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1 XXX Convegno annuale SISP – Milano 15-17 settembre 2016 Una nuova governance per l’integrazione socio sanitaria? Prime considerazioni sul modello socio-sanitario in corso di strutturazione in Toscana Carlo Baccetti – Università di Firenze 1. Le legge regionale n. 84 del 28 dicembre 2015 1.1 Accorpamento delle AUSL e Area Vasta 1.2 Territorializzare le politiche: le Zone Distretto e le Società della Salute 2. Una scelta identitaria: la concertazione istituzionale. Il caso della politica socio sanitaria 3. Tra aziendalizzazione e Società della Salute 3.1 L’aziendalizzazione 3.2 Le Società della Salute 4. La prospettiva attuale. La governance istituzionale, il peso del privato sociale

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XXX Convegno annuale SISP – Milano 15-17 settembre 2016

Una nuova governance per l’integrazione socio sanitaria?Prime considerazioni sul modello socio-sanitario in corso di strutturazione in Toscana

Carlo Baccetti – Università di Firenze

1. Le legge regionale n. 84 del 28 dicembre 20151.1 Accorpamento delle AUSL e Area Vasta1.2 Territorializzare le politiche: le Zone Distretto e le Società della Salute

2. Una scelta identitaria: la concertazione istituzionale. Il caso della politica socio sanitaria

3. Tra aziendalizzazione e Società della Salute 3.1 L’aziendalizzazione3.2 Le Società della Salute

4. La prospettiva attuale. La governance istituzionale, il peso del privato sociale

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1. Le legge regionale n. 84 del 28 dicembre 2015

Il 28 dicembre 2015 è stata approvata dal Consiglio regionale della Toscana, la legge n.

84, di riordino del sistema sanitario regionale1, che ha portato a compimento il riordino

istituzionale e organizzativo già avviato con la legge regionale n. 28 del marzo

precedente2. Nel preambolo della legge 84 se ne riassumono così i «punti cardine»:

«riduzione delle Aziende USL… rafforzamento della programmazione di Area Vasta…

organizzazione del territorio e … revisione dei processi di “governance”». Vediamoli, in

sintesi, cercando di cogliere il significato politico, motivazioni e presumibili effetti, della

ristrutturazione organizzativa in atto.

1.1 Accorpamento delle AUSL e Area Vasta

Il riordino consiste in primo luogo nell’accorpamento delle preesistenti dodici Aziende

Unità Sanitarie Locali in tre sole Aziende, una per ciascuna delle tre Aree Vaste

individuate da leggi precedenti3. Con l’accorpamento delle AUSL si è proceduto anche alla

riduzione delle Zone Distretto, che scendono da 32 a 25 e per le quali si prevede un

rilevante potenziamento delle competenze programmatorie e funzionali.

Il nuovo modello di programmazione punta a rafforzare il livello di Area Vasta, fulcro

e motore della nuova governance socio-sanitaria, che dovrebbe assumere, nelle intenzioni

1 «Riordino dell’assetto istituzionale e organizzativo del sistema sanitario regionale. Modifiche alla l.r.40/2005».2 L. R. 16 marzo 2015, n. 28, «Disposizioni urgenti per il riordino dell'assetto istituzionale e organizzativo del servizio sanitario regionale». A parere delle opposizioni consiliari, e non solo, la legge 28 era stata presentata ed approvata in fretta e senza un significativo dibattito che giustificasse agli occhi dell’opinione pubblica le importanti modifiche che introduceva – in primo luogo le tre sole ASL coincidenti con le tre Aree Vaste. Quella legge aveva suscitato in alcuni settori d’opinione, associazioni e movimenti politici e sindacali una reazione che aveva portato alla richiesta di un referendum abrogativo, supportato da un notevole numero di firme raccolte (circa 55.000). La legge n. 84 approvata a fine anno in gran fretta, aveva in realtà anche l’obiettivo di evitare il referendum, stralciando il riordino e inserendolo in una legge più generale che prevedeva anche obiettivi di integrazione socio-sanitaria. C’era tempo fino al 31 dicembre per far decadere il referendum facendo “sparire” la legge che esso voleva abrogare e così parti importanti – come il disegno territoriale delle Zone Distretto e altri aspetti funzionali che non si aveva avuto il tempo di elaborare – erano state rinviate a successivi provvedimenti, da varare entro sei mesi. 3 Le tre mega aziende sanitarie sono ora: l’Azienda Usl Toscana Centro, che riunisce le precedenti aziende dell'Area Vasta Centro: Asl 3 di Pistoia, 4 di Prato, 10 di Firenze, 11 di Empoli; l’Azienda Usl Toscana Nord Ovest, che riunisce Asl 1 di Massa Carrara, Asl 2 di Lucca, Asl 5 di Pisa, Asl 6 di Livorno, Asl 12 di Viareggio; infine l’Azienda Usl Toscana Sud Est, che riunisce le Asl 7 di Siena, 8 di Arezzo, 9 di Grosseto. Nulla cambia, invece, per le quattro aziende ospedaliero-universitarie: AOU Careggi, AOU Meyer, AOU Pisana e AOU Senese.

3

del governo regionale, un ruolo fondamentale per garantire sinergie e integrazione tra le

attività di programmazione della Azienda Unità Sanitaria Locale e dell'Azienda

Ospedaliero Universitaria (le AOU sono anch’esse tre, a Firenze, Pisa e Siena, una in

ognuna delle tre Aree Vaste). Per questo, per ciascuna delle tre Aree viene introdotta la

figura del Direttore della programmazione di Area Vasta che opera sulla base delle

direttive impartite dalla Giunta regionale, «al fine di garantire l’attuazione della

programmazione strategica regionale». Il Direttore per la programmazione di Area Vasta

predispone e controlla l’attuazione del Piano sanitario e sociale integrato approvato dalla

Giunta, in accordo con il direttore generale dell’Azienda AUSL, la Conferenza aziendale

dei sindaci e il Rettore dell’Università (artt. 9bis e 9ter). Presso la direzione regionale per il

Diritto alla salute è istituito un Comitato di coordinamento della programmazione di Area

Vasta, costituito dal direttore della Direzione regionale, che lo presiede, e dai tre direttori

della programmazione delle Aree Vaste4.

Allo stesso scopo – sinergie e integrazione tra sanità territoriale e sanità

universitaria – è prevista la nascita di Dipartimenti interaziendali AUSL/Aziende

Ospedaliere Universitarie, strumento organizzativo a supporto della programmazione

coordinata.

L’accorpamento dei servizi in meno numerosi e più ampi ambiti territoriali, che è al

centro del ridisegno, ha avuto come obiettivo dichiarato la sostenibilità economica del

sistema socio-sanitario, per rispettare la normativa statale che regola il finanziamento del

settore. Contemporaneamente, però, la riforma guarda anche – si legge nella Relazione

illustrativa del disegno di legge – al «profondo cambiamento» che si è andato verificando

nei profili epidemiologici e sociali dei bisogni di salute della popolazione, e intende

adeguare ad esso il sistema delle cure e dell’assistenza. Ad uno scenario socio-sanitario

in rapida evoluzione, «il sistema sanitario universalistico deve rispondere attraverso una

sua complessiva razionalizzazione e revisione degli assetti e dei processi organizzativi e

di erogazione dei servizi sanitari e sociosanitari». Ciò, appunto, per ricondurre i costi nei

limiti stringenti dell’attuale livello di finanziamento e al tempo stesso per rivedere i servizi in

base ai bisogni emergenti. In particolare, occorre dare risposta alla «crescita inesorabile

dei bisogni assistenziali legati alla cronicità, che assorbe oltre l'80 per cento del fondo

4 I tre Direttori della programmazione delle Aree Vaste diventano le figure chiave, tecnico politiche della riforma, pensate come snodi di congiunzione e di raccordo con l’Assessorato e garanti dell’attuazione del programma.

4

sanitario e che impatta sul benessere della comunità regionale generando reali o percepite

criticità».

Insomma, la razionalizzazione mediante accorpamento vorrebbe anche andare

incontro ad un cambiamento dei bisogni e della domanda di salute della popolazione,

perché favorirebbe una risposta più efficace del sistema dei servizi sociali e sanitari a quei

nuovi bisogni emergenti, attraverso una migliore integrazione funzionale sul territorio dei

servizi stessi che valorizzerà l’intervento “sociale”. In sintesi, gli obiettivi dichiarati che

hanno ispirato l'impostazione del nuovo assetto organizzativo sono due (che possono

anche apparire in contraddizione tra loro): a) centralizzare e accorpare la struttura delle

AUSL, per risparmiare; b) valorizzare il ruolo del territorio (cioè dei Comuni) nella gestione

dei servizi socio sanitari.

Il primo obiettivo, la semplificazione del sistema attraverso la riduzione delle

strutture e quindi dei livelli dirigenziali apicali, ha lo scopo di dare uniformità e omogeneità

organizzativa in contesti territoriali più ampi rispetto ai precedenti e in particolare, si è già

ricordato, di realizzare una sinergia tra AOU e AUSL. Da questi accorpamenti ci si

aspettano riduzioni di spesa ovvero la realizzazione di economie di scala sui diversi

processi. Tuttavia, è lecito pensare che il risparmio realizzato con la semplificazione

dell’attività amministrativa, gli accorpamenti territoriali e il taglio di qualche decina di

stipendi di alti dirigenti non sia di grande rilievo – a fronte delle cifre dei bilanci delle varie

aziende del servizio sanitario regionale – e che ancor più rilevanti di quelli economici siano

in effetti gli obiettivi politici della riforma. Il presidente della Regione, Enrico Rossi, cercava

da tempo di costruire una situazione di ulteriore, maggiore controllo del servizio sanitario e

sa bene anche lui che gli effetti economici saranno modesti. L’accorpamento è in primo

luogo una risposta politica5, di stampo genericamente populista, si può dire, allo “spirito del

tempo”. Rossi ha accorpato, sostanzialmente, per poter dire all’opinione pubblica che lui

taglia i primari, taglia le “poltrone” dei direttori generali ecc. e fa risparmiare soldi pubblici.

Inoltre, con la centralizzazione e la riduzione delle AUSL il Presidente ha rafforzato il

controllo sulle strutture, potrà più facilmente a mettere a capo di esse persone di fiducia

dotate di pieni poteri; si garantisce pochi interlocutori. Insomma, l’ispirazione di fondo della

riforma nasce da una scelta di accentramento del potere; che si porta dietro anche obiettivi

di razionalizzazione economica e di politica sanitaria.

5 Di un amministratore-politico che, come è noto, si è già autocandidato ad una carica di grande rilievo nazionale, la segreteria nazionale del suo partito, il PD.

