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Economia Politica – Corso Avanzato
La teoria neoclassica della distribuzione
e la funzione di domanda di capitale
Saverio M. Fratini
Maggio 2014
0. Introduzione
Come si è già detto nella prima parte del corso, nella teoria neoclassica, prendendo per dati: a) le
preferenze dei consumatori; b) le condizioni tecniche di produzione; c) le quantità disponibili dei
fattori produttivi, si tenta di giungere alla spiegazione dei prezzi dei prodotti e delle variabili
distributive – qui viste come i prezzi per l’uso dei fattori produttivi – in termini di equilibrio tra
funzioni di domanda ed offerta.
In altri termini, posto che, in ciascun mercato: i) l’eccesso della domanda sull’offerta
dipende dal sistema dei prezzi (inclusi i prezzi per l’uso dei fattori), e ii) il prezzo tende a crescere
se la domanda eccede l’offerta (eccesso di domanda positivo) ed a decrescere nel caso opposto
(eccesso di domanda negativo); allora ci si aspetta che le forze di mercato spingano il sistema dei
prezzi verso quel punto che rende nullo ogni eccesso di domanda.
L’aspetto più delicato di questo ragionamento, riguarda la costruzione – e quindi le proprietà
– delle funzioni di domanda (o di eccesso di domanda) dei prodotti e dei fattori produttivi. Facendo
riferimento a quest’ultimi in modo particolare, la teoria vorrebbe dimostrare che la domanda di
fattori produttivi non solo è sensibile a variazioni dei sistema dei prezzi, ma l’intensità dell’uso di
un certo fattore – ad esempio della terra relativamente al lavoro – varia in direzione opposta al
saggio di remunerazione relativo di quel fattore.
Come vedremo, il principio della produttività marginale decrescente, se applicabile,
garantirebbe il raggiungimento di questi risultati. Tuttavia, e questo è l’oggetto della presente
dispensa, tale principio non può essere applicato né ai singoli beni capitale che compongono il
capitale tecnico, né all’ammontare di capitale in valore la cui domanda e offerta dovrebbero essere
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portate in equilibrio dagli aggiustamenti del sistema dei prezzi, e del tasso dell’interesse in
particolare.
In questo scritto, in particolare, approfondiremo, da un lato, il ruolo che la produttività
marginale decrescente svolge (o dovrebbe svolgere) nella teoria neoclassica della distribuzione; e,
dall’altro lato, vedremo le difficoltà, se non l’impossibilità, di utilizzare la produttività marginale
nel caso in cui la produzione, oltre ad input primari (lavoro e terra), impieghi anche capitale.
Per semplicità, si assumerà che vi sia un solo bene di consumo (che potrebbe però essere
anche una merce composita). Si inizierà (par. 1), come è tradizione, dal caso in cui i fattori
produttivi siano soltanto lavoro e terra. Si introdurrà poi il capitale, partendo dal caso più semplice,
quello in cui l’unico bene capitale è il bene di consumo stesso (par. 2). Si passerà poi (par. 3) ad un
modello a due settori, con un bene capitale distinto dal bene di consumo.
Passando a modelli con molti tipi di beni capitale (par. 5 e 6), si vedrà, da un lato, la
necessità, al fine di poter utilizzare ancora il principio della produttività marginale decrescente, di
esprimere il capitale tecnico in forma aggregata e, dall’altro lato, l’impossibilità di una simile
aggregazione. Tale impossibilità, come sarà spiegato, comporta la perdita di certezze circa il segno
della relazione tra la domanda di capitale e il tasso dell’interesse.
Infine (par. 6), si prenderà in esame il tentativo di Samuelson di costruire – in un modello
con beni capitale eterogenei – una “funzione surrogata della produzione” che rappresenti il legame
tra l’impiego di capitale in valore ed il prodotto netto come se si trattasse di una relazione di tipo
tecnico. Il successo di questo tentativo, come si vedrà (par. 7 e 8), poggia su una ipotesi fortemente
restrittiva – che contraddice di fatto l’eterogeneità del capitale – in assenza della quale possono
verificarsi i fenomeni del “ritorno delle tecniche” e della “inversione dell’intensità capitalistica
della produzione”.
In tutti i casi che prenderemo in esame in queste pagine, si farà, per semplicità, astrazione
dalle questioni legate alla accumulazione del capitale, di conseguenza si ipotizzerà sempre che
l’intero prodotto netto dell’economia sia costituito fisicamente solo da beni di consumo.
1. La spiegazione marginalista della distribuzione: il caso con lavoro e terra
Vari economisti marginalisti – come ad esempio Jevons, Walras, Wicksteed e Wicksell –
nell’introdurre la loro teoria della distribuzione, trattarono inizialmente il caso con produzione
senza capitale. Facendo riferimento, in particolare, a Wicksell, egli nelle Lectures ([1901] 1934)
inizia considerando una economia in cui l’unico bene di consumo è ottenuto attraverso l’impiego di
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terra e di lavoro secondo una data funzione della produzione con rendimenti constanti di scala Y =
F(T, L).
Siano y e t rispettivamente il prodotto e l’impiego di terra per unità di lavoro, la tecnologia
può essere espressa attraverso la funzione y = f(t) = F(t, 1), che si assume monotona crescente
almeno in un certo intervallo. Questa rappresentazione della tecnologia, come è noto, implica la
presenza di infinite tecniche di produzione del bene di consumo, una per ogni possibile rapporto
terra/lavoro t.
Siano w e ρ il saggio del salario ed il saggio della rendita espressi in termini del bene di
consumo, ciascuna impresa impiegherà terra e lavoro nella proporzione che rende massimo
l’ammontare degli extraprofitti π = f(t) − w − ρt.
Assumendo che la funzione f(t) sia differenziabile, la condizione del primo ordine di questo
problema di massimo è:
[1] f’(t) − ρ = 0.
Inoltre, se la funzione f(t) è concava, cioè f”(t) < 0, allora la condizione [1] è necessaria e
sufficiente per individuare l’impiego ottimale di terra per unità di lavoro dato il saggio della rendita
ρ.
In tal caso, considerando il saggio della rendita ρ come una variabile indipendente,
dall’equazione [1] otteniamo direttamente la funzione di domanda di terra per unità di lavoro: t =
td(ρ). Inoltre, visto che f”(t) < 0, la [1] implica che t deve muoversi in direzione opposta rispetto a
ρ.
