colposo di Federico Parodi all’udienza da Voi tenuta il giorno 25.05.2005;al fine di domandare il risarcimento di ogni e qualsivoglia danno subito dal Giobatta Parodi come conseguenza del reato contestato al Bianchi Alfredo nella richiesta di rinvio a giudizio e di quegli altri reati eventualmente contestatigli in udienza.La domanda

si giustificaper i fatti e le colpe evidenziate nella Richiesta di rinvio a giudizio e per il fatto che il GiobattaParodi è figlio legittimo dell’ucciso Federico Parodi.Genova 20.04.2005 (Avv. Claudio Cicero)

Procura speciale e nomina a difensore: - Il sottoscritto Giobatta Parodi nato a Genova il 23. 09.1936 e ivi res. in via S. Gerolamo 11 - per gli effetti di cui all’art. 78 C.P.P. dà procura all’Avv. Claudio Cicero a che si costituisca nel procedimento penale contro Alfredo Bianchi di cui al sovraesteso atto al fine di compiervi in ogni stato e grado gli atti necessari per far valere il suo diritto al risarcimento, per rinunciarvi o transigerlo.- per gli effetti dell’art. 100 C.P.P. nomina lo stesso Avv. Claudio Cicero difensore di se medesimo come sopra costituito parte civile.

(Sottoscrizione di G. Parodi)Per autentica (Sottoscrizione dell’Avv. Cicero)

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Avvertenze2) Le norme da tenere presenti sono: artt.74 ss. C.P.P. e in particolare l’art.78.3) L’atto di costituzione della parte civile nel processo penale (…..) proviene dal difensore e deve essere da lui sottoscritto (cfr. Ghiara, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, vol.I,p. 370).4) La costituzione di parte civile non può avvenire in virtù di mandato generale. (arg. ex art. 76)5) La procura speciale rilasciata ai sensi dell’art. 76 c.p.p. per la costituzione di parte civile va distinta dalla procura speciale ex art. 100 c.p.p. con cui si conferisce la rappresentanza processuale; i due atti sono diversi e autonomi, pur potendosi delegare con la stessa procura sia la dichiarazione di costituzione di parte civile che la rappresentanza (cfr. Cass. sez. V, 7 marzo 1995, Prati, Cass. pen., 1996, 1532). In altre parole – mentre nel processo civile il cliente dandoti la procura ti dà ipso facto il potere di iniziare la causa civile (notificare l’atto di citazione, costituirti in giudizio…) – nel processo penale il cliente-danneggiato, se, com’è norma, non si costituisce di persona o tramite un terzo, ma si costituisce tramite te, avvocato, deve darti due procure: una per conferirti il potere di costituirti, l’altra per conferirti il potere di difenderlo. Nella prima procura la sottoscrizione del cliente va autenticata.5 - La parte lesa minorenne per costituirsi parte civile deve essere rappresentata o assistita nelle forme di legge (vedi Cass. Sez.III, 12 febbraio 1970, Clemente, Giust. Pen. 1971, III); mentre, invece, “nel procedimento penale contro il minore (….) basta che la costituzione avvenga nei confronti del minore, senza che sia richiesta l’assistenza del suo legale rappresentante” (Cass. Sez. III, 10 aprile 1958, Giust. Pen., 1958,III,844)6- La costituzione di parte civile non è atto di straordinaria amministrazione (Cass. Sez. IIIciv., 8 settembre 1960, Di Bello); perciò per effettuarla, quando la parte costituenda è minorenne, non occorre autorizzazione del giudice tutelare (Cass. Sez. I, 12 giugno 1967, Dr. Somma,Giust. Pen. 1968, III, 252, n.298).7- Posto che la costituzione di parte civile realizza la inserzione nel processo penale di un rapporto civilistico per il risarcimento del danno e per le restituzioni di cui sono parti il danneggiato, da un lato, e l’imputato ed il responsabile civile, dall’altro, ne consegue che le altre parti, cui essa deve essere notificata, sono appunto l’imputato ed eventualmente il responsabile civile con esclusione del pubblico ministero, che è del tutto estraneo al suddetto rapporto” (Cass. pen. Sez. IV, 5 giugno 1997, n.5270).8-“In tema di costituzione di parte civile, l’impegno argomentativo necessario a giustificare l’esercizio dell’azione civile nel processo penale dipende dalla natura delle imputazioni e dal rapporto tra i fatti lamentati e la pretesa azionata; ne consegue che quando tale rapporto sia immediato (come nella specie, in cui si

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denuncia il reato di minaccia), ad integrare il requisito previsto dall’art. 78, comma primo, lett.d) cod. proc. pen. é sufficiente il mero richiamo al capo di imputazione descrittivo del fatto” (Cass. V sent. 544 del 12. 1. 2007).9- “La costituzione di parte civile é possibile solo « dal momento del promovimento dell’azione penale nei confronti dell’imputato, cioè dal momento del deposito da parte del pubblico ministero, della richiesta di rinvio a giudizio (art. 416) o di giudizio abbreviato (art. 439). Se si procede a giudizio immediato o a giudizio direttissimo (con omissione dell’udienza preliminare) il termine decorrerà rispettivamente, dalla presentazione della richiesta di cui all’art. 453 e dalla presentazione dell’imputato in udienza a norma dell’art. 449” (Chiara, Op. cit.,p.379).10-Il termine previsto dall’art. 79 c.p.p. opera solo con riguardo alle imputazioni originarie e non in caso di contestazione suppletiva (C. cost. n.98 del 1996). “Quando nel corso del dibattimento il P.M. proceda a contestazione suppletiva ai sensi degli artt. 516, 517 e 518, n.2, la parte offesa ha diritto alla sospensione del dibattimento per essere nuovamente citata in giudizio, o, se presente, per potersi costituire parte civile negli atti introduttivi della nuova udienza. Infatti a seguito della contestazione di un nuovo fatto-reato è stata introdotta nel procedimento penale una nuova causa pretendi contro l’imputato, in relazione alla quale la persona offesa deve essere messa in grado di valutare se esercitare l’azione civile nella sede penale prima che sullo stesso fatto-reato si apra l’istruzione dibattimentale. A maggior ragione deve essere data la possibilità alla parte offesa già costituita parte civile di modificare il rapporto già costituitosi estendendolo anche alla nuova contestazione” (Cass. pen. Sez. III, 27 ottobre 1995, n. 10660, Roncati).11-“Il termine finale (per la costituzione di parte civile) “è fissato, in corrispondenza al compimento, da parte del giudice del dibattimento, dei controlli circa la regolare costituzione delle parti nel dibattimento (art. 484), e quindi deve considerarsi scaduto con l’inizio di trattazione delle questioni preliminari – tra cui, appunto, quelle sulla costituzione di parte civile (art. 491) – alla quale seguiranno la dichiarazione di apertura del dibattimento e la lettura delle imputazioni (art. 492).(Ghiara, Op. cit., p. 380)12-Per il principio di immanenza della costituzione di parte civile,la parte danneggiata, una volta costituitasi tempestivamente in primo grado, può partecipare agli ulteriori gradi senza necessità di una nuova costituzione (cfr. Cass. Sez. Un. 20 febbraio 1971, Bassi, Giust. Pen. 1972, III, 647).

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Formula B: Conclusioni della parte civileTribunale di Genova

Conclusioni presentate daGiobatta Parodi – parte civile costituitaContro Bianchi Alfredo – imputato di lesioni colpose.“ Piaccia al Tribunale ill.mo, ritenuta la penale responsabilità dell’imputato, condannarlo all’integrale risarcimento dei danni, materiali e morali, patiti e patiendi; danni da liquidarsi nella somma di centomila euro o in quella maggiore meglio vista. Condanna provvisoriamente esecutiva. In ipotesi che non ritenga acquisita la prova per un’integrale liquidazione, piaccia al Tribunale ill.mo condannare l’imputato ad una provvisionale immediatamente esecutiva calcolata in somma non minore di ventimila euro. Piaccia infine al Tribunale ill.mo condannare l’imputato al pagmento delle spese processuali sostenute dalla parte civile, come determinate nella separata notula che si allega”.Genova 20 settembre 2005 (Sottoscrizione del difensore)

Avvertenze“ Le conclusioni della parte civile debbono consistere sempre in una domanda di condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno e non possono limitarsi al solo rimborso delle spese giudiziali” (Cass. 19 aprile 1969, Leoni)

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V.Richiesta di esclusione della parte civile

Premessa. La richiesta di esclusione può essere fatta all’udienza (preliminare o dibattimentale) o fuori d’udienza.Nel primo caso si fa oralmente: il difensore (dell’imputato o del responsabile civile), una volta che il giudice ha controllato la regolare costituzione delle parti (v. art 491), si alza e…fa la sua brava richiesta di esclusione.In caso di richiesta fuori di udienza, invece, bisogna: Redigere (in carta semplice) l’istanza secondo la formula A. Naturalmente l’intestazione della richiesta cambierà a seconda che sia indirizzata al GIP.,al tribunale (…). Depositare l’atto così redatto nella cancelleria del giudice che procede.N.B.: non occorre provvedere a nessuna notifica: l’iter si esaurisce col deposito dell’atto.

Formula A: Richiesta di esclusione della parte civile

Ill.mo Giudice delle indagini preliminaripresso il Tribunale di Genova- Luigi Rossi nella persona del suo difensore avv. Caio Cicero- nella sua qualità di imputato di omicidio colposo di Fani Alberto nel procedimento R.G. N.R.- visti gli artt. 74 e 80 C.P.P.

chiedel’esclusione dal procedimento di Fani Giulia costituitasi parte civile, per i seguenti

Motivi

La Fani Giulia non ha nessun rapporto di parentela con l’ucciso e quindi non può vantare nessun danno risarcibile.Con osservanzaGenova 22 dicembre 2010 (Sottoscrizione del difensore)

Avvertenze

L’istanza può essere proposta indifferentemente dall’imputato o dal suo difensore (comb. disp.artt. 80 c.1 e 99).Nel caso provenga dal responsabile civile, noi saremmo propensi a ritenere

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legittimato solo il suo difensore (art. 100 c.1).“E’ appena il caso di ricordare che l’imputato minore ecc. non è mai incapace processualmente e che quindi può proporre opposizione senza necessità di assistenza o di rappresentanza” (Levi, La parte civile nel processo pen.it., cit., p.455).

“Se la costituzione di parte civile è proposta “per l’udienza preliminare” ai sensi dell’art. 79.1, cioè tra il deposito della richiesta di rinvio e l’udienza, la richiesta di esclusione può essere presentata per iscritto fuori d’udienza (prima o dopo di essa) oppure oralmente nell’udienza preliminare o in quella dibattimentale, fino al momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (artt. 420 e 484). Se la costituzione è proposta dopo l’udienza preliminare, nel corso degli atti preliminari al dibattimento, la richiesta di esclusione va presentata nella fase di trattazione delle questioni preliminari (art. 491.2). Cioè subito dopo gli accertamenti di cui all’art. 484 e prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 492.1). Questi termini sono stabiliti a pena di decadenza, salva restando la facoltà di esclusione d’ufficio a norma dell’art. 481” (Ghiara, op. cit., pp. 383-384).“ L’esclusione può essere pronunciata sia per difetto di requisiti formali prescritti a pena di inammissibilità (art. 78), sia per la mancanza del potere di costituzione per intervenuta preclusione (art. 75.1) o decadenza (art. 79.1), sia, infine, per l’infondatezza nel merito della domanda di danno (difetto di legittimazione o inesistenza di un danno risarcibile) sotto il profilo della mancanza di fumus boni iuris” (Ghiara, Op. cit.,p.383).

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VI.Citazione del responsabile civile

-Devi costituirti parte civile, notificare la costituzione, depositare in cancelleria la copia contenente la relata di notifica (andata a buon fine) dell’ufficiale giudiziario: il tutto come si è detto nell’iter “Costituzione di parte civile”.

–Devi redigere l’istanza secondo la seguente “formula A” (naturalmente cambiando nell’intestazione l’autorità destinataria dell’atto, secondo i casi GIP, o tribunale o Corte di assise….).

- Devi depositare l’istanza nella cancelleria del giudice presso cui pende la causa.

Dopo che il giudice avrà posto in calce alla tua istanza il decreto di cui al 3° comma art. 83,tu chiederai al cancelliere le copie necessarie per la notifica della tua istanza e del pedissequo decreto. Ma quante saranno le copie a ciò necessarie? Dipende se opti per la notifica tramite ufficiale giudiziario (art. 148.1) o per la notifica a mezzo posta (di cui all’art.152).Nel primo caso, saranno necessarie all’ufficiale giudiziario (e quindi si richiederanno al cancelliere) tante copie quante sono le parti a cui deve essere consegnata copia dell’atto (in pratica, quanti sono i responsabili civili + gli imputati + il P.M.), più una (il c. d. “originale di notifica in calce al quale l’ufficiale giudiziario stenderà la sua “relata di notifica”).Nel secondo caso, saranno necessarie tante copie autentiche quante sono le persone a cui è necessario spedire copia dell’atto (e che naturalmente sono le stesse a cui andrebbe, l’atto, notificato – vedi sopra) + una copia non autentica per i fini di cui all’art. 56 disp.att.

5) – Nel caso di notifica tramite ufficiale giudiziario si procede così: A) si portano le copie all’ufficiale giudiziario (dopo aver predisposta la relata di notifica); B) lasciato passare qualche giorno si torna dall’ufficiale giudiziario per ritirare il c.d. “originale di notifica”; C) si deposita l’originale di notifica nella cancelleria davanti a cui pende la causa (ciò in adempimento del 4° comma ult. parte art. 83).Nel caso di notifica a mezzo posta si procede invece così: A) si spediscono le copie autentiche mediante lettera racc. con avviso di ricevimento; B) ritornato l’avviso di ricevimento, in calce alla copia (non autentica) dell’atto di costituzione, si attesta

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che “copie conformi al sovraesteso atto sono state spedite in busta chiusa (o “in piego”, a seconda che si è scelto questo o quel sistema di spedizione – v. art. 562 disp. att.) ai sensi dell’art. 152 alle parti risultanti dagli avvisi di ricevimento allegati”; C) si deposita l’atto di cui sub B + gli avvisi di ricevimento in cancelleria (in adempimento del 4° comma ult. parte art. 83).

Formula A: Istanza per citazione responsabile civile

Tribunale penale di GenovaIstanza per la citazione del responsabile civile

Ill.mo Giudice delle indagini preliminaripresso il Tribunale di Genova- Elvira Faini res. in Genova, rappresentata e difesa dall’avv. Caio Cicero- parte civile nel procedimento penale contro Luigi Rossi imputato di omicidio colposo (RG. Gip 9/90)fa istanza- perché Luigi Bianchi res. in Firenze, via Martelli 4- proprietario dell’auto investitrice- sia citato a comparire nella qualità di responsabile civile all’udienza preliminare che si terrà il 31 gennaio 2011 nei soliti locali dell’Ufficio del GIP presso il Tribunale di Genova, davanti alla S.V.- a che possa dire e provare (nel caso denegato che abbia qualcosa da dire e provare) a propria difesa e contro l’accoglimento della seguente domanda che l’istante parte civile intende proporre se del caso meglio dettagliata e specificata all’ill.mo Tribunale:“Piaccia all’ill.mo Tribunale, ritenuta la penale responsabilità dell’imputato, per l’effetto condannarlo in solido con il responsabile civile al risarcimento dei danni, materiali e morali, patiti e patiendi, conseguenti alla morte di Faini Alberto avvenuta per fatto e colpa dell’imputato stesso il 15 ottobre 1998 in Genova”.Con osservanzaGenova 20dicembre 2010 (Sottoscrizione del difensore Cicero)

Avvertenze – 1 -”La citazione del responsabile civile è richiesta dalla parte civile – a mezzo del difensore che la rappresenta nel processo (art.100.4) – o dal pubblico ministero nel caso previsto dall’art. 77.4 ed è ordinata dal giudice, così da consentire il controllo preliminare di ammissibilità anche nel merito della domanda (sussistenza del fumus boni iuris)” (Giara,Op. cit., p.387).2- “La prescritta enunciazione delle domande che si fanno valere contro il responsabile civile implica necessariamente l’indicazione dell’imputato nonché del

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fatto a lui attribuito (fatto di cui il soggetto citato è chiamato a rispondere); l’insufficienza di tali indicazioni, impedendo al responsabile civile di esercitare il diritto di difesa, comporterà al nullità della citazione ex art. 178 lett.c)” - (Ghiara, Op. cit.,p. 388).3- “(Il decreto del giudice e quindi l’istanza che deve agevolare il giudice nella costruzione del decreto, deve) indicare (…) gli elementi indispensabili per individuare il dibattimento – data, ora, luogo –quali risultano dal decreto che dispone il giudizio” (Ghiara, Op. cit.,p. 388).

4- “La richiesta (di citazione del responsabile civile) deve essere proposta al più tardi per il dibattimento” (co.3 art.83).Però, siccome “la citazione del responsabile civile” deve porre questo “In condizione di esercitare i suoi diritti nell’udienza preliminare (artt. 416ss) o nel giudizio (artt. 465ss.)” e pertanto il relativo decreto di citazione deve concedere al responsabile civile lo stesso termine dilatorio concesso all’imputato e alla parte offesa (v. per il dibattimento gli artt. 429 co.4, 456 co.3, 552 co.3 e, per l’udienza preliminare, espressamente l’art. 419 co.4), da tutto ciò consegue che la richiesta deve essere presentata in modo da permettere l’osservanza di tale termine dilatorio.5 – “E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 83 c.p.p. nella parte in cui non prevede che, nel caso di responsabilità civile derivante dalla assicurazione obbligatoria prevista dalla l. 24 dicembre 1969 n.990, l’assicuratore possa essere citato nel processo penale a richiesta dell’imputato (….)” (Corte Cost., 16 aprile 1998, n. 112, in Cass. pen., 1999, 2457).

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VII.Nomina a difensore dell’imputato

Se l’imputato si trova al cospetto dell’autorità procedente (ad esempio si trova in sede di interrogatorio, di dibattimento…) egli potrà fare e di norma farà la nomina oralmente. Anzi di solito la nomina si realizzerà nel caso senza nessuna sua dichiarazione esplicita: il difensore si presenta al giudice come difensore di Pinco Pallino, Pinco Pallino presente, stando zitto, assente: la nomina è bella che fatta.Mettiamoci ora nel caso che la nomina non sia fatta con “dichiarazione resa all’autorità procedente”. Allora andrà fatta per iscritto seguendo la falsariga della formula A o della formula B, a seconda che nel contesto della nomina si vogliano inserire dichiarazioni aggiuntive (richiesta di giudizio abbreviato, elezione di domicilio…) oppure no.La nomina come sopra redatta andrà comunicata alla “autorità procedente” (quindi al p.m., melius alla procura della repubblica presso il tribunale, nel caso si sia ancora nella fase delle indagini preliminari, al tribunale, nel caso il p.m. abbia esercitato l’azione penale con decreto di citazione davanti al giudice monocratico….).La comunicazione all’autorità procedente può avvenire per spedizione con lettera raccomandata (non per fax !) o mediante consegna da parte del difensore (v. art. 96 co.2).Il difensore può provvedere alla consegna personalmente o tramite persona da lui delegata (la segretaria, un praticante…). La delega si ritiene che possa essere solo orale.La nomina di un secondo difensore, dopo che già ne era stato nominato uno, è possibile e potrebbe essere formulata così: “Il sottoscritto Giobatta P. indagato ecc.ecc. conferma (oppure, revoca) la nomina già effettuata dell’Avv. Plinio e con l’atto presente nomina ecc.ecc.”Tenere presente però che, a norma dell’art. 96 c.p.p., l’imputato ha diritto di nominare due soli difensori di fiducia e che l’art. 24 disp. att. stabilisce che la nomina di ulteriori difensori si considera “senza effetto”, finchè non sono revocate le nomine precedenti che risultano eccedenti. Quindi l’imputato che, dopo aver nominato già due difensori, vuole nominarne un terzo, deve per forza revocare uno dei due precedenti nominati, altrimenti la nomina del terzo rimarrà senza effetto.Peraltro “non vi è dubbio che la nomina (di un difensore di fiducia) opera per tutto il procedimento, potendo i relativi effetti cessare solo per revoca, per rinuncia, per incompatibilità, per morte o sopravvenuta incapacità del difensore” (G. Frigo in “Commentario del nuovo codice di procedura penale, 1989, Giuffré. vol. I, p. 618).

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In particolare “il difensore che omette di intervenire al dibattimento o ad un atto a cui la sua partecipazione è necessaria senza farsi sostituire, non perde la sua qualifica” (G. Frigo, Op. cit., p. 619).

Formula A – Nomina a difensore dell’imputato (pura e semplice)Tribunale penale di Arezzo

Nomina a difensore Imp. Giobatta Parodi; ud. 13.10.11; RGNR 45328/10

Il sottoscritto Giobatta Parodi nato a Genova il 06.09.36 imputato nel procedimento penale n.45328/10 del reato p. e p. dall’art. 648 C.P.

nominaproprio difensore nel procedimento sopra indicato l’Avv. Tullio Cicero del Foro di Arezzo ivi con studio in via Cellini7.Arezzo 23.06.11 (Sottoscrizione di GiobattaParodi)

Formula B – Nomina a difensore dell’imputato

(con altre dichiarazioni contestuali)

Tribunale penale di Arezzo

Nomina a difensoreImp. Giobatta Parodi; ud. 13.10.11;RGNR 45328/10

Il sottoscritto Giobatta Parodi nato a Genova il 06.09.36 imputato nel procedimento penale n.45328/10 del reato p. e p. dall’art. 648 C.P.

nominaproprio difensore nel procedimento sopra indicato l’Avv. Tullio Cicero del Foro di Arezzo ivi con studio in via Cellini 7.E conferisce allo stesso

procura speciale

per la presentazione eventuale: di richiesta di giudizio immediato ai sensi dell’art. 419 C.P.P.; di applicazione pena ai sensi degli artt. 444 ss. C.P.P.; di giudizio abbreviato ai sensi degli artt. 438 ss. C.P.P.Il sottoscritto elegge altresì domicilio ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 161 C.P.P.in Arezzo via Cellini 7 presso e nello Studio del prefato suo difensore.Arezzo 23.06.11 (Sottoscrizione di Giobatta Parodi)

Per autentica(Sottoscrizione del difensore Cicero)

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Avvertenze

Di per sé la sottoscrizione di una nomina a difensore non dovrebbe essere autenticata; ma lo deve se l’atto di nomina, oltre che la vera e propria nomina, contiene negozi (processuali) aggiuntivi (come nella formula sub B).Attenzione! per la nomina del difensore (non dell’imputato, ma) delle altre parti processuali leggersi gli artt.100 e 101 (che richiedono invece sempre la autentica della sottoscrizione, che peraltro può essere effettuata dallo stesso difensore).

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VIII.Non accettazione – Rinuncia – Revoca dell'incarico difensivo –

Richiesta di esonero da una nomina d'ufficio

Parliamo prima della non-accettazione (di una nomina fiduciaria).L'avvocato che vuole rinunciare a una nomina di fiducia deve darne comunicazione all'autorità procedente e a chi gli ha conferito l'incarico (non gradito). Fino a che la comunicazione di “non-accettazione” non é pervenuta all'autorità procedente, egli é tenuto a svolgere la sua attività difensiva (v. art. 107). Ma come si fa la comunicazione all'autorità procedente? Se si vuole può farsi anche recandosi di persona nella cancelleria (o segreteria) dell'autorità procedente (arg.ex art. 96 co.2); però la forma più opportuna di comunicazione é data dalla lettera raccomandata (v. formula A).Parliamo ora della rinuncia (sempre a una nomina fiduciaria).Essa implica una accettazione, tacita o espressa, dell'incarico difensivo. Anche in caso di rinuncia, così come in caso di non-accettazione, l'avvocato deve comunicare la sua volontà (di non svolgere l'attività difensiva) sia all'autorità procedente che a chi ebbe a fargli la nomina fiduciaria. Però, al contrario di quanto avviene nel caso di non-accettazione, l'avvocato non sarà liberato dai suoi obblighi al momento in cui la sua comunicazione perverrà all'autorità procedente, ma solo quando la parte risulterà “assistita da un nuovo difensore di fiducia o da un difensore d'ufficio e sarà decorso il termine eventualmente concesso a norma dell'art. 108” (v. sempre art. 107). Anche in caso di revoca l'avvocato é vincolato alla sua attività né più né meno che avesse rinunciato al mandato. Da qui sorgerà per lui l'onere di comunicare la revoca all'autorità procedente (se già non vi avesse proceduto chi ebbe a nominarlo).Parliamo infine della richiesta di esonero da una nomina d'ufficio. Essa va naturalmente indirizzata all'autorità procedente e in essa si deve indicare il motivo che la giustifica (v. art. 30 disp. att.). Fino a che l'autorità non avrà provveduto all'esonero (e vi provvederà solo se lo riterrà giustificato) l'avvocato sarà tenuto a svolgere la sua attività difensiva.

Formula A: Dichiarazione di non-accettazioneRacc. A.R.Al sig. Lestofanti AttilioAll'ill.mo Tribunale di Canicattì – Sez. I

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il sottoscritto avv. Cicero del Foro di Roma dichiara di non accettare la nomina a difensore fatta a suo favore dal sig. Lestofanti Attilio imputato di furto nel procedimento n. 345/12 R.G.N.R. Procura Repubblica presso il Tribunale di Canicattì.Data (Avv. Cicero)

Avvertenze-Non occorre motivare la non-accettazione.

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IX.Nomina a sostituto

I riferimenti normativi sono dati dall'art. 102.La nomina a sostituto é ammissibile anche se non é giustificata da un impedimento del difensore-titolare.Si ritiene ammissibile la nomina fatta in via generale per tutta l'attività difensiva relativa un dato processo (ma in tali casi, per non rischiare una responsabilità per abbandono della difesa ex art. 105, può essere opportuno ottenere il consenso dell'imputato alla nomina).Un'idea di come possa essere redatto l'atto de quo, lo studioso la può ricavare dalla seguente formula A.

Formula A: Nomina a sostituto

Tribunale di CanicattìNomina a sostituto

Giudice, Dott. Plinio; ud. 14.01.20\12; imp. Lestofanti A.; R.G. N.R. 3450/11

Ill.mo Tribunaleil sottoscritto Avv. Cicero I del Foro di Roma nella sua qualità di difensore di Lestofanti Attilio imputato di furto nel procedimento n. 3456/11 Procura Repubblica presso Tribunale Canicattì

dichiaradi nominare suo sostituto ai sensi dell'art. 102 C.P.P. l'avv. Plinio del Foro di Roma e ivi con Studio in via Giulio Cesare 3.Con osservanzaData (Avv. Cicero I)

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X.Nomina di difensore alla parte offesa e alla parte civile

Sia la parte offesa sia la parte civile possono nominare un difensore (ma non più di un difensore). Vedi per le relative “formule” postea - gli articoli di riferimento sono rispettivamente l'art.101 e 100.Autorevolmente si ritiene che al difensore della parte offesa non sia estensibile la norma dell'art. 99 relativa all'imputato e pertanto non gli si riconosce un potere di rappresentanza “generalizzato”: egli avrebbe solo una funzione di assistenza tecnica. Discutibile é se egli possa proporre opposizione alla richiesta di archiviazione e ricorso in cassazione contro il decreto di archiviazione: l'orientamento prevalente sembra essere che egli possa proporre opposizione alla richiesta di archiviazione ma non ricorso contro il decreto di archiviazione.

Formula A: nomina a difensore della parte offesa

Alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Canicattì (1)

il sottoscritto Giobatta Parodi nato a Genova il 06.08.1978 ivi residente in via Roma 3 persona offesa nel procedimento n.453/2012 R.G.N.R. Procura della Repubblica presso il Tribunale di Canicattì, contro Lestofanti Attilio nato a Roma il 09.12.1979 residente in Roma via Cesare 2 imputato del reato p.e p. dall'art. 648 C.P.

nominasuo difensore l'avv. Cicero del Foro di Genova con Studio in Genova via Garibaldi n.5 eleggendo domicilio nel Suo Studio.Con osservanzaCanicattì …..... ( Giobatta parodi)

visto per autentica (Avv. Cicero)

Avvertenze(1) Indicare l'A.G. presso cui pende il procedimentoIn forza dell'art. 122 la sottoscrizione può essere autenticata anche dal difensore.

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Formula B: nomina di difensore alla parte civile

Tribunale di Canicattì – Ufficio del Giudice delle Indagini preliminari (1)

Ill. mo Giudice delle indagini preliminari (1)Tribunale di Canicattìil sottoscritto Giobatta Parodi nato a Genova il 06.09.1967 ivi res. in via Roma 3 nella sua qualità di persona danneggiata dal reato nel procedimento 564/2010

R.G.N.R. Procura della Repubblica presso il Tribunale di Canicattì contro Lestofanti Attilio imputato del reato p.e p. dall'art.625 C.P. per aver in data 10-10.2010 sottratto,,,,,,,,,,

nominaproprio difensore l'avv. Cicero del Foro di Genova con Studio in Genova via Garibaldi n.4, conferendo allo stesso

procura specialeaffinché provveda al deposito di costituzione di parte civile e lo rappresenti e difenda nel suindicato procedimento, con facoltà di nominare sostituti processuali, di avvalersi della collaborazione di consulenti tecnici e di investigatori privati e di impugnare le sentenze conclusive del grado di giudizio. La procura presente é conferita per ogni stato e grado del procedimento.Con osservanzaCanicattì...... (Giobatta Parodi)

visto per autentica (Avv. Cicero)

Avvertenze(1) Indicare l'A.G. davanti a cui ci si costituisce (GIP, Tribunale, Corte di Assise...)Ai sensi del c.5 art. 100 c.p.p. il domicilio della parte privata si intende eletto presso il difensore“La costituzione di parte civile (che può avvenire anche a mezzo di procuratore speciale ex art. 76) va distinta dalla rappresentanza processuale della parte civile, conferita a mezzo di procura speciale ai sensi dell'art. 101. I due atti sono diversi e autonomi, pur potendosi delegare con la stessa procura sia la dichiarazione di costituzione che la rappresentanza” (Cass. 07.03.95. Prati)“La persona danneggiata che si costituisce parte civile deve nominare un difensore ma non anche un procuratore speciale (la S.C. nell'enunciare il predetto principio ha precisato che l'obbligo di nomina del procuratore speciale, che può essere lo stesso difensore nominato con il medesimo atto, sussiste solo nel caso in cui la parte civile non risulti costituita personalmente” (Cass. 25.06.09).La procura speciale conferita dalla parte civile al proprio difensore non deve essere

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necessariamente posta in calce o a margine dell'atto di costituzione, potendo quindi essere redatta anche su separato foglio, purché sia riferibile in modo certo al processo cui la costituzione attiene” (Cass. 20.05.08 Nuvoli).“La procura si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell'atto non é espressa volontà diversa” - co. 3 Art. 100- L'art. 100 co. 5 individua presso il difensore il domicilio legale delle parti private diverse dall'imputato, che stiano in giudizio col ministero del difensore (c.d. domicilio legale delle parti “complesse”).

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XI.Indagini difensive

- Il difensore, ai “colloqui non documentati” di cui al co. 1 art. 391bis, può preferire di procedere, non direttamente, ma tramite un investigatore autorizzato o un consulente: in tal caso può essere opportuno ai fini dell’art. 103 co.2 e 5 informare di ciò il P.M. (formula A).- Nei casi in cui il difensore voglia procedere alla documentazione delle dichiarazioni del terzo (per poi produrre eventualmente il relativo “documento” in giudizio) la cosa più opportuna è che inviti il terzo a venire nel suo studio (formula B) per rilasciare una dichiarazione scritta già da lui elaborata (formula C) o per rispondere a un vero e proprio interrogatorio (formula D).- Tra i vari poteri di indagine che il codice riconosce al difensore particolare interesse rivestono quelli che concernono l’acquisizione di documenti (formula E) e l’accesso a luoghi (formula F).

Formula A: Comunicazione a Procura repubblica di nomina di investigatore o consulente

Ill.mo Signor Procuratore della Repubblicapresso il Tribunale di Arezzo

il sottoscritto Avv. Cicero Primo difensore di Rossi Mario indagato per il reato p. e p. dall’art. 628 C.P.,nel procedimento R.G.N.R 564/10

Vi comunicadi aver dato al sig. Lincei Guido, investigatore autorizzato, incarico di svolgere indagini difensive nell’interesse del proprio assistito. Tanto si comunica anche ai fini dell’art. 103 co.2 e 5.Con osservanzaArezzo 30.05.10 (Avv. Cicero Primo)

Formula B: Convocazione del terzo

Gent. Sig. Bianchi AlfredoVia Rimassa, 5 – Genova

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- Sono difensore di persona indagata per rapina in relazione ai fatti avvenuti il 05.05.2010 nella Banca del Lavoro in Arezzo Corso Italia 3.- Siccome mi risulta che Voi siete, su tali fatti, informato e ritengo opportuno documentare per scritto le informazioni che su di essi vorrete rilasciarmi- visto l’art. 391bis Codice di Procedura Penale

formalmente Vi invitoa presentarVi presso il mio Studio in Arezzo Via Cellini 7 il giorno 09.09.10 alle ore 11 per rilasciarmi una dichiarazione scritta sui fatti o per rispondere ad alcune mie domande su di essi - – come parrà meglio ai fini di giustizia.Nel caso di V. impedimento a presenziare all'appuntamento vorrete cortesemente avvisarmene, in modo che Vi possa fissare altra data anche tenendo conto delle V. esigenze.I più distinti salutiArezzo 30.05.2010 (Avv. Cicero Primo)

Avvertenze: E’ opportuno spedire la lettera per R.R.

Formula C.: Relazione che accompagna dichiarazioni scritte rilasciate dal terzo.

Indagini difensive (indagato, Rossi Mario; proc. 564/!0 RGNR)

Relazione sull’acquisizione di dichiarazioni scritte (art. 391ter C.P.P.)

Il sottoscritto Avv. Cicero Primo, nato a Genova il 06.09.1936, del Foro di Arezzo, nella sua qualità di difensore di Rossi Mario indagato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Arezzo per il reato p. e p. dall’art. 628 C.P. nel procedimento RGNR 564/!0

dà atto- che in data 10.11.2010 alle ore 11 nel proprio Studio sito in Arezzo via Cellini 7 è comparso il sig. Alfredo Bianchi nato ad Arezzo il 06.06.46- il quale ricevuti gli avvertimenti previsti dal comma 3 dell’art. 391bis C.P.P.- ha rilasciato la dichiarazione scritta che debitamente autenticata si allega alla presente- sui fatti avvenuti nella Banca del Lavoro sita in Arezzo Via Cavour 30 su cui la ill.ma Procura della Repubblica sta indagando per rapinaArezzo 10.10.2010-11-06 (Avv. Cicero Primo)

Avvertenze: La relazione non va sottoscritta dal terzo. Sarà invece il difensore o un

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suo sostituto a dover autenticare la dichiarazione del terzo.

Formula D: Verbale di assunzione di informazioni

Procura della Repubblica presso il Tribunale di ArezzoIndagini difensive

(indagato, RossiMario; RGNR 564/10)Verbale di assunzione di informazioni (art. 391bis)

- Il giorno 05.05.2010 alle ore 11 nello Studio sito in Arezzo via Cellini 7 del sottoscritto Avv. Cicero Primo, del Foro di Arezzo e nato a Genova il 06.06.66,- su invito dallo stesso Avvocato Cicero Primo fatto nella sua qualità di difensore di B.A. - è comparso il sig. Nicoletti Luigi nato ad Arezzo il 06.06.36 e ivi res. in via Roma 3 come tale identificato in base alla carta di identità rilasciatagli dal Comune di Arezzo in data 12.04.98.L’Avvocato Cicero Primo rende edotto il sig. Nicoletti Luigi:- che, nella qualità di difensore di persona indagata per rapina nel procedimento iscritto al n. 564/10 del RNR presso la Procura della Repubblica in relazione ai fatti avvenuti il 15.05.10 alle ore 11 circa in Arezzo nella Banca del Lavoro, intende porgli delle domande procedendo alla verbalizzazione delle sue risposte e con riserva di produrre il verbale così redatto in giudizio; - ch’egli ha facoltà di non rispondere (nel qual caso potrà essere interrogato dal Pubblico Ministero), ma che se risponde è tenuto a dire la verità su quanto è a sua conoscenza, dato che qualora renda false dichiarazioni sarà punibile per il reato previsto e punito dall’art. 371-ter Codice Penale; - che ha l’obbligo di dichiarare se è sottoposto ad indagini o è imputato nello stesso procedimento per cui si vuole interrogarlo, o in un procedimento connesso o per un reato collegato;- che la Legge gli fa divieto di rivelare le domande eventualmente fattagli dalla Polizia Giudiziaria o dal Pubblico Ministero e le risposte, a tali domande, da lui date.Si dà atto che il sig. Nicoletti Luigi si dichiara disposto (oppure, non disposto) a rispondere alle domande che gli si vorranno rivolgere.Domanda:………………………………………………………………………………….Risposta:…………………………………………………………………………………..Domanda:………………………………………………………………………………….Risposta:…………………………………………………………………………………..Si dà atto che il presente verbale viene chiuso alle ore 12 del 05.05.10.