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1.2 Territorializzare le politiche: le Zone Distretto e le Società della Salute

Il secondo principio ispiratore della riforma è la valorizzazione del territorio attraverso la

programmazione integrata dei servizi socio sanitari, soprattutto col rilancio di uno

strumento politico organizzativo quali sono in Toscana le Società della Salute.

L’accorpamento attuato dalla Legge regionale 84 ha seguito i criteri numerici

quantitativi indicati dalla legislazione nazionale come riferimento per disegnare la

zonizzazione territoriale (numero dei comuni, numero di cittadini residenti e estensione

territoriale)6; ma la stessa legge regionale prevede (art. 91) che la le indicazioni del

legislatore nazionale vadano prese non alla lettera ma come criteri orientativi, in un quadro

di valutazione complessivo che deve prestare attenzione anche alla densità abitativa,

nonché alla specificità delle «zone disagiate, di confine, montane». E richiama, soprattutto,

il criterio della tutela dell’«identità territoriale» e delle «esperienza socio-sanitarie maturate

e consolidate» sul territorio.

In vista della revisione degli ambiti territoriali delle Zone Distretto, che, per il motivo

tutto “politico” che si è detto (v. nota 2), non si era fatto in tempo a disegnare con la legge

84 e che dovevano perciò essere definiti entro sei mesi dall’approvazione della legge

stessa (ovvero entro il 30 giugno 2016) ─ ferma restando la loro riduzione numerica da 32

a 25 ─, la Regione è stata da più parti sollecitata a non applicare meccanicamente i

parametri nazionali alla situazione della Toscana. L’ANCI, ad esempio, invita a tenere in

considerazione tutti quegli elementi di carattere culturale e di carattere sociale

«difficilmente standardizzabili e rappresentabili»7. Il punto che l’ANCI sottolinea è proprio

quello dell’identità e della cultura territoriale, che l’istituzione deve salvaguardare e

valorizzare, sforzandosi («è complicato») di rappresentare «il sentire collettivo di una

comunità, che esprime il senso di appartenenza ad un luogo fisico, ne concretizza e

attualizza una cultura territoriale, che, specialmente in una regione come la nostra,

accentua in modo sensibile differenze profonde, anche fra Zone Distretto confinanti,

magari appartenenti alla stessa ASL ma molto diverse dal punto di vista del sentirsi

comunità»8.

6 Ovvero, per ogni Zona Distretto, da un minimo di 60.000 a un massimo di 260.000 abitanti; un numero di comuni compreso tra 5 e 25; e un’estensione compresa tra 260 e 1.750 Km2.7 ANCI – Federsanità ANCI Toscana, Il processo di zonizzazione, febbraio/aprile 2016, p. 7.8Ibidem.

6

Se le tre Aree Vaste divengono il motore della programmazione, dal punto di vista

organizzativo il fulcro della riforma del 20159 sono ora le 25 Zone Distretto. La riforma le

definisce «ambito territoriale ottimale di valutazione dei bisogni sanitari e sociali della

comunità» e perciò attribuisce ad esse il compito di organizzare ed erogare i «servizi

inerenti alle reti territoriali sanitarie, socio-sanitarie e socio assistenziali integrate» (art. 56).

Nelle considerazioni politico programmatiche che introducono gli articoli della legge

84 (punti 8 e 9) si richiama con forza l’importanza della ridefinizione degli ambiti territoriali

e delle funzioni, al fine di rendere più efficace l’organizzazione territoriale dei servizi ed il

processo di governance multilivello; che prevede nuove responsabilità in capo al

responsabile della Zona Distretto e la centralità del sistema delle Conferenze zonali dei

sindaci (dei comuni compresi in ciascuna Zona Distretto), «anche al fine di ottimizzare le

risposte territoriali dell’integrazione sociosanitaria». Le nuove Zone Distretto sono

insomma, secondo il legislatore regionale, l’ambito ottimale per «leggere» e organizzare

risposte ai bisogni e alle priorità di salute dei cittadini. Su di esse si impernieranno «solidi

meccanismi di raccordo istituzionale e l’organizzazione di un sistema di cure primarie

orientato alla comunità e capace allo stesso tempo di assicurare la necessaria

integrazione col livello specialistico attraverso la logica delle reti cliniche e sociosanitarie

territoriali». È a questo livello territoriale che verranno non solo organizzati e programmati

ma anche erogati i servizi delle reti integrate, sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali

(art. 64). La legge prevede che nell’ambito territoriale della Zona Distretto l’integrazione

socio-sanitaria sia realizzata attraverso le Società della Salute (v. oltre), o dove queste

non siano costituite, mediante la stipulazione di una Convenzione socio sanitaria tra i

Comuni compresi nella Zona stessa. È al livello delle Zone Distretto che vengono

organizzati e gestiti «la continuità e le risposte territoriali dell’integrazione socio sanitaria

compresi i servizi per la salute mentale e le dipendenze e della non autosufficienza». Ed è

qui che vengono governati i percorsi inerenti «le cure primarie, la specialistica territoriale,

l’attività dei consultori e la continuità assistenziale ospedale-territorio». A ciascuna Zona è

preposto un direttore, nominato dal Direttore generale della Azienda USL, che si occupa in

particolare di assistenza territoriale e di integrazione socio sanitaria, con rilevanti

responsabilità di coordinamento e di gestione del budget, coadiuvato da un comitato di

coordinamento e da un ufficio di direzione.

La convergenza tra servizi sanitari e servizi sociali ─ punto cruciale della riforma del

sistema sanitario ─ non può non avere il suo cardine nell’individuazione di un medesimo

9 Che modifica sul punto l’art. 64 della L.R. 40/2005.

7

ambito territoriale di esercizio (la Zona Distretto): se la prospettiva della riforma è appunto

quella di spostare il baricentro dall’assistenza ospedaliera a quella territoriale, dove

costruire un organico sistema di servizi integrati sociosanitari, una corretta delimitazione

territoriale e il rafforzamento dell’organizzazione zonale sono passaggi indispensabili al

fine di integrare le attività extraospedaliere e i servizi socio sanitari. È indubbio che in

alcuni settori dei servizi sociali ad alta integrazione socio-sanitaria, come sono quelli,

richiamati sopra, legati alla tossicodipendenza, alla salute mentale, all’handicap, la

macchina sanitaria e quella sociale devono essere fortemente integrate per dare risposte

soddisfacenti al cittadino utente; settori nei quali non è facile definire in modo netto dove

finisce il terreno di competenza dell’una e dove inizia quello dell’altra.

2. Una scelta identitaria: la concertazione istituzionale. Il caso della politica socio sanitaria

La riorganizzazione territoriale dei servizi socio sanitari, la ricerca per essi degli ambiti

territoriali ottimali e la messa in atto di una rete di governance verticale che coinvolga

ampiamente i Comuni, sono due obiettivi della riforma in corso che si inseriscono senza

strappi in una linea politico strategica perseguita coerentemente fin dalla costituzione della

Regione, e che può essere utile richiamare qui brevemente.

La classe politica che andò a governare la neonata Regione Toscana era costituita

da amministratori comunali e provinciali, espressione tutti delle varie specificità territoriali;

e, nel suo insieme, concepiva la Regione come livello di governo chiamato a valorizzare

quelle differenze e specificità, che facesse superare al tempo stesso isolamento e

frammentazione, innescando comportamenti di leale cooperazione tra i Comuni. Una

Regione, insomma, che non si sovrapponesse in modo duale e gerarchico ai sottostanti

livelli di governo ma che operasse soprattutto come ente di programmazione e di

coordinamento delle funzioni su cui essa stessa aveva potestà legislativa. Da qui la

precoce, forte propensione al riordino territoriale, alla ricerca degli ambiti più adeguati a

favorire la collaborazione intercomunale; per dare la maggiore efficacia agli interventi di

sostegno allo sviluppo economico e per la programmazione e la gestione dei servizi

pubblici locali10. La zonizzazione è stata un momento chiave nella costruzione

dell’istituzione regionale perché su di essa si è costruito il rapporto tra regione geografica

e regione politica.10 Cfr. S. Iommi, Numerosità e dimensione degli enti locali ed offerta dei servizi pubblici, in IRPET, Il governo locale in Toscana – Identikit 2011, Firenze, Edifir-Edizioni Firenze, 2012, p. 57.

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Il governo regionale scelse la «concertazione», istituzionale e sociale, come metodo

di governo11 e individuò fin dall’inizio una sua peculiare vocazione nel cercare di

consolidare la comunità politica toscana; ed ha operato, soprattutto, per costruire legami

cooperativi efficaci tra i Comuni, che di quella comunità erano i primi e i più importanti

rappresentanti istituzionali. La valorizzazione politica dei Comuni ha significato, sul piano

organizzativo, la scelta, anch’essa politicamente identitaria, di esercitare le funzioni

amministrative attraverso i Comuni stessi12.

La necessità di individuare ambiti territoriali subregionali omogenei con una

specifica identità, come base per rispondere a domande ed esigenze funzionali settoriali,

si era affermata nel contesto politico toscano prima ancora che nascesse la Regione,

frutto di un lavoro di preparazione sviluppato in ambito politico ed accademico negli anni

Sessanta, specialmente con le analisi e le proposte del Comitato regionale per la

programmazione economica, istituito nel 1964 dal Ministero del Bilancio e della

Programmazione economica13. Il Comitato individuò una prima zonizzazione nei

Comprensori, raggruppamenti di comuni omogenei per caratteristiche sociali, economiche,

di struttura produttiva e demografiche, articolati in sette tipologie di zona14. L’obiettivo di un

ulteriore decentramento rispetto al territorio regionale, per dare alle attività programmatorie

della costituenda Regione adeguati ambiti territoriali di riferimento e poter realizzare una

organica programmazione economica e sociale, venne fissato nel primo Statuto regionale

– art. 6815.