Pertanto, il principio della produttività marginale decrescente della terra, cioè f”(t) < 0,1
implica che: i) la domanda di terra per unità di lavoro da parte delle imprese, t = td(ρ), deriva
dall’uguaglianza tra il prodotto marginale della terra f’(t) ed il saggio della rendita ρ; ii) tale
funzione di domanda ha una andamento decrescente, cioè la domanda di terra per unità di lavoro
diminuisce al crescere di ρ.
1 Si ricorda che, per definizione, il prodotto marginale di un fattore è pari all’incremento di prodotto che si ha a fronte di un incremento unitario dell’impiego del fattore, fermo restando l’impiego degli altri. Così, se abbiamo Y = F(T, L), ne segue che dY = FT’ dT + FL’ dL; da cui, tenendo fermo e pari a 1 l’impiego di lavoro, otteniamo che il prodotto marginale della terra è FT’(t, 1) = f’(t).
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Fig. 1 – Prodotto marginale della terra e saggio della rendita di equilibrio
Una volta determinata la funzione di domanda di terra per unità di lavoro, che sarà la stessa
per tutte le imprese, supponendo che l’economia abbia a disposizione una quantità di terra e una
quantità di lavoro (che assumiamo pienamente impiegata), abbiamo che il saggio della rendita di
mercato tenderà a diminuire se la domanda di terra per unità di lavoro è inferiore all’offerta , cioè t
< ; mentre tenderà a crescere nel caso contrario, cioè se t > . Ne risulta che ρ è il livello di
equilibrio del saggio sella rendita se e solo se:
[2] td(ρ*) = .
L’andamento monotono decrescente della funzione t = td(ρ) implica chiaramente che
l’equilibrio ρ* sia unico e stabile, cioè la traiettoria generata dall’equazione differenziale:
[3]
€
dρdτ
= h[td (ρ)− t ]
converge a ρ* per ogni livello iniziale del saggio della rendita di mercato ρ0.
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Determinato il saggio della rendita di equilibrio, risulta automaticamente determinato anche
il saggio del salario. Si ha infatti:
[4] w* = f( ) − ρ* .
Infine, essendo la funzione della produzione una funzione omogenea di grado 1 (per via dell’ipotesi
dei rendimenti di scala costanti), ovvero:
[5] F(T, L) = FT’ T + FL’ L
visto che i salari sono la differenza tra il prodotto e le rendite, cioè:
[6] w L = F(T, L) − ρ T
allora l’uguaglianza tra il saggio della rendita ed il prodotto marginale della terra implica
l’uguaglianza tra il saggio del salario ed il prodotto marginale del lavoro.
2. L’economia capitalistica con un solo prodotto: Solow
Nel caso del paragrafo precedente, la spiegazione marginalista della distribuzione funziona
perfettamente. Il problema è estendere il ragionamento al caso in cui la produzione, oltre a lavoro e
terra, impiega anche il capitale.
Procedendo in modo da introdurre la complessità gradualmente, iniziamo dall’unico caso col
capitale in cui quanto sopra detto può essere replicato esattamente. Si tratta del modello di
produzione capitalistica immaginato da Solow (1956), in cui il bene di consumo viene usato anche
nella produzione, come unico bene capitale da impiegare insieme al lavoro.
Assumiamo la funzione della produzione Y = F(K, L) con rendimenti costanti di scala, in cui
Y rappresenta la produzione netta (quindi la produzione lorda è Y + K). Siano y e k il prodotto netto
e il capitale impiegato per lavoratore, con y = f(k) = F(k, 1), e siano w e r il saggio del salario in
termini del bene di consumo ed il tasso dell’interesse, ciascuna impresa sceglierà la tecnica di
produzione, ovvero k, in modo tale da massimizzare: π = f(k) − w − rk.
Analogamente a quanto ipotizzato in precedenza circa il prodotto marginale della terra,
anche ora assumiamo che almeno su un certo intervallo si abbia f’(k) > 0 e f”(k) < 0. Questo
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implica che, dato r, l’impiego ottimale di capitale per lavoratore risulti determinato attraverso
l’equazione:
[7] f’(k) − r = 0.
Pertanto, come sopra, il principio della produttività marginale decrescente implica che: i) la
domanda di capitale per unità di lavoro da parte delle imprese, k = kd(r), deriva dall’uguaglianza tra
il prodotto marginale f’(k) ed il tasso dell’interesse r; ii) tale funzione di domanda ha una
andamento decrescente, cioè la domanda di capitale per unità di lavoro diminuisce al crescere di r.
Ne segue che anche in questo caso vi è un unico e stabile equilibrio, determinato
dall’equazione:
[8] kd(r*) =
in cui , con e pari rispettivamente alle quantità disponibili di capitale e lavoro.
Anche qui, determinato r*, il saggio del salario determinato residualmente:
[9] w* = f( ) − r*
risulta pari al prodotto marginale del lavoro.
3. L’economia capitalistica a due settori: Swan
Sotto l’ipotesi della omogeneità fisica tra il prodotto ed il capitale tutto sembra funzionare
ancora bene. Le prime complicazioni, però, già emergono in un modello, come quello di Swan
(1956), in cui il bene di consumo ed il bene capitale sono beni diversi: grano e scatole del meccano.
Indichiamo con Y il prodotto netto dell’economia, che assumiamo composto di solo grano.
La funzione Y = F(M, L) rappresenta la produzione integrata del grano, attraverso l’impiego di
scatole di meccano M e di lavoro.
Come in precedenza, utilizziamo nella nostra analisi le quantità per unità di lavoro. In
particolare, abbiamo: y = f(m) = F(m, 1), in cui y è il prodotto netto di grano per lavoratore e m è
l’impiego di scatole del meccano per lavoratore nell’industria integrata del grano.
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Sia p il prezzo delle scatole del meccano in termini del bene di consumo, ciascun’impresa
sceglierà la tecnica di produzione in modo tale da massimizzare: π = f(m) − w − rpm. Di
conseguenza, il principio della produttività marginale decrescente delle scatole del meccano implica
che in equilibrio:
[10] f’(m) – rp = 0.