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Il verbale è stato redatto dalla segretaria dell’Avvocato Cicero Primo, Sig.ra Violetti Rosa nata ad Arezzo il 09.02.69.Letto confermato sottoscritto

(Sottoscrizione della persona interrogata)(Sottoscrizione della persona che ha verbalizzato)Anche per autentica della firma dell’interrogato(Sottoscrizione dell’Avv. Cicero Primo)

Avvertenze: Se la persona “informata” è sottoposta ad indagini o imputata nello stesso procedimento, in un procedimento connesso o per un reato collegato, vedi il comma 5.Se la persona “informata” è detenuta, vedi il comma 7.Se la persona “informata” ha rifiutato di rispondere (o non è comparsa per rispondere) si può chiedere al P.M. che proceda egli all’interrogatorio (v. melius il co. 10 art. 391bis.) o in alternativa si può chiedere l’incidente probatorio (v. melius il co.11 art. 391bis).Se la persona “informata” rende dichiarazioni autoindizianti occorre interrompere l’interrogatorio (v. melius co.9 art. 391bis).

Formula E: richiesta di documenti alla P.A.

Spett. Comune di BargagliUfficio……………………

Il sottoscritto Avvocato Cicero Primo del Foro di Arezzo e ivi con Studio in via Cellini 7, nella sua qualità di difensore di R.M. indagato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova nell’ambito del procedimento n.453/10 R.G.N.R per fatti che si pretendono avvenuti in data prossima al 30.01.09 e in cui si dovrebbe ravvisare un’estorsione;in forza dell’art. 391 quater C.P.P. e degli artt. 22 ss. legge 7 agosto 1990 n. 241

Vi chiededi essere autorizzato a visionare e, se del caso, ad estrarre copia dei seguenti documenti:A)………….; B)………………………………………Allega fotocopia dell’atto di nomina a difensore.Con osservanzaArezzo 23.02.2010-11-06 (Avv. Cicero Primo)

Avvertenze –In caso di rifiuto della P.A. si può chiedere al P.M., di disporre il sequestro della documentazione (come risulta espressamente dagli artt. 391quater

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e 368 C.P.) o (in forza di un facile argomento a minori ad maius) di ordinare la sua esibizione e rilascio di copia.

Formula F: richiesta di autorizzazione ad accedere a luoghi privati o non aperti al pubblico.

Tribunale di ArezzoUfficio del Giudice delle indagini preliminari

Richiesta di accesso a luogo privato (art.391 septies)Ill.mo Giudice delle indagini preliminari- Il sottoscritto Avv. Cicero Primo del Foro di Arezzo, nella sua qualità di difensore di Rossi Mario indagato dalla Procura della Repubblica di Arezzo nell’ambito del procedimento n. 564/10 R.N.R. per il reato p. e p. dall’art. 575 C.P.

premesso -che è emersa la necessità, nell’ambito delle indagini difensive svolte da codesto difensore, di accedere nei locali della fabbrica di salvagenti del sig. Mariotti Carlo- e ciò al fine di eseguire rilievi fotografici;che il sig. Mariotti Carlo, ancorché richiesto con lettera raccomanda che si allega, ne rifiuta l’accesso;visto l’art. 391 septies C.P.P.

chiedealla S.V. di autorizzare l’esponente unitamente ai seguenti collaboratori: sig. Fiesta Dario nato a Genova il 09.06.56 e sig. Campi Renato nato a Genova il 12.04.67 di professione fotografi- ad accedere nei locali della fabbrica del sig. Mariotti Carlo sita in Genova via Rimassa 6 r- formulando al riguardo le più chiare prescrizioni allo stesso sig. Mariotti Carlo res. in Genova via San Giorgio 36.Con perfetta osservanza.Arezzo 30.04.10 (Avv. Cicero Primo)

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XII.1) Richiesta di riesame ex art. 309 c.p.p.2) Istanza di revoca di misura coercitiva

- Contro un provvedimento che dispone una misura cautelare, in prima battuta, si può proporre una richiesta di riesame e, se tale richiesta ha esito negativo, si può, lasciato passare un congruo lasso di tempo, proporre una istanza di revoca.- Richiesta di riesame: Va redatta in carta libera seguendo la falsariga della formula A. Attenzione ai termini di cui al 1° comma e al 3° comma art. 309!Redatta l’istanza la si deposita nella cancelleria della “sezione del riesame” del tribunale competente (più semplicemente, “cancelleria del tribunale del riesame”). Ma qual è il tribunale competente? Lo dice il co. 7 dell’art. 309: “è “il tribunale del luogo nel quale ha sede la corte di appello o la sezione distaccata della corte di appello nella cui circoscrizione è compreso l’ufficio del giudice che ha emesso l’ordinanza”. Sarà onere del Tribunale così adito notificare a noi, difensori, e all’imputato, il giorno dell’udienza. Fino a tale giorno noi potremo consultare in cancelleria (v. co.8 art. 309) gli atti (che il P.M. già aveva dovuto porre a disposizione del giudice a cui aveva chiesta la misura cautelare – v. melius il co. 5 art. 309). L’udienza si svolge in camera di consiglio (art. 127). Quindi: partecipazione facoltativa sia nostra che dell’imputato, niente toga, si parla solo alla presenza dei giudici e…dei colleghi. Il tribunale di solito non prende la sua decisione subito ma qualche giorno dopo e tale decisione viene notificata sia a noi che all’imputato.- Richiesta di revoca di misura coercitiva: va redatta in carta libera (formula B) e va depositata nella cancelleria del “giudice che procede”. Nel corso delle indagini preliminari va depositata nella cancelleria del GIP (v. art. 279). Naturalmente in sede di udienza l’istanza può essere proposta oralmente (e allora viene verbalizzata).

Formula A. Richiesta di riesameTribunale penale di Genova

Sezione del riesame

Imp. Resci Marcello; RGNR GIP 3123/90

Ill.mo Tribunale

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- il sottoscritto avv. Tullio Cicero del Foro di Genova- nella sua qualità di difensore di Resci Marcello detenuto nella Casa circondariale di Ge-Marassi con l’imputazione di spaccio di sostanze stupefacenti

chiede riesame- dell’ordinanza in data 31 ottobre 2008 con cui il GIP presso il Tribunale di Genova, Dott. Picci, disponeva la custodia in carcere nei confronti dello stesso Resci.

- per i seguentiMotivi

Il GIP fonda la sua decisione sul seguente teorema accusatorio………………….Ma a tale tesi accusatoria la difesa può facilmente replicare: Le dichiarazioni del coimputato Fantasi sono oltremodo sospette perché………

E’ vero che il “confezionamento ad arte” può fare sospettare ma………PQMsi chiede la revoca della misura cautelare.Con perfetta osservanza

Genova 20.11.09 (Avv. Tullio Cicero)

Formula B: istanza di revoca di misura cautelareTribunale di Genova

Ufficio del Giudice delle Indagini PreliminariImp. Hadi; RGNR 4532/2008

Ill.mo Giudice delle indagini preliminari- il sottoscritto avv. Tullio Cicero nella sua qualità di difensore di Hadi H. indagato per il reato di spaccio e al momento in custodia cautelare nella casa circondariale di Genova- Marassi

chiede la revocadella misura coercitiva o in subordine la sua attenuazione in quella degli arresti domiciliari.Si attira l’attenzione di V.S su:- La gravità del reato: non rilevante. Tenga presente V.S. che Haidi è sottoposto a custodia per il solo reato di resistenza………………………….- La durata della custodia cautelare. Essa è stata disposta il 19 ottobre 2007, quindi ben sei mesi sono intercorsi……………………….- Le esigenze cautelari: inesistenti. Non vi è assolutamente pericolo di fuga………………- Le prove: incerte. L’accusa non può fondarsi che…………………………

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- La situazione familiare: richiedente la presenza in casa dell’indagato. I genitori sono infermi…………………………….- La situazione di salute: bisognosa di cure che le strutture carcerarie…………

PQM

si confida nell’accoglimento della presente istanza di revoca.Con osservanzaGenova 23.11.2000 (Avv. Tullio Cicero).

Avvertenze

“La presentazione dei motivi, vuoi contemporanei, vuoi successivi alla richiesta di riesame, è da ritenersi una mera facoltà dell’interessato, dovendosi escludere, anche a prescindere dal mancato richiamo dell’art. 581, una necessità di

motivazione imposta a pena di inammissibilità” (G.Amato, Commentario al nuovo codice di procedura penale, Giuffrè, vol. III, p.196).“Si ammette che il proponente possa enunciare nuovi motivi dinanzi al giudice del riesame, facendone dare atto a verbale prima dell’inizio della discussione” (G.Amato, Op. cit., p.196).E’ discusso se “l’esplicita previsione della presentazione nella cancelleria del tribunale della libertà debba far intendere il richiamo alle forme previste dall’art. 582 come limitato a quelle indicate nel 1° comma, escludendo la possibilità di presentazione dell’impugnazione nella cancelleria del (tribunale o del giudice di pace) del luogo in cui la parte privata o il difensore si trovano” (G. Amato, Op. cit.,p.195).

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XIII.Appello al Tribunale del riesame

Si redige l'atto in carta semplice (vedi formula in calce). Se ne fanno copie (naturalmente in carta semplice) come per un qualsiasi atto di appello: 2 (per il collegio) + 1 (per il p.m.).Si depositano originale e copie nella cancelleria del tribunale competente a decidere sull'appello – che é (v. co.2 dell'art. 310 che rinvia al co. 7 dell'art. 309) “il tribunale del luogo nel quale ha sede la corte di appello o la sezione distaccata della corte di appello nella cui circoscrizione é compreso l'ufficio del giudice” che ha preso il provvedimento impugnato.Attenti al termine di cui al combinato-disposto degli artt. 309-310 !Depositato l'appello non c'é che attendere la notifica dell'avviso dell'udienza e.... studiare la causa (visionando gli atti depositati in cancelleria – v. co. 2 art. 310).L'udienza é in camera di consiglio (art. 127); quindi: facoltatività della partecipazione, niente toga, si parla solo alla presenza dei giudici e.....dei colleghi.

Formula A: Appello al tribunale del riesameTribunale penale di Genova

(Sezione del riesame)appellante, Bresci A.; RGNR 54127/2008

Ill.mo Tribunale il sottoscritto avv. Tullio Cicero del Foro di Roma nella sua qualità di difensore di B indagato per il reato p.ep. dall'art. 628 C.P. e al momento in custodia cautelare presso la Casa Circondariale di Ge-Marassi

appella-contro l'ordinanza in data 23.11.2008 con cui il Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Genova rigettava la richiesta di revoca della misura cautelare adottata nei riguardi dello stesso Bresci.

Motivi Il GIP fonda la sua decisione di rigetto su un preteso pericolo di fuga In realtà...........................................................................

P.Q.M.Si chieder che in riforma dell'impugnata Ordinanza sia revocata la misura cautelare adottata contro il Bresci. Con osservanza. Genova 20.01.2009 (Avv. Tullio Cicero)

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AvvertenzeNell'atto con cui si propone appello, a differenza che nella richiesta di riesame, debbono essere enunciati “contestualmente i motivi” (A. Giannone, in Commento al nuovo codice di procedura penale, vol.III, p.278)

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XIV.Richiesta di applicazione pena ai sensi dell’art. 444 C.P.P. (c.d.

“patteggiamento)

Salvo casi eccezionalissimi la “richiesta” è presentata direttamente dal difensore. Il quale però deve essere munito di procura speciale (art. 446 co.3). Questa può essere redatta (in carta semplice) sulla falsariga della formula A. Se presentata fuori udienza (e questo sarà senz’altro il caso della richiesta proposta nel corso delle indagini preliminari – v. art. 447) la “richiesta” andrà redatta per iscritto (in carta semplice) sulla falsariga della formula B. Nel caso di richiesta formulata nel corso delle indagini p. è prassi che il richiedente si faccia carico di contattare il p.m. (il dott. Pinco Pallino) per sollecitarne il consenso (anzi, di solito si ritiene opportuno contattare il p. m. prima di redigere l’istanza per concordare con lui la pena da chiedere ex art. 444 al giudice). Il p.m., se dà il suo consenso, lo esprime in calce alla stessa richiesta. La richiesta (confortata o no che sia dal consenso del p.m.) va depositata (nell’ipotesi di sua presentazione nel corso delle indagini) nella cancelleria del GIP.

Nel caso la “richiesta” sia proposta all’udienza, essa dovrà essere formulata oralmente (ma naturalmente nulla vieta, anzi è opportuno, che la richiesta sia redatta per iscritto e poi letta). Se, come capita spessissimo, i tempi “stretti” non avranno permesso di contattare il p.m. prima dell’udienza (per tentare di concordare con lui la pena da richiedere), nulla vieta, anzi la prassi è in tal senso, che si parli al p.m. all’udienza stessa (prima dell’arrivo del giudice o tra una causa e l’altra).

Formula A: Procura a “patteggiare”

Il sottoscritto Giobatta Parodi indagato per il reato p. e p. dall’art. 648 C.P. nel procedimento n, 654876/10 R.G.N.R. dà procura al suo difensore Avv. Tullio Cicero del Foro di Arezzo, di chiedere o consentire ad un’applicazione di pena ai sensi dell’art. 444 C.P.P..In Arezzo il 06.07.10(Sottoscrizione dell’indagato Giobatta Parodi)Per autentica(Sottoscrizione dell’avvocato Cicero)

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Formula B – Istanza di applicazione pena (nel corso di indagini p.)Tribunale di Arezzo

Istanza di applicazione pena (artt. 444 ss. C.P.P.)

Ill.mo Giudice delle Indagini Preliminari -Il sottoscritto Avv. Tullio Cicero del Foro di Arezzo- nella sua qualità di difensore di Giobatta Parodi indagato per il reato p.e p. dagli artt. 81, 612bis C.P nel procedimento 15349/10 RGNR in atti pendente presso la Procura Repubblica presso il Tribunale di Arezzo;-in forza di procura speciale che si allega-visti gli artt. 444 ss.447 C.P.P. art.53 L. 24.11.1981 n. 689

chiede- che il prefato procedimento sia definito con l’applicazione della pena di quattro mesi e quindici giorni di reclusione. Si chiede che ai sensi dell’art. 53 L. 24.11.1981. 689 la reclusione come sopra comminata sia sostituita dalla semidetenzione. Si subordina la richiesta alla concessione della sospensione condizionale della pena.

Calcolo della penaPena base : sei mesi di reclusioneRidotta per le attenuanti generiche a quattro mesi di reclusioneAumentata per la continuazione a sei mesi di reclusioneRidotta per il rito a quattro mesi di reclusione.Sostituita da quattro mesi di semidetenzione.Con osservanza (Avv. Tullio Cicero)

Avvertenze

- La sottoscrizione della procura, così come la sottoscrizione della richiesta nei casi (rari) in cui è apposta dall’imputato/indagato, va autenticata.- “La richiesta di applicazione della pena è atto riservato personalmente all’imputato; essa non compete al difensore, il quale può proporla soltanto se vi è specificamente abilitato a mezzo di procura speciale. Al procuratore speciale non è però consentito delegare altra persona, a meno che tale facoltà non gli venga concessa espressamente dall’imputato con le stesse forme previste per la procura speciale dall’art. 446 comma terzo cod.proc.pen. L’atto di delega da parte del difensore ad altro collega non è in alcun modo riferibile all’imputato (…)” – Cass. VI Sent. 6193 del 27.05.95.- Una volta che sia stata compiuta la scelta del rito del patteggiamento ne segue la sua applicazione a tutti i reati, legati dal concorso formale o dalla continuazione, oggetto dello stesso processo, dovendosi escludere che esso possa riguardare

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alcuni soltanto dei fatti reato, individuati secondo criteri di opportunità legati alla valutazione di probabilità di una decisione favorevole, con la conseguenza che per gli altri il giudizio andrebbe proseguito con il rito ordinario, atteso che l’istituto di cui all’art. 444 cod. proc. pen. é un rito alternativo orientato alla rapida definizione dell’intero giudizio” – Cass. III Sent. 20899 del 23. 05. 2001. Vedi però anche Cass. I, Sent. 10335 del 15.11.93 e Cass. II Sent. 45907 del 27.12.2001 (quest’ultima distinguendo i casi in cui per alcuni reati possa applicarsi l’art. 129).

- Nel calcolo della pena tenere presente che:la locuzione “diminuita fino ad un terzo” contenuta nell’art. 444 c.p.p. va intesa nel senso che la misura della riduzione non può eccedere un terzo: ad esempio, la pena di sei mesi può essere ridotta a 4 mesi (e non a due mesi);la riduzione premiale, nel “patteggiamento” non è, come invece nel giudizio abbreviato, stabilita in misura fissa, per cui potrebbe benissimo essere inferiore al terzo;dovendosi applicare l’aumento per la continuazione, questo va calcolato dopo (naturalmente) la quantificazione della pena per il reato più grave, ma prima della riduzione per il rito (quindi: pena base; aumento o diminuzione per le circostanze aggravanti o attenuanti; aumento per la continuazione; riduzione per il rito);il giudizio sulla concedibilità di una pena sostitutiva ex art. 53 legge 24 novembre 1981 n.689 va fatto con riferimento alla quantificazione della pena risultante all’esito della diminuzione di un terzo della pena da irrogare in concreto e perciò dopo l’aumento determinato dalla continuazione (ciò in deroga all’ultimo comma del succitato art. 53 che prevede come riferimento la pena per il reato più grave prima dell’aumento per la continuazione) - cfr. Cass. III, Sent. 2070 del 09.10.99;può essere “patteggiato” (naturalmente!) anche l’aumento da applicarsi, in caso di reato continuato, sulla condanna pronunciata con sentenza definitiva sul reato più grave: in tal caso l’istanza potrebbe essere così formulata: “Pinco Pallino (…) chiede che venga applicata la pena di seguito determinata: pena base: quella stessa comminata con sentenza numero 432/99 datata 15.05.09 resa dal Tribunale di Palermo per il reato di rapina commesso il 28.06.98 a Palermo e addebitato al richiedente; aumento per la continuazione: sei mesi”.

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XV.Giudizio abbreviato

Al giudizio abbreviato si può accedere da varie ipotesi processuali (che passeremo subito ad esaminare). Per ogni ipotesi però valgono le regole (espresse in via generale nell’art. 438) che: 1- la “richiesta può essere proposta oralmente o per iscritto” (ma se proposta fuori d’udienza dovrà essere per forza scritta, mentre al contrario, se proposta in udienza, ben difficilmente lo sarà);2- mentre è vero che la decisione di accedere al rito abbreviato può essere presa solo dall’imputato (e non dal suo difensore) la volontà (dell’imputato) in tal senso può essere “espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale”; 3 – “la sottoscrizione dell’atto va autenticata nelle forme previste dall’articolo 583 comma 3”; 4 – l’imputato può subordinare la richiesta ad una integrazione probatoria e può chiedere l'applicazione di una pena ai sensi dell'art. 444 (vedi meglio il co. 5Bis art. 438.Chiarito questo, facciamo un breve excursus sulle varie ipotesi da cui si può accedere al rito abbreviato.Prima ipotesi: è stato notificato all’imputato l’avviso dell’udienza preliminare (v. melius, l’art. 419).In tale ipotesi c’è tempo per presentare l’istanza “fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422 “.L’istanza, se presentata prima dell’udienza, va depositata nella cancelleria del G.I.P. Non va notificata al p.m.Seconda ipotesi: è stato notificato all’imputato un decreto di giudizio immediato (art. 456).In tale ipotesi, l’istanza, prima, va notificata al P.M. (e a tal fine essa: andrà redatta in duplice copia, entrambe le copie dovranno essere sottoscritte e, quindi, portate alla segreteria del p.m. dove il p.u. addetto, in calce ad esse, farà le annotazioni di cui al co. 1 art. 153 restituendoci una copia) e poi va depositata (melius, va depositata la copia restituita dalla Procura con la relativa annotazione in calce) “nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari”; il tutto, in 15 giorni, decorrenti dalla notifica del decreto all’imputato (e non dalla notifica dell’avviso al difensore) così come disposto dall’art. 458.Terza ipotesi: è stato notificato all’imputato un decreto penale.In tale ipotesi, la richiesta del rito abbreviato va fatta (v. art. 461) “nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto” e assume le forme di un “atto di opposizione” (v. sempre l’art. 461) - atto di opposizione finalizzato a chiedere appunto il rito speciale (ma, si badi, ancorché l’atto di opposizione a un decreto possa essere, per l’art. 461, sottoscritto anche dal solo difensore, nel caso con tale

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atto si chieda il giudizio abbreviato, esso potrà essere validamente sottoscritto dal difensore solo se munito di procura speciale a chiedere tale rito alternativo !).Quarta ipotesi: l’imputato è stato portato a giudizio direttissimo.E’ l’ipotesi più semplice: l’istanza sarà proposta (di solito oralmente) all’udienza. Ma attenzione, va proposta prima dell’apertura del dibattimento (come si argomenta dalla formula ancorché contorta del co. 2 art. 452): quindi, prima che il p.m. contesti l’accusa.Quinta ipotesi: è stato notificato all’imputato un decreto di “citazione diretta” davanti al tribunale in composizione monocratica (artt. 550 ss.).L’istanza di abbreviato può essere proposta fino a che non è aperto il dibattimento.In teoria potrebbe essere proposta anche prima dell’udienza (e allora naturalmente dovrebbe assumere la forma scritta) ma di solito la si propone (oralmente) all’udienza.N.B. Il giudizio abbreviato non è ammesso davanti al Giudice di Pace. Né, come risulta già da quanto detto trattando dell’ipotesi sub 1, può essere chiesto all’udienza dibattimentale, se a tale udienza si è giunti passando attraverso l’udienza preliminare (idest, in quanto rinviati a giudizio dal GIP col decreto di cui all’art. 429).

Formula A – Procura a richiedere il giudizio abbreviato

Il sottoscritto Giobatta Parodi nato a Genova il 06.09.1936, res. a Roma, Viale Alessandrino 304B che deve rispondere del reato p. e p. dall’art. 648 nel procedimento N. 54632/10 pendente davanti al Tribunale di Roma dà

procuraal suo difensore Avv. Tulio Cicero del Foro di Arezzo di richiedere che il procedimento di cui sopra sia definito col rito abbreviato previsto dagli artt. 438 ss. C.P.P.Roma 15.07.10 (Sottoscrizione di Giobatta P.)

Per aut.(Sottoscrizione dell’Avv. Cicero)

Formula B – Richiesta di giudizio abbreviato condizionatoTribunale di Arezzo

Imp. Giobatta Parodi; ud. 15.10.10; RGNR 3426/10

Ill.mo Giudice dell’Udienza Preliminare- il sottoscritto Giobatta Parodi nato Genova il 24 aprile 1947 e ivi res. in via G

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Garibaldi n.1- imputato, nel procedimento 435/10 RGNR, del reato p. e p. dall’art. 337 C.P. per fatti pretesamente avvenuti in Genova il 13 novembre 2009

chiede- che il processo sia definito con il rito abbreviato ai sensi degli artt. 438 ss C.P.P.

Ai sensi dell’art. 438 C.P.P. comma 5, si subordina la richiesta alle seguenti attività di integrazione probatoria: 1) escussione come teste di Giuseppa Oneto res. in Genova via Roma 5, presente ai fatti contestati 2) acquisizione al processo della seguente documentazione che si allega: lettera in data 3.6.10; lettera in data 3.11. 10.Il sottoscritto nomina suo difensore l’Avv. Tullio Cicero del Foro di Arezzo e ivi con studio in via Cellini7Con osservanzaArezzo 11.11.10 (Sottoscrizione di Giobatta Parodi)

Per aut.(Sottoscrizione dell’Avv. Cicero)

Avvertenze-L’incipit dell’istanza, se questa è sottoscritta dal solo difensore, potrebbe essere così formulato “Il sottoscritto Avv. Tullio Cicero del Foro di Arezzo, difensore di Giobatta Parodi imputato ecc.ecc., in forza di procura speciale che si allega, chiede ecc.ecc.”.- La richiesta può essere presentata nella cancelleria anche “avvalendosi di un incaricato; e ciò in quanto trova applicazione analogica l’art. 582, primo comma, c.p.p.” – cfr. Cass. pen sez. VI, 10 gennaio 1992,n 145, Pilato.- E’ inammissibile la richiesta di rito abbreviato parziale, limitata, cioè, ad alcune imputazioni e non estesa alla totalità degli addebiti, perchè in tal modo il processo non verrebbe ad essere definito nella sua interezza, restando pertanto ingiustificato l’effetto premiale” – Cass. Sez. II, 18 marzo 1993, n.2611- “La richiesta di giudizio abbreviato, seguita dal consenso del p.m., dà luogo alla conclusione di un negozio processuale, che è irrevocabile dalla parte – Cass. Sez. III, 6 novembre 1998, n. 272.

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XVI.Messa alla prova

L'istituto della “messa alla prova” é disciplinato dagli artt. 168bis e 168ter Cod. Pen e dagli artt. 464bis e ss Cod. Proc. Pen.La richiesta di messa alla prova può provenire solo dall'imputato, però anche tramite un suo procuratore speciale (che naturalmente può essere – e di solito sarà - lo stesso difensore).La richiesta può essere sia orale che scrittaE' opportuno prendere quanto prima contatto contatto con l'Ufficio di esecuzione penale esterna chiedendogli l'elaborazione di un “programma di trattamento”(vedi co. 4 art. 464bis). Infatti all'istanza di messa alla prova va allegato il “programma” già elaborato o, almeno, la sua richiesta.La richiesta di messa alla prova, se parte direttamente dall'imputato, dovrà avere la sottoscrizione autenticata “nelle forme previste dall'articolo 583 comma 3”, in pratica sarà l'avvocato ad autenticarla. Se, invece parte da un procuratore speciale, dovrà essere autenticata sia la sottoscrizione della procura (rilasciata dall'imputato) sia quella della richiesta di messa alla prova. Naturalmente quando, come di solito accade, procuratore speciale é il difensore, tutto si semplifica: in tal caso, basterà che questi autentichi la sottoscrizione della procura speciale.La richiesta di messa alla prova - con allegato il “programma” o, al meno, la richiesta del programma e, se é presentata da un procuratore speciale, la procura -, dovrà, nei brevi termini di cui al secondo comma art. 464bis, essere depositata nella cancelleria del giudice investito del procedimento o, se si é ancora nelle fase delle indagini preliminari, nella cancelleria del GIP.Sentito il pubblico ministero, il giudice prenderà le sue decisioni.Poniamo che il giudice sospenda il procedimento per permettere la messa alla prova.In tal caso, “decorso il periodo di sospensione”, egli, acquisita “la relazione conclusiva dell'ufficio di esecuzione penale esterna”, fisserà l'udienza “per la valutazione (dell'esito della prova) dandone avviso alle parti e alla persona offesa” e se riterrà “che la prova abbia avuto esito positivo”, con sentenza dichiarerà estinto il reato. In caso, invece di esito negativo della prova, il giudice con ordinanza disporrà la prosecuzione del processo (v. art.464septies)Di seguito la “formula” di una richiesta di messa alla prova in seguito a un decreto penale.

Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Vattelapesca

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Opposizione al decreto penale di condanna e contestuale domanda di sospensione del procedimento con messa alla prova ai sensi art. 464bis C.P.P.

il sottoscritto avv. Cicero, nella sua qualità di difensore del sig.Luis Fulano nato a Buenos Aires il 15.09.65

Premesso- che in data 15.05.2017 é stato notificato al prefato sig Luis Fulano Decreto penale 543/17 emesso in data 25.06.17 dal GIP presso il Tribunale di Canicattì contenente sua condanna a centomila euro per il reato p.e.p. dall'art. 495 C.P;- che tale reato rientra tra quelli per cui l'art. 168bis Cod. Pen. ammette la “messa alla prova”;che l'imputato non ha mai chiesto in precedenza la sospensione del procedimento con messa alla prova e che non é mai stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ai sensi degli artt. 102, 103, 104,105, 108 Cod- Pen;-che l'imputato ha elaborato d'intesa con l'Ufficio di esecuzione penale esterna di Canicattì un programma di trattamento ai sensi dell'art. 464Bis, comma 4.c.p.p. (all.1) (oppure, se il programma non é ancora disponibile: ha chiesto all'Ufficio esecuzione esterna di Canicattì di elaborare un programma di trattamento);- che in tale programma tra l'altro si prevede.......- che tale programma appare idoneo a valutare la capacità dell'imputato a condurre una vita rispettosa della Legge; - che il domicilio indicato nel programma soddisfa pienamente le esigenze di tutela della persona offesa;- tanto premesso l'imputato a mezzo del sottoscritto difensore munito di procura speciale (all.2) fa

opposizioneal prefato Decreto di condanna n.543/17 emesso in data 25. 06.17 dal GIP presso il Tribunale di Canicattì e chiede che, previa fissazione dell'udienza di cui all'art. 464, comma 1 c.p.p. si disponga la sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato, secondo il programma allegato (oppure nel caso il programma non sia ancora disponibile,, con riserva di produrre il programma trattamentale richiesto)

Canicattì 12.07.17 (Avv. Cicero)

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XVII.Lista testimoniale e atto di citazione di teste

1 – Si redige la “lista” come da formula A in carta semplice (siccome non va notificata, non occorre fare copie dell’originale).

2 – Si deposita l’originale sottoscritto dal difensore nella cancelleria del giudice presso cui pende la causa “almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento” (art.468 c.p.p., art. 559 co.1, art.29 D.L.vo. 28.08.2000, n.274)

3 – Una volta che il giudice avrà data l’autorizzazione, si procede alle citazioni autorizzate. E’ possibile (ma rischioso) evitare la citazione dei testi e dei consulenti (non delle persone indicate nell’art. 210) presentandoli direttamente al dibattimento (co.3 art. 468).

4 - Per effettuare le citazioni autorizzate si procede così: si redige l’atto di citazione seguendo (mutatis mutandis) la formula C e facendone tante copie quante sono le persone da citare + 1 (l’originale). Il difensore sottoscrive tali copie.

5 – Redatto l’atto come sub 4 ci sono due possibilità: 1) portare l’atto a notificare dagli ufficiali giudiziari; 2) inviarne copia al citando ai sensi dell’art. 152.

6 – Se si ritiene di seguire la procedura di cui all’art. 152 si procede così: 1) in una busta (in cui naturalmente come destinatario è indicata la persona citanda e come mittente, il difensore) si mette copia dell’atto (debitamente sottoscritta); 2) si spedisce la busta per lettera raccomandata con avviso di ricevimento; 3) una volta ritornato l’avviso di ricevimento si scrive in calce a una copia dell’atto di citazione: “E’ copia conforme ad altra spedita in busta chiusa al teste citato sig. Pinco Pallino. Si allega il relativo “atto di ricevimento” - la dichiarazione va sottoscritta dal difensore e vi si deve allegare l’avviso di ricevimento; 4) si deposita la copia della citazione (con in calce la dichiarazione di cui sub 3 e con allegato l’avviso di ricevimento) nella cancelleria del giudice procedente.

Formula A: Lista testimoniale

Tribunale penale di ArezzoLista testimoniale

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Ud. 06-09.11; imp. Giobatta Parodi; n. 5387/11 R.G.N.R.

Il sottoscritto avv. Tullio Cicero difensore di Giobatta Parodi chiamato a rispondere del reato p.e p. dall’art. 648 C.P. nel procedimento a margine indicatointende provarele seguenti circostanze: A- che l’imputato il 09.01 09 si trovava a Genova; B - che la lettera in data 09.10.08 è frutto di un falso.Possono testimoniare sulla circostanza sub A:Giuseppa Oneto res. in Genova, via Filarmonica 3;Caterina Novella res. a Camogli Via del Tritone 6.Può dire sulla circostanza B il prof. Omodio Lugi già nominato consulente dall’imputato.Tanto premesso, il sottoscritto difensore, visto l’art. 468 C.P.P.

Chiedeall’ill.mo Presidente del Tribunale di Arezzodi autorizzare la citazione dei testi e del consulente come sopra indicati.Con osservanzaArezzo 28.09.11 (Avv. Cicero Tullio)

Formula B: Atto di citazione di teste

Atto di citazione di teste

Ud. 06.10.11; imp. Giobatta Parodi; RGNR 667/10

Il sottoscrito Tullio Cicero del Foro di Arezzo, difensore di Rossi Bianca imputata del reato p.e p. dall’art. 648 C.P. nel procedimento a margine indicato

Vistoil decreto in data 28.09.11 con cui il Presidente autorizza la citazione; visti gli artt. 468, 152 C.P.P, 142 disp.att. C.P.P.

citala sig.ra Amelia Rossi res. in Arezzo P.zza Lo Monaco 3 a comparire all’udienza del 06.10.11 ore 9 davanti al Tribunale penale di Arezzo nella Sua sede solita di via Falcone di Arezzo per deporre nel processo contro Rossi Bianca come sopra indicato;con tutti gli obblighi e diritti di cui agli artt.198, 210, 226 del codice di procedura penale e in particolare con l'obbligo di rispondere secondo verità alla domande che le saranno rivolte.

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Con espresso avvertimento che, in caso di mancata comparizione non dovuta a legittimo impedimento, potrà, a norma dell’art. 133 C.P.P., essere accompagnata a mezzo della polizia giudiziaria e condannata al pagamento di una somma da € 51 a €516 a favore della cassa delle ammende e alla rifusione delle spese alle quali la mancata comparizione ha dato causa.Arezzo 29.09.11 (Avv. Cicero Tullio)

Avvertenze

- I sette giorni del termine finale utile per la presentazione della lista debbono intendersi “liberi”.- Nel caso l’udienza sia rinviata prima dell’esaurimento della fase degli atti introduttivi (ad esempio, per accertata omissione della notifica a uno dei coimputati, alla parte offesa...) le parti hanno diritto di depositare la lista (o una lista aggiuntiva) sette giorni prima della nuova udienza: insomma il rinvio riapre i termini (anche naturalmente per la parte civile che, se costituitasi solo all’udienza, in caso di rinvio non subisce la preclusione di cui al co. 3 art. 79).- In caso di ritardo nel deposito della lista, tenere presente l’art. 493 co.2 e che, secondo l’interpretazione dominante dell’art. 507, il giudice del dibattimento può assumere d’ufficio anche i mezzi di prova intempestivamente o irritualmente dedotti.- L’inammissibilità delle prove è stabilita dal 1° comma dell’art. 468 come conseguenza dell’omesso deposito della lista e non come conseguenza dell’omessa citazione dei testi (indicati nella lista e la cui citazione è stata autorizzata dal presidente).- L’indicazione delle circostanze su cui è dedotta la prova ha la funzione di permettere alla controparte di organizzare la propria difesa; pertanto un’indicazione di tali circostanze fatta con riferimento generico al capo d’imputazione o anche ad atti diversi dal decreto di rinvio a giudizio ma visionabili nel fascicolo del p.m. o del dibattimento (ad esempio, verbali della polizia), se è sufficiente a permettere alla controparte di individuare il thema probandum, è anche sufficiente a rendere valida la lista.- Mentre esiste un termine finale per la presentazione della lista, non ne esiste uno iniziale: nulla impedisce che la lista sia presentata anche prima della notifica del decreto di citazione.- L’ art. 468 non riguarda le prove documentali (v. però il suo comma 4bis), che pertanto potranno essere dedotte anche all’udienza Il termine finale di decadenza non vale (logicamente!) per la prova contraria. Quindi la parte che vuole controdedurre delle prove può farlo, sia indicandole in una lista

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scritta che può depositare anche all’udienza, sia semplicemente indicandole oralmente all’udienza. Ma qualora non si avvalga della facoltà di presentare i suoi testi (consulenti…) direttamente all’udienza, ma li voglia citare, allora, a nostro parere, deve chiederne l’autorizzazione al giudice in udienza o, se vuole citarli prima dell’udienza, al presidente del tribunale (e in quest’ultimo caso dovrà naturalmente depositare una lista testi).

