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  • Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali

    Tesi di Laurea in Fisica

    Accrescimento ed evoluzione cosmologica

    dei buchi neri nei nuclei galattici attivi

    Candidato: Mauro Sirigu

    Relatore: Prof. Alessandro Marconi

    Anno Accademico 2008-2009

  • A te,

    unica custode

    dei miei sorrisi

    e delle mie speranze.

  • Indice

    Introduzione i

    1 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi 1

    1.1 Dall’idea originale alla soluzione delle equazioni di Einstein . . . . . . . 2

    1.2 Le prime scoperte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

    1.3 Le galassie attive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8

    1.4 Il modello unificato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

    1.5 L’evoluzione degli AGN . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19

    1.5.1 La misura della massa dei SMBHs . . . . . . . . . . . . . . . . . 20

    1.5.2 Le relazioni osservate fra SMBHs e galassie ospiti . . . . . . . . 22

    1.5.3 Le surveys e l’evoluzione dei SMBHs . . . . . . . . . . . . . . . 24

    2 Il modello cosmologico standard 27

    2.1 L’esigenza di una teoria cosmogonica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27

    2.2 La metrica di Robertson-Walker e le equazioni di Friedman . . . . . . . 30

    2.3 La risoluzione delle equazioni di Friedman . . . . . . . . . . . . . . . . 33

    3 La distribuzione di massa dei Buchi Neri Super Massivi locali 37

    3.1 Metodo adottato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39

    3.2 Le funzioni di luminosità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42

    3.2.1 La funzione di Nakamura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42

    3.2.2 La funzione di Devereux . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44

    3.3 Le correlazioni massa-luminosità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47

  • ii INDICE

    3.3.1 Correlazione di Graham . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48

    3.3.2 Correlazione di Gültekin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49

    3.3.3 Trasformazioni di colore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50

    3.4 Risultati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51

    4 La funzione di luminosità degli AGN 57

    4.1 Forma della SED e correzione bolometrica . . . . . . . . . . . . . . . . 59

    4.2 Funzione di luminosità in banda X soffice . . . . . . . . . . . . . . . . . 65

    5 Evoluzione temporale della funzione di massa dei buchi neri 71

    5.1 L’equazione di continuità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71

    5.2 Generalizzazione a distribuzioni qualunque . . . . . . . . . . . . . . . . 75

    5.2.1 Il duty cycle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78

    5.2.2 Approssimazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79

    5.3 Il rapporto di Eddington . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 82

    5.4 Vincoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85

    5.5 Riduzione al caso semplice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89

    6 Rapporto di Eddington e accrescimento dei buchi neri 91

    6.1 Modello T (zstart = 5→ zfin = 0) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 92

    6.1.1 Una gaussiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93

    6.1.2 Due gaussiane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101

    6.1.3 Dipendenza della distribuzione del rapporto di

    Eddington dalla luminosità bolometrica . . . . . . . . . . . . . . 102

    6.1.4 Dipendenza della distribuzione del rapporto di

    Eddington dal redshift . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 106

    7 Conclusioni e sviluppi futuri 109

    7.1 Sviluppi futuri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115

    7.1.1 Modello Z (z = 0→ z = 5) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115

    7.1.2 Vincoli osservativi alla distribuzione del parametro di Eddington 117

  • INDICE iii

    7.1.3 Parametrizzazione dell’efficienza radiativa . . . . . . . . . . . . 117

    7.1.4 Merging e termine di sorgente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118

    7.1.5 Accrescimento sovra-Eddington . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119

    Bibliografia 121

    Ringraziamenti 128

  • Introduzione

    Una frazione piuttosto modesta delle galassie osservate (∼ 15%) appare caratterizza-

    ta da regioni centrali particolarmente brillanti, con un’alta variabilità nelle curve di

    luce (indice di estrema compattezza della sorgente energetica primaria) e caratteristi-

    che spettroscopiche peculiari. Tali galassie vengono definite “attive” e le loro regioni

    centrali prendono il nome di nuclei galattici attivi (AGN, dall’inglese Active Galactic

    Nuclei). La considerevole luminosità consente di osservare le galassie attive anche nel

    cielo profondo rendendole quindi strumento principe di indagine delle prime fasi evolu-

    tive dell’universo. Come avremo modo di chiarire, si ritiene attualmente che l’emissione

    degli AGN sia prodotta per accrescimento di materia su un buco nero super massiccio

    (o SMBH, da Super Massive Black Hole), con massa superiore a 106 M�.

    L’evidenza osservativa di una stretta correlazione fra le masse dei SMBHs e delle

    regioni nucleari delle galassie che li ospitano avvalora l’ipotesi di un forte condizio-

    namento reciproco. Dal momento, poi, che il numero di galassie attive appare esser

    stato, in epoche remote, molto superiore a quello attuale, è ragionevole supporre che

    l’evoluzione galattica sia stata in una prima fase profondamente influenzata da perio-

    di di attività delle regioni nucleari e che i residui di tali fasi siano tuttora rivelabili

    come buchi neri super massivi non più in accrescimento violento. Capire quindi co-

    me funzioni un AGN e come gli AGN si siano evoluti nelle varie epoche cosmologiche

    è fondamentale per comprendere i processi evolutivi delle galassie e la loro struttura

    attuale.

    L’osservazione degli AGN e l’estrazione delle informazioni relative alla dinamica

    di accrescimento sui SMBHs possono essere estremamente difficoltose. Gli oggetti

  • ii Introduzione

    sono nella quasi totalità dei casi non risolti spazialmente e molto spesso oscurati dalla

    presenza di gas e polveri lungo la linea di vista. Inoltre, i tempi scala di evoluzione di

    un nucleo galattico sono in genere superiori alla decina di milioni di anni, il che rende

    impossibile la diretta osservazione di variazioni strutturali macroscopiche.

    In questo contesto, l’indagine statistica può rappresentare l’unica interfaccia fra teoria

    ed osservazioni.

    In questo lavoro di tesi si intende presentare un metodo di indagine statistica delle

    modalità di accrescimento dei SMBHs all’interno dei nuclei galattici attivi. Cercheremo

    in particolare di comprendere se le osservazioni disponibili richiedano o meno che tutte

    le galassie attive abbiano una stessa relazione fra luminosità bolometrica intrinseca

    e massa della sorgente nucleare. Della distribuzione di massa dei buchi neri galatti-

    ci descriveremo poi alcuni possibili scenari evolutivi su scala temporale cosmologica.

    Tale studio presuppone tuttavia la stima della distribuzione di massa dei buchi neri

    super massivi dell’universo locale e la conoscenza della funzione di luminosità degli

    AGN entro un intervallo temporale il più ampio possibile. Una prima parte del lavoro

    sarà pertanto dedicata alla determinazione degli “ingredienti” indispensabili per una

    corretta indagine evolutiva. Si valuteranno infine l’affidabilità ed i limiti del metodo

    proposto e la sua capacità di rimuovere la degenerazione fra diversi modelli teorici di

    accrescimento.

    Nel Capitolo 1 saranno descritti i nuclei galattici attivi e le motivazioni che avva-

    lorano l’ipotesi che al loro interno vi sia un buco nero super massivo in accrescimento.

    Viene introdotto il modello unificato attualmente accettato per la struttura degli AGN,

    discutendo brevemente le ragioni di una differenziazione osservativa fra le varie classi

    di galassie attive e descrivendo le forti evidenze di interazione fra regione centrale e

    galassia ospite.

    Nel Capitolo 2 si riassumeranno sinteticamente i fondamentali risultati della cosmo-

    logia moderna e si darà in particolar modo ragione dello spostamento sistematico degli

    spettri misurati (in inglese redshift) come conseguenza di un universo in espansione.

    Nel Capitolo 3 cominceremo a descrivere la popolazione di galassie dell’universo

  • iii

    locale. Ipotizzando che tutte abbiano al loro centro un buco nero super massivo,

    potremo sfruttare le più recenti stime della funzione di luminosità delle galassie vicine

    e l’osservata correlazione fra massa dei buchi neri galattici e luminosità delle regioni

    nucleari delle galassie ospiti per determinare la distribuzione di massa dei SMBHs

    nell’universo locale.

    Il Capitolo 4 è dedicato alla descrizione della distribuzione di luminosità bolome-

    trica di tutti gli AGN osservati fra redshift z = 0 e redshift z = 5, ricavando una più

    aggiornata stima della correzione bolometrica, ossia del rapporto fra luminosità bolo-

    metrica intrinseca di un AGN e luminosità misurata in alcune particolari finestre dello

    spettro elettromagnetico.

    Nel Capitolo 5 porremo poi le basi per l’analisi dell’evoluzione cosmologica della

    popolazione di AGN, illustrando come, sotto particolari ipotesi semplificative, possa es-

    sere utilizzata un’equazione di continuità per descrivere l’evoluzione cosmologica della

    distribuzione di massa. Spiegheremo inoltre come poter esprimere questa in funzio-

    ne della distribuzione di luminosità degli AGN e di una distribuzione di probabilità

    strettamente connessa con la dinamica dell’accrescimento.

    Nel Capitolo 6 potremo finalmente utilizzare la distribuzione di massa dei SMBHs

    locali e la funzione di luminosità degli AGN per ricostruire, con l’ausilio del calcolatore,

    l’evoluzione degli AGN sfruttando i risultati teorici del Capitolo 5.

    Infine presenteremo le conclusioni di questo lavoro nel Capitolo 7, insieme ad alcuni

    dei più promettenti sviluppi futuri.

  • Capitolo 1

    Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    Davanti a un ristorante di Dulcea c’è una grande piastra ammazzainsetti

    a seimila volt. Ogni moscerino o farfallone che ci sbatte contro crepa, con

    un brivido elettrico. Mi è venuto da pensare che nessuna morte, ormai, fa

    più rumore di questa. Milioni di moscerini, una fiammata, e amen. Se hai

    la fortuna di nascere farfallone, forse si accorgono dei tre secondi in cui

    stai morendo.

    Baol

    Stefano Benni, 1990

    Questo capitolo è dedicato ad una sintesi delle principali caratteristiche osservative dei

    Nuclei Galattici Attivi e delle interpretazioni teoriche che sono state date per la loro

    struttura intrinseca. Inizierò con una breve introduzione sui buchi neri per passare poi

    alle prime osservazioni di galassie attive, alle caratteristiche spettroscopiche della radia-

    zione da queste emessa e alla conseguente ipotesi che al loro centro sia presente un buco

    nero di massa molto grande (compresa, come vedremo, fra 106 e 1010 M�1). Saranno

    presentati vari tipi di Nuclei Galattici Attivi (nel seguito spesso denominati AGN, dal-

    l’inglese Active Galactic Nuclei) con caratteristiche spettroscopiche e strutturali molto

    diverse fra loro. Si spiegherà dunque come tutte le classi di AGN possano in realtà

    essere descritte da un unico modello teorico, detto modello unificato. Le correlazioni

    osservate fra galassie attive e relativi AGN porteranno ad introdurre il quadro generale

    dell’evoluzione cosmologica delle galassie. Infine si illustreranno sommariamente i me-

    1La massa solare è M� ' 1.99 · 1033 g

  • 2 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    todi di indagine comunemente usati per ricercare e catalogare i nuclei galattici attivi,

    ponendo l’accento sulle motivazioni che rendono essenziale un censimento del più alto

    numero possibile di AGN per ottenere una migliore comprensione del meccanismo fisico

    che ne origina l’emissione.