L’equazione [10] somiglia alla [7], tuttavia, la presenza del prezzo p genera una rilevante
differenza. Dobbiamo distinguere infatti tra due diverse misure dell’impiego di capitale per
lavoratore: i) l’impiego di scatole del meccano m, e ii) l’impiego di capitale come valore (in termini
del bene di consumo) k = pm. Nella funzione di produzione entra m, ma gli interessi si calcolano su
k. Il capitale anticipato per poter dar luogo al processo produttivo è k, le scatole del meccano sono
soltanto i beni (gli asset) in cui questo capitale è investito. In altri termini, il prezzo che si determina
sul mercato delle scatole del meccano è p, mentre il tasso dell’interesse r è determinato sul mercato
del capitale in valore.
Ci chiediamo quindi se l’equazione [10] implichi o meno una relazione inversa tra k e r.
Visto che per definizione k = pm, differenziando rispetto ad r abbiamo:
[11]
€
dkdr
=dpdrm+ p dm
dr
in cui il primo addendo è detto “effetto Wicksell di prezzo” ed il secondo “effetto Wicksell reale”.
Infatti, la variazione del tasso dell’interesse ha una duplice influenza sul valore del capitale per
lavoratore: i) fa cambiare il prezzo delle scatole del meccano in termini di grano; ii) fa cambiare
l’impiego di scatole del meccano per unità di lavoro.
Il segno della derivata dk/dr dipende quindi da come cambia il prezzo p al variare di r. In
particolare, se assumiamo che la produzione delle scatole del meccano sia a maggiore intensità di
scatole del meccano rispetto a quella del grano, avremo che p cresce all’aumentare di r, cioè dp/dr >
0.2 In questo caso, l’effetto di prezzo avrà segno positivo e quello reale segno negativo. Infatti, se
2 Il prezzo p del bene capitale in termini del bene di consumo dipende dal costo relativo delle due merci. In particolare, indicando con mc e lc l’impiego di scatole del meccano e lavoro nella produzione del bene di consumo, e con mm e lm il rispettivo impiego nella produzione delle scatole del meccano, abbiamo che:
1 = p mc(1+r) + w lc p = p mm(1+r) + w lm. Da cui segue che:
€
p =lm
lc + (lmmc − lcmm )(1+ r).
Quindi, la variazione di p al crescere di r dipende dal rapporto beni capitale/lavoro nei dei settori:
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quando r aumenta anche p cresce, allora, per la [10], la produttività marginale decrescente implica
dm/dr < 0. Il risultato è che non abbiamo certezza circa il segno di dk/dr, il risultato dipende dal
prevalere di un effetto sull’altro.
Quindi, mentre la [7] comportava una relazione inversa tra r e k, la [10] non implica che k,
qui inteso come il valore del capitale per lavoratore in grano, diminuisca al crescere di r.
4. Ancora sull’effetto Wicksell
Nel paragrafo precedente abbiamo parlato di “effetto Wicksell di prezzo” e di “effetto
Wicksell reale”. Ora cercheremo di approfondire l’idea che è dietro l’espressione “effetto
Wicksell”.
Consideriamo una economia in cui il prodotto netto consista di una particolare merce,
singola o composita, che chiameremo bene finale. Indichiamo, come abbiamo fatto fin qui, con y il
prodotto netto per lavoratore e con k il capitale impiegato per lavoratore in termini di bene finale
(indipendentemente dalle merce o dalle merci di cui consiste fisicamente). Posto che salari e profitti
esauriscano completamente il prodotto netto, si deve avere:
[12] y = w + rk.
Differenziando la [12] rispetto a r otteniamo:
[13]
€
dydr
=dwdr
+ k + r dkdr
,
da cui segue che:
[13’]
€
dy / drdk / dr
= r +1
dk / drdwdr
+ k⎛
⎝ ⎜
⎞
⎠ ⎟ .
- se mc/lc > mm/lm, allora p diminuisce al crescere di r; - se mc/lc < mm/lm, allora p aumenta al crescere di r; - se mc/lc = mm/lm, allora p non cambia al crescere di r.
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Quindi, nel caso che stiamo esaminando, il prodotto marginale del capitale, definito qui
come il rapporto (dy/dr)/(dk/dr), può essere pari al tasso dell’interesse r se e solo se dw/dr + k = 0;
e questa condizione, come vedremo, in generale non è soddisfatta. La non uguaglianza, in generale,
tra il prodotto marginale del capitale, così definito, e il tasso dell’interesse, fu osservata già da
Wicksell nelle Lectures, e per questo fu chiamata “Wicksell’s effect”3.
Per verificare che in generale dw/dr + k ≠ 0, riprendiamo il modello di Swan. Tenendo
presente che k = pm, la [12] per il caso di Swan è:
[14] y = w + rpm.
Differenziando la [14] rispetto a r otteniamo:
[15]
€
dydr
=dwdr
+mp+ rp dmdr
+ rm dpdr
Ora, la condizione del primo ordine [10] implica che:
[16]
e quindi, sostituendo la [16] nella [15], si ottiene:
[17]
€
dwdr
+ k = −rm dpdr
.
Pertanto, per r ed m entrambi strettamente positivi, affinché la condizione dw/dr + k = 0 sia
soddisfatta, occorre che il prezzo delle scatole del meccano non cambi al variare del tasso
dell’interesse – e di conseguenza del saggio del salario – e ciò potrebbe accadere soltanto se, per
ciascuna tecnica, la produzione di scatole del meccano e quella del bene di consumo impiegassero
sempre beni capitali e lavoro nella stessa proporzione. Ma questo implicherebbe, di fatto, che il
bene di consumo e le scatole del meccano siano la stessa merce, e quindi si tornerebbe al caso di
Solow.
3 Cfr. Uhr (1951), Robinson (1958) e Osborn (1958).
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5. La necessità del capitale aggregato
Fin qui abbiamo considerato due casi – Solow e Swan – molto particolari: in entrambi si
supponeva l’esistenza un solo bene capitale. In realtà, invece, esistono moltissimi beni capitale e ne
vengono inventati sempre di nuovi (in molti casi, il progresso tecnico consiste nell’invenzione di
nuovi tipi di beni capitale).
Nell’estendere l’analisi al caso con un numero qualsiasi n di beni capitale, la prima strada
che ci viene da seguire è quella di inserire nella funzione della produzione le quantità degli n beni di
cui consiste il capitale. Ovvero, continuando ad indicare con y il prodotto netto per unità di lavoro,
che supponiamo essere una quantità di merce 1, scriviamo: y = f(k1, k2, ..., kn), in cui ki è la quantità
impiegata (per unità di lavoro) del bene capitale i, con i = 1, 2, ..., n.