11 C. Baccetti, Politici e amministratori regionali negli anni Settanta, in P.L. Ballini, M. Degl’Innocenti, M.G. Rossi (a cura di), Il tempo della Regione. La Toscana, Firenze, Giunti, 2005, pp. 213-276.12 «L’opzione favorevole alla delega delle funzioni agli enti minori, in attuazione dell’art. 118 comma 3 Cost., è una peculiarità della legislazione toscana sin dall’inizio». M. Manetti, Poteri e strumenti del governo regionale, in S. Neri Serneri (a cura di), Alle origini del governo regionale, cit, p. 63.13 La discussione sulle specificità territoriali della Toscana e le proposte di zonizzazione che ne scaturirono si inseriva in un ampio dibattito regionalista sviluppato in Toscana già dalla metà degli anni Cinquanta, in ambito sia politico che accademico. Un ruolo trainante in questa discussione fu assunto dall’Unione Regionale delle Province Toscane (URPT), specie con la rivista La Regione. Cfr. M.G. Rossi, Regionalismo e forze politiche in Toscana dalla Liberazione al “centro-sinistra”, in S. Neri Serneri (a cura di), Alle origini del governo regionale, cit., pp. 38-54.14 Cfr. C. Capineri, Gli spazi del governo regionale in Toscana. Una lettura geografica, in S. Neri Serneri (a cura di), Alle origini del governo regionale, Roma, Carocci, 2004, p. 94. Nel 1968, Roberto Maestro sviluppò un’ulteriore suddivisione del territorio toscano in 21 Zone economiche di programma (ZEP), aree nelle quali trovavano posto «tutte le sedi riguardanti la residenza, il lavoro, il tempo libero, la funzione dei consumi privati e pubblici e dove quindi per le esigenze quotidiane può essere vissuta interamente la vita degli abitanti». Ivi, p. 97. Cfr. Suddivisione della Toscana in zone economiche di programma, indagine svolta dall’arch. Roberto Maestro per incarico del Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, 2 voll., Firenze, Cooperativa Libraria editrice, 1968.15

Le Linee del programma regionale di sviluppo economico, approvate dalla Regione nel marzo 1973, dividevano lo spazio regionale, «in una visione morfo-tipologica assai semplificata ma politicamente efficace, in tre aree: 1. quella a forte insediamento intensivo, coincidente con l’asta dell’Arno e della costa settentrionale; 2. quella della fascia appenninica e preappenninica nonché delle colline interne; 3. quella della fascia litoranea meridionale e dei fondivalle dei fiumi minori». G. De Luca, Pianificazione e

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Per quanto riguarda in specifico l’ambito di policy che qui ci interessa, la

territorializzazione delle politiche per la salute e la costruzione di una conseguente linea di

governance centrata sulla cooperazione intercomunale era stata una precoce scelta

strategica della Regione Toscana.

É stato osservato che le competenze sanitarie e le politiche attuate in questo

settore hanno contribuito in modo rilevante, come poche altre, a definire e rafforzare nel

tempo il profilo identitario delle Regioni italiane16. Per la Regione Toscana, ciò è stato

particolarmente vero e non c’è dubbio che le politiche per la salute nelle quali sono stati

integrati elementi sanitari, sociali e socio-assistenziali, siano state fin dal 1970 un aspetto

determinante nella costruzione della sua identità politico-istituzionale. L’attenzione verso le

politiche assistenziali e di welfare (sociali, sanitarie, scolastiche), è un tratto politico-

istituzionale fondativo della Toscana, un’attenzione che si è concretizzata fin dall’inizio con

la scelta di affidare la gestione di queste politiche, in misura precipua, al governo locale17,

dando vita ai Comprensori per la gestione dei servizi in ambito sociosanitario.

Già nel 1973 il governo regionale aveva dato corpo ad una visione innovatrice

(rispetto alla legislazione statale vigente) perché integrata e comprensiva dei servizi di

assistenza sociale e di assistenza sanitaria; ed aveva approvato due leggi che istituivano

servizi territoriali di tutela della maternità e servizi di prevenzione e tutela della salute sui

luoghi di lavoro (con le leggi n. 46 e n. 47). La Toscana fu tra le prime regioni (insieme a

Lombardia, Umbria Emilia-Romagna, Veneto, Lazio e Basilicata) a dare vita ad una

riorganizzazione delle attività di sanità pubblica e di prevenzione nei luoghi di lavoro che

faceva perno sui Comuni. La Toscana (come l’Umbria) intervenne con una legge regionale

che individuava l’ambito specifico e la delimitazione territoriale dei comprensori e dei

«consorzi socio-sanitari intercomunali per la gestione integrata dei servizi sanitari e

sociali»18.

programmazione. La questione urbanistica in Toscana: 1970-1995, Firenze, Alinea Editrice, 2001, p. 39. Sulle Linee programmatiche della Regione Toscana si veda e M. Degl’Innocenti, L’avvento della Regione 1970-1975. Problemi e materiali, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore, 2004, pp. 219-259.16 Cfr. F. Taroni, Salute, sanità e regioni in un Servizio sanitario nazionale, in L’Italia e le sue Regioni – L’età repubblicana, a cura di M. Salvati e L. Sciolla, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2015, p. 411.17 «In definitiva, si può dire che le politiche regionali in materia di Welfare… e di condivisione delle funzioni con gli enti locali costituiscano il nerbo dell’identità politico-amministrativa regionale». M. Manetti, Poteri e strumenti del governo regionale, cit., pp. 55-56. Anche Valeria Fargion ritiene che la Toscana sia stata «un laboratorio in cui si è cercato di realizzare una rifondazione dal basso del Welfare State… le scelte dei primi anni appaiono ancor più coraggiose e innovative, soprattutto se confrontare con quanto contemporaneamente sta facendo la maggioranza delle altre Regioni». V. Fargion, Le politiche sociali tra ricerca del consenso e innovazione, ivi, pp. 169-170. 18 F. Taroni, Salute, sanità e regioni in un Servizio sanitario nazionale, in L’Italia e le sue Regioni, cit., p. 413. Mentre l’Emilia Romagna adottava una «strategia “dal basso”» con stimoli culturali e incentivi finanziari a Comuni e Province perché si unissero volontariamente in consorzi socio-sanitari. Ibidem.

10

In questa fase genetica dell’istituzione regionale fu cruciale la figura dell’Assessore

alla Sanità in carica nella prima legislatura, Guido Biondi, che “inventò” la politica socio-

sanitaria della Regione, ne fissò le scelte politiche di fondo e tracciò le linee strategiche

che hanno segnato la rotta fino ad oggi19. Con il piccolo gruppo dei suoi collaboratori

Biondi creò dal nulla la struttura della Sanità toscana che fu «a detta di molti, già dai primi

mesi dopo la nascita delle Regioni, una delle strutture amministrative che funzionavano

meglio in Italia»20. Si governò la Sanità sulla base del convincimento, allora innovativo, che

la salute dei cittadini potesse essere tutelata efficacemente solo se essi stessi venivano

coinvolti, anzitutto attraverso le attività di prevenzione della malattia e del rischio; e poi con

la partecipazione degli enti di governo ad essi più vicini, i Comuni, nella gestione delle

strutture d’intervento. Da qui la centralità del territorio e la delega di funzioni agli enti locali,

con la nascita dei distretti socio-sanitari - praticando la Toscana, di fatto, quella che è stata

definita una «sussidiarietà ante litteram»21.

Alla fine del 1973 fu approvata la legge22 che consolidava la rete di unità locali di

servizi sanitari e sociali, gestiti dagli enti locali in forma associata, e tracciava le linee di

una importante zonizzazione, sulla base della quale pochi mesi dopo nasceranno i

Consorzi socio-sanitari23. I Consorzi erano «dei sottomultipli delle zone economiche di

programma» individuate dalla Regione stessa e puntavano a fissare la dimensione

ottimale dal punto di vista della funzionalità dei servizi: per questo il dimensionamento

delle zone «non venne fatto sulla base dei presidi sanitari esistenti, ma nella prospettiva di

un riequilibrio nella distribuzione dei servizi, che rifiuta la logica di tipo ospedaliero in nome

di una capillare e diffusa articolazione territoriale delle strutture di base»24.

Il trasferimento delle competenze amministrative dallo Stato alle Regioni (con la L

382/1975) e ai Comuni (con il DPR 616/1977) che cominciava lentamente ad avviarsi,

rafforzò una tendenza che, come detto, in Toscana si era già espressa con la nascita

stessa dell’ente Regione. Gli amministratori regionali si posero il problema di

19 Nella prima Giunta regionale, formata da esponenti del PCI, PSI e PSIUP, Biondi, segretario regionale e membro del Comitato centrale del PSIUP, era l’unico politico “puro”, ovvero il solo che non avesse alle spalle un’esperienza di amministratore locale.20 Cfr. in Guido Biondi. Un uomo, un’idea, a cura di S. Carlesi e T. Gurrieri, Firenze, Edizioni Polistampa, 2000, p. 39. 21 M. Manetti, Poteri e strumenti del governo regionale, cit., p. 63. «Soprattutto con la scelta di adottare una legge generale sulla delega di funzioni agli enti locali (L.R. 30 aprile 1973, n. 30), scelta… che aveva… il preciso significato di vincolare le leggi di delega settoriali al rispetto di tutte le garanzie possibili nei confronti degli enti delegatari». Ivi, p. 64.22 L.R. n. 64/1973, «Suddivisione del territorio regionale in zone di intervento nei campi della sanità e dell’assistenza sociale».23 L.R. n. 50 del 20 agosto 1974, «Interventi finanziari regionali per l’unificazione dei presidi sanitari e sociali di base. Costituzione dei consorzi socio-sanitari».24 V. Fargion, Le politiche sociali tra ricerca del consenso e innovazione, cit., p. 171.

11

istituzionalizzare la collaborazione tra Comuni e di dare razionalità ed efficienza al sistema

delle autonomie, con una gestione stabile, unitaria ed integrata dei servizi e delle funzioni

relative al territorio.

La ricerca di un livello territoriale adeguato a sviluppare aggregazioni intercomunali,

nella linea della valorizzazione amministrativa e funzionale del governo locale, segnò un

passaggio importante con l’approvazione della Legge regionale 37/1979, che istituì 32

Associazioni Intercomunali, quali «ambiti territoriali adeguati all’organizzazione e alla

gestione coordinata dei servizi e delle funzioni esercitate dalle Amministrazioni locali». Lo

scopo era di promuovere l’esercizio associato delle funzioni proprie dei Comuni e di quelle

ad essi delegate dalla Regione stessa, soprattutto guardando alle difficoltà finanziarie e

gestionali dei comuni più piccoli. Insomma, le Associazioni Intercomunali erano individuate

come aree polifunzionali e integrate con carattere di sistema, ambiti territoriali dove era

riconoscibile un interesse generale di comunità e dove perciò il nuovo organo di governo

associato poteva favorire il rafforzamento delle relazioni, economiche e sociali, interne25.