    1.1 Dall’idea originale alla soluzione delle equazioni

    di Einstein

    Fu l’astronomo dilettante John Michell2, nel 1783, ad introdurre per primo il concetto

    di “stella oscura” (in inglese dark star), più di un secolo prima della pubblicazione

    della Teoria della Relatività. Michell, interpretando la teoria corpuscolare della luce

    proposta da Newton, studiò le possibili conseguenze dell’interazione di un fotone con

    un campo gravitazionale prodotto da un corpo sferico di massa M e raggio R. Partendo

    dall’espressione della velocità di fuga3

    vf =

    √2GM

    R(1.1)

    dedusse che per una massa limite M• =c2R2G

    la velocità di fuga sarebbe stata pari alla

    velocità della luce, c. Per corpi di massa superiore ad M• neanche la luce sarebbe stata

    in grado di sfuggire all’attrazione gravitazionale e pertanto la stella sarebbe apparsa

    “oscura”. Analogamente sarebbe bastato comprimere una qualunque massa entro un

    raggio R• =2GMc2

    . Michell, in particolare, ricavò che un corpo con densità pari alla

    densità solare media (ρ̄� ∼ 1.4 g cm−3) sarebbe stato oscuro se avesse avuto un raggio

    R• ' 490R� e quindi una massa M• ' 1.1× 108 M�.

    L’idea, ripresa poi una trentina di anni dopo anche da Laplace4, ebbe tuttavia

    scarso seguito e la ricerca di una conferma osservativa venne comunque interrotta

    quando, sulla scia dei successi della teoria ondulatoria, l’interpretazione del fotone come

    2John Michell (1724 – 1793), geologo e astronomo dilettante inglese3G ' 6.67 · 10−8 cm3g−1s−2 è la costante di gravitazione universale

    c ' 2.998 cm s−1 è la velocità della luce nel vuoto4Pierre-Simon Laplace (1749 – 1827), matematico, fisico e astronomo francese

  • 1.1 Dall’idea originale alla soluzione delle equazioni di Einstein 3

    corpuscolo perse credibilità. Ciò che sorprende è che pur sfruttando la sola dinamica

    newtoniana, del tutto inadeguata al problema, sia Michell che Laplace pervennero alla

    formula corretta per il raggio di Schwarzschild.

    Con la pubblicazione, nel 1915, della Teoria della Relatività Generale si comprese

    finalmente come la distribuzione di massa-energia determini univocamente la geometria

    dello spazio-tempo e come il moto di un corpo immerso in un campo gravitazionale sia

    in realtà descrivibile come una caduta libera lungo una geodetica di uno spazio curvo.

    Un’unica equazione tensoriale, nota come equazione di Einstein5, descrive l’interazione

    gravitazionale:

    Gµν =8πG

    c4Tµν (1.2)

    Gµν prende il nome di tensore di Einstein ed è esprimibile come funzione della metrica

    dello spazio-tempo, mentre Tµν è il tensore di energia-impulso e racchiude in sé le

    informazioni relative alla distribuzione di massa-energia.

    Nonostante la semplicità formale, l’integrazione dell’equazione di Einstein è di gran-

    de difficoltà, tanto che ad oggi sono note solo poche soluzioni esatte, determinate im-

    ponendo stringenti condizioni di simmetria sulla distribuzione di massa-energia. La

    prima di queste soluzioni fu trovata appena due mesi dopo la pubblicazione della Rela-

    tività Generale: Schwarzschild6 determinò l’espressione del tensore di Einstein per una

    distribuzione sferica di massa in assenza di momento angolare e con carica elettrica

    nulla. Il primo problema affrontato fu quindi il più semplice caso di interesse astro-

    fisico: l’osservazione astronomica si presentava infatti come banco di prova ottimale

    per il confronto fra meccanica newtoniana e meccanica relativistica, dal momento che

    è proprio l’interazione gravitazionale l’unica residua su grande scala.

    La soluzione di Schwarzschild prevede l’esistenza di un raggio notevole per la distribu-

    zione di massa, detto raggio di Schwarzschild:

    rS =2GM

    c2(1.3)

    5Albert Einstein (1879 – 1955), fisico tedesco naturalizzato svizzero e statunitense6Karl Schwarzschild (1873 – 1916), astronomo e astrofisico tedesco

  • 4 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    Si può dimostrare che la superficie sferica definita dal raggio di Schwarzschild, detta

    orizzonte degli eventi, divide lo spazio-tempo in due regioni distinte: nella prima, per

    distanze superiori ad rS, un fotone è libero di allontanarsi indefinitamente, pur subendo

    una deviazione dovuta all’interazione con il campo gravitazionale (l’effetto è detto di

    “lente gravitazionale”); nella seconda, la velocità di fuga supera quella della luce e

    pertanto anche un eventuale fotone emesso o diffuso in tale regione è impossibilitato

    a fuoriuscire. Se la massa M è interamente confinata entro il raggio di Schwarzschild,

    dunque, questa apparirà come oscura. Fu comunque solo molto più tardi, nel 1963,

    che John Wheeler7 coniò per tali oggetti il nome di “buchi neri” (in inglese black holes,

    comunemente abbreviato con BHs).

    La soluzione di Schwarzschild definisce il più semplice modello di corpo oscuro,

    ma non è l’unica: fra le altre ci limitiamo a citare la soluzione di Kerr8 che, nel

    1963, descrisse la metrica indotta da una distribuzione di materia elettricamente neutra

    dotata di momento angolare. Questo caso assume notevole interesse astrofisico poiché,

    come vedremo, rappresenta una soluzione limite per l’efficienza di accrescimento e

    perché, soprattutto, è più realisticamente riconducibile ai modelli di evoluzione stellare.

    Già gli studi di Chandrasekhar, Tolman, Oppenheimer e Volkoff9, negli ultimi anni ’30,

    avevano mostrato possibili scenari di formazione di buchi neri durante le fasi di collasso

    di stelle di grandi dimensioni. Chandrasekhar, in particolare, riusc̀ı a determinare la

    massa limite (Mc ' 1.41 M�) per la stabilità di un sistema autogravitante sostenuto

    dalla pressione di un gas degenere di elettroni. Quando in una stella la pressione

    di radiazione prodotta dalle reazioni di fusione nucleare non riesce più a sostenere

    l’attrazione gravitazionale, ha inizio un rapido collasso che porta all’espulsione di gran

    parte della massa della stella originaria. Se la massa iniziale è superiore a ' 8 M�, la

    massa residua è maggiore della massa limite di Chandrasekhar Mc ed il collasso non

    7John Archibald Wheeler (1911 – 2008), fisico statunitense8Roy Patrick Kerr (1934), matematico neozelandese9Subrahmanyan Chandrasekhar (1910 – 1995), fisico, astrofisico e matematico indiano naturalizzato

    statunitenseRichard Chace Tolman (1881 – 1948), fisico, matematico e chimico statunitenseJulius Robert Oppenheimer (1904 – 1967), fisico statunitenseGeorge Michael Volkoff (1914 - 2000), fisico canadese

  • 1.2 Le prime scoperte 5

    riesce a trovare in una nana bianca una configurazione di equilibrio stabile. Ha quindi

    inizio il processo di neutronizzazione nel nucleo centrale della stella, mentre gli strati

    esterni vengono accelerati da violente onde d’urto e rapidamente espulsi (si osserva

    una cosiddetta supernova). Questo è, in estrema sintesi, il processo di formazione di

    una stella di neutroni. Anche per una stella di neutroni, tuttavia, esiste una massa

    limite, detta limite di Tolman-Oppenheimer-Volkoff (MTOV ' 5 M�), al di sopra della

    quale neanche questa configurazione risulta stabile. Il gas degenere di neutroni diviene

    relativistico e il collasso procede in modo inarrestabile. Il buco nero rappresenta allora

    l’unico scenario possibile, se vogliamo escludere la possibile esistenza di stelle di quarks

    e gluoni. Anche in questo caso l’implosione del nucleo della stella è accompagnata

    da violente esplosioni degli strati esterni, pertanto la massa del precursore è di alcune

    volte superiore a MTOV , approssimativamente pari a 20÷30 M�. Una volta formatosi,

    poi, il BH può aumentare indefinitamente la sua massa per accrescimento dalla materia

    circostante.

    1.2 Le prime scoperte

    Una prova dell’effettiva esistenza di questi oggetti doveva essere ricercata non tanto

    tramite un’osservazione diretta, del tutto impossibile per definizione, quanto da evi-

    denze indirette: Michell stesso osservò che l’intenso campo gravitazionale poteva essere

    rivelato dagli effetti dinamici indotti sulla materia circostante, cosicché, ad esempio, se

    si osserva una stella la cui traiettoria non può essere spiegata con la distribuzione di

    massa osservabile, deve necessariamente essere ipotizzata una “massa oscura” in grado

    di giustificarne il moto. Ovviamente si potrà ragionevolmente supporre la presenza di

    buco nero qualora tale massa mancante risulti concentrata in una regione molto piccola

    di spazio, confrontabile con il suo raggio di Schwarzschild. Analogamente si potranno

    usare le osservazioni condotte su materia diffusa, come polveri o gas in emissione o in

    assorbimento. Anche in questo caso l’effetto prodotto da un eventuale buco nero sarà

    osservabile unicamente entro una regione molto limitata, detta sfera di influenza, entro

  • 6 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    cui domini il potenziale gravitazionale del BH. Il raggio della sfera di influenza è soli-

    tamente definito dalla relazione ris =GMBHσ2

    , dove σ è la dispersione di velocità della

    popolazione stellare nella regione nucleare di una galassia. Come vedremo il concetto

    di sfera di influenza avrà particolare importanza per la rivelazione di BH molto massivi

    al centro delle galassie.

    Citiamo per completezza un terzo metodo di rivelazione: una delle più promettenti

    predizioni della Teoria della Relatività Generale è l’emissione di onde gravitazionali da

    parte di sistemi con momento di quadrupolo non nullo. Sistemi binari di oggetti mol-

    to massicci, a maggior ragione se inclusivi di BHs, dovrebbero dunque essere intense

    sorgenti di onde gravitazionali.

