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Indice generale
INTRODUZIONE................................................................................................................3
L'AMOUR, LA FANTASIA E VASTE EST LA PRISON ................................................6
L'Amour, la fantasia ........................................................................................................7
Vaste est la prison .........................................................................................................10
L'AUTOBIOGRAFIA: QUADRO TEORICO ..................................................................12
Definizione teorica del genere ....................................................................................12
Identità narratore-personaggio principale .....................................................................15
Identità autore-narratore ................................................................................................16
Somiglianza tra autore e narratore ................................................................................19
L'"Autofiction": l'autobiografia come finzione e la finzione come autobiografia ........21
L'identità ........................................................................................................................24
LA SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA COME RESISTENZA E TRASGRESSIONE 31
Il corpo ..........................................................................................................................38
L'amore ..........................................................................................................................43
La parola ........................................................................................................................52
EPISTEMOLOGIA DELLA STORIA ..............................................................................59
Fase documentaria .........................................................................................................60
Fase esplicativa/comprensiva ........................................................................................63
Fase rappresentativa ......................................................................................................64
I limiti della Storia ........................................................................................................66
Il senso della Storia .......................................................................................................68
Il ricorso alla Storia nella Djebar ..................................................................................70
La storia nell'autobiografia ............................................................................................71
La ricerca storica come ricerca identitaria ....................................................................74
Demistificazione del discorso coloniale ........................................................................78
IL SOGGETTO COLLETTIVO: LA STORIA DELLE DONNE ....................................84
Accostamento tra sottomissione coloniale e sottomissione femminile .........................84
La donna nella storia e la storia delle donne .................................................................89
La “sorellanza”: il sostegno fra donne riconvertito alla resistenza ...............................93
La rivendicazione dell'uguaglianza ...............................................................................97
L'impegno del verbo ....................................................................................................100
LA QUESTIONE DELLA LINGUA ..............................................................................111
Il problema della lingua nelle società post-coloniali ...................................................112
La lingua francese come tunica di Nesso ....................................................................114
La lingua come territorio neutro tra due culture .........................................................118
Lingua e questione femminile .....................................................................................123
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................127
3
INTRODUZIONE
Leggendo i romanzi della maturità di Assia Djebar, ciò che salta subito all’occhio è
un’eterogeneità di modalità, prospettive e tematiche narrative che disorienta il lettore.
Infatti si è incerti a definire il genere dei testi: autobiografia? Cronaca storica? Per quanto
genere onnivoro per eccellenza, neanche l’etichetta del romanzo è adeguata se impiegata
senza altre qualifiche. I romanzi in questione si possono definire con la categoria del
post-moderno, caratterizzato proprio da questo sincretismo fra diversi generi letterari. Tra
le varie possibilità di commistione, la Djebar opta per quella tra letteratura (di finzione) e
forme narrative che hanno come oggetto di riferimento il reale, nello specifico cronaca
storica e autobiografia. L'originalità con qui queste due dimensioni vengono mescolate ed
intrecciate tra loro costituisce il punto saliente della poetica djebariana, impegnata in una
ricerca identitaria che diventa uno strumento di lotta politica. Il sostegno
all'emancipazione femminile passa proprio di qui. Nonostante la Djebar stessa si sia più
volte rifiutata di definirsi una scrittrice impegnata, respingendo quest'interpretazione
“politica” dei suoi testi, la sua è sempre stata una scrittura di battaglia, di lotta, di
resistenza. Del resto, l'accostamento tra poetica e politica è un'interpretazione fatta
propria da critici quali Jeanne Marie Clerc1 e Mireille Calle-Gruber
2 dei quali la Djebar
ha visionato e approvato i testi.
La storia personale e la storia collettiva sono state, fin dai romanzi della giovinezza, al
centro dell'attenzione della Djebar. Su queste due dimensioni vengono articolati i due
principali temi che sostanziano praticamente l'intera produzione letteraria della nostra
1 JEANNE MARIE CLERC, Assia Djebar: écrire, trangresser, resister, Paris, L'Harmattan, 1997.
2 MIREILLE CALLE-GRUBER, Assia Djebar ou la résistance de l'écriture, Paris, Maisonneuve et
Larose, 2001.
4
autrice:
1) la condizione femminile nella società islamica, in particolare in quella algerina;
2) la colonizzazione.
In questo lavoro mi sono concentrato su queste due componenti che caratterizzano la
scrittura della Djebar, dandone un'interpretazione che ne indichi la funzione nel testo
letterario. La tesi che ho cercato di dimostrare è che la scrittrice algerina impieghi la
Storia e l'autobiografia per la costruzione di una tradizione di resistenza femminile, alla
quale si assimila lei stessa, che orienti le donne oppresse del presente, che le spinga a
resistere. Inoltre, attraverso la prospettiva storica e autobiografica la Djebar intende
contrapporre un'immagine della donna più vicina alla realtà a quella artificiale costruita
dalla società patriarcale della tradizione islamica, di cui intende denunciare le omissioni
interessate.
Ho condotto la mia analisi esclusivamente su due romanzi della maturità facenti parte
di quello che la scrittrice definisce il “quatour algérien”: L’Amour, la fantasia3 e Vaste est
la prison4. (Completano la quadrilogia Ombre sultane e il recente Nulle part dans la
maison de mon pére, uscito nel 2007). La scelta è motivata dal fatto che solo a partire dal
1985 si ha un'organica commistione tra autobiografia e storia e solo in questi due testi.
L'ulteriore restrizione a due soli testi è motivata dal fatto che il secondo romanzo, Ombre
sultane, non è costruito con l'alternanza dinamica tra Storia e autobiografia che
costituisce l'oggetto specifico del mio studio. Il romanzo, come altre opere della Djebar,
sarà comunque un utile punto di riferimento per la comprensione di alcune tematiche
costanti nella produzione della scrittrice algerina e per l'individuazione di episodi
autobiografici da aggiungere a completamento di quella che è Mildred Mortimer ha
definito una sorta di autobiografia frammentata5. Inoltre è assente il ricorso alla Storia. Si
tratta insomma di un testo di cui si può riconoscere senza incertezze la natura di finzione,
cosa che non è così immediata nel caso degli altri due testi.
Quanto all'ultimo romanzo, si tratta di un racconto autobiografico in cui è assente il
3 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, Paris, Albin Michel, 1995.
4 ASSIA DJEBAR, Vaste est la prison, Paris, Albin Michel, 1995.
5 MILDRED MORTIMER, Assia Djebar's Algerian Quartet: A Study in Fragmented Autobiography, in
«Research in African Literatures», 28, 1997.
5
ricorso alla storia.
Ho suddiviso il mio lavoro in sei capitoli. Nel primo ho fatto una brevissima
introduzione alla vita e alle opere della Djebar e ai romanzi presi in esame nella mia
analisi. Il secondo è un resoconto delle principali problematiche teoriche
sull'autobiografia come genere letterario. Sulla base di queste considerazioni ho cercato
di stabilire, nel terzo capitolo, in quale misura si può parlare di autobiografia nei testi
presi in esame, per poi proseguire con l'analisi dettagliata del percorso autobiografico
dell'autrice, ricavato attraverso l'isolamento e il successivo accorpamento dei frammenti
autobiografici dei testi, con l'intento di mostrare su quali nuclei tematici l'autrice
costruisca la sua identità attraverso il racconto di esperienze personali e di altre donne.
Come per l'autobiografia, ho inserito nel quarto capitolo un quadro teorico
sull'epistemologia della storia per mostrare come la metodologia adottata dalla Djebar sia
quella degli storici. Attraverso essa la scrittrice rivisita la storia della colonizzazione
francese, denunciandone le omissioni e gli stereotipi. Mi sono concentrato nel quinto
capitolo sugli elementi letterari della narrazione storica che accostano la sottomissione
femminile a quella coloniale, fondendo in tal modo storia e autobiografia. Ho cercato di
mostrare, esaminando il ruolo che le donne giocano nella narrazione storica, come
l'operazione della Djebar sia uno scavo nel passato che dissotterra esperienze femminili
di lotta, di resistenza con il duplice intento, da una parte, di rivendicare il valore della
donna che la società islamica sembra non volerle riconoscere, dall'altra, di costruire una
tradizione di riferimento per le donne affinché contrastino assieme la loro oppressione.
L'ultimo capitolo è dedicato alla questione della lingua, cioè della scelta problematica
tra la lingua francese, lingua del nemico di ieri, o quella araba. Il tema è una costante
della produzione djebariana e percorre come un filo rosso entrambi i romanzi. Ho cercato
di mostrare l'ambivalenza del rapporto che la scrittrice intrattiene con la lingua francese, e
come proietti quest'ambiguità sulla storia della colonizzazione. E come, infine, riemerga
la questione sessuale attraverso il problema della lingua.
6
CAPITOLO I
L'AMOUR, LA FANTASIA E VASTE EST LA PRISON
Assia Djebar, romanziera, storica e cineasta algerina, è nata a Cherchell nel 1936, una
piccola città vicino ad Algeri. La famiglia vive in condizioni abbastanza agiate: il padre
fu un insegnante di francese alla scuola del villaggio; la madre era di origini borghesi e di
antenati illustri. Per volere del padre frequentò la scuola francese che le consentirà una
libertà impensabile per la maggior parte delle donne arabe. Si segnalò immediatamente
per la sua bravura che le consentirà di essere la prima donna algerina ad entrare all'École
Normale Supérieure a Sèvres, in Francia nel 1955. Partecipò attivamente ma
indirettamente alla guerra di liberazione algerina a fianco di Franz Fanon.
Cominciò la sua carriera di scrittrice a 20 anni con la pubblicazione del romanzo La
soif, nel 1957. Pubblicò altri 3 romanzi, Les impatiens (1958), Les enfants du nouveau
monde (1962), Les alouettes naïves (1967), ai quali segue un periodo di silenzio, che
durerà 10 anni, durante il quale si cimenta nell'esperienza cinematografica. Gira due film:
La Nouba des femmes du mont Chenua (1978) e La Zerda ou le Chants de l'oubli (1982),
il primo dei quali, poco apprezzato in patria, riceverà il premio internazionale delle arti
alla biennale del cinema di Venezia nel 1979. Il silenzio verrà interrotto solo nel 1980
con la pubblicazione di Femmes d'Alger dans leur appartement, una raccolta di racconti
con cui, assieme al quinto romanzo, L'Amour, la fantasia, pubblicato nel 1985, si apre il
periodo della maturità dell'autrice e del riconoscimento internazionale della sua scrittura.
I successivi romanzi, Ombre sultane (1987), Loin de Medine (1991), Vaste est la prison
(1995) e Le Blanc de l'Algérie (1996), le aggiudicheranno, nel 1996, il Neustad
International Prize for Literature, decretato dalla rivista «World Literature Today», che è
7
considerato il premio Nobel americano. Queste opere saranno tradotte in diverse lingue,
riscuotendo un certo successo in altri paesi e facendo di Assia Djebar una delle scrittrici
più note e importanti nel panorama della letteratura araba.
La sua attività di scrittrice prosegue con la pubblicazione di numerose opere di
narrativa, quali Les nuits de Strasbourg (1997), Oran, langue morte (1997) che ha
ricevuto il Marguerite Youcenar Prize of Literature nello stesso anno. Viene poi
pubblicata una raccolta di saggi, Ces voix qui m'assiègent: en marge de ma francophonie
(1999). Tra le sue opere anche un dramma musicale in italiano, Figlie di Ismaele nel
vento e nella tempesta, composto e rappresentato nel 2000 al teatro di Roma,
successivamente pubblicato nel 2001, che riprende l'argomento già trattato in Loin de
Medine. Ha ricevuto nel 2000 il premio della pace in Germania. Il suo ultimo romanzo,
Nulle part dans la maison de mon pére, uscito nel 2007 per Fayard, completa il “quatour
algérien”, di cui i precedenti componenti sono L'Amour, la fantasia, Ombre sultane e
Vaste est la prison.
Sostenitrice dell'emancipazione femminile nella società araba, attualmente vive in esilio
volontario tra Francia e Stati Uniti, dove ha diretto il Center for French and Francophone
Studies, in Luisiana, e dove ha insegnato alla New York University.
L'Amour, la fantasia
Pubblicato nel 1985 può essere considerato un’autobiografia su suggerimento
dell’autrice stessa, che, ricordando un momento del suo percorso artistico, dice: «il y a eu
pour moi une volonté de reprendre, comme matière d'écriture, l'Histoire. Et tout d'abord
“mon” histoire»6. In questa affermazione è già presente l’intreccio tra storia generale e
storia personale che caratterizza il romanzo. Per l’eterogeneità delle storie e per la
struttura apparentemente centrifuga la definizione del testo mette in difficoltà gli stessi
editori dell’autrice che ricorda come essi «trouvaient que L'Amour, la fantasia n'avait l'air
de rien: ce n'était pas une simple continuité autobiographique, et ce n'était pas un vrai
6 ASSIA DJEBAR, Ces voix qui m'assiègent, Paris, Albin Michel, 1999, p. 103.
8
roman»7. La letterarietà, l’artisticità del testo risiede proprio in questa eterogeneità che
intreccia tre filoni narrativi: resoconto autobiografico; la cronaca storica di alcuni
momenti significativi della guerra di liberazione (guerra d’Algeria per noi occidentali);
trascrizione di interviste fatte a donne superstiti di guerra.
La complessa struttura alterna sapientemente queste tre dimensioni fondendole in un
unico discorso. Analizziamola più da vicino. Essa si articola in tre parti, ciascuna avente
un titolo:
1) La prise de la ville ou L'amour s'écrit;
2) Les cris de la fantasia;
3) Les voix ensevelies;
Tutt’e tre si articolano in diverse sottosezioni. Evidenziamo subito che, in termini di
dimensione testuale, la struttura è sbilanciata in favore della terza parte. Per dare un’idea
sommaria del fenomeno, riportiamo il numero di pagine occupate da ciascuna parte:
1) 45 pagine;
2) 65 pagine;
3) 100 pagine.
Commenteremo più avanti questo nudo dato.
A differenziare e in qualche modo isolare la terza parte concorrono anche differenze
strutturali interne. Infatti le prime due parti alternano, nell’ordine, sezioni autobiografiche
con la cronaca storica. Con questa variante: nella prima parte sono intitolate le sezioni
autobiografiche mentre le sezioni di cronaca bellica sono contrassegnate numericamente;
nella seconda parte il fenomeno si inverte. Parlando a livello generale, i capitoli storici
hanno come tema centrale la colonizzazione francese del suolo nazionale e la guerra di
resistenza del popolo mentre quelli autobiografici tematizzano la condizione di
emarginazione e sottomissione femminile. Si nota immediatamente, tramite la
distribuzione alternata che ho rilevato, come i due temi siano significativamente
accostati, intrecciati e quasi posti sullo stesso piano. L’accorpamento viene poi rafforzato
nei capitoli conclusivi di ciascuna parte, rispettivamente Biffure e Sistre. Lo statuto
speciale di questi paragrafi ci viene indicato subito dal diverso corpo testuale, che è in
7 Ivi, p. 108.
9
corsivo. In essi l’autobiografia e la storia vengono fusi in un discorso dal carattere
decisamente poetico, conferitogli dalla densità di metafore, dal suo procedere onirico, che
alla consequenzialità logica sostituisce l’accostamento mentale libero. Potremo
considerare questi capitoli dei poemetti in prosa dal carattere metanarrativo, poiché sono
una sorta di evocazione (con qualche spunto di riflessione) dell’autrice su quanto scritto
precedentemente.
Diversamente, la terza parte alterna l’autobiografia con il resoconto di esperienze
belliche vissute da donne. Notiamo subito che il racconto è in prima persona; quindi,
viene data voce alle donne che prendono parola grazie all’autrice. Quest’ultima precisa in
altra sede come queste parti siano la trascrizione il più possibile fedele di interviste fatte
da lei stessa a delle superstiti di guerra. La parte in questione presenta anche una
maggiore articolazione interna. È suddivisa in cinque “movimenti” e un finale intitolato
Tzarl-rit, a loro volta articolati in diverse sottosezioni. Inoltre si può operare un’ulteriore
bipartizione interna che accorpa da una parte i primi quattro movimenti, dall’altra il
quinto e il finale. Infatti i primi presentano un’identica organizzazione: alle sezioni
autobiografiche vengono alternate le sezioni in cui si da la parola alle donne di guerra.
Queste sezioni hanno due titoli fissi, Voix e Voix de veuve, distribuite nel seguente modo:
esclusivamente il titolo Voix nei primi due movimenti; entrambi i titoli nel terzo
movimento (prima Voix poi Voix de veuve); esclusivamente Voix de veuve nel quarto.
Ogni movimento è concluso da una sezione con il titolo fisso Corps enlacés. Come già
indica lo stesso titolo, queste sezioni presentano in un unico paragrafo i due argomenti
precedentemente ripartiti in paragrafi distinti. Altri paragrafi presentano questa
caratteristica, quelli evidenziati dal titolo in corsivo: Clameur, Murmures, Chuchotement,
Conciliabules, distribuiti uno in ogni movimento. In questi paragrafi le esperienze delle
intervistate vengono, per così dire, incastonate nell’autobiografia.
Il finale Tzarl-rit, ripartito in tre sottosezioni dal titolo Paulaine, La fantasia, L’air de
Nay, riprende figure e avvenimenti del periodo della resistenza algerina seguita alla
conquista francese ma, come per i paragrafi Corps enlacés, sovrapponendo i piani
temporali del passato e del presente in una sorta di dialogo con le figure del passato.
10
Vaste est la prison
Pubblicato nel 1995 il libro è definito dall’autrice stessa il più autobiografico dei suoi
romanzi. Rispetto a L’Amour, la fantasia viene meglio percepito il carattere romanzesco
del testo. Infatti, si ha un personaggio che per quanto autobiografico rimane distinto
dall’autore, anche se si vedrà, nel corso dell’analisi, come le cose non siano così semplici.
Il testo è autobiografico nella forma, cioè è una confessione autobiografica del
personaggio.
Il libro è diviso in quattro parti:
1) L'effacement dans le cœur, un resoconto di una storia d’amore frenata ed
infine abortita dai vincoli matrimoniali del personaggio femminile, la
narratrice Isma.
2) L'effacement sur la pierre, un resoconto storico sulla scomparsa dell’alfabeto
berbero. Scomparsa che è solo parziale in quanto l’alfabeto berbero era
comune a quello parzialmente conservato dalla tribù nomade dei Tuareg.
Viene così rievocata la regina di questa tribù come custode suprema della
lingua, la regina Tin Hinan. Compare anche la figura di Giugurta, sovrano
berbero che resistette alla colonizzazione romana ma fu poi sconfitto e
trascinato a Roma come prigioniero.
3) Un silencieux désir, la parte più cospicua in termini di dimensione testuale e la
più complessa quanto ad articolazione interna. Infatti alterna racconti
autobiografici della narratrice con racconti aventi per protagoniste le familiari
della stessa, la madre e la nonna materna; e racconti che trattano della
realizzazione di un film di cui la narratrice è la regista.
4) Le sang de l'écriture, tratta dell’ondata di violenza che scoppiò in Algeria nel
1993, limitandosi a raccontare un caso esemplare di una studente, Yasmina,
uccisa dagli integralisti per salvare una polacca presa in ostaggio.
Queste parti sono a loro volta suddivise in paragrafi. Nella prima parte scandiscono,
secondo un ordine non cronologico, alcuni momenti dell'amore della protagonista per un
suo collega di lavoro, che chiama, elusivamente, «l'amato». Quest'amore ricopre un arco
11
temporale di un anno circa e viene raccontato tramite episodi significativi, dal primo
manifestarsi del sentimento alla sua cancellazione, ai problemi coniugali che la sua
confessione comporta.
Nella seconda parte i paragrafi si possono distribuire in due gruppi: il primo ordina le
tappe storiche che hanno portato alla scoperta e ai tentativi di decifrazione della stele di
Dougga, in cui erano custodite le tracce dell'alfabeto berbero; il secondo rievoca figure
storiche importanti per la storia del popolo berbero, come Giugurta e Tin Hinan. Tra i
paragrafi di questo gruppo spicca quello che ricostruisce il momento di inscrizione della
stele di Dougga.
La terza parte presenta un'articolazione più complessa, come già detto; dunque,
occorrerà soffermarsi più a lungo nel resoconto della suddivisione in paragrafi.
La parte si apre con il paragrafo Fugitive et ne le sachant pas, che costituisce una sorta
di preludio alla materia narrativa dell'intera parte. Il carattere particolare del paragrafo è
sottolineato dal corpo testuale in corsivo. Segue una strutturazione sinfonica articolata in
sette movimenti, ciascuno avente un titolo variabile, introdotti da sette paragrafi aventi un
titolo fisso, Femme arable. I movimenti raccontano vicende vissute dalla madre e dalla
nonna della narratrice e vicende autobiografiche della stessa, sempre secondo un ordine
non cronologico. I paragrafi dal titolo fisso sono dedicati alle fasi di realizzazione del
film, come anticipato sopra. Un'ulteriore suddivisione interna accorpa da una parte i
primi cinque movimenti e dall'altra il sesto e il settimo in virtù di una scansione interna di
questi ultimi. I paragrafi in questione sono, infatti, suddivisi in sotto-paragrafi. Il sesto
vengono ancora narrate vicende autobiografiche che si riallacciano alle figure familiari
della narratrice. Il settimo, accanto alle vicende autobiografiche, inserisce la rievocazione
di alcune figure significative per la vita della narratrice, tra le quali anche quella di
Giugurta.
La quarta parte è suddivisa in due soli paragrafi, Yasmina e Le sang de l'écriture. Il
tema (introdotto da alcuni sotto-paragrafi degli ultimi movimenti della precedente parte)
è, come già detto, la violenza in Algeria.
12
CAPITOLO II
L'AUTOBIOGRAFIA: QUADRO TEORICO
Definizione teorica del genere
Cosa è l’autobiografia? L’etimologia del termine ci aiuterà per un primo orientamento.
Auto- indica un’operazione di riflessività in cui il pensiero si concentra sul soggetto
pensante. Bio-, dal greco bios, significa la vita (quindi il vissuto, come si vedrà). Grafia,
anch’esso derivante dal greco, si riferisce all’operazione della scrittura. Dunque scrittura
della propria vita. In questa operazione entrano in gioco due dimensioni fondamentali e in
districabili: il vissuto; la riflessione su di sé. Il participio passato “vissuto” indica che la
riflessione si orienta sul passato, su ciò che è stato, rapportandosi in tal modo alla
memoria. Inoltre, in quanto riflessione sul proprio vissuto, l’autobiografia svolge la
funzione di ricostruzione del sé. Ciò implica la sua stretta connessione con la categoria
dell’identità. Rimandiamo ad un momento successivo la trattazione di questo argomento.
L'uso del termine “autobiografia”, indicante uno specifico genere letterario, è
relativamente recente. Comparve per la prima volta nel 1797 in Inghilterra, quando un
anonimo articolista del «Monthly Review», in una recensione di un libro di Isaac
Disraeli, rifletté sulla legittimità del termine selfbiography presente nel libro, incerto se
fosse opportuno sostituirlo con autobiography. Il termine viene impiegato
sistematicamente solo a partire dalla pubblicazione di una raccolta in 33 volumi,
avvenuta nel 1826, intitolata Autobiography, a collection of the most instructive and
amusing lives ever published, written by the parties themselves, per definire «una certa
13
modalità del discorso scritto inglese, insomma un genere»8. Dunque, solo tra Settecento e
Ottocento si sente l'esigenza di una terminologia adeguata che identifichi un nuovo
genere. «Non si può parlare di genere fin quando non si riesca a distinguere un gruppo di
scritti in base a certe caratteristiche stabilite convenzionalmente: ogni termine ha il suo
valore per l'opposizione con tutti gli altri termini»9.
Invero, il genere non era proprio nuovo. La novità consiste, piuttosto, in una
particolare «attenzione che si presta a un certo tipo di scritti, raggruppandoli in base a
determinate caratteristiche»10
. La scrittura della propria vita, o di parte del vissuto
personale, era stata da sempre praticata fin dall'antichità, come mostra la monumentale
opera di George Misch, Geschichte der Autobiographie11
, nella quale viene analizzata
ogni espressione autobiografica a partire da testi egiziani e assiro-babilonesi fino agli
scritti di Dante. L'opera rimane incompleta a causa della morte dell'autore.
I testi che noi oggi definiamo autobiografici, all'epoca in cui furono composti
appartenevano a generi letterari diversi – confessioni, consolazioni, apologie, ricordanze,
diari, res gestae, vite dei filosofi ecc... – inglobati successivamente da un unico grande
genere. Anche quando un'opera spiccava per un originale fusione di diverse tradizioni
distaccandosi dal panorama contemporaneo, non veniva percepito appieno lo scarto,
poiché doveva ancora formarsi la tradizione che avrebbe consentito ad un pubblico futuro
di comprenderne la natura e la funzione anticipatrice di modello. Le Confessiones di
Agostino sono, senza dubbio, il caso esemplare più importante, anche se altri se ne
potrebbero citare.
Sono possibili due approcci nello studio dell'autobiografia. Il primo punta a definire il
complesso formale e contenutistico che caratterizza il genere facendo riferimento alla
concezione moderna dello stesso e dunque trascurando la storia. Secondo questo
approccio, anche quando si fa riferimento a testi antecedenti il Settecento si intenderà
comunque l'autobiografia nella sua forma moderna. Il secondo è invece attento alla
8 FRANCO D'INTINO, L'autobiografia moderna: storia, forme, problemi, Roma, Bulzoni, 1998, p. 15.
9 Ivi, p. 16.
10 Ivi, p. 15.
11 GEORG MISCH, Geschichte der Autobiographie, Frankfurt am Main, Shulte und Bulmke, 1949-
1969, 8 voll.
14
dimensione storica dei testi e indaga il panorama delle convenzioni generiche di ogni
singolo periodo, gli influssi esercitati da un testo che funge da modello, le sue
trasformazioni ecc.
Il primo metodo è più consono per le finalità del presente lavoro. Dunque, si cercherà
di approfondire la definizione di autobiografia dal punto di vista formale, facendo
riferimento alla sua concezione moderna. Partiamo dalla definizione generica di Lejeune:
«Racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando
mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua
personalità»12
. La definizione, prosegue Lejeune, coinvolge diversi elementi appartenenti
a 4 categorie:
1) Forma del linguaggio
a) racconto
b) prosa
2) Soggetto trattato: vita individuale, storia di una personalità
3) Situazione dell’autore: identità dell’autore (il cui nome si riferisce ad una persona
reale) e del narratore
4) Posizione del narratore
a) identità tra il narratore e il personaggio principale
b) visione retrospettiva del racconto.
L’autobiografia deve soddisfare contemporaneamente queste condizioni, altrimenti si
parlerà di generi affini come biografia, memorie, diario intimo, romanzo autobiografico,
poema autobiografico ecc... Tuttavia lo schema non va applicato integralmente: certe
condizioni possono essere soddisfatte anche solo in parte e non totalmente. La corretta
applicazione di questo schema si baserà sulle proporzioni tra i vari elementi delle
categorie. Ne consegue la naturale commistione con gli altri generi quella che D'Intino
chiama “letteratura intima”, intendendo con questa dicitura tutti gli scritti che si
concentrano sulla vita di una persona, cercando di ricostruirne anche la dimensione
privata, intima appunto. Perciò il testo deve essere principalmente un racconto in prosa
12 PHILIPPE LEJEUNE, Le pacte autobiographique (1975), trad. it. Il patto autobiografico, Bologna, Il
Mulino, 1986, p. 14.
15
senza che ciò escluda la presenza della poesia, per esempio sotto forma lirica; la visione
deve essere principalmente retrospettiva senza precludere la presenza di sezioni di diario
intimo o riferimenti a situazioni o avvenimenti presenti; il soggetto deve essere
principalmente la vita individuale, la propria personalità ma possono essere trattate anche
la storia sociale e politica o la cronaca.
Secondo Lejeune, due sono le condizioni imprescindibili perché un testo si possa
definire un’autobiografia: l’identità tra l’autore e il narratore; l’identità tra il narratore e il
personaggio principale. Stabilire questa identità comporta dei problemi che Lejeune tenta
di formulare chiaramente per prospettare possibili soluzioni. Le problematiche principali
sono le seguenti:
1) Come può esprimersi l’identità del narratore e del personaggio nel testo?
2) Nel caso della narrazione in prima persona, come si esprime l’identità del
personaggio-narratore e dell’autore?
3) Come comportarsi nel caso di una somiglianza, piuttosto che identità, tra vita
dell’autore e vita raccontata nel testo?
Seguiremo Lejeune nell’analisi di queste problematiche riferendoci ai testi della
Djebar. Questa operazione consentirà di comprendere meglio quali frammenti si possono
attribuire propriamente all’autobiografia e quali rendono questa attribuzione problematica
per la presenza di alcuni fattori che li accostano ad altri generi affini della letteratura
intima.
Identità narratore-personaggio principale
La narrazione in prima persona è la strategia più comune e diretta per esprimere
l’identità tra il narratore e il personaggio principale. Più precisamente, ricorrendo alle
categorie della narratologia, l’identità si realizza in presenza di un narratore
intradiegetico e omodiegetico. Ma, nota Genette in Figures I, questo tipo di narrazione
non implica necessariamente che il narratore sia il personaggio principale. Per
rappresentare questa situazione il critico francese conia un nuovo termine: «narrazione
16
autodiegetica»13
. Invertendo il ragionamento si scopre come sia possibile una perfetta
identità tra narratore e personaggio senza che venga impiegata la prima persona.
Lejeune distingue, allora, il criterio della persona grammaticale e quello dell’identità
degli individui ai quali gli aspetti della persona grammaticale rimandano. Una distinzione
elementare, fatta riemergere come determinante dalle riflessioni sul problema dell’autore
relative all’autobiografia. Se, infatti, nella finzione l’identità tra narratore e personaggio
principale, non essendo più stabilita dall’uso dell'“io”, con l’impiego della terza persona
viene lasciata nell’indecisione, quest’identità è stabilita indirettamente, ma senza
ambiguità, dalla doppia equazione: autore = narratore; autore = personaggio, da cui
consegue: autore = narratore. Questa riflessione conferma la possibilità del racconto
autobiografico in terza persona. Così come nulla impedirebbe all’autore di rivolgersi a se
stesso chiamandosi “tu”. Le forme in terza e seconda persona sono, comunque, delle
eccezioni, ancora più rare se ricercate in forma integrale, ossia interamente in terza o
seconda persona. Non è raro trovare forme miste, in cui, in una narrazione
prevalentemente in prima persona, sono presenti parti in cui il narratore impiega la terza
persona. Questo espediente viene generalmente impiegato per creare una certa distanza
tra narratore e personaggio.
Nei testi della Djebar l’identità tra personaggio principale e narratore è palese grazie
all’uso della prima persona. Sono presenti ricorsi alla terza persona che, comunque, non
mettono in dubbio quell’identità. In L’Amour, la fantasia i problemi sorgono nello
stabilire l’identità tra autore e narratore dato che il narratore in questo testo è anonimo.
Identità autore-narratore
Come si stabilisce l’identità tra autore e narratore? Chi è “io”? Chi dice “io”?
Ricorrendo alla linguistica, Lejeune definisce la prima persona grammaticale con
l’articolazione di due livelli:
1) Referenza: i pronomi personali non hanno referenza attuale che all’interno del
discorso. L’“io” rimanda ogni volta a colui che parla, da noi identificato per il
13 Ivi, p. 15.
17
fatto stesso che parla, non potendo non constatare che qualcuno parla.
2) Enunciato: i pronomi personali di prima persona segnano l’identità tra il soggetto
dell’enunciazione (chi parla) e il soggetto dell’enunciato.
Più che essere un concetto, la persona è un ruolo, cioè semplicemente svolge una
funzione. Ma il problema dell’identità riguarda un allargamento del livello della referenza
che comprenda anche il contesto della produzione del messaggio; che rimandi, cioè, ad
una referenza concreta, reale.
Nel caso del pronome personale l’identità è la referenza ad una persona, ad un
individuo reale. Mantenendosi esclusivamente al livello del discorso non è possibile
risolvere senza ambiguità e incertezze il problema dell’identità tra autore e narratore. Ad
esempio, nel caso di una narrazione in prima persona anonima, su quali basi tentare di
stabilire una referenza con una persona reale? D’altra parte, anche nel caso in cui il
narratore si nomini o sia nominato tramite un nome proprio, come essere certi che si tratta
dell’autore? È necessario un allargamento di campo che comprenda anche fattori extra
testuali.
L’introduzione della categoria del nome proprio è la via per questo ampliamento in
quanto esso possiede una referenza reale nella persona portatrice di questo nome.
Dunque, i problemi dell’autobiografia vanno messi in rapporto con il nome proprio. Tutta
l’esistenza di ciò che si chiama autore è incarnata in questo nome: un segno nel testo di
un indubbio fuori testo ossia la persona reale alla quale si attribuisce la responsabilità
della produzione dell’intero testo.
Ora, generalmente il nome dell’autore, di colui che rivendica la paternità del testo, si
trova sulla copertina dei libri. Ecco l’allargamento di cui si parlava prima: infatti la
copertina del libro è una componente di quello che Genette ha denominato palinsesto,
intendendo con questo termine tutto ciò che ruota attorno al testo in sé e per sé. In questa
sede si scrive il nome dell’autore; è qui che un nome viene riconosciuto come
appartenente all’autore. La risposta al nostro precedente quesito è allora la seguente: c’è
identità tra autore e narratore quando il nome riportato in copertina coincide con
l’eventuale nome riferito al narratore. L'identità di nome si realizza in diversi modi: in
modo diretto, cioè quando è il narratore stesso a dirci il suo nome, quando questo nome
18
emerge per vie traverse, tramite espedienti vari, ad esempio quando il narratore viene
chiamato per nome da altri personaggi; in modo indiretto, con la scelta di un titolo (Storia
della mia vita, Autobiografia ecc.) che instaura un rapporto tra l'autore e il narratore. Il
caso dello pseudonimo è, in verità, un'eccezione apparente, poiché lo pseudonimo
letterario è un nome altrettanto autentico dell'autore, e non una mistificazione. Si prenda
il nostro caso come esempio: Assia Djebar è lo pseudonimo di Fatima Zohra Imalayen e
fa riferimento sempre alla stessa persona.
A questo punto si pongono problemi ulteriori. Lejeune propone uno schema
classificatorio delle diverse possibilità che si possono avere nel rapporto tra il nome
dell’autore, del narratore e del personaggio e nella natura del patto stipulato dall’autore.
Lo schema, riguardante esclusivamente la narrazione autodiegetica, elenca 3 situazioni
per ciascun criterio. Il personaggio:
1) ha un nome diverso da quello dell’autore;
2) è anonimo;
3) ha lo stesso nome dell’autore.
Il patto sarà:
1) romanzesco;
2) assente;
3) autobiografico.
L’attenzione di Lejeune si concentra sul secondo caso, il più complesso perché
indeterminato. Sono ammesse 3 possibilità:
1) patto romanzesco, quando la natura fittizia del libro è indicata dalla copertina.
Ma è raro che un testo denunci apertamente la sua natura finzionale. Nel nostro
caso in copertina è presente il nome dell’autrice ma il titolo L’amour, la fantasia
non esplicita il carattere del testo che così può essere finzionale o meno. Viene
conservata una certa ambiguità, un’indeterminatezza che ammette entrambe le
possibilità;
2) patto assente, quando (ed è il caso di L’Amour, la fantasia) l’autore non conclude
patti, né autobiografico né romanzesco;
3) patto autobiografico, quando l’autore si è dichiarato precedentemente (ad
19
esempio nel titolo o nella prefazione) identico al narratore.
