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3 Gennaio 2016 Portfolio materiali, indirizzi, riferimenti (selezione a cura di Francesca Lazzari) 1. Alcune definizioni preliminari prima di approfondire Il concetto di beni comuni (“common goods”), in economia, indica originariamente quei beni quali le risorse naturali (acqua, la fauna, ecc.) esauribili, ma dal cui sfruttamento nessuno può essere escluso. I beni comuni sono anche definiti più precisamente come “beni di proprietà comune” – il che non va confuso con la proprietà pubblica, cioè dello Stato o altra istituzione pubblica. Per beni comuni non s’intendono solo le risorse naturali in quanto tali, ma anche i diritti collettivi d’uso, da parte di una determinata comunità, a godere dei frutti di quella data risorsa, diritti denominati usi civici. Ciò che contraddistingue sia i beni comuni sia gli usi civici è la particolare forma di proprietà e di gestione degli stessi, forma che è comunitaria, e che pertanto non è né pubblica né privata. Contrariamente a quanto si crede, gli usi civici e le terre collettive esistono ancora e sono importanti anche nei paesi industrializzati: in Italia, ad esempio usi civici e terre collettive ricoprono ancora un sesto del territorio nazionale. Una seconda categoria di beni comuni comprende i beni comuni globali: l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace, ma anche la conoscenza, i brevetti, Internet, cioè tutti quei beni che sono frutto della creazione collettiva. Questi beni solo recentemente sono stati percepiti come beni comuni globali, dal momento in cui sono sempre più invasi ed espropriati, ridotti a merce, recintati ed inquinati, e il loro accesso è sempre più minacciato. Una terza categoria di beni comuni è quella dei servizi pubblici forniti dai governi centrali e locali in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini, bisogni che ovviamente variano nel tempo. Si tratta di servizi quali: erogazione dell’acqua, della luce, il sistema dei trasporti, la sanità, la sicurezza alimentare e sociale, tutela e conservazione del verde pubblico (parchi, aree attrezzate, ambiente naturale, paesaggio…) , conservazione e fruizione del patrimonio culturale (musei, biblioteche, monumenti, architetture,..), l’amministrazione della giustizia. Beni comuni urbani. Sono beni comuni quei beni, materiali, immateriali e digitali, che cittadini e amministrazione riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo, il cui arricchimento arricchisce tutti e il cui impoverimento impoverisce tutti. 1

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3 Gennaio 2016

Portfolio materiali, indirizzi, riferimenti (selezione a cura di Francesca Lazzari)

1. Alcune definizioni preliminari prima di approfondire

Il concetto di beni comuni (“common goods”), in economia, indica originariamente quei beni quali le risorse naturali (acqua, la fauna, ecc.) esauribili, ma dal cui sfruttamento nessuno può essere escluso. I beni comuni sono anche definiti più precisamente come “beni di proprietà comune” – il che non va confuso con la proprietà pubblica, cioè dello Stato o altra istituzione pubblica. Per beni comuni non s’intendono solo le risorse naturali in quanto tali, ma anche i diritti collettivi d’uso, da parte di una determinata comunità, a godere dei frutti di quella data risorsa, diritti denominati usi civici. Ciò che contraddistingue sia i beni comuni sia gli usi civici è la particolare forma di proprietà e di gestione degli stessi, forma che è comunitaria, e che pertanto non è né pubblica né privata. Contrariamente a quanto si crede, gli usi civici e le terre collettive esistono ancora e sono importanti anche nei paesi industrializzati: in Italia, ad esempio usi civici e terre collettive ricoprono ancora un sesto del territorio nazionale.

Una seconda categoria di beni comuni comprende i beni comuni globali: l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace, ma anche la conoscenza, i brevetti, Internet, cioè tutti quei beni che sono frutto della creazione collettiva. Questi beni solo recentemente sono stati percepiti come beni comuni globali, dal momento in cui sono sempre più invasi ed espropriati, ridotti a merce, recintati ed inquinati, e il loro accesso è sempre più minacciato.

Una terza categoria di beni comuni è quella dei servizi pubblici forniti dai governi centrali e locali in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini, bisogni che ovviamente variano nel tempo. Si tratta di servizi quali: erogazione dell’acqua, della luce, il sistema dei trasporti, la sanità, la sicurezza alimentare e sociale, tutela e conservazione del verde pubblico (parchi, aree attrezzate, ambiente naturale, paesaggio…) , conservazione e fruizione del patrimonio culturale (musei, biblioteche, monumenti, architetture,..), l’amministrazione della giustizia.

Beni comuni urbani.Sono beni comuni quei beni, materiali, immateriali e digitali, che cittadini e amministrazione riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo, il cui arricchimento arricchisce tutti e il cui impoverimento impoverisce tutti.

Beni comuni. Definizioni webBene comune è un termine riferibile a diversi concetti. Nell'accezione popolare viene definito bene comune uno specifico bene che è condiviso da tutti i membri di una specifica comunità. http://it.wikipedia.org/wiki/Beni_comuni

I beni comuni fondamentali, materiali e immateriali, sono patrimonio collettivo dell'umanità. Risorse collettive, cui tutte le specie hanno uguale diritto; sono pertanto il fondamento della ricchezza reale”. (Giovanna Ricoveri, economista e ambientalista)

 “I beni culturali sono beni inclusivi, beni di tutti che non escludono nessuno, la cui intenzionalità è promuovere l'essere e l'agire di una comunità, in un rinnovato rapporto nel tempo e nello spazio. Una memoria non ridotta a gusto retrò che si esaurisce in un collezionismo o in un mero consumismo culturale. Beni culturali come segni e strumenti di un bisogno di città, luogo del vivere e del convivere in cui si intrecciano percorsi di vita, di lavoro, in cui si costruisce quel progetto di comunità tra radicamento sul territorio e coscienza di universalità. Il ruolo dell'ente locale deve essere quello di tenere insieme lo sviluppo di un progetto in divenire, facendosi interlocutore di tutte le realtà interessate a una città intesa non tanto (non solo) come spazio da utilizzare, ma come centro di trasformazione e luogo di ricerca di identità culturali in grado di recuperare la memoria del passato, ma anche di costruire prospettive nuove, visibili disegnate sul territorio.” (Francesca Lazzari, in Spazio pubblico. Declino, difesa, riconquista. a cura di Fabrizio Bottini, ed. EDIESSE)

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2. Approfondimento

BibliografiaGarret Hardin, The tragedy of Commons, in “Science”,n.162, 1968Elinor Ostrom, Governare i beni collettivi. Istituzioni pubbliche e iniziative delle comunità,Marsilio, 2006Giovanna Ricoveri a cura di, Beni comuni fra tradizione e futuro, Quaderni del CNS-Ecologia politica) EMI, 2005