    Il primo candidato buco nero fu scoperto all’inizio degli anni ’70 nella costellazione

    del Cigno. Venne rivelata una sorgente X, chiamata Cygnus X-1, la cui emissione

    poteva essere spiegata unicamente con un sistema binario di una supergigante blu ed

    un oggetto compatto, di massa ∼ 10 M�, che appariva oscuro. Di per sé tuttavia

    la rivelazione di un corpo oscuro di massa considerevole (comunemente denominato

    MDO, da massive dark object) non è condizione sufficiente a dedurre la presenza di un

    BH. Nel caso di Cygnus X-1, però, la dimensione lineare risolta era sufficientemente

    piccola da poter escludere ogni altra possibilità.

    A seguire sono state individuate numerose altre sorgenti X nelle quali la radiazione dura

    viene prodotta per accrescimento su un buco nero per “cannibalizzazione” di una stella

    compagna o di nubi di gas e polveri. Dei buchi neri stellari di origine galattica, ed in

    particolar modo di quelli osservati lungo direzioni non complanari al disco galattico, ove

    cioè l’assorbimento delle polveri è meno influente, è possibile determinare con relativa

    semplicità la massa, che risulta inferiore a 50 M� (Cherepashchuk, 2006). Estrapolando

    le densità osservate a tutto il disco della galassia si stima che la Via Lattea ospiti circa

    108 ÷ 109 buchi neri stellari.

    Come abbiamo anticipato precedentemente anche le regioni nucleari delle galassie

    sono ritenute ottimali per la formazione di BHs. Le ragioni di ciò sono presto rintrac-

    ciate: è in corrispondenza del nucleo di una galassia che si ha il picco nella distribuzione

  • 1.2 Le prime scoperte 7

    radiale di densità di materia, perciò è ragionevole attendersi una più elevata probabi-

    lità di interazione e collisione fra sistemi stellari che possano portare alla formazione

    di oggetti sufficientemente massivi da poter degenerare in buchi neri. Per l’elevata

    densità di polveri e gas, i bulges si prestano bene a rapidi accrescimenti di massa che

    consentano ai “semi” iniziali (in inglese seeds) di evolversi fino a raggiungere masse

    ben più ragguardevoli.

    Per quanto riguarda la nostra galassia, come descriverò più nel dettaglio nel seguito,

    la ricerca di un buco nero super-massiccio (nel seguito SMBH, da super-massive black

    hole), è stata condotta stimando le traiettorie degli astri in prossimità della sorgente

    centrale, individuata in Sgr A* (fig. 1.1). La massa stimata dalla semplice applicazione

    Figura 1.1: Proiezione sul piano del cielo di alcune orbite stellari attorno alla sorgente SgrA* (Trippe et al., 2006).

    della meccanica newtoniana è pari a 3.6±0.3 ·106 M� e risulta confinata entro appena

    ∼ 10−6 pc3, come ricavato misurando la distanza al periastro delle stelle più vicine.

  • 8 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    Sottolineiamo che l’ininfluenza di correzioni relativistiche è dovuta al fatto che le orbite

    delle stelle più prossime a Sgr A* si svolgono a distanze molto maggiori del raggio di

    Schwarzschild. La risoluzione spaziale raggiungibile nel caso della Via Lattea è stata

    determinante nell’escludere la possibilità, ad esempio, di ammassi (anche detti clusters)

    di stelle di neutroni o di altri oggetti compatti. E’ infatti possibile simulare l’evoluzione

    temporale, entro un dato volume, di un insieme di stelle o di altri oggetti compatti.

    Data la massa complessiva si trova che la vita media del sistema è determinata dal

    volume entro cui gli oggetti sono confinati. Per una massa ∼ 106 M� ed un volume di

    10−6 pc3 se ne ricava una vita media di gran lunga inferiore alla vita dell’universo10.

    Clusters cos̀ı densi sono quindi da considerarsi altamente instabili e la probabilità di

    osservarli è estremamente bassa.

    La possibile presenza di buchi neri di massa intermedia (IMBHs), ossia con massa

    compresa fra ' 100 e 106 M� è ancora oggetto di studio (Mapelli et al., 2006). Si

    ritiene che questi possano formarsi in regioni ad alta densità stellare per agglomerazione

    (merging) di stelle o BHs di massa inferiore. L’accrescimento su IMBHs potrebbe dare

    origine a sorgenti X molto luminose, dette ULXs (da ultra-luminous X-ray sources). La

    presenza di IMBHs è ritenuta fondamentale per poter spiegare l’esistenza di SMBHs con

    masse superiori a 109M�. In questi casi, infatti, anche supponendo un accrescimento

    continuativo per l’intera vita dell’universo, si trova una massa minima del seed di

    ∼ 103M�. L’individuazione certa di un oggetto di questo tipo è tuttavia ancora una

    volta vincolata alla possibilità di risolvere la sfera di influenza del BH, o all’osservazione,

    non ancora accertata, di moti relativistici in prossimità di essa.

    1.3 Le galassie attive

    Carl Seyfert per primo, nel 1943, osservò alcune galassie a spirale con una distribuzione

    radiale di brillanza superficiale significativamente diversa da quella fino ad allora ri-

    scontrata: la regione centrale appariva molto luminosa in banda ottica e, anzi, talvolta

    10Pari a 1.4 · 1010 yrs, secondo il modello cosmologico attualmente accettato.

  • 1.3 Le galassie attive 9

    più luminosa dell’intera galassia ospite: si osservavano punte di 1044 ÷ 1045 erg s−1 a

    confronto di una luminosità del disco anche di due ordini di grandezza inferiore.

    L’analisi spettroscopica di tali oggetti, poi, rivelava elevati livelli di ionizzazione con

    presenza evidente di righe di emissione “proibite” di larghezza11 FWHM ∼ 200 ÷

    500 km s−1 e, talvolta, righe permesse con larghezza fino a ∼ 104 km s−1 (fig. 1.2). Lo

    spettro di assorbimento era invece caratterizzato da righe di larghezza molto superiore

    alla velocità di fuga della regione nucleare. Il nucleo, cioè, appariva emettere non solo

    una quantità anomala di energia, ma anche un vento di particelle altamente relativisti-

    che. Fra gli oggetti da lui scoperti Seyfert distinse inoltre due sottoclassi in base alla

    larghezza osservata delle righe di emissione permesse: nelle galassie di tipo 1 questa

    era compresa fra i 1000 e i 10000 km s−1, mentre nelle rimanenti, dette di tipo 2, era

    inferiore ai 1000 km s−1 (larghezze tipiche sono ∼ 300 ÷ 500 km s−1). Le Seyfert1

    Figura 1.2: Spettri ottici tipici di galassie di Seyfert: in alto la Seyfert1 NGC 4151 con alcuneevidenti righe larghe di emissione (HeII, Hα, Hβ) e righe strette proibite (OII, OIII edNII); in basso la Seyfert2 NGC 4941: le righe larghe non sono visibili, mentre permangonoquelle strette.

    rappresentavano circa il 20% del campione e le Seyfert2 il rimanente 80%. Infine le

    11La larghezza, o FWHM (dall’inglese full width half maximum), è in spettroscopia astronomicaespressa solitamente in km s−1, poiché generalmente associata alla corrispondente larghezza delladistribuzione maxwelliana di velocità delle particelle nella sorgente.

  • 10 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    Seyfert1 presentavano un eccesso di radiazione nel continuo UV − X non spiegabile

    con emissioni stellari. In molti casi lo spettro delle regioni nucleari era non-termico ed

    il grado di polarizzazione lineare particolarmente elevato.

    Pochi anni più tardi, lo sviluppo di nuove classi di rivelatori in grado di indagare

    nuove finestre dello spettro elettromagnetico consent̀ı l’osservazione di altre galassie

    anomale. Le prime mappe radio portarono alla scoperta delle radiogalassie, cos̀ı de-

    nominate per l’enorme luminosità radio della regione centrale (∼ 1044 ÷ 1045 erg s−1

    a fronte di ∼ 1039 ergs−1 nelle galassie ordinarie). Queste sorgenti, generalmente con

    controparte ottica rintracciata in galassie ellittiche, sono caratterizzate da brevissimi

    tempi scala di variabilità, dell’ordine del mese o, in casi estremi, di solo poche ore.

    Dalle regioni nucleari apparivano poi sovente fuoriuscire getti relativistici di particelle

    con fattori di Lorentz γ ∼ 10 ÷ 100, simmetrici, estremamente collimati e persistenti

    fino a ∼ 1 Mpc. I fronti d’urto dei getti si manifestavano in forma di giganteschi lobi

    radio del volume di centinaia di kpc3, molto più estesi dell’intera controparte ottica (fig.

    1.3). Il caratteristico spettro a legge di potenza (F ∝ ν−α) e la polarizzazione indica-

    Figura 1.3: Mappa radio della radiogalassia Cygnus A ripresa dal VLA a 4.8 GHz. Si nota,fra i lobi, la presenza di una radiosorgente compatta e dei due getti simmetrici. Per confronto,è stato sovrapposto un contorno approssimativo della controparte ottica.

  • 1.3 Le galassie attive 11

    vano anche in questo caso un’emissione di sincrotrone da gas trasparente (solo a basse

    frequenze era osservato un taglio esponenziale) in campi magnetici eccezionalmente

    intensi (B ∼ 10−3 ÷ 10−4G).

    Alla fine degli anni ’50 furono rivelate alcune sorgenti radio molto compatte, al-

    l’apparenza puntiformi, con un forte eccesso ultravioletto. In queste sorgenti le righe

    spettrali apparivano considerevolmente spostate verso il rosso12. Nell’ipotesi di espan-

    sione cosmologica dell’universo (discussa nel prossimo capitolo), l’effetto Doppler13 era

    da ricondursi ad una distanza cosmologica della sorgente. I deboli aloni diffusi attorno

    alle sorgenti più vicine, e la presenza in alcuni casi, come ad esempio in M87 (fig. 1.4),

    di getti, avvalorarono l’ipotesi che in realtà ci si trovasse di fronte a galassie dal nucleo

    estremamente brillante, denominate quasars (quasi-stellar radio sources). Lo spettro

    Figura 1.4: M87, in un’immagine dell’Hubble Space Telescope

    osservato presentava un continuo esteso fino alla banda X o gamma e la polarizzazione

    evidenziava un’emissione di sincrotrone da elettroni relativistici con fattori di Lorentz

    12Lo spostamento verso il rosso, detto redshift è definito da z =λobs − λrest

    λrest, dove λobs è la lunghezza

    d’onda della riga di emissione di una sorgente in moto rispetto all’osservatore e λrest è la corrispondentelunghezza d’onda misurata nel sistema di riferimento della sorgente. La relazione è identica a quelladell’effetto Doppler, ma, come vedremo nel prossimo capitolo, il redshift cosmologico è in realtà unaconseguenza dell’espansione del fattore di scala dell’universo.

    13Johann Christian Andreas Doppler (1803 – 1853), matematico e fisico austriaco

  • 12 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    ∼ 104. La luminosità radio era piuttosto differenziata (tanto che si distinse fra quasars

    radio loud, ossia luminosi nel radio, e radio quiet, più deboli) e la curva di luce, infine,

    era rapidamente variabile, analogamente alle radiogalassie. Osservazioni più recenti

    hanno tuttavia mostrato come i quasars siano in realtà ospitati in galassie non parti-

    colarmente anomale, analogamente a quanto accade nelle Seyfert.