Vero è che, in pratica, alle Associazioni non venivano dati effettivi strumenti e incentivi che

potevano rendere appetibili per i Comuni parziali cessioni di sovranità verso l’organo di

governo collegiale. Dopo il varo della legge quadro 142/1990 le Associazioni intercomunali

furono sciolte, nel 1991. Ma la delimitazione territoriale di queste Associazioni ha segnato

comunque un passaggio importante nella vicenda politico-istituzionale della Regione

Toscana perché quella prima individuazione di ambiti relativamente omogenei sotto il

profilo socio-economico ha rappresentato il riferimento per successive zonizzazioni. Nei

confini dei bacini territoriali individuati nel 1979 sono stati disegnati e collocati, con pochi

cambiamenti, sia le aree di riferimento «per la programmazione di interventi a favore dello

sviluppo economico e dell’occupazione (42 Sistemi Economici Locali di natura

sovracomunale)», sia «gli ambiti di programmazione dei servizi socio-sanitari (34 zone

25 Per disegnare i confini delle Associazioni Intercomunali ci si era basati «sull’utilizzazione dei movimenti pendolari casa-lavoro, come espressione di una distanza funzionale con caratteri di stabilità e di ripetitività. L’obiettivo era quello di far coincidere le aree di programma con l’area nella quale gli interessi della popolazione possono essere individuati nella loro globalità; tale obiettivo passa attraverso la partecipazione, che è, a sua volta, un effetto della consapevolezza di appartenenza della comunità organizzata sul territorio». C. Capineri, Gli spazi del governo regionale in Toscana. Una lettura geografica, cit., p. 99. È utile ricordare anche che la delimitazione delle AI individuata nella fase tecnico-conoscitiva fu rivista dopo la verifica degli organi politici, ovvero la Giunta regionale, i governi comunali e le organizzazioni dei partiti di maggioranza. Le ragioni della politica imposero alcune modifiche alla proposta tecnica; e portarono, ad esempio, «alla scissione della Garfagnana, dove si confermò la ripartizione delle Comunità montane, e del Valdarno superiore; si costituì anche l’Associazione intercomunale della Val di Chiana Est, senza alcun apparente fondamento né dell’analisi funzionale né del grado omogeneità politica». Ivi, p. 100.

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sovracomunali), utilizzati con alcune modifiche anche per la programmazione dell’offerta

scolastica e dei servizi connessi»26.

Dagli anni Novanta in avanti l’individuazione e la regolazione di ambiti territoriali

ottimali sia per la programmazione dello sviluppo economico della Toscana sia per lo

sviluppo e la gestione dei servizi pubblici (organizzativi, a rete e alla persona) è stato un

tratto fortemente caratterizzante del rapporto tra Regione e Comuni. Si sono così

moltiplicate proposte di «assetti interistituzionali alternativi – o meglio paralleli – alle

“normali” interazioni tra i tre livelli amministrativi di Regione, Provincia e Comune» 27. Un

passaggio importante fu l’approvazione della L.R. 40/2001 che sosteneva

l’associazionismo dei Comuni con un progetto di riorganizzazione complessiva del

territorio regionale; la Regione individuava gli ambiti di intervento nei quali gli enti locali

associati potevano attivare progetti comuni di gestione di servizi e funzioni. Con la legge

40 e con successivi provvedimenti normativi e legislativi è stato messo a punto il «Sistema

Toscano delle Autonomie», fondato sull’individuazione dei «livelli ottimali», vale a dire

degli ambiti territoriali all’interno dei quali l’aggregazione dei comuni risultasse ottimale per

l’esercizio associato delle funzioni e per l’erogazione dei servizi.

Gli elementi qualificanti della scelta strategica della Regione in questo campo –

centralità dei Comuni nella gestione dei servizi, articolazione e integrazione sul territorio

dei servizi sanitari e sociali – furono presi come riferimento anche dalla legislazione statale

sul trasferimento organico di funzioni alle Regioni, ovvero il DPR 616 del 1977, e poi dalla

legge di riforma sanitaria n. 833 del 1978, che faranno propri i punti centrali della

normativa toscana – le Unità Sanitarie Locali furono uno “sviluppo” dei consorzi socio-

sanitari28.

D’altra parte, il salto di qualità della legge istitutiva del SSN fu proprio quello di

indicare l’integrazione organizzativa dei servizi sanitari e sociali in riferimento «ad una

26 IRPET, Dimensioni dei governi locali, offerta di servizi pubblici e benessere dei cittadini, a cura di S. Iommi, 2013, p. 20. 27 S. Profeti, Il potere locale tra politica e politiche. Il mosaico della governance nell’area vasta fiorentina, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, p. 99. Nel primo decennio degli anni Duemila la Regione si è molto impegnata anche finanziariamente (38 milioni di euro tra il 2002 e il 2008) per favorire gli accordi volontari tra i Comuni e la gestione associata dei servizi, ottenendo buoni risultati («più di 700 gestioni associate già pienamente funzionanti e il coinvolgimento di 248 dei 287 comuni toscani» alla fine del 2008). Ivi, pp. 100-101. Profeti osservava anche, però, che, al di là dei numeri, «restano zone d’ombra circa la reale efficacia dello strumento. Particolarmente problematiche… appaiono le troppe sovrapposizioni in questo mosaico di esperienze “a geometria variabile” che rischiano di innescare conflittualità interistituzionali e di andare in direzione contraria al principio di semplificazione spesso predicato dalla stessa amministrazione regionale». Ivi, p. 101.28 «La legislazione toscana adottata nella prima, controversa fase del regionalismo italiano ha sotto vari profili predeterminato gli assetti normativi nazionali in materia di sanità e di assistenza sociale». M. Manetti, Poteri e strumenti del governo regionale, cit., p. 58.

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comunità territorialmente definita rispetto alla frammentazione dell’assistenza nei tre

circuiti paralleli della medicina generale, specialistica e ospedaliera» caratteristica del

precedente sistema delle mutue29. Vero è che la legge 833 confondeva il principio della

partecipazione e della rappresentanza democratica con la gestione diretta delle

neocostituite USL da parte dei politici designati dai partiti presenti nel Consigli comunali, ai

quali furono affidati i poteri esecutivi negli organismi di gestione delle USL; e ciò portò

rapidamente ad una capillare lottizzazione dei Comitati di gestione30. «L’organizzazione

ampiamente decentrata del SSN e la politicizzazione della gestione facilitarono la

permeabilità delle istituzioni ai più disparati interessi e gruppi di pressione degenerata

talora in fenomeni di clientelismo politico e di corruzione»31.

Il decentramento del sistema di governo delle politiche sociali e sanitarie e la loro

integrazione sono rimasti come punto di riferimento dei più importanti provvedimenti

legislativi del governo nazionale, alla fine degli anni Novanta. Sia, ad esempio, per la

riforma introdotta dalla ministra della Sanità Rosy Bindi col decreto legislativo n. 229 del

1999; sia, soprattutto, per la legge quadro n. 328 del 2000 («Legge quadro per la

realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali») che dispone (art. 1) «un

sistema integrato di interventi e servizi sociali diretti a garantire la qualità della vita, pari

opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza». Tre anni prima che fosse

approvata la legge 328, infatti, la Toscana aveva approvato una legge innovatrice e

ambiziosa32 in materia di politiche sociali, che mirava a inserire tutti gli interventi in questo

campo dentro una rete territoriale coordinata sia con gli interventi di carattere sanitario, sia

con quelli relativi «alla casa, al lavoro, alla mobilità, alla formazione, all’istruzione,

all’educazione, al diritto allo studio, alla cultura, alla ricerca, al tempo libero e con tutti gli

altri interventi finalizzati al benessere della persona» (art. 1). Le legge 72/97 può essere

considerata il «fondamento sistematico» di quella prospettiva di integrazione socio

sanitaria che è stata da sempre «scelta strategica operativa e valoriale» della Regione;

che ha costruito l’integrazione «ponendo su un piano paritario le strutture organizzative, le

professionalità, le attività e le competenze appartenenti al sistema sanitario regionale con

quelle appartenenti al sistema sociale comunale»33.

29 F. Taroni, Salute, sanità e regioni in un Servizio sanitario nazionale, cit., p. 414.30 Cfr. M. Ferrera e G. Zincone (a cura di), La salute che noi pensiamo, Bologna, il Mulino, 1986, p. 231.31 F. Taroni, Salute, sanità e regioni in un Servizio sanitario nazionale, cit., p. 415. Sulla originaria partitizzazione delle USL si veda F. Girotti, «Il ceto politico nelle USL», in Democrazia e diritto, n., 1987, pp. 125-161.32 L.R. n. 72 del 3 ottobre 1997, «Organizzazione e promozione di un sistema di diritti di cittadinanza e di pari opportunità».33 Parere e proposte di emendamento di ANCI Toscana sulle proposte di modifica delle leggi regionali in materia sanitaria e sociale. Consultazione in IV commissione del Consiglio Regionale, 5 giugno 2014.

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È appunto inserendosi nel solco tracciato dalla legge della Toscana che la legge

328 identificava i Comuni come il soggetto designato a governare, programmare, valutare

e controllare i servizi sociali e sociosanitari, e ad erogarli; indicava l’obiettivo strategico

dell’integrazione del Sistema sanitario con il sistema sociale, stabiliva la necessità di

concordare i livelli essenziali e uniformi di assistenza, la valorizzazione dei Distretti socio-

sanitari, la coprogrammazione e la coprogettazione col Terzo Settore.

3. Tra aziendalizzazione e Società della Salute

3.1 L’aziendalizzazione

All’inizio degli anni Novanta il governo di pentapartito34 varò una riforma che modificò per

vari e importanti aspetti il SSN. La riforma35 cercava di rispondere ad una situazione di

grave crisi economica e istituzionale e introdusse «tre elementi fortemente innovativi»:

l’«aziendalizzazione», che «trasformava le USL da aziende gestite dai Comuni ad aziende

pubbliche controllate dalla Regione»36, dando la possibilità altresì di scorporare un certo

numero di ospedali dalla gestione diretta della USL costituendosi in aziende ospedaliere

autonome. Un secondo elemento introdotto dalla riforma del 1992 fu una ancor più

accentuata «regionalizzazione» del sistema sanitario: la riforma «manteneva allo Stato la

definizione dei “livelli minimi” di assistenza… ma trasferiva alle Regioni più ampie

competenze sull’organizzazione e il funzionamento dei sevizi in cambio della

responsabilità di far fronte con risorse proprie a eventuali eccessi di spesa rispetto ai

trasferimenti statali»37. Infine era stata introdotta anche un’apertura alla privatizzazione,

ovvero la possibilità per le Regioni di «disporre l’uscita volontaria per i loro cittadini dal

SSN verso “altri incaricati di servizio”»38 (mutue professionali o aziendali, assicurazioni

private). Ma quest’ultimo elemento della privatizzazione «venne immediatamente rimossa

dalla legislazione»39, già con un decreto correttivo del 1993.