Nel corso del XVII secolo in Inghilterra scomparvero le terre comuni o comunitarie, icommons quelle che per diritto consuetudinario erano di uso collettivo delle popolazioni rurali. Recintate poco a poco, furono trasformate in proprietà privata con leggi apposite, Enclosure Bills, leggi sulla recinzione. La scomparsa dei commons fu una premessa della rivoluzione industriale, le terre erano recintate perché servivano all'allevamento intensivo di pecore la cui lana era necessaria alla nascente industria tessile, e fu seguita da un'offensiva ideologica contro l'uso condiviso della terra, a favore della libertà di trasformarla in bene commerciale. Le terre di uso comune però non sono tutto scomparse (terre, pascoli, foreste, e sorgenti d'acqua da cui attingere, o fiumi e lagune con i pesci che vi si possono pescare, e così via): forme di proprietà e uso collettivo restano molto diffusi nel grande Sud del mondo e in parte, sotto forma di usi civici, perfino nella vecchia Europa. La battaglia attorno ai beni comuni, non è scomparsa così come la spinta a recintarli/privatizzarli anzi si è accentuata. E ormai non si tratta solo terre o risorse naturali, ma di un'amplissima gamma di beni e servizi necessari alla sussistenza degli umani e al loro benessere collettivo. Beni privati, beni pubblici e beni comuniSecondo la teoria economica e la definizione del premio Nobel per l'economia, Paul Samuelson, le caratteristiche che distinguono i beni pubblici da quelli privati sono due. I beni pubblici possono essere simultaneamente fruiti da più individui, principio della non rivalità, e nessun individuo può essere escluso dalla loro fruizione, principio della non escludibilità. Queste due caratteristiche, tuttavia, non fanno i conti con il vincolo costituito dalla scarsità del bene. Essendo il bene pubblico limitato, va da sé che la simultanea fruizione da parte di più utenti è soggetta ad una soglia di fruibilità, che pone limiti alla quantità dei fruitori e quindi impone condizioni di escludibilità, necessarie per evitare l’esaurimento del bene stesso o il prodursi di congestione che riduce, fino al limite di annullare, l’utilità del bene stesso.I beni comuni sono quindi secondo questi parametri non escludibili ma rivali. A questo riguardo nel 1968 Garret Hardin, un biologo, ha scritto un articolo, dal titolo “The Tragedy of the Commons”,che nel corso degli anni è stato preso come punto di riferimento nel dibattito sui beni comuni. Commons è l’antica denominazione anglosassone delle terre comuni. La sua tesi è che la debolezza dell’idea di bene comune sta proprio nella libertà del suo uso da parte di chiunque: “il fatto stesso che i commons siano di libero accesso e che non esista la possibilità di limitare il numero degli utilizzatori porta a una situazione dove il comportamento razionale di ciascuno di loro non può che causare il degrado o la distruzione della risorsa stessa, poiché essi si trovano intrappolati in una tragedia della libertà basata su di un irrisolvibile conflitto tra interessi individuali e interesse collettivo, con l’inevitabile prevalere del primo sul secondo”.L'idea di matrice essenzialmente economica di Hardin, è stata però messa in discussione dalla ricercatrice Elinor Ostrom con la pubblicazione nel 1990 di “Governare i beni collettivi”. In essa viene rilevato che, tanto la gestione autoritaria-centralizzata dei beni quanto la sua privatizzazione, non costituiscono la soluzione né sono prive di problemi rilevanti. In “Governare i beni collettivi”, partendo dallo studio di casi empirici, nei quali viene mostrato come gli individui reali non siano irrimediabilmente condannati a rimanere imprigionati nei problemi legati allo sfruttamento in comune di una risorsa, è posta in discussione soprattutto l'idea che esistano dei modelli applicabili universalmente.Al contrario, in molti casi, le singole comunità appaiono essere riuscite a evitare i conflitti improduttivi e a raggiungere accordi su una utilizzazione sostenibile nel tempo delle risorse comuni tramite l'elaborazione endogena di istituzioni deputate alla loro gestione. Nonostante siano presenti ovunque i beni comuni, sono difficili da definire, forniscono sussistenza, sicurezza e indipendenza ma non sono merci. Normalmente è la comunità locale che decide chi può usarli e come. Si possono distinguere tre categorie di beni comuni.Una prima categoria comprende: l’acqua, la terra, le foreste e la pesca, navale a dire i beni di sussistenza da cui dipende la vita, in particolare quella degli agricoltori, dei pescatori e dei nativi che vivono direttamente sulle risorse naturali. A questa categoria di beni comuni appartengono anche: i saperi locali, i semi selezionati nei secoli dalle popolazioni locali, il patrimonio genetico dell’uomo e di tutte le specie vegetali e animali, la biodiversità.

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Per beni comuni non s’intendono solo le risorse naturali in quanto tali, ma anche i diritti collettivi d’uso, da parte di una determinata comunità, a godere dei frutti di quella data risorsa, diritti denominati usi civici. Ciò che contraddistingue sia i beni comuni sia gli usi civici è la particolare forma di proprietà e di gestione degli stessi, forma che è comunitaria, e che pertanto non è né pubblica né privata. Contrariamente a quanto si crede, gli usi civici e le terre collettive esistono ancora e sono importanti anche nei paesi industrializzati: in Italia, ad esempio usi civici e terre collettive ricoprono ancora un sesto del territorio nazionale.Una seconda categoria di beni comuni comprende i beni comuni globali: l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace ma anche la conoscenza, i brevetti, Internet, cioè tutti quei beni che sono frutto della creazione collettiva. Questi beni solo recentemente sono stati percepiti come beni comuni globali, dal momento cioè in cui sono sempre più invasi ed espropriati, ridotti a merce, recintati ed inquinati, e il loro l’accesso è sempre più minacciato.Una terza categoria di beni comuni è quella dei servizi pubblici forniti dai governi in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini, bisogni che ovviamente variano nel tempo. Si tratta di servizi quali: erogazione dell’acqua, della luce, il sistema dei trasporti, la sanità, la sicurezza alimentare e sociale, l’amministrazione della giustizia. i processi di privatizzazione di alcuni servizi che distribuiscono i beni comuni ne mettono a rischio l’accesso universale. Liberalizzare e brevettareSulla liberalizzazione dei servizi pubblici, tra cui l’acqua, sono in corso accordi internazionali come il General Agreement on Trade on Services (GATS) Accordo Generale sul Commercio di Servizi,   che tendono a due obiettivi fondamentali: rendere i servizi pubblici compresa l’istruzione, la sanità, la distribuzione di acqua, gas, elettricità, ecc. aperti alla concorrenza internazionale e, di conseguenza, privatizzare i servizi pubblici. La stessa Unione Europea, ispirandosi all’analisi ed alle proposte della Banca mondiale, continua a propugnare la liberalizzazione e privatizzazione dei beni comuni come mezzi di scambio nei rapporti commerciali, come risulta dagli ultimi negoziati con i paesi ACP   (Africa, Caraibi e Pacifico) eMERCOSUR, mercato comune del sud America.L’altra crisi investe, come accennato, i servizi che assicurano, più che i beni comuni, il bene comune: l’istruzione, la sanità, l’assistenza e la previdenza sociale. Ultimo ma non meno importante e particolarmente significativo è il capitolo riguardante la conoscenza come bene comune: i brevetti delle idee, il software in particolare, l’estensione del copyright ai contenuti digitali, le politiche che tendono a rendere reato la condivisione delle conoscenze, delle formule chimiche e quindi dei principi attivi dei farmaci e perfino del codice genetico, la cosiddetta biopirateria, pongono un forte interrogativo sul futuro del progresso scientifico e tecnologico.Infine, il tema dei beni comuni sottende ad un recupero di modelli di compartecipazione e di decisione basati sulla democrazia diretta, partecipativa, per tutti coloro che hanno diritto all’accesso aperto ai beni comuni, siano municipalità o gruppi e reti cittadine, soggetti singoli o collettivi di cui negli ultimi anni si stanno occupando fra gli altri l'ARNM (Associazione Reti Nuovo Municipio). I mercati globali e lotte per la terraCon il diffondersi del modo di produzione industriale che è penetrato in ogni angolo del pianeta, ai beni comuni si è andata contrapponendo una categoria totalmente diversa di prodotti: quella del cibo/merce,destinato ad esportazioni in località lontane ad opera di aziende agricole e commerciali moderne e specializzate, che mirano sistematicamente ad incrementare le rese unitarie e ad abbattere i costi di produzione. Questo modello economico, funzionale allo sviluppo di mercati nazionali o sovranazionali per l’approvvigionamento di vaste masse di consumatori, è stato progettato e controllato nel corso della storia recente. In particolare dalle classi dirigenti degli stati nazionali moderni, dal sistema organizzativo delle imprese nazionali e multinazionali e da istituzioni sovranazionali del calibro del Fondo Monetario Internazionale (FMI), della  Banca Mondiale  e dell'Organizzazione Mondiale del Commercio WTO.A queste organizzazioni si oppongono da ormai un decennio i movimenti della società civile, che a partire da Seattle propongono modelli diversi, e in varie arene alternative, come ilForum Sociale Mondiale. L’autosufficienza, la sovranità e la sicurezza alimentare delle popolazioni locali che delle risorse naturali vivono per assicurarsi il loro sostentamento hanno storicamente costituito per questi poteri centrali niente più che ostacoli da abbattere sulla strada maestra dello sviluppo dell’agricoltura e, soprattutto, dell’incremento dei commerci.Il meccanismo dei mercati globali hanno piegato il vivente alle loro aspettative di crescita illimitata, e per realizzare questo obiettivo hanno fatto ricorso a ogni tipo di manipolazione meccanica o biochimica dei fattori di produzione, impiegando le ingenti possibilità tecnologiche grazie alle fonti energetiche fossili e ai prodotti chimici di sintesi. Ciò ha comportato l’immissione di enormi quantità di sostanze nocive e persino