Tuttavia, come fu stabilito già negli anni ‘30 del XX secolo – attraverso un dibattito a cui
parteciparono, tra gli altri, Hicks e Robertson – la trattazione del capitale come un vettore di
quantità di beni capitale è incompatibile con la produttività marginale. Questo perché i beni capitale
sono, salvo eccezioni, input altamente specializzati: vengono inventati per essere usati in un certo
modo (esempio: il cacciavite a stella è inventato per essere usato con le viti a stella). Ciò implica
che il prodotto marginale di un singolo bene capitale, fermi restando l’impiego di lavoro e degli altri
beni capitale, è generalmente nullo.
Quando i beni capitale sono fisicamente specificati, questi sono generalmente
complementari sia tra loro, che con il lavoro. Così, il cambiamento della tecnica richiede che siano
cambiate tutte, o quasi tutte, le quantità dei beni capitale.
La questione può essere illustrata attraverso il noto esempio del “pastore marginale”
utilizzato già da Robertson.
Supponiamo che 10 pastori, con 10 verghe di cm 110, riescano ad ottenere ogni anno un
prodotto netto di 500 agnelli. Se aggiungessimo un pastore in più, ferme restando le verghe, non
avremmo alcun incremento degli agnelli, perché un pastore non è tale senza una verga. Quindi in
questo caso il prodotto marginale sarebbe zero.
Se invece, insieme al pastore, aggiungessimo anche una nuova verga di cm 110, allora: a)
non si potrebbe parlare di prodotto marginale del lavoro, perché starebbe aumentando anche
l’impiego di capitale; b) l’incremento di produzione non sarebbe decrescente (se ci sono rendimenti
costanti di scala, allora ogni pastore con una verga di cm 110, produce 50 agnelli l’anno).
Per avere il prodotto marginale decrescente del lavoro, il capitale deve cambiare di forma
fisica, rimanendo fermo in ammontare: quando l’impiego di lavoro passa da 10 a 11 pastori, il
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capitale fisico si trasforma da 10 verghe di cm 110 a 11 di cm 100 (in entrambi i casi si hanno
verghe per cm 1.100).
Quindi, se nella funzione della produzione mettessimo le quantità degli n diversi beni
capitale, allora le derivate parziali della funzione sarebbero, in generale, nulle (o addirittura la
funzione non sarebbe ovunque differenziabile). Per avere una funzione della produzione le cui
derivate parziali esistono ed esprimono il prodotto marginale, in essa il capitale deve entrare in
forma aggregata, come una quantità singola, in maniera da poter cambiare di composizione fisica
quando cambia la tecnica, rimanendo però fermo in ammontare, così che si possa vedere, ad
esempio, l’effetto sul prodotto derivante dall’incremento dell’impiego di lavoro a parità di capitale.
Ovvero, il che è lo stesso, il capitale aggregato è necessario affinché, di fronte ad un cambiamento
della tecnica e quindi della composizione fisica del capitale, si possa parlare di un incremento (o di
una riduzione) dell’impiego di capitale a parità di lavoro.4
6. Aggregare si, ma come?
Stabilito che il capitale debba apparire nella funzione della produzione in aggregato – cioè
come uno scalare e non come un vettore – il problema è in che modo aggregare il capitale.
Il modo in cui, nella pratica (cioè nella realtà), il capitale è aggregato è il valore, e gli
interessi sono calcolati sul valore del capitale. Dati i prezzi degli n beni capitale p1, p2, ..., pn, il
valore del capitale per unità di lavoro sarà: v = Σ pi⋅ki.
Tuttavia, quando il capitale si presenta aggregato in valore, attraverso i prezzi, il suo
ammontare non risulta espresso in “unità tecniche”, cioè in maniera che si possa stabilire una
relazione non ambigua tra la quantità di esso impiegata ed il prodotto ottenuto.5
Come ha scritto Wicksell: “the productive contribution of a piece of technical capital, such
as a steam engine, is determined not by its cost but by the horse-power which it develops” ([1901],
p. 149). Quindi, un incremento del valore del capitale impiegato per lavoratore v può essere dovuto
ad un mero cambiamento dei prezzi, in questo caso non si dovrebbe avere nessuna variazione di del
prodotto y. Ma una identica variazione di v potrebbe invece essere dovuta ad un incremento 4 Se al variare della tecnica cambia la composizione fisica del capitale, allora senza una misura aggregata del capitale non saremmo in grado di stabilire se l’impiego di capitale aumenta o diminuisce 5 Per chiarire la necessita di esprimere le quantità dei fattori in unità tecniche facciamo un esempio. L’impiego di lavoro può essere misurato in ore di lavoro, e questa è una misura tecnica: aumentando le ore di lavoro impiegate, il prodotto ottenuto aumenta. Se invece misurassimo l’impiego di lavoro in metri, sommando la statura dei lavoratori impiegati, questa non sarebbe una misura tecnica poiché un incremento dei metri di lavoro impiegati non si associa sicuramente ad un aumento del prodotto. Non sappiamo, infatti, se un incremento dei metri di lavoro impiegati sia dovuto ad un aumento del numero dei lavoratori (e quindi delle ore di lavoro) oppure alla mera sostituzione di lavoratori bassi con lavoratori alti, a parità del loro numero.
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dell’impiego di capitale fisico, e quindi dovrebbe far aumentare y. Ecco che il legame tra le
grandezze v e y è ambiguo, così che una funzione del tipo y = f(v) non si può scrivere.
Inizialmente, la teoria marginalista ha utilizzato una concezione della quantità aggregata di
capitale in termini di “periodo medio di produzione”. L’idea era quella di ricondurre l’impiego di
capitale con una certa tecnica all’anticipazione dei salari in periodi diversi, in modo simile a ciò che
fa Sraffa, in relazione al valore di una merce,6 nel cap. VI di Produzione di Merci a Mezzo di Merci.
Trovate, per una certa tecnica, le somme di capitale anticipate alle varie date, i rapporti tra queste ed
il totale del capitale anticipato venivano utilizzati come pesi per calcolare la media ponderata dei
periodi di anticipazione del capitale. Tale media θ veniva quindi considerata come una misura
dell’impiego di capitale con quella data tecnica. Così, il prodotto netto per unità di lavoro ottenuto
era visto come una funzione del periodo medio di produzione y = f(θ).