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XVIII.Atto di impugnazione

Un impugnazione si può anche fare senza neanche leggere l’atto impugnando. Ma se si vogliono fare le cose bene, se si vuole fare un’efficace impugnazione, occorre leggerlo. Per il che occorre recarsi nella cancelleria in cui vengono depositati i provvedimenti (con i relativi fascicoli) soggetti a impugnazione (“ufficio impugnazione”). Si è avvisati del deposito del provvedimento (da parte del giudice)? No (però vedi melius il co.2 dell’art.585): occorre calcolare il tempo concesso al giudice per il deposito e, al suo maturare, recarsi in cancelleria (però anche qui vedi melius l’art. 585).- Letto il provvedimento (del giudice) si redige l’atto di impugnazione; il che si può fare seguendo la falsariga delle formule A e B (di cui postea).Quante copie dell’atto bisogna fare? La risposta ce la dà l’art. 164 disp. att.; ed è una risposta diversa per il caso di appello e per il caso di ricorso per cassazione. In caso di appello si debbono fare: 2 copie (per il collegio) + 1 (per il procuratore generale) + tante copie quante sono le persone a cui l’atto va notificato (ai sensi dell’art. 584) + 1 (originale di notifica). In caso di ricorso per cassazione si debbono fare: 5 copie (per il collegio) + 1 (per il procuratore generale) + tante copie quante sono le persone a cui l’atto va notificato (ai sensi dell’art. 584) + 1 (originale di notifica).- Una volta redatto e sottoscritto l’atto di impugnazione occorre presentarlo (art. 582) o spedirlo (art. 583) alla “cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (non alla cancelleria del giudice ad quem: sarebbe inammissibile un appello spedito alla Corte territoriale o un ricorso spedito alla Corse di Cassazione). In caso di presentazione (non di spedizione) l’atto può anche essere depositato nelle cancellerie indicate nel co.2 art. 582. In caso di spedizione è ammesso solo l’uso del telegramma o della raccomandata (niente telefax quindi).Per presentare l’atto deve necessariamente il difensore scomodarsi, lasciando l’ufficio e recandosi personalmente in cancelleria? No, egli può delegare un terzo (la segretaria, un praticante…) ad effettuare il deposito – e la delega può essere (e nella prassi è) solo orale se il delegato è conosciuto nella cancelleria (ricevente l’atto).Alcune volte l’atto è sottoscritto dall’imputato e non dal difensore (è il caso del ricorso redatto dall’avvocato non cassazionista) : puo essere tale atto depositato dal difensore anche senza la presenza dell’imputato? La risposta è, si. Nell’ipotesi il difensore deve autenticare la sottoscrizione dell’imputato? La risposta è, no.

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Formula A: Atto di appelloCorte di appello di Genova

Ecc.ma Corte

Il sottoscritto avv. Tullio Cicero del Foro di Genova nella qualità di difensore di Hai Ribi

Appella

- la Sentenza del Tribunale di Genova Sez. I n. 453/2000, datata 29 ottobre 2000, che definendo il procedimento n. 34265/1999 RGNR contro lo stesso Hai Ribi imputato dei reati p. e p. dagli artt. 625 e 337 C.P. pronunciava contro lo stesso condanna a 8 mesi di reclusione e 200 euro di multa,nei seguenti punti e per i seguenti motivi: A) Nel punto in cui il Tribunale ha ritenuto che il furto sia stato commesso dall’imputato- Si chiede invece che l’imputato venga assolto per non aver commesso il fatto per i seguenti motivi: L’unico indizio contro l’imputato è il ritiro della valigia da parte dell’imputato. Ma trattasi di indizio ben lieve in quanto……………………………….. Si protesta l'inammissibilità della testimonianza di Bernardi Cloe in quanto........ B) Nel punto in cui il Tribunale ha inflitta la pena di 6 mesi di r. e 50 euro di m. per il furto- Si chiede invece che la pena venga ridotta al minimo edittale per i seguenti motivi: Hai Ribi è un emarginato……………………………………….

P.Q.M.Si chiede il proscioglimento dell'imputato perché il fatto non é stato da lui commesso. In subordine si chiede una riduzione della pena.Con osservanzaGenova 12.09.2001 (Avv. Tullio Cicero)

Formula B: Ricorso per CassazioneCorte Suprema di Cassazione

Atto di ricorsoAll’attenzione della cancelleria della Corte di Appello di Genova

Imp. Had Rifi; RGNR 4567/2008; Sent. C.A. 3546/2009

Ecc.ma Corte di Cassazione

- il sottoscritto Avv. Tullio Cicero nella sua qualità di difensore di Had Rifiricorre

- contro la Sentenza della Corte di Appello di Genova, n. 3546/2009 datata 30

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ottobre 2008 che definendo il procedimento n. 4567/2008 ha solo parzialmente riformato la Sentenza Tribunale Genova datata 12.11.2007 che aveva condannato Had Rifi a 8 mesi di r. e 200 euro di m. per i reati di furto e di resistenza a p.u.

con i seguenti mezzie i seguenti punti e motivi:

Mezzo A - Art.606 lett. b): erronea applicazione della legge penale –A1 – La Corte ha ritenuto che i fatti addebitati configurassero il reato di furto. Si chiede invece che la sentenza venga annullata e l’imputato prosciolto senza rinvio per i seguenti motivi: E’ concorde insegnamento della Dottrina e di Voi stessi, ecc.mi Giudici della Corte, che per l’esistenza del furto………………………………..A2 – La Corte ha ritenuto l’esistenza dell’aggravante di cui all’art. 625 n3 –Si chiede che invece tale aggravante venga esclusa con le conseguenti pronunce meglio viste, per i seguenti motivi: L’aggravante de qua va ravvisata solo quando l’arma è indosso al reo; nel caso invece è pacifico che si trovasse nell’auto parcheggiata……………………………………………………………………

Mezzo B – Art. 606 lett. e): contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione

B1 – La Corte territoriale ha ritenuto che il furto sia stato commesso dall’Had Rifi.Si chiede invece l’annullamento della Sentenza per contraddittorietà e/o manifesta illogicità per i seguenti motivi. A pag. 3 della sua Sentenza la Corte riconosce che………………………………………………………….. B2 – La Corte ha ritenuto che Had Rifi abbia compiuto atti di resistenza al p.u. Si chiede l’annullamento…………………………………………………………..

Con osservanzaGenova 12.11.09 (Avv. Tullio Cicero)

Avvertenze

“Per l’appello, come per ogni altro gravame, il combinato disposto degli artt. 581 comma primo lett.c) e 591 comma primo lett.c) del codice di rito comporta la inammissibilità dell’impugnazione in caso di genericità dei relativi motivi. Per escludere tale patologia è necessario che l’atto individui il “punto” che intende devolvere alla cognizione del giudice di appello, enucleandolo con puntuale riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, e specificando tanto i motivi di dissenso dalla decisione appellata che l’oggetto della diversa deliberazione sollecitata presso il giudice del gravame” – Cass. VI Sent. 1361 del 25.03.03.“L’impugnazione prima del deposito della sentenza oggetto del gravame rende

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l’impugnazione stessa inammissibile” – Cass. I Sent. 3900 del 28.04.97. Ma opera dei “distinguo”, Cass. VI, Sent. 991 del 16.07.98.“In tema di inammissibilità dell’impugnazione, la mancanza di specificità dei motivi va riscontrata anche nel caso di mancata correlazione tra i motivi posti alla base del gravame e quelli posti dal giudice censurato alla base della propria motivazione. (Nella fattispecie il ricorrente si è limitato a riproporre le stesse osservazioni già adeguatamente apprezzate dalla Corte territoriale, senza indicare gli eventuali vizi nella motivazione della sentenza della Corte territoriale medesima” – Cass. III, Sent. 35492 del 25.9.2007. « In tema di ricorso in cassazione é inammissibile l’impugnazione nella quale sia stato eccepito un error in procedendo, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett,c), c.p.p., senza peraltro indicare lo specifico atto da esaminare e sul quale compiere la verifica richiesta. (Nella fattispecie il ricorrente aveva contestato la competenza del giudice delle indagini preliminari, asserendo di avere tempestivamente eccepito la questione all’udienza preliminare e di averla riproposta nelle successive fasi di merito, senza tuttavia indicare nel ricorso la data dei relativi verbali)- Cass. VI.sent. 10373 del 12.03.2002.

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XIX.Impugnazione della parte civile

1. Si redige la dichiarazione di impugnazione (nella formula A si troverà un esempio di appello).Dell'atto vanno fatte le seguenti copie: 1 (che debitamente sottoscritta costituisce l'originale da consegnare al cancelliere) + tante copie quante sono le persone a cui l'atto va notificato + 1 (per la comunicazione al P.M. presso il giudice a quo)+ 1 (come originale di notifica).A queste copie vanno aggiunte: se si tratta di appello, altre tre copie semplici (2 per il collegio + 1 per il Procuratore Generale); se si tratta di ricorso, altre sei copie semplici (5 per il collegio + 1 per il procuratore generale).N.B. (salvo l'originale) le copie non vanno sottoscritte: ci penserà il cancelliere – a cui spetta di autenticare le copie – ad indicare il sottoscrivente.2) Si depositano le copie di cui sub 1 “nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (v. melius, gli artt. 582 e 583). A questo punto gli incombenti a carico del difensore, sono terminati: tocca alla cancelleria provvedere alle notifiche dell'atto (v. art. 584) e, naturalmente, ad inserirne la prova (idest, l'originale di notifica) nel fascicolo.

Formula A: Appello della parte civile

Ecc.ma Corte di Appello di Genova- il sottoscritto avv. Cicero del Foro di Genova- nella sua qualità di difensore per procura a margine dell'atto di costituzione- di Giobatta Parodi parte civile costituita contro Luigi Bianchi imputato di omicidio colposo nel procedimento R.G.N.R. 1030//90

propone appello- contro la Sentenza n. 456/90 emessa dal Tribunale di Genova in data 26 settembre 1990- nel punto in cui liquida il risarcimento dovuto dal Luigi Bianchi nella somma di soli centomila euro

Motivi- la somma come sopra liquidata é assolutamente inadeguata a risarcire il danno subito dall'appellante; e infatti questo, che é marito dell'ucciso, viveva....................Si chiede pertanto all'Ecc.ma Corte di aumentare la somma dovuta a titolo di risarcimento dall'imputato Bianchi a duecentomila euro.

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Si riserva ulteriori motivi a sostegno del gravame.Genova 12 ottobre 1990 (Avv. Cicero)

Avvertenze1) Art. 100 co.3 C.P.P.:“La procura speciale (al difensore della parte civile) si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo quando nell'atto non é espressa volontà diversa”2. “Mancando l'espressa previsione legislativa (come per il difensore dell'imputato), in assenza di specifica procura, il difensore della parte civile non é, come tale, legittimato a proporre impugnazione. Per esercitare tale facoltà, egli deve essere munito di specifica procura a norma dell'art.122 c.p.p., la quale non deve necessariamente essere successiva alla pronuncia di impugnare, ma può anche precederla (art. 37 disp.att.c.p.p.). Ne consegue che il mandato ad impugnare può ben essere compreso nella procura speciale rilasciata in calce all'atto di costituzione di parte civile, purché tuttavia il conferimento dello specifico potere di impugnazione sia espresso. (In motivazione la Corte ha precisato che il semplice riferimento, nel testo della procura speciale di cui all'art.100 comma1 c.p.p., al conferimento di rappresentanza per “ogni stato e grado del procedimento” é idoneo a vincere la presunzione relativa di limitazione degli effetti dell'atto ad un determinato grado stabilita dal successivo comma 3, non invece a trasferire il potere di impugnazione, per il quale, pur non essendo necessaria una formula sacramentale, é tuttavia indispensabile una inequivoca espressione di volontà” (Cass. Pen. Sez. VI, 11 aprile 1996, n. 3459, Di Benedetto).3. “Poiché la parte civile é legittimata, a norma dell'art. 576, comma primo c.p.p., a proporre impugnazione contro i capi della sentenza di proscioglimento ai soli effetti civili, la sua richiesta, in sede di impugnazione, deve fare riferimento specifico e diretto, a pena di inammissibilità del gravame, agli effetti di carattere civile che si intendono conseguire. Ne deriva che una richiesta della parte civile impugnante al giudice del gravame, riguardante esclusivamente l'affermazione della penale responsabilità dell'imputato, prosciolto nel precedente grado di giudizio, rende inammissibile l'impugnazione, in quanto richiede al giudice adito di deliberare soltanto in merito a un effetto penale, che esula dai limiti delle facoltà riconosciute dalla legge alla detta parte processuale” (Cass. Pen, sez.I, 8 giugno 1999, Pirani e altri).4)“Nell'ipotesi in cui la parte civile ottenga una pronuncia di merito per lei pregiudizievole, al fine di ottenere nel successivo grado di giudizio una modifica favorevole della suddetta decisione, non può avvalersi del gravame proposto dal pubblico ministero, il quale mira a conseguire finalità pubbliche volte soltanto all'attuazione della pretesa punitiva, ma deve presentare autonoma e motivata impugnazione. Ciascuna parte ha, infatti, l'onere di essere vigile nella difesa dei

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propri interessi, senza delega ad altri del compito della relativa tutela. Ne deriva che, nell'ipotesi in cui la parte civile non proponga gravame avverso la decisione per lei negativa, si verifica acquiescenza e, quindi, quest'ultima acquista autorità di cosa giudicata. Le norme civili, che disciplinano (art. 329) la materia, trovano, infatti, applicazione nel procedimento penale, poiché non v'é una specifica previsione contraria e la disposizione é perfettamente compatibile con il diverso rito” Cass. Pen. Sez. III, 3 dicembre 1996,n. 10305, Pellinacci) Vedi però anche la massima seguente.5)“In tema di impugnazione per il principio di immanenza della costituzione di parte civile, la stessa, una volta ammessa, ha diritto a partecipare alle fasi successive alla prima e di vedrsi riconosciuto (senza che ciò rappresenti violazione del principio del divieto della “reformatio in peius”) il diritto al risarcimento del danno, anche se essa non ha impugnato la sentenza di procsioglimento in primo grado, appellata dal solo P.M. Invero, la autonoma facoltà di impugnazione, concessa alla parte civile dall'attuale ordinamento, é prevista in aggiunta a quella del P.M., ed a tutela degli interessi civili, anche quando il rapporto processuale penale is sia esaurito per la mancata impugnazione della sentenza da parte dell'organo dell'accusa o dell'imputato” (Cass. Pen. Sez. V, 21 ottobre 1999, n.12018)6)“La parte civile può partecipare alla fase di impugnazione senza neecssità di una nuova costituzione per il principio di “immanenza” (art. 76)” - Ghiara, in Commentario al nuovo codice di procedura penale, UTET. Vol.I, passim). Ciò significa che, nel caso l'imputato abbia impugnata la sentenza di condanna, la parte civile potrà senza bisogno di un nuovo atto di costituzione: stare nel giudizio di impugnazione, concludere in questo per la conferma della precedente sentenza e per una condanna dell'impugnante alle spese processuali. E' discutibile invece (come si vede dalla sopra riportata giurisprudenza) che ciò anche significhi che, in caso di proglioglimento dell'imputato e di impugnazione del solo P.M., la parte civile possa in sede di giudizio di impugnazione chiedere la condanna dell'imputato al risarcimento.

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XX.Affidamento ordinario (art. 47 l. 354/75)

Premessa-L'affidamento ordinario é previsto dall'art. 47 L. 26 luglio 1975 n.354 (Legge sull'Ordinamento penitenziario).La richiesta di affidamento può (naturalmente) essere presentata solo dopo che la sentenza di condanna é diventata irrevocabile.Detto ciò passiamo a descrivere il relativo procedimento che, lo diciamo subito, presenta particolarità diverse, a seconda che, la persona di cui si vuol chiedere l'affidamento, sia già detenuta o no.

I- Attività preparatoria alla richiesta, in ipotesi di affidando detenuto.Prima di tutto, se la detenzione é dovuta a una misura cautelare (arresti domiciliari, custodia in carcere....) l'avvocato, se convinto che il giudice del processo (testardo!) non revocherà la misura e che prima o poi vi sarà una sentenza irrevocabile di condanna, cerca in ogni modo di affrettare la chiusura del procedimento di cognizione (chiedendo il giudizio abbreviato, facendo rinunciare all'eventuale impugnazione...).Poniamoci ora nel caso che la sentenza, come che sia, sia diventata irrevocabile. Aspetterà il difensore che il P.M. gli notifichi l'ordine di esecuzione (di cui all'art. 656)? No, di certo: il condannato é detenuto (essendosi la misura cautelare convertita in pena definitiva) mentre se invece godesse della misura alternativa sarebbe a piede libero: bisogna muoversi, presentare l'istanza di affidamento (di cui alla formula B) subito, senza neanche aspettare che l'Ufficio esecuzione del P.M. comunichi al direttore del carcere, più precisamente allo “ufficio matricola”, il passaggio in giudicato della sentenza.

II- Attività preparatoria della richiesta, in ipotesi di affidando a piede libero. Certo, in tale ipotesi il difensore non é pressato dall'urgenza come nel caso difenda un detenuto. Infatti il pericolo che il condannato venga messo in carcere nelle more della procedura (intesa ad ottenere l'affidamento), ora (dopo l'intervento della L. 27 maggio 1998 n.165 sull'art. 656) non esiste più: per l'art. 656 come novellato, il P.M. emette, sì, l'ordine di carcerazione anche nei casi in cui astrattamente é ammissibile una misura alternativa (v. melius, il 5° co art. 656), però con contestuale decreto lo sospende.Con tutto ciò il nostro suggerimento al difensore é quello dell'antica saggezza popolare: chi ha tempo non aspetti tempo: il P.M., se l'istanza non é presentata entro 30 giorni dalla notifica dell'ordine di carcerazione, deve revocare

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“immediatamente” il suo decreto di sospensione (v. co. 8 sempre dell'art. 656): quindi il difensore ha disponibili per presentare l'istanza solo 30 giorni e non sono poi tanti se si deve: contattare l'affidando, farsi dare la nomina, procurarsi dei documenti....

III- Presentazione dell'istanza- L'istanza va redatta (in carta semplice) seguendo la traccia data dalle formule A e B a seconda che l'interessato sia, o no, detenuto.

- Legittimato a proporre l'istanza, oltre naturalmente all'interessato, é anche il difensore: quello “nominato per la fase dell'esecuzione o, in difetto, quello che lo ha assistito nella fase del giudizio”. Naturalmente la nomina deve risultare nelle forme di cui agli artt. 96 ss. Nel caso il difensore sia quello stesso del giudizio di cognizione la nomina in teoria non andrebbe rinnovata; in pratica, però, é opportuno che anche in tal caso il difensore si faccia rilasciare una nuova nomina (anche se la precedente avesse riguardata esplicitamente la fase esecutiva); infatti la precedente dichiarazione di nomina, inserita com'é nel fascicolo della cognizione (che naturalmente si trova nel fascicolo del giudice della cognizione), non risulta al magistrato della Procura e del Tribunale (che si potrebbe essere costretti a contattare).- Entro 30 giorni dalla notifica dell'ordine di esecuzione (con contestuale decreto di sospensione di questa), l'istanza (unitamente alla documentazione che si intende allegare) va presentata: se l'imputato é a piede libero (non nella cancelleria del tribunale di sorveglianza, ma) nella segreteria (ufficio esecuzione) della Procura della Repubblica (che ha emesso l'ordine di esecuzione – v. co. 6 art. 656); se l'imputato é detenuto, nella cancelleria del magistrato di sorveglianza (o, se presentata direttamente dall'affidando, all'ufficio matricola del carcere - sarà poi il direttore di questo a provvedere a farla pervenire al magistrato di sorveglianza insieme alla cartella personale del detenuto stesso).

IV- Istruttoria dell'istanza- Il tribunale di sorveglianza (in pratica, il cancelliere) una volta pervenuta ai suoi uffici l'istanza, provvede alla sua istruttoria (senza preoccuparsi troppo di rispettare il termine di 45 giorni entro il quale, secondo il comma 6 art. 656, il tribunale dovrebbe, sull'istanza, decidere: é questo un termine ordinatorio che viene normalmente disatteso e superato).Più precisamente il tribunale acquisisce: 1) il certificato penale; 2) estratto della sentenza di condanna; 3) i “carichi pendenti” (nei luoghi di: nascita, residenza, domicilio, del subito arresto, dei perpetrati reati o...in alcuni soli di tali posti secondo...la diligenza dell'Ufficio); 4) relazione del C.S.S.A. (Centro Servizi Sociali Adulti) sui rapporti interfamiliari, sul dove andrebbe a vivere il detenuto, sull'effettiva esistenza dell'attività risocializzante (…); 5) relazione (eventuale) sull'osservazione

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e sul trattamento in istituto (svolta dall'équipe di cui all'art. 80 L. 354/57); 6) relazioni della Polizia e dei Carabinieri sulla personalità del condannato e in particolare su suoi eventuali collegamenti con la malavita organizzata.E il difensore starà con le mani in mano? No, certamente, egli dovrà cercare di confortare l'istanza con documenti che comprovino che il provvedimento di affidamento richiesto può “contribuire alla rieducazione del reo e ad assicurare la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati” (art. 47 co. 2).La documentazione che di solito si produce in una procedura di affidamento ordinario é la seguente:6) Dichiarazione che il condannato svolge attività lavorativa (dichiarazione ovviamente rilasciata di solito dal datore di lavoro e che, di solito, si cerca di far redigere in sua carta intestata) o che potrebbe, se lasciato a piede libero, iniziare un'attività lavorativa (dichiarazione questa che ovviamente di solito viene rilasciata da un'impresa disponibile all'assunzione dell'affidando).2) Documento comprovante che l'affidando ha o avrebbe un domicilio stabile (documento che può essere dato: da un contratto di locazione, da una dichiarazione della persona che ospita o é disposta ad ospitare l'affidando....).3) Documento comprovante l'avvenuto risarcimento del danno (é il miglior biglietto da visita!).4)Documentazione da cui risulta che l'affidando si é già dato o é disposto a darsi ad un'attività di volontariato sociale.Naturalmente non é da pensare che l'avvocato provveda direttamente all'acquisizione della documentazione di cui sopra: egli si limita a far presente al cliente l'opportunità di acquisire tale documentazione: sarà poi il cliente a fare gli opportuni “giri” per acquisirla.Una cosa importante che l'avvocato deve far presente al cliente é quella di tenere buoni rapporti col Servizio Sociale (puntualità ai colloqui....): é una cosa importantissima: una relazione negativa dei “servizi” può pregiudicare irrimediabilmente l'accoglimento dell'istanza.Quando deve essere prodotta la documentazione di cui sopra? Quando l'istanza parte da condannato già detenuto (e quindi mira ad ottenere dal Magistrato di sorveglianza la scarcerazione) é senz'altro opportuno produrla al momento stesso del deposito dell'istanza (e questo perché il Magistrato di sorveglianza potrebbe rifiutare la scarcerazione se ritenesse non fondata l'istanza). Negli altri casi, si può aspettare a produrla fino a cinque giorni prima dell'udienza (termine indicato dalla Legge che però nella pratica spesso viene bypassato).

V- Udienza del tribunale.- Naturalmente sia al difensore che al condannato viene notificato “avviso” dell'udienza di trattazione dell'istanza.Questa udienza “si svolge con la partecipazione del difensore e del rappresentante

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dell'ufficio del pubblico ministero. L'interessato può partecipare personalmente alla discussione e presentare memorie” (v. art. 71-bis co.1).Per prassi il tribunale (composto anche da giudici laici) non delibera seduta stante, ma, finita l'udienza, e certe volte anche alcuni giorni dopo (per cui anche se il difensore avesse detto nella discussione cose interessanti, ben poche di esse rimarrebbero nella testa dei giudici al momento di decidere!).Naturalmente “l'ordinanza che conclude il procedimento di sorveglianza é comunicata (…) all'interessato e al difensore” (v. art. 71-bis co.4); e questo deve avvenire “nel termine di dieci giorni dalla data della deliberazione”.Stesso termine di dieci giorni c'é per proporre ricorso per cassazione (v. melius, art. 71-ter).

Formula A: Richiesta di affidamento proposta da condannato libero.

Al tribunale di sorveglianza di Canicattìper il tramite del Pubblico Ministero

Il sottoscritto avv. Cicero del Foro di Canicattì con Studio in Canicattì via Roma 3(1), difensore in virtù di mandato in calce al presente atto (2) di Lestofanti Mario nato il 06.10.76 a Robiria in forza di mandato (con contestuale elezione di domicilio) in calce al presente atto

premesso:

- che contro Lestofanti Mario deve eseguirsi la condanna a due anni di reclusione pronunciata dal Tribunale di Canicattì con sentenza 15.10.2011 divenuta irrevocabile in data 15.02.2012;- che la procura della Repubblica presso il Tribunale di Canicattì ai sensi dell'art. 656 c.p.p. ha già emesso in data 10.04.2012 il relativo ordine di esecuzione notificato in data 10.05.2012;- che ricorrono tutti i presupposti e le condizioni previste dall'art 37 dell'Ordinamento per la concessione dell'affidamento, in quanto:- il condannato é disposto a impegnarsi ad osservare tutte le prescrizioni che gli verranno impartite nel corso dell'affidamento dal Tribunale di sorveglianza e/o dal Magistrato di sorveglianza;- che Lestofanti attualmente libero andrebbe ad abitare (3) nell'appartamento sito in Canicattì via Roma n.1 ospite della sig.ra Fiordaliso Concetta a ciò dettasi disponibile come risulta da dichiarazione ad hoc che si allega (doc.2) e che pertanto potrà essere facilmente contattato e controllato dal Servizio Sociale;- che Lestofanti é intenzionato a svolgere (4) al più presto attività lavorativa come

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cameriere presso la Ditta “Bar Piacevolezze” che é intenzionato ad assumerlo come lavoratore subordinato, come da dichiarazione ad hoc che si allega (doc. 4);- tanto premesso, l'esponente, a norma dell'art. 47 L. 26.07. 1975 n. 354 e successive modificazioni

chiede- che Lestofanti Mario sia ammesso al beneficio dell'affidamento in prova al servizio sociale.Con osservanza (Avv. Cicero)

Avvertenze(1) Ma l'istanza può essere presentata direttamente dall'affidando. N.B. Comunque sia, qualora l'istanza sia proposta da soggetto non detenuto deve contenere ex art. 677, co.2bis c.p.p., a pena di inammissibilità, la dichiarazione o l'elezione di domicilio per le notificazioni. Secondo un orientamento giurisprudenziale l'obbligo di dichiarare o eleggere domicilio, ai sensi dell'art. 677 c.2 bis grava anche il soggetto che si trovi in stato di detenzione domiciliare, (questo perché la ratio dell'art. 677 é quello di facilitare al competente ufficio giudiziario la ricerca del domicilio del notificando – ricerca che, facile quando il notificando é ristretto in carcere, diventa difficile sia quando é a piede libero sia anche quando é agli arresti domiciliari. N.B. La formalità relativa alla dichiarazione o all'elezione di domicilio, secondo un orientamento giurisprudenziale, ha natura strettamente personale e non può essere surrogata dalla mera indicazione o elezione fatta dal difensore. Ma naturalmente la nomina e la elezione di domicilio possono essere fatte con

autonomo atto ad hoc(3)Oppure: “Il Lestofanti risiede in Canicattì via Roma 3 e pertanto é facilmente contattabile.....”(4) Oppure “svolge”.

Formula B: richiesta di affidamento da parte di detenuto

Al Tribunale di sorveglianza di Firenzeper il tramite del Magistrato di sorveglianza di Arezzo

il sottoscritto avv. Cicero I del Foro di Arezzo con Studio in Arezzo via Cellini,7 difensore in virtù di specifico mandato di Lestofandi Alfredo (d'ora in poi, il condannato) nato ad Arezzo il 06.07.56, attualmente detenuto nella casa circondariale di Arezzo, in espiazione della condanna inflitta con Sentenza del

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Tribunale di Arezzo in data...... e per Ordine di esecuzione in data....... della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Arezzo

Premesso- che il condannato é pronto ad osservare tutte le prescrizioni che gli venissero impartite dall'Autorità Giudiziaria, direttamente o indirettamente, relative al comportamento da tenere durante il periodo di affidamento;- che in caso di concessione del beneficio il condannato andrebbe ad abitare in casa della sorella Maria Lestofanti, che si é dichiarata disposta ad ospitarlo gratuitamente (v. doc. 1);- che il condannato si propone di svolgere il lavoro (1) di cameriere presso la ditta “ Mangiar sano” con sede in Arezzo via Braccioli 7, che si é già dichiarata disposta ad assumerlo alle sue dipendenze (v. doc.2):- che il protrarsi della detenzione comporterebbe al condannato un grave pregiudizio in quanto gli farebbe perdere una occasione di lavoro preziosa per il suo reinserimento nella società;- tanto premesso, visto l'art. 47 L. 26.07.1975 n.354

chiedeall'ill.mo Magistrato di sorveglianza di sospendere la pena inflitta a Lestofanti Alfredo con Sentenza..... e all'ill.mo Tribunale di sorveglianza di ammettere lo stesso Lestofanti allo “affidamento in prova”come misura alternativa a tale pena..Con osservanza (Cicero I)

Avvertenze(1) Oppure: “che il condannato, attualmente senza lavoro, é però in grado di provvedere alle sue necessità con il reddito che gli deriva dal suo patrimonio”.Vedi anche le “avvertenze” in calce alla “formula A “.

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XXI.Semilibertà

L'istituto della semilibertà é disciplinato dagli artt. 48ss dell'Ordinamento penitenziario (l. 26.07.1975 n.354).L'Ordinamento penitenziario nell'art. 50 prevede tre diverse tipologie di semilibertà:1) la semilibertà come alternativa alle pene di breve durata (c.1 art. 50); 2) la semilibertà alternativa alla reclusione superiore ai tre anni e all'ergastolo (co.2 primo periodo art.50); 3) la semilibertà surrogatoria (co.2 secondo periodo art. 50).Le semilibertà sub 1) e sub 3) possono ottenersi senza passare per l'espiazione di una parte della pena (ciò che rappresenta un grande vantaggio, dato che il semilibero é assegnato “in appositi istituti o apposite sezioni autonome”, ha la possibilità di “trascorrere parte del giorno fuori dell'istituto” ecc. - v. art. 48). Però per ottenere tali tipi di semilibertà (senza previa espiazione pena) bisogna essere lesti: presentare (alla Procura della Repubblica che ha emesso l'ordine di carcerazione) entro trenta giorni (dalla notifica dell'ordine di carcerazione) l'istanza ad hoc (vedi formula A).La semilibertà rientrante nella tipologia sub 2) va chiesta (vedi formula B) quando già il condannato é in espiazione della pena e va presentata (non più alla Procura, ma) al Magistrato di sorveglianza (nel caso che sia presentata, non dal difensore, ma dal condannato, essa sarà naturalmente presentata all'ufficio matricola dell'istituto carcerario e sarà il direttore di questo a farla pervenire al Magistrato di sorveglianza insieme alla cartella personale del detenuto).Per ottenere la semilibertà occorre dimostrare che il condannato vuole e può essere “reinserito nella vita sociale”.Di solito la prova di ciò é data da dichiarazioni (possibilmente in carta intestata al dichiarante – non occorre invece nessuna autentica della sua sottoscrizione) attestanti che, metti, la ditta Vattelapesca ha o intende avere alle sue dipendenze il sig.X (il condannato, cioè) o che l'istituto Tal dei Tali conta tra i suoi allievi sempre il sig. X (cioé sempre il condannato) e cose simili (a cui il Tribunale di sorveglianza può credere o fingere di credere).“Aiutano” anche molto: una dichiarazione della parte lesa attestante l'avvenuto risarcimento; una certificazione da cui risulta che il condannato già ha svolto attività di volontariato sociale.Per quel che riguarda lo svolgimento della procedura dopo la presentazione dell'istanza, v. artt. 71 ss Ordinamento penitenziario e quanto da noi detto a proposito parlando dell'istituto dell'affidamento in prova.

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Formula A: Istanza di semilibertà per condannato in stato di libertà

All'ill.mo Tribunale di sorveglianza di Genovatramite il Pubblico Ministero

Il sottoscritto Cicero I del Foro di Genova (1) nell'interesse di Lestofanti Alfredo nato a Genova il 07.08.1988 e ivi residente con domicilio eletto ai fini del presente

atto in Genova, via Roma 3 presso il suo studio;nella sua qualità di difensore,tale risultante da atto in calce contenente il mandato ad hoc (e contestualmente l'elezione di domicilio)

premessoche il Lestofanti Alfredo é stato condannato con Sentenza n 564 /2011 del Tribunale di Genova in data 22.11.2011 alla pena di un anno di reclusione;- che al Lestofanti é stato notificato in data.....l'Ordine di esecuzione relativo a tale Sentenza;- che, come risulta da tale Ordine, la pena residua da espiare é di sei mesi di reclusione;- che dalla commissione dei fatti per cui é stata emessa condanna, il Lestofanti ha tenuto comportamento esemplare (….);- che il Lestofanti svolge da tempo una stabile attività lavorativa (v. all.1) e ha una stabile dimora (vedi allegato II);- tutto ciò premesso, visto l'art. 50 Ord. Pen.

Chiedeche il Lestofanti sia ammesso all'espiazione della pena nella forma alternativa della semilibertà.Con osservanzaGenova......... (Avv. Cicero I)

Avvertenze-(1) Oppure: “Il sottoscritto Lestofanti Alferdo nato a Genova il 07.08.1988, ivi residente, con l'assistenza dell'Avv. Cicero I che nomina suo difensore e presso il cui Studio in Genova, via Fiasella 3 elegge domicilio.....”- L'avvocato che non abbia difeso il condannato nella fase del giudizio per sottoscrivere validamente dovrà munirsi di mandato ad hoc.- “L'obbligo, per il condannato non detenuto, di accompagnare la domanda di misure alternative alla detenzione con la dichiarazione o l'elezione di domicilio, come stabilito dalla'art. 677 co. 2bis, sussiste anche quando la domanda sia avanzata dal suo difensore (….) “- Cass. 16.03.04 (ex “Commentario breve” cit.).

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N.B. Tale obbligo sussiste anche per il condannato che si trovi in stato di detenzione domiciliare.

Formula B: istanza per la semilibertà presentata da detenuto

Al Tribunale di sorveglianza di Genovaper il tramite del Magistrato di sorveglianza

il sottoscritto Avv. Cicero del Foro di Genova nella sua qualità di difensore per mandato in calce di Lestofanti Alfredo nato il 07.08.1988 e in atto detenuto nell'Istituto penitenziario di Genova-Marassi

Premesso che il Lestofanti Alfredo con Sentenza n.345 del Tribunale di Genova emessa

in data 23.12.2009 é stato condannato per il reato di rapina a 4 anni di reclusione oltre alla multa;- che tale condanna é in fase di esecuzione dal 23.12.2010;- che il Lestofanti ha manifestato la propria volontà di reinserimento sociale frequentando diligentemente i corsi (….);- che non vi é pericolo di fuga in quanto (…..);- tanto premesso, visto l'art. 50 Ord. Penit.

chiedeche sia concesso al condannato di espiare la residua pena nella forma della semilibertà.Con osservanza (Avv. Cicero I)

Avvertenze.Nei casi di cui al primo comma art. 50 - qualora il condannato sia finito in carcere, metti per tardività dell'istanza rivolta al P.M.di sospensione della pena- questa potrà essere richiesta al magistrato di sorveglianza.Vedi le avvertenze in calce alla formula A

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XXII.Detenzione domiciliare

La misura alternativa della “detenzione domiciliare” consente di espiare la pena “nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza” (v.art. 47-ter co.1 Ordinamento penitenziario).Rappresenta quindi per un condannato un grande beneficio; a cui peraltro si può accedere in base a diversissimi presupposti (v. art. 47-ter e 47-quater)Quindi é diversa la documentazione che l'interessato al beneficio deve produrre da caso a caso.Limitandoci al caso previsto dall'art. 47ter co. 1bis, diremo che la documentazione da produrre é quella che serve a tranquillizzare il tribunale di sorveglianza sui due pericoli da lui più paventati: che il condannato approfitti della misura alternativa per commettere altri reati o per darsi alla fuga.Gioverà, quindi, produrre documentazione che comprovi che il condannato, ha o avrà un lavoro, ha o avrà una stabile dimora, si é dato o si darà a opere di volontariato sociale. Naturalmente anche il risarcimento del danno arrecato con il reato, dimostrando una resipiscenza del condannato, conforta l'accoglimento dell'istanza.L'istanza va indirizzata al tribunale di sorveglianza (v. art.70 Ordinamento penit.), ma, se il condannato é a piede libero, va presentata (entro 30 giorni dalla ricezione della notifica dell'ordine di esecuzione – v. co, 5 art. 656 !) tramite il pubblico ministero che ha emesso l'ordine di esecuzione; mentre, se il condannato é detenuto, va presentata tramite il Magistrato di sorveglianza.E “se il condannato si trova agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire? Allora si applicherà il co. 10 art. 656: il p.m. (a cui dovrà essere presentata l'istanza) sospenderà l'ordine di esecuzione e “fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, il condannato permarrà nello stato detentivo nel quale si trova” (v. melius il citato co.10).Di seguito riportiamo le formule utili per la redazione dell'istanza.