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di OGM (organismi geneticamente modificati) negli ecosistemi, con i relativi impatti destabilizzanti, sulla salute umana, sui sistemi biologici e sullo stesso clima terrestre per via dell’effetto serra.Ormai è ampiamente riconosciuto da studiosi avveduti e persino dalla FAO l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, che le policolture tradizionali di piccola scala sono quantitativamente più produttive delle monocolture convenzionali; eppure il senso comune dei cittadini del Nord del mondo continua a nutrire la falsa convinzione che solo l’agricoltura industriale sia in grado di sfamare un’umanità in crescita. Invece una delle principali cause della fame nel mondo sta proprio nel fatto che nei Paesi impoveriti gli ecosistemi vengono sistematicamente sfruttati mediante produzioni da reddito di ogni genere da esportare principalmente nei Paesi ricchi, in tal modo sottraendo risorse vitali indispensabili alla sussistenza di tanta parte delle popolazioni locali.In tante parti del mondo i poveri rurali lottano contro i piani dei detentori di capitali quando questi minacciano le possibilità di accedere a un’esistenza dignitosa, in nome del diritto all’autogoverno sostenibile dei territori in cui vivono. Tra i più conosciuti il Movimento Sem Terra, che si batte per la riforma agraria in Brasile, ma sono innumerevoli gli episodi di sofferenza di popolazioni locali colpite da provvedimenti di sviluppo territoriale che rimangono spesso sconosciuti.E’ questo il caso ad esempio delle enclosures (privatizzazioni forzate) di vastissime terre ancestrali realizzate da vari decenni e in particolar modo negli anni ’80 lungo il corso del fiume Senegal per l’insediamento di grandi opere idrauliche e relativi progetti di agricoltura irrigua orientata all’esportazione. Le conseguenze sono state devastanti per i modi di vita tradizionali, con vaste folle di rifugiati ambientali costretti a lasciare le loro terre e sanguinosi scontri cosiddetti etnici tra soggetti che si contendono risorse idriche sempre più scarse per motivi climatici ma soprattutto per l’avidità di chi si avvale di possibilità tecniche di utilizzo in Oceania, Sudamerica, Africa e non solo. 

La "guerra" dell'acquaLa situazione maggiormente critica attualmente è rappresentata dall’acqua, bene comune per eccellenza, assolutamente indispensabile alla vita. Sebbene ovviamente nessuno abbia mai proposto la privatizzazione della risorsa in sé, i processi di privatizzazione che coinvolgono le reti idriche nei fatti compromettono lo status di bene comune: dove gli acquedotti sono stati privatizzati, la logica del profitto ha provocato consistenti aumenti delle tariffe, un peggioramento della qualità dell’acqua, l’esclusione dei morosi e delle fasce sociali più deboli.Inoltre, nei paesi più poveri l’accesso all’acqua è divenuto motivo di conflitti le cosiddetteguerre dell’acqua spesso dovuti un processo di colonizzazione che i paesi ricchi hanno attuato nei paesi poveri, dove la maggior parte degli acquedotti è in mano a società europee e americane. Emblematiche sono state le giornate di aprile del 2000, quando tutta la città di Cochabamba è scesa nelle strade per manifestare contro la decisione di una multinazionale statunitense, Bechtel di privatizzare le risorse idriche del paese, che costrinsero il governo a revocare la legislazione sulla privatizzazione.Nel mondo, i movimenti sociali sono sempre più i protagonisti delle lotte in difesa di un’agricoltura legata ad un nuovo rapporto con la terra e per la democrazia delle risorse idriche. In Italia, associazioni, gruppi e comitati locali già dal 2005 sono attive nei territori decine di vertenze aperte da cittadini, lavoratori ed anche amministratori locali che sono portatrici di un’esigenza comune e condivisa, cioè la necessità di una svolta radicale rispetto alle politiche liberiste che hanno fatto dell’acqua una merce e del mercato il punto di riferimento per la sua gestione, provocando dappertutto degrado e spreco della risorsa, peggioramento della qualità del servizio, aumento delle tariffe, riduzione degli investimenti, diseconomie della gestione.Nascono così vari coordinamenti come il Forum italiano dei movimenti per l'acqua che hanno promosso raccolta firme per la presentazione di una legge di iniziativa popolare in favore della pubblicizzazione dell'acqua in quanto con l'articolo 23bis della legge 133/2008, si affida "il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica".Inoltre da ricordare la campagna della rivista Altreconomia “Imbrocchiamola!” per diffondere l'uso dell'acqua del rubinetto, sono più di mille, in tutte le Regioni italiane, i ristoranti e i locali pubblici che hanno aderito. Intanto la Bolivia e l' Ecuador, hanno recentemente approvato una nuova Carta costituzionale, che estende i diritti sociali all'acqua, al cibo, alla casa, all'energia, all'istruzione, alla salute e difende la natura e le risorse che sono alla base di quei diritti.

La definizione originaria di “beni comuni” e il problema del loro sfruttamentoIl concetto di “beni comuni” (“common goods”), in economia, indica originariamente quei beni quali le

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risorse naturali (acqua, la fauna, ecc.) esauribili, ma dal cui sfruttamento nessuno può essere escluso. I beni comuni sono anche definiti più precisamente come “beni di proprietà comune” – il che non va confuso con la proprietà pubblica, cioè dello Stato o altra istituzione pubblica. Si tratta di una distinzione non secondaria, di cui parleremo più avanti, perché presuppone un diverso modello di gestione, al di là della “mera proprietà”. Il problema originario dei beni comuni era (ed è) quello di stabilire delle regole che permettessero lo sfruttamento tendenzialmente universale della risorsa prevenendone l’esaurimento. Come scrisse il biologo Garrett Hardin, nel noto saggio “The tragedy of the commons”, pubblicato su “Science” nel 1968, il problema della preservazione dei beni comuni è nel loro libero accesso. Prendiamo l’esempio di un terreno destinato a pascolo: finquando gli allevatori avranno poche mucche, non sussiste impedimento allo sfruttamento del pascolo da parte di chiunque. La situazione è di equilibrio: quattro o cinque pastori portano le vacche al pascolo (diciamo dieci ciascuno), queste mangiano l’erba in quantità tale da permetterne la rigenerazione. I loro escrementi concimano il terreno, favorendo la crescita del pascolo. Tutto insomma procede per il meglio, nel rispetto degli equilibri naturali, nonostante il fatto che stiamo esaminando una situazione artificiale, nella quale c’è l’intervento dell’uomo. Si tratta tuttavia di un intervento compatibile con i cicli naturali, che non sconvolge l’ecosistema del pascolo, ma semplicemente riproduce, per trarne profitto, una situazione simile a quella che si sarebbe prodotta spontaneamente.Se però uno degli allevatori decide un giorno di acquistare altro bestiame, diciamo altri 100 capi, e di lasciarlo pascolare liberamente sul terreno, il consumo d’erba sarà eccessivo ed essa non avrà il tempo di ricrescere. Gli zoccoli degli animali compatteranno il terreno, ostacolando l’insediamento dei semi e quindi la crescita di nuova erba. In breve, il pascolo sparirà, lasciando il posto ad un terreno spoglio, con grave danno per gli altri allevatori, ma anche per il “colpevole”. Ecco quindi la tragedia: un bene comune, in quanto tale, deperisce a causa del suo sfruttamento. Non essendovi regole che possano impedire ad uno degli allevatori di far pascolare solo 10 capi invece che 110, inevitabilmente accadrà che prima o poi qualcuno vorrà approfittare della gratuità del bene, sottraendolo agli altri (ma a lungo termine anche a se stesso). La tragedia è insita, dice Hardin, nella natura del bene comune.A ben vedere, si tratta di una formulazione del classico “dilemma del prigioniero”. Due detenuti sono rinchiusi in celle separate. Non possono comunicare tra loro. Sanno che se collaborano con la giustizia verrà loro dimezzata la pena, ma se lo fanno dovranno inevitabilmente accusare l’altro e questi verrà condannato ad una pena più dura. Si può dimostrare che egoisticamente entrambi tenderanno a confessare, condannandosi a vicenda. La soluzione più vantaggiosa del dilemma, al contrario, sarebbe quella di non collaborare con la giustizia, ma di essere solidali con il proprio complice-vicino. Così nei beni comuni: approfittare del bene, alla fine, danneggia anche chi lo fa, mentre il comportamento più equo e solidale è quello che assicura forse profitti immediati meno esorbitanti, ma allunga la disponibilità del bene stesso.Alla provocazione di Hardin si è risposto con la formazione di due scuole di pensiero. La prima, quella che chiameremo liberista, sostiene che la soluzione della tragedia va ricercata nel mercato. Privatizzare i beni comuni, si sostiene, costituisce un freno all’eccesso di sfruttamento. Riprendendo l’esempio del pascolo, si potrebbe privatizzare il terreno, magari dividendolo tra i diversi allevatori. Nessuno di loro, quindi, potrà depauperare le risorse dell’altro e il pascolo rimarrà in equilibrio. E’ facile però obiettare che nessuno assicura che tutti gli allevatori sfrutteranno la loro parte oltre il limite di sopportazione sistema-pascolo. Può al contrario accadere facilmente che uno di loro decida di farvi pascolare 100 capi. Per un breve periodo, fin quando il pascolo non si sarà esaurito, l’allevatore “rampante” guadagnerà dieci volte il profitto dei suoi concorrenti i quali, a loro volta, saranno indotti a comportarsi alla stessa maniera, distruggendo l’intera risorsa. La natura della proprietà, quindi, non pare essere un freno alla “cupidigia” dei singoli. Inoltre c’è una questione che non viene affrontata: quando il terreno era un bene comune, in ogni momento un nuovo allevatore poteva decidere di farvi pascolare la propria mandria ma, una volta diviso tra gli allevatori originari, solo loro e i loro eredi potranno sfruttare l’erba che vi cresce. Del resto “privato” non è forse il participio passato di “privare”?Si potrebbe anche pensare che il terreno, stavolta indiviso, venga acquistato da una persona esterna al gruppo di allevatori, la quale potrebbe affittare per l’uso pastorizio a chiunque. In tal modo – sostiene la scuola liberista – il proprietario si comporterà in modo tale che il pascolo rimanga sempre florido, poiché esso è la sua fonte di profitto e sarà suo interesse evitarne il depauperamento. Evidentemente non si può pensare che il proprietario ceda gratuitamente l’uso della risorsa, poiché non guadagnandoci nulla sarebbe indotto a lasciarla deperire. Ma anche in tal caso è facile obiettare che la gestione da parte del proprietario non sarà necessariamente la migliore possibile. Egli potrebbe decidere, ad esempio, di concederne l’uso esclusivo ad uno degli allevatori, dietro lauto compenso. Del resto l’allevatore potrebbe essere indotto a pagare anche un prezzo molto alto, pur di sbaragliare la concorrenza. Una volta incassato l’affitto, facilmente superiore al