Somiglianza tra autore e narratore
Secondo questo razionalistico schema, quando il nome del narratore non coincide con
quello dell'autore si realizza automaticamente il patto romanzesco. Ma come comportarsi
nel caso di una notevole somiglianza tra le esperienze che il narratore personaggio
racconta e vissuto dell'autore? Nel suo studio Lejeune è categorico: «Identità non è
somiglianza. L’identità è un fatto immediatamente assunto-accettato o rifiutato a livello
di enunciazione; la somiglianza è un rapporto soggetto a discussioni e ad infinite
sfumature, stabilito partendo dall’enunciato»14
. Prosegue ricordando ancora che narratore
e personaggio sono le figure che rimandano, all’interno del testo, al soggetto
dell’enunciazione e al soggetto dell’enunciato. L’autore, rappresentato dal suo nome in
copertina, è il referente al quale rimanda il soggetto dell’enunciazione tramite il patto
autobiografico. In rapporto alla somiglianza si è obbligati ad introdurre un quarto termine
simmetrico accanto all’enunciato, ovvero un referente extra testuale che Lejeune chiama
modello. Ho già introdotto questa dimensione nelle righe precedenti facendo coincidere
questo modello con la biografia dell’autore. Lejeune sembra invalidare questa mia
operazione introducendo una sottile distinzione che concepisce questo modello come il
reale al quale l’enunciato pretende di somigliare. Viene poi articolata una minuziosa
riflessione che separa biografia e autobiografia sulla base della differente gerarchia di
rapporti tra identità e somiglianza all’interno dei due generi concludendo che «nella
biografia, è la somiglianza che deve costruire l’identità, nell’autobiografia è l’identità che
costruisce la somiglianza»15
. Dunque, nel caso di semplice somiglianza tra autore e
narratore non si può parlare di autobiografia ma piuttosto di romanzo autobiografico.
Lejeune prosegue la sua argomentazione dicendo che, in opposizione a tutte le forme
di finzione, la biografia e l’autobiografia sono testi referenziali; come il discorso
14 Ivi, p. 35.
15 Ivi, p. 38.
20
scientifico e il discorso storico, esse pretendono di aggiungere un’informazione ad una
“realtà” esterna al testo, sottomettendosi in tal modo ad una prova di verifica. Il loro fine
non è semplicemente la verosimiglianza ma la somiglianza al vero. Questi testi
comportano quello che Lejeune chiama patto referenziale. Nel caso dell’autobiografia,
esso coincide con il patto autobiografico. Quindi quest’ultimo è di natura simile al patto
che uno storico, un giornalista o un geografo stipula con il suo lettore. Le differenze
risiedono soprattutto nelle difficoltà della prova di verifica nel caso dell’autobiografia in
quanto l’autobiografo racconta ciò che lui solo ci può dire. Infatti, consulta un fonte che
né lo storico, né nessun altro, può consultare: la propria memoria. Lo studio biografico
consente di raccogliere altre informazioni e determinare il grado di esattezza del
racconto. Nell’autobiografia quest’esattezza non ha un’importanza capitale poiché ciò
che è indispensabile è che il patto referenziale sia concluso e poi rispettato senza che sia
necessario che il risultato sia nell’ordine dell’esatta somiglianza. Anche perché è pur
sempre da una certa prospettiva, che non può essere totalmente obbiettiva, che si racconta
la propria vita.
La definizione di autobiografia è di natura contrattuale: «L'autobiografia è definita, per
chi legge, innanzitutto da un contratto di identità sigillato da nome proprio»16
. Quello che
a Lejeune preme sottolineare sono le conseguenze che la formulazione del patto ha
nell'orientare l'atteggiamento dei lettori. Nel caso del patto referenziale il lettore
pretenderà l'esatta somiglianza al vero, denunciando e deplorando eventuali falsità; che
invece, verrebbero ammesse nel caso del patto romanzesco, nel quale a stupire sarebbe
più la somiglianza che la differenza. Anche se, come si è detto poco sopra,
nell'autobiografia l'esatta somiglianza non è fondamentale, in mancanza di elementi che
stipulino il patto referenziale (che implica un determinato atteggiamento del lettore nei
confronti del testo) non si può parlare propriamente di autobiografia.
Attenendosi a questo rigoroso schematismo verrebbero, però, esclusi testi importanti
per la storia del genere, come La vie d'Henry Brulard di Stendhal o Anton Reiser: Ein
psychologisher Roman di Moritz. Si tenga presente che il modello, il reale al quale
l’enunciato pretende di assomigliare, diviene noto tramite una biografia dell’autore o
16 Ivi, p. 35.
21
informazioni riguardanti la sua vita. Quindi è verificabile, in una certa misura. Cioè è
possibile stabilire quali esperienze appartengano realmente al vissuto dell'autore e
ricostruire, in tal modo, un percorso autobiografico. Nel caso in cui la vita dell'autore
coincida in tutto e per tutto con la narrazione del personaggio mi sembra superflua una
rigorosa distinzione terminologica. Anche perché la definizione di "romanzo
autobiografico" non sarebbe più sufficiente in quanto nulla ci dice sul grado di
coincidenza tra vita reale e vita narrata nel testo. Sarebbe più opportuno parlare di
autobiografia mascherata da romanzo.
L'"Autofiction": l'autobiografia come finzione e la finzione come autobiografia
Questo tipo di problematiche sono state messe in questione dalla sperimentazione di
uno scrittore francese, Doubrovsky, che parte proprio dallo studio di Lejeune. Per
comprendere il significato di questa operazione si deve fare qualche cenno sommario alla
teoria (fatta propria da diversi autori fra i quali Gide e Leiris), che ha riscosso largo
consenso, secondo cui il romanzo sarebbe più vero, più profondo e autentico
dell’autobiografia.
La teoria è la seguente: in quanto il romanzo (ma si potrebbe dire l’arte in genere)
esprime l’essenziale dell’individualità dell’autore, il suo nucleo più autentico, esso
sarebbe più vero dell’autobiografia, troppo ancorata ai fatti, alla realtà in cui il mondo
interiore dell’individuo non può trovare piena espressione. Lungi dal voler smontare
questa teoria in difesa dell’autobiografia, Lejeune mostra intelligentemente come
l’obbiettivo in questione sia, in fondo, il medesimo e quindi che da una parte e dall’altra
la proposta sia sempre la stessa. Infatti, quale sarebbe l’intento primario, direi
costituzionale, dell’autobiografia se non quello di esprimere la personalità dell’autore, la
sua intimità, in modo autentico, trasparente e in tutta la sua profondità e complessità?
Lejeune introduce a questo punto il concetto di spazio autobiografico tramite il quale gli
autori stabilirebbero delle coordinate che orientano la lettura delle loro opere. In
conclusione, questa teoria non è in realtà una condanna dell’autobiografia ma una forma
indiretta del patto autobiografico; si stabilisce di quale natura sia la verità a cui i testi
22
mirano. Si è già detto che il raggiungimento di questa verità è il fine comune al romanzo
e all’autobiografia. Lejeune chiama patto fantasmatico questa forma indiretta del patto
autobiografico in cui «il lettore è invitato a leggere i romanzi non soltanto come finzione
che si riferisce ad una verità della natura umana, ma anche come fantasticheria rivelatrice
di un individuo»17
. Lejeune incalza poi i sostenitori di questa tesi chiedendosi perché, se
il romanzo è più vero dell’autobiografia, gli autori non si sono limitati alla composizione
di soli romanzi. Se non avessero scritto e pubblicato anche testi autobiografici seppur
incompleti, non ci si sarebbe potuti render conto del tipo di verità espressa nei loro
romanzi. Tutti i loro scritti vengono così inseriti nello spazio autobiografico. Allora non
si tratta più di sapere se sia più vera l’autobiografia o il romanzo ma di considerarli
insieme, o meglio, l’una in rapporto all’altro.
Torniamo ora a Doubrovsky: la sua sperimentazione, con i suoi giochi d’ambiguità,
mette in stretto rapporto finzione e autobiografia fino a farli sconfinare l’una nell’altra.
Diamo un breve resoconto dei fatti. Nel 1977 lo scrittore pubblica un romanzo, Fils,
dichiarato esplicitamente in copertina come romanzo, ma in cui il narratore ha lo stesso
nome dell’autore. La scelta di definire il libro “romanzo” e non “autobiografia” è parte
integrante del progetto estetico dell’autore ed è maturata come riempimento delle caselle
lasciate vuote da Lejeune nel suo razionalistico e formalistico schema sulle possibilità del
patto autobiografico. Questo romanzo vuole presentarsi come un vero romanzo essendo
allo stesso tempo una vera autobiografia. Si potrebbe applicare questa considerazione
anche a Vaste est la prison della Djebar. Doubrovsky conia un nuovo termine per definire
questa ulteriore possibilità: "autofiction". D’Intino, in L'autobiografia moderna: storia,
forme, problemi, sottolinea l’importanza di 3 elementi emergenti dalla vicenda:
1) La collaborazione e la sovrapposizione tra scrittura e critica; fenomeno
riscontrabile in vari settori della letteratura contemporanea e a cui l’autobiografia
si presta agevolmente in quanto «permette di includere a pieno diritto il discorso
teorico nella materia narrativa quale elemento oggettivato del processo di
formazione del soggetto scrivente (ammesso, beninteso, che la sua vita consista
17 Ivi, p. 42.
23
soprattutto in pensiero e ricerca intellettuale)»18
. L’elemento rilevante è che non si
scrive più un’autobiografia in forma canonica ma si considera la propria opera
critica e teorica come “autobiografica” (procedimento che sembra richiamare il
concetto lejeuniano di spazio autobiografico). In altri termini, si passa dal
concetto di autobiografia come prodotto al gesto autobiografico, ovvero, secondo
la terminologia adottata da Doubrovsky, dal sostantivo all’aggettivo.
2) La convergenza tra realtà e finzione, o meglio, lo «svelamento della verità come
finzione»19
.
3) Per chiarire questo punto occorre subito introdurre il successivo che funge da
presupposto per gli altri due: la separazione radicale dell’autobiografia come
letteratura e autobiografia come documento. Il rifiuto di Doubrovsky dell’etichetta
“autobiografia” relega quest’ultima nel settore delle scritture storiche. Nel far ciò
lo scrittore francese riprende la tradizionale concezione dell’autobiografia come
genere tipico degli eroi, delle persone di un certo rilievo e una certa importanza
sociale. Dunque, il soggetto comune , per rendersi degno dell’autobiografia, deve
concentrarsi sul linguaggio. Sarà l’elaborazione linguistica, non il ruolo svolto nel
mondo, cioè le res gestae, a creare interesse nel lettore per la materia narrata e
dunque a legittimare lo scrivente in quanto scrittore. Si capisce in questa
prospettiva il senso del secondo punto che definisce il tipo di verità perseguito
dall’autobiografia e dalla finzione nel caso di uno scrittore/critico professionista.
La scrittura della Djebar conserva entrambe queste dimensioni dell’autobiografia. La
sua autobiografia è sia letteratura sia documento. E, nei testi da noi presi in esame,
documento fra documenti.
Dopo questa definizione formale mostrerò quali possono essere le motivazioni che
alimentano la scrittura autobiografica e quali le sue funzioni. Si tenga presente che il
contesto d'analisi resta la modernità. Il discorso sulle motivazioni non può essere
disgiunto da quello che riguarda il pubblico in quanto si scrive per uno scopo
rivolgendosi a qualcuno, e talvolta gli scopi sono diversi a seconda del pubblico cui ci si
18 FRANCO D'INTINO, op. cit., p. 149.
19 Ivi, p. 149.
24
rivolge. Il discorso è legittimato dal fatto che l'autobiografia non nasce come genere
letterario ma diviene tale solo a partire dalla fine del '700. Come dice D'Intino,
«l'autobiografia moderna è il prodotto di una stabilizzazione formale che si esercita su un
materiale originariamente finalizzato ad instaurare un rapporto di comunicazione
(pratica) con un pubblico ristretto e determinato»20
. Questo carattere originario permane
anche nell'autobiografia letteraria. Nonostante la legittimazione sociale e letteraria
dell'autobiografia verificatasi dal '700-'800 abbia fatto venir meno la necessità di esporre
le proprie ragioni e di rivolgersi ad un pubblico determinato, l'influsso della funzione
primaria del genere si esercita anche sui letterati, che si premurano di fornire tutta una
serie di motivazioni, in prefazioni e postille, che giustificano la composizione
dell'autobiografia.
Nell'esposizione di alcune categorie di motivazioni seguirò l'esauriente studio di
D'Intino. Egli elenca ed analizza 5 grandi categorie di motivazioni: lo stimolo esterno;
l'apologia; l'identità; conoscenza/testimonianza/insegnamento; il tempo perduto e
ritrovato.
Per le finalità del mio lavoro e per la pertinenza con il caso della Djebar dedicherò un
maggiore spazio e approfondimento alla categoria dell'identità.
L'identità
All’inizio del capitolo ho connesso l’autobiografia con il problema della ricostruzione
del sé, quindi dell’identità personale. Essa assume, nella mia riflessione, una posizione
centrale, perciò sarà necessario chiarire la natura del concetto e alcune problematiche
riguardanti la sua dimensione narrativa, che per questo si connette direttamente alla
scrittura del sé. Prima di richiamare questa dimensione in seno al tema dell’identità,
introdurrò qualche considerazione generale sul concetto, guidato da Locke (riportato da
Ricoeur) per la pertinenza delle sue riflessioni in relazione alle finalità del mio lavoro.
Egli, infatti, nel Saggio sull'intelletto umano (1690), istituisce un rapporto diretto tra
identità, sé e la memoria. Locke ci da una definizione puramente riflessiva dell’identità
20 Ivi, p. 69.
25
personale: essa viene identificata con la coscienza o la riflessione su di sé, cioè il sapere
di questa identità a sé. La coscienza si estende nel passato quanto si estende la memoria.
L’identità personale è una identità temporale. Quindi coscienza e memoria vengono a
coincidere. Locke colloca la nozione di persona o io tra le idee di relazione in quanto si
fonda su una relazione tra l’io presente e l’io passato.
Completano il pensiero di Locke le annotazioni di Ricoeur che mette in evidenza
come, nella costruzione dell’identità personale, le relazioni fondanti non si mantengono a
livello puramente interiore ma coinvolgono necessariamente l’ambiente esterno e le altre
persone. In breve, l’identità ha bisogno, per definirsi, dell’alterità. È una concezione
attestata anche dalla psicologia. Riformulando il concetto a livello formale si può
affermare che l’identità è una relazione di raffronto che ha come corrispettivo la diversità.
Attraverso il principio di individuazione gli altri vengono esclusi nel momento stesso in
cui vengono designati. La dimensione dell’alterità, nella sua doppia articolazione di "altre
persone" e "mondo esterno", risulta fondamentale.
Ora si pongono dei problemi relativi al mantenimento della propria identità attraverso
il tempo. Come è possibile mantenere se stessi nel mutamento temporale della nostra
esperienza del mondo? Questa questione rimanda immediatamente ad un’altra di natura
ontologica: l’identità è da intendere come un’unità immutabile e che tale si mantiene o
piuttosto come entità in continuo divenire, che si definisce nel suo svolgersi ed evolversi?
Esporrò brevemente la soluzione prospettata da Ricoeur in un'intervista riportata nel sito
dell'enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche in cui espone le riflessioni
contenute in Soi-même comme un autre (1990). Egli sostiene che la questione
dell’identità assume una forma problematica perché noi disponiamo di due modelli di
identità. Ha poi tentato di fissare due sensi di identità parlando da una parte di
identità/idem (medesimezza), per usare una terminologia latina, e l’altra di identità/ipse
(ipseità). Ciò che maggiormente interessa a Ricoeur è l’identità/ipse.
Con identità/idem si intende l’identità di qualcosa che resta, mentre le apparenze o,
come si suol dire, gli accidenti cambiano, ed è il modello filosofico che fin dall’antichità
è stato chiamato dell'identità sostanziale. L’identità/ipse della quale, invece, ora parla
Ricoeur, non implica immutabilità, staticità, ma al contrario, si può arrivare all’esempio
26
estremo in cui questo tipo d’identità si viene a porsi nonostante il cambiamento,
nonostante la variabilità dei sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri del soggetto.
L’esempio più notevole di questa identità/ipse (l’identità di me stesso, in quanto unico) è
quello del mantenimento di una promessa.
La promessa è un esempio notevole perché non si ha a che fare solo con un soggetto
che promette come se fosse una identità sostanziale. Al contrario: io mantengo la mia
promessa nonostante tutto quello che mi succede, e che succede nel mondo circostante, a
partire dal momento in cui la pronuncio, e nonostante tutti i miei cambiamenti d’umore. E
questa è un’identità che, secondo Ricoeur, si può chiamare di mantenimento più che di
sussistenza: Io sono e mi conservo come lo stesso Io, nonostante non sia più identico,
nonostante io sia cambiato nel tempo. Dunque, esistono due rapporti di continuità del
soggetto con il tempo. Uno è un rapporto in qualche modo di immutabilità, all'interno
della sostanza. L’altro è invece quello che Ricoeur definisce di identità narrativa, volendo
dire con ciò che l’identità di un soggetto capace di mantenere una promessa è strutturata
come l’identità del personaggio di una storia, di una narrazione. Qui entra in gioco la
dimensione narrativa connessa all’identità cui facevamo cenno sopra.
Per questa fase del discorso un punto di riferimento saranno le riflessioni di Adriana
Cavarero, tratte da un'intervista contenuta nel sito dell'enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche. La questione dell’identità è immediatamente connessa con la
dimensione narrativa da Cavarero che, per introdurre il tema, cita il racconto Il secondo
racconto del cardinale di Karen Blixen, scrittrice danese, in cui alla domanda “Chi sei” il
personaggio risponde: "Risponderò con una regola classica: racconterò una storia". La
domanda richiede l’identificazione di una persona, l’individuazione di essa
nell’irripetibilità della sua esistenza. Per fare ciò non si possono elencare le qualifiche e
le qualità della persona, perché non sarebbe esauriente come risposta. L’unica modalità
adeguata è, appunto, la narrazione di una storia che, nel caso specifico, è storia di una
vita. Il problema dell'identità è reimpostato a partire dal fatto che, come suggerisce Anna
Arendt, ognuno di noi, vivendo e agendo, «mostri concretamente chi è, lasciandosi dietro
27
una storia di vita»21
. Quindi l'identità, come già detto, non è concepita come un "a priori"
trascendentale ma come un qualcosa che ci si lascia dietro, che non si controlla
interamente e che, dunque, in qualche modo risulta.
Da qui il bisogno di fare un bilancio della propria vita per comprendere se stessi
espresso anche dalla Djebar. Nell'intervista di Renate Siebert dice, infatti: «La scrittura
autobiografica è dunque, inevitabilmente, attingere a sé per cercare di chiarirsi a se stessi,
dimenticando che si sta parlando di sé. Non si tratta di narcisismo, bensì di analizzare che
ne è stato di sé»22
. Questo intento risponde ad un'aspirazione profonda dell'animo umano:
ossia il desiderio che la vita non sia costituita da un susseguirsi casuale di avvenimenti
ma che abbia un significato, una sorta di unità, una trama comprensibile e narrabile.
Precisiamo che non è detto che questo senso unitario, questa figura, esista di per sé. Si
tratta piuttosto di una ri-costruzione ad opera del soggetto. La nostra vita non viene
progettata in modo che ogni nostra azione componga un disegno unitario. Questo disegno
è un qualcosa che risulta dal nostro vivere. È dunque il risultato di un'interpretazione.
Di qui il ruolo fondamentale che l'altro assume nelle riflessioni della Cavarero. Per la
Cavarero l'identità come storia di vita non si da mai nella forma dell'autobiografia,
considerata narcisistica, ma si da nella forma della biografia cioè quando qualcun altro
racconta la mia storia. Ma anche un punto di vista personale su se stessi è fondamentale
per la costruzione dell'identità, perché la dimensione interiore di un individuo è in alcune
sue parti inaccessibile all'altro. Così, per renderne conto è necessario che il soggetto
prenda la parola su se stesso, che si esponga attraverso l'autoanalisi. É proprio ciò che fa
la Djebar (e l'autobiografo in generale) nelle due opere in esame. Senza che questo voglia
dire misconoscere l'importanza dell'altro nella costruzione della propria identità. Essa
viene costruita proprio nella relazione con l'altro. Nel caso della Djebar, nella relazione
con le altre donne algerine, con il colonizzatore francese e con l'uomo in generale nella
cultura musulmana. Si vedrà successivamente come vengono articolate queste relazioni
nei testi.
21 ADRIANA CAVARERO, L'identità, http://www.emsf.rai.it/radio/trasmissioni.asp?d=87.
22 RENATE SIEBERT, Andare ancora al cuore delle ferite: Renate Siebert intervista Assia Djebar,
Milano, La Tartaruga, 1997, p. 35.
28
A conclusione di queste considerazioni si può affermare che l'intento primario che
guida la scrittura della propria vita è la ricerca della propria identità, o meglio la scoperta,
attraverso l'analisi e il racconto del proprio vissuto, di che cosa si è stati fino al momento
presente.
Da quanto detto sopra è emerso implicitamente il rapporto che lega l'identità con
l'intento apologetico. La polemica apologetica, infatti, costituisce la prima forma, in un
certo senso negativa, di ricerca identitaria in quanto mira alla conquista di uno spazio
soggettivo in contrapposizione agli altri. L'intento apologetico nasce da una provocazione
che tende a minare l'integrità morale dell'individuo fornendo una versione polemicamente
orientata della sua storia. La difesa della propria personalità procede, allora, tramite il
racconto personale della propria storia, rivendicato come vero e autentico in
contrapposizione con quello degli accusatori. L'impulso autobiografico più autentico è
indissolubilmente connesso alla difesa del proprio punto di vista sulle proprie azioni e
idee, secondo il modello platonico dell'Apologia di Socrate. Il presupposto fondamentale
dell'apologia è che nessuno meglio di se stesso può conoscere le autentiche motivazioni
del proprio comportamento poiché conosce l'intera storia della sua vita. Ne consegue la
necessità di ricostruire per intero quella storia per ridurre a unità l'insieme delle proprie
azioni e idee, insomma per render conto della propria identità. Per queste ragioni un posto
di rilievo spetta all'apologia "preventiva" contro un eventuale biografo assassino per il
timore che venga fraintesa la personalità del soggetto di cui scrive.
L'apologia chiarisce ed approfondisce l'importanza del proprio punto di vista su se
stessi di cui ho parlato sopra riportando le riflessioni della Cavarero.
L'autobiografia è concepita talvolta come documento, testimonianza a cui è affidata la
trasmissione di valori generali ritenendo le vicende vissute e narrate dall'autore come
particolarmente significative o universalmente degne di interesse. «L'autore si considera
un mero oggetto di indagine»23
, un oggetto sociologico. La sua vita è da lui ritenuta
esemplare per la conoscenza di un dato fenomeno umano, di una data società in una data
epoca o dell'uomo in generale. Se si parla di se stessi è solo perché su di sé si può
23 FRANCO D'INTINO, op. cit., p. 80.
29
«meglio e più dottamente parlare»24
, come dice Alfieri nella sua Vita scritta da esso.
L'autobiografia diventa uno strumento conoscitivo di utilità generale, accostandosi al
saggio. Che si tratti del proprio sviluppo psicologico, della propria interiorità o della
partecipazione attiva ai destini del mondo, ai grandi eventi della Storia, l'intenzione è
quella di studiare, analizzare la propria personalità e il proprio ruolo in un contesto
storico o intellettuale, per rispondere a un bisogno interiore di capire, ma anche di
comunicare e tramandare qualcosa che altrimenti andrebbe perduto.
Anche se inespresso, emerge il sentimento di unicità delle proprie esperienze. Questo
sentimento era, in qualche modo, già comparso in relazione alla ricerca identitaria. Ma
qui, possiede un altro senso: le proprie esperienze sono uniche in quanto esemplari in
rapporto ad un determinato argomento. Si noti che le tradizioni autobiografiche
premoderne svolgono spesso la funzione di trasmettere una determinata memoria storica.
All'autoespressione viene così conferito il carattere di utilità generale in quanto si
narrano esperienze uniche e per ciò stesso degne di essere trasmesse. Ne consegue una
certa coloritura didattica del racconto, che mira, attraverso le vicende narrate, ad
insegnare qualcosa, a farsi exemplum.
L'altra grande categoria di motivazione che sostanzia l'intento autobiografico è la lotta
contro l'oblio. Il nesso tra volontà di conservazione e autobiografia è antichissimo e risale
almeno agli egizi. Questa motivazione, questa ripugnanza verso la morte si riferisce ad
uno degli istinti naturali e basilari dell'uomo, quello dell'autoconservazione. Ma possiamo
ravvisare un nesso tra lotta all'oblio e sentimento della esemplarità della propria vita, che
si deve trasmettere in quanto utile. La tendenza all'immortalità è un movente che
accomuna scrittura autobiografica con altri generi letterari e con l'arte in generale. Ma
nell'autobiografia trova uno sbocco naturalissimo e più alla portata dell'uomo comune.
C'è, infine, un'ultima categoria di motivazione: l'impulso esterno. Vi sono due modi di
intenderlo: come persona che ne incita un'altra a narrare la propria vita (caso
frequentissimo nelle autobiografie religiose); come stimolo esterno di varia natura che
genera lo stimolo interno della scrittura di sé. In quest'ultimo senso si può dire che esso
abbia sempre un certo spazio anche nelle altre categorie di motivazioni; diventa una
24 Citato in FRANCO D'INTINO, op. cit., p. 80.
30
categoria che comprende tutte le altre a seconda dei tipi di stimoli esterni (accusa,
determinato avvenimento storico a cui il futuro autobiografo assiste ecc).
Ricapitolando, l’autobiografia è innanzitutto una narrazione che riguarda la vita di una
persona considerata nel suo insieme. Questo non implica necessariamente che il racconto
debba comprendere l’intero percorso vitale, ma che il periodo o gli eventi scelti, quali che
siano, sono investiti di una riflessione generale che riguarda la vita nella sua globalità, per
cui un dettaglio viene messo in connessione con un altro dettaglio costituendo una catena
chiusa che si salda con altre catene per formare un quadro globale di una certa coerenza.
Per questo l’orientamento dominante della narrazione sarà essenzialmente retrospettivo.
Lo scrittore guarda al passato dal punto di vista del presente. Si considera il corso della
propria vita fino al momento presente e vi si ricerca una trama sottesa che componga un
disegno unitario che le dia un senso. Ribadiamo che questa ricerca è condizionata o
almeno orientata da un’interpretazione in larga misura soggettiva. La visione a posteriori
consente una maggiore obiettività in quanto è libera dagli influssi potenzialmente
devianti di un presente troppo prossimo. Ne consegue che la distanza è un requisito
irrinunciabile della scrittura autobiografica, imparentata da questo punto di vista con le
scritture storico-biografiche e invece lontana dalle scritture cronachistiche e diaristiche.
Un evento può essere giudicato nel suo valore storico, cioè in modo più profondo, solo se
si sa cosa avviene dopo, quali conseguenze ne sono scaturite. In breve, occorre possedere
la conoscenza del futuro. Caratteristico del discorso autobiografico è un movimento di
vai e vieni che collega incessantemente gli eventi di tutta la vita, riunendoli in un unico
disegno interpretativo. Ma, come si è detto, l’orientamento non è esclusivamente
retrospettivo perché non bisogna sottovalutare i poli del presente e del futuro, che sono
più o meno operanti. Talvolta un’autobiografia ci dice molto più sulla condizione
presente dell’autore che non della sua vita passata. Conseguenza sul piano formale è la
tendenza a spezzare il discorso per collocarsi sul piano del presente e abbandonarsi al
commento e alla divagazione.
31
CAPITOLO III
LA SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA COME RESISTENZA E
TRASGRESSIONE
Ora l’analisi si concentrerà sulla dimensione concreta dei testi. Una prima fase verterà
sullo statuto problematico della definizione dei testi in rapporto al sistema dei generi.
Mostrerò in quale misura si può attribuire ai due testi la dicitura di "autobiografia". In un
secondo momento, analizzando i frammenti propriamente autobiografici, cercherò di
individuare i nuclei tematici attorno ai quali l’autrice ha costruito la propria identità.
Basandomi sulle considerazioni generali riportate sopra, cercherò di classificare a
livello formale i testi della Djebar presi in esame. Il discorso sarà diviso tra i due romanzi
poiché articolati secondo diversi schemi. Verranno esposte le problematiche che
scaturiscono dall'applicazione dell'etichetta "autobiografia" all'intero testo di L'Amour, la
fantasia si mostrerà in quale misura sia possibile impiegarla per Vaste est la prison.
In L’Amour, la fantasia si ha un racconto autodiegetico e anonimo. Nel testo non
compare il nome della narratrice. Come già evidenziato, le informazioni fornite dalla
copertina non istituiscono nessun tipo di patto. Dunque, si può eludere l’indeterminatezza
di contratto tra autore e lettore facendo dei riferimenti extra testuali. Il modo più efficace
per stabilire in quale misura il testo sia autobiografico è ricorrere a dichiarazioni
dell’autrice formulate in altri contesti (interviste, saggi) o a confronti tra testo e biografia
dell’autrice. Su questa base noi lettori possiamo assegnare al testo l’etichetta di
“autobiografia”. Del resto si è visto come la Djebar stessa si riferisca a questo testo
utilizzando il termine "autobiografia".
32
Sull’opportunità di assegnare quest’etichetta all’intero testo o solo ai frammenti in cui
vengono raccontate esclusivamente le esperienze personali del vissuto dell’autrice si
levano diversi interrogativi. Innanzitutto, cercherò di renderne conto.
Il primo problema è posto dall'eterogeneità degli argomenti trattati: non sono
esclusivamente le esperienze personali dell'autrice ad essere narrate. È chiaro che alcuni
paragrafi del testo, considerati separatamente dal tutto, costituiscono un’autobiografia
frammentata, secondo la formula adottata da Mildred Mortimer nel saggio Assia Djebar's
Algerian Quartet: a study in fragmented autobiography. Ma la narrazione comprende
anche paragrafi in cui si narrano vicende storiche cronologicamente abbastanza distanti
dall'epoca dell'autrice. L'ostacolo è solo apparente dato che si è visto che lo stesso
Lejeune ammette la possibilità della presenza della storia politico-sociale
nell’autobiografia. Inoltre, si vedrà più approfonditamente in seguito come la modalità di
narrazione dei fatti storici sia eterodossa rispetto alla tecnica narrativa dello storico “di
professione”. I capitoli “storici” non conservano, infatti, quel distacco dai fatti narrati che
contribuisce ad una maggiore obbiettività, che è il requisito primario del buono storico.
La narrazione in certi momenti diventa empatica: il narratore si immedesima in alcuni
personaggi degli avvenimenti raccontati e talvolta esprime delle considerazione personali
che non si basano affatto sulle modalità dell’interpretazione storica, scientifica, obbiettiva
ma sono più un’interpretazione direi simbolica, metaforica, poetica e dunque
squisitamente letteraria dei fatti, o di alcuni fatti. Ciò che qui si vuol fare intendere è che
sembra quasi che i fatti storici narrati siano introiettati nel vissuto personale della
narratrice e che anch’essi assumano un determinato significato rispetto agli altri fatti della
propria esistenza nella formazione dell’identità personale.
Il problema principale è posto da quei paragrafi in cui si riportano, narrate in prima
persona, le esperienze di donne che hanno partecipato attivamente alla guerra di
liberazione. Anche in questi paragrafi la dimensione storica è presente ma in un modo del
tutto particolare su cui ritorneremo a tempo debito.
Un’autobiografia deve avere come soggetto prevalentemente la vita individuale
dell’autore, la sua personalità. Ma questa si forma anche (forse soprattutto) nel rapporto
con le altre persone, la vita delle quali può, dunque, trovare legittimamente spazio in un
33
autobiografia, come già detto sulla scorta di Lejeune. Ecco allora che la Djebar riporta,
così come sono avvenute (secondo una dichiarazione riportata da Clerc), delle interviste
realizzate da lei stessa su commissione di Franz Fanon al confine tra Tunisia e Algeria,
durante la guerra di liberazione. Ma la modalità di trasposizione di queste interviste pone
un problema: la narrazione è autodiegetica. Questo genera un certo disorientamento nel
lettore che inizialmente non riesce a capire se a parlare sia ancora la narratrice-autrice o
un altro personaggio. Inoltre, a rigore, nell’autobiografia solo all’autore-narratore è
consentito dire “io”, cioè narrare in prima persona. Questo per ragioni di trasparenza e
chiarezza nei confronti del lettore. La presenza di queste narrazioni autodiegetiche non
appartenenti al narratore–personaggio principale rende problematica l’applicazione del
termine autobiografia all’intero testo. La difficoltà permane anche se proseguendo la
lettura del testo si capisce bene come l’autrice inglobi queste esperienze nel racconto
della sua vita, poiché in alcuni paragrafi fa riferimento proprio al momento in cui
l'intervista viene realizzata. Sarebbe stato diverso se l’autrice avesse presentato queste
interviste ricorrendo ad un discorso diretto attribuito al personaggio, senza creare
equivoci, mediante la formula: “il personaggio dice/disse: «...»”. Ma le narrazioni non
sono introdotte da alcuna formula che ne espliciti il carattere. Viene, invece, adottata una
tecnica squisitamente romanzesca: la variazione del punto di vista, della prospettiva
affidata ad un altro narratore. Ci si potrebbe allora chiedere che senso abbia l’adozione di
una tale tecnica in un’autobiografia, un tipo di racconto che deve essere il più fedele
possibile alla propria esistenza. Forniremo più avanti la risposta a questo quesito quando
proporremo la nostra interpretazione del testo della Djebar. Lascerò momentaneamente in
sospeso il problema dell'attribuzione del termine “autobiografia” all'intero testo
riservandomi di riprenderlo nel terzo capitolo. Non è però preclusa la possibilità di
impiegare il termine in riferimento ai paragrafi che narrano esperienze personali della
narratrice.
Di tutt’altro tipo il discorso riguardo Vaste est la prison. Qui si verifica la situazione in
cui è presente il nome del narratore/personaggio principale ma è diverso dal nome
dell’autore riportato in copertina. Dunque, si realizza automaticamente il patto
romanzesco, secondo lo schema di Lejeune. Invero le cose non sono così semplici.
34
Infatti, lo statuto della narrazione non è omogeneo, cioè non viene mantenuto per tutto il
testo l'uso della prima persona. Si è visto che ciò si verifica anche in L'Amour, la
fantasia; ma qui si trattava di un procedimento straniante che non metteva in dubbio che
il personaggio di cui si narra e che narra è sempre lo stesso. Nel testo in questione ciò non
avviene a causa di un intervento del narratore che rende la situazione estremamente
ambigua. Nella circostanza sembra che l’autrice stessa intervenga nel testo svelandone il
carattere funzionale e generando non poco disorientamento nel lettore. Lo statuto della
narrazione muta a partire dal sesto movimento della terza parte, più precisamente a
partire dal sottoparagrafo Maternité. Qui si adotta la terza persona in riferimento a Isma,
la narratrice dell'intero racconto fino a questo momento. Attenendosi solamente a ciò, il
fenomeno potrebbe essere interpretato come un processo di distacco analogo a quello
dell'altro testo. Ma più avanti, nel sottoparagrafo Sidi del settimo movimento, leggiamo:
«Appellerai-je à nouveau la narratrice Isma?»25
. Si crea una situazione a dir poco
ambigua: chi parla? Impossibile stabilirlo con certezza. Potrebbe essere ancora Isma
come l'autrice stessa. Infatti, è l'autore del testo ad assegnare il nome ai personaggi in
quanto da lui generati, e questo potrebbe far pensare che a parlare sia l'autore dell'intero
libro. Inoltre, attraverso riscontri con la biografia dell’autrice e sue dichiarazioni su
questo testo, ricaviamo una notevole somiglianza con i fatti narrati dalla protagonista. Un
ulteriore elemento di ambiguità è il fatto che i paragrafi che trattano della realizzazione di
un film, intitolati Femme arable, poiché mantengono una forma anonima, sono di
difficile attribuzione: cioè non si può stabilire con certezza se ad avere la parola è ancora
Isma o un'altra donna, magari Assia Djebar in persona, dato che il film di cui vengono
descritte le fasi di realizzazione è La Nouba des femmes du mont Chenua girato dalla
Djebar. Ancora ricaviamo, attraverso confronti con la vita e dichiarazioni d’autore, che le
donne di cui si racconta nella terza parte sono le familiari da parte di madre dell’autrice,
nella realtà, della narratrice nel testo. Questa notevole somiglianza tra esperienze
raccontate da Isma e quelle vissute dalla Djebar complica ulteriormente le cose.
Volendosi mantenere in una classificazione rigida, si dirà con Lejeune che Vaste est
la prison non si può definire un’autobiografia poiché manca la condizione fondamentale
25 ASSIA DJEBAR, Vaste est la prison , cit., p. 331.
35
di questo genere: l’identità tra autore, narratore e personaggio principale. Si tratta dunque
di un romanzo autobiografico caratterizzato da una somiglianza quasi perfetta tra autrice
e protagonista. Vi è pur sempre una distanza tra autore e narratore. Anche se occorre
precisare che questa distanza tende a sfumare fino a quasi scomparire per via di
quell’intromissione d’autore che ho descritto precedentemente. Tutti questi elementi
mantengono una certa ambiguità e una sostanziale incertezza nell’attribuzione del testo a
un dato genere. Risulta essere piuttosto una linea mobile tra autobiografia e romanzo
autobiografico.