Formula A: istanza per la detenzione domiciliare presentata per il condannato a piede libero

Al Tribunale di Sorveglianza di Genovaper il tramite del Pubblico Ministero

il sottoscritto avv. Cicero I del Foro di Genova (1) nella qualità di difensore (v.

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mandato in calce) di Lestofanti Attilio nato a Genova il 07.08.1087, ivi residente, ivi domiciliato in via Roma 3 presso e nello Studio del sottoscritto avvocato esponente (v. elezione di domicilio in calce al presente atto)

premesso-che il Lestofanti A é stato chiamato ad espiare la pena di anni due di reclusione (si veda Ordine di esecuzione del P.M. in data...) come residuo della maggior pena comminata dalla Sentenza n. 546/2011 emessa dal Tribunale di Genova in data …........;

- che i fatti per cui é condanna risultano commessi il 21 settembre 2005; - che successivamente il Lestofanti ha tenuto un comportamento che rivela inequivocabilmente la sua volontà di riabilitarsi e di inserirsi nell'ordinato vivere sociale, infatti (…..);- tanto premesso, visto l'art. 47 ter L. 26 luglio1975 n.354

fa istanzaa che il Lestofanti Attilio venga ammesso ad espiare la pena nella misura alternativa della detenzione domiciliare.Con osservanzaGenova....... (Avv. Cicero I)

Avvertenze.(1) Oppure: “Il sottoscritto Lestofanti Attilio nato a Genova il 07.08.1987 res in Genova e ivi elett. domiciliato in via Roma 3 presso e nello Studio dell'Avv. Cicero I che nomina suo difensore”.- Attenzione, il domicilio del condannato non va semplicemente dichiarato dal difensore ma deve risultare da atto sottoscritto del condannato stesso.

Formula B: istanza di detenzione domiciliare per condannato già detenuto

Al Tribunale di Sorveglianzaper tramite del Magistrato di Sorveglianza

il sottoscritto avv. Cicero I del Foro di Genova nella sua qualità di difensore (vedi mandato in calce) di Lestofanti Attilio nato il 07.10.1987 a Genova e ivi residente

premesso- che il Lestofanti Attilio deve espiare la pena della reclusione per anni uno quale residuo di maggior condanna comminata con Sentenza n....del Tribunale di Genova in data.......;

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- che successivamente a detta condanna il Lestofanti ha tenuto un comportamento che, non é solo rispettoso della Legge, ma rivela la sua ferma intenzione di reinserirsi nella vita sociale – infatti (….);-tanto premesso visto l'art. 47ter L. 26.7.1975 n.354

fa istanzaall'ill.mo Tribunale di Sorveglianza a che conceda al Lestofanti Attilio la misura alternativa della detenzione domiciliare e all'ill.mo Magistrato di Sorveglianza a che, in osservanza del co. 1 quater art. 47 ter della Legge richiamata, disponga, di detta misura, l'applicazione provvisoria.Con osservanzaGenova....... (avv. Cicero I)

Avvertenze.

Vedi quelle riportate in calce alla precedente formula.

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XXIII.Misure alternative a favore dei tossicodipendenti e alcooldipendenti

Il nostro Legislatore prevede misure alternative “agevolate”:1) “nei confronti di persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi” (art. 94 D.P.R. 09.10.1990 n. 309); 2) nei riguardi di persona che (non sia solo tossicodipendente, ma) sia stato condannata per “un reato commesso in relazione al proprio stato di tossicodipendente” (art. 90 D.P.R. 09.10.90 n.309); 3) nei confronti di coloro che sono affetti da “AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria” siano o no tossicodipendenti (e potrebbero ben non esserlo, dato che l'AIDS lo può prendere anche chi, tossicodipendente, non é) e che “hanno in corso o intendono intraprendere un programma di cura” (v. melius l'art. 47 quater Ordinamento penitenziario).Di seguito ci limiteremo a parlare delle misure “agevolate” sub 1 e sub 2).Affidamento in prova per tossicodipendenti e alccoldipendenti (art.94 D.P.R. 309/1990)- Attività preparatoria all'istanza- Ovviamente la richiesta di affidamento può essere presentata solo dopo che la sentenza é diventata irrevocabile.Però già prima del passaggio in giudicato della sentenza é opportuno che il difensore dia istruzioni al suo assistito (tossicodipendente o alcooldipendente) perché crei i presupposti necessari per l'ottenimento del beneficio.Prima di tutto l'affidando – che già non abbia in corso un programma di recupero – dovrà mettersi in contatto con una ASL (Servizio salute mentale) o “con uno degli enti previsti dall'art.115” del D.P.R. 9 ottobre 1990 n.309 (si pensi a, San Patrignano, Comunità di Don Mazzi....) per concordare un programma di attività terapeutica. A tal fine l'affidando, se detenuto, potrà limitarsi a scrivere una lettera: sia l'ASL, sia gli “enti ausiliari” (di cui all'art. 115) non hanno difficoltà a mandare un loro rappresentante in carcere, e ciò di solito dopo pochi giorni.Una volta che il condannato avrà ottenuto il programma terapeutico (e una dichiarazione dell'ente ausiliario di “disponibilità all'accoglienza”, cioé a dare l'assistenza terapeutica – ma questo, naturalmente, se il programma va attuato,non con l'ASL, ma appunto con un ente privato), egli ancora dovrà procurarsi (dall'ASL!) la certificazione dell'effettiva esistenza dello stato di tossicodipendenza (o alcooldipendenza) e dell'idoneità del programma (v. melius, art.94 co.1).Di solito queste certificazioni vengono rilasciate con estrema facilità: infatti gli operatori delle ASL ritengono per principio dannoso al recupero del tossico/alcooldipendente la sua permanenza in una struttura carceraria e sono portati per principio ad

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agevolare ogni iniziativa che, da tale struttura, lo tolga.Questa é la documentazione fondamentale per ottenere l'accoglimento dell'istanza di affidamento. A questa documentazione é bene aggiungere, se é possibile, quella di cui già si é fatto parola parlando dell'affidamento ordinario (prova del risarcimento del danno, di aver un lavoro o di poterlo ottenere....).II- Presentazione dell'istanza- L'istanza, rivolta al Tribunale di sorveglianza, nel caso

di affidando a piede libero, va presentata al Pubblico Ministero che ha emesso l'ordine di esecuzione e nel (breve) termine di 30 giorni previsto dal co.5 art. 656 (e, attenzione, di ricordarsi di fare l'elezione o dichiarazione di domicilio di cui al co. 2bis art. 677 !); nel caso di affidando detenuto, va presentata alla Magistrato di sorveglianza (a cui andrà chiesta la provvisoria applicazione della misura stessa, di cui al co.2 art. 94).L'istanza potrà essere redatta sulla falsariga della “formula A”, con qualche intuitiva modifica nel caso che riguardi condannato già detenuto.E passiamo alla misura alternativa “agevolata” di cui all'inizio abbiamo detto sub 2).Sospensione dell'esecuzione (art. 90 D.P.R. 309/90).Nel caso il condannato, non sia solo tossicodipendente, ma sia stato condannato proprio per un “reato commesso in relazione al proprio stato di tossicodipendente”, egli può ottenere (se la pena da scontare non supera una certa misura), qualcosa di ben di più che l'affidamento e precisamente può ottenere, prima, la sospensione dell'esecuzione della pena, qualora il tribunale di sorveglianza “accerti che egli si é sottoposto con esito positivo ad un programma terapeutico e socio-riabilitativo” (v melius l'art.90) e, poi, “se nei cinque anni successivi non commette un delitto non colposo punibile con la reclusione” l'estinzione delle “pene e di ogni altro effetto penale” (v. melius l'art. 93 sempre del D.P.R. 309/90).Da quanto detto già risulta che l'istanza di sospensione può essere proposta solo dopo che la sentenza é diventata irrevocabile. Ciò non significa che si deve aspettare quel momento per acquisire la documentazione: chi ha tempo non aspetti tempo. Sarà bene quindi che l'interessato si muova subito per concordare, con la ASL o con uno degli enti ausiliari di cui all'art. 115 T.U sugli stupefacenti, un programma terapeutico e socio-riabilitativo e per ottenere (dalla ASL) la certificazione “attestante il tipo di programma terapeutico e socio-riabilitativo prescelto, l'indicazione della struttura, anche privata, ove il programma é stato eseguito o é in corso, le modalità di realizzazione e l'eventuale completamento del programma” (v. co. 2 art. 91).L'istanza va presentata: tramite il P.M. che ha emesso l'ordine di esecuzione e nei trenta giorni di cui al co-5 art. 656, se é nell'interesse di condannato ancora a piede libero (e in tal caso ricordarsi dell'elezione di domicilio di cui al co.2bis art. 677!),

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tramite il Magistrato di sorveglianza, se é nell'interesse di condannato detenuto.Presentata l'istanza non resta al difensore che attendere la notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza (art. 92 co.1). Attenzione, però, all'ultimo periodo del co.1 art.92: “Se non é possibile effettuare l'avviso al condannato nel domicilio indicato nella richiesta o all'atto di scarcerazione e lo stesso non compare all'udienza, il tribunale dichiara inammissibile la richiesta”.La formula B riguarda una richiesta di sospensione proveniente da condannato a piede libero; con un po' di intuito può essere adattata a una richiesta proveniente da condannato detenuto.

Formula A: istanza di affidamento di tossicodipendente non detenuto

Al Tribunale di sorveglianzatramite il Pubblico Ministero

il sottoscritto avv. Cicero I del Foro di Genova nella sua qualità di difensore di Lestofanti Alfredo nato il 07.08.1987 in Genova, ivi residente ed ivi elettivamente domiciliato in via Roma 3 presso e nello Studio dell'esponente avv. Cicero I (v. dichiarazione di domicilio in calce al presente atto)

Premessoche il Lestofanti é stato condannato con Sentenza n. 432/2012 emessa dal Tribunale di Genova in data 10.05.2012 a un anno di carcere;che il ricorrente Lestofanti é tossicodipendente come risulta dalla dichiarazione ASL che si allega;che l'esponente é però fermamente deciso a intraprendere un'attività terapeutica e socio-riabilitativa sulla base del programma concordato con la Comunità di San Patrignano (all.2) e già dalla ASL dichiarato idoneo (all.3); che dai fatti per cui é condanna a tutt'oggi il Lestofanti ha dato prova di ravvedimento (…..)tutto ciò premesso, visto l'art.94 D.P.R. 309/90

chiedeche venga concesso al Lestofanti Alfredo, come misura alternativa alla espiazione della pena di cui alla prefata condanna, l'affidamento in prova al Servizio Sociale.Con osservanza (Avv. Cicero)

Formula B: richiesta di sospensione della pena proposta da condannato in stato di libertà

Al Tribunale di sorveglianza

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tramite il Pubblico Ministeroil sottoscritto Avv. Cicero I del Foro di Genova nella sua qualità di difensore di Lestofanti Alfredo nato il 07.08.1978 in Genova ivi residente e ivi elettivamente domiciliato in via Roma 3 presso e nello Studio dell'esponente avv. Cicero I (vedi elezione di domicilio in calce al presente)

premessoche il Lestofanti é stato condannato a un anno di reclusione con Sentenza n342/2012 emessa dal Tribunale di Genova in data 08.09.2012:che il Lestofanti era tossicodipendente come risultante dalla certificazione della ASL (all.1); che però ha intrapreso un'attività terapeutica e socio-riabilitativa sulla base di un programma concordato con la Comunità di Santo Egidio (all.2) e dichiarato idoneo dalla ASL (all.3);che il suddetto programma é stato portato a termine con esito positivo come risulta da dichiarazione rilasciata dalla Comunità di Santo Egidio (all.4);

tanto premesso, visto l'art 90 R.D.P. 309/90chiede

che ai fini degli artt. 90 e segg, D.P.R. 309/90 la pena come sopra inflitta sia sospesa.Con osservanza (Avv. Cicero)

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XXIV.Oblazione

I riferimenti legislativi sono: artt. 162, 162bis C.P.; artt. 464,555,557,604 C.P.P. e soprattutto art. 141 disp. att. C.P.P.Da tale normativa risulta che il nostro Ordinamento penale prevede due tipi di oblazione: l'oblazione “comune”, ammessa solo per le contravvenzioni punibili solo con l'ammenda (art. 162 C.P.) e l'oblazione “speciale”, ammessa anche per le contravvenzioni punibili (oltre che con l'ammenda) alternativamente con l'arresto (art. 162bis C.P.). Il meccanismo dei due tipi di oblazione é sostanzialmente identico: l'imputato versa una somma (fissata, dal Legislatore e non dal giudice, con riferimento a una quota del massimo dell'ammenda) e il reato si estingue. L'oblazione speciale si distingue da quella comune (oltre per la più gravosa quota da sborsare, anche) perché l'ammissione all'oblazione é soggetta ad una valutazione discrezionale del Giudice e, in compenso, per un più ampio margine di tempo concesso per la proposizione (melius, la riproposizione) della relativa domanda – cfr. co. 1 art. 162 e co.5 art. 162bis (v. melius, le “avvertenze”).Circa l'iter della procedura (v. art. 141 disp.att.) bisogna distinguere “se la domanda é proposta nel corso delle indagini preliminari” oppure no.Prima ipotesi: proposizione della domanda nel corso delle indagini preliminari.La domanda é redatta per iscritto (vedi formula A) e, anche se é indirizzata al Giudice delle indagini preliminari, va depositata nella segreteria del P.M. Penserà poi questi a far pervenire l'istanza al giudice (corredandola del suo parere). Il giudice “se ammette l'oblazione” “fissa con ordinanza la somma da versare” e ne “dà avviso all'interessato”. Questi, procuratosi il modulo ad hoc (il modello F23) recandosi dove di dovere (in un ufficio postale, in una banca...), lo compila (ed é questa la cosa più difficile dell'operazione, dato che non é facile individuare i numeri di codice relativi ad ogni “voce”!), effettua il relativo versamento (all'ufficio postale, in banca...) e restituisce alla cancelleria del G.I.P. una copia del modulo (con tanto di timbri comprovanti l'avvenuto pagamento). A questo punto l'oblazione é fatta: non resta al giudice che “trasmettere gli atti al pubblico ministero per le sue determinazioni” (che nella normalità dei casi si concretizzano in una richiesta di sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato). Il G.I.P. - se la somma é stata tempestivamente ed esattamente pagata - chiuderà la procedura con una sentenza di n.d.p. (per estinzione del reato).Seconda ipotesi: proposizione della domanda (di oblazione) a indagini preliminari concluse.In tale ipotesi la domanda verrà depositata nella cancelleria del giudice o, se si é in

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udienza, verrà a lui presentata. Nel primo caso dovrà essere redatta per iscritto, nel secondo, potrà essere proposta (anzi normalmente verrà proposta) oralmente. Il giudice, acquisito il parere del P.M.,deciderà se ammettere, o no, all'oblazione. Se deciderà per il sì, determinerà la somma da versare. E a questo punto l'iter dell'oblazione proseguirà come detto nell'ipotesi precedente: l'interessato si procurerà il modulo ad hoc, lo riempirà ecc. ecc.

Formula A: istanza di oblazione

Ill.mo Giudice delle indagini preliminaripresso il Tribunale di Genova

1) il sottoscritto Giobatta Parodi nato il 06.07.1987 a Genova, ivi residente, e ivi domiciliato in via Roma 3 presso e nello Studio dell'avv. Cicero I che lo difende per mandato in calce

chiede2) di essere ammesso ad oblazionare il reato di cui all'art. 664 C.P. per cui corrono indagini preliminari a suo carico nel procedimento n.40/2000 pendente presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova3) Con osservanzaGenova........ (Firma di Giobatta).

AvvertenzeLegittimato a presentare l'istanza, non è il difensore (a meno che sia munito di procura speciale) ma solo il contravventore.Oltre che in un atto autonomo, l'istanza può essere contenuta nell'atto di opposizione a un decreto penale.Tenere presenti i termini (jugulatori!) degli artt. 162 e 162bis! E per quel che riguarda in particolare il procedimento di opposizione a decreto penale, che “nel giudizio conseguente all'opposizione” non si può “presentare domanda di oblazione”: quindi non dimenticarsi di presentare la domanda contestualmente all'atto di opposizione!Attenzione, la domanda ex art. 162 bis può essere proposta “sino all'inizio della discussione” solo se precedentemente e “prima dell'apertura del dibattimento” proposta (e naturalmente rigettata).In caso di rinvio a nuovo ruolo non si riaprono i termini di presentazione dell'istanza: in altre parole, basta che si sia aperto una volta il dibattimento perché il potere di fare oblazione sia perento. (cfr. T. Procaccianti Rapisardi, “Oblazione” in “Noviss. Dig. App.).

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E' opinione di gran lunga prevalente che il co. 2 art. 162bis sia stato derogato dal posteriore (nel tempo) art. 141 disp. att.; con la conseguenza che il pagamento non debba essere più fatto al momento della proposizione della domanda.Art. 141 co.4bis disp.att.: “In caso di modifica dell'originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile l'oblazione, l'imputato é rimesso in termini per chiedere la medesima. Il giudice, se accoglie la domanda, fissa un termine non superiore a dieci giorni, per il pagamento della somma dovuta. Se il pagamento avviene nel termine il giudice dichiara con sentenza l'estinzione del reato”.

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XXV.Riabilitazione ordinaria

Di seguito ci occuperemo della riabilitazione ordinaria che é disciplinata dall'art. 179 c.p. e dall'art. 683 c.p.p. (e che é diversa dalle riabilitazioni “speciali” di competenza del tribunale dei minorenni e del tribunale militare).La richiesta di riabilitazione va sottoscritta dal condannato; e, nel caso (che qui più ci interessa) che l'istanza debba essere poi depositata da un terzo (difensore, segretaria del difensore...), la sottoscrizione va autenticata (ciò che può fare lo stesso difensore); nel caso invece l'istanza fosse portata dallo stesso riabilitando, provvederebbe l'Ufficio alla sua identificazione al momento del deposito.Ma a quale tribunale di sorveglianza va presentata? A quello del luogo di residenza del riabilitando (v. melius art. 677 c.p.p.).La documentazione (necessaria per la decisione) viene raccolta dal tribunale stesso (v. art. 683 co.2). E' pertanto il tribunale che acquisisce: 1) gli estratti delle sentenze di condanna con l'indicazione della data del passaggio in giudicato;2) i certificati di espiata pena; 3) i certificati di avvenuto pagamento delle spese di giustizia e di avvenuto passaggio dell'articolo di campione alla tavola alfabetica (richiedendoli all'ufficio del campione penale di competenza); 4) i certificati dei carichi pendenti; 5) le relazioni della Polizia e dei Carabinieri.Con tutto ciò non é raro che il riabilitando (che vuole affrettare la conclusione della procedura) si faccia parte diligente per acquisire, in tutto o in parte, tale documentazione e portarla alla cancelleria del tribunale. Nel caso deve tenere presente, per evitare inutili spese, che molti tribunali si accontentano delle copie semplici (idest, non autenticate) delle sentenze: quindi informarsi presso la cancelleria !Tocca poi al riabilitando, e non al tribunale, l'acquisizione di un documento importantissimo ai fini dell'esito positivo dell'istanza: quello che comprova l'avvenuto risarcimento del danno: si tratterà di solito di una dichiarazione (senza necessità di sottoscrizione autenticata, ma preferibilmente redatta in carta intestata) della parte lesa.Se il risarcimento non é avvenuto, il riabilitando dovrà farsi parte diligente per documentare il “giusto motivo” per cui non é avvenuto: rifiuto ad accettare della parte offesa, sue pretese esorbitanti e (di solito!) l'indigenza del riabilitando stesso.Sempre é onere del riabilitando, documentare la sua indigenza quando a questa é dovuto il mancato pagamento delle spese processuali.Sulla istanza il tribunale decide in camera di consiglio. Nella procedura é obbligatoria l'assistenza di un difensore (che, se non lo nomina il riabilitando, gli

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viene nominato d'ufficio dal tribunale).

Formula A: istanza di riabilitazioneIll.mo Tribunale di sorveglianzadi Genovail sottoscritto Giobatta Parodi nato a Genova il 6 settembre 1987 ed ivi res. in via Garibaldi 3 con domicilio eletto sempre in Genova via Fiasella 5 presso e nello

Studio dell'Avv, Cicero che nomina suo difensore

premesso- che ha subito le condanne di cui alle seguenti Sentenze:A. Sentenza Trib. Genova 21 maggio 1989 di condanna per furto;B. Sentenza Trib. Genova 21 aprile 1990 di condanna per ricettazione- che é trascorso il termine previsto dall'art. 179 C.P. e durante tutto questo tempo l'istante ha dato prove effettive e costanti di buona condotta,- che si trova nell'impossibilità di risarcire il danno conseguente ai reati commessi come risulta dalla documentazione.....- tutto ciò premesso

chiedela riabilitazione con riferimento a tutte le condanne suindicate.Genova 3 amrzo 2002 (Firma di Giobatta Parodi)

per autentica (Firma di avv. Cicero)

AvvertenzeTenere presente che la dichiarazione o l'elezione di domicilio é pretesa dal co. 2bis art. 677 a pena di inammissibilità

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SEZIONE QUARTA

LA DIFESA DAVANTI AL TRIBUNALE

1. L'attività propedeutica alla difesa in udienza

Alla porta dell'avvocato Cicero bussa il signor Innocenti: ieri mattina l'ufficiale giudiziario gli ha notificato un decreto, che lo convoca davanti al tribunale di Genova, per rispondere del reato di rapina.1) “Ma lei non ha mai saputo nulla del processo?” - gli domanda l'avvocato.2) “Nulla” – risponde il cliente.“Strano” - dice l'avvocato, esaminando l'atto notificato al cliente, che é il decreto con cui il GIP (Giudice dell'udienza preliminare) ha disposto il giudizio (vedi co. 1 art. 425 e art. 429) - “E la richiesta del pubblico ministero (p.m., d'ora in poi) e l'avviso davanti al GIP non le sono mai stati prima notificati?!1 Domani andrò in cancelleria per vedere come stanno le cose”. E congeda il cliente, senza null'altro domandargli. Sì, perché é inutile ch'egli si metta a interrogarlo, fino a che non conosce gli elementi dell'accusa; e questi, da che altro possono risultargli se non dalla attenta lettura dei fascicoli processuali?Però, attento avvocato! Quando giunto a Palazzo di Giustizia, domanderai di vedere le carte processuali, la prima cosa che ti sentirai chiedere sarà: “La sua nomina risulta già agli atti?”. E sì, perché il dibattimento é pubblico, ma le carte processuali, no, non tutti possono consultarle: il tal dei tali solo perché avvocato non le può, le possono solo consultare il difensore e le parti (vedi artt. 466 e 431 co.2)2.

1 E infatti la “richiesta di rinvio a giudizio” ancorché emessa dal p.m. viene notificata dal GIP (insieme all'avviso della data dell'udienza preliminare) - co. 1 art. 419. Invece il decreto di rinvio a giudizio, emesso dal GIP (art. 429) al termine dell'udienza preliminare (co. 1 art. 424), non viene notificato all'imputato, a meno che egli non sia comparso all'udienza (v. meglio co. 4 art. 429).Il decreto di citazione invece verrà sempre notificato in caso di giudizio immediato (e a ciò provvede il GIP ai sensi co. co.3 art, 456) e di giudizio diretto (e a ciò provvede il p.m. stesso ai sensi del co. 3 art.552)2 E se un avvocato difende una parte offesa non ancora costituita parte civile (e si tenga presente che, di solito, le costituzioni si fanno all'udienza), avrà egli diritto di consultare il fascicolo? Sì, risponde Alfonso Chiliberti (in, Azione civile e processo penale, Giuffrè, 1993, p.233), trovando giusto che sia consentito alla parte offesa di di valutare “previo esame del fascicolo” “l'opportunità di una costituzione” e rilevando che tale interpretazione (ancorché estensiva del significato letterale della legge, vedi l'art. 466) si armonizza con

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Dunque, carta e penna, e l'avvocato si fa fare dal cliente una bella “nomina a difensore”, ne fa una fotocopia e si mette l'atto e la sua fotocopia in cartella (insieme al codice!): egli stesso, l'indomani, consegnerà la “nomina” al cancelliere3.L'indomani il nostro bravo avvocato Cicero se ne va a Palazzo di Giustizia per vedere l'incartamento processuale; anzi, gli “incartamenti processuali”, dato che i fascicoli da vedere sono due: il “fascicolo per il dibattimento”, che si trova presso la cancelleria del tribunale4, e il fascicolo del pubblico ministero, che si trova presso la segreteria della procura5.Giunto a Palazzo di Giustizia, il nostro bravo avvocato Cicero dove dirigerà i suoi primi passi? Verso la cancelleria del tribunale. Sì, perché é lì che deve consegnare quella “nomina a difensore”, che lo legittima a prendere visione degli incartamenti6.Peraltro la sua sosta nella cancelleria del tribunale é molto breve: il tempo di consegnare la nomina al cancelliere7 e di dare una rapida occhiata al “fascicolo per

l'art. 131 disp. att. (che dà facoltà – non solo alle “parti” - ma anche alla parte offesa e al suo difensore, di consultare il fascicolo processuale “durante il termine per comparire e fino alla conclusione dell'udienza preliminare”).E, conforme all'opinione espressa dal Chiliberti, é la prassi formatasi nelle nostre aule di giustizia.Di più, non é raro il caso che un giudice addirittura autorizzi (ai sensi dell'art. 468 co.2) la citazione di testi da parte della “costituenda parte civile” (anche se lo strappo alla legge qui é evidente: l'art. 79 nel suo terzo comma stabilisce che “se la costituzione avviene dopo la scadenza del termine previsto dall'art. 468 comma 1, la parte civile non può avvalersi della facoltà di presentare le liste dei testimoni, periti o consulenti tecnici” e da ciò facilmente si argomenta che la p.o. fino a che non si é costituita parte civile non può presentare nessuna “lista”).3 E infatti per il co. 2 art. 96 la “nomina”, oltre che essere spedita per raccomandata, può essere “consegnata” dal difensore; o anche da persona da lui delegata. In questo secondo caso il cancelliere pretende che la delega risulti da atto scritto? No, se il delegato é un collega di studio, un praticante o, anche, la segretaria del difensore.4 A farlo pervenire lì avrà pensato il cancelliere del GIP; ciò in ossequio all'art. 432, secondo il quale, appunto, “il decreto che dispone il giudizio é trasmesso senza ritardo, con il fascicolo previsto dall'art. 431 (….) alla cancelleria del giudice competente per il giudizio”. Sul fascicolo di cui all'art. 431 diremo tra poco. Disposizione analoga a quella dell'art. 432 é contenuta, per il giudizio immediato, nel nell'art. 457 e, per il giudizio diretto, nell'art. 553.5 Sul contenuto del fascicolo del p.m. vedi l'art. 433 comma 1 e, andando a ritroso (nella procedura), l'art. 416 comma 2 e l'art. 373 comma 5.6 Infatti l'art. 96 (vedi il suo secondo comma) vuole che la nomina sia consegnata “all'autorità procedente” e questa, una volta che il GIP ha emesso il decreto di citazione, é il tribunale (anche, si badi, qualora non gli siano stati ancora spediti gli atti dalla cancelleria del GIP).7 Il quale, non é obbligato a rilasciare ricevuta (arg. a contrario ex art. 582 comma 1, che impone, invece, al cancelliere di rilasciare “se richiesto, attestazione della ricezione” dell'atto di impugnazione).

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il dibattimento”. Rapida occhiata, si ripete, in quanto sono molto pochi gli elementi che questo fascicolo gli dà, che non gli possa dare anche quello del p.m.; se non altro perché il p.m. ha di solito cura di farsi fotocopia della documentazione, di cui verrà spogliato al momento della formazione (v. art. 431) del primo fascicolo (idest, del “fascicolo per il dibattimento”)8. Quel che, in fondo, il “fascicolo per il dibattimento” dà al difensore, in più rispetto a quello che già gli dà il fascicolo del pubblico ministero” é la relazione di notifica del decreto di citazione e il corpo del reato.Tentare di vedere quest'ultimo é, però - a meno che non si tratti di cosa poco voluminosa (come, ad esempio, una patente falsificata) - un'impresa del tutto improba per il difensore. Infatti di solito esso viene tenuto in una stanza ad hoc – stanza posta, sì, nello stesso Palazzo di Giustizia, ma, spesso e volentieri, lungi da quella in cui si trova il cancelliere, per cui questo ben poca voglia ha di accedervi.Uscito dalla cancelleria, l'avvocato Cicero volge i suoi passi verso i locali della Procura della Repubblica.Individuato l'ufficio in cui i fascicoli sono custoditi, dà il giorno dell'udienza e il nome dell'imputato al segretario addetto (e se questo é persona diffidente che vuol sapere se risulta difensore – ma é raro che ciò sia – gli dà la fotocopia della “nomina”, che si é portata prudentemente dietro). Ricevuto il fascicolo9, il bravo 8 I documenti che vengono inseriti nel “fascicolo del dibattimento” risulteranno allo studioso dalla lettura del già citato articolo 431. Stabilire se un dato atto deve essere inserito, o no, nel “fascicolo per il dibattimento” é cosa importante dato che il giudice del dibattimento, mentre può far dare lettura degli atti contenuti nel fascicolo del p.m. solo a richiesta di parte e in presenza di certi presupposti (vedi artt. 512, 512bis, 513), invece, per l'art. 511. co. 1., può “anche d'ufficio, disporre che sia data lettura, integrale o parziale degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento”. Per tale sua delicatezza la formazione del fascicolo di parte é rimessa al GIP (solo nel giudizio diretto é rimessa al p.m.).Come risulta dal già citato art. 431 nel fascicolo per il dibattimento c'é assai poco. E ciò non é senza ragione: volendo il legislatore impedire che la “decisione finale del giudice (possa formarsi) in un momento precedente al dibattimento” gli ha “inibita la preventiva conoscenza degli atti del procedimento già acquisiti nella fase delle indagini preliminari e contenuti nel fascicolo del pubblico ministero” (così, E. Turel – G. Buonocore, in Il nuovo rito penale, ed. Missio, 1989, p.408).9 Ma il fascicolo processuale. Oltre che dal difensore, deve essere letto anche dal “sostituto” che dovrà rappresentare il Procuratore della Repubblica in uidenza. Ora può capitare (anzi, capita spessissimo) che il difensore, recatosi nella segreteria della Procura, si senta dire (specie se per far ciò ha aspettato proprio la vigilia dell'udienza) che il fascicolo se l'é portato via il dottor tal dei tali (idest, il sostituto). Quid iuris? Noi crediamo che, tra i due contendenti, il sostituto-procuratore e il difensore, é il secondo che dovrebbe prevalere ed essere posto in grado di consultare il fascicolo: forse che il sostituto non può fare ciò anche fuori dell'orario di segreteria? In tal senso, sotto il vecchio codice, era la Corte di cassazione (Sez. III, 18 dicembre 1958, in Giust. Pen. 1959, II, col. 222). Inutile dire però che nella prassi é tutto il contrario che accade: il facsicolo se l'é preso il p.m.?

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avvocato Cicero (bravo, perché non tutti i difensori, ahimé! si leggono gli atti prima dell'udienza) cerca di trovare un angolo silenzioso della segreteria in cui sgranocchiarselo (ma tale angolo silenzioso raramente lo trova: ecco perché i penalisti quando possono si fanno copie almeno degli atti più importanti, nel fascicolo, contenuti)10.Dunque l'avvocato Cicero, solerte e diligente difensore, si é letto il fascicolo processuale, ha parlato col cliente, ha meditato bene sopra quel che ha letto nel fascicolo e ha saputo dal cliente e...ha elaborato il teorema difensivo. A questo punto può permettersi il lusso di disinteressarsi della causa fino al giorno dell'udienza (in cui comparirà davanti al giudice per sostenere le sue tesi più o meno brillanti)? Sì, se non intende produrre nessuna prova o solo prove documentali; no, invece, se intende introdurre prove “personali” (cioé prove date dalle dichiarazioni di testi, di “imputati in procedimenti connessi”, di consulenti,....). In questa seconda ipotesi il codice gli impone (art. 468) l'onere di dichiarare, un certo numero di giorni prima dell'udienza, le circostanze su cui, tali prove, verteranno.Si tratta dell'istituto della discovery. Perché il legislatore impone questa dscovery delle prove? Perché ogni parte in causa ha diritto di contraddire le tesi avversarie, e naturalmente, di contraddirle, non solo con argomentazioni, ma con delle prove. Ora per fare questo le occorre del tempo: se il p.m. sostiene che l'imputato il 3 gennaio era a Genova (intento a versare della stricnina nel café della moglie) e io, difensore, voglio provare che invece era ad Acapulco (a fare i bagni di mare), dovrò, prima di tutto, guardarmi attorno per vedere se ci sono, di ciò, delle prove (“Ma chi potrebbe testimoniare che l'imputato era ad Acapulco? quel Rossi con cui egli ebbe a cenare?...”) e, in secondo luogo, trovatele, dovrò portarle nel processo (contattare il teste Rossi avvisandolo che deve comparire all'udienza tal dei tali, ecc.ecc.): per tutto questo, ben s'intende, mi occorre del tempo. Tempo che, se un legislatore vuole essere rispettoso del principio del contraddittorio, non può negare; ma che non può neanche concedere nel corso dell'istruttoria dibattimentale, se

Pazienza....si tornerà a leggerlo un'altra volta. 10 E infatti il difensore ha diritto a ottenere copia sia degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento sia di quelli contenuti nel fascicolo del p.m. (fatta eccezione per i documenti oggetto di sequestro – su questo punto vedi l'insegnamento, dato da G. Sabatini, in Il codice di procedura penale illustrato art. per art. sotto la guida di U. Conti, Milano 1937, p.41, sotto il vecchio codice, ma da ritenersi valido anche per il nuovo).Lo studioso deve però sapere che richiedere copia di un atto ha un costo (che va pagato con marche giudiziarie da comprarsi da una rivendita di valori bollati). Costo diverso, a seconda che le copie si richiedano con “la urgenza” (cioé si richieda che la copia sia subito rilasciata) o “senza urgenza” (cioé accettando che la copia venga rilasciata tre o più giorni dopo la richiesta). Diverso é ancora il costo, a seconda che la copia la si voglia con la dichiarazione di conformità all'originale oppure “ad uso studio”.