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prezzo di acquisto del terreno, il nostro proprietario abbandonerà il pascolo al suo destino, vale a dire quello di diventare un fazzoletto di terra arido e ostile alla vita vegetale e animale. Al contrario, forse animato dal totem liberista della libera concorrenza e della mano invisibile del mercato, il proprietario potrebbe pubblicare un annuncio pubblicitario sui quotidiani dei paesi a valle: “Pascolo fresco a modico prezzo”, nel quale spiegherebbe come il suo pascolo, curato e innaffiato, sia migliore di quelli naturali o di quelli altrui. In tal modo, potrebbe ottenere che i più allevatori gli paghino l’affitto. Molto guadagno, ma anche molto più sfruttamento e deperimento della risorsa. Ancora, il nostro astuto capitalista in erba (erba da pascolo, ovviamente), potrebbe semplicemente proibire l’accesso a tutti: in tal modo il prezzo del pascolo accanto, sempre di sua proprietà, salirebbe vertiginosamente. E’ quel che accade nel mercato immobiliare, nel quale un certo numero di abitazioni viene tenuto appositamente sfitto per drogare il mercato. E ovviamente nessuno può impedirlo, a meno di violare il sacro diritto di proprietà.Infine (ma gli esempi potrebbero continuare ancora) il proprietario può anche decidere di costruire un bel villaggio turistico tra i monti proprio su quel terreno. Basterà pagare abbastanza un funzionario del Comune per ottenere il cambiamento di destinazione d’uso del terreno.La seconda scuola è quella che potremmo definire socialdemocratica classica. Essa sostiene che il bene comune va semplicemente statalizzato. Sarà infatti lo Stato a dare in concessione il pascolo ai diversi allevatori, in condizione di parità di accesso, o comunque lo sfrutterà per il bene di tutta la comunità. Non è forse lo Stato (almeno in un regime democratico) il più autentico rappresentante degli interessi generali? Vi sono molte ragioni per sostenere questa tesi, né è il caso qui di preoccuparsi di confutarla in nuce. E, tuttavia va rilevato come l’attuale crisi della democrazia rappresentativa, la sfiducia verso la politica di strati sempre maggiori della popolazione, la corruzione, e altri fenomeni degenerativi che in Italia abbiamo conosciuto fin troppo bene pongono qualche interrogativo sulla sufficienza di un controllo statale dei beni comuni. Né è possibile pensare che ognuno di questi possa essere efficacemente gestito attraverso concessioni che mettono in moto innumerevoli ingranaggi burocratici.La soluzione – che nasce dall’esperienza della democrazia partecipativa – come vedremo più avanti, è un’originale mix di autogoverno e socialdemocrazia. Una “terza via” tra il “privato” e lo “statale” che disegna una nuova idea di “pubblico” in cui lo Stato è uno degli attori, non l’unico.Gli obblighi verso i beni comuniDicevamo che la tragedia dei beni comuni consiste nella loro esauribilità e nell’accesso indiscriminato ad essi. Tuttavia beni che in origine erano considerati inesauribili sono diventati ben presto risorse scarse. Considerando ad esempio l’aria, essa poteva dirsi inesauribile prima dell’era industriale: oggi, invece, l’inquinamento ne compromette la qualità e la possibilità di “sfruttarla” per la vita, in quanto troppo “sfruttata” come deposito di scorie.La tutela dei beni comuni, quindi non può ridursi alla mera regolazione dell’accesso. Possiamo indicare alcuni obiettivi, alcuni “obblighi” verso di essi.• la prevenzione dell’esaurimento;• il mantenimento della qualità originaria;• il mantenimento – o addirittura l’incremento – della disponibilità della risorsa, stante l’incremento demografico e dei consumi;• l’accesso universale;• la difesa della proprietà comune del bene.Come si comprende facilmente, prevenire l’esaurimento del bene comune non significa solo normarne l’accesso, ma include anche il mantenimento della quantità e della qualità originaria del bene. Ad esempio, chi concede un bosco ad imprese di legname non può limitarsi ad assicurare l’accesso con criteri che rispettino la libera concorrenza, ma deve occuparsi anche del rimboschimento.Criticità attuali: acqua e saperiLa maggiore criticità attualmente è rappresentata dall’acqua, bene comune per eccellenza in quanto assolutamente indispensabile alla vita. Difatti, sebbene ovviamente nessuno abbia mai proposto la privatizzazione della risorsa in sé, i processi di privatizzazione che coinvolgono le reti idriche nei fatti compromettono lo status di bene comune: dove gli acquedotti sono stati privatizzati, infatti, la logica del profitto ha portato a consistenti aumenti delle tariffe, ad un peggioramento della qualità dell’acqua erogata, all’esclusione dei morosi e delle fasce sociali più deboli. Inoltre nei paesi più poveri l’accesso all’acqua è divenuto motivo di conflitti armati (“le guerre dell’acqua”). Per non parlare del processo di “colonizzazione” che i paesi ricchi hanno attuato nei riguardi della risorsa nei paesi poveri, dove la maggior parte degli acquedotti è infatti in mano a società europee e americane.Non sempre è stato così: Adam Smith, ad esempio, sosteneva che sebbene l’acqua abbia un grande valore