L’assottigliamento sfumato del confine tra realtà e finzione riscontrato nei frammenti
autobiografici di Vaste est la prison è da interpretare come risultato dell’intento di
indicare al lettore una verità da cercare nell’elaborazione linguistica come era per
Doubrovsky? O forse è una conseguenza dell’impegno della scrittura djebariana? O,
ancora, semplicemente come frutto di quel pudore che la cultura araba le ha impresso?
Credo che queste interpretazioni non si escludano a vicenda e che debbano, perciò, essere
compresenti nella comprensione globale dei testi.
Mi interessava render conto di queste problematiche per mettere in evidenza un
indubbio rapporto delle opere letterarie con il vissuto personale dell’autrice. I testi presi
in esame possiedono un intento referenziale. Tornerò in seguito sul significato di questo
approccio e sulla ricercata ambiguità dei testi in relazione alla loro classificazione nel
sistema dei generi.
La condizione della donna nella società araba è il macrotema, il concetto organizzatore
dell'intera narrazione autobiografica (e non solo). Essa, per questo, intreccia i due livelli
del sociale e del personale. L'osservazione e l'analisi di se stessi è integrata
dall'osservazione e l'ascolto delle altre donne. Attraverso il confronto con il sociale la
Djebar definisce meglio la propria identità. Tramite le sue esperienze personali, il
rapporto diretto con le altre donne e il resoconto delle loro esperienze ci viene fornito uno
spaccato sociale. La narrazione autobiografica è in qualche modo una
denuncia/testimonianza di un problema sociale: la sottomissione femminile. Dunque, si
tratterebbe di un tipo di autobiografia che risponde alla motivazione della conoscenza,
testimonianza, insegnamento riportata sopra, secondo la quale l'autrice si concepirebbe
36
come un oggetto di indagine di tipo sociologico. Nel nostro caso, in realtà, questo è vero
solo in parte. Infatti, l'autrice subisce solo in parte il disagio della sottomissione
femminile dato che riesce a raggiungere una relativa libertà fin da giovane grazie alla
lingua e alla cultura francese a cui la introduce il padre. Inoltre, questa categoria di
motivazione può essere applicata più propriamente se considerata non come origine
dell'atto autobiografico ma come sua conseguenza, come risultato.
La ricerca identitaria, l'indagine personale è il vero motore che alimenta la scrittura
autobiografica. Le proprie esperienze e quelle delle altre donne, impiegate come termine
di confronto, servono per definire la particolare condizione esistenziale dell'autrice a due
livelli, sociale e personale.
Secondo Clerc, l'origine della claustrazione imposta alla donna musulmana sarebbe da
ricondurre al divieto dell'incesto. Come sostegno alla sua interpretazione, lo studioso cita
la stessa Djebar, riportando il seguente brano di Ombre sultane:
Là-bas, les garçons peuvent rejoindre pères et oncles, là-bas se dresse un théâtre interdit
(...). Les oursins ils ramènent le coquilles vides, pour nous narguer, sont une gourmandise
décrétée taboue au peuple des femmes! Un enfant en évoque le gout; longtemps après, la
fillette que je fus rêva aux mots égrillards qu'utilisa ce gamin complice, comme si, le fruit
m'étant interdit, ce n'était pas seulement la mer e se nourritures dont je me trouvais écartée.
Comme si ce garçon se mettait à rêver au sexe de sa mère et que par bravade il en dévoilait,
pour moi et pour lui-même, la nostalgie incestueuse.26
La sottomissione femminile è presentata qui come indissociabile dalla pulsione
incestuosa degli uomini e, dice Clerc, «marque un borne à leur désir de jouissance
interdite»27
. Ciò che si vuol far intendere è che, a livello profondo e inconscio, per l'uomo
tutte le donne si confondono con la tentazione del divieto incestuoso e sono concepite
come oggetti di desiderio. Di qui la virilità gelosa e protettrice dei padri e dei fratelli. Per
arginare questa forza incontrastabile, la società maschile impone la segregazione
femminile di cui il velo è ad un tempo una componente e il simbolo. L'interpretazione mi
sembra convincente. Una cosa è, comunque, fuori di dubbio: l'origine della claustrazione
26 ASSIA DJEBAR, Ombre sultane, Paris, J.C. Lattés, 1987, p. 110.
27 JEANNE MARIE CLERC, op. cit., p. 38.
37
è legata al desiderio sessuale. Ne fa esperienza e ce lo mostra la stessa autrice. Durante le
riprese per la realizzazione del film La Nouba des femmes du mont Chenua, girate nei
villaggi della sua regione natale, le donne che accettavano di farsi riprendere erano quasi
esclusivamente vecchie e bambine. Il loro corpo era in un'età biologica in cui non era in
grado di suscitare il desiderio sessuale. Un'ulteriore dimostrazione ci viene da un dato
sociologico e di costume: l'età in cui alle donne viene fatto indossare il velo, cioè dagli
11-12 anni circa, nella fase in cui il corpo femminile comincia a svilupparsi pienamente.
Certo, il velo viene ancora indossato dalle donne anziane ma non è indispensabile che il
loro corpo sia preservato da ogni sguardo. Infatti, come ha avuto modo di sperimentare la
Djebar stessa, una frase ricorrente delle donne anziane che accettavano di farsi riprendere
era: «Sono vecchia, riprendetemi pure»28
. Quindi, dal momento in cui la donna diventa
donna, cioè quando le vengono le mestruazioni, fino all'età di circa 60 anni deve essere
velata e segregata in casa. La sua immagine, il suo corpo non le appartengono più. In
quanto corpi sessuati, devono essere preservati dallo sguardo altrui. Il solo sguardo
ammesso è quello dei familiari più stretti (genitori, fratelli e marito) e quello delle altre
donne, cioè di soggetti con cui non è possibile avere un rapporto sessuale. Da quanto
detto, è emerso chiaramente che lo sguardo si carica di una valenza che travalica il
semplice atto del vedere. Infatti, nei testi della Djebar, lo sguardo dell'uomo arabo è già
una forma di possesso, di impossessamento. È uno sguardo vorace, sembra quasi
equivalere a un rapporto sessuale. Per questo motivo, quando una donna sposata viene
vista da altri che non siano suo marito né suoi parenti, per il coniuge è un tale disonore da
consentirgli legalmente di chiedere il divorzio, come mostra il ricordo raccontato dalla
Djebar nell'intervista di Renate Siebert (p. 80). Ecco un brano significativo dell'intervista
che conferma quanto riportato sopra:
Poiché sei donna, la tua immagine non ti appartiene. Dal momento in cui diventi donna,
cioè da quando ti vengono le mestruazioni e ti si prepara al matrimonio, è un fatto già
interiorizzato che tu debba startene appartata, indossare il velo o, comunque, restare in
casa, che non ti vedano altri che tuo marito o gli altri familiari con i quali non possono
esserci relazioni sessuali. In certi posti, a partire da quel momento, non puoi più vedere
28 RENATE SIEBERT, op. cit., p. 81.
38
neanche un cugino, perché potresti sposarlo.29
Il meccanismo di controllo e di potere sulla donna agisce su tre dimensioni: il corpo,
l'amore, la parola, sulle quali articoleremo il nostro discorso. Precisiamo che esse sono
strettamente intrecciate tra loro, tanto da costituire un tutto unico. Imprigionando e
rendendo muto il corpo, si imprigiona anche l'amore, la sua espressione. Inoltre,
l'interdizione della parola riguarda la possibilità della donna di esprimersi, cioè di
esprimere se stessa, la sua individualità. Come ostacolo all'autoespressione, l'interdizione
della parola ricopre sia la dimensione orale che quella scritta. Si vedrà come alla scrittura
sarà dedicata una particolare attenzione.
La Djebar riesce a scampare all'imprigionamento, alla claustrazione, grazie alla lingua
e cultura francese, donatale dal padre. Con questo episodio si apre L'Amour, la fantasia;
comincia da questo momento fondamentale il resoconto autobiografico dell'autrice.
Costituisce l'origine della condizione privilegiata dell'autrice rispetto alle altre donne; si
potrebbe dire che sia la sua autentica nascita. Quindi il racconto autobiografico si muove
su due piani, tra tradizione e trasgressione: evoca la sottomissione delle donne attraverso
figure che in qualche modo la trasgrediscono, la sua in primis. La sottomissione totale è,
per così dire, collocata sullo sfondo, mentre si concentra l'attenzione sugli elementi di
innovazione e trasgressione. Il mio discorso sarà articolato in modo analogo.
Il corpo
Dato che il desiderio sessuale è un bisogno fisico la prima forma di claustrazione è
fisica, riguarda cioè il corpo della donna. Questo viene sottoposto a un rigido controllo
attraverso l’imposizione del velo e la segregazione domestica. Ora, questa condizione di
reclusione, comune alla maggior parte delle donne maghrebine e conforme alla tradizione
islamica, nel percorso autobiografico della Djebar, fa come da sfondo ad esperienze
femminili trasgressive, che comprendono in primo luogo quelle dell'autrice ma anche
quelle di altre donne. La scuola francese consente all’autrice di scampare alla
29 Ivi, p. 79.
39
claustrazione e al velo, facendole riscoprire la bellezza della libertà di movimento nello
spazio, di sentire il sole e il vento sulla pelle e anche il piacere di essere ammirati. Per la
donna musulmana l’unica occasione di mostrare il proprio corpo è nelle riunioni tra
donne o nella pratica della danza. L’autrice si allontana sempre più da queste pratiche
tradizionali poiché non si riconosce nel loro significato. La narratrice di Vaste est la
prison, parlando della sua partecipazione alle danze tradizionali, dice:
l'essentiel était, me semble-t-il sans analyser, ce défi de mon corps englouti qui prétendait
improviser le mouvement, l'essentiel était de m'écarter le plus possible de la frénésie
collective de ces femmes, mes parentes – je sentais que la joie quasi funèbre de leurs corps,
frôlant un désespoir entravé, ne me convenait pas.30
Dunque, i rituali delle danze tradizionali, con i suoi movimenti frenetici sembrano,
agli occhi dell’autrice, una sorta di esorcismo della frustrazione quotidiana del dover
occultare il corpo; secondo la Djebar, hanno la stessa funzione delle riunioni
esclusivamente femminili, cioè mantenere la sofferenza individuale nella rassegnazione
collettiva, impedirgli di trasformarsi in ribellione. Quando vi partecipa non esegue i
movimenti tradizionali, sintomo, appunto, di autonomia e di distacco: il corpo è libero di
muoversi come vuole.
La posta in gioco nella rivendicazione dell’autrice riguardo al corpo femminile va al di
là dell’importanza del muoversi liberamente nello spazio o di percepire sulla pelle la luce
del sole. Concerne soprattutto la rivendicazione della donna al diritto di esistere.
L’occultamento del corpo sottrae quest’ultimo allo sguardo dell’altro. In qualche modo,
non viene riconosciuta la sua esistenza personale, la sua soggettività. L’individualità del
singolo viene soppressa dall’esteriorità uniformante del velo, nella sua anonimità. Il
simbolo del controllo sul corpo è l'imposizione del velo. Il velo costituisce un'interdizione
allo sguardo altrui. La dimensione visuale ha dunque una pregnanza fondamentale nel
discorso sul corpo. Lo sguardo dell'uomo arabo ha una valenza diversa, molto più
profonda rispetto alla concezione occidentale. Si è già detto che, nei testi della nostra
autrice, lo sguardo maschile sulla donna, in quanto carico di desiderio, è una forma di
possesso, quasi equivalente all'atto sessuale stesso. La donna deve essere posseduta da un
30 ASSIA DJEBAR, Vaste est la prison , cit., p. 62.
40
solo uomo, e di qui la necessità di preservarne il corpo dallo sguardo vorace di altri
uomini. La sacralità, e di conseguenza la giustificazione in termini etici e legali, del velo
deriva direttamente dal Corano, il cui versetto 59 della sura 33 recita: «O Profeta! dì alle
tue spose, alle tue figlie e alle donne dei tuoi credenti di coprirsi dei loro veli , così da
essere riconosciute e non essere molestate»31
. Così, la donna viene sacrificata alla
clemenza divina per meglio proteggere le prerogative maschili. Queste prerogative, come
dice Clerc, si esercitano in primo luogo sul dominio del mondo circostante. Lo spazio è
maschile per volere divino. Ancora il Corano, riferendosi alle donne, al versetto 33 della
sura 33, dice: «Rimanete con dignità nelle vostre case e non mostratevi come era
costume ai tempi dell'ignoranza»32
. Ora, il velo è al tempo stesso un ulteriore
seppellimento del corpo e un veicolo che consente alla donna di uscire di casa, rompendo
in tal modo la condizione di reclusione totale. Diventa un mezzo per poter vedere il
mondo esterno, per muoversi in quello spazio che dovrebbe essere esclusivamente
maschile. La donna velata, la donna che esce di casa è, dunque, un rivale nella conquista
dello spazio. Il velo è il primo passo verso la libertà per le donne e un rischio per gli
uomini, una potenziale minaccia. Come dice l'autrice stessa in Femmes d'Alger dans leur
appartement33
, la donna velata è in un certo modo una donna evoluta. Ma la possibilità di
guardare senza poter essere viste diventa in qualche modo lo sguardo di un'assente, come
quelle donne descritte in L'Amour, la fantasia sono ammesse alle riunioni femminili
interamente velate con la sola possibilità di guardare, senza poter interagire con le altre
donne, che proprio per questo si comportano come se quelle non esistessero. Il solo poter
guardare il mondo esterno, senza poter interagire con esso corrisponde ad un esistenza
monca, incompleta, evanescente come quella di un fantasma. Questo termine non è
impiegato a caso: oltre a rendere in modo efficacie il concetto, è adottato dalla stessa
autrice come metafora della condizione esistenziale della donna. In Ces voix qui
m'assiègent, osservando una moviola girata per il film La Nouba des femmes du mont
Chenua, si legge:
31 HAMZA ROBERTO PICCARDO (a cura di), Il Corano: edizione integrale, Roma, Newton Compton,
1997, p. 287.
32 Ivi, p. 285.
33 ASSIA DJEBAR, Femmes d'Alger dans leur appartement, Paris, Éditions des Femmes, 1980.
41
La jeune femme voilée, mince, fluide, s'avançait sur ce sentier: les pans du voile blanc
flottaient, ses yeux seuls apparents - mais chez elle, il n'y avait qu'un œil visible. Je me suis
exclamée, troublée: "C'est un fantôme"! "C'est..." Cela voulait dire non pas elle
simplement, la passante photographiée, mais les femmes, toutes, elles si près de moi
jusque-là, elles de ma famille, elles autant dire moi-même!34
La possibilità di una funzione concreta è relegata per la donna tra le mura domestiche;
fuori, essa esiste come puro sguardo. «Tu ne peux exister dehors: la rue est à eux, le
monde est à eux. Tu a droit théorique d'égalité, mais "dedans", confinée, cantonnée.
Incarcérée»35
. Occorre, allora, che questo sguardo venga "in-corporato", cioè che si
impossessi di un corpo. Perché ciò avvenga, la donna deve poter mostrare il corpo, deve
poter essere guardata, deve poter comunicare attraverso il linguaggio del corpo.
Nel paragrafo La danse di Vaste est la prison, viene mostrata concretamente
l'importanza dello sguardo dell'altro sul corpo della donna. Si racconta di una notte in cui
la narratrice decide di danzare in un locale in cui, a sua insaputa, si trova anche l'uomo
che viene costantemente denominato l'Amato. Mentre danza, si accorge che l' uomo la
guarda intensamente, come rapito. La narratrice percepisce, allora, che il suo «pouvoir
sur cet homme commençait»36
. Sente allora di essere davvero visibile, in modo nuovo,
diverso rispetto all'adolescenza, in cui davanti al complimento innocente di un uomo,
amico o estraneo, sorrideva timidamente pensando: «C'est mon apparence, mon fantôme
que vous voyez, pas moi-même, pas moi pour de vrai... Moi, je suis masquée, je suis
voilée, vous ne pouvez me voir!»37
. Ora diventa visibile anche per se stessa:
Ainsi un homme m'avait regardée danser et j'avais été "vue". Bien plus, je me sentais avec
une conscience aiguisée, heureuse (rien à voir avec l'amour-propre, ou la vanité
narcissique, ou la coquetterie dérisoire...) d'être vraiment "visible" pour ce jeune homme,
lui presque un adolescent au regard meurtri. Visible pour lui seul? Pour moi donc, par là
même.38
Come dice Susanna Rodrìguez Drissi in The quest for Body and Voice in Assia
34 ASSIA DJEBAR, Ces voix qui m’assiègent, cit., p. 99.
35 ASSIA DJEBAR, Vaste est la prison , cit., p. 175.
36 Ivi, p. 61.
37 Ivi, p. 51.
38 Ivi, p. 64.
42
Djebar's So vast the prison39
, la narratrice giunge alla conclusione che lo sguardo
maschile, questa sorta di specchio nel quale ella si riflette rendendosi visibile a se stessa,
è responsabile del concetto di sé. Isma inizialmente non è un soggetto autonomo, ma un
oggetto dello sguardo dell'Amato. Lo diventa attraverso quello specchio che è lo sguardo
maschile, che le consente di appropriarsi della sua immagine e di percepirsi come
soggetto. Nelle pagine finali della prima parte del romanzo, la narratrice, conclusa ormai
la sua esperienza amorosa, dice:
allant me contempler pour me voir par ses yeux dans le miroir, tenter de surprendre le
visage qu'il venait de voir, comment il le voyait, ce "moi" étranger et autre, devenant pour
la première fois moi à cet instant même, précisément grâce à cette translation de la vision
de l'autre.40
La potenzialità trasgressiva dello sguardo "in-corporato" della donna nei confronti
della tradizione islamica è evidenziata anche in un'altra scena di Vaste est la prison. Nel
paragrafo L'absence si racconta la notte in cui l'autrice confessa al marito il suo amore
platonico per un altro uomo. Questo amore non è stato mai dichiarato al diretto
interessato in modo esplicito, ne è mai avvenuto alcun contatto che configuri un
tradimento (almeno per l'ottica occidentale). Alla confessione segue l'aggressione
violenta del marito che, insultandola ripetutamente, la accusa di adulterio.
Il insulta auparavant. Il frappa ensuite. Protéger mes yeux. Car sa folie se révélait étrange:
il prétendait m'aveugler. "Femme adultère", gronda-t-il, la bouteille de whisky cassée en
deux à la main; je ne pensais qu'à mes yeux, et au risque que représentait la baie trop
ouverte.41
Il marito tenta di accecarla, di toglierle quello sguardo che l'ha fatta allontanare da lui.
La scena è analoga a quella descritta in Ombre sultane, per cui è molto probabile che sia
autobiografica. Le parole che pronuncia il marito in quest'ultimo testo sono ancora più
significative per l'importanza dello sguardo: «Je t'aveuglerai pour que tu ne voies pas!
39 SUSANNAH RODRÍGUEZ DRISSI, The Quest for Body and Voice in Assia Djebar's So vast the
prison, http://docs.lib.purdue.edu/clcweb/vol7/iss3/5/.
40 Ivi, p. 116.
41 Ivi, p. 85.
43
Pour qu'on ne te voie pas!»42
. Isma non viene percossa perché tenta una relazione illecita
ma perché osa riconsiderare la sua vita per ridefinirla. Così Hajila, la co-protagonista di
Ombre sultane, non viene percossa solo perché passeggia per la città senza velo, ma
anche e soprattutto perché tenta di impossessarsi del diritto di guardare ed essere vista.
Come dice M. Mortimer:
For Djebar, the gaze is crucial: the prohibition against women seeing and being seen is at
the heart of Maghrebian patriarchy, an ideological system in which the master's eye alone
exists. Women challenge the phallocentric system by appropriating the gaze for
themselves. Thus, when the novelist temporarily abandons the novel for cinema (an
experience she recounts in the second half of Vaste est la prison), she emphasizes again the
importance and necessity of her transgression, the revolt against the masculine gaze.43
L'esperienza cinematografica opera, appunto, una ridefinizione dello sguardo
femminile per appropriarsi del mondo esterno che la tradizione islamica vorrebbe
appannaggio esclusivo dell'uomo. Si è già detto che la donna velata è in un certo modo in
una condizione progredita, evoluta, perché può avventurasi all'esterno e contemplare il
mondo. Ma questo buco del velo all'altezza degli occhi, suo unico dardo sullo spazio, non
deve essere impiegato solo «pour que la malheureuse cherche son chemin: juste un peu
de lumière, une lueur pour se diriger et en avançant, échapper aux regards masculins»44
.
Deve essere diretto al mondo esterno, deve diventare uno sguardo possessivo, come
quello maschile, e divorare il mondo. Dice ancora la Djebar:
Ce regard artificiel qu'ils t'ont laissé, plus petit, cent, mille fois plus restreint que celui
qu'Allah t'a donné à la naissance, cette fente étrange que les touristes photographient parce
qu'ils trouvent pittoresque ce petit triangle noir à la place d'un œil, ce regard miniature
devient ma caméra à moi, dorénavant. Nous toutes, du monde des femmes d'ombre,
reversant la démarche: nous enfin qui regardons, nous qui commençons.45
Attraverso l'appropriazione del mondo circostante tramite lo sguardo e la possibilità di
essere viste da altri, le donne giungono alla percezione di sé come soggetti. La conquista
di una piena dimensione esistenziale passa, dunque, attraverso tre fasi: appropriazione
42 ASSIA DJEBAR, Ombre sultane, cit., p. 96.
43 MILDRED MORTIMER, op. cit., p. 109.
44 ASSIA DJEBAR, Vaste est la prison, cit., p. 175.
45 Ibidem.
44
dello sguardo sul mondo; possibilità di essere viste tramite la liberazione del corpo;
appropriazione dell'immagine di sé riflessa dallo sguardo dell'altro.
L'amore
L'amore nelle opere della Djebar ha sempre rivestito una certa importanza. Data
l'origine della claustrazione femminile che ho enunciato sopra, una forte costrizione si
esercita nel controllo di questo sentimento. La donna non può scegliere l'uomo con cui
desidera passare la propria vita: altri scelgono per lei. Anche perché, nella società araba
del periodo, il matrimonio era un'unione con fini prevalentemente economici. Il
sentimento amoroso aveva pochissimo spazio. Come avveniva nell'Occidente almeno
fino all'Ottocento e agli inizi del Novecento, l'unione matrimoniale era frutto della
contrattazione tra i genitori delle rispettive parti, impegnati a valutare tutti i risvolti
economici e di "prestigio sociale", per così dire, che tale unione avrebbe comportato.
Poiché le donne non possono essere viste da alcun uomo che non sia suo parente
stretto, la scelta della futura sposa avveniva per il tramite della madre, che notava una
donna adatta a suo figlio, ad esempio all'hamam (bagno pubblico riservato alle donne),
per qualità fisiche e posizione sociale, e faceva pervenire la richiesta di matrimonio alla
famiglia della fanciulla. Secondo questo meccanismo, la volontà della sposa è ben poco
operativa nella decisione finale. Inoltre, l'eventuale sposo sarà per lei uno sconosciuto,
impostogli dalle circostanze, a cui, da un giorno all'altro, dovrà cedere il suo corpo.
Il disagio, la frustrazione e l'ingiustizia della prigionia del sentimento amoroso, nei
frammenti autobiografici, emerge in tutta la sua drammaticità nel resoconto delle
esperienze di altre donne, familiari dell'infanzia dell'autrice e no. Anche la Djebar ne fa
esperienza personale ma, infine, riesce ad eluderla (non completamente, come mostrerò
nel corso del paragrafo). L'attenzione (e la compassione) si concentra, allora, sulle donne
che non sono riuscite ad evadere da questa prigione, che ancora soffrono per questa
costrizione.
In L'Amour, la fantasia, il tema dell'amore è una componente fondamentale della
struttura del testo, tanto da comparire fin dal titolo. Riveste una particolare importanza
45
anche nei capitoli storici, di cui mi occuperò a tempo debito. La prima esperienza del
contenimento del sentimento amoroso, avviene nell'adolescenza dell'autrice attraverso
una lettera che uno sconosciuto, uno studente in vacanza, le manda con il proposito di
uno scambio di lettere "amichevoli". Il padre, scoperta la lettera, la distrugge davanti agli
occhi dell'adolescente. Attraverso questo primissimo episodio, viene definito il ruolo di
carceriere della figura paterna. Ma «les mots conventionnels et en langue française de
l'étudiant en vacances se sont gonflés d'un désir imprévu, hyperbolique, simplement parce
que le père a voulu les détruire»46
. La cesura paterna ha stimolato il desiderio di
avventura. Infatti, l'autrice terrà una corrispondenza clandestina. L'amore è quindi un
veicolo di libertà ed è, proprio per questo motivo, pericoloso agli occhi dei custodi della
donna. Il gesto dell'autrice è trasgressivo ed è costretto alla clandestinità. Notiamo che
l'amore è connesso con la scrittura, quindi con la possibilità di esprimerlo. Essa riesce ad
eludere qualsiasi tipo di mezzo che l'uomo ha a disposizione per imprigionare la donna.
L'autrice se ne rende perfettamente conto. Scrive, infatti, immedesimandosi nello spirito
della tradizione musulmana:
Toute vierge savante saura écrire, écrira à coup sûr “la” lettre. Viendra l'heure pour elle où
l'amour qui s'écrit est plus dangereux que l'amour séquestré. Voilez le corps de la fille
nubile. Rendez-la invisible. Transformez-la en être plus aveugle que l'aveugle, tuez en elle
tout souvenir du dehors. Si elle sait écrire? Le geôlier d'un corps sans mots – et les mots
écrits sont mobiles – peut finir, lui, par dormir tranquille: il lui suffira de supprimer les
fenêtres, de cadenasser l'unique portail, d'élever jusqu'au ciel un mur orbe. Si la jouvencelle
écrit? Sa voix, en dépit du silence, circule. Un papier. Un chiffon froissé. Une main de
servante, dans le noir. Un enfant au secret. Le gardien devra veiller jour et nuit. L'écrit
s'envolera par le patio, sera lancé d'une terrasse. Azur soudain trop vaste. Tout est à
recommencer.47
La scrittura rimanda alla possibilità della donna di esprimersi, di comunicare con
l'esterno e a distanza. Il titolo della prima parte del romanzo è, appunto, La prise de la
ville ou L'amour s'écrit. La scrittura dell'amore è, dunque, un gesto trasgressivo
attraverso il quale la donna può svincolarsi dal dominio dell'uomo. Diventa quasi uno
strumento di battaglia. Ciò si verifica nel caso delle tre ragazze segregate con cui l'autrice
passava le estati della sua infanzia. Attraverso un flashback temporale, si ritorna al
46 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 12.
47 Ivi, pp. 11-12.
46
periodo dai dieci ai tredici anni dell'autrice, ulteriormente circoscritto dalle vacanze
scolastiche di primavera ed estate, in cui l'autrice viene segregata in una casa di villaggio
di una parente. In questa casa trascorre il tempo con tre sorelle con cui strige amicizia, in
particolare con la minore. La Djebar mette a confronto la sua condizione di relativa
libertà con la claustrazione totale delle sorelle. Il confronto con l'altro le consente di
comprendere appieno la sua posizione privilegiata. Anche queste ultime, tuttavia, sono
impegnate in un atto di rivolta, di trasgressione: intrattengono una segreta corrispondenza
epistolare con diversi uomini provenienti da ogni parte del mondo arabo. Perché si
espongono a questo terribile rischio, dato che «il y avait eu, dice la Djebar, dans nos
villes, pour moins que cela, nombreux pères ou frères devenus “justiciers”» e «le sang
d'une verge, fille ou sœur, avait été versé pour un billet glissé, pour un mot soupiré
derrière les persiennes»48
? A livello generale è probabilmente un bisogno di libertà a
muoverle, un bisogno di evadere temporaneamente, almeno con l'immaginazione, dalla
prigione in cui sono rinchiuse. Ci viene fornito un motivo più preciso dalle parole della
sorella minore che dice:
Jamais, jamais, je ne me laisserai marier un jour à un inconnu qui, en une nuit, aurait le
droit de me toucher! C'est pour cela que j'écris! Quelqu'un viendra dans ce trou perdu pour
me prendre: il sera un inconnu pour mon père ou mon frère, certainement pas pour moi!49
Una rivendicazione di una certa autonomia in campo amoroso, dunque. L'«étrange
combat de femmes»50
si combatte primariamente su questo fronte. Notiamo ancora che
ciò è reso possibile da un'istruzione primaria che ha consentito alle ragazze di apprendere
il francese. Questa lingua consente alle ragazze di accedere a nuovi spazi entro cui
muoversi con una certa libertà. Il sentimento amoroso come stimolo verso la libertà,
come rivendicazione di autonomia. Sarà l'amore che spingerà Zoraide, «la première
Algérienne qui écrit»51
come la definisce la Djebar, a compiere il gesto trasgressivo di
tradire il padre liberando il prigioniero cristiano e fuggendo con lui. Lo si è visto anche
nel caso dell'autrice stessa. Questa concezione dell'amore ha un altro esemplare anche in
48 Ivi, p. 22.
49 Ivi, p. 24.
50 Ibidem.
51 ASSIA DJEBAR, Vaste est la prison, cit., p. 168.
47
Vaste est la prison, la prima parte del quale racconta la nascita, lo sviluppo e la fine di un
amore "illecito". La narrazione non è lineare ma tortuosa, confusa, fatta di sbalzi
temporali in avanti e indietro. Una modalità narrativa che ricalca la fisionomia del
sentimento amoroso. Dice la narratrice riguardo la sua passione: «Mais celle-ci aussi
aveuglément vécue, pourquoi serait-elle aujourd'hui exposée sans détours, dérobades,
sans désir de labyrinthe?»52
. Ma proprio grazie a quel sentimento trasgressivo riuscirà
alla fine a liberarsi dal marito, che simboleggia il potere maschile sulla donna. La
modalità narrativa labirintica serve anche a rappresentare le resistenze interiori, il
groviglio di attrazione e repulsione che accompagna la trasgressione all'ordine
tradizionale. La narratrice è una donna sposata il cui amore per il marito è, però, solo un
ricordo. L'accorgersi di provare interesse per un altro, e poi la nascita dell'amore la
condurranno a confessare il suo sentimento proprio al marito che, cercando di farla
rientrare nell'ordine con una punizione corporale non fa altro che accelerarne
l'allontanamento e la liberazione. L'amore è percepito come un pericolo forse anche
perché presuppone un rapporto paritario tra le due parti, non contemplato dalla tradizione
islamica. La Djebar constata amaramente che nella trasmissione islamica, per la donna
«entrer par soumission, semble décider la Tradition, et non par amour»53
. Ma a questa
visone della tradizione ne vuole opporre un'altra.
Nel paragrafo Le complainte d'Abraham di L'Amour, la fantasia, racconta che in
occasione della "festa del montone" durante la sua infanzia una zia era solita esporre una
biografia del Profeta con molteplici variazioni che le faceva provare slanci emotivi di
sensibilità religiosa. Riporta due particolari episodi dei racconti della zia che mostrano
come il rapporto del Profeta con la prima moglie Khadidja, fosse un rapporto d'amore
intenso. All'inizio delle sue visioni Maometto ne era talmente sconvolto da far ritorno a
casa quasi in lacrime. E allora sua moglie, per confortarlo, «le mettait sur ses genoux»54
.
La conclusione della zia, e credo anche dell'autrice, è che il primo dei musulmani fu una
donna, forse ancor prima del Profeta stesso. E prosegue affermando che la prima donna
52 Ivi, p. 55.
53 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 239.
54 Ivi, p. 243.
48
che ha aderì alla fede islamica lo fece per «amour conjugal»55
. Da questo sostegno
morale, questa presenza confortante che accompagna il Profeta in questi momenti di
difficoltà, se ne deduce un tipo di rapporto che nulla ha a che fare con la sottomissione.
Un altro particolare emoziona ancor più l'autrice bambina. Tempo dopo la morte della
moglie, Maometto non riusciva a nascondere il suo turbamento quando la sorella della
defunta si avvicinava alla sua tenda perché gli sembrava che i suoi passi risuonassero
come quelli della moglie morta. E a quel suono che risuscitava Khadidja, il Profeta a
stento tratteneva le lacrime. La Djebar, che aveva circa 11 anni, ne resta colpita, perché
non aveva visto manifestazioni di amore coniugale che nella società europea. Scopre che
anche nell'islam è possibile questo tipo di rapporto, anzi che ne è alla base. Ovviamente
questa è la sua interpretazione che, come si rende conto lei stessa, comporta qualche
rischio di blasfemia.
Data la posizione privilegiata dell'autrice qual è il suo rapporto con l'amore? La scuola
francese le ha permesso una relativa libertà anche in questo settore. Potrebbe vivere il
rapporto amoroso con una serenità e una libertà proibite alla donna musulmana. E, in
effetti, è così. Ma la sua cultura d'origine lascia comunque il segno in quella che l'autrice
chiama l'afasia amorosa. Uno degli interrogativi che l'hanno spinta alla scrittura
autobiografica riguarda proprio l'origine di questa difficoltà nel pronunciare e ricevere
parole d'amore in francese. Il fenomeno scaturisce da un episodio d'infanzia, raccontato
nel paragrafo La fille du gendarme français. Nel villaggio in cui trascorre le vacanze
estive, la famiglia di un poliziotto francese frequentava abitualmente la casa delle tre
sorelle segregate. L'attenzione si concentra sulle figlie del poliziotto, in particolare Marie-
Louise, di cui viene considerato l'atteggiamento "scandalosamente" libero e spensierato
nel rapporto con il fidanzato. La libertà con cui questa ragazza vive l'amore e manifesta la
sua affettività, profondendosi senza pudore in atteggiamenti di «intimité inconvenante»56
,
attira l'autrice e le sue amiche, incuriosendole ed eccitandole. Per loro il comportamento
di Marie-Louise è una cosa inaudita, straordinaria, perché frutto di una libertà a loro
interdetta. Infatti, nella cultura musulmana vige un codice comportamentale che impone
55 Ibidem.
56 Ivi, p. 41.
49
la massima riservatezza anche in un rapporto legittimo. Manifestare esplicitamente il
sentimento è sconveniente. Esso può esprimersi solamente nel privato delle mura
domestiche. L'atteggiamento della ragazza francese è, quindi, oggetto di stupore. Una
scena in particolare marca la differenza tra mondo musulmano e mondo francese.
L'episodio risale a quando l'autrice non aveva ancora 10 anni e la minore delle sorelle, a
cui l'autrice era più legata, frequentava ancora le scuole elementari e, quindi, non era
ancora stata rinchiusa; poteva dunque girovagare assieme all'autrice per le strade del
paese e svolgere varie commissioni per conto della madre, come portare a cuocere al
forno la teglia dei dolci o recarsi dalla moglie del poliziotto per qualche messaggio.
Proprio in una di queste "visite", le bambine assistono ad una scena che le turba e le
lascia incredule. All'interno della casa, Marie-Louise è abbracciata al fidanzato, proprio
nel corridoio che porta alla cucina dove la madre sta finendo il bucato e il padre legge il
giornale locale. La ragazza manifesta il suo affetto, in modo provocante, annota l'autrice,
e davanti al padre! La coppia, tra gridolini e risa soffocate, arriva addirittura a baciarsi.
L'ostentata tenerezza di Marie-Louise è all'origine di quella che, in seguito, verrà
chiamata l'afasia amorosa. In un altra occasione, nominando il fidanzato, la figlia del
poliziotto usa un'espressione vezzosa che ne deforma il nome, da Paul in Pilou. Agli
occhi dell'autrice questo è un modo, oltre che poco riservato, superficiale e ridicolo di
manifestare l'amore. Questo atteggiamento porta a una svalutazione dell'amore. Per
meglio comprendere la portata delle conseguenze di quest'atteggiamento riportiamo le
parole dell'autrice:
"Pilou chéri!", mots suivis de touffes de rires sarcastiques; que dire de la destruction que
cette appellation opéra en moi par la suite? Je crus ressentir d'emblée, très tôt, trop tôt, que
l'amourette, que l'amour ne doivent pas, par des mots de clinquant, par une tendresse
voyante de ferblanterie, donner prise au spectacle, susciter l'envie de celles qui en seront
frustrées... Je décidai que l'amour résidait nécessairement ailleurs, au-delà des mots et des
gestes publics.57
La Djebar completerà la sua concezione della parola amorosa in un altro paragrafo che
si intitola appunto L'aphasie amoureuse. Possiamo interpretare l'afasia amorosa come
frutto dell'introiezione dei divieti della cultura araba e come frutto del conflitto tra le
57 Ivi, p. 43.
50
culture araba e francese nell'interiorità dell'autrice. Per la donna araba le parole d'amore
sono non il corteggiamento che fa da preludio all'unione ma il coronamento dell'unione
stessa, il suo apice. Hanno, in questo modo, un valore molto più intenso. Sono un modo
per esporsi, per venire allo scoperto, per svelarsi. Come ho più volte ripetuto, questo può
avvenire solo nella dimensione circoscritta del privato. La disinvoltura con cui la figlia
del poliziotto francese le impiega le svuota di questa dimensione profonda, intima. Da
questo momento in poi l'autrice non riuscirà più né ad impiegare né ad accettare parole
d'amore o di tenerezza in lingua francese.