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vuole perseguire lo scopo (ambizioso) di concentrarla in un'unica udienza (evitando i nefasti rinvii delle cause) o almeno ottenere che tutti le prove “personali” ex hinc et inde dedotte su una questione di fatto, tutte insieme siano escusse. Come risolvere il dilemma? Con l'imposizione della discovery delle prove e particolarmente del thema probandum11 prima ancora che il “dibattimento” abbia inizio. Ecco perché il nostro avvocato Cicero, se vuole dedurre delle prove “personali”12, dovrà presentare la “lista” di cui all'art. 468” e dovrà presentarla almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento13. Ma tanto gli basterà? Sì, se é sicuro che le

11 Ciò che avviene con il deposito della “lista” previsto dall'art. 468.Naturalmente perché il deposito della lista consenta effettivamente la contro-prova, occorre che il thema probandum non sia indicato in maniera generica. Sul livello di specificità che deve pretendersi, v. Riviello (in Liste testimoniali ed indicazione di circostanze per l'esame, in Giust. Pen. 1993, III.c. 178 ss).Vero é anche, però, che un eccesso di specificità del thema probandum contrasta con le esigenze della cross-examination, che deve, per la sua efficacia, puntare sull'elemento sorpresa.Il primo comma dell'art. 468 impone espressamente solo di indicare nella “lista” le circostanze su cui i testi (i consulenti...) dovranno essere esaminati. In realtà l'indicazione dei testi (dei consulenti....) é indirettamente resa necessaria dal fatto che per il comma 3 solo “i testimoni e i consulenti tecnici indicati nella liste possono essere presentati direttamente al dibattimento” Cosa per cui, tu, avvocato, se non indichi nella lista quel dato teste, non potrai giovarti della sua testimonianza, in quanto non potrai portarlo direttamente al dibattimento e, ciò che é lapalissiano, non potrai essere autorizzato a citarlo per il dibattimento.12 Il legislatore non impone la indicazione, nella “lista”, delle prove documentali che la parte intende produrre; eppure anche sul thema probandum di un documento la controparte potrebbe avere delle prove da produrre e la cui produzione richiede del tempo. Per spiegarsi la cosa si può pensare che il legislatore, per escludere che i documenti debbano essere indicati nella lista, si sia basato, da una parte, sul fatto che la loro controprova di solito (ma non sempre!) é costituita da altri documenti e, dall'altra parte, sulla considerazione che di solito (ma non sempre!) tali altri documenti sono nella pronta disponibilità della contro-parte. E che l'idea del legislatore fosse di imporre la indicazione nella lista di tutte le prove la cui controprova si realizza con la deduzione di testi (più in generale, con la deduzione di prove consistenti nell'esame di persone) sembrerebbe confermato dal fatto che, alla regola che le prove documentali non vanno indicate nella lista, il legislatore fa eccezione (nel co. 4bis) per quelle prove documentali che sono costituite dai “verbali di prova di altro procedimento penale” (probabilmente partendo dal presupposto, a dir il vero erroneo, che tali “verbali di prova” raccolgano sempre prove testimoniali, quindi prove che vanno contrastate con la deduzione di altre prove personali).13 E se la parte non indica le sue prove nel termine imposto dall'articolo 468 (addirittura le indica solo al momento contemplato dall'articolo 493, non per la indicazione, ma per la richiesta di ammissione delle prove)? Niente paura, in tal caso il co.2 art. 493 ammette “l'acquisizione” di tali prove indicate tardivamente, basta che la parte dimostri (non di essere stata nell'impossibilità di indicarle nel termine di cui all'art.468, ma semplicemente)

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persone indicate nella lista (i testi, i consulenti, il perito...) compariranno davanti al giudice spontaneamente, ma, se di ciò ha qualche dubbio, gli converrà chiedere l'ausilio della forza dello Stato (per costringerle a comparire): chiedere, cioé, al presidente – preferibilmente nel contesto stesso della “lista” - l'autorizzazione a citarle (in nome dello Stato).Tutto bene, ma in pratica come deve fare l'avvocato per dare attuazione agli incombenti di cui lo grava l'articolo 468?Prima cosa, deve (naturalmente) redigere (su carta semplice) la lista (vedi

“di non averle potute indicare tempestivamente” (il che fa pensare che anche la semplice difficoltà a rispettare il termine di legge – dovuta ad esempio a un viaggio all'estero a cui il difensore sia stato costretto - basti a giustificare e a sanare il ritardo).Con tutto ciò l'ammissione della prova (tardiva) dipende pur sempre, se non dalla discrezionalità, da una valutazione inevitabilmente soggettiva del giudice, cosa per cui diventa lecita la domanda se sia giusto che anche su chi deduce una controprova penda la spada di Damocle di una valutazione negativa del giudice sulla difficoltà di dedurla, valutazione negativa che impedirebbe l'accettazione della prova (ancorché, risultasse la sua ammissibilità “a norma di quegli articoli 190 comma 1 e 190bis” a cui si riferisce il co. 1 art. 195). A tale domanda a noi pare che si debba dare risposta negativa: chi vuol dedurre una controprova, potrà farlo anche all'udienza dibattimentale e in quel momento che di per sé, dall'art.493, sarebbe riservato alla richiesta della prova - questo senza necessità di domandare di essere rimesso nei termini ai sensi del co.2 art. 493 (e nulla rilevando che la lista in cui era indicata la prova avversa fosse depositata sette o settanta giorni prima dell'udienza dibattimentale). Chiaro però, che inevitabilmente egli (idest, chi vuole dedurre la controprova) dovrà chiedere un termine (per la controdeduzione), nel caso la prova avversa, fosse dedotta solo all'udienza (come può ben accadere quando si tratti di prova documentale).Ma tale esenzione del termine di cui all'art 468 sussiste anche quando la controprova riguarda “circostanze non indicate nelle liste” (ad esempio il p.m. tende a provare che l'imputato il 15 febbraio in quel di Milano uccise Pinco Pallino e l'imputato vuole dedurre in controprova che l'imputato il 15 febbraio si trovava, non a Milano, ma a Buenos Aires)? Noi riteniamo che così sia giusto e logico, tuttavia porta a dubitare che il legislatore alla logica si sia conformato il co. 4 art. 468.La parte offesa é legittimata a depositare una “lista”? Sì, dato che l'art.90 la legittima a indicare elementi di prova. Però non é legittima alla richiesta di prove di cui all'art. 493. La parte civile che si costituisce dopo che é già scaduto il termine di cui all'art. 468 non può depositare la “lista”; però potrebbe chiedere l'ammissione delle prove indicate nella lista che lei avesse depositata nella sua qualità di parte offesa. Questo l'insegnamento della Corte di Cassazione. In base a tale insegnamento la parte offesa, che ha in programma di costituirsi parte civile solo all'udienza dibattimentale, dovrà avere l'avvertenza di depositare la lista in termini.Un'ultima notazione: quando una parte vuole escutere come teste la parte offesa deve indicare questa come teste nella lista. Non la esime da ciò, il fatto che la parte offesa sia contemplata nel decreto di citazione e che questo sia a lei notificato.Vedi anche quanto detto nelle successive note 27 e 41.

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“formulario”) Fatto questo deve recarsi nella cancelleria del giudice che procede (tribunale....) e lì depositare la lista (facendo bene attenzione che il cancelliere vi apponga il “depositato”, con relativa data). Lasciato passare il presumibile tempo occorrente al giudice per rilasciare la autorizzazione alla citazione (se, come di solito accade, l'autorizzazione, di cui al comma 2 art.468, ha chiesta), deve tornare in cancelleria per verificare il suo effettivo rilascio. Se la verifica ha esito positivo deve redigere l'atto di citazione del teste (del consulente....), farne copie e...decidere se effettuare la sua notifica ai sensi dell'articolo 152 o tramite ufficiale giudiziario.Fatto tutto questo, all'avvocato Cicero, non resta veramente altro che recarsi all'udienza (con la prova dell'avvenuta notifica dell'atto di citazione di cui ora si é detto e...il codice) per partecipare al dibattimento.

2. Premessa ai successivi paragrafi

Nei successivi paragrafi ci serviremo, con la speranza di rendere più efficace e comprensibile il nostro discorso, di sketches.A ciascuno di essi faremo seguire un breve commento – e lo studioso potrà trovare, leggendo i vari sketches – oltre ai numeri arabi, indicanti le note a pié di pagina – dei numeri romani, rinvianti appunto al commento.Lo studioso tenga anche presente che, pur di dargli una più viva immagine di come in realtà un processo si svolge nelle aule di giustizia, non abbiamo esitato a far assumere ai personaggi degli sketches anche dei comportamenti non ortodossi (in udienza non sono pochi i comportamenti “non ortodossi”, degli avvocati e anche dei giudici!); però, nel commento (o nelle note a piè di pagina, secondo i casi) abbiamo cercato anche di indicare quale avrebbe dovuto essere il comportamento “in regola” (col codice, anche se non sempre con l'efficacia della difesa!).

3. Controllo della regolare costituzione delle parti

Nell'aula di udienza (I), in cui hanno già preso posto il p.m., i difensori e l'ausiliare, entra il giudice (nel caso esso sia collegiale: entra prima il consigliere più giovane, poi, quello più anziano, infine, il presidente) (II).Si alzano il p.m., i difensori, l'ausiliario e tutto il pubblico.Il presidente (nel presente e nei seguenti sketches ci metteremo nel caso che il tribunale non sia monocratico ma collegiale), preso posto al centro della cattedra con ai lati i colleghi giudici e alla sua sinistra l'ausiliare: “Dichiaro aperta l'udienza14.

14 La dichiarazione di apertura dell'uidenza dà a questa un'opportuna solennità, ma non é

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Il pubblico ministero e i difensori hanno richieste di anticipazione, di postergazione nella chiamata della loro causa? C'é qualche causa “patteggiata”?In risposta all'invito, alcuni difensori si avvicinano alla cattedra (III) per prospettare loro particolari esigenze: chi chiede di tenere per ultima la sua causa perché ne deve fare prima un'altra in Corte di Appello, chi invece vorrebbe discutere subito la sua per poi correre in un altro tribunale dove altri giudici e un altro cliente lo attendono: la vita dell'avvocato é davvero stressante!Modificato l'ordine di trattazione dei processi15, il giudice ordina all'ufficiale giudiziario di chiamare la causa contro Rossi, Bianchi, Verdi e gli passa il decreto di citazione e le liste-testi.L'ufficiale giudiziario (ricavando i nomi dal decreto e dalle liste): “Rossi, Bianchi, Verdi, Dolores, Rosati”. Né Dolores, né Verdi, né Rosati rispondo alla chiamata16. Compaiono invece gli imputati Rossi e Bianchi.Il presidente, rivolto all'ausiliare, “Metta a verbale che sono comparsi gli imputati Rossi e Bianchi, mentre non é comparso l'imputato Verdi. Né la parte offesa né i

imposta da nessuna norma (e n realtà nella pratica quasi sempre viene omessa). Sul fatto che “l'udienza si apre senza formule particolari” con il semplice “ingresso del giudice nella sala”, v. Del Pozzo, Apertura del dibattimento – Diritto processuale penale, in Enc. Diritto, II, 587.Va tuttavia detto che, per l'art. 21 Reg. C.P.P., l'ufficiale giudiziario (o chi ne fa le veci, come spesso accade, dato che di solito l'ufficiale ha altro da fare che presenziare alle udienze penali e si fa sostituire) “quando il giudice entra nell'aula ne dà l'annuncio ad alta voce”.15 L'ordine in cui le cause saranno chiamate davanti al giudice risulta dal c.d. “ruolo”. Questo é un documento che indica le cause che saranno trattate all'udienza e, appunto, l'ordine in cui saranno chiamate. Nel ruolo, a tutela della privacy, non viene indicato il nome delle parti, ma solo quello dei difensori, oltre al numero di ruolo generale, e il reato addebitato. Per legge e precisamente per il comma 3 art. 20 Regolamento C.P.P., “il ruolo é affisso a cura della cancelleria all'ingresso dell'aula di udienza un giorno prima di quello dell'udienza”. In realtà molto spesso viene affisso nello stesso giorno dell'udienza (non raramente qualche minuto prima). 16 Che tutti i testi non si presentino nella prima udienza di compariizone é la regola: infatti tale comparizione sarebbe per loro una inutile perdita di tempo in quanto tale udienza é dedicata alla costituzione delle parti (in particolare, alla costituzione della parte civile), alla verifica della regolarità delle notifiche, ai patteggiamenti, cioé alla trattazione di questioni la cui soluzione potrebbe comportare un rinvio della causa (e rendere la comparizione dei testi appunto una inutile per loro perdita di tempo) Cioé nella prassi ci si comporta tacitamente come se il presidente avesse stabilito che i testi dovessero comparire solo alla seconda udienza (esercitando così il potere, contemplato dal secondo comma art. 468, di “stabilire che la citazione dei testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell'art. 210 sia effettuata per la data fissata per il dibattimento ovvero per altre successive udienze, nelle quali ne sia previsto l'esame”).

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testi sono comparsi”.Ancora il presidente: “Chi difende gli imputati?”.L'avvocato Cicero: “Io difendo l'imputato Bianchi”L'avvocato Tacito: “E io difendo l'imputato Rossi”Presidente: “Nessuno difende l'imputato Verdi? L'avvocato Placido, che mi risulta suo difensore di fiducia é presente?” Nessuno si fa avanti. Allora il presidente:” Ai sensi dell'art. 97 nomina sostituto dell'avvocato Placido, l'avvocato Ortensio”.Si fa avanti l'avvocato Plinio: “Presidente, la parte offesa, signora Dolores, si costituisce parte civile col mio ministero. Chiedo il permesso di produrre la relativa dichiarazione”Presidente: “Dia al cancelliere”L'avvocato Plinio consegna al cancelliere, l'atto di costituzione, su cui già ha affissa la marca dovuta al fisco17.17 A proposito di “parte civile” bisogna distinguere tra “legittimazione a costituirsi in giudizio” e “legittimazione a difendere in giudizio”.E infatti la costituzione e la difesa in giudizio sono due attività diverse (a cui in teoria potrebbero essere legittimate persone diverse). Addirittura, sempre in teoria, Pinco Pallino, la parte che pretende di essere stata danneggiata dal reato, potrebbe proporre l'azione di risarcimento nel processo penale, cioé in questo “costituirsi (di persona o per delega data al ragionier Parodi), e...lì fermarsi, senza preoccuparsi (al momento) di difendere il suo diritto (e quindi di nominare a tal fine un avvocato). In tal caso potrebbe dirsi costituita in giudizio, ma non potrebbe svolgere attività difensiva (chiedere l'ammissione di testi, discutere la causa ecc.). Ciò che non significa che la sua costituzione non avrebbe rilievo giuridico (ad esempio lo avrebbe ai sensi dell'articolo 75 co.3: se Pinco Pallino, dopo essersi costituito p.c., avesse chiesto il risarcimento davanti al giudice civile, questo dovrebbe sospendere il procedimento civile).Stando così le cose nulla in teoria vieterebbe che Pinco Pallino, parte danneggiata, desse procura (che dovrebbe essere speciale – vedi art.100 co.1) all'avvocato Plinio di far valere le sue ragioni davanti al giudice, ma desse procura (che dovrebbe essere sempre speciale – v. art. 122) al ragionier Parodi di costituirsi parte civile. Di conseguenza, lo diciamo qui ma, per l'importanza della cosa, torneremo a dirlo nel formulario, la parte offesa nella stesura dell'atto di costituzione deve stare bene attenta a chiarire a chi dà la procura a costituirsi e a chi dà la procura a difendere; e se, com'é naturale che sia, all'avv. Cicero dà sia la procura a difendere sia quella a costituirsi é bene che lo dica claris verbis. Per il resto, com'é logico, la sottoscrizione sia della procura a costituirsi che di quella a difendere possono essere autenticate dal difensore (vedi l'art. 100 e l'art. 122, tenendo presente che questo ha dei “distinguo” che meritano da essere rilevati con una attenta sua lettura): di più, entrambe le procure, così com'é ancora logico che sia, possono risultare da un unico documento. Per avere le idee più chiare, lo studioso vada al formulario e si legga un “atto di costituzione”.Veniamo al nostro sketch. L'avvocato Plinio, se avesse voluto essere un formalista (ma ha fatto bene a non esserlo) avrebbe dovuto dire “Mi costituisco e assumo la difesa della signora Dolores con l'atto che ora deposito”. Deposito in mani di chi? del cancelliere o del presidente? Io direi del cancelliere, che deve controllare la regolarità fiscale dell'atto (e

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Gli avvocati Cicero, Tacito, Ortensio, Plinio, indossata la toga18, prendono posto nello scranno loro riservato. L'avvocato Cicero fa cenno al suo assistito Bianchi di sedersi accanto a lui.Il presidente controlla se i decreti di citazione sono stati regolarmente notificati ai due imputati non comparsi19. A conclusione di tale controllo: “Il decreto di rinvio a giuidzio del GIP risulta regolarmente notificato al Rossi. Manca invece la notifica del decreto al Verdi. Il pubblico ministero può depositare il verbale dell'udienza preliminare?”Il pubblico ministero prende dal suo fascicolo il verbale richiestogli e lo dà al presidente.Presidente. “Ecco perché non é stato notificato il decreto al Verdi: egli dal verbale risulta comparso all'udienza preliminare20. Tutto a posto quindi per quel che riguarda il Verdi. Vedo invece che il Rossi é detenuto nella casa circondariale di Marassi e non é stato emesso l'ordine di traduzione: quindi vi é un impedimento, chiaramente legittimo, per l'imputato a presenziare e, ai sensi del combinato disposto dell'art.484 co.2bis e del art.420ter si deve rinviare l'udienza, rinnovare la notifica20 Bis20 Bis e provvedere all'ordine di traduzione per l'udienza di rinvio.

infatti chi si costituisce, così come risulta dallo sketch, non deve dimenticare di apporre sull'atto una marca dovuta al fisco). (???????)Nello sketch, la persona danneggiata, la signora Dolores, risulta presente. Ma é bene chiarire che la presenza della parte danneggiata non é necessaria né al momento della costituzione né in seguito. Anche se tale presenza di solito non mancherà dato che di solito la parte danneggiata viene indicata in una “lista” come teste.18 La c.d. toga é la “divisa” dei difensori. Il Manzini (nel suo Trattato di diritto p.p., vol.II, paragrafo 268) da una descrizione accurata della toga - o meglio delle toghe, dato che il tipo di toga che l'avvocato deve indossare é diverso a seconda che egli sia iscritto all'albo speciale (per le giurisdizioni superiori, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato...) oppure no. Il presidente può impedire a un difensore di esercitare il suo ministero solo perché, chiamata la sua causa, compare sprovvisto di toga? Lo escluderei (a meno che il comportamento complessivo del difensore non porti turbamento all'udienza, nel qual caso dovrebbe applicarsi l'ultima parte del co. 4 art. 471). Il presidente però potrà e dovrà fare rapporto al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati che potrà adottare sanzioni disciplinari (questa mi sembra anche l'opinione del Manzini, vedi Op. loc. cit.).Sono rari gli avvocati penalisti che si recano all'udienza portandosi dietro una toga personale. Di solito l'avvocato si provvede di toga nello stesso Palazzo di Giustizia andando, prima di entrare nell'aula di udienza, nei locali in cui le toghe sono messe a disposizione (certe volte a pagamento, certe volte gratuitamente, certe volte dal Consiglio dell'Ordine degli avvocati, certe volte, se non erriamo, dagli ufficiali giudiziari).19 Vedi art. 484.20 Vedi co.4 art.429.20 Bis20 Bis Notifica di che? Ovviamente del decreto che dispone il giudizio. Ma chi dovrà provvedere alla notifica, il tribunale o il GIP? Io direi il tribunale. E nel caso il processo

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Avvocato Tacito: “Ma, presidente, debbo fare presente che il Rossi mi ha dato mandato per richiedere la “applicazione di pena” di cui all'art.444: la concessione di tale mandato mi pare che implichi una rinuncia ad assistere al dibattimento e quindi ai sensi dell'art.484 e dell'art. 420bis renda possibile procedere in sua assenza. Presidente: “Sì, questo mi pare vero e, dopo essersi consultato parlottando prima col giudice alla sua destra e poi con quello alla sua sinistra: “Il tribunale dichiara di procedere oltre in assenza dell'imputato Rossi0. A questo punto potremmo anche aprire il dibattimento, se le parti non hanno questioni preliminari da porre”Avv. Tacito: “Io intendo fare la preannunciata richiesta di applicazione pena”0

Avv. Cicero:” Ho da fare richieste circa la formazione del fascicolo”Presidente: “In tal caso procrastiniamo l'apertura del dibattimento e diamo la parola per primo all'avv. Tacito:Avv. Tacito: “A ciò legittimato dà mandato che produco, chiedo l'applicazione, per i reati di cui al capo A e al capo B del decreto di rinvio a giudizio, di un anno e nove mesi di reclusione. In base al seguente calcolo: Pena base per il più grave reato di cui al capo B: tre anni; diminuita per la concessione delle attenuanti generiche a due anni; aumentata, per la continuazione a due anni e due mesi; diminuita per il rito a un anno e nove mesi. Sospensione condizionale della pena”.Presidente: “Consente il p.m.?”Pubblico ministero: “Consentirei se la richiesta non fosse tardiva. Invece lo é, in quanto ai sensi dell'art. 446 co 1. avrebbe dovuto essere proposta prima che fossero prese le conclusioni nell'udienza preliminare.Presidente: “Sulla questione il tribunale si riserva di decidere in camera di consiglio. Dica ora il difensore dell'imputato Bianchi” Avv. Cicero: “La difesa del Bianchi ha due richieste da fare”.Prima richiesta: sia espulso dal fascicolo per il dibattimento il verbale dell'udienza davanti al giudice civile: il suo giusto inserimento é nel fascicolo del p.m.Seconda richiesta, se le altre parti vi consentono, sia inserito nel fascicolo per il dibattimento il verbale di interrogatorio di Teresa Leoncavalli attualmente nel fascicolo del p.m. La Leoncavalli é una professionista affermata, che verrebbe gravemente danneggiata da un'assenza dal suo studio. Questo mentre la sincerità e la verità delle risposte da lei già date alla Polizia e risultanti dal relativo verbale

avvenisse per “citazione diretta del p.m., alla notifica del decreto di citazione (non più, decreto che dispone il giudizio) dovrà provvedere questi o il tribunale? Io direi ancora che dovrebbe provvedere il tribunale.0 Ma fa una buona applicazione del diritto il tribunale? C'é da dubitarne: infatti perché il giudice “possa procedere in assenza” dell'imputato occorre una rinuncia “espressa” di questo ad assistere al giudizio.0 E fa bene l'avvocato Tacito a farne ora la richiesta, infatti per l'art. 446 co.1 la “richiesta di applicazione pena” può essere fatta solo fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.

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non possono lasciar dubbi”0.Presidente: “Le altre parti consentono all'inserimento nel fascicolo del verbale delle dichiarazioni rilasciate dalla Leoncavallo?”Tutte le altre parti consentono.Presidente: “A questo punto invito le parti alla discussione sulle richieste fatte dai difensori del Bianchi e del Rossi”.Esaurita la discussione, il Collegio si ritira in camera di consiglio, quando ne esce, il presidente legge, da seduto0, un ordinanza collegiale, che rigetta la richiesta di applicazione pena e ammette le richieste che riguardano la formazione dei fascicoli processuali0.Presidente: “Dichiaro aperto il dibattimento”.

0 Giusta senz'altro la prima richiesta, é discutibile invece, se le parti debbano dichiarare la loro concorde volontà di inserire un atto nel fascicolo per il dibattimento al momento dedicato alla richiesta delle prove (art. 493) o al momento dedicato alla discussione delle “questioni preliminari “(per questa seconda alternativa farebbe propendere il n.4 art 491).0 Da seduto, perché le ordinanze non sono pronunciate “in nome del popolo italiano” - arg.a ocntrario ex n.2 art.125.0 Ma al giudice ciò non impedirà (v. co. 1bis art.507) “l'assunzione di mezzi di prova relativi agli atti” così acquisiti al fascicolo. E giustamente: in un processo, in cui domina l'interesse dello Stato all'accertamento della verità, le prove non possono essere lasciate totalmente nella disponibilità delle volontà, ancorché, concorde delle parti.Il comma 1bis é in perfetta armonia con quello che lo precede che dà la possibilità al giudice di “disporre anche d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova”.La Corte Costituzionale, con sent. 26 marzo 1993, n.111, Azzani – disattendendo l'interpretazione dell'art. 507 “secondo la quale il potere del giudice di assumere d'ufficio mezzi di prova sarebbe precluso dalla carenza di attività probatoria delle parti e dalle decadenze in cui queste siano incorse” - rileva come tale (inamissibile) interpretazione “muova da una concezione alla stregua della quale il nuovo codice processuale, non tenderebbe alla ricerca della verità ma solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatoiro nel quale un esito vale l'altro, purché correttamente ottenuto”. Mentre é invece vero per la Corte che “fine primario e ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità e che ad un ordinamento improntato al principio di legalità, nonché al connesso principio di obbligazione dell'azione penale, non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione”.E in realtà – secondo la Corte – il nuovo Codice, nonostante l'accolto principio accusatorio “ha esattamente considerato – in armonia con l'obiettivo di eliminazione delle diseguaglianze di fatto proposto dall'art. 3,comma 2, della Costituzione – che la parità delle armi delle parti normativamente enunciata può talvolta non trovare concreta verifica nella realtà effettuale, così che il fine della giustizia della decisione può richiedere un intervento riequilibrante del giudice atto a supplire alle carenze di talune di esse; così evitando assoluzioni o condanne immeritate”.

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Commento allo sketch

I- La sala d'udienza tipica si presenta divisa in due parti: l'una, riservata al pubblico (generico), l'altra riservata, prima di tutto, a quelli che dovranno essere i “protagonisti” del processo (giudici, ausiliari, p.m., difensori, imputato e altre parti private) e, poi, a quelli che possiamo definire il “pubblico qualificato” (avvocati interessati alla causa ma non parti in causa, giornalisti....).Ogni “protagonista” ha per legge o per tradizione la sua precisa collocazione: la cattedra dei giudici é posta in fondo alla sala e in modo da dominarla, il seggio dell'ausiliare é posto vicino e alla sinistra della cattedra, i banchi del p.m. e della difesa “sono posti allo stesso livello di fronte all'organo giudicante”0.Nella distribuzione dei posti vigente precedentemente (sotto l'impero del codice Rocco) l'art. 146 delle norme di attuazione (del vigente codice) ha portata una rivoluzione, che investe un profondo significato simbolico; come risulta dalle seguenti parole del G.P. Voena (voce Udienza penale, in Enc. Dir., vol, XIV, Milano, 1992, p.506): “Per effetto dell'art. 146 disp. att. l'impianto scenografico delle udienze dibattimentali é stato sovvertito. La postura dei banchi riesrvati al pubblico ministero ed ai difensori delle parti allo stesso livello di fronte all'organo giudicante simbolizza il conseguito paritario status processuale. E il fatto che le parti siedano a fianco dei propri difensori, “salvo che esistano ragioni di cautela”, propizia la continuità delle reciproche consultazioni, resa tanto più necessaria dall'adozione della tecnica dell'esame incrociato. La collocazione del seggio delle persone da sottoporre ad esame in modo da consentire che le persone stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti esalta, infine, il ruolo protagonista delle parti nell'assunzione della prova”.

II – L'ingresso del p.m. nella sala d'udienza prima di quello del giudice, non é dovuto solo a rispetto verso questo, ma serve anche a permettere al p.m. i necessari contatti con i difensori, al fine della felice conclusione di qualche “patteggiamento” (art. 444). Infatti, appena che il p.m. (portando con sé i fascicoli di tutte le cause che dovrà trattare all'udienza) ha preso posto nel suo banco, i difensori, che intendono giungere ad un accordo con lui sulla pena (art. 444), gli si avvicinano e gli fanno le proposte del caso (“Giudice sarebbe disposto a patteggiare la causa contro Rossi? quale pena le sembra giusta, tenuto conto” ecc.ecc.ecc.).0 L'art. 146 del D. lg. 28 luglio 1989 (contenente le norme di attuazione del C.P.P.) recita: (Nelle aule di udienza per il dibattimento, i banchi riservati al pubblico ministero e ai difensori sono posti allo stesso livello di fronte all'organo giudicante. Le parti private siedono al fianco dei propri difensori, salvo che sussistano esigenze di cautela. Il seggio delle persone da sottoporre ad esame é collocato in modo da consentire che le persone stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti”.

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III- “L'udienza é pubblica a pena di nullità” - dichiara il comma 1 dell'art. 471, e la Corte Costituzionale dà rilevanza costituzionale a tale norma ricollegandola indirettamente all'art. 101 comma 1 della Costituzione, che vuole “La giustizia amministrata in nome del popolo”: l'udienza é pubblica per permettere al popolo di controllare come viene in suo nome amministrata la giustizia.Non si può dire, però, che il codice di rito si preoccupi di porre in grado quivis de populo, il qualsiasi cittadino che assiste all'udienza da dietro le transenne, di controllare la giustezza delle decisioni del giudice, se non altro perché gli tiene celati molti elementi (relazioni peritali, mote prove documentali dalle parti prodotte.....) su cui tali decisioni vengono a basarsi.Per cui é da ritenere che il controllo che si vuole permettere al pubblico verta, non tanto sulla giustezza delle decisioni, quanto sulla lealtà e la correttezza del dibattimento.Però vi é un modo molto semplice per gli avvocati e i giudici di sfuggire a tale controllo: mettersi a parlare a distanza talmente ravvicinata tra di loro, che il pubblico nulla possa udire e capire. Il giudice vuol far sapere all'avvocato che non ha potuto studiare il fascicolo e che quindi dovrà rinviare la causa? Gli fa cenno di avvicinarsi alla cattedra e gli confessa il suo “peccato”, a bassa voce, come in confessionale. E lo stesso é per gli avvocati: il cliente é un pazzo, che però non vuol sentirsi dare del pazzo e comunque non vuole esporsi ai rigori di una misura di sicurezza? L'avvocato si avvicina alla cattedra e a bassa voce dice “Giudice non si potrebbe, invece di dichiararlo non imputabile per infermità di mente, condannarlo al minimo della pena, con le attenuanti e col beneficio ecc.ecc.?” Certo che si può; ma non sono certamente questi, ragionamenti da far coram populo: a bassa voce, come in confessionale, bisogna parlarne.

IV- Nel verbale si prende nota: dei provvedimenti orali del giudice, delle richieste e delle conclusioni del p.m. e dei difensori, delle dichiarazioni spontanee dell'imputato e, inoltre, di tutti gli altri fatti e circostanze processualmente rilevanti (costituzione di una parte, persone intervenute o no, luogo dell'udienza – vedi meglio l'art. 136).I provvedimenti del giudice vanno riportati integralmente (data l'importanza che gioca in essi ogni parola usata), mentre le richieste e le dichiarazioni delle parti vanno sintetizzate.Naturalmente si verbalizza anche l'assunzione delle prove. Cosa significa ciò? significa che si prende nota di ogni parola detta da un testimone o da una parte? No, di certo: ciò sarebbe possibile solo se chi provvede alla verbalizzazione fosse padrone delle difficili tecniche della stenotipia, il che quasi mai accade. Di conseguenza si redige il verbale in forma riassuntiva, limitandosi cioé a riprodurre il contenuto delle principali dichiarazioni fatte davanti al giudice. Però, per il caso che

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sorgano contestazioni sull'esatto tenore di una di tali dichiarazioni, si procede anche alla loro registrazione fonografica e alla traduzione del contenuto di tale registrazione fonografica in cartaceo. Questo, però, solo nei processi di particolare importanza (quelli davanti al tribunale e alle Corti, dato che la registrazione fonografica e, poi, la sua traduzione su carta, costa allo Stato!): nei processi davanti al Giudice di Pace ci si accontenta solo della verbalizzazione riassuntiva. Proprio come avviene nello sketch, il giudice spesso viene in soccorso all'ausiliario con la dettatura di alcune parole, mentre, a rigore, dovrebbe semplicemente limitarsi a vigilare che sia riprodotta “nell'originaria genuina espressione la parte essenziale delle dichiarazioni” (fatte davanti a lui) “con la descrizione delle circostanze nelle quali sono rese se queste possono servire a valutarne la credibilità”.

V- Per ammettere l'avvocato a svolgere la sua difesa all'udienza di solito ci si accontenta della sua semplice dichiarazione di essere difensore della parte tal dei tali: non si pretende cioé, una espressa indicazione del suo cliente, che egli é il suo difensore (così come vorrebbe l'articolo 96). Ciò é ovvio quando il cliente é presente alla dichiarazione del difensore: chi tace acconsente. Meno ovvio, quando la dichiarazione del difensore é fatta nell'assenza del cliente. E tuttavia anche in tal caso ci si fida e nulla si oppone a che l'avvocato eserciti la sua attività di difensore (almeno, di solito, é così, ma sono ben possibili eccezioni, quindi cautela vuole che, se l'avvocato sa che il cliente non comparirà all'udienza, si porti dietro una nomina a difensore in piena regola). Vero é che, a garanzia che un avvocato non assuma arbitrariamente la qualità di difensore, sta la minaccia, nel caso lo facesse, di sanzioni disciplinari e soprattutto delle sanzioni di cui all'art. 495 C.P.Così come all'udienza nessuno si preoccupa di controllare che l'avvocato Cicero che si presenta come difensore dell'imputato, come tale sia stato veramente nominato, così nessuno si preoccupa di verificare se chi si presenta come avvocato Cicero, sia veramente..... l'avvocato Cicero. Ci si fida: non é bello questo?Sull'applicabilità dell'art. 495 al (falso) difensore, vedi Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol V, 3° edizione, p. 838.

V- Com'é noto nel nostro Ordinamento non é ammesso che un imputato si difenda da solo: quindi o provvede lui a nominarsi un difensore o glielo nomina l'Autorità giudiziaria, l'Ufficio.Anche il “difensore d'ufficio” ha diritto alla retribuzione delle sue prestazioni professionali, da parte del suo assistito; a differenza, però, del difensore di fiducia che può rifiutarsi a una difesa gratuita, quello d'ufficio deve attivarsi per la difesa,

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pagato o no che sia.Quando un avvocato viene nominato “d'ufficio”, la prima cosa che fa é quella di mettersi in contatto (scrivendogli una lettera) con l'imputato: lo invita a passare nel suo studio (se non é sua intenzione nominare un difensore di fiducia) e, naturalmente, così molte difese di ufficio si trasformano in difese di fiducia o, almeno, in difese retribuite, Questo spiega perché la “nomina d'ufficio” sia da molti avvocati ambita. E questo anche spiega perché, per evitare abusi nella distribuzione delle nomine (per evitare cioé che quel certo giudice favorisca, dandogli delle nomine, quel certo avvocato, col risultato poi che questi si adatti a delle “difese compiacenti”) il Legislatore voglia che la “individuazione” del avvocato (che l'Ufficio deve nominare) avvenga nell'ambito di apposite “liste” di avvocati (che hanno in tali liste richiesta l'iscrizione) in base a criteri predeterminati, la cui applicazione avvenga automaticamente.E veniamo alla nomina a “difensore d'ufficio” dell'avvocato Ortensio, di cui si parla nello sketch. Questa non é propriamente una nomina a difensore, ma una nomina a “sostituto” del difensore (poco importa se di fiducia o d'ufficio) non comparso all'udienza – vedi l'art. 97 co.2. L'avvocato nominato d'ufficio come sostituto, acquisisce tutti i poteri e di doveri attribuiti a un “sostituto” dall'art. 102; poteri e doveri, che sono poi quelli stessi che competono al difensore, solo che sono limitati nel tempo: appena che il difensore non comparso si attiva nella difesa, tali poteri e doveri decadono Quindi, attenzione! tali poteri e doveri non vengono meno automaticamente con la fine dell'udienza; per cui, se il difensore non comparso non si attiva (in primo luogo, avvisando il “sostituto”, che penserà lui a compiere le ulteriori attività difensive) il sostituto mantiene tutti i poteri e doveri derivantigli dall'art. 102. In particolare quello di recarsi alla (eventuale) udienza di rinvio. E la prassi, nelle nostre aule di giustizia, é che, se dopo tre udienze il difensore sostituito non si é attivato (come appare dimostrato dalla sua mancata comparizione alla terza udienza di rinvio) il giudice nomina, come difensore, quell'avvocato, che prima era stato nominato solo come sostituto-difensore.