    Ad oggi i quasars sono fra le sorgenti più lontane osservate: l’estrema luminosità della

    sorgente centrale, che può raggiungere punte di 1048 erg s−1, ne consente la rivelazione

    fino a redshift z = 6.4.

    Nonostante la notevole diversificazione osservativa delle sorgenti nucleari fin qui

    descritte, sono rintracciabili alcune importanti caratteristiche comuni che ne giustifi-

    cano l’appartenenza alla classe dei Nuclei Galattici Attivi (o AGN, dall’inglese Active

    Galactic Nuclei):

    • innanzitutto gli AGN appaiono come sorgenti estremamente brillanti: coprono

    un intervallo di luminosità molto ampio, spaziando da 1038 a 1048 erg s−1, ma in

    quasi tutti la luminosità dell’AGN è dello stesso ordine o di ordine superiore a

    quella dell’intera galassia ospite;

    • l’enorme quantitativo di energia irraggiata per unità di tempo è emesso da gas

    molto caldi (con un picco nella distribuzione spettrale che cade solitamente in

    banda ultravioletta o X e quindi con corrispondenti temperature di corpo nero

    di 106÷ 107 ◦K) e da plasmi relativistici sotto forma di radiazione non termica e

    polarizzata (sostanzialmente per emissione di sincrotrone o per effetto Compton

    inverso);

    • sono presenti forti campi magnetici (da 10−5 fino a 10−3 G contro, ad esempio i

    10−6 G caratteristici della Via Lattea);

    • la distribuzione spettrale dell’energia emessa (in inglese SED, da Spectral Energy

    Distribution) presenta eccessi (detti anche bumps) nel vicino UV, nell’infrarosso

    e nell’X (fig. 1.5);

  • 1.3 Le galassie attive 13

    Figura 1.5: SED (Spectral Energy Distribution) tipica di AGN. Si possono notare gli eccessiin banda IR, UV, X e la diversificazione in bassa frequenza fra galassie radio loud e radioquiet

    • gli AGN sono tipicamente caratterizzati, come abbiamo visto, da un’elevata va-

    riabilità: i tempi scala, che in realtà dipendono dalla banda di osservazione,

    possono essere anche di solo poche ore, quindi di gran lunga inferiori a quelli di

    evoluzione galattica (106÷ 107 yrs) e anzi più consueti in eventi stellari esplosivi

    (fig. 1.6).

    La variabilità fornisce un’indicazione indiretta su quali possano essere le dimensioni

    della fonte energetica primaria, anche in quei casi in cui il nucleo galattico non sia

    spazialmente ben risolto. Per spiegare come questo sia possibile immaginiamo una

    sfera otticamente spessa di raggio R posta ad una distanza d � R da un osservatore

    ed assumiamo che, nel suo sistema di riferimento, ogni punto della sfera sia raggiunto

    nello stesso istante da un impulso luminoso di durata infinitesima originato nel centro S

    della sfera stessa (fig. 1.7). L’osservatore posto in O riceverà la radiazione proveniente

    dal punto più vicino, P1, dopo un tempo

    t1 =d−Rc

    (1.4)

  • 14 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    Figura 1.6: Curve di luce del quasar 3C 454.3 osservate in banda gamma (0.1 ÷ 300 GeV ),UV (W1), ottica (B) ed infrarossa (J) da Fermi/LAT, Swift/UVOT e SMARTS. I flussi sononormalizzati al giorno giuliano JD 2454700 (21 Agosto 2008) e traslati per maggiore chiarezza(Bonning et al., 2009).

    Figura 1.7: Una sorgente sferica si illumina in tutti i suoi punti in uno stesso istante misuratonel suo sistema di riferimento. Un osservatore, posto in O, vede l’impulso luminoso allargatoper effetto della dimensione estesa della sorgente

    mentre la radiazione emessa dai punti più lontani visibili, come P2, perverrà al tempo

    t2 =

    √d2 −R2c

    ' dc

    (1.5)

  • 1.4 Il modello unificato 15

    In altre parole l’impulso luminoso è allargato di una quantità

    ∆t ' Rc

    (1.6)

    Questo significa che se ipotizziamo che la variabilità sia originata da eventi fisici causal-

    mente connessi dobbiamo concludere che la sorgente all’interno della quale tali eventi

    si verificano sia spazialmente confinata entro una dimensione lineare di

    Rmax ' ∆t c (1.7)

    dal momento che dimensioni superiori darebbero origine ad una più limitata variabilità

    osservabile. Se quindi la variabilità di un quasar è dell’ordine di un’ora, Rmax è inferiore

    a 10 au.

    1.4 Il modello unificato

    Con poche semplici considerazioni possiamo stimare la massa minima di un corpo com-

    patto necessaria a produrre la luminosità osservata. Consideriamo il caso elementare

    di accrescimento radiale stazionario: una massa dM in caduta sul BH converte, co-

    me dettato dal teorema del viriale, metà della sua energia potenziale gravitazionale in

    energia cinetica. La conseguente accelerazione è causa di irraggiamento. La lumino-

    sità prodotta origina una pressione di radiazione, ad essa proporzionale, che contrasta

    l’attrazione gravitazionale ostacolando il flusso di ulteriore materia in accrescimento.

    Imponendo l’uguaglianza fra la forza di gravità e la spinta repulsiva dovuta alla pres-

    sione di radiazione sugli elettroni si ricava una luminosità limite per l’accrescimento,

    detta luminosità di Eddington14:

    LE =4πcGmpσT

    M ' 1.3 · 1038 MM�

    erg s−1 (1.8)

    14mp = 1.67 · 10−24 g è la massa del protone, mentre σT = 6.65 · 10−25 cm2 è la sezione d’urtoThomson su elettrone

  • 16 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    Siccome la luminosità osservata (ad esempio ∼ 1044 erg s−1) deve essere necessaria-

    mente inferiore, se ipotizziamo una distribuzione angolare uniforme della radiazione

    emessa, si ha

    M & 0.8 L M� · 10−38 erg−1 s ∼ 106 M�(

    L

    1044 erg s−1

    )(1.9)

    Il raggio gravitazionale di Schwarzschild per una tale massa (∼ 1012 cm) risulta con-

    frontabile con quello ricavato dalla variabilità degli AGN di tale luminosità.

    Una seconda conferma della presenza di SMBHs all’interno degli AGN si può ottenere

    considerando che una stima, rozza ma ragionevole, dell’energia complessivamente emes-

    sa da un quasar durante tutto l’arco della sua vita è di ∼ 1061 erg. Supponendo che il

    meccanismo di produzione di energia sia la fusione nucleare (con un’efficienza di conver-

    sione massa-energia dello 0.7%), analogamente a quanto avviene nelle stelle, dovremo

    ipotizzare la presenza di 8 · 108 M� confinate entro un volume di ∼ 1043 cm3 come ri-

    cavato dalla variabilità nella sorgente. La densità corrispondente è di ∼ 1021 M� pc−3

    a fronte delle ∼ 108 M� pc−3 osservate nei più densi ammassi stellari. Un sistema

    tanto denso di stelle ha una vita media irrisoria se confrontata con la vita dell’univer-

    so. Occorre quindi assumere, come proposero indipendentemente Salpeter (1964)15 e

    Zel’Dovich (1964)16, l’accrescimento su un SMBH come meccanismo energetico prima-

    rio, processo di gran lunga più efficiente della fusione nucleare. Per produrre la stessa

    quantità di energia, difatti, sarebbe sufficiente un BH di massa 106 M� con un’efficien-

    za di conversione massa-energia di ∼ 0.1.

    In realtà tale efficienza, detta anche efficienza radiativa ed indicata con �r, è ricavabile

    dall’energia di legame di una particella che, cadendo da distanza infinita, si posiziona

    sull’ultima orbita stabile attorno al BH ed è una funzione del momento angolare del

    BH stesso. I valori estremali si ottengono nel caso di un buco nero di Schwarzschild,

    per cui l’orbita minima ha raggio rmin = 3rS con conseguente efficienza di �r = 0.056,

    15Edwin Ernest Salpeter (1924 - 2008), astrofisico austriaco naturalizzato australiano e poistatunitense

    16Yakov Borisovich Zel’dovich (1914 – 1987), fisico russo

  • 1.4 Il modello unificato 17

    ed un buco nero di Kerr massimamente ruotante ed accrescimento nello stesso verso di

    rotazione del BH, nel qual caso si ha rmin = 5/8 rS ed �r = 0.42.

    La presenza di un SMBH di massa superiore a 106 M� al centro delle galassie attive

    spiega anche l’osservazione di spettri non-stellari, non ottenibili cioè dalla sovrappo-

    sizione di una qualsivoglia popolazione di stelle, e i getti osservati nelle radiogalassie

    e in alcuni quasars, estesi per migliaia di anni luce, testimoniano la persistenza della

    sorgente in uno stato di momento angolare talmente grande da non essere influenzato

    dall’ambiente esterno, come accadrebbe appunto per un SMBH in rotazione.

    Viste le numerose analogie fra le galassie attive, il naturale passo successivo è elabo-

    rare un modello fisico, detto modello unificato, che esemplifichi gli effetti della presenza

    di un buco nero super-massivo nel centro di una galassia e tenti di spiegare la variega-

    ta fenomenologia osservata che ha portato storicamente ad una differenziazione nella

    classificazione.

    Il modello, cos̀ı come attualmente accettato, è schematizzato in fig. (1.8) e prevede la

    presenza di un sottile disco di accrescimento in prossimità dell’orizzonte degli eventi

    ed esteso fino a distanze dell’ordine di 1/100 pc. Questo è la fonte della maggior parte

    della luminosità osservata e si forma per conservazione del momento angolare della ma-

    teria che va ad accrescere il BH. Parte di tale materia, per viscosità17, dissipa momento

    angolare e spiraleggia sul buco nero.

    Ovviamente la luminosità del disco, Ld, dovuta all’accelerazione delle particelle che lo

    compongono, è una funzione della distanza dal BH ed è maggiore in prossimità del BH

    mentre va ad attenuarsi verso l’esterno. I modelli più recenti mostrano che la forma del

    disco è sostanzialmente dettata dal rapporto δ =Ld(r)

    LE: per 0.01 < δ < 0.1 il raffred-

    damento radiativo è efficiente ed il disco appare sottile e luminoso; per δ → 1 il disco

    diventa molto caldo e la pressione di radiazione sostiene il disco dal collasso causando

    un lieve inspessimento; per δ < 0.01, ossia a grande distanza (∼ 1 pc), l’irraggiamento

    è meno efficiente ed il disco si gonfia per effetto della pressione degli ioni, frazionan-

    17Si ritiene che il campo magnetico indotto dalla rotazione differenziale del disco generi un’instabilitàmagneto-rotazionale.