Anodine scène d'enfance: une aridité de l'expression s'installe et se retrouve aphasique.
Malgré le bouillonnement de mes rêves d'adolescence plus tard, un nœud, à cause de ce
“Pilou chéri”, résista: la langue française pouvait tout m'offrir de ses trésors inépuisables,
mais pas un, pas le moindre de ses mots d'amour ne me serait réservé.58
Così, le parole d'amore in francese che si riferiscono al corpo dell'autrice si svuotano
del loro significato, non possono raggiungere l'autrice. Di loro rimane solo il suono
insignificante che le scivola addosso senza lasciare traccia. Come se l'autrice indossasse
un velo simbolico. Il suo corpo grazie all'istruzione francese si occidentalizza a suo
modo: può godere della gioia di correre scoperto, alla luce del sole, durante le gare
scolastiche di atletica; ma non è in grado di affrontare le parole d'amore altrui. Così, ciò
che la narratrice guadagna in libertà per il fatto della sua cultura francese lo perde in
affettività, in relazioni umane. Si allontana da quelle stesse relazioni per la liberazione
delle quali consacrerà la sua attività di scrittrice. Perché ho affermato che questa afasia è
un retaggio della cultura d'appartenenza dalla quale si è allontanata? Le parole d'amore
sono viste come uno svelamento intimo che, nella cultura francese, avviene anzitempo,
dato che tali parole fanno parte del rituale del corteggiamento. L'apertura intima, lo
svelamento dei sentimenti, così come quello del corpo, può avvenire soltanto nel talamo.
Il fatto che i complimenti che le fanno gli uomini abbiano come oggetto il suo corpo
presuppone che questi lo vedano e questo fatto genera un blocco psicologico, derivante
da un'interiorizzazione del divieto paterno: si attiva quel velo interiore che sostituisce
quello materiale che nasconde il corpo e che l'autrice non porta. Questo blocco si
58 Ibidem.
51
manifesta anche al livello della scrittura. L'autrice, nel paragrafo I della seconda parte di
L'Amour, la fantasia, della corrispondenza segreta con un uomo che si svolge nei periodi
di temporanea clausura delle vacanze scolastiche. L'autrice non le concepisce come
lettere d'amore, ma come lettere del pericolo. Il sentimento amoroso, più che espresso,
viene dissimulato. Si cede alla costrizione di frasi sdolcinate, ci si consente l'abbandono,
ci si espone solo perché "l'amante" è lontano. Il rapporto col sentimento amoroso è
comunque problematico: sembra quasi che essa voglia sfuggirlo, che sia disposta ad
affrontarlo solo quando non c'è il rischio di un contatto-contagio diretto con l'amante.
Infatti, quelle lettere non sono concepite come lettere d'amore, ma come veicolo di
libertà. Probabilmente in questo grava il divieto paterno. Dissimulando l'amore si accetta
la costrizione quasi con gioia, dice l'autrice. Inoltre, la figura del padre è sempre presente,
come una vigile ombra minacciosa. In un dialogo immaginario con questo guardiano si
fornisce anche una giustificazione per questa scrittura apparentemente trasgressiva: «Tu
vois, j'écris, et ce n'est pas “pour le mal”, pour “l'indécent”! Seulement pour dire que
j'existe et en palpiter! Écrire, n'est-ce pas “me” dire»59
.
Segue il racconto del destino di un'altra lettera d'amore. Lo sposo dell'autrice, in un
periodo di lontananza, le scrive un'appassionata lettera in cui esprime il suo vibrante
desiderio, rievocando minuziosamente il corpo dell'amata. Ancora una volta agisce il
blocco psicologico: l'autrice non riesce a capacitarsi,ad accettare il fatto che quella lettera
la riguardi, che parli davvero di lei e del suo corpo. Lo sguardo dell'uomo sul corpo della
donna è già un possesso che deve restare unico. Capita, però, che un altro uomo, un
innamorato respinto, durante un soggiorno in Normandia avvenuto tempo dopo, legga
furtivamente la lettera defraudando il segreto. L'autrice ne viene sconvolta. In seguito, in
un giorno di mercato, una mendicante le sottrae il portafoglio in cui era custodita la
lettera e scompare. L'autrice non se ne da troppa pena; ne è quasi sollevata. Considera
l'accaduto come inevitabile, come atto di giustizia provvidenziale. Sostiene di non
meritare le parole d'amore contenute nella lettera perché violate dallo sguardo di un altro.
Ma già prima di questo episodio non sentiva quelle parole come rivolte a lei. Infatti, si
legge:
59 Ivi, p. 87.
52
Une intercession s'opère: je me dis que cette touffe de râles suspendus s'adresse, pourquoi
pas, à toutes les autres femmes que nulle parole n'a atteintes. Celles qui, des générations
avant moi, m'ont légué les lieux de leur réclusion, elles qui n'ont jamais rien reçu: aucune
voix tendue ainsi en courbe de désir, aucun message que traverserait quelque supplication
[...] La lettre que rangerai m'est devenue première lettre: pour les attentes anonymes qui
m'ont précédée et que je portais sans le savoir.60
La mendicante non riuscirà a leggere la lettera, perché in francese. Dunque si
immagina che verrà distrutta. Così la mendicante diventa ipostasi della censura paterna:
nell'immaginare la distruzione della lettera l'autrice rievoca la figura del padre intento a
distruggere sotto i suoi occhi il primo e innocente biglietto. «Chaque mot d'amour, qui
me serait destiné, ne pourrait que rencontrer le diktat paternel. Chaque lettre, même la
plus innocente, supposerait l'œil constant du père, avant de me parvenir»61
. Così quelle
parole ritrovano il posto che è loro dovuto.
La parola
L'espressione di sé, della propria soggettività, dei propri sentimenti è l'altro livello su
cui si esercita il controllo maschile sulla donna. Si tratta di una claustrazione sonora che
completa quella visuale imposta tramite l'occultamento del corpo. L'interdizione della
parola è meno visibile (e per questo meno nota agli occidentali) rispetto a quella visiva,
ma altrettanto (se non più) efficace in termini di ostacolo ad una piena esistenza. Con
questa seconda mutilazione la donna è completamente sottomessa al dominio maschile,
piegata alla sua volontà. Ma qual è l'origine, la motivazione di questa «etica musulmana
del silenzio»62
imposta alla donna?
Mantenendoci esclusivamente a quanto esposto dalla Djebar nel percorso
autobiografico, una prima risposta è identificata nella brama di potere e di dominio sul
mondo che l'uomo rivendica esclusivamente per sé. Si è trattato, nel paragrafo sul corpo,
del possesso esclusivo che l'uomo rivendica e vuole mantenere per sé verso lo spazio, il
mondo. Si è visto come la pretesa della donna allo spazio sia percepita come una
60 Ivi, pp. 88-89.
61 Ivi, p. 91.
62 RENATE SIEBERT, op. cit., p. 90.
53
minaccia e ostacolata con la claustrazione del corpo. E come la donna che esce sia
percepita come una concorrente, una rivale per la fruizione dello spazio. L'espressione
personale della donna viene ugualmente percepita come un pericolo perché l'espressione
del sentimento amoroso costituisce una potenzialità evasiva. Lo si è visto nel paragrafo
sull'amore. Per questo i vicini che vedono il padre portare sua figlia alla scuola francese
hanno per lui uno sguardo di rimprovero e di compianto. La sua ingenuità gli impedisce
di vedere a quali conseguenze questo atto potrebbe portare. Se, infatti, la fanciulla
sapiente imparerà a scrivere inevitabilmente scriverà "quella" lettera. Conquisterà uno
spazio autonomo di espressione attraverso il quale riuscirà ad evadere dalla prigionia,
eludendo la vigilanza dei suoi carcerieri. Il carceriere di un corpo senza parole non deve
far altro che segregarlo in casa, assicurandosi che tutte le uscite siano chiuse e
sorvegliate. Ma
si la jouvencelle écrit? Sa voix, en dépit du silence, circule. Un papier. Un chiffon froissé.
Une main de servante, dans le noir. Un enfant au secret. Le gardien devra veiller jour et
nuit. L'écrit s'envolera par le patio, sera lancé d'une terrasse. Azur soudain trop vaste. Tout
est à recommencer.63
Perché le parole scritte sono mobili. Diventano il mezzo tramite cui la donna esprime i
propri desideri e li trasportano, li fanno circolare.
Come si è detto, l'amore non deve essere espresso, poiché non ha peso nell'unione
matrimoniale, deve essere soffocato, costretto al silenzio perché significherebbe una
scelta autonoma da parte della donna, un pernicioso passo verso la libertà. Dato che la
volontà della donna è sottomessa a quella dell'uomo lo devono essere anche i suoi
desideri, i suoi sentimenti.
L'amore non deve essere espresso neanche nel rapporto tra coniugi. Nella cultura araba
la sposa non nomina mai il marito per nome, non impiega mai espressioni dirette ma usa
sempre il pronome di terza persona "lui". Anche l'uomo, quando in una conversazione si
riferisce alla moglie, usa generalmente un'espressione evasiva e dice: "la casa". Questa
regola dell'omissione del nome del coniuge vige anche nelle conversazioni tra donne,
segno di come le costrizioni della società araba che legittimano la loro sottomissione
63 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., pp. 11-12.
54
vengano interiorizzate ed agiscano anche in spazi intimi riservati esclusivamente alle
donne. A questa prassi si uniforma anche la madre dell'autrice, almeno inizialmente.
Infatti, l'autrice riferisce che dopo l'apprendimento del francese, nel riferirsi al coniuge
durante le conversazioni in francese e con persone francesi, impiega l'epiteto "mio
marito"; una rinuncia al riserbo abituale, all'etica musulmana del silenzio che certo le era
costato molto. Ma da quel momento fu come se «une écluse s'ouvrit en elle, peut-être
dans ses relations conjugales»64
, dice l'autrice. Infatti, molti anni dopo, quando per
l'estate tornava con la famiglia nella sua città, la madre, chiacchierando in arabo con le
cugine o le sorelle, «évoquait presque naturellement, et même avec une pointe de
supériorité, son mari: elle l'appelait, audacieuse nouveauté, par son prénom»65
. L'autrice
si rende conto che i genitori formano una coppia eccezionale. Infatti, anche il padre
contravviene alle usanze e costumi tradizionali, quando inviando una lettera alla moglie,
non impiega l'usuale formula evasiva e perifrastica "alla famiglia", ma scrive nome e
cognome della moglie, esponendolo alla vista di altri uomini. Con le parole dell'autrice,
questa è una «révolution manifeste»66
. Le donne che apprendono la notizia dalla madre
ne sono scandalizzate poiché percepiscono questo atto come un oltraggio al pudore.
Cosa comporta questa innovazione? Con l'etica musulmana del silenzio, il rapporto tra
coniugi è un rapporto quasi astratto, un anonimo meccanismo sociale che lega x con y.
L'individualità delle persone è schiacciata dall'anonimato dei rispettivi generi, ridotta ad
una condizione neutra dalle convenzioni retoriche appena accennate: l'uomo confuso
nella formula generica del pronome di terza persona; la donna nella formula "la casa" o
"la famiglia". Queste differenti modalità retoriche di riferimento al coniuge denunciano la
condizione di sottomissione della donna. Infatti, l'uso del pronome di terza persona o
della semplice terza persona viene impiegato anche in riferimento a Dio, cioè un essere
superiore, al cui volere ci si deve sottomettere. Viene in tal modo evocato il rapporto
generale che sottomette la donna all'uomo. D'altra parte, le espressioni "la casa" e "la
famiglia" con cui l'uomo si riferisce alla moglie sembrano quasi evocare un oggetto a
64 Ivi, p. 55.
65 Ibidem.
66 Ivi, p. 57.
55
disposizione dell'uomo, una sua proprietà, un attributo materiale. Con l'utilizzo del nome
proprio innanzitutto emerge l'individualità della persona e di conseguenza viene
dichiarato un legame che va al di là di un'istituzione sociale. Nominandosi
reciprocamente, i genitori della Djebar si amano apertamente senza falsi pudori.
L'interdizione dell'espressione del sentimento amoroso non è che una parte della
generale interdizione a qualsiasi espressione di sé imposta alla donna per mantenerla in
una condizione, per così dire, "oggettuale" rispetto all'uomo. L'espressione personale
comporterebbe l'acquisizione da parte della donna della propria soggettività, che a sua
volta comporterebbe la rivendicazione di una autonomia e di uguaglianza di diritti con
l'uomo, con la necessaria spartizione di spazio e potere che ne conseguirebbe.
Quest'esclusione totale dalla parola pubblica non lascia altro modo all'espressione
personale che i bisbigli scambiati nei patio bloccati, nel corso di riunioni esclusivamente
femminili.
Nel paragrafo La mise à sac di L'amour, la fantasia, vengono raccontate queste
riunioni tra donne a cui la Djebar ha assistito durante l'infanzia. Viene descritto una sorta
di rituale in cui le donne si dispongono in cerchio attorno alle più anziane di loro, a cui è
riservata un posizione di rilievo, e conversano su vari argomenti: problemi personali
legati alla famiglia, pettegolezzi su qualche famiglia assente ecc... Il rituale assume un
valore liberatorio: è uno dei momenti, dei pochi spazi riservati alla donna che può parlare,
sfogandosi. La condivisione di un destino di sofferenza ed emarginazione aiuta a
sopportarlo. Viene a crearsi una solidarietà particolare che lega le donne in un rapporto di
“sorellanza” tramite il quale ci si sostiene e ci si conforta a vicenda.
Chaque rassemblement, au cours des semaines et des moins, transporte son tissu
d'impossible révolte; chaque parleuse – celle qui clame trop haut ou celle qui chuchote trop
vite – s'est libérée. [...] Chaque femme, écorchée au-dedans, s'est apaisée dans l'écoute
collective.67
Ma anche in questi spazi di intimità agiscono le costrizioni culturali che incatenano la
donna. Infatti è vietato anche in questi ambienti esprimere la drammaticità della propria
sorte, della propria sofferenza in modo diretto, esplicito.
67 Ivi, p. 221.
56
Jamais le “je” de la première personne ne sera utilisé: la voix a déposé, en formules
stéréotypées, sa charge de rancune et de râles échardant la gorge. [...] De même pour la
gaieté, ou la bonheur – qu'il s'agit de faire deviner; la litote, le proverbe, jusqu'aux énigmes
ou à la fable transmise, toutes les mises en scène verbales se déroulent pour égrener le sort,
ou le conjurer, mais jamais le mettre à nu.68
Perché ciò equivarrebbe ad un'affermazione di sé, della propria esistenza nella sua
unicità, che alla donna è preclusa. Il velo che sono costrette a portare nel mondo esterno
per celare il proprio corpo si trasforma in velo interiore che nasconde le emozioni e i
sentimenti della donna.
Queste costrizioni culturali prima imposte, vengono poi accettate e interiorizzate dalle
donne stesse che ne sono vittime. Chi deve vigilare sul loro rispetto all'interno di
ambienti femminili sono le anziane, custodi della tradizione. La donna «diventa una
specie di uomo travestito e si mette a legiferare sulle altre donne che sono sotto il suo
potere»69
. L'autrice ci mostra questo meccanismo attraverso la figura della nonna
materna. Il nipote di quest'ultima era stato arrestato durante i sommovimenti rivoluzionari
seguiti all'armistizio che concludeva la seconda guerra mondiale, accusato di appartenere
ai cospiratori. Condannato ai lavori forzati in attesa del verdetto finale. Nella casa della
nonna si svolse un funerale alterato dall'assenza del cadavere. La nonna non condanna il
nipote perché malfattore o altro ma biasima la sorella perché durante quella riunione
aveva esternato con troppa enfasi il suo dolore. Per la nonna ciò che conta è «de se
maintenir à la hauteur du rôle que heur ou malheur vous imposait»70
. Soffocamento
dell'individualità della singola donna nell'astrattezza di un'entità collettiva. È proibito dire
"io" perché questo trascura «les formules-couvertures qui maintiennent le trajet
individuel dans la résignation collective»71
. In sintesi, dunque, queste riunioni tra donne
servono come sfogo che affievolisce le potenzialità di una rivolta contro l'ordine
costituito. In più, quell'ordine si ripercuote anche nel mondo femminile, si può dire in
tutti i suoi aspetti. Si analizzi il paragrafo Les voyeuses (a cui ho già fatto riferimento in
precedenza per altri motivi), che mostra concretamente l'interiorizzazione dei divieti che
68 Ibidem.
69 RENATE SIEBERT, op. cit., p. 199.
70 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 223.
71 Ibidem.
57
la tradizione impone alla donna. Esiste una differenza tra le donne velate che l'occhio
occidentale immagina tutte uguali. Più che la condizione sociale o il grado di ricchezza,
ciò che davvero isola ed espone al disprezzo delle altre donne è l'esternare i propri
sentimenti attraverso le grida. L'unica donna che si emargina dalle altre è la donna che
grida. Il rifiuto di velare la voce, il gridare costituiscono «indécence, la dissidence. Car le
silence de toutes les autres perdait brusquement son charme pour révéler sa vérité: celle
d'être une prison irrémédiable»72
. Nelle feste di infanzia dell'autrice compaiono le figure
delle "guardanti", ovvero donne invitate alle cerimonie ma costrette sotto un velo
integrale che le lascia scoperto solo un occhio. Non sono propriamente invitate ma hanno
il diritto di guardare. Ma solo questo. Per il resto è come se non ci fossero: non possono
rivolgere la parola a nessuno ne le si può rivolgere la parola. Sono delle comparse, una
muta presenza scenica, dei fantasmi. «Parce qu'elles sont exclues, elles gardent leur
voile»73
. Sono le donne che nella vita quotidiana gridano o hanno gridato. Questa la pena
per quelle che contravvengono all'etica musulmana del silenzio, per quelle che
manifestano apertamente il loro dolore e sembrano chiederne giustizia.
Dunque, un'ulteriore conferma di come le costrizioni culturali della società maschilista
agiscano anche nell'interiorità delle donne. L'esclusione dal mondo esterno è rafforzata da
quest'ulteriore esclusione interna al mondo delle donne. L'ordinamento sociale maschile
permea tutti i livelli della società. Attraverso quest'esclusione di donne fra donne, la
sottomissione generale viene accettata come giusta, viene sopportata con più serenità:
Comme si, à force d'être reléguées par les hommes, elles trouvaient une façon d'oublier leur
claustration: les mâles – père, fils, époux – devenaient irrémédiablement absents
puisqu'elles-même, dans leur propre royaume, se mettaient à imposer à leur tour le voile.74
Ecco allora il significato della scrittura autobiografica: esprimere la propria
soggettività, prenderne coscienza, resistere alla sepoltura del soggetto femminile che la
tradizionale società maschilista opera quotidianamente. Parafrasando il titolo dello studio
di Clerc, scrivere di sé trasgredendo all'etica musulmana del silenzio per resistere.
72 Ivi, p. 285.
73 Ivi, p. 286.
74 Ivi, p. 287.
58
Il rapporto con il proprio vissuto è una costante delle opere della Djebar: è un filo
rosso che si può ravvisare in tutti e quattro i romanzi della giovinezza. Nonostante
l'autrice tenga a rimarcare le distanze tra il suo vissuto personale e i suoi personaggi, la
somiglianza tra i due emerge comunque. La Djebar riconoscerà la presenza di una
componente autobiografica solo nel terzo romanzo, Les enfants du nouveau monde 1962,
per poi confrontarsi direttamente con la scrittura autobiografica nel romanzo successivo,
Les alouettes naïves 1967. Jeanne-Marie Clerc in Assia Djebar: écrire, trangresser,
résister individua due ragioni per cui la Djebar giunge in questo romanzo alla scrittura di
sé: la sua partecipazione, lontana e indiretta, alla Storia, durante al guerra di liberazione;
la volontà di trascrivere quest'esperienza. Quest'operazione passa attraverso ricordi
personali ed intimi. La Djebar stessa dice di non aver potuto impedirsi di parlare di sé.
Dopo il silenzio editoriale durato dieci anni, un periodo tutt'altro che improduttivo
dedicato all'ascolto e alla riflessione interiore e in cui si colloca la decisiva esperienza
cinematografica, matura la consapevolezza che ogni scrittura è uno scrivere di sé, un
esporsi. La Djebar comincia a porsi degli interrogativi che esigono risposta, come quello
sulla lingua, cioè del perché la sua lingua di scrittura sia il francese, dei suoi rapporti con
le altre lingue d'Algeria, o che cosa voglia dire essere algerini, o meglio algerine, che
cosa voglia dire essere un donna, scrittrice, nella società islamica. L'autobiografia si
configura come un viaggio nel tempo che coinvolge anche la storia generale del paese,
risalendo alle origini della penetrazione coloniale e, dunque, all'impianto di una nuova
lingua. La ricerca storica sarà quindi una ricerca identitaria che travalica la dimensione
strettamente personale, inglobandola nella dimensione collettiva del soggetto femminile.
59
CAPITOLO IV
EPISTEMOLOGIA DELLA STORIA
Soffermiamoci ora sul tema della storia. Il significato del termine “storia” è duplice:
da una parte, indica l'insieme di avvenimenti accaduti nel passato, dall'altra, i discorsi
scritti che riportano quegli stessi avvenimenti. Noi uomini del presente possiamo
accedere alla storia attraverso la sua dimensione scritta, cioè alla rappresentazione degli
avvenimenti accaduti nel passato. A questa trascrizione è connessa un'ambizione
veritativa, cioè una pretesa al vero che mira a riportare i fatti così come sono avvenuti.
Ma come si realizza metodologicamente questa tensione obiettiva verso il vero? Come
opera lo storico nello scrivere la storia? E soprattutto, qual è il grado di legittimità di
questa pretesa, quale la misura della sua effettiva realizzazione? Nel rispondere a queste
domande dovrò articolare un percorso che renda conto dell'epistemologia della
conoscenza storica. La mia esposizione sarà guidata da Paul Ricoeur, che dedica
all'argomento la seconda parte della sua monumentale opera La memoria, la storia,
l'oblio75
. Il filosofo francese articola in tre fasi la scrittura della storia:
1) fase documentaria;
2) fase esplicativa/comprensiva;
3) fase rappresentativa.
Queste tre fasi dell’operazione non sono distinte da una scansione cronologica, ma
sono momenti metodologici che si intrecciano gli uni agli altri.
75 PAUL RICOEUR, La mémoire, l’histoire, l’oubli (2000), trad. it. La memoria, la storia, l’oblio,
Milano, Cortina, 2003.
60
Fase documentaria
La prima fase riveste una particolare importanza poiché costituisce il momento di
transizione tra memoria e storia. La dimensione costitutiva della fase documentaria si
riallaccia alla nozione di traccia, di inscrizione, ossia una marca esterna di appoggio e
collegamento per il lavoro della memoria. Cosa costituisce documento, prova,
testimonianza di un fatto passato? Oggetti di varia natura: utensili, monete, edifici, tombe
monumenti, inscrizioni, contratti, lettere private e documenti pubblici, ecc… A noi
interessano qui esclusivamente gli oggetti che hanno a che fare con la scrittura, più
precisamente le testimonianze. Proprio la testimonianza è lo strumento fondamentale del
passaggio tra memoria e storia. Essa si fa prova documentaria attraverso il passaggio
dalla memoria dichiarata alla sua registrazione scritta e archiviazione. Dalla
testimonianza parlata si ha la testimonianza scritta: ecco la prima mutazione storica della
memoria viva. Il ricorso della storia alla testimonianza è dato dal fatto che il suo oggetto
non è semplicemente il passato ma gli «uomini nel tempo»76
. Di qui l'importanza della
memoria viva, della memoria dei superstiti o più in generale della memoria dei testimoni
di un dato avvenimento. Questo implica un rapporto fondamentale tra presente e passato.
La categoria della testimonianza entra in scena come traccia del passato nel presente. Ma
in che modo, secondo quali criteri una testimonianza si fa documento di un certo fatto?
Ricoeur sviluppa il suo percorso esplicativo partendo dalle componenti essenziali
dell'atto del testimoniare. La testimonianza altro non è che un racconto
autobiograficamente documentato di un avvenimento passato. L'atto del testimoniare
comporta due versanti distinti ma articolati l'uno sull'altro: asserzione quanto alla realtà
fattuale dell'avvenimento riportato; autenticazione della dichiarazione basata
sull'esperienza del suo autore, sulla sua credibilità. L'asserzione di realtà non è separabile
dal suo autore, il testimone. Infatti la formula tipo della testimonianza è “Io c'ero”.
Questa dimensione solitaria dell'essere stato testimone di un avvenimento si inscrive in
un contesto dialogico nel momento in cui si passa all'atto del testimoniare: è davanti ad
un altro che il testimone attesta la realtà dell'avvenimento cui ha assistito. La struttura
76 PAUL RICOEUR, op. cit., p. 239.
61
dialogica fa immediatamente emergere la richiesta fiduciaria: il testimone chiede di
essere creduto. Ma quanto è affidabile la testimonianza? I parametri di accreditamento,
cioè l'affidabilità del testimone si basano sui suoi titoli personali ad essere abitualmente
creduto e sulla sua ordinaria reputazione. Ovviamente, una testimonianza pretende di
essere creduta ma non sempre rappresenta il vero. E questo per motivi che vanno dalla
fallacia della capacità umana di memoria alla possibilità di mentire. La possibilità del
sospetto apre uno spazio di controversia in cui sono messi a confronto diverse
testimonianze e testimoni, analizzandone i diversi gradi di credibilità. Il testimone che
richiede la fiducia dell'altro, per provare la sua sincerità non teme il confronto anzi lo
incita. Egli dice: “se non mi credete, chiedete a qualcun altro”. Una testimonianza può
essere smentita o rafforzata da altre testimonianze.
La testimonianza, in quanto reiterabile, può essere raccolta per iscritto, depositata e
conservata. La fase dell'archiviazione si basa sull'iniziativa di una persona fisica o
morale, o di un'istituzione, che mira a preservare le traccie della sua attività. Si inaugura
in tal modo l'atto del fare storia. Il materiale viene raccolto, ordinato e depositato in un
archivio. Questo è, dunque, il luogo fisico in cui si conservano le tracce del passato,
messe in tal modo a disposizione degli storici o di chiunque sia abilitato alla
consultazione dell'archivio.
Con la fase dell'archiviazione l'operazione storiografica entra nella dimensione scritta.
Ricoeur sottolinea il fatto che, da questo momento, la testimonianza fattasi documento
persegue una «carriera che in senso stretto possiamo dire letteraria»77
. Perché appartiene
al racconto la possibilità di essere staccato dal suo narratore. Inoltre, una volta messo per
iscritto, ogni discorso arriva nelle mani di tutti e essendo avulso sia dal suo contesto che
dal suo autore, può essere più o meno frainteso. Un documento d'archivio non ha un
destinatario preciso, a differenza della testimonianza orale rivolta ad un determinato
interlocutore: esso è potenzialmente aperto a chiunque è in grado di leggere. La ricerca
storica si basa su una «lotta con il documento»78
, secondo l'espressione del grande storico
77 Ivi, p. 235.
78 Citato in Ricoeur, Paul, La mémoire, l’histoire, l’oubli (2000), trad. it. La memoria, la storia,
l’oblio, op. cit., p. 243.
62
francese Marc Bloch, secondo modalità critiche e metodologiche proprie della filologia.
La finalità della critica della testimonianza è la distinguere il vero dal falso attraverso
un'accurata analisi dei documenti. Quindi, il confronto tra diverse testimonianze sarà una
buona prassi per lo storico che voglia dare maggiore attendibilità all'accadimento di un
fatto. Ma, come dice giustamente Ricoeur echeggiando Bloch, si tratta di maggiore o
minore attendibilità, non di certezza assoluta. Nonostante sulla realtà effettiva di
determinati avvenimenti non è lecito dubitare, lo storico metodicamente mette tutto in
discussione, sottoponendolo al vaglio critico. Emerge chiaramente il carattere largamente
probabilistico della conoscenza storica, che è indiretta, indiziaria, congetturale.
Ora, ai documenti viene conferito il carattere di prova dagli storici. Si parla, infatti, di
prova documentaria a sostegno di un determinato fatto. Ma , si chiede Ricoeur, cosa
significa “provare” per un documento? E che cosa è ciò che, in tal modo viene
provato?Innanzitutto, ai documenti si può conferire valore di prova perché lo storico si
reca in archivio con delle domande. «Non c’è osservazione senza questione, non fatti
senza ipotesi. […] Il documento è istituito attraverso il questionamento»79
. Perché,
potenzialmente, qualsiasi residuo del passato è un documento e può divenire una prova.
La nozione si questionamento rimanda all'esistenza di un'ipotesi interpretativa che
richiede di essere convalidata con delle prove concrete, cioè, nel caso dello storico, i
documenti, appunto. Lo storico, guidato da un ipotesi interpretativa, inquadrerà, nella
molteplicità dei documenti, solo quelli funzionali alla sua interpretazione. È questa la
stessa posizione rivendicata da Carr anche in relazione ai cosiddetti “fatti storici”, ossia
quei fatti documentati in modo incontrovertibile e sui quali non è legittimo alcun
sospetto.
La risposta più netta e immediata che generalmente si da alla domanda “Che cosa
prova un documento?” è la seguente: un fatto, dei fatti. Ma Ricoeur ci mette
opportunamente in guardia dalla confusione tra fatti accertati e avvenimenti sopraggiunti.
Perché un fatto non coincide con quanto è realmente accaduto, tale e quale a come è
accaduto. Questa confusione a portato all'erroneo accostamento tra il fatto in storia e il
fatto empirico delle scienze naturali. Il fatto, in storia, è il contenuto di un enunciato che
79 PAUL RICOEUR, op. cit., p. 250.
63
mira a rappresentare un determinato avvenimento, non l'avvenimento stesso. Inteso in
questo modo, si può dire che il fatto è costruito da un'astrazione che lo libera da una serie
di documenti, di cui, d'altra parte, si può dire che lo istituiscono. Ma si tratta sempre di un
enunciato. Allora qual è il ruolo dell'avvenimento nella storiografia? Ricoeur afferma che
esso figura nel discorso storico a titolo di suo referente ultimo. Egli distingue «il fatto in
quanto “cosa detta”, il “che cosa” del discorso storico dall'avvenimento in quanto “cosa
di cui si parla”, l'“in merito a che cosa” è il discorso storico»80
. A questo proposito
richiama la differenza tra l'enunciato e il suo referente della linguistica generale. Questa
prospettiva referenziale entro cui è collocato il discorso storico conferma la legittimità
della sua ambizione veritativa. Così come l'enunciato possiede un referente reale e a
questo rimanda, il discorso storico, attraverso i fatti istituiti dai documenti, rimanda alle
cose passate così come sono avvenute.
Fase esplicativa/comprensiva
La seconda fase afferma l’autonomia della storia dalla memoria sul piano
epistemologico. Essa si basa sul chiarimento dei modi di concatenazione dei fatti
documentati, illustrando cause ed effetti a diversi livelli (economico, politico, psichico
ecc…). Si possono leggere e scrivere narrazioni su avvenimenti del passato senza che vi
sia interesse riguardo al come e al perché essi si verificarono, o limitarsi a enunciare una
sola causa generica, ad esempio dicendo che la seconda guerra mondiale scoppiò perché
Hitler voleva la guerra; cosa che potrebbe essere vera ma che non spiega assolutamente
nulla. Dunque, la differenza fondamentale tra storia e memoria risiede nella
comprensione degli eventi attraverso la spiegazione del come e del perché si siano
verificati. Come dice Ricoeur, spiegare equivale a dare una risposta alla questione
"perché?" mediante un uso articolato del connettore "poiché". La storia è il dominio degli
avvenimenti del passato inquadrati in una connessione coerente di cause ed effetti.
Esistono due modalità di spiegazione che devono essere impiegate entrambe, incrociate e
sovrapposte per una corretta comprensione storica degli avvenimenti:
80 Ivi, p. 254.
64
1) impostazione causale, che risponde alla domanda "perché una data cosa è
avvenuta?";
2) impostazione funzionale, che risponde alla domanda "come una data cosa è
avvenuta?".
Generalmente, all'origine di un determinato avvenimento lo storico individua non una
ma una serie di cause concomitanti. Lo storico ha a che fare con un gran numero di cause
che occorre tenere nel debito conto. Sarebbe un errore concentrare tutta l'attenzione nella
considerazione di un'unica causa senza tener conto delle altre. Ma sarebbe ben poco utile,
ai fini della corretta comprensione, un elenco senza criterio di tutte le possibili cause che
hanno concorso nell'accadimento di un certo fatto. Per questo si rende necessaria una
gerarchia delle cause che assegni a ciascuna causa il suo grado di importanza. Ogni
discussione storica ruota attorno al problema della priorità delle cause. Grazie ai
contributi recenti che diversi ambiti di studio, come l'economia o le scienze sociali, hanno
dato allo studio della storia si è assistito ad un notevole approfondimento nella ricerca
delle cause di un dato fenomeno. Con l'ampliamento e l'approfondimento della ricerca si
è giunti ad un ambito sempre più vasto e articolato di antecedenti significativi, di risposte
alla domanda "perché?". Come per la scienza in generale, anche nella storia il progresso
nella conoscenza si attua attraverso un apparentemente contraddittorio processo di
moltiplicare e al contempo semplificare le cause. È immediatamente comprensibile come
questa operazione sia soggettivamente orientata. Infatti, sia la selezione delle cause sia il
loro inquadramento in un sistema ordinato secondo un principio di importanza dipendono
dall'interpretazione dello storico. L'essenza dell'interpretazione è l'attribuire una relativa
importanza a una causa o a un gruppo di cause. Si ripresenta la stessa situazione
riscontrata per la selezione dei fatti storici: «le cause determinano l'interpretazione del
processo storico, e l'interpretazione determina la scelta e l'ordinamento delle cause»81
.
Fase rappresentativa
81 EDWARD CARR, What is History? (1961), trad. it. Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966, p. 110.
65
La terza fase è quella della rappresentazione letteraria dei fatti documentati, della loro
connessione nel loro svolgimento. A questa fase si attribuisce, a torto secondo Ricoeur, il
titolo di scrittura della storia o storiografia. Una tesi costante del pensiero di Ricoeur,
invece, sostiene che «la storia è scrittura da parte a parte: dagli archivi ai testi degli
storici, scritti, pubblicati, dati da leggere»82
. Il libro di storia, coronamento del “fare
storia”, inserisce il suo autore nella dimensione del “fare la storia”: costruito a partire dai
documenti dell'archivio, a sua volta il testo dello storico si fa documento, aperto alla
sequenza delle reinscrizioni che caratterizza la conoscenza storica come incessante
processo di revisione. Torneremo fra breve a questo aspetto della conoscenza storica.
Analizziamo ora più da vicino le modalità che caratterizzano la rappresentazione
letteraria della storia. Quest'ultima inscrizione manifesta l'appartenenza della storia
all'ambito della letteratura (appartenenza implicita fin dalla fase documentaria).
Occorrerà, dunque, spiegare come questa appartenenza non infici né il carattere
scientifico né l'ambizione al vero della conoscenza storica. Una volta raccolti i fatti
(istituiti da diversi documenti, come si è detto) e averli inquadrati in un sistema coerente
di connessione causale, occorre dare a tutto questo materiale una forma narrativa che
consenta di trasmetterne il contenuto. Ma quale differenza c'è tra narrazione storica e
narrazione finzionale se entrambe raccontano? La differenza risiede nel fatto che
l'operazione di configurazione narrativa in storia non è una fase distinta e separabile dalle
precedenti: essa si compone con tutte le modalità della spiegazione/comprensione che
connettono tra loro i diversi fatti istituiti dai documenti. Raccontare significa anche
spiegare. Le categorie narratologiche di avvenimento e di portata, strettamente
interdipendenti, dimostrano questa proprietà intrinseca ad ogni tipo di racconto.