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d’uso, essa non possedeva alcun valore di scambio. Ogni volta che compriamo una bottiglia di acqua minerale contraddiciamo questa affermazione.Sulla liberalizzazione dei servizi pubblici (tra cui l’acqua) sono in corso accordi internazionali (il GATS – General Agreement on Trade on Services) che tendono a due obiettivi fondamentali:- rendere i servizi pubblici (compresa l’istruzione, la sanità, la distribuzione di acqua, gas, elettricità, ecc.) aperti alla concorrenza internazionale e, di conseguenza…- privatizzare i servizi pubblici.Un cenno d’obbligo merita anche la famosa (famigerata) direttiva Bolkenstein, che impone che un servizio erogato da un’impresa in uno Stato dell’Unione europea venga assoggettato alle norme presenti nel paese d’origine dell’impresa, creando così la possibilità di scardinare il sistema di protezione sociale più stringente dei paesi dell’Europa occidentale.L’altra criticità riguarda i servizi che assicurano, più che dei “beni comuni”, il “bene comune”: l’istruzione, la sanità, l’assistenza e la previdenza sociale.Last but not least, un capitolo particolarmente significativo è quello della Conoscenza come bene comune: la brevettazione delle idee (il software, in particolare), l’estensione del copyright ai contenuti digitali, le politiche che più in generale tendono a rendere reato la condivisione delle conoscenze, la brevettazione delle formule chimiche (e quindi dei principii attivi dei farmaci), la brevettazione del codice genetico fino alla cosiddetta biopirateria, pongono un forte interrogativo sul futuro del progresso scientifico e tecnologico, con tutte le ricadute facilmente immaginabili sull’intera umanità. Nei fatti i beni comuni legati all’immaterialità oggi sono sotto attacco almeno quanto quelli materiali. E nella società dell’informazione e della conoscenza, i saperi sono indispensabili quasi quanto l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo.Il problema della gestioneSi è detto che vi sono due modi “classici” per gestire i beni comuni: uno liberista e l’altro “statalista”. Ma l’esperienza della democrazia partecipativa, in particolare del bilancio partecipato, ci dà una terza possibilità: quella che prevede, accanto alle istituzioni pubbliche, comitati di cittadini e associazioni che dicano la loro sulle regole e sulle scelte concrete riguardanti la gestione del bene.Non si tratta di una novità tout court. Qualcosa di simile avveniva sin da Medioevo, soprattutto nei paesi anglosassoni, dove il concetto di “beni comuni” (i “commons”) ha valenza giuridica. Ma anche in Italia esiste una tradizione, che oggi va sotto il nome di “usi civici”. Terreni agricoli e pastorali che appartengono a comunità, gestiti da comitati di cittadini interessati al loro utilizzo, spesso in collegamento con l’istituzione del luogo. Un esempio sono le cosiddette “Regole trentine”, riformate in peius recentemente.Ad esempio, negli Ambiti Territoriali Ottimali per i servizi idrici, è possibile introdurre, accanto al comitato di gestione istituzionale, un comitato formato da cittadini e rappresentanti di associazioni con poteri effettivi di co-decisione. In tal modo il bene acqua cessa di essere un bene “statale” e ritorna alla sua natura di bene “comune”, “comunitario”.

3. Articolo tratto da Micromega di Enrico GrazziniRecentemente il concetto di “bene comune” è diventato molto popolare. Molto spesso, però, la sua definizione è confusa e ambigua. In Italia tende a prevalere una interpretazione giuridica, ma un grande contributo potrebbe venire dalle analisi che in ambito economico sono state condotte dal premio Nobel Elinor Ostrom.

Beni comuni e diritti di proprietà. Per una critica della concezione giuridica

Esistono diverse interpretazioni relative ai “beni comuni”. In effetti questa dizione è ambigua e rappresenta un ombrello sotto il quale sono ospitate diverse connotazioni e significati, alcuni vicini e altre invece distanti o addirittura contrastanti tra loro. Prendiamo in esame due distinti approcci ai beni comuni: quello economico, e quello giuridico. Cercheremo di definire che cosa le scienze economiche e sociali intendono per “bene comune” e come invece il significato di common (bene comune) cambia in un'accezione giuridica.La questione definitoria non è sofistica o frivola, ma riguarda la precisione scientifica e ha delle conseguenze politiche, e quindi delle importanti conseguenze pratiche. Come vedremo alcune definizioni divergono tra loro: in particolare la definizione di bene comune della Ostrom diverge dai significati che invece danno al bene comune buona parte dei filosofi e gran parte dei giuristi – in particolare in Italia, dove la nozione di bene comune è stata introdotta e trattata principalmente dagli studiosi delle leggi, mentre non è ancora molto accettata dagli economisti.

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La confusione definitoria è tanto più grave dal momento che, per dirla con le parole di Stefano Rodotà, l'autorevole giurista che tra i primi ha avuto il merito di introdurre la questione dei beni comuni in Italia, “se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità “comune” di un bene può sprigionare tutta la sua forza” [1].I Commons come risorse condivisePer Elinor Ostrom, premio Nobel dell'economia, e per gli economisti e gli studiosi sociali dei beni comuni a livello internazionale, i commons sono risorse materiali o immateriali condivise, ovvero risorse che tendono a essere non esclusive e non rivali (un bene è “rivale” quando l'uso da parte di un soggetto impedisce l'uso da parte di un altro soggetto), e che quindi sono fruite (o prodotte) tendenzialmente da comunità più o meno ampie.Occorre sottolineare che la definizione economica è nettamente distinta da quella morale e giuridica. Infatti non è detto che i beni comuni siano necessariamente anche un bene in senso morale; e non è detto neppure che costituiscano un diritto primario degli individui e dei cittadini. Un pascolo per esempio può essere un bene comune ma non è né buono né cattivo, e non è neppure un diritto primario. L'inquinamento è un male comune che però sul piano della teoria economica è anche un “bene comune”, ovvero un fenomeno condiviso, non esclusivo e non rivale che riguarda e colpisce tutti, anche se in maniera e misura diversa.Beni di merito e beni comuniLa teoria economica sui commons è quindi agnostica sul piano morale e non classifica i beni neppure in base a criteri di diritto e di legge. Per Ostrom i beni comuni non costituiscono necessariamente un diritto dei cittadini. I beni comuni si distinguono in questo senso dai beni di merito, che – come l'acqua e il codice genetico – sono indispensabili per la sopravvivenza umana o hanno un alto valore morale o sociale, e che sono incommensurabili rispetto ai criteri economici di mercato, e che quindi devono essere giuridicamente salvaguardati e assicurati per tutti gli esseri umani. I beni di merito possono però non essere dei commons: per esempio il diritto alla casa non presuppone il diritto o il dovere di condividere l'abitazione.L'acqua, che un referendum ha sancito in Italia come un bene comune, è certamente un diritto per tutti gli uomini, ma (come vedremo) sul piano della teoria dei commons non è sempre e necessariamente un bene comune, in quanto è una risorsa che può anche essere facilmente resa esclusiva, ed è anche una risorsa rivale: se viene consumata da alcuni soggetti non viene consumata da altri. L'acqua può anche essere di fatto e di diritto una risorsa privata: ma certamente occorre invece reclamare che sia gestita da soggetti pubblici affinché a tutti sia garantito il diritto di accesso, perché è un bene di merito.Beni comuni: proprietà funzionali e riconoscimento giuridicoA differenza dei beni di merito, la caratteristica specifica e peculiare (e positiva) dei beni comuni non è morale e non implica necessariamente giudizi di valore: consiste invece nel fatto che è difficile escludere qualcuno dall'utilizzarli, che sono difficilmente recintabili, e che sono anche tendenzialmente non rivali – cioè possono essere fruiti contemporaneamente da più persone o da comunità di utenti (come l'ambiente, l'aria e l'acqua, i pascoli [2]) o da comunità di produttori (come nel caso delle scienze, di Internet, di Wikipedia, dell'informazione e di altri artefatti [3]).Quindi la definizione di common – che è quella della Ostrom e quella discussa dagli scienziati a livello internazionale – è oggettiva, cioè relativa innanzitutto alle caratteristiche strutturali e funzionali intrinseche di certi beni rispetto ad altri; ma occorre tenere conto che sul piano soggettivo un bene comune può essere riconosciuto o non riconosciuto come tale dalla società. Il riconoscimento formale e giuridico dipende non dalle caratteristiche dei beni in questione ma dalle convenzioni sociali e dalle istituzioni: infatti un bene comune diventa giuridicamente comune solo se una comunità si impegna a gestirlo come tale, cioè in comune, e solo se gli stati (e le corporation) accordano alla comunità il pieno diritto di gestirlo o cogestirlo.La distinzione tra il piano oggettivo e soggettivo/giuridico è fondamentale: solo così si può comprendere come dei beni oggettivamente comuni, tendenzialmente non esclusivi e non rivali – come per esempio le conoscenze e le reti - possano essere beni privati o dello stato. Facciamo degli esempi per comprenderci meglio. Un volume cartaceo, inteso come insieme di fogli di carta rilegati, non è un bene comune, ma le conoscenze contenute nel libro non sono esclusive e non sono rivali, e sono facilmente trasferibili e condivisibili, e quindi sono oggettivamente un bene comune. Se queste conoscenze appartengono al dominio pubblico diventano anche normativamente dei beni comuni accessibili a tutti; se invece sono sottoposte a restrizioni di esclusività grazie alle leggi sulla proprietà intellettuale, allora diventano “proprietà privata”.Occorre quindi distinguere il piano oggettivo, relativo alle caratteristiche intrinseche degli oggetti, da quello soggettivo, relativo ai regimi normativi che regolano i beni comuni: infatti questi possono essere gestiti dai