Il problema, come evidenziato già da Sraffa [cf. Sraffa (1960), pp. 46-48 e 50], risiede nel
fatto che – assumendo la capitalizzazione composta degli interessi, come è normale – questi pesi
non sono indipendenti dalla distribuzione del reddito e, di conseguenza, neppure la media lo è. Così,
come è stato recentemente dimostrato [cf. Fratini (2014)], l’ordinamento di due tecniche sulla base
del periodo medio di produzione può cambiare al variare della distribuzione e, in particolare, la
tecnica col periodo medio più lungo per un certo livello di r può diventare quella col periodo medio
più breve per un diverso valore del tasso dell’interesse. Quindi anche il periodo medio di
produzione non è esente dalle difficoltà di cui si è già parlato a proposito del capitale in valore.7
Quindi, riassumendo:
per avere una funzione della produzione differenziabile, le cui derivate parziali siano
interpretabili come il prodotto marginale di un fattore, il capitale deve essere preso in aggregato,
in modo tale: i) da poter cambiare forma fisica rimanendo fermo in ammontare; ii) che si possa
stabilire se l’impiego di capitale per lavoratore aumenta o diminuisce, anche quando esso cambia
di forma fisica;
servirebbe però che il capitale aggregato fosse espresso in unità tecniche, cioè in modo tale che
un aumento del capitale per unità di lavoro sia inequivocabilmente associato ad un aumento del
prodotto netto per unità di lavoro.
Sono emersi però dei problemi. In primo luogo, il modo usuale di aggregate il capitale, cioè
il valore, non va bene, perché il valore non è una unità di misura tecnica del capitale. In secondo
6 Il capitale impiegato con una certa tecnica può sempre essere visto come una merce composita. 7 Di tutto ciò, i primi economisti marginalisti non si accorsero, poiché utilizzavano nei loro calcoli la capitalizzazione semplice degli interessi e non quella composta [cf. Garegnani (1960)], nel qual caso, il problema sollevato da Sraffa non si verificherebbe. Infatti, se la capitalizzazione degli interessi avviene solo quando il prodotto finale emerge, il rapporto tra l’anticipazione di capitale ad una certa data ed il totale del capitale anticipato non dipende dal tasso dell’interesse, ed anzi risulta pari al rapporto tra l’impiego di lavoro a quella data ed il totale del lavoro incorporato.
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luogo, il modo inizialmente usato dagli economisti marginalisti per trattare il capitale aggregato,
cioè il periodo medio di produzione, risolverebbe il problema solo qualora aggiungessimo ipotesi
fortemente restrittive (prima tra tutte la capitalizzazione semplice degli interessi).
In conclusione, non c’è modo di aggregare il capitale in modo tale da poter avere la funzione
della produzione Y = F(K, L). La teoria rimane così con una concezione dicotomica del capitale. Da
una lato, domanda e offerta di capitale sono espresse in valore. Dall’altro, il capitale tecnico è
disaggregato (beni capitale o lavoro datato) e, pertanto, nella funzione di produzione il capitale
entra come un vettore di quantità. Ne segue che tale funzione risulta sostanzialmente inutile per
avere qualche garanzia circa il segno della relazione tra il tasso dell’interesse e la domanda di
capitale.
6. Ancora un tentativo: la funzione ‘surrogata’ della produzione
L’ultimo tentativo per arrivare ad una funzione della produzione con in capitale espresso come
aggregato è quello di Samuelson del 1962. Il tentativo di Samuelson è quello di partire dal capitale
disaggregato in molti diversi tipi di beni capitale, per poi derivare dal meccanismo della scelta della
tecnica una funzione “surrogata” della produzione che ne sintetizzi i risultati.
Nel modello di Samuelson si assume che vi siano molti diversi tipi di beni: α, β, γ, … .
All’uso di ciascun tipo di bene capitale corrisponde l’uso di una certa tecnica. Preso un certo livello
del tasso dell’interesse è possibile conoscere – come vedremo – la tecnica in uso, il saggio del
salario ed i prezzi. Proprio i prezzi consentono di esprimere il capitale in valore, cioè di
trasformarlo, come dice Samuelson, in una gelatina (‘jelly’), che può cambiare forma fisica.
In questo modello, i cambiamenti del tasso dell’interesse conducono, da un lato, al
cambiamento della tecnica in uso e quindi del tipo dei beni capitale impiegati, e, dall’altro lato, al
cambiamento dell’impiego di capitale-gelatina per lavoratore. Indicando con j l’impiego di gelatina
per lavoratore e con y, come al solito, il prodotto netto per lavoratore, se dalla scelta della tecnica
risultasse che:
i) dy / dr < 0, ovvero la diminuzione del tasso dell’interesse induce il passaggio a tecniche che
danno un maggiore prodotto netto per unità di lavoro (e che quindi devono utilizzare ‘più capitale’
per lavoratore, qualunque cosa significhi);
ii) dj / dr < 0, cioè l’impiego di gelatina per unità di lavoro aumenta al diminuire del tasso
dell’interesse,
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allora avremmo che ogni cambiamento della tecnica che comporti un incremento dell’impiego di
gelatina per lavoratore, comporta pure un incremento del prodotto netto per unità di lavoro. Si può
quindi rappresentare tale risultato attraverso una funzione surrogata della produzione y = f(j), con
dy / dj > 0 che quindi sarebbe un prodotto marginale ‘surrogato’ del capitale-gelatina.
6.1 La curva salario-interesse
Come abbiamo detto, Samuelson ipotizza che vi siano molti tipi di beni capitale: α, β, γ, … , a cui
corrispondono altrettante tecniche. Cominciamo considerando una sola di queste, la tecnica α, cioè
quella che impiega beni capitale di tipo α:
αα unità di bene α & lα unità di lavoro → 1 unità di α
αc unità di bene α & lcα unità di lavoro → 1 unità di c.