L'avvenimento è definito, nella narratologia, come ciò, che accadendo, fa progredire
l'azione, modificando una determinata situazione di partenza. È, dunque, un mutamento,
una variabile dell'intreccio. Il concetto di portata indica quali conseguenze possiede un
determinato avvenimento nello svolgimento dell'azione. L'intreccio che compone un
racconto, consiste nel condurre un'azione complessa da una situazione iniziale ad una
terminale per il tramite di trasformazioni regolate e connesse in un rapporto di
82 PAUL RICOEUR, op. cit., p. 335.
66
consequenzialità logica. Raccontare significa in un certo modo spiegare come e perché si
ha questo passaggio da una situazione A ad una B, scandendone tutti i passaggi in modo
coerente. La coerenza narrativa, dice Ricoeur, «apporta in proprio quella che ho chiamato
sintesi dell'eterogeneo per dire la coordinazione sia tra molteplici avvenimenti, sia tra
cause, intenzioni e anche casi, all'interno di una stessa unità di senso»83
. A difesa
dell'intenzionalità della narrazione storica di rappresentare il passato, Ricoeur ribadisce il
fatto che il racconto e la spiegazione dei fatti si basa sui documenti, che a loro volta
rinviano alla testimonianza e alla fiducia accordata alla parola d'altri, e afferma: «non
abbiamo niente di meglio della testimonianza e della critica della testimonianza per
accreditare la rappresentazione storica del passato»84
. L'intento referenziale del discorso
storico è salvaguardato dall'ancoraggio alla prova documentaria, referente specifico del
discorso storiografico. Il documento assume lo statuto di punto di riferimento obbligato
per la conoscenza storica, vincolo per le possibili interpretazioni. Questo è lo scarto
principale che separa il racconto storico da quello di finzione. Entrambi vogliono essere
rappresentazioni di una cosa assente. Questa può essere tanto una cosa irreale, inesistente
quanto una cosa passata, cioè non essente più. Ma il passato, una volta passato, non può
più non essere stato; in tal modo si configura come essente-stato, cioè come esistente al
passato. «Colui che è stato non può più non essere stato: ormai questo fatto misterioso e
profondamente oscuro dell'esser stato è il suo viatico per l'eternità»85
. Questa citazione
che Ricoeur colloca ad apertura della sua opera fonda la possibilità di ritenere il passato
attraverso le sue tracce, quali sono i documenti archiviati.
I limiti della Storia
Analizziamo ora quali sono i limiti intrinseci alla pretesa della storia alla verità.
Nell'esposizione della tre fasi dell'operazione storiografica è emersa l'entità
dell'importanza che riveste l'interpretazione per la conoscenza storica. Essa attraversa
83 Ivi, p. 347.
84 Ivi, p. 402.
85 VLADIMIR JANKELEVITCH, L'irreversible et la nostalgie, Paris, Flammarion, 1974, p. 275.
67
trasversalmente tutte e tre le fasi che ho esposto sopra, con particolare rilevanza nella
selezione dei fatti e delle cause e nel oro ordinamento gerarchico. Questo fenomeno si
origina dallo statuto epistemologico della storia. Uno dei parametri fondamentali delle
scienze naturali (le cosiddette scienze esatte) è la netta separazione tra soggetto e oggetto
dell'indagine scientifica. Nelle scienze sociali, di cui la storia fa parte, il soggetto e
l'oggetto della ricerca sono della stessa natura e influiscono reciprocamente uno sull'altro.
L'uomo è senza dubbio la più complessa delle entità naturali a noi note ed è destinato a
essere studiato da altri uomini. Il sociologo e lo storico devono studiare dei tipi di
comportamento umano che, inevitabilmente caratterizzano anche loro stessi. Questo
comporta, nel nostro caso, che il punto di vista dello storico entra a far parte di ognuna
delle sue osservazioni. Ne consegue che il modo di percepire e interpretare un
determinato periodo della storia dipende in un certo grado dall'individualità dello storico,
dalle sue attitudini e convinzioni personali, dalla sua posizione sociale e infine dall'epoca
in cui vive. Infatti, dal momento in cui si nasce, il mondo circostante comincia a
modellare l'individuo e a trasformarlo da unità meramente biologica ad unità sociale.
L'ambiente circostante plasma e determina il carattere della sua attività mentale. E questo
avviene, ovviamente, anche per lo storico che, in tal modo, ancora prima di scrivere di
storia è un prodotto della storia. Quindi è impossibile comprendere pienamente l'opera di
uno storico senza considerarne il punto di vista e senza avere ben chiaro che questo punto
di vista si situa in un contesto storico e sociale. Dato che il pensiero degli storici, come
quello degli altri individui, è plasmato dal tempo e dall'ambiente circostante, si spiega il
carattere si ricerca incessante, in continua evoluzione della conoscenza storica. I criteri
con cui consideriamo la storia in generale o determinati periodi del passato mutano con il
passare del tempo, sono soggetti, via via che la storia prosegue, a continue modificazioni
e riassestamenti. Ecco perché è impossibile la scrittura di una storia definitiva.
Le considerazioni appena esposte non devono portare alla perniciosa conclusione che,
dal momento che la storia è costituita da molteplici punti di vista, ogni interpretazione è
valida e una vale l'altra, perché ciò equivarrebbe ad affermare che la conoscenza storica
manca totalmente di obiettività negandone, il tal modo, il suo valore conoscitivo. Infatti,
lo storico che è maggiormente consapevole dell'influenza che esercita la sua situazione
68
personale, il suo punto di vista, è anche in grado di trascenderla. Ci sono degli storici che
scrivono una storia più duratura, più obiettiva, proprio perché sono riusciti ad astrarsi
dagli interessi particolari della propria posizione, storica e sociale, ed avere una visione
più globale, che comprende altri punti di vista oltre al suo. La natura dell'obiettività
storica non può essere fattuale, non può essere costituita da criteri immutabili esistenti qui
e ora. Si tratta, piuttosto, di un'obiettività relazionale, cioè «riferita alla relazione tra fatti
e interpretazione, e tra passato, presente e futuro»86
, come dice Carr. Il criterio
dell'obiettività storica non può che essere situato nel futuro e non può che evolversi
parallelamente allo sviluppo storico. Lo storico obiettivo proietta la sua visione nel futuro
così da acquisire una più profonda e durevole comprensione del passato rispetto a quella
raggiunta dagli storici la cui visuale è condizionata dalla loro situazione immediata.
Dunque, l'interpretazione possiede questo ruolo decisivo nella produzione della storia.
Ricoeur la concepisce come un'operazione che si realizza attraverso un complesso di atti
di linguaggio – enunciazioni – incorporato agli enunciati oggettivanti del discorso storico.
Le componenti fondamentali di questo complesso sono:
1) la preoccupazione di chiarificare, di esplicitare e dispiegare alcune significazioni
che si ritengono oscure per una migliore comprensione da parte dell'interlocutore;
2) il riconoscimento del fatto che è sempre possibile una diversa interpretazione e
ammettere in tal modo un certo grado di controversia;
3) la pretesa di dotare l'interpretazione assunta con argomenti plausibili, probabili
sottoposti alla parte avversa;
4) il riconoscimento che dietro l'interpretazione c'è sempre un fondo opaco e
inesauribile di motivazioni personali e culturali di cui il soggetto non finisce mai
di rendere conto.
Questo complesso operativo costituisce, ammettendolo e denunciandolo, quel versante
soggettivo correlativo a quello oggettivo che costituisce la conoscenza storica.
Il senso della Storia
86 EDWARD CARR, op. cit., p. 128.
69
Ma perché cercare di ricostruire quanto avvenuto in epoche passate, in tempi così
distanti dal nostro? Perché la storia? Quale è il senso della storia?
La conoscenza del passato è strettamente funzionale alla conoscenza del presente,
poiché significa ricostruire le dinamiche che hanno fatto evolvere una data società fino
alla situazione presente. Ma significa anche cogliere alla luce degli avvenimenti del
passato possibilità di azioni future attraverso il riscontro di analogie e modelli con cui
leggere la situazione presente e pianificare su questa base dei possibili interventi.
La storia, la conoscenza del passato si configura, dunque, come uno strumento
conoscitivo del presente e come guida, orientamento per le azioni future. Accrescere la
conoscenza dell'ambiente circostante e la possibilità di dominarlo. La storia viene
concepita come strumento di interpretazione della realtà.
Il passato è comprensibile per noi solo alla luce del presente, e possiamo comprendere il
presente solo alla luce del passato. Far sì che l'uomo possa comprendere la società del
passato e accrescere il proprio dominio sulla società presente: questa è la duplice funzione
della storia.87
La moderna concezione della storia sembra postulare, dunque, un intima connessione
fra le tre dimensioni temporali del passato, presente e futuro che sono si distinte ma
strettamente interdipendenti, sostenendo che dal passato si possono trarre delle lezioni,
non solo per comprendere meglio il presente ma anche per orientare le nostre azioni
future. Questo processo di apprendimento non è mai unilaterale: «imparare a intendere il
presente alla luce del passato significa anche imparare a intendere il passato alla luce del
presente. La funzione della storia è di promuovere una più profonda comprensione del
passato e del presente alla luce delle loro reciproche interrelazioni»88
. Questa
comprensione, come già detto, è più profonda e completa solo se si guarda al futuro.
Nella prospettiva di un orizzonte d'attesa la conoscenza del passato trova la sua funzione
concreta. Ancora una citazione da Carr che sintetizza efficacemente quanto esposto fino
ad ora:
Soltanto il futuro può fornire la chiave per l'interpretazione del passato, e soltanto in questo
87 Ivi, p. 61.
88 Ivi, p. 74.
70
senso possiamo parlare, in ultima analisi, di un'obiettività della storia. Il fatto che il passato
getti luce sul futuro e il futuro getti luce sul passato è insieme la giustificazione e la
spiegazione della storia.89
Il ricorso alla Storia nella Djebar
Tenendo presenti queste riflessioni sulla storia in generale, analizzerò i capitoli storici
dei due romanzi per stabilire di quale natura siano, se cioè siano storiografia o porzioni di
testo romanzesche che fanno riferimento a determinati eventi storici. Si ricordi che la
Djebar è un'esperta del settore in quanto laureata in storia, e storica di professione. Si da
per scontato, quindi, che sia una profonda conoscitrice delle problematiche che ho
esposto sopra, come del metodo storico in generale. Inoltre, durante la guerra di
liberazione ha avuto modo molto di confrontarsi con queste questioni in modo diretto
insegnando, giovanissima, la storia ai giovani algerini. Insomma, il confronto con le
problematiche e la metodologia della storia sono ampiamente collaudate. Ciò per
anticipare fin da ora che qualsiasi scarto da quel metodo è estremamente consapevole e
possiede perciò una precisa motivazione estetica e poetica.
Diversi sono glia argomenti storici riportati nei due romanzi. In L’Amour, la fantasia
si ricostruiscono alcuni episodi della colonizzazione francese dell’Algeria. In Vaste est la
prison si ricostruiscono le tappe della scoperta e della decifrazione della stele di Dougga
in cui sono conservati i resti dell’alfabeto tifinagh, che si suppone sia l’alfabeto perduto
del berbero parlato dalla tribù nomade dei Tuareg. Due argomenti che rivestono una
diversa funzione nell’economia dei due testi, ma che hanno qualcosa in comune. Ciò che
mi interessa dire in questa sede è che in entrambe le ricostruzioni la Djebar si comporta
da autentica storica (ma con significative deviazioni, come ho già anticipato). Riporta
date precise degli avvenimenti che descrive; utilizza e cita puntualmente documenti
reperiti negli archivi francesi e li integra con fonti arabe, confrontandole fra loro. Il
ricorso a testimonianze dirette e indirette sarà una costante dei paragrafi storici delle
prime due parti del testo. E nel corso della narrazione vengono puntualmente citati, o ci
89 Ivi, p. 131.
71
viene comunque fatto sapere su quali documenti si basa il resoconto dell'autrice. Proprio
come la metodologia della storiografia prescrive. La Djebar impiega resoconti scritti di
testimoni oculari come capitani, generali, soldati pittori e letterati francesi e arabi. Ad
esempio, per la ricostruzione della conquista di Algeri, avvenuta nel 5 luglio 1830,
utilizza il resoconto di Amable Matterer, capitano in seconda del Città di Marsiglia, una
nave facente parte della flotta che attaccò la capitale algerina il 13 giugno 1830. E per
descrivere il combattimento di Staouéli, il barone Barchou de Penhoën, aiutante del
generale Berthezène, responsabile dei primi reggimenti impegnati nella battaglia che ha
partecipato direttamente hai combattimenti. Quindi, un testimone oculare in grado di
riferire quanto accaduto nel cuore dei combattimenti. È presente l'ordinamento gerarchico
delle cause di un determinato avvenimento. Sempre per la battaglia di Staouéli elenca le
cause della sconfitta araba. Prima illustra brevemente la tattica dell'agha Ibrahim,
comandante delle truppe arabe, che fa affidamento sulle consuete rapide manovre dei
suoi soldati confidando anche sulla superiorità numerica. Ma, scrive «l'agha néglige ce
qui pèsera finalement sur l'issue: la supériorité de l'artillerie occidentale et surtout, face
aux discordes des chefs indigènes, l'unité de commandement et de tactique des
Français»90
. Siamo davanti ad una spiegazione causale dell'esito della battaglia. Entra in
gioco la dimensione della spiegazione/comprensione attraverso la ricerca delle cause e la
loro gerarchia.
Tutto questo per far capire che non si tratta di personaggi verosimili ma comunque
fittizi calati in un contesto storico, ma di personaggi ed eventi storici veri e propri,
rievocati e raccontati secondo le modalità dell'operazione storiografica che ho esposto
precedentemente.
La storia nell'autobiografia
Perché la storia in un testo letterario? Perché la storia in un'autobiografia?
Si è detto sopra che nell'autobiografia della Djebar, l'osservazione e l'analisi di se
stessi è integrata dall'osservazione e l'ascolto delle altre donne. Attraverso il confronto
90 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., pp. 29-30.
72
con il sociale l'autrice definisce meglio la sua individualità. Entrano dunque in gioco i
due possibili valori dell'autobiografia proposti da Misch. Quest'ultimo, nella sua
Geschichte der Autobiographie, articola la riflessione in due parti proponendo due
possibili orizzonti teorici, due diversi tipi di approccio nello studio dell'autobiografia: 1)
autobiografia come significato storico-sociale; 2) autobiografia come significato
personale. Queste due dimensioni sono entrambe presenti nella Djebar, si compenetrano
ed esistono l'una per l'altra. Ne consegue che il percorso autobiografico è al contempo
documento-testimonianza di un problema sociale e espressione della propria
individualità. Potremo affermare che la Djebar realizza, in tal modo, il modello di
autobiografia proposto da Goethe. Questo disegna un percorso «dalla “ristretta sfera”
della “vita privata” al "vasto mondo"»91
. I personaggi e gli eventi del "mondo" sono
riportati esclusivamente in quanto in rapporto con l'autobiografo, cioè solo se incidono
sul suo sviluppo. Per Goethe, lo scopo dell'autobiografia è rappresentare l'uomo in
relazione alla sua epoca. Sostiene ancora (in questo molto vicino a quella che sarà la
posizione di Dilthey) che l'uomo può essere colto pienamente solo nel suo momento
storico e in una prospettiva unitaria che comprenda l'individuale alla luce dello storico e
viceversa. Ma la nostra autrice compie un passo ulteriore: i riferimenti storici non si
limitano alla dimensione presente ma fanno riferimento anche a determinati avvenimenti
del passato. E questo per meglio comprendere la situazione presente, risalire alla sua
origine e ricostruirne le dinamiche di formazione, che è una delle proprietà costitutive
della storia, o meglio del senso della storia. Quello della Djebar è quindi un viaggio nel
tempo per rendere conto della situazione presente, della sua identità rapportata alla
società in cui vive.
Ho detto che la ricerca identitaria è il fulcro della spinta autobiografica, la sua ragion
d’essere. Con l’inserimento di paragrafi storici che trattano del passato coloniale la
Djebar sembra condividere la concezione della personalità espressa da Misch nella sua
monumentale opera sulla storia dell’autobiografia. Secondo quest’ultimo il concetto di
personalità non è ricavabile esclusivamente dall’individualità del singolo, ma risulta da
un incrocio tra individuale e connessioni sovra individuali, tra natura e cultura. La
91 FRANCO D'INTINO, op. cit., p. 198.
73
personalità sarebbe dotata di una forza che Misch intende come capacità formativa, cioè
capacità di integrare in sé gli influssi del mondo. Così il processo formativo della
personalità non esplica nel chiuso del soggetto ma nella relazione immediata tra io e
mondo. Ora, il mondo esercita i suoi influssi nell’individuo attraverso le istituzioni che
regolano i rapporti sociali. Queste istituzioni, così come i valori che costituisco i modelli
comportamentali di una data cultura, sono il prodotto di un’evoluzione storica. Così, se
riprendendo la definizione di Goethe riportata sopra, comprendere la propria identità
significa comprendere l’individuale alla luce dello storico, ecco che l’autrice esplora il
passato storico del suo paese per comprendere i meccanismi che guidano il presente.
Ma l’autrice non fa certo la storia delle istituzioni sociali del suo paese, né tenta di
ricostruire l’origine della sottomissione della donna nella società islamica (intento questo
che sostanzierà un altro testo, Loin de Medine). Allora perché sostengo che il viaggio nel
passato, la rievocazione di alcuni cuoi frammenti sono un approfondimento della ricerca
identitaria propria dell’autobiografia?
I frammenti storici presenti in L’Amour, la fantasia trattano, come si è visto, della
colonizzazione francese. Essa è stato un evento fondamentale che ha segnato la storia
dell’Algeria e del suo popolo. Non si è trattato solo di una conquista militare, di
territorio; è stata anche una penetrazione culturale, di cui il retaggio più evidente è la
lingua francese. Uno dei motivi per cui la ricerca identitaria risulta approfondita dallo
sguardo nel passato è proprio quest’eredità straniera, che per la Djebar genera tutta una
serie di conseguenze che modificheranno, come esposto nel percorso autobiografico,
anche la condizione materiale della sua esistenza. Gli interrogativi sulla lingua sono, anzi,
l’autentico motore che l’ha spinta alla scrittura autobiografica, come ci dice lei stessa
nell’intervista della Siebert. La questione della lingua, come eredità culturale è dunque un
argomento fondamentale che attraversa interamente non solo L’Amour la fantasia ma
anche Vaste est la prison. Per la sua importanza, mi soffermerò più a lungo in seguito sul
tema, al quale sarà dedicato un intero capitolo.
Ma c’è un altro motivo per cui il ricorso alla storia attiene ad un approfondimento
identitario. Infatti, pur trattando della colonizzazione francese, un fenomeno di lunga
durata che coinvolge l’intera popolazione algerina senza distinzione di sesso, il discorso
74
storico si concentra in larga misura su figure femminili. Questo è evidente nella terza
parte, in cui a prendere la parola per narrare esperienze belliche sono esclusivamente
donne. Ma il fenomeno si verifica anche nelle prime due parti, in modo meno diretto e
forse, proprio per questo, ancor più significativo.
Sembra che al centro del discorso della Djebar sul passato coloniale non siano gli
avvenimenti importanti per una corretta ricostruzione storica del periodo. Non è questo
l’interesse dell’autrice, tanto è che non fa che un breve e rapido cenno ad una delle figure
che più importanti nella storia della resistenza algerina quale quella dell'emiro
Abdelkader, figura centrale della resistenza algerina, e alle sue imprese.
La ricerca storica come ricerca identitaria
Ma allora qual è il motivo che spinge l'autrice in questo viaggio di ricerca nel passato
coloniale del suo paese? E, prima ancora, come viene presentata la storia che rievoca?
Occorre precisare, infatti, che la narratrice organizza il suo discorso, sia storico che
autobiografico, non in modo esaustivo, seguendo in modo continuo, lineare, cronologico
lo sviluppo delle vicende. La ricostruzione avviene in modo frammentario, attraverso
l'accostamento di sezioni spazio-temporali che spezzano il continuum degli avvenimenti.
Così, ecco che per la storia, in L'Amour, la fantasia, ci viene fornita una ricostruzione
completa (e dettagliata) solo della presa di Algeri avvenuta tra il 13 giugno e il 5 luglio
1830, per passare, con uno sbalzo temporale, nella parte successiva, alla narrazione di
avvenimenti accaduti nel periodo della rivolta di Abdelkader, cioè dal 1832 al 1847 circa.
Ma la ricostruzione di questa fase è frammentata al suo interno, per così dire, poiché
vengono raccontati solo alcuni episodi, seppur significativi, tutti svoltisi nell'anno 1845 in
diversi luoghi. Viene a mancare quello sguardo globale sul periodo ristretto della presa
della città presente nella prima parte. Certo, un minimo di ricostruzione retrospettiva è
presente ma non sufficiente per collegare ed inserire i tre episodi narrati in un contesto
esplicativo-consequenziale che ricostruisca le dinamiche dell'intero periodo.
Ma lo scarto maggiore avviene nel passaggio alla terza parte del romanzo il cui
periodo storico di riferimento diventa la guerra di liberazione. Quindi uno sbalzo
75
temporale di oltre un secolo e mezzo. Tuttavia lo scarto temporale è ben poca cosa
rispetto all'altro mutamento significativo: la narrazione passa dalla terza persona della
narratrice storica alla prima del testimone oculare. Dalla fase conclusiva dell'operazione
storiografica a quella iniziale della testimonianza. La grande storia è rivissuta, raccontata
attraverso i vari punti di vista dei diversi testimoni. Infatti, come ho più volte accennato,
la guerra di liberazione è evocata tramite la trascrizione di interviste alle superstiti
realizzate su commissione di Fanon al confine fra Algeria e Tunisia nel 1962. La materia
narrativa ricavata dalle interviste era già stata impiegata, nelle stesse modalità con cui
vengono trasposte nel presente romanzo, nel film La Nouba des femmes du mont Chenua.
Un procedimento, quello di raccontare la storia dal punto di vista di un personaggio,
squisitamente letterario. In questo modo viene abbandonato il ruolo di storica per passare
in un certo modo all'archivista. Non si racconta più la Storia ma delle storie nella Storia.
E queste storie sono raccontate personalmente da chi le ha vissute.
Perché impiegare un procedimento tipico della narrazione di finzione in un discorso
che fino ad ora era in certo modo “referenziale”? Perché in una ricostruzione storica
concentrarsi solo su determinati episodi e moltiplicare i punti di vista facendo prendere
parola ai testimoni di un dato avvenimento?
Come dice Clerc, la ricerca identitaria passa attraverso il «ressourcement historique»92
.
L'occupazione straniera ha cercato di occultare la storia anteriore alla conquista,
conservata nelle memorie sotto forma di leggenda e mito, sovrapponendogli la propria,
con il fine di confonderla con essa. Dopo l'acquisizione dell'indipendenza, il bisogno di
ritrovare la storia va di pari passo con la costruzione del presente. Quest'operazione ha
bisogno di radici poiché, come dice Michel de Certeau e come si è visto nella sezione
teorica sulla storia, «une société se donne un présent grâce à une écriture historique»93
.
Per questo la Djebar consacrerà la sua attività alla ricerca storica sulla sua società e
assegnerà alle sue opere lo scopo di riprendere possesso del suo paese ridandogli la sua
storia.
92 JEANNE MARIE CLERC, op. cit., p. 83.
93 MICHEL DE CERTEAU, L'écriture de l'histoire, Paris, Gallimard, 1975, p.118, citato in JEANNE
MARIE CLERC, op cit., p. 83.
76
La storia, come si è visto, passa innanzitutto per la memoria dei sopravvissuti, cioè la
testimonianza. E a maggior ragione questa storia. Questa memoria non permette una
ricostruzione minuziosa di quanto accaduto e funziona con ciò che è trasmesso e ciò che
è taciuto. Dunque, dice ancora Clerc, scrivere la storia è confrontarsi con il silenzio, il
non detto e con tutto ciò che questo comporta in termini di ricreazione immaginaria e di
trasformazione mitica. Perché concentrarsi su episodi marginali della storia della
colonizzazione? L’intento della Djebar non è una ricostruzione storica esaustiva sul
periodo della colonizzazione. È piuttosto un tentativo di riscrivere la storia di quel
periodo da un altro punto di vista rispetto a quello adottato generalmente. È una
riformulazione degli avvenimenti dalla prospettiva dei sottomessi. Questa categoria si
scompone al suo interno in due elementi: popolo algerino in generale; soggetto della
donna. In quanto vinti, come spesso accade, questi soggetti hanno dovuto subire
l’imposizione della versione che i vincitori, il potere dà della storia. Il punto di vista del
potere, cioè dei vincitori, è un punto di vista interessato e tende dunque a manipolare in
una certa misura la versione dei fatti che sarà tramandata in seguito. Certe parti di quanto
avvenuto saranno messe sotto silenzio e sigillate. Il compito dello storico, in questo caso
della Djebar, è individuare queste zone oscure e cercare di farvi luce. La Djebar si
confronta, dunque, con i silenzi che il colonizzatore ha creato nella storia della conquista.
Spulciando letteralmente gli archivi francesi e le fonti arabe, ricostruisce avvenimenti
fino ad allora trascurati dalla storia o considerati marginali. Lei ne fa il fulcro del suo
racconto.
Ho parlato di storia come ricerca identitaria. Ora, la Djebar percepisce la sua identità
innanzitutto in quanto donna; ed è soprattutto sul soggetto della donna che si concentra
anche nei paragrafi storici. Una ricostruzione di esperienze femminili del passato a cui
l'autrice si sente intimamente legata.
La Djebar instaura nei suoi testi uno stretto rapporto tra la colonizzazione e la
sottomissione femminile. Esse sono prodotto di una condizione di emarginazione e
sfruttamento. Questi soggetti hanno subito una emarginazione forzata da parte della
cultura dominante che li ha sottomessi con l’intento di sfruttarli per tornaconto personale
ed estrometterli dalla gestione del potere per non perdere i propri privilegi. A
77
giustificazione di questo sopruso, di quest’atto di prevaricazione sono state costruite delle
teorie che attribuivano al dato incontrovertibile della differenza, della diversità tra nero e
bianco e tra maschio e femmina un significato degradante: cioè la diversità viene
percepita (o viene fatta percepire) come inferiorità. Così, si sono costruite ideologie che
hanno rivestito l’ingiustizia con le decorose vesti dell’umanitarismo civilizzatore nel
campo coloniale; o che hanno giustificato la posizione emarginata della donna nella
società ricorrendo al volere divino e alla presunta sacralità dell’ordine sociale costituito,
di cui si deve conservare l’equilibrio e in cui la donna ha un ruolo che potremo accostare
all’occidentale “angelo del focolare”. Nella costruzione di queste ideologie anche la
letteratura ha avuto il suo peso. Ci inoltriamo in quel nesso tra letteratura e potere
magistralmente analizzato da Edward Said in Orientalism94
. In sostanza si tratta di
costruire una determinata image dell’altro che ne giustifichi lo sfruttamento. Così è stato
per l’oriente costruito dall’occidente al fine di sottometterlo a scopo di lucro. Come così è
stato per la donna, costretta in una funzione sociale che demanda la sua esistenza
all’uomo. L'image è una costruzione culturale che poco si attiene alla realtà delle cose e
interpreta determinati dati reali in modo parziale e interessato. Ho ripercorso
sommariamente questo processo perché nella risposta letteraria femminile e post-
coloniale esso è ribaltato: si smentisce l'image costruita dal potere dimostrando la sua
inconsistenza e parzialità ricorrendo al reale. A questo scopo sono validissimi strumenti
sia la storiografia che l’autobiografia, visto il loro carattere referenziale. Il “realismo” è
impiegato al contempo per denunciare-testimoniare gli abusi del potere e per costruire la
propria identità. Infatti, la fase di denuncia e di decostruzione dell'image del potere è
strettamente collegata con quella dell’affermazione di sé. Sono come le due facce della
stessa medaglia. Per divenire operative hanno bisogno l’una dell’altra.
Dunque, il tema della sottomissione femminile si radica in quello della sottomissione
coloniale. Si radica nella storia. Per questo Mildred Mortimer, nel articolo citato
precedentemente, afferma che la ricerca autobiografica e storica della Djebar
leads to a confrontation with two patriarchal discourses, one French, the other Maghrebian.
94 EDWARD SAID, Orientalism (1978), trad. it. Orientalismo, Milano, Feltrinelli, 1991.
78
On one hand, the novelist explores French colonial archives in order to rewrite the history
of France's conquest of Algeria by reinserting women into the pages of history. On the
other hand, she challenges the Muslim patriarch's dominating gaze so as to empower
Algerian women and restore their subjectivity.95
Si confronta e si contrappone con questi due discorsi patriarcali. Cerca di mostrarne
concretamente l'infondatezza, di smascherarne e denunciarne gli interessi sui quali sono
fondati. Per questo si può affermare assieme allo studioso Salah M. Moukhlis che
The subversive poetics that she deploys in her textual space engage and challenge the dual
hegemonic discourse that of the patriarch and that of the colonizer. L'Amour, la fantasia,
therefore, does not only recover women from the silencing and cloistering grip of
patriarchal authority but, albeit to a lesser degree, also rescues all Algerians, men and
women, from a totalizing Western historical discourse.96
Demistificazione del discorso coloniale
Ad un primo livello, la scrittura storica della Djebar tenta di denunciare le
mistificazioni del discorso francese della storia della colonizzazione e nei confronti del
popolo algerino. L'Amour, la fantasia riesamina la storia della conquista algerina come la
ricordano soldati, capitani, scrittori e pittori la ricordano. E comincia a sottolineare il fatto
che la maggior parte di queste cronache non testimonia nella sua interezza gli eventi che
descrive. Determinati fatti vengono taciuti o trattati in maniera superficiale.
Così viene mostrato e sottolineato il modo in cui il discorso coloniale sulla conquista
assuma quasi i caratteri di una festa, di una rappresentazione teatrale celebrativa. Già
dall'inizio della ricostruzione storica, nell'episodio del primo incrocio di sguardi,
l'attenzione viene concentrata, verso la fine del paragrafo, su un dettaglio significativo:
Au départ de Toulon, l'escadre fut complétée par l'embarquement de quatre peintres, cinq
dessinateurs et une dizaine de graveurs... Le conflit n'est pas encore engagé, la proie n'est
même pas approchée, que déjà le souci d'illustrer cette campagne importe davantage.
95 MILDRED MORTIMER, op. cit., p. 104.
96 SALAH M. MOUKHLIS, Assia Djebar's L'Amour, la fantasia: colonial history and postcolonial
identities in «Connecticut Review», 24, 2002, p. 118.
79
Comme si la guerre qui s’annonce aspirait à la fête97
.
La guerra viene vissuta come un qualcosa di eccitante, una festa, appunto, da
raccontare, da rappresentare immediatamente perché si diffondano le gesta dell'esercito
francese anche in patria. La campagna bellica viene vista come un'occasione di gloria,
come se fosse un'epopea antica fatta di eroici combattimenti ed esotici paesaggi.
L'invasione del suolo algerino, la sua conquista, prima ancora di intraprendere lo scontro,
è già un'opera di letteratura. Un tipo di letteratura celebrativa, cioè finalizzata alla
glorificazione della potenza nazionale, quella francese. Di conseguenza il discorso verrà
modellato su questo intento e si cercherà di tacere di eventuali azioni indegne,
sconvenienti per il prestigio nazionale. Si cercherà di sorvolare o di trattare in modo
marginale eventuali crimini che possano compromettere l'immagine eroica, eticamente
integra, dell'esercito francese. Sempre per la medesima finalità si cercherà di impostare la
rappresentazione della guerra come un conflitto tra bene e male, imputando al nemico
una ferocia inumana, un fanatismo religioso che li porta a commettere atti di barbara
atrocità. Questa frenetica volontà di trascrizione, di trasposizione letteraria del conflitto è
rappresentata ed incarnata da un personaggio storico che è stato testimone della conquista
e che la Djebar utilizza come fonte. Si tratta di un letterato, J. T. Merle, uno scrittore
teatrale e direttore del teatro della Porte-Saint-Martin a Parigi, sposato con l'attrice Marie
Durval, amata in quel periodo da un altro scrittore maggiormente noto, Alfred de Vigny.
È stato ingaggiato nella campagna militare come segretario del generale in capo de
Bourmont. Anche lui redigerà e pubblicherà una relazione della presa di Algeri. Ogni
giorno annota ciò che vede, il luogo in cui si trova e riporta scrupolosamente riporta la
data di ogni annotazione. Ma, scrive la Djebar, egli è «en témoin installé sur les arrières
de l'affrontement. Il ne se masque pas en “correspondant de guerre”; il aime, par
habitude, l’atmosphère de coulisses»98
. In questo modo la Djebar discredita la sua
ricostruzione dei fatti. E prosegue in questa operazione scrivendo ancora che «il est venu
là comme au spectacle»99
. Non si trova mai nel luogo in cui avvengono i combattimenti,
97 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 17.
98 Ivi, p. 45.
99 Ibidem.
80
le battaglie più importanti. Sopperisce a questo difetto attraverso l'immaginazione. Infatti,
prosegue ancora la Djebar, non lo preoccupa alcun timore di parzialità
aucune culpabilité d'embusqué ne le tourmente. Il regarde, il note, il découvre; lorsque son
impatience se manifeste, ce n'est pas pour l'actualité guerrière, mais parce qu'il attend une
imprimerie, achat qu’il a suscité lui-même au départ de Toulon. Quand le matériel sera-t-il
débarqué, quand pourra-t-il rédiger, publier, distribuer le premier journal français sur la
terre algérienne?100
Dunque, la sua unica preoccupazione non è l'attualità degli avvenimenti ma la loro
futura rappresentazione letteraria. E, concretamente nell'immediato, per la sua possibilità
di realizzazione: una stampante con cui egli potrà finalmente diffondere il primo giornale
sul suolo algerino.
L'interesse per l'autocelebrazione del discorso coloniale sulla conquista viene messo in
risalto attraverso questo personaggio e la sua relazione. Il discorso di Merle, essendo un
letterato, è modellato su una prosa elegante che talvolta assume i caratteri di un romanzo
esotico. Ciò avviene soprattutto nella descrizione della vegetazione e dei guerrieri arabi
fatti prigionieri o feriti e portati all'ospedale francese e che il nostro direttore di teatro va
regolarmente a trovare, con l'ansia di approfondirne la conoscenza e riportare qualsiasi
dettagli curioso. Ma la cosa che più lo affascina e lo incuriosisce è una particolarità della
modalità di combattimento degli arabi. Egli annota, con profonda ammirazione e quasi
stupefatto, la maniera in cui gli arabi portano via il compagno ferito o ne fanno sparire il
cadavere in caso venga ucciso. Del corpo dei loro compagni non lasciano nulla al nemico
francese, neanche eventuali arti mutilati, per i quali sono disposti a rischiare la vita.
Questo pizzico di esotismo, commentato come un elemento di superiorità d'animo
rispetto ai francesi, è subito temperato da un episodio in cui si celebra implicitamente la
superiorità della civiltà francese attraverso la scienza medica.
All'ospedale dove si reca regolarmente, Merle assiste e riporta una curiosa scena: il
padre di un ferito grave si mostra fermamente contrario all'amputazione della gamba che
salverebbe la vita, causandone la morte. La Djebar riporta le frasi di Merle, evidenziando
l'operazione di messa a confronto delle due culture da cui risulta palese la superiorità
100 Ivi, p. 46.
81
francese: «Père et fils arabes, objet de la sollicitude française; père troublé par l'humanité
française; père arabe franchement hostile à l'amputation de son fils que conseille la
médecine française; fanatisme musulman entraînant la mort du fils, malgré la science
française»101
. E denuncia il carattere artificiale di questo discorso, commentando: «nous
sommes désormais en plein théâtre, celui que Merle a l'habitude de produire à Paris»102
.
Messa in scena funzionalizzata alla celebrazione della civiltà francese e alla deprecazione
di quella islamica, in preda a un barbaro fanatismo religioso che ostacola il progresso,
impedisce di salvare una vita.
Il giudizio della Djebar su questo «directeur de théâtre qui ne se trouve jamais sur le
théâtre des opérations»103
si può, come ho detto, estendere all'intero discorso coloniale.