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privati, dallo stato o dalle comunità, in relazione alla storia e ai rapporti di forza materiali e culturali tra i diversi soggetti storici. Solo quando i beni comuni sono effettivamente gestiti dalle comunità di riferimento e riconosciuti dallo stato come tali diventano commons anche sul piano soggettivo.Continuiamo con gli esempi. Tutte le reti sono oggettivamente delle risorse comuni, ovvero aumentano la loro utilità (e il loro valore) più sono condivise dal maggiore numero di utenti: tuttavia solo il fatto che il protocollo Internet non è brevettato e che Internet è gestita in maniera condiviso e aperto fa diventare giuridicamente e di fatto questa rete un bene comune; mentre le altre reti di comunicazione, pur essendo oggettivamente, almeno per un certo grado, beni condivisi, sono gestite da soggetti privati, sono sottoposte a leggi di proprietà intellettuale e a standard tecnici proprietari, e quindi tendono a escludere alcuni utenti (per esempio chi non paga). Queste reti diventano private, pur essendo oggettivamente beni comuni.Le comunità per la gestione efficace dei commonsE' noto che i beni comuni sono invece spesso beni privati o dello stato. Ma hanno una specificità eccezionale: possono essere gestiti in maniera più efficiente, innovativa e sostenibile dalle comunità di riferimento. E, reciprocamente, se i commons non sono gestiti dalle comunità di riferimento ma dai privati o dallo stato - cioè in favore di elite privilegiate, private o pubbliche – in generale vengono gestiti in maniera non ottimale – cioè con sprechi e inefficienze - e in modo non sostenibile nel tempo [4].Questa è la vera grande scoperta scientifica – e da lei empiricamente verificata sul campo - di Elinor Ostrom: molti altri studiosi avevano infatti evidenziato che esistevano proprietà e gestioni comuni dei beni condivisi, ma Ostrom ha aggiunto qualcosa di fondamentale: non è vero che se i commons sono gestiti dalle comunità allora vengono devastati, e che si verifica necessariamente la “tragedia dei beni comuni” come sosteneva la teoria dominante di Garrett Hardin [5]. Non è vero che per gestire i beni comuni ed evitare la tragedia del sovraconsumo occorre privatizzarli o statalizzarli, cioè imporre delle regole esogene, come suggeriva Hardin. Anzi è vero il contrario: le foreste gestite (o cogestite) dalle comunità locali sono in generale (non sempre) gestite meglio e in maniera più sostenibile di quelle sotto il dominio dello stato [6]. Internet deve il suo grande successo al fatto che è gestita dalle comunità di scienziati, ricercatori, informatici, utenti, i quali impongono che i suoi standard non siano brevettati e siano aperti e gratuiti.Wikipedia è la principale enciclopedia al mondo ed è gestita in maniera aperta dalle comunità di utenti e da una fondazione che li rappresenta. Il software libero e Open Source è gestito dalle comunità di utenti; e gli esempi di successo dell'autogestione nel campo scientifico, culturale e dei beni ambientali potrebbero continuare. La scoperta della Ostrom è che le comunità possono consolidare rapporti di fiducia reciproca e autoregolarsi grazie a a interessi comuni, a pratiche comuni, alla comunicazione costante, a sperimentazioni per prova ed errori, e possono sviluppare competenze elevate. Il vantaggio rispetto ai privati e allo stato è che le comunità hanno più interesse a conservare e sviluppare i beni comuni in quanto per loro i commons possono costituire risorse essenziali, e perché ne hanno esperienza diretta, magari da generazioni, e quindi in generale (anche se ovviamente non sempre) hanno la migliore competenza per gestirli in maniera sostenibile e concordata.Il messaggio della Ostrom è contemporaneamente economico e politico: la gestione diretta – e quindi tendenzialmente democratica - dei commons da parte delle comunità è, in generale e a certe condizioni, più efficiente e sostenibile della gestione eterodiretta da parte privata o pubblica. Inoltre – e questo è l'altro fattore di novità rivoluzionaria rispetto alle teorie dominanti – la gestione comunitaria dei beni comuni comporta un modo di produzione cooperativo e non competitivo [7]. Il messaggio della Ostrom deriva la sua enorme e dirompente forza proprio da questi due fattori: la gestione comunitaria dei commons è più efficiente di quella privata e statale grazie a un modo di produzione autoregolato e fondato sostanzialmente sulla cooperazione, sulla partecipazione, e su gerarchie concordate e non autoritarie (come nel software Open Source).Il messaggio politico dovrebbe essere chiaro: una politica accorta e sostenibile, di difesa e sviluppo dei beni comuni, deve incoraggiare la gestione comunitaria dei commons riconoscendo alle comunità di riferimento i diritti giuridici di proprietà e/o di gestione, o di cogestione. E' su questi elementi forti che le teorie della Ostrom si collegano in qualche modo alle teorie di Marx, che voleva che i mezzi di produzione diventassero comuni in quanto frutto della cooperazione sociale.I quattro tipi di beni In base ai due criteri di esclusività e di rivalità, Ostrom categorizza quattro tipologie di beni: quelli privati; quelli di club; quelli comuni e quelli pubblici [8]. 

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I quattro tipi di beni: privati, di club, comuni, e pubbliciOccorre tuttavia premettere un'avvertenza: queste quattro tipologie sono puramente ideali e hanno in realtà confini mobili, e tuttavia sono utili ed esplicative perché ci permettono di capire le differenze tra i diversi tipi di beni e di regimi proprietari. Si può allora dimostrare che alcuni beni, in particolare i beni sia esclusivi che rivali, come il cibo, le automobili e i personal computer, si prestano facilmente a diventare proprietà privata (anche se i confini, come detto prima, sono incerti: per esempio i Pc e le autovetture si possono in alcuni casi condividere).Altri beni – i cosiddetti beni di club – possono essere esclusivi ma sono però anche condivisi da particolari comunità “chiuse”: per esempio gli asili nido o le biblioteche comunali sono condivisi dagli abitanti di determinate comunità, e tutti gli altri sono esclusi.Alcuni beni comuni (common-pool resources) hanno invece la “disgrazia” di essere poco esclusivi, cioè di essere facilmente contendibili, e contemporaneamente di essere scarsi e rivali: per esempio i giacimenti minerari e fossili. Per il possesso di questi beni si possono allora scatenare duri conflitti. I beni pubblici sono quelli da cui è difficile escludere qualcuno, ma che (fortunatamente) non sono rivali o limitati, come, per esempio, nel campo dei beni fisici, l'aria e l'acqua del mare. Anche in questo caso però i confini sono mobili: per esempio alcuni beni pubblici che non erano scarsi lo stanno diventando, o lo sono già diventati, come lo strato di ozono e l'aria pulita.Beni pubblici, economia della conoscenza e dell'abbondanzaI beni pubblici “più puri”, quelli che più difficilmente possono diventare esclusivi e rivali, sono immateriali, come il linguaggio, le informazioni e le conoscenze, il protocollo Internet di comunicazione [9]. E' difficile escludere qualcuno dal teorema di Pitagora; inoltre chi insegna il teorema del matematico greco lo trasmette ai suoi alunni ma non se ne priva. Già Thomas Jefferson, uno dei padri della Costituzione americana, nella seconda metà del settecento spiegò che per sua natura la conoscenza è un bene sociale che si diffonde come il fuoco e che si propaga senza consumarsi, e che le idee non possono e non devono essere di proprietà esclusiva di qualcuno – a parte eccezioni temporanee e parziali - e costituiscono la base del progresso dell'umanità.L'economia immateriale è quella più densa di beni pubblici, come le informazioni e le conoscenze, come il linguaggio, che sono il frutto della produzione intellettuale sociale (general intellect). Ovviamente anche le conoscenze possono essere ridotte a proprietà privata o statale, ma è, per così dire, innaturale e costoso, e soprattutto inefficiente ridurle a beni esclusivi e limitare la loro diffusione. La condivisione dei beni immateriali, come le conoscenze e le informazioni, ha infatti una particolarità: genera la moltiplicazione delle risorse di partenza. La conoscenza è sia un prodotto che una materia prima, e quindi è una risorsa che può essere arricchita all'infinito se circola senza vincoli e barriere. L'economia della conoscenza è perciò un'economia dell'abbondanza che si contrappone all'economia materiale della scarsità. Più gli scienziati e i ricercatori si scambiano conoscenze più è facile che si creino nuove conoscenze e innovazioni e scoperte.Dal nostro punto di vista occorre aggiungere che nella knowledge economy si capovolgono allora radicalmente tutti i parametri dell'analisi economica classica fondata sul mercato come sistema ottimale per allocare beni rivali e scarsi. L'economia della conoscenza è infatti un'economia dai rendimenti crescenti. Si rovescia il paradigma centrale del capitalismo, fondato sulla proprietà esclusiva e sulla scarsità (o rivalità) delle risorse che si consumano con l'uso, come i beni materiali. I tre pilastri del capitalismo - proprietà privata, competizione e mercato - non caratterizzano anche questo nuovo tipo di economia emergente, che al contrario si fonda sulle comunità (e non sulla proprietà privata o su quella statale), sulla cooperazione, e sullo