  • 18 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    Figura 1.8: Schema del modello unificato degli AGN. Al di sopra ed al di sotto del torooscurante sono raffigurate le emissioni tipiche, rispettivamente, di AGN radio loud e radioquiet.

    dosi in parte. In questa regione, spesso rappresentata semplicisticamente in forma di

    toro, la temperatura è al di sotto del limite di sublimazione delle polveri, che possono

    quindi sopravvivere. Queste ultime assorbono efficacemente la radiazione emessa dal

    disco di accrescimento impedendo la ionizzazione del gas esterno al toro nella regione

    equatoriale. Nonostante l’emissione primaria sia approssimativamente isotropa, la io-

    nizzazione può dunque avvenire solo all’interno di una regione conica, detta appunto

    “cono di ionizzazione”.

    Le righe larghe nello spettro di emissione sono attribuite ad una regione, detta appunto

    BLR dall’inglese broad line region, situata ad alcuni giorni o settimane luce dal BH.

    La radiazione è emessa per ricombinazione in nubi di gas caldo ionizzato dall’intensa

  • 1.5 L’evoluzione degli AGN 19

    emissione del disco di accrescimento. La vicinanza al buco nero giustifica la larghezza

    delle righe per effetto Doppler. Le righe strette proibite, invece, si originerebbero in

    nubi più distanti (10 ÷ 100 pc) e con velocità minori, situate sempre entro il cono di

    ionizzazione.

    L’angolo fra piano di accrescimento e linea di vista può spiegare la diversificazione

    osservativa delle varie classi di AGN: nelle Seyfert2 e negli AGN oscurati l’assenza di

    righe larghe è dovuta all’interposizione del toro lungo la direzione di osservazione18

    (per questa ragione gli AGN oscurati sono anche detti edge on); Seyfert1 e quasars

    sarebbero invece viste lungo direzioni più prossime a quella del momento angolare del

    sistema (sono cioè face on). In particolare l’osservazione di getti caratterizzati da moti

    superluminali apparenti è motivabile con un’emissione collimata in direzione della linea

    di vista.

    1.5 L’evoluzione degli AGN

    L’osservazione di SMBHs al centro di galassie locali lascia supporre possibile uno sce-

    nario evolutivo in cui l’accrescimento abbia inizio su BHs di massa stellare o intermedia

    e si manifesti in attività AGN della regione nucleare. Le galassie “normali” potrebbero

    dunque ospitare buchi neri super-massicci che non sono più in fase di accrescimento,

    o, più ragionevolmente, accrescono cos̀ı poco che l’estinzione della polvere è sufficiente

    ad oscurarne l’effetto.

    Per esplorare questa possibilità è ovviamente necessario studiare il più ampio numero

    possibile di galassie e ricercare, all’interno di ognuna di queste, l’evidenza di un SMBH

    misurandone eventualmente massa e caratteristiche spettrali.

    18Una convincente conferma di questa ipotesi si ottiene selezionando la luce polarizzata dallo spettrodi emissione. In questo modo è talvolta possibile, come nel caso di NGC 1068, far “emergere” dalcontinuo le righe larghe prodotte da BLRs oscurate.

  • 20 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    1.5.1 La misura della massa dei SMBHs

    I metodi per la stima della massa di SMBHs si basano sostanzialmente o sulla dina-

    mica stellare o sull’analisi spettroscopica del gas e delle polveri nella regione nucleare.

    Il primo di questi metodi, che è anche stato cronologicamente il primo adottato, ha il

    vantaggio di poter essere applicato in tutti i tipi morfologici di galassie (sia le galassie a

    spirale che quelle ellittiche, infatti, sono naturalmente caratterizzate da un picco nella

    densità stellare in corrispondenza del nucleo); tuttavia, i tempi di osservazione richiesti

    per ottenere un buon rapporto segnale/rumore sono particolarmente lunghi. La dina-

    mica stellare si basa, ad ogni modo, sulla misura spettroscopica del profilo di velocità

    delle righe di assorbimento stellari e la relativa dispersione. La misura viene eseguita

    solitamente operando delle medie sulla popolazione stellare lungo la linea di vista, dal

    momento che solo in due casi eccezionali (Via Lattea ed NGC 425819) è possibile se-

    guire singole “particelle test” (che, nei due casi, sono rispettivamente stelle e nubi di

    gas in emissione maser). La massa del buco nero centrale è poi ricavata, ad esempio,

    dall’equazione di Jeans per sistemi a molti corpi, solitamente approssimando il proble-

    ma ad una simmetria circolare (Binney & Tremaine, 2008). In ottima approssimazione

    è utilizzabile la meccanica newtoniana: ricordiamo infatti che la sfera di influenza è

    molto più ampia del raggio di Schwarzschild del BH centrale.

    Il metodo della cinematica dei gas, invece, si basa sulla misura delle righe di emissione

    nei bulges. Conseguentemente, avrà il pregio di migliori rapporti segnale/rumore a

    parità di tempo di osservazione, accompagnato però dall’inconveniente di non essere

    applicabile a tutte le galassie. Solo le galassie più brillanti, fra le quali gli AGN si-

    curamente rientrano, mostrano infatti righe di emissione sufficientemente intense. Le

    assunzioni semplificative per la stima del profilo radiale di velocità delle righe di emis-

    sione sono in questo caso di nubi indipendenti in orbita circolare con effetti idrodinamici

    trascurabili e pressione nulla.

    E’ comunque di fondamentale importanza ricordare che ogni osservazione astrono-

    19In quest’ultimo caso si stimano le velocità radiali di nubi isolate attraverso l’osservazione di righemaser dell’acqua

  • 1.5 L’evoluzione degli AGN 21

    mica è condotta con uno strumento che necessariamente diaframma la luce in ingresso.

    Anche nel caso di perfetta geometria e fattura degli strumenti e di ideali condizioni

    ambientali di umidità e trasparenza atmosferica (cui spesso ci si riferisce col termine

    inglese seeing), l’immagine di una sorgente puntiforme sul piano focale sarà data dalla

    convoluzione dell’immagine predetta dall’ottica geometrica con la figura di diffrazione

    di Fresnel20 della pupilla di ingresso. Se, come solitamente accade, la pupilla di ingresso

    è circolare, l’immagine osservata è dunque una figura di Airy21. Secondo il criterio di

    Figura 1.9: Distribuzione e profilo di intensità della figura di Airy prodotta per diffrazione dapupilla circolare illuminata da una sorgente puntiforme monocromatica a distanza infinita.

    Rayleigh22 si suole definire “risolte” due sorgenti puntiformi qualora il primo minimo

    della distribuzione di intensità della seconda sorgente cada in corrispondenza del mas-

    simo della figura di Airy osservata per la prima. La distanza angolare minima risolta

    è in tal caso definita da:

    δ ' 1.22 λD

    (1.10)

    dove λ è la lunghezza d’onda della radiazione osservata e D è il diametro della pupilla

    di ingresso.

    La risoluzione è di estrema importanza qualora sia cruciale, come nel nostro caso,

    osservare regioni particolarmente limitate come la sfera di influenza di un SMBH in

    20Augustin-Jean Fresnel (1788 – 1827), fisico francese21Sir George Biddell Airy (1801 - 1892), astronomo inglese22John William Strutt 3◦ barone di Rayleigh (1842 – 1919), fisico britannico

  • 22 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    una galassia lontana: per valori tipici dei raggi di influenza e di distanza possiamo

    stimare necessaria una risoluzione angolare di ∼ 0.05′′ raggiungibile o con specchi

    molto grandi in ottime condizioni di seeing, meglio ancora se supportati da sistemi di

    ottica adattiva, o da osservazioni spaziali.

    Per confronto, è possibile ricavare in modo semplice una stima dell’angolo con cui è

    osservabile la sfera di influenza di un SMBH: supponendo ad esempio che MBH =

    108 M�, che la dispersione di velocità osservata della popolazione stellare circostante

    sia σ = 200 km sec−1 e che la distanza del BH sia d = 20 Mpc si ottiene

    ris =GMBHσ2

    ' 11pc ⇒ θ ' risd∼ 0.1′′ (1.11)

    Un ulteriore ostacolo all’osservazione, sia in galassie attive che inattive, deriva dal fre-

    quente oscuramento dovuto alla presenza di polvere. L’oscuramento rende difficoltosa

    o addirittura impossibile la rivelazione di alcune righe di emissione. In particolare, dal

    momento che l’efficienza di assorbimento della polvere è minima in banda IR, per galas-

    sie con consistente oscuramento di polveri è necessario descrivere il campo di velocità

    con spettroscopia infrarossa.

    1.5.2 Le relazioni osservate fra SMBHs e galassie ospiti

    Ad oggi la misura di massa è stata possibile solo per circa cinquanta SMBHs e pre-

    valentemente in galassie ellittiche o di tipo morfologico S0, secondo la classificazione

    di Hubble23. Inoltre, anche per tali galassie nella maggior parte dei casi la sfera di

    influenza del SMBH è solo approssimativamente risolta. Il campione è dunque piutto-

    sto esiguo e le incertezze di misura considerevoli, ma è comunque possibile una stima

    approssimativa delle correlazioni che intercorrono fra le caratteristiche di un SMBH e

    della relativa galassia ospite o, quantomeno, della sua regione nucleare. E’ evidente,

    infatti, non solo che l’accrescimento di un SMBH, e dunque la sua luminosità, sia vin-

    colata alla densità di gas, polveri e stelle, ma viceversa anche che il tasso di formazione

    23Edwin Powell Hubble (1889 – 1953), astronomo e astrofisico statunitense.

  • 1.5 L’evoluzione degli AGN 23

    stellare e la stessa densità di materia diffusa siano influenzati fortemente dalla massa

    del buco nero e dalla pressione di radiazione da esso generata. Galassia e BH, dunque,

    appaiono verosimilmente evolvere insieme, influenzandosi vicendevolmente attraverso

    lo scambio di massa ed energia.

    Una prima correlazione è osservata fra massa del BH e la dispersione di velocità

    delle stelle nello “sferoide” (ossia nel bulge nel caso di una galassia a spirale e nell’intera

    galassia nel caso di una ellittica)24:

    log

    (MBHM�

    )= (8.12± 0.08) + (4.24± 0.41) log

    ( σ200 km s−1

    )(1.12)

    cioè

    MBH ∼ σ4.24 (1.13)

    In questa relazione l’esponente ha un preciso significato fisico: è possibile ricavare che

    qualora il suo valore sia prossimo a 4, l’accrescimento è limitato dal flusso di massa su

    BH; se invece α ' 5 si ha un accrescimento autolimitato dalla pressione di radiazione,

    con una luminosità emessa vicina alla luminosità di Eddington.

    La seconda correlazione riguarda la massa del BH e la luminosità dello sferoide: in

    questo caso si osserva

    log

    (MBHM�

    )= (8.95± 0.11) + (1.11± 0.18) log

    (LV

    1011L�,V

    )(1.14)

    dove L�,V ed LV sono rispettivamente la luminosità solare e della sorgente osservate

    in banda V .