4. Richiesta prove – Istruttoria dibattimentale

IL presidente, dopo aver aperto il dibattimento: “Passiamo ora alla richiesta di prove”0.0 Se una parte vuole che sia assunta una data prova, non basta che depositi tempestivamente la “lista” di cui all'art. 468, occorre anche che di tale prova chieda, al giudice del dibattimento, l'ammissione (v. art. 493).Ma si dirà: l'ammissibilità di una prova non é già stata passata al vaglio del presidente, ai sensi del co. 2 art. 468? No, perché - a prescindere che tale vaglio del presidente, non riguarda tutte le prove, ma solo quelle testimoniali e se negativo comporta solo il rifiuto

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Pubblico ministero: “Esame dei testi di cui alla lista presentata dal mio Ufficio. Controesame dei testi di cui alle liste delle parti private. Esame dell'imputato”.Avvocato Plinio (per la parte civile) “Controesame dei testi e degli imputati”Avvocato del Verdi: “Controesame”Avvocato del Bianchi: “Esame dei testi di cui alla lista. Controesame degli imputati e dei testi di cui alle altre liste.Avvocato Tacito: “Controesame dei testi e degli imputati. Produco lettera del coimputato Bianchi da cui risulta che la sua convivente Dolores é stata risarcita dei danni”.Detto ciò, l'avvocato Tacito dà fotocopia della lettera al p.m e agli altri difensori0 e consegna l'originale al presidente, che lo inserisce nel “fascicolo per il dibattimento”.Il presidente: “Nessuna obiezione?”Nessuna parte fa obiezioni. Il Presidente rivolto al p.m.0 “In che ordine vuol sentire i suoi testi?”.Il p.m. “Per primo la P.A. intende esaminare il teste Bianchi”.L'avvocato Cicero, difensore del Bianchi: “Ma, presidente, il Bianchi non é un teste, può essere sentito, sì, ma solo come “imputato di reato connesso”.Il p.m. “Ma la pubblica accusa non intende porre al Bianchi nessuna domanda sul reato di favoreggiamento: le domande verteranno solo sul reato di rapina”.Avvocato Cicero: “Non importa: anche in tal caso il Bianchi non può assumere la

all'autorizzazione della citazione del teste - esso (idest, tale vaglio) viene effettuato con criteri diversi da quelli che il giudice del dibattimento deve adottare. Questi (idest, il giudice del dibattimento), per decidere se ammettere o no una prova deve far riferimento ai criteri dati dagli artt, 190 co.1 e 190bis, quello (idest il presidente del tribunale) deve far riferimento ai criteri dati dall'art. 468.Ma il giudice del dibattimento può (in applicazione dei criteri di cui al co.1 art 190 e 190bis) ammettere un teste, di cui il presidente ha negato l'autorizzazione alla citazione? Certamente sì: il giudice del dibattimento, così come può “ammettere prove già (da lui) escluse” (vedi co. 4 art. 495), così può ammettere prove escluse dal presidente (e a maggior, in quanto, mentre il presidente prende la sua decisione senza sentire le parti, lui queste, prima di prendere la sua decisione, é tenuto a sentirle - vedi l' incipit del co. 1 sempre dell'art. 495).0 Questo é un modo sbrigativo, ma usuale, di dare alle altre parti quella possibilità, voluta dal co. 3 art. 495 “di esaminare i documenti di cui é chiesta la ammissione”0 Come si vede, il tribunale non pronuncia (come invece vorrebbe il primo comma dell'art. 494) ordinanza per ammettere le prove. Dal momento che vi era l'accordo di tutte le parti per la loro ammissione, ciò é un errore veniale e tollerabile.Il presidente si rivolge per primo al p.m., dato che, per il combinato disposto del co. 1 art 496 e del co. 1 dell'art 493 (comma uno e non due come per errore evidente risulta invece scritto nell'art. 496) “l'istruzione dibattimentale inizia con l'assunzione delle prove richieste dal pubblico ministero”.

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veste e gli obblighi del teste: non gli può essere deferita la impegnativa e non può essere obbligato a rispondere contro la sua volontà”.(A questo punto, per permettere a chi legge di comprendere chi dei due....litiganti ha ragione, occorre dire qualche cosa sui fatti di causa, che sono questi0: un certo giorno e in una certa strada una certa Dolores accetta di prostituirsi con l'imputato Rossi: sale in auto con lui e questi, alla fine del rapporto, le sottrae una catenina d'oro. La malcapitata Dolores, una volta recuperato il marciapiede, chiama in aiuto il Bianchi, il suo convivente, che, vedi caso, si trovava sul posto. Questi interviene, recupera la catenina dal Rossi e si busca.... un'accusa per favoreggiamento della prostituzione. A questo punto proseguiamo nell'esposizione della vicenda processuale, in cui, con tutta evidenza, é in gioco l'interpretazione dell'art. 210).Il presidente (consultatosi con i giudici a latere) ritiene fondate le obiezioni0. Il Bianchi rifiuta l'esame e il pm, continua con l'esame di altri testi, fino a che si mette a interrogare il teste Filomena B.P.M.: “Lei é proprietaria dell'appartamento in cui vivono il Bianchi e la Dolores?”.Teste Filomena: “Sì, però non so nulla....”.P.M.: “Risponda solo alle mie domande e guardi verso di me0. Dunque lei ha dato in

0 Anche un giudice, che all'inizio del processo fosse assolutamente all'oscuro dei fatti di causa, non potrebbe rettamente giudicare sull'ammissibilità delle prove richieste dalle parti né adeguatamente dirigere il dibattimento.Proprio per questo nella sua prima redazione il codice aveva dato al p.m. e alle parti il potere di dare al giudice, nel contesto della richiesta delle prove, un'idea sia pure sintetica delle tesi in fatto che intendevano dimostrare. Dopo che tale potere da una successiva “novella” é stato tolto, il giudice cerca di farsi un'idea dei fatti di causa in base al decreto di rinvio a giudizio (o di citazione....) e agli atti che si trova inseriti nel fascicolo per il dibattimento (in particolare, la querela, gli “atti irripetibili”....).0 Giusto? sbagliato? Noi riterremmo, sbagliato. E non perché l'articolo 210 non sia applicabile a due coimputati chiamati a rispondere dei loro reati nello stesso processo (e non in processi separati): se il reato di rapina potesse effettivamente considerarsi come reato “connesso” (evidentemente ai sensi della lett.c art. 12) giustamente le garanzie previste dall'art. 210 co. 3 si applicherebbero al coimputato Bianchi. Solo ci sembra discutibile considerare la rapina un reato connesso con quello di favoreggiamento: a nostro modesto parere il Bianchi avrebbe potuto essere escusso come teste (se come teste fosse stato indicato nella “lista”).0 Chi risponde a una domanda, di solito, parla per farsi comprendere da chi lo ha interrogato: é logico, quindi, che si rivolga a lui (cioé faccia fronte a lui, permettendogli di percepire la mimica del volto e i movimenti delle labbra, che sono preziosi coadiuvatori del suono delle parole per renderle intelligibili). Ma ciò non vale nelle aule di udienza: qui chi é interrogato deve farsi comprendere soprattutto da chi deciderà la causa: giusto, quindi, ch'egli si rivolga, nel dare le sue risposte, al giudice.La diffida, fatta nello sketch dal p.m., a guardare nel rispondere verso di lui, errata giuridicamente, é però valida psicologicamente: é un mezzo per affermare la sua autorità sull'interrogato. E in effetti chi lo interroga ha su di lui l'esercizio di una vera e propria

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locazione il suo appartamento a Bianchi e a Dolores: chi pagava il canone?”Teste Filomena: “Il Bianchi”.P.M.: “Ma come, tutti i testi finora sentiti hanno detto che tutte le spese erano sostenute dalla Dolores e lei ora ci viene a dire che il fitto era pagato dal Bianchi?!”.Teste: “E' la verità”.P.M.: “A questo punto chiedo al presidente di contestare alla teste il contrasto tra quanto da lei ora detto e quanto detto dai precedenti testi”0.Difensore del Bianchi: “Non direi che esiste il contrasto che pretende il p.m.: il teste Carli infatti...”P.M. “Quel che disse il teste Carli risulta a verbale. Chiedo al presidente di farne dare lettura”.Il presidente dà ordine all'ausiliario di leggere il verbale.Dopo tale lettura, il presidente: “Teste Filomena sono costretto a rinnovarvi l'ammonimento a dire la verità e a ricordarvi le sanzioni previste dalla legge penale per i testi falsi o reticenti. Il pubblico ministero giustamente fa rilevare la patente contraddizione tra la sua testimonianza e le precedenti: vuole persistere nelle sue precedenti dichiarazioni?”Teste. “Sì”.P.M.: “A questo punto chiedo che copia del verbale sia trasmessa alla procura della Repubblica ai fini di un eventuale procedimento per falso”Il presidente provvede (negativamente!)0 sull'istanza così proposta dal p.m., e il autorità: non solo nel senso (ovvio) che può porgli domande a cui questi é obbligato (salve eccezioni espressamente dalla legge contemplate) a dare una risposta, ma nel senso che può togliergli la parola (se ad esempio divaga o si attarda su un'espoiszione di circostanze, a suo parere, irrilevanti).0 La lettera dell'art. 207 riserva al presidente o al giudice” la contestazione al teste delle contraddizioni tra quanto da lui detto e quanto emerso dalle prove precedentemente escusse. Nel senso che la parte esaminatrice possa contestare alla persona esaminata solo le sue “precedenti dichiarazioni” (e non quelle di terzi e comunque quanto risultante da altre prove) é pure la lettera del comma 1 art. 500 e del comma 3 art. 503.Ma perchè mai la parte che, durante un interrogatorio rileva una contraddizione, tra la risposta avuta e quanto da altri elementi emerge, non potrebbe contestarlo direttamente (e non per tramite del giudice) all'interrogato? La mancanza di una valida ragione a ciò ci costringe ad interpretare estensivamente la legge. Contra, Illumunati, Libro VII, Giudizio, in AA.VV, Profili del nuovo codice di procedura penale, direzione di Conso-Grevi, Padova, 1990, p.360.0 Solo nel caso di teste renitente (di teste cioé che “rifiuta di deporre”) il presidente assume un provvedimento che fa ritenere una sua già raggiunta convinzione sulla responsabilità penale del teste (per l'art. 366 c.p.): cioé la “immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge” (v. seconda parte del comma 1 art. 207). Nel caso invece del teste che “rende dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite” (e nella fattispecie dello sketch si rientra con tutta evidenza in quest'ultima ipotesi), egli si limita a far rilevare, quel che gli sembra una reticenza o una

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processo prosegue. A un certo punto.Difensore del Rossi: “Presidente, l'imputato Rossi intenderebbe fare delle dichiarazioni”Presidente: “Non ora: prima finiamo l'escussione del teste”. (…..)Portato a termine l'esame del teste Filomena, il presidente assume le dichiarazioni dell'imputato Rossi.Viene poi chiamato a deporre il teste Rosati.Avvocato Plinio (difensore della parte civile): “Presidente, mi viene detto che il Rosati era in aula durante l'escussione della teste Filomena: non può essere sentito come teste”.Presidente: “E perché mai?! Forse che l'inosservanza dell'articolo 149 disposizioni di attuazione determina una nullità?!”0

Avvocato Plinio: “Chiedo almeno che venga dato atto a verbale che il teste era

contraddiizone, al teste e gli rinnova “se del caso, l'avvertimento previsto dall'art. 497 ocmma 2” (v. comma 1 art. 207): tutto qui: trasmettere gli atti al p.m. perché proceda (ovviamente per il reato di cui all'art. 372 cod. pen.) costituirebbe un pericoloso vulnus all'immagine della sua obiettività (farebbe insomma, il giudice, qualcosa che verrebbe percepito dalle parti e dal pubblico come una anticipaizone inammissibile della sua sentenza) e questo senza apprezzabili vantaggi: il teste falso sottoposto allo choc dell'arresto in aula (così come permetteva di fare il previgente codice Rocco) può anche decidersi ad una ritrattazione: la semplice trasmissione degli atti al p.m. é un provvedimento troppo “morbido” per condurre a tali ripensamenti.Se al momento di decidere la causa, sottoponendo ad esame e confronto tutto il materiale raccolto nell'istruttoria dibattimentale, le incompletezze e le contraddizioni del teste si confermeranno come frutto di una sua prava volontà di sviare la Giustizia od occultarle alcunchè, allora, sì, il giudice (vedi comma 2 del già citato articolo 207) trasmetterà gli atti al p.m.Chi invece farà bene a non “pensarci troppo su”, prima di ritrattare, sarà il teste falso: per il preciso disposto del comma 1 art. 376 cod. pen. un'eventuale ritrattazione – utile a salvarlo dalla pena, se fatta prima della “chiusura del dibattimento” (art. 524) - dopo tale momento non servirebbe ad escludere la sua punibilità.0 Noi riteniamo che il presidente abbia ragione e che sia ancora valido l'insegnamento (espresso dal Foschini, in Il dibattimento penale, p.81) secondo cui può “escutersi un teste che, per errore o altro motivo, sia stato presente allo svolgimento di parte o di tutto il dibattimento, salvo naturalmente l'influenza che ciò potrà esercitare sulla valutazione della testimonianza”.Giustamente ancora il Foschini rileva (Op. cit., p. 81) “come questo principio dell'isolamento sia frustrato nella prassi proprio con riferimento ai più gravi processi i quali durano parecchie udienze e sono oggetto di resoconti della stampa quotidiana. La conseguenza é che i testimoni che sono ancora da escutere possono dettagliatamente apprendere nei giornali il contenuto delle deposizioni già rese dagli altri e tutte le particolarità del dibattimento. Pertanto il loro isolamento in una stanzetta per la durata dell'uidenza si risolve in una misura ridicola”.

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presente in aula prima della sua escussione”.Presidente: “Ma chi lo dice questo?! Lo dice lei!”Avvocato Plinio: “E allora si metta a verbale che il difensore della parte civile dichiara che il teste era in aula”.Presidente: “Ma che valore ha tale dichiarazione?! Non l'ammetto!”.Avvocato Plinio: “E allora, presidente, ponga a verbale il suo rifiuto della verbalizzazione da me richiesta ai sensi dell'art. 482”.Presidente (non dandosela per inteso): “Ma per amor del Cielo, lasciamo perdere, avvocato....”0. Poi, rivolto al teste: “Consapevole della responsabilità morale e giuridica...legga questa formula....” (v. art.497).Il teste assume l'impegno e dà le sue generalità.Avvocato Cicero (difensore dell'imputato Bianchi): “Lei era presente in via Sestri il tre maggio del anno scorso?”Teste: “Sì, stavo aspettando l'autobus 33”.Avvocato Cicero: “Vide salire la Dolores in una auto?”Teste: “Sì”.Avvocato Cicero: “La borsetta che la Dolores portava a tracolla era aperta o chiusa?”Avvocato Plinio: “Mi oppongo: la domanda é suggestiva”.Presidente: “La domanda é ammessa: il teste risponda”.Teste: “La borsetta a me pare che fosse chiusa”.Giudice a latere: “La donna portava i pantaloni o la gonna?”Avvocato Cicero: “Chiedo al giudice di scusarmi: ma vorrei finire il mio interrogatorio”0.

0 Come dovrebbe comportarsi un avvocato che vedesse calpestati in modo così evidente e grossolano i diritti della difesa? Dovrebbe togliersi la toga e andarsene.Infatti già si insegnava sotto il vigore del Codice Rocco (G. Bellavista, Difesa, in Enc. Dir, XII, passim) che l'abbandono della difesa “presuppone comunque l'esistenza di una difesa, sia pure conculcata e violata in qualche specifica esplicazione, se invece trattasi di circostanze tali per cui la difesa nella sua totalità é compromessa al punto di essere solo una parvenza di difesa, ben può il difensore rifiutarsi di simboleggiare ciò che in effetti non é sussistente”.E tale insegnamento nell'attuale codice é recepito dal comma 3 art. 105 che esclude l'applicazione di ogni sanzione “nei casi di abbandono o di rifiuto motivati da violazione dei diritti della difesa, quando il consiglio dell'ordine li ritenga comunque giustificati” e questo “anche se la violazione dei diritti della difesa é esclusa dal giudice”.0 Il valente cross-examiner pone le sue domande, non a casaccio, ma seguendo un certo disegno strategico (prima la domanda A, poi la B, quindi la domanda C), in modo che le stesse risposte vengano a costituire una sorta di articolata dimostrazione del suo teorema (difensivo o accusatorio).Non a caso un illustre studioso della procedura, il Vassalli, ha potuto dire che nell'interrogatorio incrociato si “dimostra provando”.

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Presidente: “Va bene, continui”.Esaurite le domande delle parti, il presidente ripropone la domanda del giudice a latere. Dopo che il teste vi ha risposto.Presidente: “Altre domande?” - e, poi, rivolto al teste “Non essendoci altre domande, lei é licenziato”.Teste: “Posso tornare a casa?”Presidente: “Certo, può andare dove vuole”0.Avvocato Plinio: “Vi chiedo invece, presidente, di far ritirare il teste fuori dell'aula, ma a disposizione per ulteriori domande”.Presidente (rivolto all'ufficiale giudiziario): “Faccia accomodare il teste nella stanza accanto”.A questo punto viene chiamato l'imputato Bianchi.Avvocato Cicero (suo difensore): “Presidente, vorrei che fosse mostrata all'imputato la planimetria presente nel fascicolo del p.m., in quanto intendo proporre delle domande con riguardo ad essa”.Il p.m. dà all'avvocato Cicero la planimetria e questi la stende davanti al teste. P.M e gli altri difensori si avvicinano0.

Detto questo si comprende perché non si possa ammettere l'inserimento di domande di terzi (pure se questo “terzo” sia il giuidce) durante l'esame che conduce una parte: rischierebbero, tali domande, di strappare l'ordito che l'examiner con pazienza cerca di intessere.0 Ma qui il presidente sbaglia: esaurito l'interrogatorio il teste deve rimanere a disposizione della giustizia; a meno che il presidente, sentiti il p.m e le parti private, non lo licenzi.Ma sul punto é opportuno riferire l'opinione più autorevole (e ancora valida ancorché espressa sotto il vigore del Codice Rocco) del Gu. Sabatini (Op.cit., p. 250): “Prima di licenziare il soggetto di prova, il presidente (…..) deve sentire il pubblico ministero e le parti, affinché ogni persona interessata faccia noto se convenga o no trattenerlo ancora per eventuali ulteriori domande. Se chi dirige il dibattimento ritenga di licenziarlo e il pubblico ministero o una delle parti insistano perchè sia trattenuto, il presidente (deve pronunciare) ordinanza”.0 Foschini (in, Il dibattimento, cit., p.87): “(L'escussione dei documenti) avviene mediante la loro formale pubblicazione al dibattimento, cioé mediante la formale e pubblica constatazione della loro esistenza e del loro contenuto documentale. La legge parla di lettura perché normalmente si tratta di documenti grafici, ma – a parte che in questi casi gli uffici delle parti hanno diritto alla loro visione – i documenti possono essere anche figurativi (disegno, fotografia, schizzo), fonografici o cinematografici. In questi casi la lettura sarà sostituita dalla visione o audizione”. Nella pratica si ammette, accanto alla “produzione” di un documento (che implica perdita della disponibilità di questo per il “producente”, così come se – mutatis mutandis – fosse stato sequestrato), la sua “esibizione” (che si ha quando l'”esibente” sottopone all'osservazione dell'ufficio il documento, riservandosene però la disponibilità: si dà nelle mani del giudice il documento: questi lo esamina, ne fa constatare a verbale le parti essenziali e, poi, lo restituisce a chi glielo ha rimesso).

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Avvocato Cicero (rivolto all'imputato) “Guardando la planimetria, può dire dove si trovava la prostituta quando lei si fermò a parlarle?”Imputato: “Presso a poco qui” - e indica col dito un punto della planimetria.Avvocato Cicero: “Vorrei che si desse atto a verbale che l'imputato punta il dito proprio là dove é rappresentata la fermata dell'autobus”. Una volta che il difensore ha esaurito l'esame diretto, il P.M. inizia il controesame.P.M.: “La donna che lei ha fatta salire nella sua auto aveva una borsetta'”.Imputato: “Non saprei....”.P.M. “Debbo contestarle invece che lei, rispondendo al p.m. in sede di indagini preliminari, fu preciso e inequivocabile nel dire che la donna aveva una borsetta celeste. Lei intende insistere nel dire che non si ricorda?”.Avvocato Cicero: “Presidente, io ritengo che il p.m. dovrebbe leggere l'esatte parole dell'interrogato, così come verbalizzate”.Il P.M. legge il verbale, l'imputato insiste nel dire di non ricordare.P.M. Deposita il verbale letto e poi “Vorrei ancora contestare all'imputato che rispondendo alla polizia ebbe a dire.....”.Avvocato Cicero: “Un momento, non sono ammissibili le contestazioni sulla base degli interrogatori resi alla polizia a meno che questa non abbia operato su delega del p.m.....”P.M.: “Mi rincresce contraddire l'egregio difensore: anche i verbali degli interrogatori della polizia senza delega del p.m. sono utilizzabili per le contestazioni (il comma 3 dell'art. 503 parla chiaro!): unicamente essi non possono essere acquisiti al fascicolo, mentre invece lo possono i verbali degli interrogatori fatti dalla polizia su delega: tutto qui!”.Esaurito l'esame delle parti e dei testi, il presidente: “A questo punto ritengo chiusa l'istruttoria....”.Avvocato Plinio: “Presidente mi perdoni, la difesa della parte civile intende ancora chiedere la lettura del verbale del coimputato assente (art.513). Chiede anche che si esibisca in visione la foto numero tre. In questa foto sono chiaramente visibili i segni di percosse”.Presidente: “Ausiliario, dia lettura del verbale di interrogatorio dell'imputato Rossi”.Una volta data lettura dell'interrogatorio, ancora il presidente “Le parti che intendono visionare la foto si avvicinino”.Una volta che le parti hanno finito di esaminare la foto, il presidente dichiara chiusa l'istruttoria e invita le parti alla discussione. Parla prima il p.m., poi la parte civile, poi parlano i difensori degli imputati. Terminata la discussione il collegio si ritira in camere di consiglio. Quando ne esce il presidente in piedi legge il dispositivo.

Commento allo sketch

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I- La conseguenza più importante dell'inserimento di un documento nel fascicolo per il dibattimento é che di tale documento il giudice potrà dare lettura e con ciò stesso con esso potrà motivare la sua sentenza.Ciò ci dà il criterio adottato (dal legislatore) e adottabile (dall'interprete) per stabilire l'inseribilità o meno di un documento nel fascicolo per il dibattimento: sono inseribili quei documenti per cui non é ipotizzabile la possibilità di quella prova migliore (della veridicità del loro contenuto) data da un esame al dibattimento di chi li ha sottoscritti. Questa prognosi di impossibilità di una prova migliore é di tutta evidenza, addirittura si potrebbe dire lapalissiana, nel caso di documenti inseriti su concorde volontà delle parti: esse sanno che inserendo il documento con ciò stesso non potranno richiedere l'esame del dichiarante, quindi se concordemente chiedono la inserzione, é perché ritengono che tale esame non porti a una prova migliore: e se lo ritengono loro, i più interessati a raggiungere tale prova migliore0.Ma, non solo per i documenti inseriti su concorde richiesta delle parti tale prognosi é fattibile, lo é anche per i documenti a cui il legislatore si riferisce qualificandoli come irripetibili: si pensi a un verbale di arresto, a un verbale di sequestro, a un verbale di ispezione. Ma qui bisogna intenderci e non lasciarsi fuorviare dalla terminologia adottata dal legislatore: per tali atti la prognosi dell'impossibilità di una prova migliore non é fondata sulla loro irripetibiltà. D'accordo un sequestro, un arresto non é ripetibile: ma non sta in ciò la ragione dell'impossibilità di una prova migliore (di quella ch può dre la loro lettura). Anche un incidente automobilistico non é ripetibile, però ciò non esclude che si possa ottenere da chi, presente all'incidente, é stato già interrogato dalla polizia, delle dichiarazioni migliori, più chiare, più attendibili di quelle risultanti dal verbale della polizia. Allora perché ritenere la possibilità di una prova migliore (in un esame al dibattimento) nel caso del teste che ha assistito all'incidente stradale e non nel caso del pubblico ufficiale che ha proceduto a un sequestro? Ma é semplice: perché il pubblico ufficiale sicuramente, qualora fosse interrogato sulle modalità del sequestro, non ricordandosi e non potendosi ricordare nulla del sequesto da lui compiuto (e che? forse che si può pretendere che un p.u si ricordi di tutti gli atti da lui compiuti? !) chiederà al giudice di consultare il documento che ha sottoscritto (v. n.5 art. 499). E il giudice tale consultazione non potrà non concedergliela. Ma allora se le cose stanno così, non é meglio che sia il giudice a dare lettura del verbale redatto dal p.u., così risparmiando a questi il tempo di recarsi all'udienza e al tribunale quello di escutere inutilmente un teste? Il legislatore risponde di sì e non gli si può dare torto.

II - Non sempre, anzi quasi mai, da ciascuna fonte di prova c'é da aspettarsi tutta quanta la verità su tutti quanti i fatti di causa: il più delle volte da ciascuna di esse si può ricavare solo un (diverso) frammento della verità: il teste Verdi può dire che chi

0 Vedi però il capv. Art. 507.

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collocò la borsa (con la bomba) aveva un impermeabile bianco; il teste Rossi può dire che l'imputato uscì di casa indossando un impermeabile bianco; il teste Viola può dire che l'imputato tornò a casa con un impermeabile bianco macchiato di sangue. Di conseguenza, ogni prova é come la tessera di un mosaico; ma una tessera diversa dalle altre, con le altre non fungibile e che, pertanto, si valorizza e dà il disegno voluto dal mosaicista (“Sì, fu l'imputato a piazzare la bomba”) solo se collocata in un certo ordine.Ordine che può stabilire solo chi conosce appieno e la verità dei fatti e il frammento di verità che ciascuna prova può apportare: insomma in un processo in cui il giudice viene tenuto con gli occhi bendati fino all'inizio dell'udienza, in un processo ispirato al principio accusatorio, non può essere lui, ma la parte, a indicare l'ordine in cui vanno escusse le prove.Questo postulato della logica e del buon senso, viene recepito dagli articoli 496 e 497.Da questi articoli risulta: I) che a ciascuna parte é idealmente riservato un segmento dello spazio istruttorio perché possa escutere una di seguito all'altra le sue prove0; II) che a ciascuna parte é rimessa la scelta dell'ordine in cui escutere le sue prove (nell'ambito di tale “segmento istruttorio”)0; III) che é rimesso all'accordo delle parti stabilire l'ordine in cui i vari “segmenti istruttori”, a ciascuna di esse riservati, debbano succedersi0: solo in mancanza di un tale accordo si adotterà l'ordine fissato nel primo comma dell'art. 496.L'art. 497 fa riferimento solo ai testimoni (“i testimoni sono esaminati l'uno dopo l'altro nell'ordine prescelto dalle parti ecc.ecc.”); é, però, chiaro che qui il legislatore

0 Pertanto non é che l'istruttoria possa essere condotta sentendo, prima, un teste della difesa, poi, un teste dell'accusa, poi, di nuovo, un teste della difesa.0 Per cui spetterà al p.m., metti, stabilire se escutere prima il suo consulente tecnico o prima quel dato testeFrigo Giuseppe (Commento al nuovo codice di procedura penale, art. 496, p.202): “Le regole (introdotte dal nuovo codice) richiamano alla mente uno scenario ben noto e collaudato nei sistemi di common law, vale a dire la ripartizione dello spazio del trial (giudizio, dibattimento) nel prosecutor case (in Inghilterra: Crown case), in cui l'accusa presenta e rappresenta le sue prove, e nel defense case, in cui la difesa eventualmente contrappone le proprie”.Il Frigo giustamente trova (in, Op. cit,p. 209) il fondamento della “libertà della parte di organizzare l'ordine interno del suo caso nel “comma 1 dell'art. 497, che, pur riferendosi solo all'ordine dei testimoni, altro non é se non l'espressione di una regola generale discendente dalla logica del sistema dei “casi”. Del resto, una volta riconosciuto che questo sistema é tale per cui nel “caso” di una parte rientrano tutte le prove richieste dalla stessa e ammesse, non si vede proprio a chi mai dovrebbe competere, se non ancora alla parte medesima, di stabilire in quale successione esse debbano essere acquisite”.0 Se cioé debba essere per primo il p.m. o la difesa dell'imputato (o la difesa della p.c.....) a escutere le prove.

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minus dixit quam voluit: se é vero, infatti, che si vuole permettere a ciscuna parte di definire, in uno spazio (istruttorio) a lei riservato, il suo disegno (difensivo o accusatorio), diventa assurdo impedirle di escutere in tale spazio quel consulente o quel “imputato di reato connesso” (art. 210), che forse sono le tessere di cui abbisogna per ultimare il suo mosaico (difensivo o accusatorio)0.Noi, anzi, crediamo che pure la lettura dei documenti prodotti da ciascuna parte possa e debba essere fatta nello “spazio” a lei riservato”0 (e nel momento da lei voluto)0.La legge, invece, non lascia dubbio che l'ordine e il momento in cui vanno esaminate le parti non sia rimesso alla scelta, sia pur concorde, del p.m. e dei loro difensori: l'art. 150 disp. att. é chiarissimo nel disporre che “l'esame delle parti private, nell'ordine previsto dall'art. 503 comma 1 del codice, ha luogo appena terminata l'assunzione delle prove a carico dell'imputato”0.0 Frigo (Op. cit, p. 203) ritiene che dentro i “casi” (idest, gli spazi di istruttoria alle parti riservati) possano stare, non solo “le prove cosiddette orali, quelle che le parti escutono direttamente (testimonianze (….) esame dei periti e dei consulenti)”, ma qualsiasi altro mezzo di prova “e così, per esempio, l'esame di prove reali (oggetti sequestrati) o la lettura di determinati atti del fascicolo per il dibattimento”. E infatti – nota Frigo ( ivi, p. 204) - “nella strategia del caso (….) può risultare necessario inserire anche una di queste prove ed, anzi, escuterla a un certo punto, solo così potendo essa assumere il “peso” che la parte medesima intende attribuirle e che altrimenti non avrebbe (ove, ad esempio, fosse assunta in qualsivoglia altro momento). Si pensi, a titolo d'esempio, ad un esperimento giudiziale capace di corroborare immediatamente una affermazione all'apparenza incredibile di un testimonio”.0 Confronta sul punto Frigo (Op. cit., p. 204): “Né sfuggono alla disciplina dei “casi” i documenti. Vero é che essi, una volta ammessi già prima dell'istruzione dibattimentale (ai sensi dell'rat. 495), sono inseriti nel fascicolo per il dibattimento (art. 515). Ma ciò (….) non significa ancora “acquisizione della prova”: questa deve ancora avvenire e va inserita appunto “nel caso della parte che ha fatto ammettere il documento”.0 Potrebbe, però, essere interesse della parte dar rilievo (con la lettura) o, addirittura, produrre un documento solo in altro momento, ad esempio nel corso del controesame di un teste indicato dall'avversario.Nella pratica a ciò non sussistono ostacoli: la parte quatta, quatta aspetta il momento favorevole per tirare fuori il suo asso della manica: nessuno di solito fa eccezione, se la fa, l'art. 507 é ormai interpretato in maniera così lassista da permettere comunque l'acquisizione al processo del documento. A rigore, i documenti dovrebbero essere prodotti all'inizio del processo (v. melius l'art. 494) e letti nel momento detto nel testo (naturalmente se la parte ritiene opportuna la lettura del documento prodotto – sulla sufficienza della ficta lectio di cui al comma 5 art. 511 per la utilizzabilità di un documento, vedi avanti sempre in “Commento allo sketch”).0 Le Osservazioni del governo, sub. art. 150, alle Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, Doc G, 1990, nn. 2-3, 149, chiariscono che ratio della norma “é evidentemente quella di evitare che l'imputato “modelli” le sue dichiarazioni su ciò che hanno affermato i testi a discarico”, sostenendosi che così “l'imputato sarebbe

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Che succede se sono più le parti che hanno chiesto l'escussione della stessa prova personale (ad esempio, sia il p.m. che la difesa hanno indicato nella loro “lista” il teste Caio)?Nessun problema: l'escussione di quella prova sarà, prima, fatta nello spazio riservato ad una parte e, poi, ripetuta in quello riservato all'altra0 (nell'esempio: il p.m. procederà all'esame del teste, la difesa al suo eventuale controesame, poi, il p.m. proseguirà nell'escussione delle altre sue prove, poi, ancora, la difesa, quando sarà venuto il suo turno, di nuovo escuterà, nel momento da lei prescelto, il teste – e il p.m. avrà naturalmente la facoltà di “riesaminarlo”).

III - Siccome é giusto che le parti sappiano prima che inizi l'istruttoria dibattimentale quali carte hanno in mano – (fuor di metafora: quali testi potranno escutere e quali no, quali documenti potranno far leggere e quali no: perché, é evidente, se io, difensore, so di poter fare certe domande al teste Bianchi, mi astengo dal porle al teste Rossi, ma se, invece, il Bianchi non lo posso interrogare, allora....cambio tattica) – il nostro legislatore (con l'art. 495) manifesta la volontà che, i provvedimenti in ordine all'ammissione delle prove, siano adottati prima dell'inizio dell'istruttoria (e subito dopo la “richiesta delle prove”).Tutto ciò non significa che le carte (tanto per continuare nella metafora introdotta) restino distribuite per tutto il durare del processo, così come lo sono all'inizio dell'istruttoria: nel giudizio di rilevanza di una prova influisce la conoscenza dei fatti di causa, ora questa conoscenza si amplia sempre più quanto più si procede nell'istruttoria e, ampliandosi, può rivelare come errato quel giudizio

sottoposto all'esame prima delle prove a difesa”“Si oblitera, però – nota con il consueto acume il G. Ubertis (Giudizio di primo grado (Disciplina del), nel diritto processuale penale, in Digesto delle discipline penalistiche, vol V, 1991, Torino, p. 531, n. 46) - di considerare che il responsabile civile ed il civilmente obbligato per la pena pecuniaria assoggettatisi all'esame renderebbero comunque le proprie dichiarazioni (verosimilmente a discarico) prima dell'accusato”0 “In proposito viene in rilievo l'utilità delle indicazioni delle circostanze su cui deve vertere l'esame nelle liste depositate ex art. 468, comma 1, c.p.p.; proprio questo requisito consente di separare in più momenti dibattimentali (corrispondenti alla distinta assunzione del complesso probatorio introdotto da ognuna delle parti) l'escussione di una “comune” fonte probatoria e di discernere su quale oggetto di prova ogni parte si trovi nella posizione dell'esaminatore diretto e su quale in quella del controesaminatore, rispettando per ciascuna i differenti poteri riconosciuti nel corso del procedimento probatorio dall'art. 498 c.p.p” - così Ubertis, (in, Giudizio di primo grado, cit., p.531.).L'Ubertis si domanda anche come ci si debba comportare “quando un medesimo soggetto sia presentato a carico e a discarico sulla stessa circostanza”; e ritiene che qui “la soluzione sembrerebbe essere quella di considerare come introdotto da chi accusa, dato che tutto il sistema é strutturato sul principio che in primo luogo spetta all'accusa provare le sue allegazioni, mentre alla difesa é affidato un compito di rimessa” (ivi, p. 531)

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sull'ammissibilità della prova, che all'inizio dell'istruttoria sembrava ineccepibile0; e sarebbe assurdo impedire al giudice di correggere il suo precedente errore. A evitare tale assurdità il legislatore provvede con l'art. 495 (vedi il suo comma 4). E non solo la compiuta istruttoria può rivelare errati i provvedimenti dati in ordine all'ammissione delle prova (in specie quei provvedimenti che ne denegavano una o più), ma può rendere accorte le parti e il giudice (o solo questo più attento di quelle, invece incapaci o distratte) che poteva essere disposta l'assunzione di prove (a cui invece nessuno aveva pensato): anche in questo caso sarebbe assurdo impedire al

0 Proprio per questo, il legislatore (nel comb. disp. artt. 495 – 190) impone al giudice una particolare prudenza prima di denegare una prova (per il motivo della sua irrilevanza): vanno da lui escluse solo “le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti”.Il Chiavario (Processo e garanzie della persona, II, Milano 1984, 103) rileva come “di regola, la pertinenza e la rilevanza di una prova possono essere valutate appieno soltanto a posteriori, ossia nel contesto dell'intero potenziale probatorio” e da ciò deduce l'esigenza di non “escludere a priori delle prove” “in via di principio” “sol perché possono apparire verosimilmente “non pertinenti” o “non rilevanti”.Per l'Ambrosini (Op.cit., p. 187) sono “manifestamente irrilevanti quelle (prove) che non attengono all'oggetto dell'imputazione, cui forse possono aggiungersi quelle che, pur attenendo all'oggetto dell'imputazione, non hanno alcuna possibilità di incidere sulla decisione”.A noi sembra giusto definire le prove irrilevanti come quelle che non hanno la capacità di incidere sulla decisione (della causa). Giusto ma incompleto: perché il vero problema é lo stabilire a quali criteri si dovrà attenere il giudice per valutare la possibile incisività del fatto (che la parte domanda di provare) sulla sua decisione. E qui – premesso che l'accertamento di un fatto può venire ad incidere sulla decisione (di una causa) in base ad una data interpretazione di legge o in base all'accettazione di una data massima di esperienza – noi riteniamo che il giudice debba ritenere rilevante una prova solo che il fatto probandum possa venire ad incidere sulla decisione della causa (sua o dell'eventuale giudice di appello) in base ad una massima d'esperienza o ad un'interpretaizone della legge, ragionevole (ancorché da lui non ritenuta corretta).Ambrosini G. (Op.cit.,p.190): “L'ammissione delle prove (e delle controprove) nella fase iniziale del dibattimento non pregiudica la possibilità che, in un momento successivo, sorga questione – di carattere incidentale - relativa all'inammissibilità di prove già ammesse, all'ammissibilità di prove già dichiarate inammissibili, o all'ammissibilità di nuove prove.Per quanto concerne le nuove prove – continua l'Ambrosini - provvede espressamente l'art. 507. Per gli altri casi l'art. 495.4 lascia ampio margine alle parti di proporre eccezioni, senza predisporre una casistica. Si deve, perciò, ritenere che quando nel corso del dibattimento una prova prima ammessa si appalesi manifestamente superflua, cioé tale da non aggiungere alcun elemento ai dati già acquisiti, una parte possa chiederne l'inammissibilità; il che può anche avvenire quando la prova stessa si appalesi manifestamente irrilevante o venga evidenziato un divieto di legge in precedenza non rilevato. All'opposto una prova valutata dal giudice superflua o irrilevante può dimostrarsi,

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giudice di procedere all'acquisizione delle nuove prove – ben s'intende quando quelle già acquisite si fossero rivelate chiaramente insufficienti (cosa che con sicurezza potrà dirsi solo quando tutte siano state escusse) e quando l'escussione delle nuove si riveli risolutiva.E ad eliminare questa assurdità qui provvede l'art. 507.