Come in precedenza, facciamo pari a 1 l’impiego di lavoro e costruiamo un sistema in cui il
prodotto netto fisico sia costituito solo dal bene di consumo (output finale). Ovvero, indicando con
yα l’output del bene di consumo e con kα l’impiego e l’output di capitale α (entrambi per unità di
lavoro), yα e kα devono essere tali che:
[18]
€
1= yαlcα + kαlα
[19]
€
kα = yaαc + kααα
infatti la [18] implica che l’impiego di lavoro sia 1 e la [19] che l’output di beni α sia pari alla
quantità di essi impiegata nei due settori.
Assumendo che: i) si utilizzi la tecnica α; ii) i salari siano pagati posticipatamente; iii) non
ci siamo extra-profitti; il saggio del salario, wα, ed il prezzo del bene α, pα, entrambi in termini del
bene di consumo, associati al tasso dell’interesse r devono essere tali che:
[20]
€
1=αc pα (1+ r)+ lcαwα
[21]
€
pα =αα pα (1+ r)+ lαwα .
Possiamo esprimere il saggio del salario wα ed il prezzo pα che risolvono le equazioni [20] e [21]
come funzioni del tasso dell’interesse:
15
[22]
€
wα (r) =1−αα (1+ r)
lcα + (lα ⋅αc − lc
α ⋅αα )(1+ r)
[23]
€
pα (r) =lα
lcα + (lα ⋅αc − lc
α ⋅αα )(1+ r).
Il grafico della funzione wα(r) nella [22] è detto “curva salario-interesse” per la tecnica α ed
ha le seguenti proprietà:
1) la funzione wα(r) è monotona decrescente (c’è una relazione invera tra wα e r);
2) wα(0) = yα (ovvero, quando il tasso dell’interesse è nullo, il saggio del salario assorbe l’intero
prodotto netto per lavoratore);
3) ∃ Rα tale che wα( Rα) = 0 (visto che la produzione è circolare, c’è una tasso dell’interesse
massimo);
4) la curva è convessa se
€
αc / lcα >αα / lα ; è concava se
€
αc / lcα <αα / lα ; è lineare se
€
αc / lcα =αα / lα .
Per le dimostrazioni di queste quattro proprietà, rinviamo all’appendice.
Fig. 2 – Curve salario-interesse
6.2 L’impiego di gelatina con una data tecnica
Se l’uso della tecnica α comporta, come stiamo assumendo, extra-profitti nulli, allora il prodotto
netto per lavoratore yα deve essere appena sufficiente per coprire il saggio del salario wα(r) e gli
interessi al tasso r sul valore del capitale impiegato per lavoratore: jα(r) = kα pα(r). Ovvero:
16
[24]
€
yα = wα (r)+ r ⋅ jα (r)
da cui segue:
[25]
€
jα (r) =yα −wα (r)
r.
Fig. 3 – Impiego di capitale con curva convessa
La [25] ci consente di visualizzare graficamente l’impiego di capitale-gelatina per lavoratore
associato ad un certo tasso dell’interesse r’. Partiamo dalla curva salario-interesse. Dato il tasso
dell’interesse r’, individuiamo sulla curva il punto (r’, wα’). Si dimostra facilmente che
l’ammontare di capitale jα(r’) è pari alla pendenza (cambiata di segno) della retta che congiunge il
punto di coordinate (r’, wα’) con il punto (0, yα), cioè il punto in cui la curva incontra l’asse delle
ordinate. Infatti, la pendenza della retta che passa per i punti (r’, wα’) e (0, yα), come è noto, è pari
a (yα - wα’)/(0 - r’).
Pertanto, se la curva salario-interesse è convessa, come nel caso della figura 3, allora jα(r) è
una funzione decrescente del tasso dell’interesse, ovvero il valore del capitale per lavoratore
diminuisce al crescere di r.
17
Questo è dovuto al solo effetto Wicksell di prezzo. Infatti, da un lato, l’impiego di capitale
fisico è sempre pari a kα unità di beni capitali di tipo α, e, dall’altro lato, la convessità della curva
salario-interesse è associata al caso
€
αc / lcα >αα / lα , cioè il caso in cui il prezzo dei beni capitale α
in termini del bene di consumo diminuisce al crescere di r (si veda anche l’equazione [23]).
Fig. 4 – Impiego di capitale con curva concava
Per motivi speculari, se la curva salario-interesse è concava, come nel caso della figura 4,
allora jα(r) è una funzione crescente del tasso dell’interesse, ovvero il valore del capitale per
lavoratore aumenta al crescere di r. Anche in questo caso si tratta solo di un effetto di prezzo.
Infine, se la curva salario-interesse è una retta, allora il valore del capitale per lavoratore con
la tecnica α non cambia al variare di r, ma rimane pari alla pendenza (col segno cambiato) della
retta salario-interesse.
6.3 La scelta della tecnica
Fin qui abbiamo concentrato l’attenzione sulla sola tecnica α, ma tutto ciò che abbiamo detto vale
egualmente per ciascuna delle altre tecniche. Ora si tratta di individuare, dato un certo livello del
tasso dell’interesse, la tecnica più conveniente per le imprese, cioè quella che massimizza gli extra-
profitti.
18
Indichiamo con Θ = {α, β, γ, … } l’insieme delle tecniche disponibili e con θ un suo
generico elemento. Dato un tasso dell’interesse r ed un saggio del salario w, le imprese scelgono la
tecnica che massimizza gli extra-profitti, tra quelle disponibili. Ovvero:
€
maxθ
yθ − r ⋅ pθ (r) ⋅ kθ −w
s.t. : θ ∈Θ.
Impostato il problema di scelta della tecnica, possiamo fare alcune osservazioni che ci
consentono di trovare facilmente la sua soluzione.
Osservazione 1: presa una qualsiasi coppia di tecniche, ad esempio α e β, la scelta tra esse non
dipende dal dato saggio del salario. Infatti, come è chiaro, si ha che
€
yα − r ⋅ pα (r) ⋅ kα −w > yβ − r ⋅ pβ (r) ⋅ kβ −w se e solo se
€
yα − r ⋅ pα (r) ⋅ kα > yβ − r ⋅ pβ (r) ⋅ kβ .
Osservazione 2: come conseguenza dell’osservazione 1, il problema di massimo delle imprese può
essere riscritto nella forma:
€
maxθ
yθ − r ⋅ pθ (r) ⋅ kθs.t. : θ ∈Θ
.
La cui soluzione dipende solo da r.