    Osserviamo che ciascuna di queste correlazioni suggerisce la presenza di una rela-

    zione fra la massa del BH e la massa dello sferoide: per ciascuna stella dello sferoide si

    ha che la luminosità emessa dipende dalla sua massa e dunque la luminosità totale è

    24I valori numerici che quantificano queste correlazioni sono frequentemente aggiornati, come avremomodo di descrivere nel dettaglio nei capitoli seguenti. A titolo di esempio, nel seguito saranno riportatii risultati di Gültekin et al. (2009)

  • 24 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    funzione della massa complessiva dello sferoide; inoltre la dispersione di velocità è data

    dall’energia cinetica media delle stelle dello sferoide, che a sua volta è dovuta al po-

    tenziale gravitazionale dominato dalla massa del SMBH. La correlazione MBH −Msph

    è infatti osservata:

    MBH ∼ 10−3Msph (1.15)

    E’ chiaro che lo scarso numero di misure effettuate influisce pesantemente sulla

    dispersione intrinseca delle correlazioni. Nuove misure di massa di altri SMBHs con-

    sentirebbero di comprendere più a fondo il meccanismo di evoluzione e di coabitazione

    dei BHs nelle relative galassie ospiti, vincolando in modo più stringente le attuali teorie

    evolutive.

    1.5.3 Le surveys e l’evoluzione dei SMBHs

    Quanto fin qui esposto dovrebbe aver chiarito l’importanza di un censimento delle ga-

    lassie ed in particolare di quelle attive. Una valida mappa (in inglese survey) degli AGN

    dovrebbe poter conteggiare con la stessa efficienza tutti i tipi morfologici di galassie a

    qualunque grado di oscuramento. La presenza inevitabile di un contributo significativo

    di galassie che, pur attive, sono talmente oscurate da non poter essere riconosciute

    come tali è una delle maggiori fonti di errore sistematico sulla stima delle correlazioni

    fra SMBHs e galassie ospiti e sulla determinazione dei parametri che descrivono l’evo-

    luzione degli AGN su scala temporale cosmologica.

    La pubblicazione di nuovi cataloghi di AGN è inoltre resa più difficoltosa dai lunghissi-

    mi tempi di esposizione necessari per mappare l’intera sfera celeste con buoni rapporti

    segnale/rumore.

    La costruzione di telescopi sempre più grandi, la scelta di siti astronomici sempre più

    vicini alle condizioni ideali, lo sviluppo di rivelatori e di elettronica di supporto sempre

    più efficienti e precisi e l’elaborazione di tecniche osservative nuove sono tutti aspetti

    fondamentali per una migliore osservazione del cielo profondo. Negli ultimi vent’anni

    le surveys si sono moltiplicate ed il numero di AGN scoperti, in continua crescita, ha

  • 1.5 L’evoluzione degli AGN 25

    Figura 1.10: Immagine del cielo profondo (ultra deep field) ripresa dall’Hubble Space Telescopecon ACS (Advanced Camera for Surveys). A fianco, alcune delle galassie più lontane. Nasa,Esa & GOODS team, 2006.

    già superato le centomila unità (Véron-Cetty & Véron, 2006).

    Delle galassie osservate, una significativa frazione, dell’ordine del 15% (rilevata

    prevalentemente grazie a surveys in banda X), risulta in attività AGN e di queste si

    osserva un picco di densità numerica per redshift compresi fra 2 e 3. Come vedremo

    nel prossimo capitolo, e come già più volte anticipato, è possibile far corrispondere ad

    ogni redshift un’epoca di evoluzione cosmologica, pervenendo cos̀ı ad una distribuzione

    temporale non uniforme di AGN. Questa avvalora l’ipotesi che le galassie attive non

    abbiano caratteristiche peculiari, ma siano viceversa in una particolare fase della loro

    evoluzione, fase in cui il rapido accrescimento dei SMBHs si manifesti in attività AGN

    della regione nucleare. In quest’ottica lo studio degli AGN più lontani, i quasars, è un

    fondamentale strumento per comprendere come l’universo apparisse miliardi di anni

    fa, e far luce sulle prime fasi di formazione delle galassie.

    Da una interpretazione evolutiva dell’attività AGN, si comprende anche una pos-

    sibile ragione della presenza di SMBHs in galassie ordinarie dell’universo locale: con-

  • 26 Buchi neri e Nuclei Galattici Attivi

    siderando un’efficienza di conversione massa-energia �r ∼ 0.1, per luminosità tipiche

    osservate di 1045 erg s−1 si ottiene che accrescimenti continuativi per 107 ÷ 108 yr,

    dunque per tempi molto minori della vita dell’universo, sono sufficienti per formare

    SMBHs di massa confrontabile con quella dei buchi neri super-massicci dell’universo

    locale. Quelli osservati nelle galassie inattive potrebbero essere dunque i residui ormai

    “spenti”, detti anche relics, di una precorsa attività AGN arrestatasi, coerentemente

    con le correlazioni osservate, non appena la massa del SMBH avesse raggiunto il valore

    di circa un millesimo della massa dello sferoide. In tali condizioni la luminosità emessa

    sarebbe stata cos̀ı intensa da allontanare dallo sferoide gas e polveri, rallentando in

    modo sostanziale l’accrescimento e la formazione stellare.

  • Capitolo 2

    Il modello cosmologico standard

    In a sense each of us has been inside a star; in a sense

    each of us has been in the vast empty spaces between the

    stars; and - if the universe ever had a beginning - each of

    us was there!

    Astrophysical Concepts

    Martin Harwit, 1988

    In questo capitolo è descritto in estrema sintesi il modello cosmologico adottato. Si

    illustrano brevemente le osservazioni chiave che hanno portato alla formulazione di

    teorie cosmologiche e si definiscono i parametri che descrivono l’evoluzione geometrica

    dell’universo. Esula dalle intenzioni di questo lavoro di tesi lo studio delle fasi evolutive

    precedenti alla formazione delle strutture, pertanto verranno tralasciati gli aspetti cri-

    tici del modello come le implicazioni, pur importanti, della quasi perfetta omogeneità

    osservata nella radiazione cosmica di fondo.

    2.1 L’esigenza di una teoria cosmogonica

    La formulazione di una teoria descrittiva della struttura e dell’evoluzione dell’univer-

    so deve necessariamente fondarsi sul cosiddetto Principio Cosmologico, secondo cui la

  • 28 Il modello cosmologico standard

    posizione dell’osservatore non offre una visione peculiare della struttura spaziale media

    dell’universo stesso. Inoltre è inevitabile basare il modello su una teoria della gravita-

    zione, dal momento che, come già ricordato, l’interazione gravitazionale è l’unica che

    agisce su grande scala. Le forze nucleari hanno infatti un raggio d’azione dell’ordine del

    Fermi1, mentre l’interazione elettromagnetica è in massima parte schermata: i sistemi

    astrofisici osservati sono infatti globalmente quasi neutri. La teoria della Relatività

    Generale, tuttavia, non offre di per sé predizioni sull’evoluzione temporale dell’univer-

    so: nel 1917 de Sitter2 presentò un modello di universo in espansione come soluzione

    delle equazioni di Einstein, ma fu lo stesso Einstein a mostrare che l’introduzione di

    un parametro libero aggiuntivo, la cosiddetta “costante cosmologica”, era sufficien-

    te a descrivere un universo statico. La soluzione al dibattito doveva essere ricercata

    nell’osservazione.

    La più semplice osservazione di carattere cosmologico è che il cielo, di notte, ap-

    pare mediamente buio. Questa banale considerazione, nelle ipotesi di universo eterno,

    infinitamente esteso e popolato da una densità costante di stelle è all’origine del no-

    to paradosso di Olbers3 (già proposto, in realtà, da Keplero nel 1610 ed ampiamente

    discusso nel XVIII secolo). In queste condizioni, infatti, una qualunque direzione di

    osservazione dovrebbe coincidere con la linea di vista di un astro, ogni guscio sferico di

    spessore infinitesimo dovrebbe contribuire in egual misura al flusso misurato ed il cielo

    dovrebbe apparire uniformemente illuminato.

    Il paradosso ovviamente non sussiste se si assume invece che la densità di stelle, cos̀ı

    come la luminosità osservata, diminuisca al crescere della distanza4. Vedremo come un

    universo di vita finita ed in espansione sia in grado di riprodurre correttamente questo

    effetto.

    Nel 1922 Hubble mostrò, con l’osservazione di M31, la presenza di galassie esterne e ne

    11 fm = 10−13 cm2Willem de Sitter (1872 – 1934), matematico, fisico e astronomo olandese3Heinrich Wilhelm Matthäus Olbers (1758 – 1840), fisico e astronomo tedesco.4Una seconda possibilità è che le costanti fondamentali varino nel tempo. La formazione stellare

    in una nube è infatti vincolata al bilancio fra pressione ed attrazione gravitazionale, proporzionalealla costante G. Se G varia nel tempo, variano dunque verosimilmente le condizioni di ignizione deiprocessi di fusione.

  • 2.1 L’esigenza di una teoria cosmogonica 29

    avviò lo studio sistematico degli spettri. Sette anni più tardi egli stesso presentò l’evi-

    denza osservativa che, in un campione di diciotto galassie, tutte le righe negli spettri

    ottici in assorbimento apparivano spostate sistematicamente verso il rosso. Si indica

    comunemente con redshift (z) la variazione relativa della lunghezza d’onda osservata

    rispetto a quella misurata in laboratorio nel sistema di riferimento della sorgente,

    z =λo − λeλe

    , (2.1)

    Hubble interpretò questo spostamento come dovuto all’effetto Doppler da sorgenti in

    allontanamento e, mettendo in relazione la corrispondente velocità di recessione con la

    distanza misurata per gli ammassi, ne ricavò la nota legge di proporzionalità5:

    v = z · c = H0 ·D (2.2)

    La costanteH0, detta costante di Hubble, è spesso espressa in unità di 100 km s−1 Mpc−1:

    H0 = h · 100 km s−1 Mpc−1 (2.3)

    dove, come vedremo, h ∼ 0.7.

    Un’ultima osservazione cruciale fu quella di Penzias & Wilson (1965)6,7, che rilevarono

    nelle microonde la presenza di una radiazione (nel seguito CMB, da Cosmic Microwa-

    ve Background) quasi isotropa e perfettamente descrivibile con l’emissione di un corpo

    nero alla temperatura T = 2.725 ± 0.001 ◦K. Una tale radiazione di fondo era stata

    prevista nel 1948 da Gamow8, Alpher9 ed Herman10, anche se con temperatura caratte-

    ristica sovrastimata, come residuo del raffreddamento dovuto all’espansione adiabatica

    di un universo inizialmente molto caldo e denso.