Attraverso questo personaggio la Djebar ci dice come, dal suo punto di vista, il discorso
sulla colonizzazione sia più preoccupato per la rappresentazione che per l'osservazione
dei dati concreti. Un discorso distante dalla realtà quanto Merle è distante dal cuore del
combattimento. E questo stende un'ombra sull'attendibilità di questo discorso. Si spiega
in tal modo l'attenzione dedicata dalla nostra autrice ai dettagli e agli eventi considerati
precedentemente marginali. Nell'analizzare gli episodi riportati dalla Djebar la
contrapposizione rispetto al discorso coloniale si incrocerà con quella rispetto al discorso
maschilista della tradizione islamica, poiché protagoniste di quasi tutti questi episodi
sono le donne.
Merle aveva parlato di “humanité française” contrapposta al fanatismo degli algerini.
Questa parola applicata alle truppe francesi suona falsa, parziale, ed è indice di un
giudizio distante dalla realtà. La Djebar riporta, allora, degli episodi non esattamente
decorosi per l'esercito francese che danno della campagna militare un'immagine più
aderente alla realtà, più completa. Durante la battaglia di Staouéli, l'esercito francese fa
2000 prigionieri. Questi, nonostante il parere contrario degli ufficiali, saranno tutti
fucilati, su richiesta insistente dei soldati. La Djebar riporta la reazione di una delle fonti
da lei utilizzate, Amable Matterer, che annota semplicemente: «Un feu de bataillon a
101 Ivi, p. 51.
102 Ibidem.
103 Ivi, p. 50.
82
couché par terre cette canaille en sorte qu'on compte deux mille qui ne sont plus»104
. E la
Djebar annota immediatamente dopo: «Le lendemain, il se promène placidement parmi
les cadavres et le butin»105
. Come se fosse stato compiuto un atto di necessaria giustizia
nel giustiziare i prigionieri in quanto “canaille”, gentaglia. Attraverso una fonte francese,
la Djebar mostra quanto approssimativo e distante dalla realtà sia il racconto di Merle.
Attraverso le fonti denuncia le mistificazioni del discorso coloniale. E ne denuncia i
silenzi.
Ma non tutte le fonti francesi sono caratterizzate da questa poca obiettività. Il
paragrafo Femmes, enfants, bœufs couchés dans les grottes… racconta un altro episodio
di brutalità bellica: l’affumicamento dell’intera tribù degli Ouled Riah attuato dal
capitano Pélissier. La Djebar può rievocare gli affumicati delle grotte del Dahra grazie a
quel rapporto realistico, dettagliato che lo stesso generale francese redige per il generale
Bugeaud. A differenza dell’altro affumicamento perpetrato da generale Saint-Arnaud, che
la Djebar ricostruisce per via indiretta e che dimostra successivamente trovando una
testimonianza dello stesso Saint-Arnaud , in questo caso il responsabile del terribile atto
ha avuto il coraggio di affrontare la reale entità della tragedia con scrupolo e trasparenza.
È come se avesse denunciato la tragedia avvenuta che, infatti, scatenerà una tempesta
politica a Parigi. Pélissier non si è, insomma comportato come il suo collega Saint-
Arnaud che ha preferito tacere il suo crimine per celare la ferocia della repressione
francese; Pélissier si è confrontato con la realtà e ha fissato per sempre quell’evento con
la sua testimonianza, sottraendolo all’oblio. Dice la Djebar:
Pélissier, grâce a son écriture “trop réaliste”, ressuscite soudain sous mes yeux les morts de
cette nuit du 19 au 20 juin 45, dans les grottes des Ouled Riah. […] Asphyxiés du Dahra
que les mots exposent, que la mémoire déterre. L’écriture du rapport de Pélissier, du
témoignage dénonciateur de l’officiel espagnol, de la lettre de l’anonyme troublé, cette
écriture est devenue graphie de fer et d’acier inscrite contre les falaises de Nacmaria.106
La Djebar è profondamente colpita dal fatto che il generale francese soffra per l’ordine
che ha dovuto eseguire. È sua preoccupazione verificare l’entità del dramma ordinando,
104 Ivi, p. 30.
105 Ibidem.
106 Ivi, p. 110.
83
come si è già detto sopra, l’estrazione e il conteggio dei cadaveri giacenti in fondo alle
grotte. Pélissier si rende perfettamente conto di ciò che ha fatto e per questo, onestamente
e realisticamente lo testimonia nel suo rapporto, il quale, ricordiamolo, suscita in
parlamento l’indignazione nell’opposizione e l’imbarazzo del governo, insomma una crisi
di coscienza. Per questo la Djebar accoglie la sincera e sofferta relazione di Pélissier con
un inspiegabile e paradossale sentimento di gratitudine e di riconoscenza. La sua
testimonianza diviene una sorta di monumento alla memoria di quei morti che consente
alla Djebar storica di ritrasmettere il loro martirio. Consente di resuscitare i morti
attraverso la memoria, attraverso la storia. La Djebar può in tal modo innalzare un
monumento funebre, un sepolcro di parole francesi a perpetua memoria degli affumicati
del Dahra. Pélissier, scrive l’autrice, «est devenu à jamais le sinistre, l’émouvant
arpenteur de ces médinas souterraines, l’embaumeur quasi fraternel de cette tribu
définitivement insoumise»107.
Biasima invece Caivagnac che ha utilizzato per primo il fumo e Saint-Arnaud, che
definisce l’unico vero fanatico, poiché si è rifiutato di testimoniare/confessare il suo
crimine, condannando all’oblio, che è l’unica vera morte secondo la Djebar, gli uomini
della tribù degli Sbeah che ha affumicato. La ricerca storica dell’autrice è mossa anche da
questa volontà di resuscitare attraverso la scrittura i morti del suo popolo confinati nel
silenzio dell’oblio dalle omissioni del discorso coloniale. Pélissier deve aver capito che
«écrire la guerre [...] c’est frôler de plus prés la mort et son exigence de cérémonie, c’est
retrouver l’empreinte même de ses pas de danseuse»108
. Non come Merle, non come
Saint-Arnaud.
La gratitudine nei confronti di Pélissier, questa assurda riconoscenza per quello che è
stato il boia degli Ouled Riah problematizza il rapporto che l’autrice intrattiene con la
colonizzazione. Non fa del confronto coloniale un confronto manicheo, si astiene dalle
generalizzazioni che identificano tutti i francesi nel nemico da espellere e annientare. Nel
suo testo cerca invece di comprendere anche il punto di vista del nemico, dei boia e cerca
di fare i dovuti distinguo tra l’atteggiamento di un Saint-Arnaud e un Pélissier. È un un
107 Ivi, p. 115.
108 Ivi, p. 114.
84
altro elemento di ambiguità nei confronti della colonizzazione che esamineremo meglio
in seguito.
85
CAPITOLO V
IL SOGGETTO COLLETTIVO: LA STORIA DELLE DONNE
Accostamento tra sottomissione coloniale e sottomissione femminile
Ma i crimini di guerra commessi dai francesi sono stati ampiamente documentati dagli
storici nel periodo in cui la Djebar compone L'Amour, la fantasia, cioè negli anni 1982-
84. L'Algeria ha da tempo raggiunto l'indipendenza, scacciando la presenza francese con
la guerra di liberazione. Perché allora rievocare questi avvenimenti? Perché rievocare
momenti di una lotta secolare che però ha raggiunto il suo scopo, si è conclusa con la
vittoria per la nazione algerina? In conclusione la sottomissione coloniale non è più un
problema dell'oggi, del presente. Come ho già accennato, il tema coloniale viene
accostato a quello della sottomissione femminile che è, appunto, la questione dell'oggi.
Perciò la liberazione da un regime oppressivo e ingiusto deve ancora venire.
La mia tesi è che il ricorso alla storia, l'analisi del passato coloniale, siano una
rievocazione metaforica della sottomissione femminile nella società algerina del presente.
Un'operazione letteraria che è una della peculiarità del romanzo storico: rievocazione
storica di avvenimenti passati per rappresentare e trattare problematiche del presente. Ci
si cala nel passato col lo sguardo al presente: una modalità che, come ho mostrato, è
propria dell'indagine storica, ma che nella letteratura, attraverso metafore e similitudini,
accosta tematiche differenti. Nel nostro caso tema coloniale e tema femminile hanno in
comune la condizione di sottomissione e la lotta verso i soggetti che questa sottomissione
86
attuano. Rispettivamente il francese nel passato con la colonizzazione, l'uomo nella
società algerina del presente, nei confronti della donna. La condizione del popolo
algerino, le sue sofferenze durante il regime coloniale sono significativamente accostate
alle sofferenze che la donna è costretta a patire nella società presente. Nell'intervista con
Renate Siebert la Djebar ricorda come il suo romanzo, Les alouettes naïves del 1967, si
concludesse con a frase: «Ora la guerra tra i popoli è terminata, ora resta la guerra tra i
sessi»109
. Si passa dalla lotta contro un tipo di sottomissione ad un altro. Queste parole
con cui terminava il suo romanzo le fruttarono all'epoca diverse accuse tra le quali ricorre
quella di disinteresse per i problemi concreti del popolo algerino, troppo presa da
problematiche “femministe”, con l'implicita accusa di egoismo sessista. Nella medesima
intervista ricorda una sua battuta in risposta a tali critiche che diceva che nell'Algeria
dell'epoca «anche una pietra sarebbe stata femminista»110
. Dice ancora: «da noi essere
femministe non è un segno di distinzione, bensì una risposta ovvia alla pressione della
realtà»111
. È, dunque, il tema femminile a dominare, ad essere più “pressante”, più
urgente, perché ancora irrisolto. Perché in questo campo c'è ancora da combattere, si è
ancora in guerra. Per questo la sottomissione e la resistenza femminili sono accostate,
direi innestate, nel tema coloniale. Vediamo quali sono i meccanismi testuali mediante i
quali la Djebar attua questo significativo accostamento.
Si riprenda la struttura di L'Amour, la fantasia che ho precedentemente esposto. Le
prime due parti del libro hanno una struttura comune che alterna paragrafi autobiografici
a paragrafi storici. Adottando uno sguardo superficiale, si potrebbe attribuire il tema
coloniale alle narrazione storiche e il tema della sottomissione femminile alle narrazioni
autobiografiche. In tal modo i temi risulterebbero strutturalmente intrecciati all'interno
delle sue parti. Nella terza parte questa intreccio si complica: mentre prima i due temi
erano si accostati ma in un certo modo autonomi, ora sfociano l'uno nell'altro, vengono
fusi all'interno dello stesso paragrafo. Vediamo come. La terza parte è, come già detto,
oltre che la più sostanziosa in termini di numero di pagine, la più strutturalmente
109 RENATE SIEBERT, op. cit., p. 56.
110 Ibidem.
111 Ibidem.
87
complessa. È ripartita in 5 movimenti e un finale, a loro volta strutturati in paragrafi. La
struttura di quest'ultima parte si ispira alla struttura della sinfonia, articolata appunto in
movimenti. La somiglianza con la strutturazione musicale non si esaurisce qui. Alcuni
paragrafi che scandiscono i primi quattro movimenti posseggono dei titoli fissi, Voix e
Voix de veuve, che riportano le interviste fatte alle superstiti di guerra. Il dare un titolo
fisso per trattare un argomento fisso, cioè le esperienze belliche delle donne intervistate,
istituisce un parallelo con il concetto di tema musicale. Quindi, ai paragrafi autobiografici
si alternano quelli storici sotto forma di testimonianza, come avveniva nelle parti
precedenti. Ma nella terza parte vi sono dei paragrafi che fondono i due temi: quelli con il
titolo fisso di Corps enlacés; e quelli con i titoli Clameur, Murmures, Chuchotements,
Conciliabules, il cui bacino semantico rimanda al rumore della voce di una o più persone.
Notiamo subito che l'ordine di disposizione segue un climax discendente: si passa dal
forte rumore del clamore per sfumare nel bisbiglio dei conciliaboli, in un progressivo
abbassamento del volume. Ma ciò che mi interessa ora sottolineare è la loro proprietà di
legare e trattare nello stesso paragrafo tema coloniale e sottomissione femminile, storia e
autobiografia. Nei primi quattro movimenti la struttura si mantiene costante. Lo schema
prevede nell'ordine un paragrafo autobiografico, Voix, seguito da uno di quei paragrafi
riferentesi al suono/rumore della voce; segue ancora un paragrafo autobiografico, ancora
un Voix, e il movimento viene concluso da Corps enlacés. Quindi in un primo momento
si ripete l'alternanza tra autobiografia e storia (sotto forma di testimonianza) che aveva
caratterizzato le prime due parti, per poi fondere le due dimensioni in un unico paragrafo.
Questa fusione caratterizzerà il quinto movimento e il finale. In realtà questo intreccio tra
autobiografia e storia, tra tema coloniale e tema femminile si può riscontrare anche nelle
prime due parti per le quali si è parlato fin ora di semplice accostamento. Infatti, i
paragrafi autobiografici e quelli storici non sono semplicemente giustapposti, ma
inanellati tra loro come se formassero una sorta di catena. Tra l'interruzione di un
paragrafo e l'inizio di un altro la Djebar inserisce un raccordo semantico attraverso una
anafora. Così, la sezione autobiografica Fillette arabe allant pour la première fois à
l'école termina con «... je suis partie à l'aube»112
e la successiva sezione storica comincia
112 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 13.
88
con «Aube de ce 13 juin 1830...»113
; il paragrafo Trois jeunes filles coîtrées termina con
«...derrière la torpeur du hameau, se préparait, in soupçonné, un étrange combat de
femmes»114
e il paragrafo successivo si apre con «Le combat de Staouéli se déroule...»115
;
la sezione autobiografica La fille du gendarme français termina con «... parce que cet état
autistique ferait chape à mes élans de femme, surviendrait à rebours quelque soudain
explosion»116
e il paragrafo seguente si apre con «Explosion du Fort l'Empereur...»117
;
infine, la sezione autobiografica Mon père écrit à ma mère termina con «... se nommaient
réciproquement, autant dire s'aimaient ouvertement»118
e il successivo paragrafo si apre
con «Ouverte la ville plutôt que prise»119
. Come si vede, l'intreccio tra le due dimensioni
avviene solo in un senso, cioè dall'autobiografia alla storia. E questo specifica l'intento
della Djebar di inscrivere la storia personale nella storia collettiva e, per traslato, il tema
femminile in quello coloniale.
Ma questo innesto non avviene al solo livello strutturale: si riscontra anche nel cuore
del testo. Una prima spia indicativa è tutta una serie di metafore, similitudini attraverso
cui si assimila la nazione algerina alla donna. Già dalla prima descrizione del primo
incrocio di sguardi tra la flotta francese e la “Ville Imprenable”, la città, e per estensione
tutta l'Algeria, è paragonata ad una donna: «La ville, paysage tout en dentelures et en
couleurs délicates, surgit dans un rôle d'Orientale immobilisée en son mystère»120
. Algeri
viene accostata ad una donna orientale che attende l'invasione del nemico francese. E
l'incrocio tra le parti avverse rimanda a quello tra uomo e donna che fa da preludio alla
presa di possesso, all'invasione, all'amplesso. Femminilizzando l'Algeria si opera una
significativa e progressiva assimilazione tra il colonizzatore e l'uomo-patriarca in una
forte metafora che comporta l'identificazione tra suolo nazionale e corpo femminile. La
donna, come l'Algeria, è costretta a subire un'indebita invasione, una sconvolgente
penetrazione. che avviene con la violenza della deflorazione. La penetrazione coloniale
113 Ivi, p. 14.
114 Ivi, p. 24.
115 Ivi, p. 25.
116 Ivi, p. 44.
117 Ivi, p. 45.
118 Ivi, p. 58.
119 Ivi, p. 59.
120 Ivi, p. 14.
89
viene accostata alla penetrazione maschile e alla violenza sessuale che la donna è
costretta a subire. La Djebar attua questo significativo accostamento scrivendo che i
soldati francesi penetrano in Algeria «comme en une défloration»121
. Attraverso il
termine “deflorazione” la conquista dell'Algeria viene percepita come uno stupro, una
violenza che comporta la perdita della verginità. L'accostamento conquista-stupro si
ripete in altre parti del testo. E, infatti, nel paragrafo storico successivo l'invasione
francese e le operazione belliche che seguiranno sono paragonate ad un rapporto sessuale.
La lotta, la resistenza che contrappongono popolo algerino e popolo francese diventano
metafora della resistenza che contrappone uomo e donna nella società islamica. Nella
descrizione della battaglia di Staouéli leggiamo: «Comme si, en vérité, dès le premier
affrontement de cette guerre qui va s'étirer, l'Arabe, sur son cheval court et nerveux,
recherchait l'embrassement: la mort, donnée ou reçue mais toujours au galop de la course,
semble se sublimer en étreinte figée»122
.
La guerra coloniale è paragonata ad un amplesso. Ma già in questo frammento si
configura quell'ambiguità che caratterizzerà il rapporto che la nostra autrice intrattiene
con la colonizzazione: si legge, infatti, che è l'arabo che cerca l'abbraccio. Come se fosse
in qualche modo consenziente alla violenza, al rapporto sessuale. Ma di questa
ambivalenza, di questa inquietante ambiguità parlerò più approfonditamente nel capitolo
successivo. Ora vorrei concentrarmi sull'analisi della percezione negativa della
colonizzazione, sulla percezione della colonizzazione come violenza.
Si configura la stessa ingiustizia per cui i francesi prendono possesso del suolo
algerino contro il volere del popolo così come l'uomo prende possesso del corpo della
donna contro il suo volere mediante una prevaricazione. Per questo il popolo algerino ha
lottato, resistito fino al XX secolo giungendo, infine, alla liberazione. Anche le donne
come la Djebar lottano per la giusta causa della liberazione da un regime oppressivo. Ma
la Djebar non è sola, non è la sola lottatrice, l'unica resistente. Lo si è visto nel percorso
autobiografico. Vi sono altre donne che lottano, che resistono alle costrizioni della società
maschilista, come ad esempio le tre sorelle segregate. Con il riportare esperienze di altre
121 Ivi, p. 85.
122 Ivi, p. 27.
90
donne accanto alla sua, la Djebar costruisce il soggetto collettivo della donna. Un'entità,
un singolare collettivo costituito, secondo la sua visione, da tutte quelle donne, del
presente e del passato, che lottano o hanno lottato per la libertà. Magari anche senza
rendersene conto, essendone inconsapevoli, essendo cioè, secondo un'espressione
djebariana, fuggitive senza saperlo. Fuggitive dal regime maschilista.
La donna nella storia e la storia delle donne
L'ultimo elemento che completa l'innesto del tema femminile in quello coloniale è la
centralità delle donne nella narrazione storica. Questo dato, che si fa di per sé evidente
nella terza parte con la trascrizione diretta delle interviste alle superstiti della guerra di
liberazione, è presente anche nella altre due parti del romanzo che trattano del passato
coloniale. Infatti, il primo paragrafo storico che rappresenta il primo incrocio di sguardi si
chiude significativamente sulle donne algerine che per vedere la flotta francese
trascurano le preghiere mattutine recandosi sulle terrazze delle rispettive abitazioni.
Questo spostamento d’attenzione, che passa del dey Hussein alle donne, è estremamente
significativo poiché rafforza la sovrapposizione tra Algeria e la donna. Il paragrafo si
apre con Algeri che, paragonata ad una donna orientale, guarda il nemico francese
avvicinarsi e si chiude con lo sguardo delle donne algerine sopra le terrazze. Si ha
l’impressione che questa metafora prenda concretamente corpo in queste donne.
Cominciamo a notare fin da ora che quest’operazione non è semplicemente una
variazione di prospettiva perché viene scritto: «je m’insinue, visiteuse importune, dans le
vestibule de proche passé, enlevant mes sandales selon le rite habituel, suspendant mon
soufflé pour tenter de tout réentendre…»123
. Il passaggio dalla terza persona della storica
alla prima persona della narratrice indica un coinvolgimento personale, una
partecipazione intima all’avvenimento rievocato che denuncia una particolare vicinanza
che l’autrice sente nei confronti di quelle donne (come delle altre che rievocherà nel
corso del romanzo). Infatti, l’autrice immagina di inserirsi tra quelle donne, di essere
presente all’avvenimento, di viverlo assieme a loro. Un chiaro, esplicito schieramento di
123 Ivi, p. 17.
91
parte. Il che è abbastanza ovvio dato che questa viva partecipazione, questa condivisione
empatica era già stata dichiarata nel percorso autobiografico. Solo che in questo modo
quel legame intimo che collega tutte le donne in un unico collettivo si estende anche alle
donne del passato. Torneremo più approfonditamente fra breve sull’argomento.
Continuiamo ad illustrare la centralità che le donne hanno anche nei capitoli storici.
Particolarmente significative sono le figure delle donne guerriere che combattono contro
l'oppressore francese, che per traslazione, secondo i procedimenti metaforici evidenziati
sopra, diventa l'uomo arabo.
Nel paragrafo storico che racconta della battaglia di Staouéli, al Djebar utilizza il
dettagliato resoconto del barone Barchou de Penhoën che assiste e partecipa alla
battaglia. Di tutto il suo racconto riporta solo una breve scena «phosphorescente, dans la
nuit des souvenirs»124
. Nella battaglia sono state intraviste anche due donne. Infatti
alcune tribù dell'interno sono giunte nel luogo del conflitto al completo, con tutto il
seguito di donne, bambini, anziani e animali. Barchou (citato dalla Djebar) annota:
Des femmes, qui se trouvent toujours en grand nombre à la suite des tribus arabes, avaient
montré le plus d'ardeur à ces mutilations. L'une d'elles gisait à côte d'un cadavre français
dont elle avait arraché le cœur! Une autre s'enfuyait, tenant un enfant dans ses bras: blessée
d'un coup de feu, elle écrasa avec une pierre la tête de l'enfant, pour l'empêcher de tomber
vivant dans nos mains; les soldats l'achevèrent elle-même à coup de baïonnette.125
La notazione di Barchou potrebbe essere interpretata come un'ennesima dimostrazione
del fanatismo degli algerini in cui le donne si cimenterebbero con particolare
accanimento. Ma la Djebar scrive:
Ces deux Algériennes – l'une agonisante, à moitié raidie, tenant le cœur d'un cadavre
français au creux de sa main ensanglantée, la seconde, dans un sursaut de bravoure
désespérée, faisant éclater le crâne de son enfant comme un grenade printanière, avant de
mourir, allégée – ces deux héroïnes entrent ainsi dans l'histoire nouvelle.126
Queste due donne sono le prime donne guerriere della nuova storia. Ma quale storia?
La storia delle donne. Queste due algerine sono le prima matres dolorosae, le prime di
124 Ivi, p. 30.
125 Ivi, p. 31.
126 Ibidem.
92
una lunga serie. Nei testi successivi l'autrice retrodaterà questo primato, in particolare con
Loin de Medina, fin alle origini dell'islam. In Vaste est la prison, attraverso la figura
leggendaria di Tin Hinan, si potrebbe spostare ulteriormente il primato. Ma non importa
stabilire ora stabilire primati. Ciò che mi preme sottolineare è il riferimento ad una nuova
storia, quella della donna come soggetto collettivo. Ora, possedere una storia significa
anche possedere una tradizione. E la Djebar, attraverso il ricorso alla storia secondo le
modalità che ho descritto precedentemente, ricostruisce questa tradizione, rievoca dei
modelli di riferimento attraverso esperienze femminili di lotta, resistenza, sofferenza. E
nel solco di questa tradizione inserisce le sue esperienze autobiografiche, quelle di alcune
sue familiari e quelle di donne del presente che in qualche modo cercano di divincolarsi
dalle restrittive leggi della società islamica.
Per attenermi ancora sull'analisi dei paragrafi storici, si può concludere assieme a
Moukhlis come in questi
what has been, therefore, intended as a casual detail is capitalized on by Djebar,
re/positioned and re/presented as a focal point in her own discourse. By rewriting these
accounts and inserting her own perspective, Djebar proposes a different way of looking at
the history of the Algerian conquest, a way that would do justice to the crucial role of
woman that has been suppressed in the master discourse.127
Tutta l'attenzione della spedizione del capitano Lamoricière da Orano viene
concentrata su quelle sette donne uccise dagli sphais di Yusuf. Come si è visto, la
spedizione non porta alla sperata vittoria militare strategicamente importante, ma si
conclude con un saccheggio, una razzia. Gli uomini di Lamoricière trovano come soli
avversari delle donne e alcuni guerrieri, la maggior parte dei quali adolescenti. Tutti gli
uomini vengono uccisi. Solo le donne resistono ancora ai francesi. Lo fanno a modo loro:
o mantenendosi in uno sprezzante silenzio, sfidando con lo sguardo fiero i francesi; o
riversando quanti più insulti possono sui predoni. Ma coloro che scelgono questo ruolo di
oltraggianti pagano col sangue il loro gesto. Questo è il modo per contrastare i francesi
anche quando ormai si è vinti. «L'indigène, même quand il semble soumis, n'est pas
127 SALAH M. MOUKHLIS, op. cit., p. 120.
93
vaincu»128
scrive la Djebar. Questo vale sia per il combattente algerino che per la donna.
E le donne fatte prigioniere, pur di non darsi ai francesi, si cospargono il viso di
escrementi e di fango. Insomma, resistono. Con questi esempi si vuole far intendere
l’autentico valore della donna che la società maschilista sembra non volergli riconoscere.
Si dimostra l’attiva partecipazione della donna alla guerra, alla resistenza anticoloniale
rendendo giustizia al suo contributo, al suo coinvolgimento che entrambi i discorsi,
coloniale e patriarcale, tentano di confinare nel silenzio.
Il tema della donna guerriera viene più approfonditamente sviluppato nella terza parte,
significativamente intitolata Les voix ensevelies. Come è stato più volte detto, i paragrafi
Voix e Voix de veuve sono costituiti dalla trascrizione il più possibile fedele delle
interviste fatte a donne che hanno combattuto nella resistenza algerina durante la guerra
di liberazione. Ricordiamo che le esperienze raccontate risalgono agli anni 1956-57 circa,
quindi è il momento in cui storia e autobiografia, tema coloniale e tema femminile
raggiungono un punto di contatto, si fondono. Con l’affidare la parola direttamente alle
donne guerriere il discorso si frammenta in una pluralità di voci, diventando un coro in
cui l’autrice inserisce anche la sua voce. Questo espediente testuale rappresenta bene, a
mio giudizio, quel concetto di soggetto collettivo a cui ci si riferiva prima. Esso si
costruisce attraverso l’orchestrazione di questa molteplicità di voci che raccontano
esperienze femminili accomunate dalla stessa condizione di sottomissione e dalla
resistenza a questa condizione. L’intento che la Djebar tenta di realizzare in quest’opera è
proprio quello di dissotterrare queste testimonianze sepolte, di ridare voce alle donne del
passato, remoto e prossimo, e del presente.
La costruzione di questo singolare collettivo passa, dunque attraverso la memoria delle
donne. Ora, in quanto private di scrittura e segregate in casa, la sola modalità di
trasmissione è quella orale, e i luoghi di trasmissione quelli riservati esclusivamente alle
donne. È una trasmissione che passa da un soggetto ad un altro e di generazione in
generazione. Per questo la scrittura della Djebar ha un antecedente imprescindibile
nell’ascolto delle altre donne che trasmettono storie personali raccontano di esperienze di
altre donne. L’importanza della ricezione mediante l’ascolto è indicata dal fatto che
128 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 83.
94
questa modalità viene rappresentata nella scrittura. Gli esempi sono numerosi. Le
interviste alle donne guerriere sono già una modalità di ascolto, di ricezione e
trasmissione. E la narratrice si rappresenta in ascolto, proprio in quei paragrafi che
seguono la trascrizione dell’intervista che hanno il significativo titolo di Corps enlacés. O
ancora ascolta la zia raccontare la storia di Khadidja, prima moglie del profeta, o in Vaste
est la prison la narratrice si rappresenta in ascolto della zia dalla quale si è rifugiata in
seguito alla rottura dei rapporti con il marito, che le racconta, le trasmette la storia della
nonna materna. E la nostra autrice, dopo aver ascoltato, dopo aver accolto e raccolto le
esperienze femminili del presente e del passato (attraverso la storia e l’analisi degli
archivi francesi) a sua volta trasmette quelle storie, le organizza in tradizione e le fissa
attraverso la traccia permanente della scrittura. Questo è il cuore della scrittura
djebariana: «Dire à mon tour. Transmettre ce qui a été dit, puis écrit. Propos d’il y a plus
de un siècle, comme ceux qui échangeons aujourd’hui, nous femmes de la même tribu.
Tessons de sons qui résonnent dans la halte de l’apaisement…»129
. Ecco allora che la
Djebar esprime la motivazione profonda della sua scrittura con una splendida metafora: la
prassi poetica djebariana è la costruzione di una «Chaîne de souvenirs: n’est-elle pas
justement “chaîne” qui entrave autant qu’elle enracine?»130
. Lega perché collega diverse
esperienze femminili, istituisce quella solidarietà fra donne, del passato e del presente,
sentita come un dovere dall’autrice; radica perché fissa queste esperienze attraverso la
traccia permanente della scrittura, costruendo una tradizione di riferimento in cui
identificarsi.
La “sorellanza”: il sostegno fra donne riconvertito alla resistenza
La memoria riveste dunque un ruolo centrale nella poetica della Djebar. Ricoeur,
rifacendosi al pensiero greco sull'argomento, aveva in quest'ambito tra due concetti:
mnemosyne, ovvero la memoria come ricordo allo stato puro, un frammento del passato,
che emerge quasi casualmente e che il soggetto accoglie passivamente; anamnesis che
129 Ivi, pp. 234-235.
130 Ivi, p. 252.
95
rappresenta un concetto più complesso indicante la capacità, acquisita col tempo
dall’uomo, di riportare in vita i ricordi tramite uno sforzo di ricerca interiore. La memoria
come lavoro, scavo, ricerca nel passato: è questa la dimensione in cui si colloca la nostra
autrice. Questa la sua prassi poetica per giungere alla costruzione di quel complesso
concetto che è il soggetto collettivo attraverso la storia e un'autobiografia comprendente
molteplici esperienze femminili oltre quella dell'autrice. Così come nella ricerca storica la
Djebar compie un lavoro di scavo, di disseppellimento di avvenimenti sepolti dal silenzio
anche nel dialogo e nell'ascolto delle altre donne deve combattere contro il silenzio che
minaccia la memoria femminile. Ho già mostrato nell'analisi delle sezioni
autobiografiche quale sia il peso dell'etica musulmana del silenzio per la condizione
femminile, e come essa agisca nella comunicazione fra donne. Dice infatti la Djebar che
«la memoria femminile funziona anche attraverso il silenzio, come se le zone troppo
dolorose andassero taciute»131
. Il risultato è che davanti alle sofferenze patite le donne
piuttosto che raccontarle preferiscono tacerle e dimenticarle. Il lavoro della Djebar è
allora una paziente e comprensiva opera di sollecitazione, di ascolto maieutico, quasi
terapeutico. Questo sforzo di anamnesi lo mette in pratica anche per la scrittura delle sue
esperienze personali. È uno sforzo perché anche lei deve vincere la ripulsa al parlare di
sé, a mettere a nudo i propri dolori. Combattere il silenzio che si vuole stendere sulla
sofferenza della donna: il senso della scrittura djebariana comprende anche questo
aspetto.
Allo scavo nella storia corrisponde lo scavo nella memoria femminile. Essa è il punto
di partenza, la base per la costruzione della storia delle donne cui ho accennato. Ma in
quanto trasmissione orale, presenta delle zone oscure, dei silenzi in cui qualcosa è stato
perso. Dice la Djebar: «la trasmissione orale è una trasmissione che viene a patti con la
troppa vulnerabilità. Ma la scrittura deve riportare tutto ciò che non è stato detto, tutta
l'autocensura. C'è un momento in cui si produce uno slittamento ed è lì, io credo, che si
deve dire “sì”. È lì che bisogna insistere»132
. Bisogna recuperare quelle zone d'ombra. Ma
il raggiungimento di questo scopo richiede la collaborazione delle donne: per questo nella
131 RENATE SIEBERT, op. cit., p. 193.
132 Ivi, p. 195.
96
scrittura della Djebar l'ascolto è fondamentale. Il senso delle interviste alle donne
guerriere è proprio questo. Si spiega in questo modo la scelta di dare loro la parola, di
trascrivere i loro ricordi. Credo sia un modo per rimarcare l'importanza della
collaborazione, del sostegno reciproco tra donne, che si configura come un riandare
insieme al cuore delle ferite, per parafrasare il titolo dell'intervista della Siebert.
Il tipo di legame che la Djebar crea attraverso il soggetto collettivo con le altre donne è
un legame intimo, che istituisce una sorta di parentela tra tutte le donne. È un sentimento
solidale che la Djebar chiama spesso “sorellanza”. E, infatti, facendo riferimento alle
donne a cui dà voce, di cui racconta la storia, impiega termini che richiamano un grado di
stretta parentela: il termine più impiegato è “sorella” ma viene usata anche l’espressione
“piccola madre”, quando si rivolge ad una sua parente di cui ha riportato l’intervista.
Anche quando rievoca scene del passato, si percepisce questa intima vicinanza, questa
partecipazione con cui la Djebar in un certo modo si coinvolge nella storia raccontata. Un
primo esempio di questo atteggiamento lo si è visto nella descrizione delle donne algerine
che si recano nelle terrazze per vedere la flotta francese. In quell’occasione descrive la
rappresentazione nelle modalità di una partecipazione che non può che essere ideale, che
indica un grande coinvolgimento emotivo. Vuole essere insomma una condivisione dei
destini. Questa commossa partecipazione alle esperienze femminili che riporta si
percepisce appieno in quei paragrafi che fondono storia e autobiografia, passato e
presente. Come ho già detto si tratta dei paragrafi dal titolo fisso Corps enlacés e quelli
dai titoli che richiamano la sonorità della voce. Qui l’autrice riconsidera quanto scritto fin
ora, ricostruisce il momento dell’intervista, ci dice qualcosa sulla persona intervistata, fa
dei commenti sulle esperienze vissute e raccontate dalle superstiti. In tal modo diciamo
che incastona nella narrazione autobiografica le esperienze femminili. Facciamo degli
esempi. Nel primo movimento della terza parte di L’Amour, la fantasia, i due paragrafi
Voix sono il racconto in prima persona di una donna che fin da piccola si è trovata
coinvolta nella guerra. Durante la fuga dal suo villaggio attaccato dai francesi perde il
fratello che rimane ucciso dal fuoco degli inseguitori. Nel paragrafo Corps enlacés che
chiude il movimento, riprende la narrazione in terza persona e viene ricostruito il
momento dell’intervista. La donna si chiama Cherifa. Nel rievocare la sua vicenda, ad un
97
certo punto la narratrice impiega la seconda persona rivolgendosi alla donna ormai non
più giovane:
Cherifa! Je désirais recrée ta cours: dans le champ isolé, l’arbre se dresse tragiquement
devant toi qui crains les chacals. Tu traverses ensuite les villages…Ta voix s’est prise au
piège: mon parler français la déguise sans l’habiller.133
Un “tu” che più che segno di contatto diretto vuole essere un'invocazione, che esprime
il grado di partecipazione emotiva dell’autrice. Lo stesso procedimento si riscontra nel
paragrafo Corps enlacés del terzo movimento, ci cui si narra di una donna del periodo
della prima fase della colonizzazione. Sopperendo alla carenza di fonti storiche si
ricostruisce il tormento di questa giovane madre, prigioniera che viene trasportata in
Francia su un piroscafo stracolmo, costretta a gettare il figlioletto morto in mare, senza
sepoltura e lontano dalla sua terra. Anche in questo caso il racconto della drammatica
esperienza diventa un’invocazione: «Je t’imagine, toi, l’inconnue… je te recrée, toi
l’invisible, tandis que tu va voyager avec les autres… je te ressuscite, au cours de cette
traversée que n’évoquera nulle lettre de guerrier français»134
.
Questi esempi mostrano quanto la Djebar sia attenta alla sofferenza femminile, quanto
la senta propria. Vive le esperienze di queste donne quasi come se fossero sue, come se le
avesse vissute personalmente, o vi avesse assistito. Il riandare insieme ad un avvenimento
traumatico significa, per la Djebar, riviverlo insieme. La solidarietà tra donne è anche
sostegno in questo sforzo di memoria che fa rivivere il dolore passato. Per questo la
ricerca della Djebar avviene all'insegna dell'atto del confortare, cioè infondere coraggio
per affrontare nuovamente il dolore.