La riforma del 1992 fu parzialmente riformata a sua volta alcuni anni dopo, nel

1999, dal già ricordato decreto del ministro della Sanità del governo D’Alema, Bindi, che,

oltre ad introdurre i Livelli essenziali di assistenza (LEA) ─ da definire a livello nazionale e

che dovevano essere garantiti in modo uniforme da tutte le Regioni ─ confermò in capo 34 Presidente del Consiglio il socialista Giuliano Amato, ministro della Sanità il liberale Francesco De Lorenzo.35 D. legisl. n. 502 del dicembre 1992.36 F. Taroni, Salute, sanità e regioni in un Servizio sanitario nazionale, cit., p. 416.37 Ibidem.38 Ibidem.39 Ibidem.

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alle Regioni stesse la gestione del sistema sanitario e la sua «aziendalizzazione» ma

riconobbe anche «un ruolo significativo» ai Comuni, «che erano stati completamente

estromessi dalla riforma Amato-De Lorenzo»40.

Così, dagli anni Novanta, in attuazione della riforma voluta dal governo, per rendere

il sistema sanitario “economicamente sostenibile” ma cercando di non perdere il carattere

pubblico e universalista dei servizi erogati, la Toscana ha sì avviato l’aziendalizzazione

delle USL ma insieme ha anche avviato una riorganizzazione del sistema sanitario

regionale su base territoriale.

In sintesi, si possono identificare due punti centrali nella strategia di riforma del

servizio sanitario della Regione: da una parte, una politica di razionalizzazione dei servizi

sanitari e ospedalieri che prevedeva tagli e accorpamenti delle strutture. Dall’altra un

rafforzamento dei servizi sociali territoriali, e una politica di integrazione socio sanitaria che

riprendeva e rafforzava l’ispirazione dei primi anni Settanta cercando di diffondere una

cultura della prevenzione che potesse limitare il ricorso all’ospedalizzazione. Per questo

secondo obiettivo furono “inventate” le Società della Salute e contemporaneamente fu

rafforzato e reso organico il ricorso alla sussidiarietà, ovvero l’esternalizzazione di molti

servizi socio assistenziali a favore dell’associazionismo del Terzo Settore.

Nel primo decennio degli anni Duemila il sistema sanitario regionale ha conosciuto

trasformazioni funzionali che hanno sviluppato una nuova, più vasta, dimensione

territoriale come ambito di riferimento per la costruzione di reti integrate socio-sanitarie.

Le USL furono ridotte da 40 a 12 e trasformate in Aziende (ASL), che vennero a

corrispondere sostanzialmente al territorio delle province (più quella interprovinciale

dell’area Empolese Valdelsa41, e quella della Versilia, area subprovinciale della provincia

di Lucca, con sede a Viareggio – a riprova del peso dei fattori locali e politici di contesto).

L’orientamento di fondo fu quello di adottare un modello integrato di sanità che lasciava

all’interno delle ASL la gestione dei presidi ospedalieri ─ salvo quattro «a elevata

complessità dimensionale e operativa» che dal 2000 assunsero lo status di aziende

ospedaliere universitarie (AOU). Fino all’attuale riforma del 2015, la situazione prevedeva

perciò 9 aziende ASL integrate e 3 aziende miste, che non avevano alcuna titolarità sulle

rispettive AOU. Ciascuna delle 12 ASL venne suddivisa in ambiti territoriali, le Zone, per

40 Ivi, p. 417.41 «Il riconoscimento di una speciale autonomia al territorio dell’Empolese è sì giustificato dall’esistenza di un vero e proprio sistema economico produttivo imperniato sul distretto della moda e sulla produzione di manufatti, ma trova un’importante sponda anche nella straordinaria forza elettorale che il partito di maggioranza relativa della Regione da sempre detiene nei comuni della zona». S. Profeti, La sanità toscana: un caso di riproduzione per adattamento, in Il cambiamento possibile – La sanità in Sicilia tra Nord e Sud (a cura di E. Pavolini), Roma, Donzelli Editore, 2011, p. 132.

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un totale di 33, che corrispondevano in sostanza al territorio delle precedenti USL. Le

Zone, per ciascuna delle quali la L.R. 72/1997 prevedeva la nomina di un responsabile

titolare di deleghe definite dai rispettivi vertici aziendali, erano a loro volta articolate in

Distretti (in totale 56), cui competeva «l’organizzazione e l’erogazione delle prestazioni di

primo livello e di pronto intervento, nonché l’integrazione tra servizi sanitari e sociali»42.

Nel 2000, con la legge regionale n. 22 venne introdotta, prima Regione in Italia,

l’Area Vasta43, come «livello interaziendale di concertazione», un terzo livello di

pianificazione e programmazione intermedio tra Regione e singole Aziende Sanitarie

Locali. Furono istituite sul territorio regionale tre Aree Vaste (Nord-Overst, Sud-Est e

Centro), a ciascuna delle quali corrispondeva un’Azienda ospedaliera-universitaria (AOU

di Firenze, Pisa e Siena), governate da un Comitato di Area Vasta, composto dai direttori

generali della Aziende comprese nell’Area stessa. Nelle intenzioni della Regione, l’Area

Vasta costituiva un correttivo alle logiche competitive interaziendali che gravavano sul

“mercato” sanitario e alzavano la spesa, soprattutto quella ospedaliera: farmaceutica,

diagnostica e specialistica. Come si legge nel Piano Sanitario Regionale 2002-2004, «Il

sistema sanitario si caratterizza per una notevole articolazione dell’offerta e per una

variabilità, non sempre programmabile o prevedibile della domanda. Tali caratteristiche

inducono talvolta a comportamenti in contrasto con una logica a rete del sistema,

finalizzati piuttosto al raggiungimento di una “autosufficienza” aziendale. La scelta della

Toscana, con l’obiettivo di privilegiare l’appropriatezza degli interventi e l’integrazione dei

servizi nei percorsi assistenziali, è quella di potenziare lo sviluppo armonico della rete»44.

Insomma, la spinta verso la costruzione di una rete di concertazione di livello

interaziendale, l’introduzione del livello di Area Vasta e le centralizzazione in capo ai

Consorzi di Area Vasta e poi agli ESTAV della programmazione degli acquisti e dei servizi

accessori alle prestazioni sanitarie, la riduzione del numero delle USL e l’accorpamento tra

Zona e Distretto, tutte queste trasformazioni organizzative hanno sostanzialmente risposto

a pressanti esigenze di razionalizzazione e contenimento della spesa sanitaria, miravano

42 Ivi, p. 120.43 Resa operativa con la legge n. 40 del 2005.44 Piano Sanitario Regionale 2002-2004, par. 5.2.2. Le tre Aree Vaste furono inizialmente costituite in forma di Consorzi tra le Aziende, organismi di diritto privato in capo ai quali venivano accentrate alcune delle attività di supporto tecnico e amministrativo delle Aziende: acquisti, approvvigionamenti, gestione logistica dei magazzini e delle reti informative e tecnologie informatiche, «Centri unici di prenotazione (CUP)… gestione del patrimonio e degli appalti, delle procedure concorsuali per il reclutamento del personale e… gestione delle procedure per il pagamento dei compensi». S. Profeti, La sanità toscana: un caso di riproduzione per adattamento, cit., p. 121. Dal 2005, con la legge regionale n. 40, con l’obiettivo di potenziarli, i tre Consorzi furono trasformati in altrettanti Enti per i servizi tecnico-amministrativi di area vasta – ESTAV –, nuovi enti dotati di personalità giuridica che permettevano di risolvere alcuni problemi funzionali legati all’inquadramento del personale e di natura fiscale.

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a ridurre il costo dei servizi razionalizzando le modalità di erogazione ed eliminando

sprechi e duplicazioni.

Del resto, la forte riduzione del disavanzo sanitario era diventato il tema centrale,

nel primo decennio del Duemila, dei negoziati tra Stato e Regioni, attraverso il sistema

delle Conferenze intergovernative che avevano al centro i Patti per la salute. Ormai è un

dato acquisito che le politiche sanitarie regionali sono «subordinate alla loro funzionalità

rispetto agli obiettivi di finanza pubblica nazionale»45. I vincoli finanziari posti dal governo

centrale sono divenuti il fattore esogeno decisivo, che pesa moltissimo e condiziona i

modelli organizzativi della sanità regionale. Le politiche di austerità che hanno

caratterizzato gli ultimi anni, e i vari Piani sanitari e Patti per la salute, dal 2000 in avanti,

hanno rapidamente cancellato i propositi di procedere sulla via del federalismo e del

decentramento su cui il Paese sembrava avviato fino all’approvazione della Legge

costituzionale 3 del 2001. La «razionalizzazione» della spesa ha dettato accentramento e

accorpamento delle strutture territoriali con la forte riduzione del numero delle ASL, con

una grande crescita delle loro dimensioni territoriali e demografiche, come è avvenuto non

certo solo in Toscana.

3.2 Le Società della Salute

Nondimeno, in Toscana l’accorpamento e la riduzione dei servizi più propriamente sanitari

e ospedalieri sono stati affiancati da un’iniziativa di riforma organizzativa che all’inizio del

decennio vide nascere la Società della Salute, e con essa l’avvio di un cammino verso il

rafforzamento del sistema di servizi socio sanitari integrati sul territorio. La

sperimentazione delle Società della Salute (SdS) fu avviata nel 2002 (col Piano Sanitario

Regionale 2002-2004). Esse erano in sostanza una ripresa dei vecchi Consorzi

intercomunali ed erano state pensate per favorire «l’integrazione fra le funzioni sociali dei

Comuni e quelle sanitarie delle ASL»46. Essenziale, nella progettazione delle SdS era

l’apertura, il coinvolgimento, delle «organizzazioni non profit di volontariato»47.

Le Società della Salute nacquero sull’ambito territoriale di riferimento delle Zone

Distretto, ed erano la struttura organizzativa pensata con l’obiettivo specifico di integrare

sul territorio i servizi socio-assistenziali, di competenza dei Comuni, e i servizi sanitari di

competenza delle ASL; e di (ritornare ad) affidare ai Comuni consorziati la

45 F. Taroni, Salute, sanità e regioni in un Servizio sanitario nazionale, cit., p. 420.46 Ibidem. 47 Ibidem.

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programmazione e la gestione dei servizi integrati, coinvolgendo direttamente e

organicamente le associazioni del Terzo Settore. La nascita delle SdS concretizzava

l’orientamento politico che stava dietro il D.l. 229/1999 della ministra Bindi di restituire un

ruolo ai Comuni nel settore socio sanitario48. Esse furono fortemente volute dai Comuni

toscani che temevano di vedersi togliere ogni potere di programmazione e di intervento dal

potenziamento “aziendalistico” delle ASL e dalla concentrazione del potere decisionale

nella figura dei Direttori generali delle stesse. Insomma le SdS nacquero da un forte

movimento politico “dal basso”, sostenuto dai partiti e dalle amministrazioni locali, che

avevano peraltro in gran parte il medesimo colore politico del governo regionale – PDS-DS

e partiti neo comunisti. Per dirla in modo un po’ brutale ma realistico, con le SdS i sindaci

– i nuovi sindaci “eletti dal popolo”, con i nuovi e assai maggiori poteri che si sono

concentrati nelle loro mani dopo il 1993 – diventano attori politici del sistema socio

sanitario regionale, a fianco della Regione e nello stesso tempo limitano un po’ lo

strapotere che la nuova normativa nazionale concentrava nella ASL e nel Direttore

generale – quindi in ultima analisi nella Regione stessa e nelle mani dell’Assessore

regionale di cui i Direttori erano, in Toscana, la longa manus49. Con le SdS si volevano

ricreare le condizioni migliori per gestire sul territorio i servizi sociali e sanitari, per

continuare a indirizzarli – un po’ come accadeva “prima delle ASL”, con i Consorzi socio

sanitari.