    5L’andamento è considerabile lineare in realtà solo per galassie vicine: per sorgenti sufficientementelontane, infatti andrebbe apportata l’opportuna correzione relativistica

    6Arno Allan Penzias (1933), fisico statunitense7Robert Woodrow Wilson (1936), un astronomo e fisico statunitense8Georgiy Antonovich Gamov (1904 - 1968), fisico russo naturalizzato statunitense9Ralph Asher Alpher (1921 – 2007), fisico statunitense

    10Robert Herman (1914 - 1997), fisico statunitense

  • 30 Il modello cosmologico standard

    2.2 La metrica di Robertson-Walker e le equazioni

    di Friedman

    La descrizione geometrica dello spazio-tempo introdotta con la Teoria della Relatività

    offre una seconda interpretazione della legge di Hubble (2.2): la recessione delle galassie

    è di fatto indistinguibile da una variazione di scala dell’universo. Se immaginiamo che

    una qualunque misura di lunghezza L sia in realtà una funzione del tempo e varii in

    modo proporzionale ad una lunghezza di riferimento a(t) detta “fattore di scala”, si ha

    che, ad un certo istante t, L (t) può essere espressa in funzione delle misure al tempo

    t0:

    L (t) = L (t0)a(t)

    a(t0)(2.4)

    Derivando questa relazione rispetto al tempo e ricordando la (2.2) otteniamo che la

    legge di Hubble può essere spiegata in soli termini geometrici:

    L̇ (t) = v(t) =ȧ(t)

    a(t)·L (t) = H(t)L (t) (2.5)

    Allo stesso modo si trasforma la lunghezza d’onda di un fotone, spiegando cos̀ı anche

    il redshift osservato senza ricorrere all’effetto Doppler:

    z =λo − λeλe

    =λoλe− 1 = a(to)

    a(te)− 1 (2.6)

    La dipendenza temporale del fattore di scala impone una forma dell’intervallo spazio-

    temporale del tipo:

    ds2 = c2dt2 − a2(t)gikdxidxk (2.7)

    dove gik è il tensore metrico e xi è la i-esima coordinata spaziale.

    Si può poi dimostrare che l’ipotesi di omogeneità dell’universo, derivata dal Princi-

    pio Cosmologico e dall’isotropia osservata su larga scala, vincola in modo stringente

  • 2.2 La metrica di Robertson-Walker e le equazioni di Friedman 31

    la struttura del tensore metrico: Robertson11 e Walker12 dimostrarono in particolare

    l’esistenza di tre sole soluzioni possibili, corrispondenti rispettivamente ad una metri-

    ca piatta, ellittica o iperbolica, riassumibili in un’unica forma, nota come metrica di

    Friedman13-Lemâıtre14-Robertson-Walker:

    ds2 = c2dt2 − a2(t)(

    dr2

    1− kr2+ r2dΩ2

    )(2.8)

    dove r è la coordinata radiale, dΩ è l’elemento di angolo solido e k, detta “curvatura

    gaussiana”, è il paramentro che discrimina i tre casi:

    k =

    −1 metrica iperbolica

    0 ” piatta (euclidea)

    1 ” ellittica

    (2.9)

    Dalla forma (2.8), ricordando che per un fotone ds ≡ 0, si può riottenere con una

    semplice integrazione la (2.6).

    A partire dalla metrica è possibile ricavare i relativi simboli di Christoffel15 e da

    questi ottenere il tensore di curvatura di Einstein, che rappresenta il primo membro

    dell’equazione (1.2). Approssimando la struttura su larga scala dell’universo a quella

    di un fluido perfetto, il tensore di energia-impulso assume la forma

    Tµν = (P + ρc2)uµuν − Pgµν (2.10)

    dove P rappresenta la pressione, ρ è la densità di massa-energia dell’universo e uµ la

    µ-esima componente della quadri-velocità di un elemento di fluido.

    Se adottiamo un sistema di riferimento di coordinate comoventi, ossia per le quali

    dxidτ

    = 0, con τ tempo proprio, si ha che l’unica componente non nulla di uµ è u0 = c.

    11Howard Percy Robertson (1903 - 1961), matematico e fisico statunitense12Arthur Geoffrey Walker (1909 - 2001), matematico inglese13Aleksandr Aleksandrovič Fridman (traslitterato in Friedman o Friedmann) (1880 – 1925),

    cosmologo e matematico russo14Georges Henri Joseph Édouard Lemâıtre (1894 – 1966), fisico belga15Hendrik Christoffel van de Hulst (1918 – 2000), astronomo e matematico olandese

  • 32 Il modello cosmologico standard

    Questa condizione fornisce una prima equazione scalare, mentre le altre tre componenti

    spaziali restituiscono, data l’omogeneità imposta, un’unica seconda equazione scalare:

    ȧ2(t) + kc2 =

    8πG

    3c2(ρc2)a2(t)

    ä = −4πG3c2

    (ρc2 + 3P )a

    (2.11)

    E’ immediatamente verificabile che queste equazioni, che prendono il nome di equazioni

    di Friedman, non prevedono la possibilità di un universo statico, motivo che indusse

    Einstein a proporre l’introduzione della costante cosmologica Λ, ridefinendo il tensore

    Gµν come

    Gµν → Gµν + c2Λgµν (2.12)

    In questo modo le equazioni (2.11) devono essere corrette da un termine additivo di

    pressione: ȧ2(t) + kc2 =

    8πG

    3c2

    (ρc2 +

    Λc4

    8πG

    )a2(t)

    ä = −4πG3c2

    (ρc2 + 3P − Λc

    4

    4πG

    )a

    (2.13)

    Definendo la densità ρΛ =Λc2

    4πG, vediamo allora che l’introduzione della costante co-

    smologica corrisponde a postulare l’esistenza di una sorgente di energia non strutturata,

    detta “energia oscura”, che obbedisca alla legge di stato

    PΛ = −ρΛc2 (2.14)

    Un valore positivo e diverso da zero della costante cosmologica definisce un termine di

    pressione che favorisce l’espansione dell’universo, come si può facilmente verificare rica-

    vando dalle (2.13) l’andamento del fattore di scala nel caso limite di una distribuzione

    di energia data dal solo contributo di energia oscura.

  • 2.3 La risoluzione delle equazioni di Friedman 33

    2.3 La risoluzione delle equazioni di Friedman

    Per poter risolvere le equazioni di Friedman è necessario conoscere la legge di stato

    dell’universo ossia una relazione fra la pressione e la densità di massa-energia. La

    forma parametrica

    P = wρc2 (2.15)

    descrive, al variare di w, alcuni sistemi notevoli, riassunti nella tabella (2.1).

    Tabella 2.1: Alcuni casi notevoli per l’equazione di stato dell’universo e relativa composizionepredominante

    w P Struttura dell’universo

    0 0 sola polvere

    1

    3

    1

    3ρc2 fotoni e particelle ultra-relativistiche

    1 ρc2 universo rigido

    −1 −ρc2 energia oscura

    kBT

    mc2 + 32kBT

    kBT

    mc2 + 32kBT

    ρc2 gas non relativistico a temperatura T

    E’ utile esprimere la densità di massa-energia dell’universo in rapporto ad una

    densità scala, che chiamiamo “densità critica”, definita da

    ρc =3H208πG

    ' 1.88 · 10−29h2 g cm−3 (2.16)

    Esprimendo ρ come somma dei contributi di materia, ρm, e radiazione, ρr, potremo

    cos̀ı definire i rispettivi parametri di densità

    Ωm =ρmρc

    =8πGρm

    3H20; Ωr =

    ρrρc

    =8πGρr3H20

    (2.17)

  • 34 Il modello cosmologico standard

    Analogamente si avrà il parametro di densità di energia oscura:

    ΩΛ =ρΛρc

    =8πGρΛ

    3H20(2.18)

    Il significato della densità critica si comprende ricavando dalla prima delle (2.13) il

    valore di kc2 (che, essendo una costante, definisce una legge di conservazione): si trova

    cos̀ı, ricordando la (2.5), che

    k =

    −1 ⇔ ρ+ ρΛ < ρc

    0 ⇔ ρ+ ρΛ = ρc

    1 ⇔ ρ+ ρΛ > ρc

    (2.19)

    La curvatura dell’universo è dunque dettata dal valore della densità complessiva di

    massa-energia ed energia oscura rispetto alla densità critica. In altre parole, detto

    ΩT = Ωm + Ωr + ΩΛ, la prima equazione di Friedman può anche essere scritta come

    − kc2 = H20a20(1− ΩT,0) (2.20)

    (dove i pedici “0” indicano che le quantità sono misurate nell’epoca attuale) e si ricava

    quindi che il segno di (1− ΩT,0) determina la curvatura dell’universo:

    ΩT,0 < 1 ⇒ k = −1

    ΩT,0 = 1 ⇒ k = 0

    ΩT,0 > 1 ⇒ k = 1

    (2.21)

    Sfruttando infine le equazioni di stato riassunte in tabella (2.1) per materia non relati-

    vistica, ultra-relativistica ed energia oscura si può ricavare, a partire dalle (2.13) dopo

    alcuni semplici passaggi algebrici, l’evoluzione temporale del parametro di scala:

    (ȧ)2 = H20a20

    [Ωr,0

    (a0a

    )2+ Ωm,0

    (a0a

    )+ ΩΛ,0

    (a

    a0

    )2+ (1− ΩT,0)

    ](2.22)

  • 2.3 La risoluzione delle equazioni di Friedman 35

    Si vede quindi come per comprendere l’evoluzione globale dell’universo sia sufficiente, in

    questo modello, determinare osservativamente il valore numerico attuale dei parametri

    di densità e della costante di Hubble.

    Senza scendere nel dettaglio di come queste stime siano realizzate, basterà per gli scopi

    del presente lavoro, fornire i valori più recenti accettati (Tegmark & other 46 authors

    2004, tabella 5):

    h = 0.66+0.07−0.06

    Ωm,0 = 0.32+0.06−0.05

    ΩΛ,0 = 0.695+0.03−0.04

    ΩT,0 = 1.01± 0.02

    (2.23)

    Notiamo che ΩT,0 è consistente con 1 e dunque la curvatura dell’universo è consistente

    con 0. Dalla temperatura della CMB è possibile ricavare il contributo di radiazione,

    che risulta del tutto trascurabile (' 5.3 × 10−5). Si nota allora come le componenti

    dominanti siano quelle di materia ed energia oscura.

    E’ fondamentale ricordare poi che la densità di materia include in sé il contributo della

    materia barionica visibile e della materia oscura, introdotta come “massa mancante”

    indispensabile per giustificare l’andamento osservato delle curve di velocità delle ga-

    lassie a spirale a grande distanza dal bulge. La composizione della materia oscura è

    piuttosto variegata: una percentuale di circa il 15% si ritiene sia di natura barionica

    (stelle di neutroni, nane brune e buchi neri di origine stellare), mentre la parte rima-

    nente, di natura non-barionica sarebbe costituita da neutrini (∼ 3%) e particelle non

    relativistiche (CDM, da Cold Dark Matter) che interagiscono solo gravitazionalmente

    (∼ 82%)16.