Il livello di intimità che si instaura in tal modo è della stessa tipologia di quello con cui
la Isma/Assia rievoca i dolori vissuti dalla madre bambina, o dalla nonna materna in
Vaste est la prison. Si crea un intimo rapporto tra l’autrice e la donna di cui rievoca
l’esistenza attraverso il racconto, che si estende a tutte le donne. Questo intimo rapporto
non si instaura esclusivamente tra l’autrice e le altre donne ma riguarda anche il rapporto
che le donne hanno tra loro. Quando la zia materna di Isma, nell’abitazione della quale
133 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p 202, (corsivo mio).
134 Ivi, p. 267.
98
quest’ultima si è rifugiata dopo la rottura dei rapporti con il marito, nel raccontare la
storia della nonna materna della narratrice, lo fa con la stessa commossa partecipazione
che ho descritto sopra.
Nul ne s’en indigna toutefois, on laissa la fillette de quatorze ans être emportée pour la nuit
de noces entre les bras de l’homme (la tante hésita, puis ajouta crûment: ) entre le bras du
presque-cadavre! Elle semblait souffrir soudain, des décennies et des décennies plus tard, à
la place de la vierge Fatima entamant sa nuit de noces: je ne sais pourquoi, devant la tante
mémorialiste, je me sentis fascinée – mais aussi écorchée – par cette femme de plus de
soixante ans qui, évoquant sa mère morte depuis quinze ans, et remontant dans la vie de
celle-ci près de trois quarts de siècle en arrière, devenait non une fille émue ou amère,
seulement une femme faisant face à une autre femme et tentant, à sa place, de revivre les
orties, les épreuves de cette première destinée!135
Questa lunga citazione esprime esattamente quanto intendevo dire sopra. Come la zia
memorialista, anche la Djebar soffre assieme alle donne di cui rievoca la storia, ne rivive
le esperienze anche se avvenute in un passato remoto, anche se vissute da donne
sconosciute all'autrice.
Questa intima solidarietà, questa sorellanza si contrappone alle divisioni che esistono
tra donne create dalla società maschilista che la Djebar mostra per esempio nel paragrafo
Les voyeuses di L’Amour la fantasia. Per poter conquistare l’emancipazione e la parità tra
i sessi, si deve instaurare questo tipo di rapporto tra le donne. Si deve giungere ad un
sostegno impiegato non in funzione della sopportazione rassegnata, ma della resistenza.
Per questo la Djebar definisce la solidarietà tra donne con il termine “sorellanza”:
attraverso questa scelta semantica si vuole contrapporre al potere del matriarcato in cui
delle donne impongono il rispetto delle leggi islamiche divenendo di fatto un parallelo
del patriarcato. Inoltre, la modalità di trasmissione orale della memoria femminile è
largamente basata sul rapporto madre-figlia. Ed è proprio questo tipo di trasmissione che
cela determinati avvenimenti, che getta nell'oblio le sofferenze e le resistenze delle
donne. E, infatti, la Djebar verrà a conoscenza delle sofferenze della nonna materna e
della madre stessa attraverso il racconto della zia, che poi fissa nella sua scrittura. La
ricerca della Djebar è resistenza a questi silenzi; significa «utilizzare finzione e racconto
per riportare allo scoperto le resistenze antiche o le intime tragedie femminili che persino
135 ASSIA DJEBAR, Vaste est la prison, cit., p. 208.
99
la memoria delle donne cerca di seppellire»136
.
La rivendicazione dell'uguaglianza
Ma perché queste voci sono state sepolte? Attraverso la guerra, combattendo fianco a
fianco assieme agli uomini, soffrendo con loro, la donna ha raggiunto una certa
emancipazione. La parità dei sessi era stata raggiunta nella lotta per l’indipendenza. La
donna ha avuto un ruolo fondamentale proprio durante questo conflitto, ultimo atto della
secolare resistenza alla colonizzazione. Essa si è fatta, infatti, portatrice di bombe,
garantendo l’efficacia degli attentati terroristici. Sappiamo che proprio gli uomini, anche
quei familiari che in seguito la segregheranno nuovamente dietro le mura domestiche e le
imporranno il velo, spingevano la donna ad uscire (s)vestita alla maniera occidentale,
camuffata da cittadina francese, in modo da giungere senza destare sospetti nel luogo
dove poi avrebbero depositato le bombe. Durante la colonizzazione si sono sperimentate
nuove forme di relazione sociale tra uomo e donna all'insegna dell'uguaglianza. La guerra
coloniale per la donna è stata l'occasione per una prima emancipazione.
Finita la guerra, venuta meno l’urgenza del conflitto, le donne sono state nuovamente
recluse e l’eroismo dimostrato è stato posto sotto silenzio. Si è cercato di tacere o di
minimizzare il grande contributo dato dalle donne nella guerra di indipendenza. E nella
società post-coloniale le si è nuovamente ridotte al loro ruolo consueto, tradizionale e il
loro valore ridimensionato. Come dice Moukhlis, «the rise of religious fundamentalism
was perhaps most detrimental to women and to intellectuals with secular tendencies.
Algerian women, for instance, feel most betrayed by the promises of the revolution of
1954-1962. For they were an undeniable element of the revolution»137
. Dopo aver svolto
un ruolo essenziale nella resistenza al colonizzatore, le donne algerine dopo
l'indipendenza sono state nuovamente relegate sullo sfondo della vita cittadina, e
confinate nella vita domestica, proseguendo una lunga tradizione di violenza nei loro
confronti. Perché gli uomini vogliono mantenere i loro privilegi, perché voglio l'esclusivo
136 RENATE SIEBERT, op. cit., p. 196.
137 SALAH M. MOUKHLIS, op. cit., p. 115.
100
possesso dello spazio, come ho mostrato nell'analisi dei frammenti autobiografici dei testi
della Djebar. E allora comincia la guerra tra i sessi. E allora non si può non essere
femministe. La Djebar attua, dunque, un’operazione di scavo nel passato, rievocando le
esperienze belliche della donna col fine di far riemergere la sua vera essenza. Si attua lo
stesso procedimento di smantellamento dell’image verificatosi con la resistenza e la lotta
anticoloniale. Viene smantellata l’immagine che l’uomo costruisce della donna
contrapponendo a questa la realtà storica, mediante la quale dimostra che la donna sa
anche essere virile ed eroica, che è dotata di un coraggio, di una tempra morale e una
consapevolezza ideologica niente affatto inferiore a quella degli uomini. Rievoca la
partecipazione attiva della donna alla guerra in cui essa ha combattuto, resistito e sofferto
esattamente come l’uomo. L’accostamento tra la lotta coloniale e l’emancipazione
femminile che ho analizzato sopra sembra indicare un passaggio: la lotta di ieri per
l’emancipazione nazionale si travasa in quella di oggi per l’emancipazione femminile.
Per la Djebar la guerra non è ancora terminata: denunciata, fronteggiata e infine vinta la
prevaricazione coloniale, occorre ora opporsi alla sottomissione femminile. Vi è come
una staffetta, un passaggio di testimone tra le due. E, secondo il procedimento illustrato
sopra, l’urgenza del presente assegna il primato all’emancipazione femminile. La lotta
delle donne di ieri continua nella lotta delle donne di oggi.
Questo passaggio di testimone tra la resistenza coloniale e la resistenza femminile
viene esplicitato ulteriormente nell'episodio di apertura di Vaste est la prison. Durante il
bagno all'hamman, un luogo riservato alle sole donne, la narratrice scopre, udendo una
conversazione tra a zia e una sua amica, che è uso comune nei discorsi tra donne riferirsi
al proprio marito con il termine arabo e'dou che significa “nemico”.
Ce mot, dans sa sonorité arabe, l'e'dou, avait écorché l'atmosphère environnante. Ma
compagne contempla, désemparée, le total étonnement qui emplissait mes yeux. Elle
esquissa un sourire contraint; peut-être aussi ressentit-elle seulement en cette instant une
sorte de honte
Oui, “l'ennemi”, murmura-t-elle. Ne sais-tu pas comment, dans notre ville, les femmes
parlent entre elles?... (Mon silence durait, chargé d'interrogation) L'ennemi, eh bien, ne
comprends-tu pas: elle a ainsi évoqué son mari!
101
Son mari l'ennemi? Elle ne semble pas si malheureuse! Mon interlocutrice, sur le coup,
parut agacée par ma candeur:
Son mari, mais il est comme en autre mari!... L'“ennemi”, c'est une façon de dire! Je le
répète: les femmes parlent ainsi entre elle depuis bien longtemps... Sans qui le sachent,
eux!138
L'evento, che sappiamo essere autobiografico, non è datato ma si svolge comunque
dopo la guerra di liberazione. Durante il regime coloniale, e ancor più durante la guerra di
liberazione, l'e'dou era sempre stato il francese colonizzatore. È estremamente
significativo il fatto che le donne, non solo la nostra autrice, impieghino nel loro
linguaggio un termine che fino ad ora aveva indicato il nemico francese per riferirsi
all'uomo, al loro marito.
La sovrapposizione tra colonizzatore e uomo nella tradizione islamica è completa.
Essa fonda la sua ragion d'essere sul fatto che entrambi i soggetti sono dei prevaricatori,
instaurano un regime fondato sul principio di dominazione. E l'uomo algerino che ha
combattuto assieme alla donna contro questa prevaricazione ora si fa prevaricatore. Attua
una oppressione strettamente affine a quella contro la quale si è battuto per più di un
secolo. Diventa lui l'e'dou, il francese che ha fino da ora combattuto. L'Algeria è ancora
caratterizzata dal regime di dominazione. Per questo la resistenza deve continuare. Non è
un nemico particolare, il francese o il romano o l'arabo, che si deve fronteggiare con tutte
le forze; bensì l'oppressione, la prevaricazione e chiunque la attui.
L'impegno del verbo
Attraverso la storia la Djebar ricostruisce una tradizione di riferimento per la donna.
Ora, a questa tradizione si aggiungono anche esperienze femminili del presente, tra cui
quelle della stessa Djebar. In questo contesto si collocano anche le vicende di donne che
l’autrice richiama nel percorso autobiografico di entrambi i romanzi, fra le quali
particolarmente interessanti sono quelle delle sue parenti. Sono esperienze di
138 ASSIA DJEBAR, Vaste est la prison, cit., pp. 13-14.
102
trasgressione, di lotta, di resistenza. Si è visto come la madre sia una figura atipica di
donna islamica. E questo grazie al marito e alla lingua francese. Non indossa più il velo,
nelle conversazione tra donne nomina direttamente il coniuge e ha visitato diverse zone
della Francia per andare a trovare il figlio Selim imprigionato durante la guerra di
indipendenza. Sono tappe graduali verso un maggior grado di emancipazione.
Significativa anche la figura della nonna materna, che andando contro la tradizione
islamica, decide di separasi dal suo secondo marito, di gestire in proprio i suoi beni e il
suo destino. Virilmente prende in mano la sua vita, decide di non risposarsi più
conducendo la sua esistenza secondo la sua volontà, non più assoggettata.
Raccontando esperienze autobiografiche la Djebar si inserisce in questa tradizione di
resistenza. La sua condizione e le sue esperienze contravvengono alle leggi del discorso
patriarcale. Queste esperienze sono atti trasgressivi e lo si è visto nel capitolo dedicato
all’autobiografia. Ma la trasgressione più importante, quella più pericolosa, è la scrittura.
E la scrittura autobiografica in particolare, perché, come si è detto, costituisce un modo di
espressione personale con cui la donna potrebbe prendere coscienza della propria
soggettività. La scrittura della Djebar, inoltre, si fa deposito di tutta una serie di
esperienze trasgressive che potrebbero costituire un punto di riferimento per le altre
donne. La sua scrittura si fa veicolo attraverso cui le donne che sono state private della
voce possono parlare. Mireille Calle-Gruber ha, infatti, definito L’amour, la fantasia non
solo un discorso sulla conquista ma una conquista del discorso. È la donna a prendere la
parola per esprimersi, raccontarsi e raccontare la storia del suo paese. Oltre a farsi
deposito delle esperienze delle donne, la scrittura della Djebar si fa grammofono della
loro voce. Dissotterra le voci sepolte nel silenzio e amplifica quelle soffocate dalla
tradizione islamica. La poetica della Djebar è, appunto restituire la voce alla donna. E
attraverso ciò rendergli la propria esistenza, minacciata dall’oblio. La scrittura diviene
l’atto trasgressivo più significativo perché diviene strumento di denuncia sociale. L’atto
della scrittura assume una valenza esistenziale fondamentale.
Vorrei ora distanziarmi dalla lettura di Salah Moukhlis che sostiene che il soggetto
collettivo della donna costruito dalla Djebar sia un modo di procedere che non si
differenzia dalle modalità del discorso coloniale. Riallacciandosi a Orientalism di E. Said
103
ricorda come una delle dichiarazioni più caratteristiche del discorso coloniale è che i
nativi non siano in grado di governarsi e perciò debbano essere governati; che essi non
siano in grado di parlare di sé, di dirsi e che di conseguenza necessitino di qualcuno che
parli di loro, debbano cioè essere detti. E questo, prosegue lo studioso, è un altro livello
sul quale la Djebar si contrappone al discorso coloniale contrastando la validità di questa
logica e parlando, lei che è una nativa, di sé e del suo popolo, ripercorrendone e ri-
costruendone la storia, cosa che era stata prerogativa degli studiosi orientalisti. Non è più
il dominatore, il vincitore, il potere insomma a parlare dei vinti, dei sottomessi: ora la
parola passa al sottomesso che rivendica il diritto al discorso, all'autorappresentazione e
all'autodeterminazione. Tuttavia, secondo Moukhlis, nel fare questo la Djebar
adotterebbe la stessa logica contro cui si batte. Anche lei scrive in francese e, attraverso il
concetto del soggetto collettivo, pretende di parlare a nome delle donne. Infatti, sostiene
Moukhlis, l’io della narrazione di L’Amour, la fantasia ha un innegabile aspetto
rappresentativo. Qui mi trovo d’accordo con lo studioso dato che il carattere di anonimità
mantenuto dall’assenza del nome della narratrice potrebbe essere letto come un
espediente per far intendere che dietro quell’io si potrebbe collocare qualsiasi donna. Di
conseguenza la Djebar parlerebbe in nome di tutte le donne algerine proprio come il
colonizzatore parla in nome di tutti i colonizzati. Le donne algerine sarebbero, dunque,
raccontate, espresse dal suo punto di vista. Lo studioso prosegue mostrando lo stato
paradossale di questo io narratore: da un lato, la Djebar è una donna nata da genitori
appartenenti ad una classe sociale privilegiata e pronti culturalmente e finanziariamente a
permetterle di avere un’educazione e di lasciare la propria casa per il mondo esterno;
dall’altro, pretende di parlare per tutti gli algerini, uomini e donne, che non
necessariamente condividono la sua classe sociale, la sua educazione o la sua cultura.
We come, therefore, to the ineluctable question: how different then is the narrator from the
colonizer? If they both write in the same language, use the same representational tools, and
represent the same subjects, what makes the narrator’s representation more authentic or
true than the colonizer’s?139
si chiede Moukhlis. Per lo studioso non conta stabilire quale dei due discorsi
139 SALAH M. MOUKHLIS, op. cit., p. 122.
104
contrapposti sia vero e quale falso. Ciò che è di fondamentale importanza è il fatto che un
discorso finora incontestato, frutto dell'autorità derivante dalla dominazione, sia stato
sfidato, contestato e destabilizzato. Ad essere rilevante è il fatto che al testo coloniale è
stato contrapposto un altro testo, altrettanto valido, che ne nega l’indiscussa autorità.
Ora, nonostante vi siano innegabili elementi di verità nella riflessione di Moukhlis, mi
sembra che abbracci quella teoria denunciata come perniciosa da Carr e Ricoeur secondo
la quale ogni visione della storia o di un determinato fenomeno storico è soggettiva e
intrinsecamente valida.
Ho mostrato, tramite le riflessioni di Carr e Ricoeur, come in realtà non sia proprio
così e come sia possibile stabilire un criterio che indichi quale discorso sia più completo,
più aderente alla realtà. Questo avviene quando un discorso riesce a considerare e
comprendere diversi punti di vista su un dato fenomeno. Il discorso coloniale trascurava
il punto di vista dei colonizzati. Si dava un immagine parziale e viziata dall'interesse a
conservare il potere legittimando l'atto di usurpazione mediante il quale è stato
conquistato.
Pur trattandosi di un testo letterario, la modalità di rievocazione si basa sulla
metodologia della storiografia. Nel corso della mia analisi è emerso come la Djebar sia
attenta nella composizione del suo racconto a partire dalle fonti ad ancorarsi ai documenti
che, come si è detto con Ricoeur, determinano l'ambizione veritativa del discorso storico.
Non sto dicendo che il discorso coloniale sia vero o falso, ma solo che esso è contaminato
e in un certo modo falsato da interessi di parte che la Djebar denuncia ricorrendo a
documenti francesi. Quindi credo che si possa affermare, se non altro, che il discorso
della nostra autrice è più completo, perché attraverso la demistificazione degli stereotipi
colonialisti (e maschilisti) conferisce alla sua versione dei fatti una maggiore aderenza
alla realtà.
Non conta solamente che il discorso coloniale venga contestato, messo in discussione;
conta anche il modo con cui si compie questa operazione, che ne determina il grado di
legittimità. Se uno degli assunti caratteristici del discorso coloniale è che il nativo è
inferiore, in preda ad un barbaro fanatismo ed ad una crudeltà inumana, la Djebar mostra
tramite i documenti che i gesti di crudeltà compiuti dagli arabi non sono diversi in
105
sostanza da quelli compiuti dai francesi, e come questi tentino di mascherare o sorvolare
sui loro crimini denunciando solo quelli subiti. Mostra come questa operazione sia
funzionalizzata alla costruzione di un'immagine decorosa per la Francia, che però risulta
artificiale, distante dalla cruda realtà.
Nella ricostruzione della spedizione di Lamoricière da Orano, la Djebar si basa sul
resoconto scritto di Bosquet e Montaignac. Facendo una vera e propria analisi testuale,
mostra come gli autori siano affascinati dallo spettacolo delle battaglie, come si lascino
andare alla descrizione dei paesaggi e a commenti sulla loro bellezza. Il tutto in una prosa
elegante. Ma Bosquet non può fare a meno di riportare un particolare macabro: un piede
femminile mutilato per impadronirsi del khalhkhal (un braccialetto d'argento che le donne
portano alla caviglia). La Djebar scrive
parmi ces relations fiévreuses, des scories surnagent: ainsi ce pied de femme que quelqu'un
a tranché pour s'emparer du bracelet d'or ou d'argent ornant la cheville. Bosquet signale ce
“détail” comme négligemment. Ainsi ces sept cadavres de femmes (pourquoi avaient-elles
choisi, dans le ralenti de la surprise, de se présenter en injurieuses?), les voici devenues,
malgré l'auteur du récit, comme des scrofules de son style.140
Quindi, il discorso coloniale crea una rappresentazione letteraria edulcorata della
guerra, ma talvolta emergono delle scorie. La ricerca storica della Djebar individua questi
“bubboni dello stile”, squarci su una realtà oscura che il discorso coloniale tende a porre
in secondo piano, li ripresenta, li riconsidera, li riposiziona mettendoli al centro del suo
discorso. Sotto questo aspetto la sua ricerca è finalizzata «ouvrir, pour des aveugles, un
registre obituaire»141
, mostrare-denunciare la realtà per chi non vuole vedere.
La demistificazione degli stereotipi coloniali, la denuncia dei silenzi interessati (come
ad esempio quello di Saint-Arnaud): questa è la missione della scrittura della Djebar. E
questo vale anche per il discorso della tradizione maschilista che opprime la donna.
Per smascherare e smantellare l'impianto ideologico che sostanzia e guida questi
discorsi, la nostra autrice ricorre a modalità narrative referenziali, nello specifico quella
storica e quella autobiografica. La sua scrittura è ancorata alla realtà.
Moukhlis dice ancora che la questione dell'autenticità dei due discorsi diventa
140 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 82.
141 Ivi, p. 113.
106
irrilevante se si considerano entrambi in una prospettiva postmoderna della realtà e della
finzione. Secondo questa prospettiva il confine tra fatti storici e finzione è sfumato.
Linda Hutcheon, un'esperta della scrittura postmoderna citata da Moukhlis, dice che la
storia non è più l'unica pretendente alla verità e che sia questa che la finzione
contribuiscono ugualmente alla nostra comprensione del passato, essendo entrambi
sistemi di significazione costruiti dall'uomo per poter comprendere la realtà. In questo
senso L'Amour, la fantasia testimonierebbe la potenza dell'immaginazione e della
rappresentazione finzionale. E conclude così:
texts like L'Amour, la fantasia bring freedom to discursive practices. The two are
inextricably related and interdependent. Having obtained control over the land is
not enough. To use Benedict Anderson's phrase, the nation and community have to
be imagined, and this is exactly what Djebar offers. As the colonizer imagined
Algeria according to his own perspective, Djebar imagines now a free Algeria and a
free community of women. In so doing, she beats the colonizer at his own game.142
Senza ombra di dubbio il testo della Djebar offre un modo per immaginare il proprio
paese. Io stesso ho sottolineato poco sopra, rifacendomi a Mireille Calle-Gruber, come il
testo sia anche la conquista di un discorso autonomo del soggetto sottomesso su se stesso.
Ma non bisogna sottovalutare il fatto che questo discorso sia ancorato alla realtà. La
Djebar immagina un'Algeria libera e una libera comunità di donne perché scorge nel
passato coloniale questa possibilità. Il senso della scrittura djebariana è molto vicino a
quello della scrittura della storia.
Grazie alla lingua francese donatale dal padre la Djebar ha potuto abbandonare l'harem
e osservare il mondo esterno. Sopravvive al soffocamento esistenziale attuato dalla
società patriarcale nei confronti delle donne. Come ho mostrato nell'analisi delle sezione
autobiografiche ha potuto godere di una libertà sconosciuta e interdetta alle altre donne.
Ma nel paragrafo La tunique de Nessus del quinto movimento di L'Amour, la fantasia,
rievocando la scena del primo giorno di scuola, scrive:
soudain, une réticence, un scrupule me taraude: mon “devoir” n'est-il pas de rester “en
arrière”, dans le gynécée, avec mes semblables? Adolescente ensuite, ivre quasiment de
142 SALAH M. MOUKHLIS, op. cit., p. 122.
107
sentir la lumière sur ma peau, sur mon corps mobile, un doute se lève en moi: «Pourquoi
moi? Pourquoi à moi seule, dans la tribu, cette chance?».143
Questo scrupolo, questa preoccupazione per coloro che si è lasciata dietro sarà la
molla della sua scrittura. Non sfrutta la sua libertà solo per se stessa. Potendo osservare il
mondo esterno, poterlo raccontare da anche la possibilità di osservare e denunciare la
condizione di emarginazione a cui è sottoposta la donna. In quanto strumento di indagine
della realtà, la scrittura in lingua francese può diventare il mezzo di una denuncia sociale.
Con uno sguardo retrospettivo la Djebar può raccontare la condizione d’emarginazione
della donna, ponendo le basi per un cambiamento, cioè trasformando il racconto in
possibilità d’azione politica. Tra le opportunità che la lingua francese offre viene esclusa
quella della fuga e il totale distacco dalla propria cultura mentre viene scelta la possibilità
di intervenire per migliorarla. Di qui la necessità della testimonianza attraverso la
scrittura. Sempre nel paragrafo La tunique de Nessus l'autrice definisce la scrittura come
sopravvivenza. Riprenderà questa definizione nella raccolta di saggi Ces voix qui
m'assiègent dicendo
Écriture ni de la nostalgie (comme celle de l'exil), ni de la mélancolie (comme celle du
voyage romantique), plutôt une trace entêtée de survivant. Survivre, et en rendre compte,
ne serait-il pas à la fois une apparente gratuité, un accident, une chance dont on aurait
quelque peu honte si elle ne se transmuait pas en devoir de mémoire, en exigence de
solidarité?144
Ecco spiegato il senso di missione che l’autrice conferisce alla sua prassi poetica.
Emerge, in tal modo, una concezione moderna della storia in quanto atto liberatore che
restituisce al presente tutte le sue virtualità derivanti dal passato. Ecco il senso di
quell'operazione letteraria di assimilazione di lotta anticoloniale e lotta per
l'emancipazione femminile. Quest'aspetto della scrittura storica la nostra autrice lo
trasferisce alla sua scrittura letteraria, conferendogli un profondo significato, che fonde le
dimensioni del poetico e del politico.
L'intento della Djebar è far parlare i silenzi della storia, denunciare il soffocamento a
cui sono sottoposte le donne nella società presente e rendere loro la voce. Lei che ha
143 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 297.
144 ASSIA DJEBAR, Ces voix qui m’assiègent, cit., p. 209.
108
avuto la possibilità di scampare all'imposizione del silenzio denuncia e contrasta
quest'imposizione. Per questo
écrire serait inévitablement nous cogner, à travers elles, nous-même, à ces murs du silence,
à cette invisibilité. Écrire deviendrait-il, par cela même, à cause de cette urgence, “écrire
pour”, c'est-à-dire un engagement du verbe, une écriture de passion et de lutte? Rien n'est
moins sûr!145
Ecco la dimostrazione dell'assottigliamento del confine tra poetico e politico che anche
Mireille Calle-Gruber sottolinea quando afferma «car, bien sûr, la question de la
différence sexuelle est éminemment politique. Elle révèle, un effet, que tel régime n'est
que postcolonial, encore fondé c'est-à-dire sur le principe de domination»146
. Non si tratta
soltanto di immaginare una nuova società futura che sia veramente egualitaria bensì di
lavorare/lottare attraverso la scrittura per la sua costruzione.
Il verbo è impegnato nella lotta all'oblio, all'invisibilità delle donne e attraverso la
testimonianza delle loro sofferenze, dei loro gesti di trasgressione e delle loro battaglie,
porre le basi per un nuovo tipo di relazione sociale basata sul riconoscimento e sul
rispetto delle differenze in termini di uguaglianza di diritto. Per questo la Call-Gruber ha
inserito nel titolo del suo studio la frase la résistance de l'écriture, perché la scrittura
della Djebar diventa la sede di resistenza delle donne, della loro lotta.
E in questo punto prendo ulteriormente le distanze dall'interpretazione di Moukhlis.
Infatti, l'intento profondo della Djebar è quello di rendere voce alle donne, restituire loro
la parola affinché possano essere sentite, che la loro esistenza sia percepita. Tant'è che in
L'Amour, la fantasia, nel riportare le interviste alle guerriere, cede la parola alle donne
facendole parlare direttamente in prima persona. Si potrebbe ribattere che è pur sempre la
Djebar che organizza il discorso, che seleziona le voci a cui restituire il suono. Ma non
credo che vado sottovalutato il fatto di affidare la parola direttamente alle donne,
moltiplicando i soggetti narranti, i punti di vista. Inoltre dall'intervista con Renate Siebert
emerge la preoccupazione della Djebar di rendere il più fedelmente possibile il racconto
delle donne, di adattarsi al loro modo di esporre il racconto. Questo indica la volontà di
145 Ivi, p. 93.
146 MIREILLE CALLE-GRUBER, op. cit., p. 79.
109
accogliere queste esperienze e restituirle così come sono, immedesimandosi con le
narratrici piuttosto che parlando in loro vece. Il fatto che queste voci parlino attraverso la
scrittura della Djebar non significa necessariamente che la Djebar sovrapponga il suo
punto di vista al loro. Ho mostrato nel corso dell'analisi precedente come inscriva le
esperienze femminili nella sua scrittura e nella sua autobiografia. I suoi testi risultano
polifonici proprio perché composti da più voci che l'autrice si preoccupa solo di far
sentire non di alterare. La Djebar è molto attenta alle differenze che caratterizzano
ciascuna donna. Per esempio, parlando della nonna materna ne mostra anche le
contraddizioni. Infatti, se da un lato essa può essere considerata una donna evoluta,
emancipata perché virilmente ha preso in mano e condotto autonomamente la sua
esistenza, dall'altra è la figura che all'interno delle riunioni femminili si fa custode delle
pratiche tradizionali che imprigionano la donna, nello specifico il divieto ad esprimere
con troppa enfasi il proprio dolore.
La Djebar, oltre che essere una delle voci del coro che costruisce nei suoi testi, è
indubbiamente direttrice di questo coro. Ma mi sembra che questa prassi non si possa
paragonare a quella del discorso coloniale sui nativi. Ad impedire questo accostamento è
anche l'importanza che la Djebar dedica all'ascolto delle altre donne che ho evidenziato
precedentemente.
Per questo l'autrice scava nel passato alla ricerca di una tradizione femminile di lotta,
di resistenza che testimoni l'autentico valore della donna e che legittimi la pretesa alla
parità con l'altro sesso. Ho detto sopra che la scrittura della storia si fa prima di tutto
attraverso la memoria dei sopravvissuti. Quindi, anche per la storia delle donne che la
Djebar tenta di costruire la base di partenza è la memoria femminile. La storia si scrive
per riprese, raccogliendo e accostando i ricordi di coloro che hanno vissuto o hanno
sentito raccontare gli avvenimenti. Il compito che si dà la nostra autrice è quello di
raccogliere queste testimonianze e di trascriverle affinché possano essere nuovamente
trasmesse, consentendo di non rompere la catena della tradizione. La Djebar in questo
modo conferisce voce alla donna, rievocando tutte quelle esperienze che sono sepolte nel
silenzio e minacciate dall'oblio. Le voci si rispondono, si fanno eco, si completano
secondo un sistema polifonico costitutivo della scrittura della Djebar. Questa
110
caratteristica emerge sia nella narrazione storica che in quella autobiografica, come ho
mostrato.
Dietro le sue parole non scorgiamo soltanto la Djebar stessa, ma tutta una serie di
donne del presente e del passato che parlano attraverso la scrittrice. A tenere la penna, a
scrivere, non è solo la mano dell'autrice: tutta una collettività di figure, maschili e
femminili, guidano la sua mano. L'intento della Djebar non è parlare in loro vece ma farli
parlare, restituire loro la voce sepolta sotto il silenzio del tempo, o quello imposto dalla
claustrazione, quello che minaccia di inglobare le donne. Sono queste voci che
l'assediano, per impiegare il titolo della raccolta di saggi del 2001, a costituire la molla
della sua scrittura.
Vorrei concludere il discorso analizzando una splendida immagine contenuta in
L'Amour, la fantasia che mi sembra riassumere quanto detto fino ad ora.
Nel paragrafo L'air de nay della sezione finale intitolata Tzarl-rit racconta di un
episodio capitato al pittore Eugene Fromentin che questi riporta nel suo resoconto del
viaggio in Algeria. Scrive la Djebar:
En juin 1853, lorsqu'il quitte le Sahel pour une descente aux portes du désert, il visite
Laghouat occupée après un terrible siège. Il évoque alors un détail sinistre: au sortir de
l'oasis que le massacre, six mois après, empuantit, Fromentin ramasse, dans la poussière,
une main coupée d'Algérienne anonyme. Il la jette ensuite sur son chemin. Plus tard, je me
saisis de cette main vivante, main de la mutilation et du souvenir et je tente lui faire porter
le “qalam”.147
La mano mutilata e il tentativo di mettergli il qalam tra le dita sono immagini
estremamente significative.
Come scrive Moukhlis, il termine qalam è la trascrizione di due possibili parole arabe:
il primo significato è quello di penna, (anche se questa parola si trascrive anche con
kalam); l'altro è invece discorso. Ora, nella tradizione islamica la penna è un elemento
estremamente significativo perché compare nel primo verso che fu recitato dal profeta
Maometto e perché, riferendosi implicitamente alla scrittura, segna l'origine della
trasmissione islamica, basata, appunto sul Libro per eccellenza, cioè il Corano.
Simbolizza il movimento che porta dall'ignoranza alla saggezza, dall'oscurità alla luce. Il
147 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 313.
111
termine, per la sua densità semantica, non è ovviamente casuale. La penna è un chiaro
simbolo fallico e rappresenta il potere di cui si è appropriata la società patriarcale.
Rimanda ad una ideologia che ha segregato la donna, le ha negato l'accesso allo spazio
pubblico e le ha impedito di esprimersi attraverso la scrittura. Nella scena riportata sopra
la Djebar compie una simbolica rivoluzione: affida questa sorta di scettro fallico che è il
qalam, simbolo del potere maschile, nella mano di una donna. Cioè conferisce potere alla
donna sovvertendo tutti le prescrizioni della tradizione islamica. Maschilista e patriarcale.
Questo simbolico conferimento del potere alla donna, la cui condizione è ben
rappresentata dalla mano femminile mutilata, proprio come l'esistenza delle donne
rinchiuse nell'harem, è supportato anche dall'altro significato di qalam, cioè discorso.
Come ho detto poco sopra con la Calle-Gruber, i testi della Djebar sono costituiscono la
conquista di uno spazio discorsivo per la donna. Con questo simbolico gesto la Djebar
esprime il uno degli scopi più profondi della sua scrittura: quello di dare voce alle donne
attraverso la scrittura, di donare il discorso alle donne, attraverso il quale esse possono
esprimere la loro soggettività e giungere ad una più piena esistenza. Credo sia questo il
significato primario di questa splendida metafora della condizione della donna e della
poetica della Djebar. Ma si può dare una seconda lettura dell'immagine, altrettanto
suggestiva. Si potrebbe, infatti, interpretare la mano mutilata come una rappresentazione
dell'Algeria coloniale, anch'essa non libera per via dell'invasione francese, quindi
dall'esistenza monca, quell'essere nel proprio paese senza esserci, come dice un
personaggio di Vaste est la prison, indice di una condizione alienante. Mutilata da una
storia scritta da altri, cioè i colonizzatori. Allora, rifacendosi al secondo significato di
qalam che, come detto sopra, indica il discorso, l'intento della Djebar sarebbe quello di
rendere voce al colonizzato, riconquistare uno spazio di discorso per l'intera Algeria. La
validità di entrambe le letture è, a mio giudizio, un atto consapevole dell'autrice che
conferma le mie precedenti ipotesi sull'accostamento e la fusione della tematica coloniale
e di quella femminile. Si dimostra una volta di più la grande consapevolezza delle
strettissime affinità che accomunano discorso coloniale e discorso maschilista-patriarcale.
La poetica della Djebar, il suo scopo profondo, è rendere voce ai sottomessi: questa,
come ho già detto, è la dimensione comune a colonizzato e donna. Tuttavia, data
112
l'urgenza del presente, mi sembra che la condizione femminile abbia una, seppur lieve,
predominanza. Infatti, anche nell'immagine che ho appena analizzato, il fatto che la mano
mutilata sia una mano femminile e il fatto che il qalam sia un chiaro simbolo fallico che
rimanda al potere maschile, rievoca immediatamente la contrapposizione sessuale che è
una delle questioni più spinose della società algerina postcoloniale.
113
CAPITOLO VI
LA QUESTIONE DELLA LINGUA
Nel precedente capitolo ho esaminato la funzione della storia nei testi della Djebar,
con particolare riguardo per L'Amour, la fantasia, stabilendo che essa fosse un
approfondimento della ricerca identitaria intrapresa dall'autrice nei frammenti
autobiografici. Ho cercato di mostrare come questa ricerca non riguardasse
esclusivamente il livello individuale dell'autrice ma coinvolgesse più soggetti, in
particolare la collettività femminile. La Djebar inserisce le sue esperienze accanto a
quelle di altre donne del presente e del passato, costruendo una tradizione di riferimento,
una storia femminile che indichi le possibilità per la futura emancipazione. Questo è il
senso della scrittura djebariana: scavare nel passato per restituire al presente tutte le sue
virtualità derivanti da questo.
Il passato, immobilizzato nella tradizione, è apparso per lungo tempo come una
protezione contro un presente alienante. Dunque, la tradizione è anche un modo di
salvaguardare una integrità identitaria minacciata dagli apporti stranieri, dagli apporti del
nemico. Ma il rischio è di rimanere bloccati in questo passato. Mentre si profilano invece
dei nuovi giorni, che però per essere fecondi non devono considerare il periodo della
colonizzazione come un corpo estraneo alla storia dell'Algeria ma incluso in una
continuità costruttrice. E questo soprattutto per la condizione femminile. Per questo
l'autrice scava nel passato alla ricerca di una tradizione femminile di lotta, di resistenza
che testimoni l'autentico valore della donna e che legittimi la pretesa alla parità con l'altro
sesso. La tradizione islamica è stata oppressiva nei confronti delle donne. Durante la lotta
anticoloniale, come ho detto, c'è stata una evoluzione della condizione femminile, c'è
114
stata un certa emancipazione. Quindi vi sono stati elementi positivi.