E non c’è dubbio che il rapporto tra sindaci e direttori generali sia diventato il punto

politico chiave nella gestione del sistema regionale della sanità; un rapporto che è stato

giocato in modi diversi da una realtà all’altra, a seconda della capacità politica e

48 «La riforma cd Bindi del 1999 recuperava un ruolo per i Comuni non tanto nella gestione diretta delle organizzazioni sanitarie, quanto in quella di comunità e soprattutto nel campo delle risposte ai bisogni socio-sanitari attraverso i nuovi servizi territoriali… quali ad esempio le Residenze sanitarie assistite e le case protette… e la assistenza domiciliare integrata». E. Pavolini, F. Taroni, Un difficile equilibrio: Comuni e Regioni tra politiche sanitarie e socio-sanitarie, in S. Bolgherini, C. Dallara (a cura di), La retorica della razionalizzazione, Bologna, Istituto C. Cattaneo, 2016, pp. 83-84.49Più della metà dei Direttori generali in carica nel 2010 aveva ricoperto in precedenza cariche politiche, elettive o di partito. Cfr. S. Profeti, La sanità toscana: un caso di riproduzione per adattamento, cit., p. 118. Vale anche la pena ricordare che sul piano politico istituzionale la Regione Toscana si è caratterizzata per una grande stabilità: il PCI e i partiti suoi eredi hanno governato ininterrottamente, prima in alleanza col PSI e il PSIUP/ PdUP poi alla guida di maggioranze di centro-sinistra che comprendevano via via PPI-i Democratici/la Margherita, Verdi, Comunisti Italiani e Italia dei Valori fino alla nascita del PD; ed è stata certamente una delle Regioni meno contendibili del Paese. In particolare, per quello che ci interessa qui più direttamente, si deve ricordare che nel quadro di questa forte stabilità politica, c’è una stabilità ulteriore nel settore della Sanità, dove dal 1995 al 2010 si sono avuti due soli assessori, che poi sono divenuti Presidenti della Regione. Infatti, gli ultimi due Presidenti, Claudio Martini (dal 2000 al 2010) e Enrico Rossi (in carica dal 2010 e rieletto nel 2015) sono saliti alla guida del governo regionale dopo essere stati assessori alla Sanità (dal 1995 al 2000 Martini, dal 2000 al 2010 Rossi). Insomma, in questo settore la leadership del vertice politico nei processi decisionali è stata sempre chiara e incontestata.

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contrattuale dei due soggetti. Con esiti diversi, quindi, sul piano gestionale e per quanto

riguarda la programmazione ospedaliera e dei servizi territoriali. E la personalità dei

sindaci stessi, il colore politico delle amministrazioni diventavano spesso il fattore decisivo

che orientava il confronto o lo scontro e le decisioni susseguenti.

Nella nascita della SdS era implicita anche una sfida della Regione ai Comuni,

perché accettassero di affidare ad uno strumento “forte” di gestione collettiva e coordinata

le risorse e i poteri di cui sono titolari in questo settore di politiche pubbliche. In molti casi

la sfida fu accettata e i Comuni decisero di mettere insieme tutte le risorse per avere voce

in capitolo nella programmazione dei servizi. Spesso la gestione dei servizi sociali fu

affidata alle ASL; in altri casi, invece, i Comuni preferirono “tenerli” e gestirli in proprio,

attraverso gestioni associate intercomunali, ma anche individualmente, nel caso di alcuni

comuni più grandi. Delegare all’ASL le politiche sociali fu un modo, per i sindaci, di mettere

un piede dentro l’Azienda USL, di cogestire con l’Azienda decisioni e investimenti che

possono avere ricadute importanti per un territorio (come ad es. attivare un centro di

formazione per le professioni paramediche, che ha una ricaduta importante su un comune

perché attira persone da fuori che cercano alloggio, consumano, spendono, creano

occupazione indotta, reddito aggiuntivo, ecc.).

La Conferenza dei sindaci divenne l’organo di governo dei processi di politica

sanitaria e in primis della programmazione sanitaria. Nella quale c’è ovviamente la

programmazione socio assistenziale, ma dove poi entrano anche le questioni relativi agli

ospedali (chiuderli, ridimensionarli, spostare ambulatori da un posto all’altro, lasciare in

piedi certe strutture sanitarie che pure ai fini della “razionalizzazione della spesa”

dovrebbero essere chiuse…). E qui appunto si sviluppa il confronto/contrasto tra le due

esigenze: da una parte la definizione di strategie coordinate e condivise per una migliore ─

in termini «appropriatezza», ovvero che eviti gli sprechi ─ gestione della salute; dall’altra le

esigenze territoriali ─ cioè politiche e di consenso ─ dei singoli Comuni. Ad esempio,

l’ostilità di alcuni sindaci a chiudere o ridimensionare strutture ospedaliere superate e

inefficienti che si sarebbe dovuto chiudere, è stata in effetti uno degli aspetti più negativi

della presenza dei sindaci nella programmazione sanitaria attraverso le SdS, e certe (non)

decisioni in questo campo ancora continuano a pesare sulla realtà del servizio sanitario

regionale. La difesa a oltranza di taluni ospedali, oltretutto, è andata spesso a discapito

dello sviluppo dell’assistenza socio sanitaria di base, che invece avrebbe dovuto essere la

priorità per la SdS50.

50 Intervista a Enrico Roccato, già direttore sanitario della Azienda ASL 11 (Empoli), 5 settembre 2016.

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Da sottolineare, anche, il ruolo politico, oltre che di sostegno organizzativo, ai

Comuni, giocato (allora e negli anni successivi fino ad oggi) dall’ANCI Toscana. La

dirigenza regionale dell’associazione dei Comuni è un vero decisore politico centrale nella

rete di governance delle politiche socio sanitarie: il responsabile per la sanità dell’ANCI

regionale interloquisce con l’Assessore, interloquisce con i Direttori generali, dà consigli,

che non vengono ignorati, su dove indirizzare prioritariamente gli investimenti, viene

consultato dall’Assessore sulla nomina dei Direttori…

Insomma, la Regione Toscana è stata la prima in Italia a sperimentare un nuovo

modello organizzativo di struttura territoriale chiamata a gestire in modo integrato i servizi

socio-sanitari extraospedalieri, una struttura, cioè, che nell’integrazione socio-sanitaria

trovava la sua stessa ragion d’essere. Una volta stabiliti dalla Regione il tetto di spesa e la

tipologia e gli obiettivi dei servizi da erogare per la salute dei cittadini, attraverso la Società

della Salute i Comuni potevano decidere su “come” raggiungere quegli obiettivi e,

importante, come integrarli con le altre politiche sociali territoriali connesse alla salute:

casa, lavoro, formazione. Il significato politico era evidente: ridare centralità ai governi

locali e alla figura dei sindaci in particolare; ma anche rilanciare la concertazione o se si

preferisce la governance interistituzionale e orizzontale e favorire la sussidiarietà. Un

ritorno alle origini della «regione aperta» nello specifico campo delle politiche socio-

assistenziali e sanitarie. Un’innovazione organizzativa, dunque, ma anche un salto

culturale che il nuovo PSR 2002-2004 proponeva. Da un Piano per la Sanità si passava a

programmare un Piano per la Salute, ovvero si riconosceva che i “risultati di salute” dei

cittadini scaturivano da politiche efficaci e di qualità rivolte all’ambiente, al territorio, al

lavoro, ai trasporti, all’edilizia e non erano determinati soltanto dalla buona organizzazione

dei servizi sanitari. Il nuovo strumento individuato era così il Piano integrato di salute,

programma d’azione rivolto ad un ambito territoriale definito (il Distretto-Zona) volto a

avvicinare e far cooperare i soggetti istituzionali pubblici presenti in quell’ambito –

Comune, ASL – e altri soggetti non istituzionali – Terzo settore, volontariato, soggetti

privati51.

La SdS svolgeva compiti di programmazione e di integrazione, ovvero compiti di

governo e di indirizzo; ma anche di gestione diretta dell’assistenza extraospedaliera e dei

51 «Il concetto di Distretto, inteso come livello a cui collocare l’organizzazione di base del sistema sanitario integrato con quello socio-assistenziale, è sempre stato presente nella normativa sanitaria, ma scarsamente realizzato seppur molto discusso e ampiamente regolamentato. La Toscana ha scelto di diventare oggi il luogo di rilancio di questa cultura, a partire dai Comuni, dalla società civile, dalle associazioni, dall’esperienza dei suoi servizi territoriali». PSR 2002-2004.

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servizi sociali – previa autorizzazione della Giunta regionale52. Nell’Atto di indirizzo che

accompagnò l’avvio della sperimentazione delle SdS la Giunta regionale sottolineò come

solo uno strumento così radicato sul territorio potesse gestire piani assistenziali

individualizzati per i cittadini: «La Società della salute attiva gli strumenti operativi che

garantiscano la presa in carico dell’utente e la continuità del percorso assistenziale; in

particolare sono assicurati percorsi assistenziali integrati territorio-ospedale-territorio con

riferimento alle dimissioni “protette” in fase post-acuta per anziani, malati terminali, malati

oncologici e soggetti che comunque necessitano dell’assistenza dei servizi territoriali»53.

Se questi erano gli obiettivi – invero ambiziosi – prefigurati dalla Giunta regionale,

alla prova dei fatti, l’operatività di quella prima SdS ha finito però per venire

ridimensionata, e non pochi degli obiettivi di integrazione socio-sanitaria sono rimasti

confinati in un limbo delle buone intenzioni.

La sperimentazione delle SdS era stata avviata su base volontaria nel 2004 e nel

complesso aveva trovato un ottimo riscontro: 28 delle 34 Zone-Distretto avevano aderito.