    Dall’integrazione della (2.22) si ottiene che il modello standard prevede un’origine per

    la scala dei tempi17 in cui il fattore di scala assume valore nullo e la densità diventa

    infinita (il noto Big Bang). Tali condizioni sono però da considerarsi molto oltre i limiti

    16Si suole spesso indicare il modello cosmologico standard con il nome ΛCDM evidenziando lecomponenti maggioritarie della densità di massa-energia (energia oscura e materia oscura “fredda”).

    17Il tempo misurato a partire dall’istante del Big Bang è anche detto “tempo di Hubble” ed è daintendersi come tempo proprio di un “osservatore fondamentale”, ossia un osservatore per cui valga ilPrincipio Cosmologico.

  • 36 Il modello cosmologico standard

    di validità del modello di Friedman, che possono essere fissati a densità dell’ordine delle

    densità nucleari (∼ 1015 g cm−3), corrispondenti a tempi di ∼ 10−10 s dall’istante del

    Big Bang (ossia a z ' 1014).

    L’emissione della radiazione cosmica di fondo è da far risalire al disaccoppiamento fra

    materia e radiazione avvenuto a redshift z ∼ 1000 a seguito del raffreddamento dell’u-

    niverso primordiale fino a temperature sufficienti a consentire la formazione delle prime

    strutture atomiche.

    Derivando la (2.22) rispetto al tempo si può notare come, in una prima fase evolu-

    tiva, l’andamento del fattore di scala sia stato dominato dal termine di radiazione; poi,

    per redshift inferiori a z ∼ 3.5 · 103 il contributo predominante sia diventato quello di

    materia, finché, a z ' 0.7 ha iniziato a predominare il termine di energia oscura.

    L’evoluzione della distribuzione di materia è simulabile a partire dall’epoca di ri-

    combinazione seguendo l’interazione gravitazionale di una distribuzione di massa quasi

    uniforme (sostanzialmente materia oscura fredda), caratterizzata da fluttuazioni di

    densità di ampiezza confrontabile con quella osservata nella CMB

    (δρ

    ρ∼ 10−3

    ). Re-

    centi simulazioni (Springel et al., 2005) hanno confermato la formazione di strutture

    complesse simili a galassie a tempi compatibili con le osservazioni. Le stesse simulazio-

    ni suggeriscono di collocare l’epoca di formazione dei primi quasars intorno a redshift

    z ∼ 16.

  • Capitolo 3

    La distribuzione di massa dei Buchi

    Neri Super Massivi locali

    Dark revolving in silent activity,

    Unseen in tormenting passions,

    An activity unknown and horrible,

    A self-contemplating shadow

    In enormous labours occupied.

    The first book of Urizen

    William Blake, 1794

    Con questo capitolo ha inizio la parte originale di questo lavoro di tesi. Ricaveremo

    la distribuzione di massa dei Buchi Neri Super Massivi nell’universo locale (ossia con

    redshift cosmologico z < 0.1) sfruttando i più recenti dati disponibili. Tale distribuzione

    verrà utilizzata per vincolare l’evoluzione cosmologica dei Nuclei Galattici Attivi.

    Come già osservato, i tempi scala di evoluzione galattica (∼ 108÷ 109 yr) sono tali

    da rendere impossibile ogni osservazione diretta di variazioni temporali nella morfolo-

    gia di una galassia (luminosità e forma complessiva; massa, luminosità e dispersione di

    velocità stellare nello sferoide) o nella massa di un eventuale SMBH al suo centro. Si

    può tuttavia studiare la popolazione di galassie nel suo insieme e, con un certo numero

  • 38 La distribuzione di massa dei Buchi Neri Super Massivi locali

    di assunzioni, ricavarne distribuzioni utili a vincolare i modelli teorici di struttura ed

    accrescimento dei buchi neri super massivi.

    L’idea su cui si fondano i modelli di evoluzione cosmologica è immediatamente compren-

    sibile se si considera che ogni guscio sferico centrato sul nostro punto di osservazione,

    di raggio medio corrispondente ad un certo redshift z e di spessore infinitesimo dz1,

    seleziona un insieme di galassie attive caratterizzate da una propria distribuzione di

    massa e di luminosità e la cui luce rivelata è stata emessa ad una particolare epoca

    t(z)2.

    Detto dt l’intervallo temporale corrispondente all’intervallo di redshift dz, si assume

    dunque che la popolazione osservata a redshift z fosse, al tempo t(z)− dt, distribuita

    nel piano massa-luminosità cos̀ı come descritto dalla funzione di massa e di lumino-

    sità corrispondenti al redshift z + dz. La variazione nelle distribuzioni è attribuita

    in massima parte al processo di accrescimento dei SMBHs. Sotto queste ipotesi, si

    comprende allora come sia possibile “seguire” passo-passo l’evoluzione cosmologica dei

    Nuclei Galattici Attivi.

    In questo lavoro intendiamo studiare l’evoluzione degli AGN entro un ampio inter-

    vallo di redshift (z ∈ [0; 5]). A questo proposito è ovviamente necessaria una condizione

    iniziale, data da un insieme di oggetti dalle caratteristiche fisiche note ad una certa

    epoca cosmologica. Sono due, quindi, i possibili approcci “naturali”: si può considera-

    re, come condizione iniziale, una certa popolazione di SMBHs attivi ad alto redshift e

    seguirne l’accrescimento concordemente alla freccia del tempo fino all’epoca cosmolo-

    gica attuale (nel seguito questo procedimento sarà indicato come modello T ); oppure,

    viceversa, si può partire dall’osservazione dell’universo locale per poi risalire alla strut-

    tura dell’universo ad alto redshift (nel seguito, modello Z ). Nel primo caso è possibile

    vincolare la condizione iniziale alla densità di galassie predetta dai modelli di evoluzio-

    ne dell’universo primordiale fino all’epoca di formazione delle strutture. Nel secondo,

    invece, la condizione iniziale è fornita dall’osservazione delle galassie più vicine, ove le

    1La corrispondenza biunivoca fra redshift e distanza è fissata dalla legge di Hubble (2.2)2In questo lavoro sarà sempre assunto, come origine della scala dei tempi, l’istante del Big Bang.

  • 3.1 Metodo adottato 39

    stime di massa dei SMBH sono più accurate e gli effetti di selezione dovuti all’estinzio-

    ne della radiazione sono meno influenti.

    In entrambi i casi, poi, l’evoluzione dovrà riprodurre correttamente la distribuzione di

    luminosità degli AGN osservata ad ogni redshift.

    In questo lavoro sono stati sviluppati gli strumenti per indagare entrambi gli approcci,

    assumendo implicitamente che ogni galassia contenga nella sua regione nucleare un

    SMBH e che questo sia il residuo di fasi di accrescimento verificatesi in massima parte

    durante cicli di attività AGN, a partire da buchi neri iniziali (seeds) di massa stellare o

    intermedia. Questa ipotesi risulta fondamentale per poter confrontare la distribuzione

    di massa dei relics con la funzione di massa dei SMBHs locali ricavata in questo capitolo

    e per poter quindi derivare, come vedremo, alcuni parametri globali che massimizzino

    l’accordo fra le due distribuzioni.

    3.1 Metodo adottato

    La procedura più corretta per la determinazione della distribuzione di massa dei SMBHs

    (spesso abbreviata con BHMF, da [Supermassive] Black Hole Mass Function) nell’u-

    niverso locale richiederebbe una stima diretta di massa su un campione numeroso di

    galassie con sfera di influenza del buco nero centrale spazialmente risolta. Ciò non

    è purtroppo possibile con la strumentazione ad oggi disponibile: come abbiamo già

    ricordato le masse stimate direttamente sono appena una cinquantina e la conseguente

    indeterminazione nella distribuzione sarebbe ragguardevole. Il metodo finora adottato,

    piuttosto ricorrente in letteratura (Salucci et al. 1999, Yu & Tremaine 2002, Aller &

    Richstone 2002, Marconi et al. 2004, Shankar et al. 2004) utilizza osservazioni più sem-

    plici, come la distribuzione di luminosità o di dispersione di velocità nei bulges, unita

    alle opportune correlazioni fra massa del BH e grandezza fisica osservata.

    In questo studio useremo in particolare le più recenti stime per le distribuzioni di lumi-

    nosità degli sferoidi nelle galassie vicine (fornite da Nakamura et al. 2003 e Devereux

    et al. 2009) e le più aggiornate correlazioni MBH − Lbul (ricavate da Graham 2007 e

  • 40 La distribuzione di massa dei Buchi Neri Super Massivi locali

    Gültekin et al. 2009), migliorando cos̀ı i risultati fino ad oggi pubblicati.

    E’ a questo proposito da osservare come le correlazioni BH-galassia siano caratteriz-

    zate da una significativa dispersione intrinseca che impedisce una semplice corrispon-

    denza biunivoca, ad esempio, fra luminosità del bulge e massa del BH. Assunta una

    correlazione MBH − Lbul lineare in logaritmo3, del tipo

    logmbh = a+ b log lbul,β (3.1)

    (dove mbh rappresenta la massa del BH in unità di massa solare ed lbulge,β è invece la

    luminosità del bulge misurata in una generica banda β ed espressa in unità di luminosità

    solare nella stessa banda) avremo che la dispersione intrinseca di tale correlazione è

    esprimibile in termini di una probabilità condizionata P (logmbh| log lbul,β). Se, per una

    data luminosità, i valori di massa sono distribuiti normalmente, sempre in logaritmo,

    attorno al valore predetto dalla correlazione, la probabilità che la massa del BH sia

    compresa fra logmbh e logmbh + d logmbh è

    P (logmbh| log lbul,β) d logmbh =

    =1√

    2π∆mexp

    [−1

    2

    (logmbh − a− b log lbul,β

    ∆m

    )2]d logmbh (3.2)

    dove ∆m è la misura della dispersione intrinseca. Nel caso banale di una dispersione

    nulla, la precedente si riduce ovviamente ad una delta di Dirac e la distribuzione di

    massa, definita come numero di BH di massa compresa fra logmbh e logmbh+d logmbh

    nell’elemento di volume comovente dV , è data da

    f(logmbh) =dN

    d logmbh dV=φ(

    log lbul,β)∣∣

    logmbh=a+b log lbul,β

    =dN

    d log lbul,β dV

    ∣∣∣∣logmbh=a+b log lbul,β

    (3.3)

    3qui come nel seguito si userà la dicitura log per indicare il logaritmo in base 10, mentre ln sarà illogaritmo in base naturale.

  • 3.1 Metodo adottato 41

    dove φ(log lbul,β) indica la funzione di luminosità dei bulges. Più in generale, invece,

    la BHMF sarà il risultato di una convoluzione fra funzione di luminosità e probabilità

    condizionata:

    f(logmbh) =

    ∫P (logmbh| log lbul,β) φ(log lbul,β) d log lbul,�


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