Inoltre, la colonizzazione ha conservato una traccia permanente nella società
postcoloniale con la lingua francese.
Il problema della lingua nelle società post-coloniali
Il problema della lingua è una delle principali questioni con cui intellettuali e scrittori
postcoloniali hanno dovuto confrontarsi. La colonizzazione ha avuto, infatti,
importantissime ripercussioni culturali, oltre che economiche e politiche. È bene
ricordare che la colonizzazione ha avuto un enorme impatto culturale: innanzitutto, la
presenza di gruppi di colonizzatori con i loro eserciti che ostentavano la loro superiorità
tecnologica da cui derivava la loro forza militare e propagandavano la loro civiltà e la
loro cultura esaltandole e contrapponendole a quelle locali, ebbe un forte effetto sulle
popolazioni colonizzate. Si può affermare che il progetto di imporre un senso di
inferiorità a tutto il mondo non occidentale ebbe sostanzialmente successo poiché le
popolazioni sottomesse disconobbero i propri valori e la propria cultura tradizionale e
cercarono di identificarsi nella cultura dei colonizzatori che percepivano superiore, di
maggior prestigio. La propaganda dei colonizzatori fu efficacie perché tramite essa
riuscirono ad imporre l'idea che la loro presenza avrebbe comportato un miglioramento
nelle condizioni di vita dei popoli sottomessi, che si avrebbe avuto un progresso. È fin
troppo nota la famosa metafora del “faro di civiltà”impiegata nei discorsi di Leopoldo II,
sovrano del Belgio nella seconda metà del XIX secolo, per descrivere la missione
civilizzatrice che guidava la conquista del Congo; un concetto assimilabile al kipliniano
“fardello dell'uomo bianco”. Lo strumento fondamentale di questa missione civilizzatrice
era la lingua. Essa è in qualche modo l'incarnazione di una cultura. Il fatto che i barbari
indigeni riuscissero ad apprendere e parlare una lingua ricca di secoli di civiltà come
l'inglese o il francese (per citare quelle più diffuse in ambito coloniale)veniva
effettivamente considerato un progresso.
Dunque, nel momento della cacciata dei colonizzatori, le basi della cultura indigena
risultavano messe in crisi e fra queste la lingua, uno dei tratti fondamentali di ogni
115
comunità e distintivo di un'identità collettiva. Gli imperi coloniali esportarono le proprie
lingue che divennero idiomi dell'amministrazione, della politica e della cultura. Perciò,
l'accesso alla lingua coloniale era per i sottoposti un mezzo certo si promozione,
attraverso cui giungere ad un maggiore grado di prestigio sociale. Il fatto che le lingue
coloniali siano sopravvissute ben oltre gli imperi coloniali ha posto agli intellettuali e agli
scrittori colonizzati problemi notevolissimi. Non si tratta comunque di una questione
esclusivamente letteraria. Intere società sono investite dal problema della scelta di una
lingua ufficiale. A questo problema si sono prospettate due soluzioni alternative e fra
loro opposte incarnate nelle posizioni di due autori postcoloniali, il nigeriano Chinua
Achebe e il keniota Ngugi Wa Thiong'o. Il primo sostiene l'adozione dell'inglese come
lingua nazionale considerando il multilinguismo di fatto della maggior parte dei paesi
africani. E dice come per lui non esista una scelta reale: gli è stata data quella lingua e ha
intenzione di utilizzarla. Precisa però che non si può trattare dello stesso inglese
impiegato del colonizzatore: «è mia opinione che l'inglese saprà sostenere il peso della
mia esperienza africana. Dovrà essere però un nuovo inglese in totale comunicazione con
la casa sei suoi antenati, ma mutato per poter corrispondere al contesto africano»148
.
Achebe accoglie l'uso della lingua straniera per inserirvi contenuti specificamente
africani. Ngugi Wa Thiong'o, invece, abbandona la lingua straniera insistendo sulla
connessione tra lingua e civiltà. Secondo lo scrittore keniota, la lingua è l'espressione di
una cultura e quindi perpetua le strutture mentali del popolo che l'ha creata e la usa.
Utilizzare la lingua dei dominatori significa in qualche modo farsi loro complici e
abdicare la propria identità.
Nel mondo politico algerino prevalse questa posizione soprattutto con l'ascesa di Ben
Bella e di Boumédienne, che promossero un'intensa campagna di arabizzazione.
Nell'intervista con Renate Siebert più volte citata, la Djebar si sofferma su questo tema e
fa un rapido cenno a come il suo paese abbia affrontato la questione della lingua. Per
l'Algeria il problema era diventato un problema di identità nazionale e si è trasformato in
una sorta di paranoia, di malattia. Il confronto radicale contro l'invasore francese
148 FRANCESCA NERI, Multiculturalismo, studi postcoloniali e decolonizzazione , in Letteratura
comparata, a cura di Armando Gnisci, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p. 217.
116
proseguiva nel contrastare quel retaggio del regime che è la lingua.
La lingua francese come tunica di Nesso
Ma si è già visto quale particolare significato abbia il francese per la Djebar.
Ed è proprio quest'ultima che, come è stato ripetutamente evidenziato, ha consentito
all'autrice di emanciparsi. Scrive: «ainsi de la parole française pour moi. La langue
étrangère me servait, dès l'enfance, d'embrasure pour le spectacle du monde et de ses
richesses»149
. La parola francese per l'autrice è stata un veicolo di libertà. La lingua
francese si è fatta mezzo di evoluzione per la condizione della donna anche per la madre
dell'autrice che, come si è visto nell'analisi delle sezioni autobiografiche, ha potuto
gradualmente raggiungere una condizione di relativa libertà. Ancora grazie alla lingua
francese la Djebar ha potuto non solo scampare all'harem ma anche esprimere la sua
soggettività attraverso la scrittura e raccontare le sofferenze delle donne, restaurarne,
attraverso la storia, il loro autentico valore.
Per tutti questi motivi la colonizzazione ha aspetti negativi e aspetti positivi. E,
attraverso la sua scrittura, la Djebar sottolinea questa ambivalenza. La colonizzazione ha
segnato profondamente la storia dell'Algeria e degli algerini e, tramite la lingua francese,
la storia personale della Djebar. Per questo la ricerca storica è un approfondimento della
ricerca identitaria: perché, attraverso il testo letterario, proietta nella storia questo
ambiguo rapporto di amore-odio che la Djebar intrattiene con la lingua francese e,
dunque, con il fenomeno coloniale e che caratterizza la sua personalità. Conferisce
spessore ad un motivo autobiografico attraverso la ricerca storica. È una delle
motivazioni principali che spingeranno l'autrice verso la scrittura autobiografica. Lo
testimonia lei stessa in più occasioni. Nell'intervista con la Siebert dice, infatti, che è
soprattutto il suo interrogarsi sulla lingua francese, sul significato del suo impiego nella
scrittura che sostanzierà la sua scrittura autobiografica. Raccontando le sue difficoltà alla
conclusione del libro dice: «quel che mi aveva bloccato non erano stati dei problemi di
intreccio, bensì dei problemi di rapporto con me stessa e il mio interrogarmi sulla lingua.
149 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 180.
117
Nell'ultima parte avevo sentito che in me c'era una sorta di conflitto tra le due lingue, il
francese e l'arabo»150
. Ed è proprio questo conflitto che tenta di rappresentare nelle sue
opere. Anche in Ces voix qui m'assiègent, parlando della decisione che l'ha portata alla
scrittura autobiografica, dice: «la raison de cette décision? Je découvris un jour que,
jusqu'à cet âge certain, je n'avais jamais pu dire des mots d'amour en français»151
. Come
ho detto nell'analisi delle sezione autobiografiche, questa afasia amorosa rimanda ad un
conflitto fra le due lingue e fra le due culture.
Questo conflitto rimanda immediatamente allo scontro coloniale. In questo contesto di
contrapposizione anche le lingue delle rispettive culture, araba e francese, si fanno
portatrici di morte. Nell'episodio dell'esplosione del Forte Imperatore, dopo che i francesi
hanno fatto saltare quest'ultimo, giunge nel campo francese un arabo , con non si sa quali
intenzioni precise. Viene accolto da de Bourmont che gli affida uno scritto in francese
con cui comunica le sue intenzioni pacifiche. Ma
sitôt éloigné du camp français, le promeneur sera tué par les siens, précisément à cause de
ces feuillets qui l'on fait prendre pour un espion de l'envahisseur. Ainsi les premiers mots
écrits, même s'ils promettent une fallacieuse paix, font, de leur porteur, un condamné à
mort. Toute écriture de l'Autre, transportée, devient fatale, puisque signe de
compromission.152
Questo primo condannato a morte dalle parole della lingua dell'altro trova una
controparte nel campo francese nell'interprete Brasewitz, che si fa portatore delle parole
arabe pronunciate dal dey Hussein. «En assurant au mot le passage dans la langue adverse
(langue turque du pouvoir vacillant ou langue arabe de la ville maure, je ne sais...),
Brasewitz semblait devoir payer cela de sa vie»153
. La lingua francese in quanto lingua
del nemico è lingua nemica. Sembra così configurarsi una contrapposizione radicale tra le
due lingue e tra le due culture, in cui ogni contatto, ogni compromesso è vietato, pena la
morte.
Ma ho già mostrato quale importanza la lingua francese abbia per la Djebar. Si
150 RENATE SIEBERT, op. cit., p. 113.
151 ASSIA DJEBAR, Ces voix qui m’assiègent, cit., p. 107.
152 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 52.
153 Ivi, p. 63.
118
prospetta allora quell'ambiguo rapporto di cui ho fatto qualche cenno nel precedente
capitolo. La lingua francese è la lingua del nemico da scacciare ma è anche la lingua che
le ha donato la libertà. La Djebar è allo stesso tempo conquistata e liberata dalla lingua
francese. E trasporta questa contraddizione anche nel resoconto storico.
Si è visto precedentemente come la Djebar assimili l'Algeria ad una donna e il
conflitto coloniale, gli scontri bellici siano descritti come se si trattasse di un rapporto
sessuale, uno stupro, una deflorazione. Ma, paradossalmente, sembra che questo sia
ricercato, dalla parte che subisce la violenza. I furiosi combattimenti, le scene di morte
sono accostate all'atto sessuale: «Comme si, en vérité, dès le premier affrontement de
cette guerre qui va s'étirer, l'Arabe, sur son cheval court et nerveux, recherchait
l'embrassement: la mort, donnée ou reçue mais toujours au galop de la course, semble se
sublimer en étreinte figée»154
. Un abbraccio, quello del nemico ricercato, voluto
dall'arabo a cavallo. È come se a guidarlo fosse un ambiguo desiderio di mischiare i corpi
nella ressa del combattimento. Ancora più significativo che la Djebar attribuisca il
medesimo contraddittorio sentimento all'agha Ibrahim, comandante delle truppe arabe
nella battaglia di Staouéli. Nel corso della ricostruzione storica la narratrice si sofferma
sulle possibile cause della sconfitta araba, seguendo il metodo storico. Ed elenca la
superiorità tecnologica dell'esercito francese, la sua unità di comando e di tattica di fronte
alla frammentazione algerina. Ma ad un certo punto scrive: «La motivation d'Ibrahim
n'aurait-elle pas été plutôt de scruter les adversaires de plus prés, de les toucher, de
combattre contre eux, au corps à corps, et de mêler ainsi les sangs versés?»155
. Cioè
sospetta che un comandante delle truppe algerine abbia quasi volontariamente trascurato
la corretta pianificazione della difesa per vedere i nemici più da vicino, per scontrarsi
corpo a corpo con loro. È ovvio che in questa circostanza la Djebar non vesta più i panni
della storica ma quelli della scrittrice. Supporre che una simile motivazione abbia guidato
l'agha Ibrahim è, chiaramente, una rappresentazione letteraria di quel sentimento
ambivalente che l'autrice nutre verso la lingua e la cultura francese.
È significativo che a farsi carico di questo sentimento contraddittorio siano in
154 Ivi, p. 27.
155 Ivi, p. 28.
119
particolare le donne. Anche per le donne che sono salite sulle terrazze per vedere la flotta
francese al Djebar suppone una attrazione quasi inconscia che rimanda ad una reciproca
fascinazione amorosa «comme si les envahisseurs allaient être les amants!»156
. Ancora
una volta due attributi antitetici, quali invasore, dunque nemico e amante, sono impiegati
per designare il francese. Questo amore paradossale, assurdo fino ad ora solo supposto,
trova modo di attuarsi concretamente nel paragrafo Corps enlacés del quinto movimento,
in cui si racconta di un soldato che si reca una in un'abitazione da cui una giovane donna,
vedendolo precedentemente, le aveva sorriso. La giovane donna non respingerà il soldato
francese che anzi sembrava attendere con trepidazione. Il soldato racconterà l'accaduto ad
un amico, che poi trascriverà tutto sul suo diario che la Djebar utilizza come fonte. La
donna si concede totalmente al francese, collocandosi al polo opposto rispetto
all'atteggiamento di quelle donne che per non cadere nelle mani del nemico si ricoprivano
il viso di fango e di escrementi, dimostrando una resistenza ad oltranza. Invece qui la
scena viene descritta così:
Soudain, deux bras frêles lui entourent le cou, une voix commence un discours de mots
haletants, de mots chevauchés, de mots inconnus mais tendres, mais chaud, mais
chuchotés. Ils coulent droit au fond de son oreille, ces mots, arabe ou berbères, de
l'inconnue ardente. “Elle m'embrassait de tout ses lèvres, comme une jeune file. Imagine un
peu! Je n'avais jamais vu ça!... A ce point-là! Elle m'embrassait! Tu te rends compte?...
M'embrasser! C'est ce petit geste insensé surtout que je ne pourrai oublier!”157
.
La giovane donna si concede di sua volontà in uno slancio d'amore che sia il francese
che la Djebar percepiscono come assurdo, insensato. Infatti, scrive a proposito degli
scontri della prima fase della colonizzazione: «dés ce heurt entre deux peuple, surgit une
sorte d'aporie. Est-ce le viol, est-ce l'amour non avoué, vaguement perçu en pulsion
coupable, qui laissent errer leurs fantômes dans l'un et l'autre des camps, par-dessus
l'enchevêtrement des corps, tout cet été 1830?»158
. Si chiede infine: «Mais pourquoi, au
dessus de cadavres qui vont pourrir sur les successifs champs de bataille, cette première
campagne d'Algérie fait-elle entendre les bruits d'une copulation obscène?»159
. Perché, se
156 Ivi, p. 17.
157 Ivi, p. 295.
158 Ivi, p. 28.
159 Ivi, p. 32.
120
questa fascinazione si può in qualche modo comprendere dalla parte degli invasori, è
innaturale, colpevole nella parte minacciata. Significa accogliere il nemico tra le proprie
braccia.
La scelta della scrittura francese della Djebar rievocherà sempre questo conflitto tra
due culture e questo paradossale sentimento amoroso la cui contraddittorietà non verrà
risolta.
Pour ma part, tandis que j'inscris la plus banale des phrases, aussitôt la guerre ancienne
entre deux peuples entrecroise ses signes au creux de mon écriture. Celle-ci, tel un
oscillographe, va des images de guerre – conquête ou libération, mais toujours d'hier – à la
formulation d'un amour contradictoire, équivoque.160
Dal momento in cui il padre la accompagna mano nella mano alla scuola francese, la
Djebar viene proiettata in una dimensione bilingue e biculturale che caratterizzerà la sua
formazione, la sua personalità e di conseguenza la sua scrittura. In L'Amour, la fantasia
proietta questo suo conflitto interiore nella storia della colonizzazione. Tuttavia, si
potrebbe considerare il conflitto risolto dal fatto che questo sofferta alleanza con la lingua
francese, lingua del nemico di ieri, sia sfruttata per denunciare tutti i crimini della
colonizzazione e smantellarne gli stereotipi. Insomma, la lingua del nemico diventa
un'arma da utilizzare contro il nemico stesso. Inoltre non si deve dimenticare il valore che
il francese ha per l'emancipazione della donna, sperimentato dalla Djebar stessa. Allora
perché permane la contrapposizione?
La lingua come territorio neutro tra due culture
Nonostante la Djebar impegni se stessa e la sua scrittura nel sostegno
dell'emancipazione femminile, sente di essersi fatalmente distanziata dal mondo
femminile, esclusa dalla maggior parte degli aspetti tradizionali che lo caratterizzano, se
non da tutti. Ecco allora che, come dice Mortimer, «the sentiment of exclusion led Djebar
to her "quatuor algérien," a writing project to reestablish links with the maternal world
from which she felt distanced – but in fact a realm she never lost – when she first grasped
160 Ivi, p. 301.
121
her father's hand to walk with him to school»161
. “The maternal world” a cui fa
riferimento Mortimer altro non è se non il mondo femminile della cultura araba
contrapposto a quello paterno, che è la cultura francese, donatagli appunto, dal padre
attraverso la lingua. Ora, le lingue che abitano il mondo materno sono l'arabo dialettale e
il berbero; ed entrambe sono usate prevalentemente nella dimensione orale. Credo che la
parte centrale di Vaste est la prison sia proprio un simbolico tentativo di ristabilire dei
legami con il mondo materno. Essa consiste in una ricerca storica che riporta le tappe del
ritrovamento e del deciframento di alcune tracce dell'alfabeto tifinagh, lingua parlata
dalla tribù nomade dei Tuareg e che si suppone sia l'alfabeto della lingua berbera, ritenuta
esclusivamente orale in precedenza.
Tutto quanto detto fino ad ora è perfettamente espresso e sintetizzato in una metafora
che da titolo ad un paragrafo del quinto movimento: «la langue encore coagulée des
Autres m'a enveloppée, dès l'enfance, en tunique de Nessus, don l'amour de mon père qui,
chaque matin, me tenait par la main sur le chemin de l'école»162
. Dono d'amore che però
genera sofferenza e minaccia l'identità culturale dell'autrice. Un dono che la salva dalla
claustrazione ma che la allontana dall'intima affettività del mondo femminile. Con
l'adozione della lingua francese non avviene un passaggio da una cultura all'altra:
vengono mantenuti dei legami con entrambe le culture senza appartenere totalmente a
nessuna. La Djebar è una donna ai margini di queste due culture. Per questo né dentro né
completamente fuori dall'harem.
Mi pare significativa un'altra metafora con cui esprime la sua prassi poetica più che il
rapporto con la lingua francese. Sempre nel paragrafo La tunique de Nessus, si richiama
la tattica bellica con cui si combattevano le guerre tra indigeni nel periodo precoloniale:
la tattica del rebato. Questo era un luogo isolato da cui si attacca e su cui si ripiega in
attesa di diventare nelle tregue tra una guerra e l'altra una zona di coltivazione o di
rifornimento. È una sorta di terra di nessuno, occupata alternativamente da una parte o
dall'altra. La Djebar si colloca in questo territorio neutro assistendo agli scontri tra le due
culture che alternativamente la occupano. Scrive la Djebar
161 MILDRED MORTIMER, op. cit., p. 102.
162 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 302.
122
la langue française, corps et voix, s'installe en moi comme un orgueilleux préside, tandis
que la langue maternelle, toute en oralité, en hardes dépenaillées, résiste et attaque, entre
deux essoufflements. Le rythme du “rebato” en moi s'éperonnant, je suis a la fois l'assiégé
étranger et l'autochtone partant à la mort par bravade, illusoire effervescence du dire et de
l'écrit.163
È un motto oscillatorio tra le due culture, che non si ferma su nessuna. Tra due culture,
tra due memorie resiste un territorio neutro di lingua. Potremo allora applicare la
metafora del rebato al francese della Djebar. Scegliendo il francese come lingua di
scrittura la Djebar sembra collocarsi sulla scia di Achebe: come si è detto sopra, anche lo
scrittore nigeriano sceglie l'inglese come lingua di scrittura, ma lo trasforma,
inscrivendovi la cultura africana. E così opera la Djebar. Il francese da lei impiegato
viene personalizzato, sia inscrivendovi il mondo culturale algerino sia inscrivendovi il
mondo femminile. Il francese della Djebar diventa quel territorio neutro tra due culture
poiché al suo interno vengono inscritti aspetti di entrambe le culture.
L'uso del francese ha allontanato la Djebar dal mondo materno, dall'affettività intima
del rapporto tra donne. Ecco allora che per riavvicinarsi a questo mondo e alla sua carica
affettiva la scrittrice lo rievoca attraverso la parola francese, lo inscrive e lo deposita in
questa lingua.
La seconda parte di Vaste est la prison tratta delle avventure di un alfabeto perduto:
quello della lingua berbera, a lungo considerata orale. Questa parte possiede uno statuto
particolare nel testo: attraverso un tuffo nel passato remoto dell'Algeria racconta
avvenimenti storici (le guerre puniche, la rivolta di Giugurta) e semi-leggendari (la fuga
di Tin Hinan, regina dei Touareg la cui vita è circondata da un'aura di leggenda)
isolandosi dalle altre parti che compongono il romanzo. Si trova lì come un punto
assoluto. Dato che questa parte si colloca al centro dell'opera mi sembra possibile, sulla
scorta di Mireille Calle-Gruber, considerarla l'ombelico dell'opera secondo l'accezione
che la studiosa ne dà nel suo saggio.
Attraverso la rievocazione dell'alfabeto berbero la Djebar tenta di ricongiungersi con il
mondo materno di cui il berbero è la rappresentazione, l'incarnazione. L'effacement sur
la pierre opera la cristallizzazione di ciò che, annunciato nell'ouverture Le silence de
163 Ivi, pp. 299-300.
123
l'écriture, va a costituire a poco a poco un «Pays-Langue»164
, un Paese-Lingua. Vale a
dire attraverso l'opera della Djebar una lingua che è, che diventa l'unico territorio
percorribile: una lingua-terra natale. È all'insegna della figura di Polibio – storico greco
sottomesso ai Romani, cronista della distruzione di Cartagine per conto di Scipione
Emiliano – che la Djebar definisce, per analogia la sua pratica scritturale. Infatti
sottolinea le analogie con la condizione dello scrittore algerino in lingua francese le cui
parole sono indissociabili dalla storia della coloniale e post-coloniale contemporanea:
sono parole radicate, nel senso che hanno radici cioè nascono dalla violenza del
paradosso che comporta questa parola in una doppia lingua.
Polybe, l'écrivain déporté, de retour, au soir de sa vie, à sa terre natale, s'aperçoit qu'il n'a
plus ni terre ni même de pays (celui-ci enchaîné et soumis), simplement une langue dont la
beauté le réchauffe, qui lui sert à éclairer ses ennemis d'hier devenus ses alliés.165
Ora questa lingua non è né il greco né il latino ma ciò che la Djebar stessa definisce
«le troisième alphabet»166
, la langue de la poesie. Così Polibio scrive nel terzo alfabeto
proprio come la scrittrice che a questo punto del testo riprende la parola per esplicitare
che la sua scrittura come quella dello storico greco «cette écriture, inscrite dans une
langue certes maternelle, mais épousée par les esprits cultivés de l'Occident d'alors, court
sur le tablettes, polygame!»167
. Cioè è una lingua, una scrittura, che ha un doppio legame
con la cultura materna e la cultura straniera, che è esattamente la situazione della Djebar.
Il territorio neutro di questa nuova lingua è un non-posto, un luogo senza luogo, né
incluso né escluso, un entro, un margine. La neutralità di questa dimensione consente
un'incredibile libertà poiché colloca l'autrice fuori dalla logica della fedeltà come dalla
logica del tradimento e le permette di scrivere semplicemente “fuori”. «Voici que, loin de
Carthage mais aussi loin de Corinthe tout proche, il écrit non dans la fidélité, ni dans la
collaboration: simplement ailleurs»168
. Non si dimentichi però che questo terreno neutro è
caratterizzato dal ritmo del rebato, cioè è invaso alternativamente da due culture. È una
164 MIREILLE CALLE-GRUBER, op. cit., p. 76.
165 ASSIA DJEBAR, Vaste est la prison, cit., p. 159.
166 Ivi, p. 158.
167 Ibidem.
168 Ivi, p. 159.
124
zona di passaggio tra due culture e di scambio reciproco. La Djebar erige a simbolo di
questa condizione la stele bilingue di Dougga. Come suggerisce la Calle-Gruber in questa
iscrizione la lingua ha bisogno dell'altra lingua: l'una fa da passaggio per l'altra e vice
versa, l'una conduce all'altra. La traduzione da una lingua all'altra e da una cultura all'altra
ha un luogo nella stele bilingue, che in tal modo diviene l'emblema del passaggio tra
culture. E non è un caso che la scoperta e la decifrazione della stele avvenga grazie al
lavoro di attraversatori di lingue e culture, da personaggi “di contrabbando”, equivoci, “di
passaggio”, che instaurano dei ponti tra culture e religioni. I cammini dell'alfabeto
perduto sono ricostruiti attraverso figure ambivalenti quali il fuggitivo, il transfugo,
l'esiliato, il convertito, il marrano che nonostante le interruzioni e gli insabbiamenti
cercano di rinnovare gli anelli di una catena che porta alla decifrazione della stele. Del
resto queste figure ai margini, in bilico tra due culture, avevano già fatto la loro comparsa
in L'Amour, la fantasia con i personaggi di sant'Agostino e Ibn Khaldoun. Il primo,
vescovo di Ippona e una delle maggiori personalità del cristianesimo romano, era nato in
Algeria. Dopo cinque secoli di occupazione romana comincia a scrivere la sua
autobiografia in latino, lingue del conquistatore, del nemico di ieri. «Et son écriture
déroule, en toute innocence, la même langue de Cesar ou de Sylla, écrivains et généraux
d'une “guerre d'Afrique” révolue»169
. Nella stessa condizione si trova il secondo
personaggio la cui statura nella cultura araba è pari a quella di Agostino nella cultura
latina. È un grandissimo storico berbero che scrive in arabo, «la langue installée sur la
terre ancestrale dans des effusions de sang!»170
, lingua dell'invasore. In entrambi i casi
«la même langue est passée de conquérants aux assimilés»171
. Entrambi i casi, insomma,
ricalcano la condizione dell'autrice, anche lei figura di passaggio, che impiega la lingua
del nemico di ieri per varcare le frontiere tra le culture. Tutte queste figure di passaggio
da una lingua all'altra formano una catena in cui si inserisce anche l'autrice. È
estremamente significativo che a reperire la stele di Dougga sia una di queste figure
ambivalenti: Thomas d'Arcos, un cristiano del XVI secolo fatto prigioniero dai corsari,
169 ASSIA DJEBAR, L'Amour, la fantasia, cit., p. 300.
170 Ivi, p. 301.
171 Ivi, pp. 300-301.
125
condotto a Tunisi dove diviene schiavo e dove si converte all'Islam, divenendo Osman.
Così viene descritto dalla Djebar «entre deux rives, entre deux croyances, sera le premier
transmetteur d'une inscription bilingue dont le mystère dormira encore deux siècles»172
.
Tutte questi personaggi giungono alla scoperta di un territorio neutro, un terreno
arabile (per riprendere la metafora che da il titolo ai paragrafi in cui si raccontano le fasi
di realizzazione del film La Nouba des femmes du mont Chenua in Vaste est la prison),
coltivabile con i semi di entrambe le culture. Impiegando la lingua del nemico,
accogliendo in qualche modo elementi della sua cultura, la Djebar crea una nuova lingua,
«un alphabet qui je n'employais ni pour penser ni pour écrire, mais pour passer les
frontières»173
, come dice la citazione da Prologue à l'Alphabase di Ch. Dobzynskj che
apre la seconda parte del romanzo.
Lingua e questione femminile
Tuttavia anche in questa sezione in cui tratta del rapporto con la colonizzazione
attraverso la questione della lingua la Djebar è attenta alla sottomissione femminile.
Inscrive nella questione della lingua la questione sessuale. È un terreno arabile coltivato
soprattutto dalle esperienze delle donne. Così come dice la Calle-Gruber della narratrice
Isma «passeuse des mots, l'écrivain-algérien-dans-la-langue-française se désigne
“diseuse”, “parleuse”, “scripteuse” des paroles que les femmes sans alphabet lui dictent.
Et que elle trans-crit. Trans-met»174
. Niente di strano se è ancora su questo punto che si
concentra la Djebar. Infatti, l'alfabeto berbero è nei testi della Djebar e nel quatour in
particolare, la lingua delle donne, cioè del mondo materno da cui si sente distante e con
cui cerca di riallacciare i legami. Rievocando le vicende dell'alfabeto perduto e della
lingua berbera l'autrice rievoca un'intera cultura in cui il ruolo della donna era
fondamentale, direi centrale. La società degli antichi Touareg e della loro regina, la semi-
leggendaria Tin Hinan. La cultura di Tin Hinan è in netto contrasto con quella araba, ne è
172 ASSIA DJEBAR, Vaste est la prison, cit., p. 128.
173 Ivi, p. 119.
174 MIREILLE CALLE-GRUBER, op. cit., p. 78.
126
quasi l'immagine rovesciata. In questa società, per esempio sono gli uomini a velarsi.
Questo popolo «laisse ses femme conserver l'écriture»175
. Le donne sono cioè le
guardiane dell'alfabeto e custodi della tradizione, della memoria e della storia di questo
popolo. Così Tin Hinan, principessa fuggitiva di cui sono stati trovati i resti in una
mausoleo ad Abalessa, una città nel cuore del deserto, fugge dalla sua terra custodendo
l'alfabeto e proteggendolo dalla distruzione, dalla cancellazione. Ancora una volta la
ricerca storica è finalizzata alla costruzione di una tradizione femminile di resistenza che
faccia dea modello e da orientamento per il presente. La leggendaria regina e il ruolo
centrale della donna nella sua cultura viene rievocata e collocata accanto a tutte quelle
figure femminili fuggitive, resistenti, lottatrici emancipate che animano i testi della
Djebar. Credo si possano dare due letture della fuga di Tin Hinan.
La prima è un'analogia con la condizione dell'autrice che, nel periodo di composizione
di Vaste est la prison, di fronte all'esplosione di violenza seguita all'affermazione
dell'integralismo islamico in Algeria, fu costretta all'esilio in Francia. Fuggì per
proteggersi, per preservarsi. Come Tin Hinan, non protegge solo se stessa ma anche la
lingua e la memoria femminile minacciate di essere poste sotto silenzio. Scrivendo questo
romanzo fa vivere attraverso la scrittura il mondo femminile, nello specifico la tradizione
di resistenza femminile.
La seconda lettura ne fa, invece, un emblema dell'emancipazione femminile in quanto
donna in movimento, fuggitiva da un regime di oppressione, come la Djebar e le donne
da lei raccontate rispetto alla società maschilista e patriarcale. Inoltre, la fuga verso il
deserto di Tin Hinan che chiude la seconda parte del romanzo ha un corrispettivo nella
fuga verso nord di un altro personaggio femminile appartenente però al mondo della
letteratura europea: si tratta di Zoraide, algerina protagonista di un episodio del Don
Quichotte di Cervantes. La donna, attraverso un biglietto da lei scritto, aiuterà un
prigioniero cristiano ad evadere e fuggirà assieme a lui verso la Spagna. Quindi al nord,
in direzione opposta rispetto al quella di Tin Hinan. Le fughe di queste due donne,
collocandosi una in chiusura della seconda parte, l'altra in apertura della terza,
introdurranno i movimenti delle familiari della narratrice Isma-Assia entrando a fare
175 ASSIA DJEBAR, Vaste est la prison, cit., p. 148.
127
parte di quella tradizione femminile che la Djebar cerca di costruire nei suoi testi
attraverso la storia e l'autobiografia.
Anche attraverso la questione della lingua la Djebar fa emergere la questione sessuale.
La regina dei Touareg lascia in eredità alle donne la sua fuga, atto di resistenza, e
l'alfabeto perduto della lingua berbera.
Ainsi, plus de quatre siècles après la résistance et le dramatique échec de Yougourtha au
Nord, quatre siècles également avant celui, grandiose, de la Kahina – la reine berbère qui
résistera a la conquête arabe –, Tin Hinan des sables, presque effacée, nous laisse héritage
– et cela, malgré ses os hélas aujourd'hui dérangés –: notre écriture la plus secrète, aussi
ancienne que l'étrusque ou que celle des “runes” mais, contrairement à celle-ci, tout
bruissante encore de sons et de souffles d'aujourd'hui, est bien legs de femme, au plus
profond du désert.176
Infatti, l'alfabeto berbero era stato prima definito come lingua di resistenza, impiegato
dal bey Ahmed, il governatore di Costantinia che aveva capeggiato la ribellione algerina
subito dopo la resa del dey Hussein ai francesi, nel luglio del 1830, già menzionato dalla
Djebar in L'Amour, la fantasia. La scoperta si deve alle intuizioni e alle analisi di uno
studioso francese del XIX secolo, M. de Saulcy, su un testo che riportava la
corrispondenza del bey Ahmed con il padre. A margine del testo arabo si trovavano
alcune frasi in berbero che il bey usava come codice, affinché i francesi non capissero il
messaggio.
Le bey Ahmed, d'abord à Constantine, puis chassè de sa ville, entretient, dans cette
écriture, une correspondance politique et militaire, alors que cet alphabet ancienne est
presque totalement perdu, en ce milieu du XIX siècle, par la majorité de la population. Le
chef résistant l'utilise comme écriture du danger, justement pour conjurer le danger!177
Lingua da combattimento, sfruttata come codice per pianificare la resistenza contro il
nemico francese. Ora, si è visto precedentemente come l'e'dou, il nemico sia l'uomo. E
questa parola araba non fa forse parte di una sorta di linguaggio in codice che le donne
impiegano solo tra loro e con cui si contrappongono agli uomini? Esattamente come il
berbero impiegato dal bey Ahmed. Anche la lingua diventa luogo di resistenza femminile.
176 Ivi, p. 164.
177 Ivi, p. 148.
128
Attraverso il termine e'dou «la langue maternelle m'exhibait ses crocs»178
, dice la Djebar.
Pertanto la Djebar non inscrive semplicemente il mondo algerino nella lingua
francese, poiché in questa operazione la donna ha un ruolo centrale. Cerca piuttosto di
cogliere le contrapposizioni interne al mondo algerino tramite al questione sessuale.
Cerca di rappresentare cosa voglia dire essere una donna ed essere scrittrici in Algeria.
Dunque la cultura araba è inscritta nella lingua francese dalla prospettiva femminile.
Questa prospettiva, come si è visto con il concetto del soggetto collettivo femminile, è
una prospettiva multipla, è un coro di voci. L'intento della Djebar è di far risuonare il
francese da lei creato dell'eco di tutte le voci femminili che cerca di dissotterrare e
raccogliere. Si è visto come il suo francese sia impiegato per resuscitare esperienze
femminili minacciate dall'oblio. Ora ciò che interessa ugualmente la Djebar è il lingua
delle donne, della sua infanzia, della sua sensibilità. Per questo può affermare:
il mio francese io lo scrivevo spontaneamente in modo diverso da una francese. Il mio
orecchio restava infatti nel territorio della sensibilità infantile e della memoria delle
generazioni passate, cosicché io introducevo nella lingua francese una specie di ombra, in
un primo tempo mio malgrado e, a poco a poco, in maniera più cosciente.179
E questa ombra la Djebar la costruisce assieme alle altre donne, facendosi traduttrice
del loro linguaggio. Infatti, quando riporta le interviste delle donne che hanno partecipato
alla guerra di liberazione dice di comportarsi non da scrittrice ma piuttosto da traduttrice
delle loro memorie. Attraverso questa ricerca orale scopre come per queste donne ogni
parola impiegata è importante e giunge alla conclusione che esse si facciano in qualche
modo creatrici delle loro parole nel rievocare un antico dolore. È un linguaggio diverso
da quello quotidiano e che potremo chiamare dell'anamnesi della sofferenza. Traducendo
le loro parole in francese, la Djebar ha l'impressione che questo francese «l'avessero
creato anche loro»180
. Alla base del suo francese ci sono le molteplici voci di donne che
la Djebar traduce, trasmette e a cui dona una scrittura, quell'alfabeto che a queste voci è
sempre stato negato. Il suo atto è quello di accogliere-raccogliere queste voci femminili
costrette sotto silenzio e amplificarne il volume affinché divengano udibili e se ne
178 Ivi, p. 15.
179 RENATE SIEBERT, op. cit., pp. 204-205.
180 Ivi, p. 206.
129
percepisca, in tal modo, l'esistenza.
130
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