Tuttavia, anche se la fase di sperimentazione si concluse normativamente nel 2008, si

decise di rinviare la piena entrata a regime della SdS al 2011, con l’avvio del nuovo

Programma regionale di sviluppo 2011-2015. Nel frattempo il progetto si è un po’

sfilacciato anche perché, come accennato, ci sono state significative diversificazioni in

termini di rendimento organizzativo tra una SdS e l’altra. Ciascuna di esse si costituiva

sulla base di specifici accordi locali tra i Comuni e l’ASL e ciascuna SdS aveva un proprio

statuto54. Non poche delle 28 SdS attivate erano poco più di scatole vuote, poco incisive in

termini di governo effettivo delle politiche, burocratizzate e non indenni da logiche

spartitorie clientelari. In altri casi, invece, dove erano guidate da sindaci politicamente forti

e rappresentativi a cui la struttura territoriale del partito aveva delegato la gestione delle

politiche socio sanitarie, le SdS divennero un interlocutore e anche un controllore potente

e autorevole dell’Azienda USL; e i sindaci erano in grado di patteggiare col direttore

generale le scelte strategiche più importanti per il territorio di competenza.

Sicuramente con le SdS i servizi socio sanitari sono cresciuti, esse hanno dato un

contributo alla cultura della prevenzione, al rafforzamento dei servizi sociali e della

medicina di base, territoriale. Una cultura che parlava di salute come stato di benessere

52 Gli strumenti della programmazione erano: il Piano Integrato di Salute (PIS) che sostituisce il Programma operativo di Zona-Distretto in precedenza riferito alle ASL, e il Piano sociale di zona, in precedenza affidato ai Comuni.53 V. il Comunicato dell’Ufficio stampa della Giunta regionale, 21 maggio 2003.54 Per tutte erano previste comunque «forme di partecipazione di associazioni e cittadini tramite una Consulta del Terzo settore e un Comitato di partecipazione, che esercitano funzioni consultive». S. Profeti, La sanità toscana: un caso di riproduzione per adattamento, cit., p. 128.

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complessivo della persona, che puntava a de-medicalizzare e a de-ospedalizzare ma

come scelta di politica di welfare, non solo per ragioni economiche. L’obiettivo generale di

salute era l’empowerment del cittadino/paziente55, ovvero dare spazio ai fattori

apparentemente extrasanitari, extraclinici. Che dovevano diventare la base del rapporto

col sistema sanitario, perché si partiva dall’assunto che prima di ricorre ai farmaci si

dovesse lavorare sugli stili di vita e tenere di conto delle condizioni complessive della

persona, mentali e fisiche, e rafforzare la consapevolezza di sé e la conoscenza dei

meccanismi del proprio corpo. In questo approccio olistico all’assistenza la figura del

medico di base diventava la pietra angolare. In molti casi, specie nelle realtà periferiche, i

medici dell’assistenza di base hanno risposto positivamente, con impegno e proposte. Ha

certamente aiutato, in questo, il dato di fatto che molti medici di famiglia fossero

politicizzati, simpatizzanti della forza politica dominante e omogenei al contesto politico

locale; non di rado venivano eletti i nei consigli comunali o erano presenti nelle giunte.

Il progetto che stava dietro le SdS era, evidentemente, molto ambizioso e perciò

difficile da attuare; e in fin dei conti non è stato sostenuto con la necessaria

determinazione né dalla Regione, che dopo aver tirato il sasso ha in un certo senso ritirato

la mano ed è rimasta a guardare; né dai Comuni. Dopo aver reclamato maggiore spazio

nella gestione delle politiche socio-sanitarie, quando poi l’hanno ottenuto i Comuni forse si

sono spaventati e hanno raffreddato il loro interesse effettivo; al momento di dover

affrontare la messa a punto e la gestione di politiche socio-sanitarie molto complesse e

innovative, e costose, già trovando difficoltà a gestire adeguatamente i soli servizi di

assistenza sociale. «Alla prova dei fatti – conclude Stefania Profeti –, dunque, i due

principali soggetti politico istituzionali coinvolti nel progetto non hanno spinto con

sufficiente forza in direzione di una piena integrazione degli aspetti sanitario e sociale,

lasciando che lo sviluppo delle SdS trovasse un proprio equilibrio nei vari territori grazie a

processi di mutuo aggiustamento eminentemente locali»56. Visto in una prospettiva

globale, regionale, non si può dire che fino ad oggi lo strumento operativo principe

dell’integrazione territoriale socio-sanitaria abbia risposto alle ambiziose aspettative. Tanto

che da più parti si era anche previsto, e auspicato, una soppressione delle SdS.

C’è stato anche un serio ostacolo organizzativo interno che ha rallentato

l’operatività delle SdS, ovvero il fatto che il personale addetto aveva un duplice, differente

inquadramento contrattuale: in parte era dipendente dei Comuni – il personale dei servizi

55 «Empowerment significa chiedere al cittadino: tu come mangi? Fai movimento?». Ma anche: « Quali sono le tue condizioni economiche? Qual è la tua situazione familiare?». Intervista a Enrico Roccato, cit.5653 S. Profeti, La sanità toscana: un caso di riproduzione per adattamento, cit., p. 129.

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sociali – e in parte delle ASL – il personale del settore sanitario. Con squilibri retributivi e

normativi molto accentuati, a vantaggio del personale sanitario. È evidente che ciò creava

difficoltà nella gestione dei servizi e nel buon andamento delle relazioni sindacali e portava

facilmente a conflitti interni.

Conflitti a cui si aggiungeva anche l’ostilità verso la SdS manifestata dai sindacati

stessi e da alcune forze politiche della sinistra neocomunista – che avevano tra i

dipendenti della Regione e nel comparto della sanità pubblica un certo seguito. Il PdCI il

PRC, la CGIL, ma anche altri gruppi e aree politiche e d’opinione, contestavano infatti che

la SdS potesse gestire direttamente i servizi, ovvero contestavano il ricorso

all’esternalizzazione “selvaggia” dei servizi sociali e socio-sanitari, con conseguente

indebolimento della qualità delle prestazioni e riduzione dei posti di lavoro strutturati e

sindacalmente protetti. Queste forze politiche e sociali denunciavano in sostanza il rischio

di “privatizzazione sociale” e la perdita di peso contrattuale del sindacato, ma anche il

conflitto di interessi intrinseco alla sussidiarietà, perché in suo nome il Terzo Settore “non

profit” veniva chiamato prima a programmare e poi a gestire ciò che esso stesso aveva

contribuito a programmare. I Comunisti italiani, pur membri della maggioranza di governo

e presenti nella Giunta, votarono contro l’istituzione della SdS appunto perché si

opponevano alla logica dell’esternalizzazione dei servizi verso il “privato sociale”, che

avrebbe comportato, prevedevano, un peggioramento netto delle condizioni di lavoro –

come in effetti è puntualmente avvenuto. «Per quanto riguarda i rapporti economici e di

lavoro, nelle Misericordie, Pubbliche Assistenze e Arciconfraternite varie, siamo in

presenza dello sfruttamento più bieco e perpetrato nelle forme più odiose. Primo tra tutti

l’utilizzo del lavoro volontario come maschera per nascondere turni massacranti, attività di

ogni tipo e stipendi fuori da ogni norma contrattuale»57.

4. La prospettiva attuale. La governance istituzionale, il peso del privato sociale

Come si è già detto, il tema dell’integrazione socio-sanitaria è stato rilanciato anche a

livello nazionale dagli sforzi di rallentare la crescita della spesa sanitaria. È stato perciò

collegato, soprattutto, «al cd efficientamento del sistema: una sanità troppo orientata

57 Così il segretario regionale del PdCI Nino Frosini, «I DS non sono un partito di sinistra», I Ciompi, n. 2, maggio 2005, p. 37.

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all’ospedalizzazione è una sanità che spende troppo per il ricovero di pazienti che

potrebbero essere “utilmente” trattati a minori costi»58. Insomma, la ratio della

prevenzione, dell’empowerment del cittadino rischia di essere strumentalizzata e

fagocitandola nella ratio del risparmio prima di tutto. Prevenzione, cure primarie e

integrazione socio sanitaria sono apprezzabili e apprezzate, sul piano politico, perché

rappresentano soprattutto una riduzione della spesa ospedaliera. Così, mentre sono

andati avanti la ricerca dell’«adeguatezza» degli interventi in sanità e il taglio dei posti letto

negli ospedali, la sanità territoriale e l’integrazione socio sanitaria non sono state invece

sostenute adeguatamente, nei fatti, a livello nazionale. Novità importanti ci sono anche

state, come il lancio del modello della Casa della Salute da parte del ministro Balduzzi nel

2012, lancio che è rimasto però sostanzialmente inapplicato o, applicato in modo parziale,

perché non supportato da risorse finanziarie specifiche59.

La Toscana è una delle poche regioni che ha cercato di muoversi, pur in presenza

di riduzione del finanziamento statale e ha avviato dal 2015 questa nuova riforma del

sistema socio sanitario. La legge 84/2015 è stata approvata quando arrivava a scadenza il

Piano Sanitario e Sociale Integrato Regionale (PSSIR) 2012-2015, il Piano che ha

rilanciato con forza i processi interistituzionali di cooperazione per l’integrazione socio

sanitaria; un patto politico, in sostanza, tra gli attori istituzionali coinvolti: Comuni, SdS,

AUSL, oltre naturalmente alla Regione. È stato rilanciato l’obiettivo strategico della “prima”

SdS, ovvero disegnare un’assistenza integrata territorio-ospedale-territorio.

La sfida è di rendere effettivo, stabile e generalizzato su tutta la regione un duplice

ruolo politico complessivo dei Comuni: erogare le prestazioni di competenza e diventare

protagonisti della promozione della salute60. Lo strumento: le SdS. Allo scopo viene

rilanciata la Conferenza regionale delle SdS, che avrà articolazioni al livello delle tre Aree

Vaste e parteciperà – col supporto tecnico dell’ANCI – alla definizione delle politiche

regionali in materia sanitaria e sociale e al coordinamento della programmazione regionale

e locale. Nelle Zone Distretto dove non saranno presenti le SdS (se ci saranno) i sindaci

avranno comunque uno strumento di raccordo (le Conferenze zonali dei sindaci) per la

58 E. Pavolini, F. Taroni, Un difficile equilibrio: Comuni e Regioni tra politiche sanitarie e socio-sanitarie, cit., p. 93.59Cfr. Ivi, p. 94.60 Il ruolo e l’azione dei Comuni nella gestione della salute sono stati “oggettivamente” rilanciati, dagli anni Novanta in poi, prima che da scelte politiche, dalla «transizione epidemiologica» e dagli «sviluppi endogeni» della medicina. Se «il modello d’intervento centrato attorno agli ospedali rispondeva alla necessità di dare risposte a bisogni acuti di salute, la diffusione di malattie croniche ha aperto la strada… a interventi di natura socio sanitaria che, per loro natura, hanno maggior senso ed efficacia se sviluppati capillarmente sul territorio piuttosto che dentro nosocomi». E. Pavolini, F. Taroni, Un difficile equilibrio: Comuni e Regioni tra politiche sanitarie e socio-sanitarie, cit., p. 82.