IV- Il vantaggio della così detta “narrazione continua” del teste esaminato (cioé di una sua narrazione non interrotta dalle domande dell'esaminatore) sta in una maggiore rispondenza del narrato al pensiero del narratore0 (infatti ogni domanda contiene inevitabilmente un elemento di suggestione, che finisce per falsare la narrazione dell'interrogato)0, lo svantaggio (duplice) é, invece, dato, da una parte, dal rendere possibili le narrazioni studiate e per così dire preconfezionate per

nel prosieguo del dibattimento, utile al fine di decidere ed essere quindi “recuperata” (….) Non vi é limite cronologico – é sempre l'Ambrosini che parla - alla proposizione della questione incidentale in materia di prove. La questione può sorgere od essere proposta fino al momento in cui si dichiari conclusa l'istruttoria dibattimentale, ossia la fase di acquisizione delle prove. Anche oltre tale termine, a norma dell'art. 507, é pur sempre possibile che di ufficio il giudice disponga l'acquisizione di “nuovi” mezzi di prova; tra questi non si può escludere che siano ricompresi quelli non ammessi in precedenza”.Nappi (Guida al nuovo codice di procedura penale, Giuffré, 1992, p.310): “L'art. 507 consente al giudice di ammettere d'ufficio qualsiasi prova nuova, anche quella che le parti avrebbero potuto richiedere tempestivamente. Legittima, così, l'ammissione anche di prove dalle quali le parti siano decadute. E non sarebbe ragionevole distinguere il caso in cui la decadenza riguardi una prova richiesta tardivamente, che non sarebbe ammissibile, e il caso in cui la decadenza riguarda una prova non richiesta affatto, che sarebbe ammissibile ex art. 507”.Come si é visto in una precedente nota, tale assunto del Nappi ha avuto l'autorevole avallo della Corte Costituzionale.Al Nappi la disposizione dell'art. 507 però “non sembra riferibile ai mezzi di ricerca delle prove (….). E' da ritenere che sequestri, ispezioni e perquisizioni potranno essere disposti d'ufficio soltanto quando tendano alla ricerca di una cosa o di un documento la cui acquisizione sia per legge obbligatoria” (Op. cit., p. 311).0 Che il racconto spontaneo risulti “più vivo e meno deformato” era l'assunto della maggior parte dei piscologi. Sul punto cfr. E. Mira y Lopez, Manuale di psicologia giuridica, Firenze, 1966,141 ss; L. De Cataldo Neuburger, Psicologia della testimonianza e prova testimoniale, Milano, 1988,171ss.0 Il Frigo (Commento al nuovo codice di p.p.,vol. V, 1991, p.229), dopo aver ricordato l'assunto di autorevoli psicologi secondo cui “la testimonianza ottenuta tramite interrogatorio rappresenta il risultato del conflitto tra ciò che il soggetto sa e ciò che le domande tendono a fargli dire” - ne deduce che diviene allora “illusoria o mistificante la consegna dell'interrogatorio all'esclusiva di un solo soggetto “neutrale” mentre appare più utile, a far emergere le conoscenze del teste, l'interrogatorio ad opera dei portatori degli interessi contrapposti. Ma, in questa prospettiva, non può non risultare dannosa o pericolosa (o, almeno, inutile ed eterogenea) la narrazione “continuata”

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distorcere la verità (il teste falso si é imparata la lezioncina e la scodella tranquillo e sereno al giudice: la cosa non gli sarebbe possibile o gli sarebbe più difficile, se dovesse rispondere a delle specifiche domande: queste, infatti, finirebbero per fargli “perdere il filo “della “lezione” prima studiatasi, dall'altra parte (e stiamo indicando il secondo svantaggio che presenta la c.d. “narrazione continuata”), dalla possibilità di divagazioni dell'interrogato: questi parla e, parlando a briglia sciolta, finisce per dire tutto un mucchio di cose che non sono “pertinenti” alla causa e che ad ascortarle fanno perdere solo tempo. L'attuale codice di procedura, soppesati i pro e i contro, ha ritenuto di dare l'ostracismo alla “narrazione continua”0 e, nel comma 1 dell'art. 499, ha imposto che “l'esame testimoniale si svolga mediante domande su fatti specifici”0.

V- Alcuni cenni sulle c.d. “contestazioni” (artt. 500 e 503 co. 3). Sotto il vigore del precedente codice spesso accadeva che il giudice ponesse a fondamento della sua sentenza quel che gli risultava da un verbale di interrogatorio, redatto dal p.m. o anche dalla polizia, senza preoccuparsi minimamente di risentire nuovamente l'interrogato. E ciò costituiva un serio pericolo per l'effettivo accertamento della verità: perché un verbalizzante (anche dando per scontata la sua buona fede) non é detto che sia sempre capace di riportare fedelmente le dichiarazioni dell'interrogato0, perché, poi, non é detto che tali dichiarazioni, pur riportate 0 Tutto al contrario l'art. 105 comma 2 c.p.p. 1865 recitava: “Dopo la deposizione (del testimone), l'imputato od accusato, o i suoi difensori potranno interrogarlo (…..)”.Sul punto nulla di espresso diceva il Codice Rocco, però l'insegnamento prevalente si conformava alla tradizione giudiziaria francese. “Nell'ambito (di questa) - stiamo usando le parole del Frigo (Opera cit., p.224) - si teneva a sottolineare (….) che, prima d'ogni altra cosa, i testimoni dovessero venire ascoltati e non già interrogati e che soltanto alla fine gli si potessero muovere rilievi e domande, anche su sollecitazione delle parti”.Ogni interruzione – sosteneva M.F. Hélie (Traitè de l'instruction criminelle, VIII, Paris, 1858, 1753ss) – può turbare l'ordine delle idee del testimone e inficiare la spontaneità della deposizione; egli é libero di fare le proprie dichiarazioni come crede e questo suo diritto deve essere protetto, sicché il presidente non deve permettere alcuna domanda prima che la deposizione sia finita e lui stesso deve guardarsi accuratamente dall'interporre osservazioni che non siano strettamente necessarie”.0 Pertanto tra “le più rilevanti regole relative all'esame nella cross-examination” “é da considerare, innanzi tutto, quella del divieto della narrazione continuata, provocata da una domanda generica e generale (per esempio: “che cosa sa dei fatti addebitati all'imputato?”). Ovvio é che si tratta di un divieto attinente alla direct-examination (in sede di controesame, invero, esso sarebbe superfluo, poiché a nessun cross examiner verrebbe mai in mente di....offrire una simile opportunità a un teste introdotto dalla controparte). Lo scopo é palesemente di evitare che il teste venga a riferire una lezioncina preparata e imparata” - così Frigo (Op. cit.,p.229).0 Nelle indagini per un reato di “maltrattamenti” (art. 572 c.p.) un teste dice che vide l'imputato causare delle lesioni alla moglie con un bastone e la polizia verbalizza “vidi

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fedelmente, rispecchino il pensiero dell'interrogato e che questa discrasia tra il detto e il pensato non possa rivelarsi a un più approfondito e sagace interrogatorio (come quello che la cross-examination dovrebbe permettere)0.Considerare i verbali dei precedenti interrogatori tamquam non essent?Sarebbe assurdo: l'interrogato (davanti al p.m. o alla polizia) potrebbe essersi lasciato andare a dire delle verità, che una malizia sopraggiunta gli potrebbe sconsigliare di ripetere (al giudice).La soluzione, che evita i due opposti inconvenienti, é quella che, da un lato, impone di procedere nel dibattimento a un nuovo interrogatorio e, dall'altro lato, consente l'utilizzazione (come prova) delle precedenti dichiarazioni “difformi”, dopo che su queste sono stati chiesti gli opportuni chiarimenti0 e quando l'inconsistenza di questi, la “professionalità” dell'interrogante0, le garanzie che accompagnavano l'interrogatorio (presenza del difensore....), rendano improbabile che la verbalizzazione sia frutto di fraintendimenti o peggio di malafede.E questa soluzione, voluta dal buon senso, é accolta (negli articoli 500 e 503) dal nostro legislatore; sia pure con i seguenti accorgimenti (che sono senz'altro da approvare).Primo accorgimento: l'aver prevista una via di mezzo (da imboccarsi sostanzialmente nei casi in cui la professionalità del verbalizzante o i modi dell'interrogatorio danno minori garanzia e non sussistono d'altra parte elementi che confortino l'attendibilità della verbalizzazione) tra la piena efficacia e la nessuna efficacia probatoria delle dichiarazioni verbalizzate: l'aver previsto cioé che queste dichiarazioni, ancorché non possano essere utilizzate (in alcuni casi) per provare i fatti della causa, possano però essere “valutate dal giudice per stabilire la credibilità della persona offesa”0.

l'imputato bastonare la moglie”.0 Il teste dice “l'imputato bastonò la moglie”, ma, su domanda della difesa, chiarisce: “in realtà direttamente vidi solo i lividi che mi mostrò la moglie”. 0 Perché non é detto che l'interrogato non sia in grado di dare convincenti spiegazioni della discrasia tra quel che prima fu verbalizzato e quello che ora al giudice va dicendo.0 Per cui, ad esempio, “le dichiarazioni (dei testi) assunte dal giudice a norma dell'articolo 422 costituiscono prova dei fatti affermati” (v. comma 6 art. 500); mentre le dichiarazioni (sempre dei testi) assunte dal p.m. o dalla polizia non la costituiscono, a meno che sussistano “altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità” (v. comma 4 sempre art. 500) o comunque altri elementi (vedili indicati nel comma 5 art. 500) che riducano l'attendibilità delle testimonianze rese al dibattimento.Per cui, ad esempio, “le dichiarazioni (delle parti)” - se ad esse “il difensore aveva diritto di assistere” e se furono assunte dal “pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero” (vedi comma 5 art. 503) – possono costituire prova dei fatti affermati, mentre non la possono costituire se ad esse non poteva assistere il difensore o comunque furono raccolte dalla polizia senza delega del p.m.0 G. Ubertis (in, Giudizio di primo grado, cit.,p. 512): “In linea generale, dunque,

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Secondo accorgimento: l'aver ammesso l'utilizzazione delle dichiarazioni verbalizzate, anche in assenza di un nuovo interrogatorio al dibattimento (con possibilità di eventuali chiarimenti su di esse da parte dell'interrogato), nei casi in cui questo interrogatorio si presenta impossibile o comunque difficile0.Terzo accorgimento: l'aver ammesso il richiamo, a quanto precedentemente verbalizzato, solo sotto forma di contestazione da farsi dopo che già sul punto é stato deposto (vedi comma 2 art. 500, comma 2 u.p. art. 503): un richiamo fatto prima della deposizione (“Lei ebbe a dire al p.m. di aver visto ecc.ecc., lo conferma?”) risulterebbe inevitabilmente suggestivo0 (l'interrogato sarebbe

coerentemente con la scelta di privilegiare la prova formatasi al dibattimento, la dichiarazione utilizzata per la contestazione, anche se letta dalla parte, non può costituire prova dei fatti in essa affermati. Può essere valutata dal giudice per stabilire la credibilità della persona esaminata (art. 500, comma 1, e 503, comma 4, c.p.p.) potendosene fare quindi un uso probatorio soltanto indiretto: nella sentenza il giudice potrà dire che non crede che sul luogo del delitto vi fosse una Fiat Croma perché il teste ha indicato un'altra auto nelle indagini preliminari. Non potrà invece affermare che la macchina coinvolta nell'episodio fosse una Alfa 90”.0 Più precisamente il codice ammette che possa darsi lettura:a) “degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero e dal giudice nel corso dell'udienza preliminare quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne é divenuta impossibile la ripetizione” (art. 512) - mentre se invece la ripetizione é divenuta impossibile per fatti o circostanze prevedibili e che pertanto avrebbero dovuto suggerire il ricorso all'incidente probatorio, imputet sibi la parte che non vi ha fatto ricorso (pur avendo interesse ad un nuovo esame del dichiarant);b) “dei verbali di dichiarazioni rese dal cittadino straniero residente all'estero se la persona non é stata citata, ovvero, essendo stata citata, non é comparsa” (art. 512 bis) - qui a rigore un nuovo interrogatorio non sarebbe impossibile (tramite rogatoria estera), però sarebbe troppo complicato senza dare sostanzialmente (per la mancanza della cross-examination) migliore affidamento delle dihciarazioni prima verbalizzate;c) dei “verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare” se questi é “assente ovvero si rifiuta di sottoporsi all'esame” - qui la lettura serve a bloccare e a neutralizzare l'escamotage di un imputato che, sapendo di aver fatto dichiarazioni troppo compromettenti (nei precedenti interrogatori) non vuole sottoporsi all'esame (in sede dibattimentale) per impedirne l'utilizzazione (tramite appunto la tecnica delle “contestazioni”);d) dei verbali delle dichiarazioni “rese dalle persone indicate nell'art. 210” nei casi in cui non é possibile procedere alla loro escussione (vedi melius, comma 2, art. 513 come mdificato da Sent. Corte Cosittuizonale 3 giugno 1992 n. 254);e) “dei verbali degli atti indicati nell'art. 238” (vedi art. 511bis).0 Pier Paolo Riviello (Letture consentite e vietate, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. VII, p.406): “La lettura, a norma dei commi 2 e 3, deve essere sempre successiva all'esame del testimone, della parte o del perito, e ciò evidentemente al fine di evitare un automatico “allineamento” da parte di tali soggetti alle dichiarazioni rese in precedenza”-

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tendenzialmente portato a seguire la via più facile per lui: la conferma di quanto risulta a verbale).Prima di conlcudere l'argomento delle “contestazioni” dobbiamo sottolineare che queste rendono uitlizzabile (come prova) solo quel segmento di verbale che contiene la “dichiarazione contestata”, e non tutto il verbale0

Di solito, però, l'acquisizione al fascicolo del dibattimento della dichiarazione si attua mediante la produzione del verbale (naturalmente, di tutto il verbale) e ciò fa sorgere il pericolo che il giudice legga (inter se) e si lasci influenzare anche da quelle parti del verbale che non riguardano la “dichiarazione contestata”.Per evitare tale pericolo sarebbe opportuno attuare l'acquisizione (non mediante produzione del verbale, ma) mediante dettatura a verbale della dichiarazione contestata0.

VI – Alcuni cenni sulle “letture” – Con l'art. 526 il legislatore stabilisce che il “giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento”. E con ciò egli non si limita semplicemente a richiedere, per l'utilizzabilità della prova, che essa non sia “acquisita in violazione dei divieti stabiliti dalla legge” - se così fosse l'art. 526 sarebbe superfluo: questo già risulterebbe dal precedente articolo 191 -, ma, in più, pretende ch'essa sia acquisita ritualmente (secondo la procedura prevista dal codice di rito).Fatta questa premessa domandiamoci: qual'é il modo rituale per l'acquisizione di una prova documentale? La risposta si ricava dalla stessa cura che il legislatore pone (negli artt. 511 ss, in specie nell'art. 514) nello stabilire, quando di un

0 Avverte Nobili Massimo (Preparazione dell'udienza dibattimentale, in Il nuovo rito penale, fascicolo monografico di Difesa penale, p. 109) che “nonostante una pericolosa lacunosità delle norme, non (é) sufficiente qualsiasi contestazione (di alcune parole soltanto, ad esempio), per determinare il trasferimento, nel fascicolo, di un intero e più esteso documento della fase preliminare. Giova insistere: l'acquisizione dibattimentale di dichiarazioni anteriori ha una portata più ristretta rispetto alle contestazioni. E queste ultime sono ammesse (dagli artt. 500 comma 2 e 500 vomma 3) solo su “fatti” e su circostanze specifiche. Dobbiamo perciò concludere che non sempre si potrà allegare l'intero documento da cui venne tratta la dichiarazione. L'opinione interpretativa or ora esposta riceve conferma dalle dizioni testuali della legge: secondo gli artt. 500 e 503 sono “acquisite nel fascicolo dichiarazioni”. Per contro, gli artt. 467, 515 e 431, ad esempio, dispongono in termini significativamente diversi: i “verbali sono inseriti”; nel fascicolo “sono raccolti gli atti (dei) verbali”.0 Tale é il consiglio che dà il Nobili (Op.cit., p.109): “Poichè il nuovo codice ha trascurato di dettare apposite disposizioni operative, forse l'unica soluzione consiste nel realizzare simile peculiare e parziale acquisizione probatoria, proprio per mezzo del verbale di cui all'art. 510, anziché tramite allegazione dell'atto (documento) integrale. Ma la soluzione risulta innegabilmente complicata ed é realistico nutrire dubbi sulla sua “tenuta” “nella futura prassi applicativa”.

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documento (lato sensu inteso) sia consentita la lettura e quando basti la sua ficta lectio (la “specifica indicazione della sua utilizzabilità” di cui al comma 5 art. 511): é chiaro da ciò che per il legislatore, modo rituale per l'acquisizione di una prova documentale (di un verbale, di una lettera, di una fotografia....) é la sua “lettura” (effettiva e integrale oppure riducentesi alla sua “specifica indicazione”, alla sua ficta lectio)0:le parti hanno diritto di aver conoscenza delle prove documentali (più in genere, degli “atti”) che possono esercitare un'influenza sulla decisione del giudice (al fine di eventualmente controbatterla): e la semplice acquisizione di un documento nel “fascicolo per il dibattimento” non é evidentemente ritenuta dal legislatore sufficiente ad assicurare tale conoscenza. E, in effetti, nella congerie di atti, che possono esservi in un fascicolo, la presenza di uno o più di essi può non risultare avvertita.Come si é già accennato il legislatore non ritiene sempre necessaria per fornire la suddetta conoscenza, l'effettiva e integrale lettura: in alcuni casi, infatti, il contenuto di un atto é tipico (si pensi ad un verbale di sequestro), in altri, risulta implicitamente dalle dichiarazioni orali intervenute nell'istruttoria (si pensi alla relazione peritale: é ben difficile ch'essa dica qualcosa di diverso da quel che ha detto il perito nel corso del suo esame), in altri ancora, di solito é stato conosciuto in sede di sua acquisizione (la difesa ha prodotto una lettera e le altre parti già si sono valse della facoltà loro concessa dal comma tre art. 495 per esaminarla). Quando si ricada in tali casi e, quindi, si possa ritenere superflua la lettura effettiva dell'atto e sufficiente la “specifica indicazione della sua utilizzazione” (la c.d. ficta lectio), il legislatore lo rimette alla prudente discrezione del giudice (il quale nei processi di largo interesse pubblico dovrà tenere presente anche l'esigenza di una completa informazione della pubblica opinione)0; salvo che la lettura sia richiesta da una parte e si tratti di “verbali di dichiarazione” o esista “un serio disaccordo sul loro contenuto”0.Nell'art. 514 il Legislatore si preoccupa di stabilire che “fuori dei casi previsti dagli artt. 511, 512 e 513, non può essere data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato e dai testimoni alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero o al giudice

0 P. Paolo Rivelli (Letture consentite, cit. p.406): “In assenza della lettura e della indicazione di utilizzabilità, gli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento non potranno dirsi “legittimamente acquisiti” ai sensi dell'art. 526 e non saranno dunque valutabili per la deliberazione”0 Infatti la ficta lectio “certamente preclude ogni possibile rapporto fra gli strumenti uitlizzati e i terzi estranei al processo, e quindi ogni possibile conoscenza di essi da parte dell'opinione pubblica” - così Jolanda Calamandrei (Immediatezza – principio di -) in, Digesto delle discipline penalistiche, vol VI, 1992, p.156).0 La lettura (integrale) sembrerebbe anche necessaria, per l'utilizzazione degli atti di cui agli artt. 511bis, 512, 512bis, 513. A meno di pensare a una imperfezione nella tecnica legislativa di formulazione dei relativi articoli.

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nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare” (vedi meglio l'art.514). Da ciò si può dedurre che si può dare lettura di una dichiarazione scritta rilasciata da un teste o dall'imputato (o da qualsiasi altra parte processuale)? Noi riteniamo di sì; tanto più che altrimenti si potrebbe venire a sbarrare ogni via per l'utilizzazione di documenti di innegabile valore probatorio0: si tenga presente, infatti, che il recupero del contenuto di documenti del tipo suindicato (dichiarazioni di testi o di parti non verbalizzate da un pubblico ufficiale) tramite la tecnica delle contestazioni, non sarebbe possibile nei casi in cui mancasse il loro inserimento nel “fascicolo del p.m.” e che qualora anche tale loro inserimento ci fosse, solo sussistendo le condizioni di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 500 (quelle di cui al comma 5 dell'art. 503 mai naturalmente potrebbero sussistere), essi acquisirebbero valore di prova positiva dell'esistenza o inesistenza di un fatto.

5. Domanda di oblazione – Remissione di querela

Viene chiamata la causa contro Rossi e Bianchi. La parte offesa si costituisce parte civile.Avvocato Cicero II - “Nella mia qualità di sostituto dell'avv. Cicero I, difensore del Bianchi, presento domanda di oblazione ai sensi dell'art. 162Bis. Domanda in calce alla quale già risulta parere favorevole del p.m.”.Dicendo questo l'avvocato Cicero porge la domanda al presidente.Presidente: “Ma la sottoscrizione dell'imputato non é autenticata! “.Avv. Cicero II: “Se lei permette posso rimediare subito”.Presidente: Sì, però, lei, avvocato, é un sostituto del difensore, non il difensore, quindi la sua autentica....”.Avv. Cicero II: “Capisco, sì, é vero; però non mi pare persidente, che, per la domanda di oblazione occorra l'autentica”0

0 Prima dell'udienza l'imputato ebbe la felice idea di prendere carta e penna e di scrivere “Sono io l'assassino”, ci mise la sua firma e diede il tutto ai parenti dell'ucciso: questi vengono all'udienza con la preziosa carta in mano e di essa non dovrebbe tenersi conto?! 0 E giusta la tesi dell'avv. Cicero pare anche a noi. Può sembrare strano che la sottoscrizione dell'imputato in una domanda di “applicazione pena” relativa ad una contravvenzione, debba essere autenticata (v. art. 446 comma 3), e, in una domanda di oblazione per identica contravvenzione, non lo debba essere. Però, nel silenzio della legge, così va ritenuto. E peraltro anche in un atto di opposizione a decreto penale e in un atto di impugnazione la sottoscrizione non va autenticata; ed essi sono senz'altro atti non meno importanti di una domanda di oblazione.Per un eventuale approfondimento della questione, lo studioso si legga gli articoli 461 (facendo attenzione al suo comma 3), 464 (facendo attenzione al suo comma 2), 582.Sul punto che la sottoscrizione dell'atto di impugnazione non vada autenticata, vedi la seguente precisazione della Suprema Corte (sent. Sez. Un., 21 luglio 1992,n. 8141,

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Presidente (dopo aver consultato i giudici a latere e...il codice): Giusto. Bene, il p.m. dà parere favorevole?”.Il pubblico ministero dà parere favorevole. Il presidente si fa dire dall'ausiliario l'ammontare delle spese0, calcola la metà della pena, e poi...Presidente: “Lei, avvocato, é in grado di effettuare il pagamento entro le undici?”0

L'avvocato Cicero II risponde affermativamente.Presidente: “Il tribunale ammette l'imputato Bianchi all'oblazione e rinvia la causa alle ore undici”.Alle ore undici viene di nuovo chiamata la causa contro Rossi e Bianchi.Presidente: “La difesa del Bianchi ha effettuato il pagamento dell'oblazione?”Avv. Cicero: “Sì, presidente: ecco la ricevuta, che naturalmente produco”0.Presidente (dopo aver sentito il parere del p.m. ed essersi consultato con i giudici a latere): “Il tribunale visti gli gli articoli 162bis del codice penale e 469 del codice di procedura penale, dichiara non doversi procedere per il reato di molestie di cui al capo B del decreto di citazione e dispone procedersi oltre per gli altri reati”.Poi, sempre il presidente, rivolto all'avv. Plinio che difende il Rossi: “Con l'oblazione ci siamo tolti il reato di competenza del Giudice di Pace riguardante il Bianchi, perché non ci togliamo anche l'altro reato di competenza del Giudice di Pace riguardante il Rossi con una bella remissione di querela, di modo che restino solo i reati di competenza del tribunale?”.Avv.Plinio: “Noi abbiamo già tentata la via di un accordo, ma la controparte pretende delle scuse formali e un esorbitante risarcimento dei danni mnorali; e il mio assistito non ritiene giusto fare le prime e pagare il secondo”.Presidente: (Rivolgendosi alla parte civile): “Ma non potreste accontentarvi di una semplice “dichiarazione di stima” e del rimborso delle spese sostenute?”.Con la mediazione del presidente le parti raggiungono finalmente un accordo.Presidente (con aria soddisfatta): “Dunque, l'accordo é raggiunto in questo senso: mettiamo a verbale una dichiarazione in cui l'imputato riconosce la correttezza morale e commerciale del querelante e si assume l'obbligo di pagare le spese di remissione di querela0 e quanto dovuto per onorari alla parte civile e

Caselli): “Non occorre l'autenticazione della sottoscrizione (prevista soltanto per il caso di spedizione a mezzo del servizio postale) quando l'atto di impugnazione di una parte sia presentato in cancelleria da un incaricato, ai sensi dell'art. 582, comma 1 c.p.p.0 Infatti chi effettua l'oblazione deve pagare le “spese del procedimento” (v. artt. 162 e 162bis nel loro primo comma) - il cui calcolo richiede la competenza del “cancelliere”.0 Per l'art. 162bis occorrerebbe depositare, al momento della presentazione della domanda, una “somma corrispondente alla metà del massimo dell'ammenda” (v. il comma 2 articolo citato).0 Ma come effettua il pagamento dell'oblazione l'avv. Cicero I? Molto semplicemente: va in una banca, si procura un modulo F24, lo compila, lo paga e ha fatto tutto.0 Peraltro anche nel silenzio dell'atto di rimessione le spese di questo incomberebbero al

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questa....rimette la querela. Non resta che procurarsi una bella carta uso-bollo, darla all'ausiliario e firmarla0.L'avvocato della parte offesa insieme a questa si avvicina all'ausiliario: la parte offesa firma la carta in bianco. Anche l'imputato firma, per accettazione (della remissione).Presidente: “Bene a questo punto non resta che procedere per il reato di cui al capo C”

querelato (v. art 340 co.4)0 Sull'atto di remissione (così come su l'atto di querela) non occorre pagare nessuna imposta di bollo. Insomma, per fare una “remissione”, non occorre la carta bollata, ma la carta uso bollo o più semplicemente una carta biancaPresso molti uffici giudiziari, col nuovo codice, si é affermata la prassi di non far risultare la rimessione da separato verbale.

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SEZIONE QUINTA

ESPERIENZE PROFESSIONALI

1. In difesa di MU

Il mio incontro (professionale) con Mu (questo é il nome fittizio con cui difenderò l’anonimato del mio cliente) risale a una afosa giornata di metà agosto 2001. Mu mi telefona: “Avvocato, ho bisogno di Lei!” “Perché?” “Perché mi trovavo tranquillamente sdraiato sulla spiaggia di Puntavagno, quando mi si è avvicinato un vigile, che mi ha fatto un Verbale”. Ho già capito di che si tratta: la spiaggia di Puntavagno è un noto ritrovo di omosessuali, in cui ogni tanto i Vigili fanno delle “puntate” a tutela del buon costume: individuano chi si abbandona ad atti osceni e lo denunciano per il reato di cui all’art. 527 C.P.: evidentemente il mio interlocutore é uno dei “pizzicati”.All’appuntamento che gli fisso, Mu mi esibisce il “verbale” fattogli e ciò mi conferma nella mia “diagnosi”. Temo che il caso non lasci molto spazio ad una speranza di assoluzione. Ma é anche vero che il tipo di clienti come Mu si preoccupano soprattutto di una cosa: che mogli e figli nulla vengano a sapere della loro disavventura giudiziaria. Di conseguenza, rassicuro Mu che considererò mio principale compito tutelare la sua riservatezza e gli spiego che, a tal fine, la prima cosa da fare é una “elezione di domicilio” presso il mio studio. Tremebondo e grato delle mie rassicurazioni, Mu senza difficoltà mi sottoscrive l’elezione di domicilio con contestuale nomina di fiducia.A questo punto, io dovrei portare l’atto (id est, la nomina con “elezione di domicilio”) alla segreteria della Procura della Repubblica (questa è infatti la “autorità che procede” — v. art. 162 co.1). Calma, però: non si può mica depositare un atto relativo ad un procedimento quando questo non è ancora iniziato! Ora, perché il procedimento contro il mio amico Mu inizi, occorre che esso venga iscritto nel registro ad hoc (il “registro degli indagati” — vedi art. 335 c.p.p.) e, ancor prima, occorre che alla Procura della Repubblica arrivi la “notizia di reato”. Bisogna dar tempo al tempo e lasciar passare qualche giorno. Passato che è, mi reco alla Procura e precisamente all’ "Ufficio ruolo generale”, per chiedere appunto se la pratica é già iscritta ed, in caso, chi è il magistrato assegnato.Operazione semplicissima, penserà lo studioso; non del tutto, in realtà. Non bisogna, infatti, pensare che l’avvocato, giunto alla presenza del funzionario (di solito situato al di là di uno sportello e davanti a un computer), gli possa chiedere

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oralmente e molto semplicemente “Mi può dire se risulta una denuncia contro Bianchi, ecc. ecc.?”; e che il funzionario, altrettanto semplicemente, oralmente, risponda. Nulla di tutto questo. E ciò per la semplicissima ragione che competente a decidere, se dar risposta o no, alle richieste sul contenuto del registro, non è il segretario della Procura (e per lui, l’addetto allo sportello) ma il magistrato: infatti, non tutti hanno diritto alle informazioni (si legga lo studioso il co.3 dell'art. 335) e stabilire chi ha tale diritto può presentare delle difficoltà giuridiche (che è meglio risolva un magistrato e non un segretario ancorché bravo) e, a parte ciò, il magistrato (V. co. 4 sempre art. 335) potrebbe ritenere opportuno secretare il contenuto del registro. Per farla in breve, l’avvocato che vuole informazioni sul registro deve compilare una richiesta scritta, deve presentarla (naturalmente al funzionario dietro lo sportello) e poi con santa pazienza ritornare dopo qualche giorno. Lo faccio; e vengo a sapere il nome del “sostituto procuratore” (diamogli un nome, dott. Ile) e, naturalmente, il numero di ruolo generale0.Ho fatto con ciò il primo passo; ora bisogna che muova il secondo: ma in che direzione? Chiedere il patteggiamento (art. 444 C.P.P.): ecco la prima mossa che debbo fare. Si, ma chiederlo dopo aver visto cosa ha scritto il vigile nella “notizia di reato” da lui comunicata alla procura della Repubblica: in fondo il cliente si professa innocente: d’accordo, lo fanno tutti, ma non è detto che alcune volte non lo facciano con ragione. Però, al momento, io, difensore, di leggere questo atto non ho diritto: per l’art. 329 c.p.p. il fascicolo del P.M. è coperto dal segreto istruttorio. Allora? Allora tentar non nuoce: busserò alla porta del P.M. con un pretesto (quale? uno qualsiasi, forse che il difensore non ha diritto di parlare col P.M.?)0 e, se vedrò che il mio interlocutore è “disponibile”, gli chiederò di farmi leggere il verbale in camera caritatis.Il P.M. però “disponibile” non lo e per nulla; e io batto in ritirata con le pive nel sacco. Esacerbato e con la voglia di “vincerla a tutti i costi”, penso di presentarmi al 0 Ad ogni procedimento viene attribuito un numero. Ad esempio: 1930/200l R.G. N.R. significa: procedimento iscritto col numero 1930 nel registro generale delle notizie di reato del 2001.Praticamente sono due i numeri di ruolo che servono a contraddistinguere in maniera univoca un procedimento: quello assegnato al momento della sua iscrizione nel “registro notizie di reato” e quello assegnato quando passa “in carico” ad un determinato ufficio: ufficio del P.M., ufficio del GIP, ufficio del tribunale. Visionando il doc. AD1 (nella sezione II) lo lo studioso potrà vedere, in alto a sinistra per chi guarda, il NGNR (numero generale notizie reato) e il N.G.Tr (numero generale tribunale).0 A questa domanda, a cui io rispondevo con tanta sicurezza positivamente, da praticone qual sono, forse un professore universitario non darebbe eguale risposta (positiva). Infatti l’art. 367 c.p.p. stabilisce che “nel corso delle indagini preliminari, i difensori hanno facoltà di presentare memorie e richieste scritte al pubblico ministero”; ma non stabilisce per nulla un obbligo del P.M. a dare udienza al difensore.