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scambio reciproco extra mercato. Paradossalmente sembra che il capitalismo possa essere superato proprio grazie al settore più avanzato che ha generato, quello della conoscenza [10].L'economia policentrica e i semi-commonsOstrom “ha scoperto” (e auspica) un'economia policentrica non più costretta al dilemma privato o stato [11]: ma avverte anche che la questione della proprietà è molto complessa e che non esistono solo la proprietà comunitaria, privata e statale. In effetti i diritti di proprietà sono molto articolati e i tre tipi di proprietà possono combinarsi e sovrapporsi. Sorge così una nuova categoria di beni ibridi o semi-commons. In generale beni comuni e beni privati si combinano tra loro, così come la rete Internet si combina con i personal computer o i tablet individuali, o come le case private si combinano con le strutture condivise di quartiere. Inoltre le risorse possono essere private o statali in una certa fase storica e comuni in un'altra fase, in relazione alle circostanze sociali, politiche e naturali.Per esempio nel medioevo in alcune stagioni le terre erano comuni per il pascolo, in altre erano private per l'agricoltura. Le risorse possono inoltre diventare comuni o private anche in relazione alla loro scala dimensionale. Quando le terre sono abbandonati è più facile che vengano gestite in maniera comunitaria. L'acqua abbondante dei fiumi è un bene free access ma l'acqua nei pozzi del deserto diventa un bene scarso che le diverse tribù, o le corporations, cercano di controllare a loro beneficio. I beni possono quindi essere comuni o privati non solo per le loro funzionalità intrinseche ma in base ai differenti contesti naturali e sociali, e alla dimensione della loro disponibilità.Ostrom avverte però sulla necessità di non confondere i regimi di Common Property con quelli Open-Access. I regimi open access, ad accesso libero, sono quelli – come il mare aperto e l'atmosfera – in cui nessuno ha il diritto legale di escludere altri; al contrario i regimi di common property sono quelli in cui i membri di un determinato gruppo condividono la risorsa comune ma dispongono anche dei diritti di esclusione dall'uso di quella risorsa. La sua analisi è molto articolata: Ostrom identifica cinque distinti diritti di proprietà che sono rilevanti specialmente per le common-pool resources, ovvero l'accesso (access), lo sfruttamento delle risorse (withdrawal), la conduzione (management), il diritto di esclusione (exclusion), e infine quello di alienazione (alienation) [12].- L'accesso consiste nel diritto di entrare in un'area e di godere benefici non rivali (per esempio sedersi al sole o passeggiare)- Lo sfruttamento riguarda la possibilità di fruire di beni rivali (come l'acqua o i pesci)- La conduzione riguarda il diritto di regolare l'uso delle risorse e di trasformarle apportando delle innovazioni - L'esclusione riguarda la possibilità di determinare che ha diritti di accesso e di sfruttamento e come questi diritti possono essere trasferiti- il diritto di vendita riguarda la possibilità di alienare o noleggiare i diritti di management e di esclusione.Ostrom avverte che generalmente per la scienza economica dominante il diritto di proprietà si riduce al diritto di alienare un bene. Ma la proprietà comune invece generalmente non comprende il diritto di vendita. Inoltre Ostrom suggerisce che la questione dei beni comuni non è “arcaica” e non riguarda solo beni e modi di produzione “marginali”, come i pascoli alpini o le zone costiere di pesca, o “sorpassati e primitivi” come quelli dei paesi del terzo mondo, ma riguarda anche Internet, l'ambiente, le scienze, il software e le stesse aziende: queste ultime sarebbero infatti dei semi-commons, dei sistemi ibridi che combinano beni privati esclusivi e beni comuni:“The modern corporation is frequently thought of as the epitome of private property. While buying and selling shares of corporate stock is a clear example of the rights of alienation at work, relationships within a firm are far from being ‘individual’ ownership rights. Since the income that will be shared among stockholders, management, and employees is itself a common pool to be shared, all of the incentives leading to free riding (shirking) and overuse (padding the budget) are found within the structure of a modern corporation. Thus, where many individuals will work, live, and play in the next century will be governed and managed by mixed systems of communal and individual property rights” [13].Enti economici autonomi e no profit per gestire i commonsLe analisi sui commons sono riprese dall'imprenditore sociale Peter Barnes. Barnes suggerisce che per difendere e sviluppare i commons occorre che questi siano dati in proprietà – ma senza diritto di alienazione - a delle fondazioni no profit che abbiano per statuto come unico scopo sociale quello di preservarli e svilupparli a favore delle comunità e delle generazioni future [14]. Il riferimento di Barnes è L'Alaska Permanent Fund Foundation che ogni anno remunera i cittadini con i dividendi derivati dai ricavi del petrolio dello stato. In Italia la proposta di Barnes si sta concretizzando con il progetto di fondazione del Teatro Valle di Roma – a cui tra l'altro Stefano Rodotà sta dando un notevole contributo -. A Napoli avanza anche la

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sperimentazione di forme partecipative tra cittadini e enti pubblici dopo la vittoria del referendum sull'acqua. L'intuizione di Barnes è geniale: usa il diritto borghese di proprietà privata per proporre di stabilire il diritto delle comunità a gestire i patrimoni comuni, come le risorse ambientali (per esempio l'acqua) e culturali (per esempio il copyright o i brevetti).Naturalmente la questione cruciale è che le fondazioni o le altre forme societarie, come le cooperative, siano controllate democraticamente dalle comunità di riferimento e agiscano come fiduciarie responsabili in maniera trasparente del loro operato verso le stesse comunità. In ogni caso enti economici specifici autonomi dallo stato e dal settore privato, appartenenti a un terzo (o a un primo, per importanza?) settore no profit, dovrebbero essere proprietari esclusivi dei beni comuni, sia quelli materiali che immateriali, e dovrebbero gestirli in favore delle diverse comunità locali, nazionali, internazionali.Il nuovo “terzo settore” dei beni comuni dovrebbe avere la proprietà giuridica dei commons e gestirli e salvaguardarli in un'ottica di lungo periodo a favore delle comunità interessate e delle generazioni future. Le organizzazioni no profit potrebbero inoltre vendere sul mercato il surplus eventualmente disponibile a prezzi equi e non discriminatori alle aziende private, e potrebbero redistribuire i proventi alle comunità: in questo modo i cittadini riceverebbero reddito e si favorirebbe anche la creazione di un mercato competitivo e non monopolistico. Internet è l'esempio principale di bene comune, non ha padroni e non è dello stato, ma è gestita direttamente dalla comunità scientifica e dagli utenti; il free software, i programmi open source, Wikipedia, il browser Firefox, e Creative Commons, l'organismo che gestisce i diversi livelli di copyright, sono governati da fondazioni no profit. Esistono anche numerose fondazioni che gestiscono beni culturali o che salvaguardano le foreste e le risorse ambientali.Il diritto ai beni comuni: critica alle concezioni giuridichePer gli economisti i beni comuni sono risorse condivise: per la maggioranza dei giuristi (specialmente in Italia) i beni comuni sono invece, o devono diventare, diritti universali. Per i giuristi i beni comuni non devono essere ridotti a merci disponibili solo per chi ha il denaro per comprarli: sono invece beni essenziali su cui lo stato ha diritti prioritari per assicurare la loro disponibilità universale. Questa interpretazione è altamente meritoria perché punta a garantire beni indispensabili per la sopravvivenza e lo sviluppo dell'umanità sottraendoli a una logica di mercato e speculativa. D'altro lato però, forse particolarmente in Italia, l'interpretazione giuridica dei commons sorvola le analisi socio-economiche che da Ostrom in poi caratterizzano la ricerca scientifica internazionale. L'interpretazione giuridica sembra sottovalutare la questione cruciale della necessità di incoraggiare la gestione diretta e cooperativa dei beni comuni da parte delle comunità e la costituzione di enti economici no profit completamente indipendenti dallo stato e dalle imprese private profit oriented.Secondo uno dei principali giuristi italiani, caposcuola delle concezioni giuridiche sui beni comuni ne nostro Paese, Stefano Rodotà - che, come si è detto, ha il merito di avere “scoperto” per primo la questione complessa dei beni comuni in Italia - “ ...si può dare una prima definizione dei beni comuni: sono quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future. L’ aggancio ai diritti fondamentali è essenziale” [15]. Rodotà sembra qui confondere i beni comuni, come i pascoli e Internet, con i beni di merito, come il cibo e l'acqua, che hanno un particolare valore sociale e che giustamente devono diventare diritti universali.Dice Rodotà giustamente “Il punto chiave, di conseguenza, non è più quello dell’“appartenenza” del bene, ma quello della sua gestione, che deve garantire l’ accesso al bene e vedere la partecipazione di soggetti interessati” [16]. Questo è in effetti il vero punto centrale, che però viene successivamente negato a causa della confusione tra beni comuni e beni open access. Dice Rodotà “I beni comuni sono a titolarità diffusa, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Indisponibili per il mercato, i beni comuni si presentano così come strumento essenziale perché i diritti di cittadinanza, quelli che appartengono a tutti in quanto persone, possano essere effettivamente esercitati...” [17].Abbiamo già visto che i beni comuni non sono necessariamente res nullius o beni ad accesso aperto. E che non devono necessariamente essere gestiti in un'ottica morale e di solidarietà, ma in un'ottica di cooperazione che combini interessi individuali e di gruppo e che comporti efficienza e sostenibilità. Dice Rodotà “(Per quanto riguarda Internet) la tutela della conoscenza in Rete non passa attraverso l’individuazione di un gestore, ma attraverso la definizione delle condizioni d’uso del bene, che deve essere direttamente accessibile da tutti gli interessati, sia pure con i temperamenti minimi resi necessari dalle diverse modalità con cui la conoscenza viene prodotta. Qui, dunque, non opera il modello partecipativo e, al