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programmazione, l’attuazione e la valutazione delle politiche. Conformemente alla loro

ratio istitutiva, ma negletta, le SdS sono chiamate di nuovo a costituire la struttura

territoriale dell’integrazione delle attività sanitarie e socio-assistenziali, «per garantire il

governo dei servizi territoriali e le soluzioni adeguate» alla «presa in carico integrata del

bisogno» e alla «continuità del percorso assistenziale»61.

Contemporaneamente, vengono rilanciati con forza anche ruolo e peso

dell’associazionismo e del Terzo Settore ovvero, nello specifico, della cooperazione

sociale, nella progettazione e nella gestione dei servizi sociali territoriali. La legge chiama

le SdS a mettere a sistema le «buone prassi» che prevedono di far funzionare una rete di

interventi tra sociale e sanitario, tra pubblico e privato sociale. I Comuni ricorreranno,

come già ricorrono, in gran parte e in modo sistematico, alla sussidiarietà, che nel

“modello Toscano” si conferma e si rilancia come pilastro fondamentale del sistema socio

sanitario. Di fatto, la SdS opererà come organo di gestione delegata a terzi. Anche la

programmazione coinvolge, accanto ai soggetti istituzionali, le «rappresentanze

associative della società civile», così da configurarsi come il risultato di «un processo

pienamente partecipato, sia nella dimensione locale che sul piano regionale»62.

Insomma, il passaggio necessario e inevitabile che si deve attuare è quello dal

sistema di protezione sociale affidato allo Stato – non più sostenibile economicamente, si

dice – a un modello di «comunità solidale» o «welfare community» dove la “produzione”

del benessere e della salute è compito anche della società civile. Le organizzazioni di

volontariato, le associazioni e gli enti di promozione sociale, le cooperative sociali, le

fondazioni, gli enti di patronato, gli enti riconosciuti delle confessioni religiose, tutto quanto

è Terzo Settore63 viene riconosciuto dalla Regione Toscana come valore aggiunto rispetto

all’economia di mercato ─ perché fondato sull’«assenza di profitto» o comunque sul

«divieto di utilizzare gli utili per scopi altri rispetto al re-investimento nelle attività

dell’organizzazione» –; un valore aggiunto che garantirebbe a questi soggetti la «capacità

di attivare relazioni a forte reciprocità tra i soggetti singoli e associati e di investire sulle

comunità e sui territori»64. Che il Terzo Settore sia effettivamente solo questo, un mondo

fatto di organizzazioni encomiabili perché non distribuiscono utili e favoriscono la coesione

sociale operando a favore dei settori più deboli e poveri, non è questione da discutere

qui65. Qui conta rilevare soltanto che la Toscana affida ai soggetti del Terzo Settore, e in

61 PSSIR 2012-2015, p. 243.62 Ivi, p. 247.63 Secondo l’elenco che ne fa la L.R. 41 del 2005, art. 17.64 Ivi, p. 248.

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particolare alla cooperazione sociale66, un ruolo assolutamente centrale nelle politiche

sociali regionali: partecipano ai processi di programmazione regionale e locale, e alla

progettazione, attuazione ed erogazione dei servizi del sistema socio sanitario integrato.

La cooperazione sociale viene chiamata a sostenere e ad integrare l’intervento pubblico

socio sanitario, «nell’ottica di un partenariato e della presa in carico condivisa dei beni

comuni»67.

Se questa è la dinamica che domina la ristrutturazione del sistema socio sanitario,

come pare, si può, provvisoriamente, concludere mettendo in evidenza le due linee di

tensione che emergono dentro la rete di governance politico istituzionale: una riguarda il

rapporto tra “centro e periferia” del sistema politico regionale, ovvero tra il governo della

Regione e il governo locale, i Comuni; l’altra riguarda il processo di esternalizzazione dei

servizi verso il privato sociale che si è appena ricordato.

Questo secondo processo si accentua costantemente – e recentemente pare

accompagnarsi anche a un inedito allargamento degli spazi di intervento del privato profit 68

– e risponde certamente ad una logica di contenimento della spesa – ma anche ad

esigenze di stabilizzazione del consenso politico. Per quanto ammantata dalla retorica

delle buone pratiche e della comunità solidale, il ricorso alla cooperazione sociale fa

risparmiare nell’immediato (ricorrere agli operatori precari e sottopagati delle cooperative

sociali costa meno che utilizzare infermieri e operatori professionali strutturati nel sistema

socio sanitario regionale) ma fa anche perdere qualità ai servizi; e rende poco efficace la

prevenzione delle malattie così come l’inclusione sociale. Così che, alla lunga, anche il

risparmio economico viene meno.

«Con le cooperative si risparmia? Chissà. Certo il trasporto dei malati col volontariato costa meno. Ma nell’assistenza domiciliare spesso il volontariato non garantisce una qualità adeguata. Se si parla di qualità tutti si mettono a ridere. Ma qualità adeguata dei servizi di base garantisce anche un livello qualitativo di salute

65 Alcuni studiosi sostengono con facoltà di prova che accanto alle molte associazioni di grande valore e utilità sociale, ce ne sono altre che sfruttano per propri fini l’aura di benemerenza di cui gode indistintamente il Terzo Settore. Si veda ad esempio G. Moro, Contro il non profit, Bari-Roma, Laterza, 2014.66 Ovvero quell’area del Terzo Settore «alla quale la legge riconosce l’obiettivo primario di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi e lo svolgimento di attività diverse finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate». Ibidem.67 Ibidem. Che la Regione abbia privilegiato una strategia di accentuata esternalizzazione dei servizi sociali e socio sanitari è dimostrato anche dal fatto che, nel 2009, in Toscana la percentuale di spesa per questo tipo di servizi sul complesso della spesa sanitaria superava «di circa due punti la media nazionale». S. Profeti, La sanità toscana: un caso di riproduzione per adattamento, cit., p.113.68 Cfr. L. Benci, «Sanità in Toscana. Questo referendum non s’ha da fare: ecco perché», in www.perunaltracitta.org, 7 gennaio 2016.

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più alto, ergo fa risparmiare. Mentre invece servizi di base tirati via non garantiscono assistenza adeguata. In un modello corretto si mandano sul territorio infermieri con competenze specifiche, capaci di lavorare coi pazienti, tossicodipendenti ecc. Soprattutto, la cosa più importante dei servizi sul territorio dovrebbe essere che lavorano in stretta integrazione con l’ospedale. Tu lavori sul territorio ma in qualunque momento sei in contatto con l’ospedale: quando un paziente esce dall’ospedale tu sai come gestire il suo caso. Con un assistente sociale esperto, con un infermiere professionale questo lo puoi fare; un operatore precario e inesperto della Cooperativa Pinco Pallino, l’ospedaliero neanche non lo vede»69.

Inoltre, e qui veniamo all’altra linea di tensione richiamata sopra, quella tra Regione

e Comuni, col ricorso senza freni alla cooperazione sociale si vanifica l’obiettivo dichiarato

di rafforzare una effettiva governance territoriale dell’integrazione socio sanitaria, per dare

omogeneità e qualità alla sanità territoriale: le esternalizzazioni rendono di fatto

difficilmente programmabili e incontrollabili sia l’omogeneità che la qualità. Fino ad oggi, è

stato osservato, il territorio, «ovvero il crogiuolo di strutture istituzionali e di realtà

associative» che operano all’interno del perimetro delle AUSL ha svolto la funzione politica

di «”camera di compensazione” dove le maglie apparentemente rigide e vincolanti della

regolazione regionale» hanno trovato «un aggiustamento pragmatico con gli interessi dei

vari attori coinvolti e con le specificità dei contesti locali»70. Ma sullo sfondo, a rendere

“virtuosa” la compensazione c’erano l’omogeneità politico-partitica tra Regione e Comuni

(la gran parte) e anche una mediamente buona qualità politica e una capacità di iniziativa

amministrativa della classe politica comunale. Qualità e capacità che sembrano essere

andate in gran parte perdute – a guardare al comportamento delle nuove leve dei sindaci.

La legislazione regionale “rilancia” il territorio, quindi rafforza il peso politico dei

sindaci. Ma il punto è: oggi, i sindaci sono in grado di reggere un ruolo da protagonisti nel

governo delle politiche socio sanitarie? Sono cambiati, i sindaci, c’è ora una nuova

generazione che viene da una storia molto diversa di quelli delle consiliature precedenti.

All’attuale generazione di sindaci fa difetto ─ per la giovane età, per la scarsa o nulla

formazione politica precedente all’elezione, per una complessiva mutazione del clima,

dell’ambiente politico (quello che ha dato sostanza in passato alla cultura politica

territoriale propria della Toscana) che non “educa” più alla politica ─ sia la visione che

l’ambizione, si potrebbe dire. E si adattano ad essere, per lo più, i sindaci, sempre più

degli esecutori, costretti e allo stesso tempo capaci soltanto di prestare attenzione agli

aspetti finanziari, al costo dei servizi. Pare quasi che per molti sia venuto meno l’interesse

concreto, politico, alla gestione dei servizi socio assistenziali, l’ambizione di fare una

69 Intervista a E. Roccato, cit.70 S. Profeti, La sanità toscana: un caso di riproduzione per adattamento, cit., p. 146.

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politica, delle scelte politiche che rispondano ad una strategia. E le decisioni, anche quelle

politiche, sui servizi vengono sempre più delegate agli uffici, ai tecnici. Sono questi

sindaci, ormai, espressione di un’epoca “post politica”, si potrebbe dire. Sono, in genere,

impreparati culturalmente, si trovano caricati di problemi di cui, non afferrando bene la

dimensione politica complessiva, non si rendono ben conto. Annaspano. Non è che non

vogliono fare, ma proprio non capiscono, non hanno uno spirito, una motivazione che

suggerisca loro soluzioni, anche sbagliate, come certo avveniva in passato ma che

comunque rispondevano ad un disegno, ad un’idea di governo del territorio. “Ma perché

dobbiamo preoccuparci di questi disegni generali?”, sembrano dire, a volte, di fronte alle

sollecitazioni più politiche, delle opposizioni o di una parte dell’opinione pubblica.

Così, le Conferenze dei sindaci, gli organi di gestione integrata sul territorio

rischiano di essere irrilevanti; e non perché ci si divide e si litiga troppo, come poteva

accadere in un passato, anche recente.