Osservazione 3: applicando l’uguaglianza [24] ad una qualsiasi tecnica θ, abbiamo che per
definizione:
€
wθ (r) = yθ − r ⋅ pθ (r) ⋅ kθ , ∀ θ ∈ Θ. Quindi, il problema di massimo diventa:
€
maxθ
wθ (r)
s.t. : θ ∈Θ.
Ovvero, dato un certo livello del tasso dell’interesse, la tecnica ottimale è quella che permette di
pagare il più alto saggio del salario associato ad extra-profitti nulli. Infatti, come si verifica
facilmente, se al tasso dell’interesse r’ si avesse
€
wα ( ʹ′ r ) > wβ ( ʹ′ r ), allora al saggio del salario
€
wα ( ʹ′ r )
l’uso della tecnica α comporterebbe il pareggio di bilancio e quello della β perdite, mentre al saggio
19
€
wβ ( ʹ′ r ) l’uso della β comporterebbe il pareggio di bilancio ma quello della α darebbe extra-profitti.
In entrambi i casi la tecnica α sarebbe la migliore.
Ora, nel suo ragionamento, Samuelson assume – in forma di ipotesi semplificatrice – che le
curve salario-interesse delle diverse tecniche, ovvero wα(r), wβ(r), wγ(r), … , siano delle rette.
Supponendo che per le tecniche α, β e γ le curve siano quelle della figura 5, abbiamo che la
tecnica α è in uso per ogni r ∈ [0, r’], la tecnica β per ogni r ∈ [r’, r”], e la tecnica γ per ogni r ∈
[r’, Rγ]. I livelli del tasso dell’interesse r’ e r” si chiamo “punti di switch”, cioè passando attraverso
questi punti, una tecnica viene spenta ed un’altra accesa.
Fig. 5 – Scelta della tecnica e punti di switch
6.4 La funzione surrogata della produzione
Nel caso delle curva salario-interesse lineari, considerato da Samuelson, le due condizioni che
servono per avere la funzione surrogata ricorrono. Primo, come si vede dalla figura, ogni volta che
al crescere del tasso dell’interesse si cambia la tecnica, si passa sempre ad una tecnica con un più
basso prodotto netto per lavoratore, poiché
€
yα > yβ > yγ .
20
Secondo, ogni volta che al crescere del tasso dell’interesse si cambia la tecnica, si passa
sempre ad una tecnica con un più basso impiego di gelatina per lavoratore. Infatti, come abbiamo
visto, nel caso delle curve salario-interesse lineari, si ha
€
jθ = −dwθ / dr , e quindi, visto che wα(r) è
più ripida di wβ(r), che a sua volta è più ripida di wγ(r), abbiamo
€
jα > jβ > jγ .
Fig. 6 – Prodotto netto e impiego di gelatina, per lavoratore
Così, come si vede dalla figura 6, si ha che y e j diminuiscono al crescere di r. Se vi fossero
un continuo di tecniche (tutte lineari), così da avere la differenziabilità delle funzioni y(r) e j(r), si
avrebbe dy/dr < 0 e dj/dr < 0.
Ne seguirebbe, in primo luogo, che esiste una funzione y = f(j), con f’(j) > 0, tale per cui:
€
ʹ′ f ( j) =dy / drdj / dr
.
In secondo luogo, visto che per l’assenza di extra-profitti y = w + r⋅j, differenziando rispetto a r
otteniamo:
[26]
€
dydr
=dwdr
+ j + r ⋅ djdr
e visto che nel caso delle curve salario-interesse lineari si ha sempre j = - dw/dr, allora:
21
[27]
€
dy / drdj / dr
= r
che implica l’uguaglianza, nel caso dell’uso della tecnica ottimale, tra il prodotto marginale
“surrogato” del capitale f’(j) e il tasso dell’interesse.
7. Il ritorno delle tecniche
Nel caso delle curve salario lineari, l’idea di Samuelson di una funzione surrogata della produzione
che leghi y e j sembra funzionare. Le riduzioni del tasso dell’interesse comportano l’impiego di
tecniche a maggiore intensità di capitale. In più, tecniche con un maggiore impiego di capitale per
unità di lavoro j, consentono di ottenere un maggior output per unità di lavoro y.
Però, le curve salario rettilinee, come sappiamo, richiedono che i beni capitale siano
impiegati nella stessa proporzione rispetto al lavoro tanto nella produzione del bene di consumo,
quanto nella loro stessa produzione. Questo, a ben vedere, è paradossale: è come se iniziassimo un
processo produttivo senza sapere se alla fine otterremo i beni di consumo o i beni capitale. L’unico
modo per sfuggire a questo paradosso sarebbe quello di assumere che i beni di consumo e i deni
capitale siano la stessa merce, ma allora torneremmo al caso di Solow.
Se invece abbandoniamo questa ipotesi molto particolare, allora i prezzi dei beni capitale in
termini del bene di consumo cambiano al variare del tasso dell’interesse. E questi cambiamenti,
come vedremo, sono molto rilevanti per la scelta delle tecniche.
Supponiamo, per semplicità, che ci siano soltanto due tecniche, ovvero assumiamo
€
Θ = {α,β } . Abbandonando l’ipotesi delle curve salario rettilinee, può succedere, come vedremo tra
poco, che una stessa tecnica, ad esempio la α, sia in uso per due diversi livelli del tasso di interesse,
ma non per i tassi d’interesse compresi tra questi due. Questo fenomeno è detto “ritorno delle
tecniche” o “reswitching”.
Come abbiamo argomentato nel paragrafo 6.3, dato un certo livello del tasso dell’interesse r,
la tecnica ottimale è quella che consente di pagare il più alto saggio del salario. Di conseguenza,
abbiamo che:
- se wα(r) > wβ(r) ⇒ è in uso la tecnica α;
- se wα(r) < wβ(r) ⇒ è in uso la tecnica β;
- se wα(r) = wβ(r) ⇒ le due tecniche sono simultaneamente in uso.
22
Un livello del tasso dell’interesse a cui le due tecniche sono contemporaneamente in uso è
detto “punto di switch”, poiché esso fa da spartiacque tra i livelli di r per cui è in uso una tecnica e
quelli per cui è in uso l’altra.
Nel caso con le curve salario-interesse lineari considerato da Samuelson, è chiaro che un
solo punto di switch è possibile. Tuttavia, in generale, nel caso che stiamo ora considerando, è
possibile che vi siano due punti di switch tra le due tecniche.