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tempo stesso, la possibilità di fruire del bene non esige politiche redistributive di risorse perché le persone possano usarlo. È il modo stesso in cui il bene viene “costruito” a renderlo accessibile a tutti gli interessati” [18].A noi sembra invece che il problema non sia solo quello (ovviamente importantissimo) di garantire l'accesso universale a Internet e alle conoscenze: la questione fondamentale è che i diritti di gestione di questi beni comuni dovrebbero essere affidati alle comunità di riferimento in modo da garantire concretamente i diritti di accesso, altrimenti costantemente minacciati da gestioni private o statali per loro natura tendenzialmente escludenti. La comunità di scienziati, ricercatori, accademici e utenti che definisce gli standard di Internet – e che quindi in un certo senso la controlla - reclama per esempio una gestione multi-stakeholder e partecipata della Rete, ma esclude che questa possa essere gestita dagli Stati, dagli organismi intergovernativi e burocratici dell'Onu, o peggio direttamente dalle corporations. La questione dei diritti di proprietà è basilare, ed è ovviamente squisitamente politica. Se i beni comuni vengono gestiti dagli stati o dai privati diventano esclusivi e non inclusivi, anche per quanto riguarda l'accesso e l'uso da parte dei cittadini. E i commons se sono condotti dallo stato o dai privati non vengono gestiti in maniera efficiente e produttiva ma in generale vengono sprecati.Dice Rodotà a proposito dei commons “l’ accento non è più posto sul soggetto proprietario, ma sulla funzione che un bene deve svolgere nella società. Partendo da questa premessa, ....Non un’altra forma di proprietà, dunque, ma «l’ opposto della proprietà», com’è stato detto icasticamente negli Stati Uniti fin dal 2003....” [19]. Questa interpretazione sottovaluta il messaggio forte della Ostrom: le comunità possono gestire i beni comuni meglio dei privati e dello stato grazie alla cooperazione, e quindi conviene affidare i beni comuni a enti economici controllati dalle comunità interessate alle diverse tipologie di beni comuni [20]. Quando non è possibile che le comunità gestiscano direttamente i commons, occorre comunque, sia sul piano dell'efficienza economica che sul piano democratico, coinvolgerle a pieno titolo nella gestione dei beni comuni.ConclusioniSecondo noi la sinistra non dovrebbe solo difendere i diritti all'accesso ai beni comuni e ai beni di merito, ma dovrebbe soprattutto impegnarsi per attribuire alle comunità i diritti di proprietà dei commons – intesi non come diritti all'alienazione dei beni, ma come diritto (o co-diritto) al loro controllo strategico e alla loro gestione operativa –: e dovrebbe incoraggiare la costituzione di un Terzo Settore di enti economici, come le fondazioni e le cooperative, per la salvaguardia e lo sviluppo di beni comuni come l'ambiente, la cultura, Internet, l'informazione; o comunque dovrebbe favorire la partecipazione dei lavoratori e degli utenti negli organismi decisionali privati e pubblici in cui si decidono i destini dei commons. La questione dei beni comuni è quindi innanzitutto una questione di democrazia economica. In questo senso credo che la sinistra debba approfondire le analisi della Ostrom ed elaborare ulteriormente i suggerimenti di Peter Barnes.

NOTE[1] Stefano Rodotà “Il valore dei beni comuni” La Repubblica, 5 gennaio, vedi anche http://www.teatrovalleoccupato.it/il-valore-dei-beni-comuni-di-stefano-rodota[2] Elinor Ostrom, Governing the commons, Cambrige University Press 1988, Governare i beni collettivi, Marsilio, 2006; [3] Hess, C. e Ostrom, E. La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Milano, 2009, Bruno Mondadori[4] Elinor Ostrom, Governing the commons, Cambrige University Press 1988[5] Science 13 December 1968, Tragedy of the Commons, Garrett Hardin[6] Vedi: Elinor Ostrom, i casi dei sistemi di irrigazione in Nepal e di conservazione delle foreste nel mondo, Slide di presentazione di Beyond markets and states: polycentric governance of complex economic systems, 2009[7] Yochai Benkler La ricchezza della rete, 2007; e Enrico Grazzini, L'economia della conoscenza oltre il capitalismo, Codice Edizioni, 2008[8] Vedi Hess, C. e Ostrom, E. La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Milano, 2009, Bruno Mondadori[9] Vedi anche Joseph Stiglitz, Knowledge as a Global Public Good, New York: Oxford University Press, 1999[10] Vedi Enrico Grazzini, Il Bene di Tutti. L'economia della condivisione per uscire dalla crisi, Editori Riuniti, 2011; e L'economia della conoscenza oltre il capitalismo, Codice Edizioni, 2008[11] Vedi: Elinor Ostrom, Beyond markets and states: polycentric governance of complex economic systems,

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Page 14:  · Web viewSi tratta di una distinzione non secondaria, di cui parleremo più avanti, perché presuppone un diverso modello di gestione, al di là della “mera proprietà”. Il

discorso tenuto in occasione del premio Nobel, 8 dicembre 2009 [12] Elinor Ostrom, Private and common property rights, 2000[13] Elinor Ostrom, Private and common property rights, 2000[14] Peter Barnes, Capitalismo 3.0, Egea, 2006[15] Stefano Rodotà “Il valore dei beni comuni” La Repubblica, 5 gennaio, vedi anche http://www.teatrovalleoccupato.it/il-valore-dei-beni-comuni-di-stefano-rodota[16] Idem[17] Idem[18] Idem[19] Idem[20] Il messaggio forte della Ostrom e della teoria dei beni comuni sembra essere stato sottovalutato anche dalla Commissione sui Beni Pubblici presieduta da Stefano Rodotà, istituita dal Ministero della Giustizia nel giugno 2007 per elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici. La Commissione è stata istituita per la necessità di azioni concrete e urgenti sul debito pubblico: in pratica si trattava di capire quali beni pubblici rendere indisponibili per il mercato e invece quali valorizzare adeguatamente per tentare di affrontare il problema dell'enorme debito pubblico che affligge l'economia italiana. La Commissione ha distinto i beni in tre categorie: beni comuni, beni pubblici, beni privati. Per la prima volta ha quindi meritoriamente previsto la specifica categoria dei beni comuni: in particolare per la Commissione i beni comuni sono “delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge”. La commissione Rodotà quindi propone la fruizione collettiva dei beni ma non esplicitamente la proprietà e/o la gestione comunitaria. Nei testi della Commissione le comunità non vengono mai citate. Secondo la Commissione sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate. Sono beni che soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche”. Ma questa definizione di beni comuni sembra confondere i commons con i beni ad accesso libero e quindi si allontana e diverge fondamentalmente da quella della Ostrom. Secondo la Commissione i beni comuni non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche ma anche a privati. Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque. Salvi i casi di legittimazione per la tutela di altri diritti ed interessi, all’esercizio dell’azione di danni arrecati al bene comune e’ legittimato in via esclusiva lo Stato. Allo Stato spetta pure l’azione per la riversione dei profitti. Lo stato resta quindi per la Commissione, il principale referente dei beni comuni. Occorre tuttavia sottolineare che le coraggiose proposte della Commissione non sono state accolte dal legislatore e dai successivi governi.

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