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P.M. con l’indagato per “rispondere spontaneamente all’interrogatorio”: forse che in tale sede il P.M. non deve “render noti” alla “persona sottoposta alle indagini” “gli elementi di prova esistenti contro di lei?” Certo, lo dice chiaramente l’art. 65 c.p.p.! Sono ridiventato euforico e ho riacquistata la fiducia in me stesso, ma un residuo di prudenza e di buon senso mi consiglia di controllare il codice. Leggo l’art. 374 c.p.p. ed il morale toma ai piani bassi: si, tale articolo prevede una “presentazione spontanea” dell’indagato, ma solo al fine di “rilasciare dichiarazioni”. Certo, nell’occasione il P.M. può sottoporre l’indagato all’interrogatorio, ma solo se lo crede opportuno (e tale non lo crederà quando appunto riterrà che la contestazione degli elementi di accusa venga a nuocere alle indagini).Insomma, debbo rassegnarmi e aspettare: che cosa? Ma che diamine, il deposito degli atti di cui all’articolo 415 bis c.p.p.: il nostro saggio legislatore si è reso conto che è giusto che il difensore possa influire sulle decisioni che il P.M. deve prendere a conclusione delle sue indagini e, siccome per poter influire su tali decisioni il difensore deve naturalmente conoscere gli atti (uno che parla senza “cognizione di causa” riesce ad avere sul suo interlocutore ben poca influenza!), il legislatore impone al P.M. di depositare presso la propria segreteria, prima della scadenza a lui fissata (dall’art. 405 c.p.p.) per la conclusione delle indagini, “la documentazione relativa alle indagini espletate” (V. art. 415 bis). Quindi, per leggermi la famosa notitia criminis dei Vigili (che incastra il povero Mu) non mi resta che aspettare tranquillamente che il P.M. concluda le indagini.Cosi faccio; e cosi commetto il terzo dei miei errori professionali (fortunatamente, lo dico subito a parziale sollievo del lettore, ormai in forte apprensione per le sorti del povero Mu, tutti questi errori, per uno strano gioco del destino, si risolsero a favore dell’indagato). Perché commetto un errore? Perché l’articolo 415 bis viene interpretato come se stabilisse l’obbligo del deposito della documentazione solo in caso che il P.M. intenda fare la richiesta di rinvio a giudizio (di cui al succ. art. 416): nel caso, invece, che ritenga fare richiesta di giudizio immediato (art. 453 c.p.p.) o di decreto penale di condanna (art. 459 c.p.p.) egli (secondo tale discutibile interpretazione), a tale richiesta, potrebbe dar corso senza nessun deposito e senza dar modo alla difesa di far presenti le ragioni (v. co. 3 art. 415 bis) per cui ritiene ingiusta la promozione dell’azione penale contro l’indagato (che verrebbe cosi trasformato in imputato — v. art 60 c.p.p.). Forse una giustificazione a tale interpretazione la si può trovare, per il giudizio immediato, nell’evidenza della prova che ne costituisce il presupposto (vedi l’incipit dell’art 453); ma per il decreto penale? Esso può essere richiesto anche quando la prova non è “evidente” (leggersi l’art. 459!); e, se e vero che l’imputato, una volta ricevuto il decreto, può farvi opposizione, è anche vero che, in questa sede, l’imputato non può chiedere che il P.M. ci ripensi e non promuova l’azione penale, in altre parole non può

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sollecitare il P.M. a chiedere l’archiviazione: può chiedere solo “il giudizio (immediato!) e il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena a norma dell’art.444 c.p.p. (v. co.3 art. 461). E allora? Allora de hac jurisprudentia utimur et... patientia!Lasciamo il nostro latino maccheronico e continuiamo a narrare i fatti: il fatto, anzi il fattaccio, è che il P.M., seguendo tale giurisprudenza, provocò, senza permettere alla difesa di dire né ai né bai, un bel decreto penale e fu..... una fortuna per l’imputato. Perché una “fortuna”, si domanderà sbalordito il giovane collega, non era meglio un “patteggiamento”? No, perché, può sembrare strano (e forse lo è, strano ed ingiusto), ma per il co.2 art. 459, su richiesta del p.m. (e solo su sua richiesta – ma il dottor Ile, ancorché da me ripetutamente demonizzato, fece, a favore del Mu, tale richiesta) il G.I.P. può, nel suo decreto, riudrre la pena in mggior misura di quanto si possa riudrla nel contesto di un “patteggiamento” (v. co. 1 art. 444).Quindi se il progetto della difesa (il “mio” progetto difensivo, non voglio nascondermi dietro un vile anonimato!) avesse avuto esito positivo ed il patteggiamento, pertanto, si fosse fatto, l’imputato, sia pur di poco, ci avrebbe rimesso. Capita. Ah la giustizia umana! Sbaglia il difensore, sbaglia il giudice: una macchina infernale per rendere nero il bianco e bianco il nero, Comunque in questo caso è andata bene all’imputato; ed io, molto giudiziosamente, mi astengo dallo (ulteriore) errore di fare opposizione al procedimento per decreto, anche se ora fingerò che (preso da improvvisa pazzia) abbia deciso di fare opposizione. In tal caso che cosa avrei dovuto fare? Prima cosa, avrei dovuto redigere l’atto di opposizione (mettendoci tutti gli elementi pretesi dall’art. 461 c.p.p.— e in ciò sarei stato agevolato da un modulo che la previdente Autorità Giudiziaria è usa predisporre). L’ atto così redatto l’avrei dovuto portare nella cancelleria del GIP (quella stessa che aveva curata la notifica del decreto). E poi? Poi, se avessi chiesto il giudizio immediato (se avessi chiesto un rito alternativo la faccenda sarebbe un po’ più complicata e ci riserviamo di parlarne in altra sede) non avrei avuto che da aspettare che mi arrivasse il decreto di citazione davanti (non al GIP, ma) al tribunale.

2. In difesa di Be

I miei rapporti con il sig. Be, accusato di atti osceni in luogo pubblico, furono fin dall’inizio caratterizzati dalla più assoluta incomunicabilità. Non colpa mia, né colpa sua: semplicemente il sig. Be era affetto da un grave disturbo del linguaggio diagnosticato come “afasia fluente”: parlava proferendo le parole giuste, ma mettendole in ordine sbagliato. Ad esempio, per dire “Ieri, avvocato, le ho

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telefonato”, diceva presso a poco “Telefonato ho ieri le avvocato”.Certo, questo handicap dell’indagato menomava gravemente la difesa, ma certamente la sospensione del processo non era né opportuna (dato che il cliente, terrorizzato dal processo, non voleva altro che finisse al più presto), né possibile. Non era possibile, infatti, applicare gli artt. 70 ss. c.p.p.., in quanto essi prevedono, sì, il caso che l’imputato sia affetto da “infermità mentale”, ma ne fanno conseguire la sospensione del processo solo quando la “infermità” è tale da “impedire la cosciente partecipazione al procedimento”. Ora, invece, quella del Be era, sì, certamente, una “infermità mentale”, ma non tale da impedirgli la comprensione degli atti che si svolgevano nel procedimento (e quindi la sua “cosciente partecipazione” a questo).Semmai, se un articolo del codice era al caso applicabile (analogicamente) esso era l’articolo 119 c.p.p., nella parte relativa al “muto”. Però questo era un articolo che sarebbe venuto in rilievo nel futuro svolgersi del procedimento, nel caso di un interrogatorio del Be da parte dell’Autorità Giudiziaria, ma che al momento non poteva risolvermi il problema (della incomunicabilità tra me e Be). Per risolverlo avrei dovuto farmi assistere da un esperto (e la spesa che ciò avrebbe comportato era sproporzionata rispetto alla natura bagatellare del reato) o farmi dare delle risposte per iscritto (ciò che superava la pazienza del Be, che era un tipo un po’ nervosetto, e debbo confessarlo, anche la mia).Non potendo, quindi, attingere dal cliente la “verità dei fatti” (tanto per usare una parola grossa e che si trova a disagio nel processo penale) decisi di cavarla dal fascicolo di ufficio. Ma l’unico che poteva autorizzarmi (in camera caritatis) a dargli un’occhiata era il P.M.: lo stesso P.M., formalista e severo, che abbiamo già incontrato nel precedente paragrafo, il dottor Ile. E il terribile dott. Ile (proprio come nella vicenda esposta nel precedente paragrafo) mi fece uscire dalla sua stanza con le pive nel sacco: non è detto che avesse tutti i torti. Decisi, comunque, di rappresentargli la infermità mentale dell’indagato, in quanto mi pareva che essa avrebbe potuto portare il P.M. ad una più attenta valutazione del racconto del vigile verbalizzante (forse che non poteva essere accaduto che questi prendesse, un gesto disordinato dovuto all’infermità di mente, come un atto osceno?).Scrissi, dunque, due o tre righe in tal senso e le depositai in cancelleria: a questo, almeno, avevo diritto: l’art. 367 c.p.p. sul punto è ben chiaro! Il risultato? Nefasto: il P.M. fu, sì, pungolato ad un maggior scrupolo nell’indagine, ma tale maggior scrupolo si manifestò solo nel soprassedere all’emissione del decreto penale (che, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, presenta dei vantaggi per l’imputato) ed a disporre il deposito degli atti ex art. 415 bis c.p.p. e l’interrogatorio dell’imputato (non a opera sua, ma della polizia).Ora, rispondere ad un interrogatorio a te, imputato, serve come mezzo per ottenere

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dall’Autorità Giudiziaria procedente la contestazione (e quindi la rivelazione) degli elementi su cui l’accusa è fondata; ma quando tu hai a disposizione tutti gli atti dell’Ufficio e da essi puoi comodamente ricavare gli elementi dell’accusa, perché dovresti andare a perdere tempo per rispondere a delle domande ovvie (“E’ vero che il giorno tal dei tali lei si è masturbato?”). Si dirà: “Ma in sede di interrogatorio, tu, indagato, puoi esporre la tua tesi difensiva, puoi dedurre delle prove”. Ma sì, questo è vero, però è anche vero che la tesi difensiva, la puoi dedurre anche in una memoria (e più chiaramente, che in sede di interrogatorio). Lo so che mi si può obiettare che quando si deposita una memoria non si sa mai di quale attenzione il giudice la onorerà, mentre invece l’esposizione orale della tesi difensiva fatta durante l’interrogatorio, il giudice, bon grè mal grè, è costretto ad ascoltarla. Questo è vero, è tutto vero e sono il primo a dire che in sede di interrogatorio un abile difensore ha modo, con sapienti interventi, di inculcare e di far, per così dire, a poco a poco assorbire dal magistrato la propria tesi (quella sua tesi che potrebbe essere letta con disattenzione se scritta in una memoria); però tutto questo se l’interrogatorio è fatto dal magistrato e non da un pubblico ufficiale da lui delegato!Ecco le ragioni per cui all’interrogatorio davanti al p.u. non ritenni di andare e di far andare il mio assistito. Tanto più, che la Notizia di reato”, che finalmente ero riuscito a leggere, era tanto chiara e circostanziata nell’accusa, da farmi escludere l’ipotesi che il p.u. avesse equivocato sulla natura dei gesti compiuti dal mio cliente: gli atti osceni senza dubbio erano stati compiuti.A questo punto, che fare? Sollecitare il P.M. a chiedere un decreto penale? Nulla ostava a che il P.M. avanzasse una tale richiesta. E sarebbe stata la soluzione migliore per il mio cliente. Però, nell’avviso di deposito, il p.m. aveva avanzata una proposta di patteggiamento: era tale proposta ostativa alla richiesta del decreto penale (da parte del P.M.)? Io ero propenso a dire di no. Diverso il caso di un P.M., che avesse chiesto il rinvio a giudizio o il giudizio immediato: in tali casi, sì, che avrei ritenuto sussistere un ostacolo alla richiesta del decreto, perché in tali casi il P.M. si sarebbe spogliato, con la sua richiesta, dell’azione penale: la palla non sarebbe stata più nelle sue mani, ma nelle mani di un altro giudice a cui egli non avrebbe potuto più toglierla; ma, nel caso di proposta di patteggiamento, perché impedire ad un magistrato un ripensamento? egli aveva, sì, proposto un patteggiamento, metti, per sei mesi, ci aveva ripensato e aveva chiesta una condanna per decreto a soli cinque mesi: perché non sarebbe dovuto essere possibile? Si, nulla lo rendeva impossibile, salvo il carattere un po’ testardo del P.M.: certamente egli non avrebbe cambiata idea. E allora inutile perdere tempo; e così decisi di aderire alla sua richiesta.Dunque, faccio il mio atto di adesione, vi allego l’avviso ex art. 415 c.p.p. (contenente la proposta del P.M.) e mi dirigo all’ufficio del GIP. Sì, ma a quale GIP

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presento l’atto (dato che l’organico dell’ufficio è composto da più magistrati)? Penso di chiedere lumi proprio alla segretaria del dott. Ile, che (al contrario di lui) avevo trovato così gentile e disponibile; e ciò mi evita una brutta figura. Infatti, la segretaria gentilmente mi spiega che, no, l’istanza non la dovevo presentare dal GIP, ma dal P.M., in pratica proprio da lei: sarà poi il P.M., una volta apposto il suo visto per adesione (ed infatti il mio atto avrebbe dovuto assumere la forma di una comune richiesta di patteggiamento), a far trasmettere gli atti al GIP. La cosa mi pare strana (ed in effetti un po’ strana e contorta lo era), ma obbedisco.Dopo qualche giorno, faccio un salto all’ufficio ruolo del GIP e lì apprendo che tutto procede bene: il GIP è stato nominato ed io non ho che da aspettare di essere avvisato (guardi lo studioso il co.1 dell’art. 127 c.p.p.) dell’udienza fissata. Così avviene: ricevo l’avviso che l’udienza è fissata per il giorno 06.12.00. Presentarsi? Di solito non ci si presenta. Ma per me, il sei, è un giorno quasi vuoto (di impegni) ed il cliente è uno di quelli che dall’avvocato pretendono il massimo, quindi il giorno sei mi trovo impalato davanti alla porta del dottor Giaca (il GIP incaricato). Aspetto che esca chi mi precedeva nel turno, busso, entro e mi presento: “Difendo il sig. Be, per cui vi è una richiesta di patteggiamento”. Il giudice è gentile: mi assicura che “tutto è a posto”. Il P.M., naturalmente, non c’è: la sua partecipazione all’udienza è facoltativa (veda lo studioso l’art. 447 co.3 c.p.p.) ed egli ha cose più importanti da fare che assistere ad un’udienza “su richiesta di patteggiamento”. Io mi limito ad azzardare: “Quando ci sarà la sentenza?” “Subito – risponde il giudice – ma se vuole averne copia deve aspettare fino a domani, dato che io materialmente, subito, non riesco a scriverla”.

3. In difesa di Sai

Sai, colto dalla Polizia mentre acquistava dell’eroina da due connazionali, era stato arrestato.C’era la flagranza (art. 382 c.p.p.), il reato era addirittura di quelli che rendono obbligatorio l’arresto (V. melius, art. 380 co.2 lett. H, c.p.p.): nulla da eccepire, giustamente le manette erano scattate ai polsi del povero Sai. Il quale, da povero diavolo qual era, all’udienza di convalida aveva adottata la tesi difensiva più balorda: “Non era vero che stava acquistando la droga dai connazionali... la droga l’aveva, sì, ma perché era stata da lui presa sotto una pietra dei giardinetti, dove l’aveva precedentemente nascosta, ecc. ecc.”: tant’è, la paura fa novanta, e la paura di Sai era evidentemente che, se mai avesse detto che i suoi connazionali (diventati come lui coimputati di spaccio) gli avevano venduta la droga e avesse contrastato così la loro tesi, che era di assoluta estraneità al fatto, essi gli

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avrebbero (per lo meno!) rotta la testa.Naturalmente a Sai nessuno crede: l’arresto viene convalidato, viene disposta la misura della custodia in carcere0. Fino a qui, si ripete, nulla da eccepire.Poi, succede il fattaccio: il GIP emette un decreto di citazione per il giudizio immediato0. La cosa è di per sé corretta: nessuno potrebbe contestare che, nel caso in esame, la prova del fatto “appaia evidente” ed in più l’imputato è stato interrogato: sussistono, quindi, entrambi i presupposti voluti dall’art. 453 c.p.p. per fare a meno del “filtro” dell’udienza preliminare, che, nel caso, si rivelerebbe, per il nostro ordinamento, un’inutile e formalistica garanzia, ossia un’assurda perdita di tempo. Allora, si domanderà il lettore, dov’è il “fattaccio”?Il “fattaccio” sta in questo: che il Sai, ricevuta la notifica del decreto di citazione, lo guarda un po’, vede che l’udienza è stata fissata per il 7 maggio e, da ciò tranquillizzato, lo mette da parte: c’è tempo per parlarne quando verrà il difensore, che ora è all’estero, ma a metà marzo ritornerà in Italia e si farà vivo in carcere! Non fa caso, il povero Sai, che qualcosa di francese sa, ma d’italiano ne mastica davvero poco, all’avviso (contenuto nel decreto in ossequio al co.2 art.456) - avviso scritto in chiare lettere (però in lettere italiane, questo è il punto) ch'egli può chiedere “il giudizio abbreviato ovvero l'applicazione della pena a norma dell'art. 444 c.p.p.” - però, ecco il punto, li può chiedere in termine brevissimo, quello stabilito dall'art. 4580. E quindi, ahimè! tale termine si lascia scadere. Ma — domanderà il lettore — il difensore che ci stava a fare, non poteva provvedere lui a richiamare l’attenzione del Sai sulla necessità di chiedere, e tempestivamente, questo o quel rito alternativo? No, perché, come si è detto, il difensore era all’estero: se fosse stato in Italia, quasi certamente avrebbe fatto visita a Sai in carcere (ogni penalista che si rispetti cerca di recarsi almeno una volta alla settimana a far visita in carcere ai suoi assistiti): il Sai gli avrebbe mostrato l’atto notificatogli ed egli gli avrebbe allora fatto presente ecc. ecc. e tutto si sarebbe risolto per il meglio. Ed invece era all’estero.Se almeno l’avviso (l’avviso di cui parla il 5° co art. 456 — lo studioso apra il codice e legga!) gli fosse stato notificato entro il termine concesso all’imputato, chissà, forse qualcuno dello Studio avrebbe trovato modo di porre sull’avviso il Sai, di suggerirgli di chiedere il rito alternativo; invece l’avviso al difensore era stato notificato quando il termine era già scaduto. Che fare allora? C’era poco da scegliere: l’unica cosa da fare era quella di domandare la restituzione in termini (art. 175 c.p.p.): motivo? Il non aver potuto osservare il termine (indicato, nel 0 V. artt. 390 e 391 c.p.p..0 V. artt. 453 e ss. cp.p. ed, in particolare, l’art. 454, per la richiesta del giudizio immediato da parte del P.M., e l’art. 455, per quel che riguarda il decreto del GIP che l’accoglie.0 Termine che illo tempore era di sette giorni, ma che ora, proprio per evitare gli inconvenienti nel testo lamentati, é stato elevato a quindici giorni.

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decreto, per chiedere l’abbreviato ecc.), a causa di forza maggiore. Motivo della “forza maggiore”? L’ignoranza della lingua italiana.Ed era un motivo ben fondato, anzi sacrosanto: perché, sì, è vero, all’imputato “che non conosce la lingua italiana” si nomina un interprete (arg. ex art. 143 co. 2 c.p.p.), affinché lo “assista gratuitamente” “al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa”, ma in pratica tale assistenza si dimostra reale ed efficace solo al momento dell’interrogatorio dell’imputato: quale mai interprete, infatti, si preoccupa di ragguagliare dettagliatamente l’imputato di quel che all’udienza avviene e si dice attorno a lui (di quel che dice il teste tal dei tali, il p.m., il giudice, il difensore...) in modo da permettergli di seguire effettivamente lo svolgimento del processo? Quale mai imputato osa disturbare (fuori d’udienza) l’interprete per farsi tradurre le varie “carte processuali” che gli vengono notificate? Ve lo immaginate lo sbigottimento delle guardie del carcere a cui Sai dice di chiamargli e con urgenza l’interprete? E la faccia dell’interprete che deve perder tempo per recarsi in carcere, e perché mai? per tradurre un decreto di citazione a un certo Sai! Nessuno ha mai vista una simile faccia, per la semplice ragione che nessuna guardia mai si è sognata di chiamare un interprete in accoglimento della richiesta di un detenuto, e nessun detenuto ha mai osato fare una tale “stramba” richiesta.In carcere ci si arrangia: l’interprete lo fa un compagno di cella bilingue, ma se ne ha voglia e non è detto che ne abbia tanta da tradurre fedelmente quattro pagine stampate. Conclusione: il motivo posto a conforto della richiesta di restituzione in termini sembrava buono; ed è con più di una speranza che il difensore, dopo aver redatto l’atto, lo aveva portato in carcere a che Sai lo firmasse e, tramite l’ufficio matricola, lo facesse pervenire al giudice. Ma — si domanderà lo studioso — perché mai il difensore non fece tutto da solo? Perché non firmò, lui, l’istanza di restituzione in termini? In realtà l’avrebbe potuta firmare: l’art. 99 c.p.p. è chiaro nell’estendere al difensore “i diritti dell’imputato”: semplicemente di tale articolo il difensore... si era dimenticato (e del resto, va anche detto, che far firmare l’atto all’imputato era facile e non presentava controindicazioni). Questo non fu il solo errore che al difensore fece commettere... il cambio di fuso orario (egli era appena tornato dall’Argentina).Infatti egli, dopo una lettura non troppo meditata dell’art. 175, aveva rivolto l’istanza (di restituzione in termini) al tribunale (e non al GIP): forse che l’art. 175 (nel suo comma terzo) non dice che “sulla richiesta decide con ordinanza il giudice che procede al tempo della presentazione della stessa”? Forse che il p.m. non aveva chiesto il giudizio “immediato” (art. 453) e forse che il GIP, accogliendo tale richiesta (art. 455) non aveva investito il tribunale della causa? Sembrava tutto quadrare e quadrare nel senso, appunto, che competente a decidere sull’istanza fosse il

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tribunale (e non il GIP); e tuttavia, presentata l’istanza (o, meglio, fatta presentare, dall’imputato, l’istanza), dentro il difensore una vocina (la voce della coscienza che, ancorché fievole, riesce a farsi sentire anche nel cuore del più indurito di noi penalisti?!) gli diceva ch’egli era stato troppo sbrigativo a risolvere la questione: sì, è vero, il GIP aveva già emesso il decreto con cui disponeva il giudizio immediato, però è anche vero che, al momento della presentazione dell’istanza, il fascicolo era ancora nel suo ufficio (e ci sarebbe rimasto ancora un bel po’: i tempi della nostra burocrazia non sono velocissimi!) e ciò significava che il giudice, che aveva più a portata di mano le carte processuali per decidere con rapidità (si fa per dire!) sull’istanza, era il GIP e non il tribunale: insomma a volersi far guidare da ragioni di efficienza e di funzionalità, era quello e non questo il giudice a cui attribuire la competenza a decidere sull’istanza, e siccome la nostra Corte di Cassazione è (giustamente!) molto sensibile alle ragioni di efficienza della macchina della giustizia, non è detto che, insomma, una almeno piccola ricerca giurisprudenziale sarebbe stato opportuno farla.Quella benedetta vocina non la smetteva di scocciare ed il difensore fece la sua bella ricerca di giurisprudenza e trovò quello che proprio non desiderava trovare: effettivamente la Cassazione attribuiva la competenza a decidere proprio al GIP, e perché? perché, diceva la Cassazione, anche dopo che il GIP ha emesso il decreto di citazione, non si può dire che non sia più lui a procedere, perché egli pur sempre deve provvedere a selezionare gli atti, che vanno inseriti nel fascicolo del dibattimento (e spediti al giudice di questo) e quelli che vanno inseriti nel fascicolo del P.M. (ed a questo restituiti). Operazione, questa, che di solito non prende molto tempo al giudice (e noi avvocati abbiamo il sospetto che il più delle volte non... gli prenda neanche un minuto di tempo e che a far tutto, sia, solo soletto, il cancelliere!) ma che potrebbe in alcuni (rari) casi diventare complessa e laboriosa (e svolgersi, come previsto dall’art. 431 c.p.p., a cui l’art. 457 rinvia, anche col contraddittorio delle parti). Comunque, giusta o sbagliata, quella era l’idea della Cassazione e quindi il difensore doveva riconoscere di aver preso... un granchio: certe cause veramente nascono sotto una cattiva stella: si cerca di risolvere un problema e se ne fa nascere un altro.Che fare ora? Certamente sarebbe assurdo che un errore sulle norme che regolano la competenza determinasse l’inammissibilità di un’istanza; certamente, anche nel caso, si dovrebbe applicare il principio stabilito a chiare lettere in materia di impugnazione dall’art. 568 c.p.p.0 ed il tribunale dovrebbe trasmettere gli atti al GIP, de plano, senza che neanche occorra che dichiari la propria incompetenza con sentenza (o con ordinanza o con decreto: nessuna norma infatti gli imporrebbe di

0 Il co. 5 art, 568 nella sua ultima parte recita: “ Se l'impugnazione é proposta a un giudice incompetente questi trasmette gli atti al giudice competente”.

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rivestire la sua decisione di tali forme e quindi egli potrebbe esprimerla in una semplice missiva: “Al sig. GIP — Genova, per competenza — F.to Pinco Pallino” — si veda l’art. 125 co. 5 c.p.p.)0. Tuttavia, il difensore di Sai era un ansioso cronico (“non si sa mai quel che può passare nella testa dei giudici... meglio cautelarsi”): ritornò in carcere e fece fare al Sai un’altra istanza, questa volta diretta alla giusta autorità, al GIP.A questo punto, il difensore poteva mettersi l’anima in pace? Non tanto, perché la istanza a ben guardare, non gli sembrava ben formulata: sarebbe stato preferibile farla seguire da una “memoria” che chiarisse meglio alcuni punti. Il difensore fa dunque una memoria; ma, ecco il punto: dove e quando presentarla? Il “dove” è facile dirlo: alla cancelleria del GIP; il “quando” invece è un bel problema: sarebbe infatti contro ogni logica presentare la memoria prima che sia arrivata (dal carcere) l’istanza e, d’altra parte, sarebbe inutile presentarla quando... sull’istanza il giudice ha già deciso: si tratta di presentare l’istanza in quell’intervallo (certe volte di poche ore, certe volte di varie settimane) che si forma tra l’arrivo dell’istanza e la decisione del giudice. E la cosa non è facile, perché l’arrivo dell’istanza non lascia traccia nei registri di cancelleria e quindi è inutile interrogarli: bisogna rassegnarsi a dar la posta al cancelliere, sperando di ottenerne informazioni esatte e cortesi: un’operazione abbastanza defatigante e antipatica. Comunque il difensore riesce anche a presentare tempestivamente la memoria ed a quel punto non gli resta veramente che aspettare.Aspettare che cosa? Che gli notifichino la decisione del giudice? Ma può esser sicuro che tale decisione gli verrà notificata? Non tanto: tale decisione, infatti, non è impugnabile (v. sub 36)0 (strano ma vero: il giudice prende una decisione che comporta come unica conseguenza negativa il pagamento di qualche decina di euro — si pensi alla condanna per un reato contravvenzionale — ed il legislatore concede all’imputato e al suo difensore addirittura il diritto di impugnarla davanti alla Corte Suprema; si dà poi il caso che il giudice prenda, come nella fattispecie in esame, una decisione che, praticamente, negando all’imputato il giudizio 0 Che recita: “(I provvedimenti per cui non sono prescritte le forme della sentenza, dell’ordinanza, del decreto) sono adottati senza l’osservanza di particolari formalità e, quando non è stabilito altrimenti, anche oralmente”. E’ solo quando il processo è giunto ad una certa “maturazione” che il Legislatore impone di dichiarare l’incompetenza con sentenza. Per cui il giudice “se riconosce la propria incompetenza”, “nel corso delle indagini preliminari”, “pronuncia ordinanza” (co.1 art. 22), se la riconosce “dopo la chiusura delle indagini preliminari”, “la dichiara con sentenza” (co.3 art. 22). Nel caso, poi, l’incompetenza sia rilevata nel dibattimento, va da sé che essa viene dichiarata con sentenza (v. artt. 23 e 24).0 Infatti sono impugnabili solo quei provvedimenti che tali la Legge dichiara (v. meglio, l'art. 568 c.p.p.) e la decisione emessa sull’istanza di restituzione in termini non è dichiarata dalla Legge tale (v. art. 175).

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abbreviato, gli brucia anche la possibilità di ottenere 3 o 4 mesi di reclusione in meno0 e contro tale decisione, che sia, o no, sospetta di aver bene interpretato la legge, il legislatore non dà nessuna chance di proporre impugnazione: non è strana la nostra legge?!) e siccome tale decisione (id est, la decisione che respinge l’istanza di restituzione in termini) non è impugnabile, neanche andrebbe notificata0. Ma il buon senso nelle nostre aule giudiziarie non è del tutto assente: in conformità ad una prassi (lodevole!), il giudice fece notificare all’imputato il suo provvedimento (che per la storia e a lode del giudice era anche motivato benino).

4. In difesa di Sai (al dibattimento)

Riprendiamo il discorso (iniziato nel precedente paragrafo) sul nostro Sai: egli, dunque, ha perso il treno: ricevuto il decreto di giudizio immediato non è riuscito a presentare l’istanza di giudizio abbreviato nei termini: deve quindi rassegnarsi ad essere giudicato col rito ordinario, a meno di scoprire una nullità nel decreto di citazione stesso. Ed, infatti, se viene dichiarata la nullità del decreto, il GIP dovrà emetterne un altro0 e il Sai, rispetto a tale nuovo decreto, riuscirà certamente, fatto frutto dell’amara esperienza passata, a proporre nei termini di legge la richiesta di abbreviato.Pertanto, io, difensore, mi metto di buona lena a cercare la (sperata) nullità del decreto; ma questo, purtroppo, mi sembra sostanzialmente valido: il giudice (esperto) non si è limitato ad individuare l’imputato con le generalità (se lo avesse fatto, allora, sì, che sarebbe caduto in un “fatale” errore: l’imputato infatti è un “alias”, una persona cioè, di cui non si conoscono le esatte generalità)0, ma lo ha

0 A tanto potrebbe equivalere quella riduzione di un terzo che premia l’imputato che ha richiesto il rito speciale (v. art. 442 co.2 c.p.p.).0 L’art. 128 c.p.p., infatti, recita: “Salvo quanto disposto per i provvedimenti emessi nell’udienza preliminare e nel dibattimento, gli originali dei provvedimenti del giudice sono depositati in cancelleria entro cinque giorni dalla dichiarazione. Quando si tratta di provvedimenti impugnabili, l’avviso di deposito contenente l’indicazione del deposito è comunicato al pubblico ministero e notificato a tutti coloro cui la legge attribuisce il diritto di impugnazione”.0 Vedi l’art. 185 c.p.p., che recita, nel suo secondo comma: “Il giudice che dichiara la nullità di un atto ne dispone la rinnovazione”; e, nel suo terzo comma: “La dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato e al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo”.0 Ciò che non impedisce all’A.G. di procedere oltre nel giudizio; infatti per il c.p.p. art. 66 “L’impossibilità di attribuire all’imputato le sue esatte generalità non pregiudica il compimento di alcun atto da parte dell’autorità procedente, quando sia certa l’identità fisica della persona”.

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individuato, mediante il “cartellino dattiloscopico”; l’oggetto dell’imputazione è sostanzialmente bene individuato, insomma tutte le prescrizioni del combinato disposto degli articoli 456 co.1 e 429 c.p.p. sembrano rispettate. Sto già cadendo nello sconforto quando un’idea luminosa mi attraversa la mente: ma il Sai, in sede di convalida (art. 391 c.p.p.), non aveva eletto domicilio presso di me? certo che si! ed allora perché hanno notificato in carcere e non presso il mio studio? Un momento di riflessione ed arriva la risposta (però non soddisfacente): hanno così notificato in carcere in ossequio al combinato-disposto degli articoli 156 e 164 c.p.p.0. Un ossequio, però, fatto a sproposito: il suddetto combinato-disposto si applica nel caso di elezione di domicilio fatta prima della restrizione in carcere (Sai il 1 gennaio 2001 elegge domicilio, il 15.01.2001 viene arrestato: allora, sì, che la elezione di domicilio si caduca e le notifiche vanno fatte nel luogo di detenzione)0, ma non si applica, invece, nel caso in cui l’elezione di domicilio sia fatta durante lo stato di detenzione (Sai, arrestato il 15.01.01, lo stesso 15.01.01 o nei giorni successivi fa l’elezione)0.Chiara dunque la nullità della notifica!0 E da ciò, deduco esultante, consegue necessariamente la nullità del decreto di citazione0.

0 L’art. 164 c.p.p. recita: “La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto è previsto dagli artt. 156 e 613 comma 2, c.p.p.”.Il co. 1dell’art. 156 recita: “Le notificazioni all’imputato detenuto sono eseguite nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona”.0 E ciò per l’intuitiva ragione che i motivi, che rendevano il 01.01.2001 opportuna l’elezione di domicilio (metti che Sai conducesse vita vagabonda e sentisse l’esigenza di un porto sicuro in cui le notifiche a lui fatte potessero approdare), una volta che Sai è detenuto, presumibilmente vengono a mancare (infatti, una volta detenuto, il modo più sicuro per Sai di ricevere le notifiche è che queste gli vengano fatte in carcere).0 E infatti il detenuto può ben avere interesse che le notifiche siano fatte putacaso (ed è il caso più ovvio e più frequente) al difensore: forse che da una notifica non decorrono spesso dei termini perentori ma utili per il compimento di atti rilevantissimi (ad esempio, i termini previsti dagli artt. 446 co.1, 458 co.1)? Forse che il compimento di tali atti in pratica non è eseguito dal difensore? E, allora, perché impedire al detenuto di evitare giri viziosi facendo pervenire subito la notifica al suo difensore?!0 Vedi art. 171 lett.d, c.p.p., secondo cui “la notificazione è nulla se sono violate le disposizioni circa la persona a cui deve essere consegnata la copia”.0 Vi era un altro problema che la causa avrebbe potuto presentare, una volta ritenuta la nullità della notifica; ed era questo: la comparizione dell’imputato (o la sua rinuncia a comparire) non avrebbe avuto l’effetto di sanare la nullità? Tale problema avrebbe tratto la sua (apparente) validità dal disposto dell’art. 184 c.p.p., secondo cui “la nullità di una citazione o di un avviso ovvero delle relative comunicazioni e notificazioni è sanata se la parte interessata è comparsa o ha rinunciato a comparire”. Senonché tale disposizione è un corollario del principio processuale (espressamente dichiarato nel C.P.C., però e non

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Si tratta ora di far valere tale nullità senza incorrere in nessuna decadenza. Mi leggo gli articoli 178, 179, 180, 181 c.p.p.: risultato, navigo in piena confusione di idee: nella previsione di quale articolo ricadrà la “mia” nullità? Direi nella previsione dell'art. 179; sì, ma, in materia così opinabile, sarà identica alla mia, la interpretazione del giudice? Non corriamo rischi, mi dico, mettiamoci nella ipotesi più sfavorevole: cioè nell’ipotesi di nullità prevista dall’art. 181 co.3.Di conseguenza, mi regolo come se dovessi sollevare l’eccezione di nullità “entro il termine previsto dall’art. 491 comma 1”. Però, prudentemente, non aspetto l’udienza per sollevare l’eccezione. E questo per due motivi: primo, perché il giudice, all’udienza, non ha tempo di approfondire le questioni e, se si trova di fronte ad un’eccezione difficile, che cioè involge complicati problemi giuridici é portato a rigettarla; secondo (motivo), perché “il termine previsto dall’art. 491” è un termine “sfuggente”: nel senso che il difensore, nella confusione dell’udienza, può trovarsi ad averlo sorpassato senza neanche accorgersene: l’ufficiale giudiziario chiama le parti e i testimoni (mentre gli avvocati parlano tra di loro o tra di loro e il P.M. o tra di loro e il presidente, insomma mentre vi è completa confusione) e poi il presidente (senza di solito dichiarare aperto il dibattimento, senza che l’ausiliario dia lettura dell’imputazione — come invece pretenderebbe l’art. 492: se lo legga lo studioso) invita il P.M. e le parti a fare le loro richieste; ed a questo punto già si è decaduti dal termine. Ecco perché non aspetto l’udienza per sollevare l’eccezione di nullità, ecco perché prendo carta e penna e redigo una sintetica memorietta in cui sollevo l’eccezione; memorietta che due o tre giorni prima dell’udienza deposito in cancelleria.Viene, poi, l’udienza e io chiedo al giudice licenza di proporre la questione preliminare concernente la nullità (art. 491 co. 1): sì, è vero, la questione è stata avanzata nella memoria, però ciò non basta: il principio dell’oralità vuole che la sua esistenza venga palesata oralmente (forse che l’istanza non può, nella congerie di carte processuali che infoltiscono sempre di più i fascicoli del dibattimento e del P.M.0, sfuggire all’attenzione di una parte?).

nel C.P.P.) che il raggiungimento dello scopo di un atto ne sana la nullità.Di conseguenza, era da ritenersi, sì, che la comparizione dell’imputato —dimostrando che, comunque sia, lo scopo di informarlo dell’udienza era stato raggiunto (se non dalla notifica irregolare dell’atto, in qualche altra maniera) -sanava la nullità di quella parte dell’atto che aveva la funzione di informare il notificando dell’udienza; però era anche da ritenersi che essa (id est la comparizione dell’imputato) non sanava la nullità di quella parte dell’atto che aveva la funzione di “dar termine” al notificando per presentare la richiesta di abbreviato. Debbo dire, però, che, nella causa oggetto del nostro studio, il problema ora accennato (cioè il problema della sanatoria della nullità in seguito alla comparizione dell’imputato) neanche si pose.0 Ma, a proposito, in quale dei due fascicoli l’istanza veniva a trovarsi? Nel fascicolo del dibattimento (non in quello del P.M.), non c’è da dubitarne; anche se, sul punto, il codice

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