Fig. 7 - Reswitching
Cominciamo ricordando che per l’equazione [22], già ottenuta sopra, abbiamo che:
[22]
€
wα (r) =1−αα (1+ r)
lcα + (lα ⋅αc − lc
α ⋅αα )(1+ r)
e lo stesso ragionamento, applicato alla tecnica β, ci porta a:
[28]
€
wβ (r) =1−ββ (1+ r)
lcβ + (lβ ⋅ βc − lc
β ⋅ ββ )(1+ r).
23
Di conseguenza, un punto di switch è un livello del tasso dell’interesse r tale che:
[29]
€
1−αα (1+ r)lcα + (lα ⋅αc − lc
α ⋅αα )(1+ r)=
1−ββ (1+ r)lcβ + (lβ ⋅ βc − lc
β ⋅ ββ )(1+ r)
e siccome la [29] è una equazione di secondo grado,8 essa può avere fino a due soluzioni
economicamente significative, cioè con tassi dell’interesse strettamente positivi.
Assumiamo, ad esempio, che con la tecnica α la produzione del bene di consumo sia a
maggiore intensità di capitale rispetto alla produzione del bene α; mentre con la tecnica β sia la
produzione del bene capitale ad essere quella a maggiore intensità di capitale. Sotto questa ipotesi,
per quando detto nel paragrafo 6.1, la curva salario wα(r) sarà convessa (in rosso) e la curva wβ(r)
sarà invece concava (in blu). Così, come si vede nella figura 7, ci sono due punti di switch: r’ e r’’.
Si verifica pertanto il ritorno delle tecniche: la tecnica α è in uso per 0 ≤ r ≤ r’ e per r’’ ≤ r ≤
Rα, ma non per tassi dell’interesse r’ < r < r’’.
8. Le implicazioni del ritorno delle tecniche
La possibilità del ritorno delle tecniche dimostra che i risultati raggiunti da Samuelson sotto
l’ipotesi delle curve salario-interesse lineari non sono valide in generale. Per cui, anche nel
semplice esempio con un solo bene di consumo, ed un solo bene capitale per ogni tecnica, le
condizioni richieste per l’esistenza di una funzione surrogata della produzione possono non
ricorrere.
In primo luogo, infatti, possiamo osservare che, nel caso introdotto nel precedente paragrafo,
è possibile che l’impiego di gelatina per unità di lavoro j aumenti al crescere di r. Questo avviene: i)
in conseguenza dell’effetto di prezzo quando è in uso la tecnica β, la cui curva salario-interesse è
concava; ii) in conseguenza dell’effetto reale in un intorno del tasso dell’interesse r”, in
corrispondenza del quale, il cambiamento di tecnica comporta un salto verso l’alto dell’impiego di
gelatina per lavoratore. Con riferimento a quest’ultimo punto, ricordando che, per la [25], jα = (yα –
wα)/r, e che analogamente jβ = (yβ – wβ)/r, visto che, per r = r’’, wα = wβ, abbiamo di conseguenza
che yα > yβ implica jα > jβ.
8 Se invece le curve salario fossero lineari, l’equazione sarebbe di primo grado e potrebbe avere una sola soluzione.
24
Fig. 8 – Curva di domanda di capitale per lavoratore
In secondo luogo, al crescere del tasso dell’interesse è possibile che si passi ad una tecnica
che dia un maggiore prodotto netto per unità di lavoro – e che quindi impieghi, in qualche senso,
“più capitale tecnico”, sebbene in cambiamento del tipo di beni capitale non ci consenta di stabilire
questo. Infatti, quando il tasso dell’interesse aumenta, passando da un livello di poco inferiore a r’’,
ad un livello appena superiore, il prodotto netto per lavoratore aumenta, passando da yβ a yα.
Fig. 9 - Curva del prodotto netto per lavoratore
25
Se ne conclude che la presenza di tecniche alternative di produzione e la scelta tra di esse
non implica affatto una relazione inversa tra r e l’intensità capitalistica della produzione. L’intensità
capitalistica della produzione, misurata da j, può infatti aumentare al crescere di r, come mostrato.
In più, anche il prodotto netto per lavoratore y può crescere al crescere di r, dimostrando che il
problema non riguarda meramente il valore del capitale impiegato, ma è un problema con effetti
reali. Il tentativo di Samuelson è quindi fallito: si può costruire una funzione surrogata della
produzione solo quando il prodotto netto ed il capitale sono la stessa merce, ma in questo caso non
ce n’è bisogno.
Appendice
Assumendo che sia in uso la tecnica α, possiamo esprimere il saggio del salario come funzione del
tasso dell’interesse, come nell’equazione [22] del testo:
[A1]
€
wα (r) =1−αα (1+ r)
lcα + (la ⋅αc − lc
α ⋅αα )(1+ r).
Con riferimento alla funzione wα(r), si dimostreranno quattro proposizioni.
Proposizione 1: la funzione wα(r) è monotona decrescente.
Dimostrazione: differenziando la [A1] rispetto a r otteniamo:
[A2]
€
dwα
dr=−αα [ c
α + (α ⋅αc − cα ⋅αα )(1+ r)] − [1−αα (1+ r)](α ⋅αc − c
α ⋅αα )[ c
α + (α ⋅αc − cα ⋅αα )(1+ r)]2
che con opportune semplificazioni diventa:
[A3]
€
dwα
dr= −
α ⋅αc
[ cα + (α ⋅αc − c
α ⋅αα )(1+ r)]2.
Si ha quindi dwα/dr < 0 per ogni livello di r
Proposizione 2: wα(0) = yα.
26
Dimostrazione: ponendo r = 0 abbiamo:
[A4]
€
wα (0) =1−αα (1+ 0)
lcα + (la ⋅αc − lc
α ⋅αα )(1+ 0)=
1−ααlcα + (la ⋅αc − lc
α ⋅αα ).
Ora, come abbiamo visto nel par. 6.1, Ovvero, indicando con l’output del bene di consumo
yα e l’impiego e l’output di capitale α kα (entrambi per unità di lavoro) devono risolvere il sistema
formato dalle equazioni [18] e [19]. Di conseguenza si ha che:
[A5]
€
kα =αc
lcα + (lα ⋅αc − lc
α ⋅αα )
[A6]
€
yα =1−αα
lcα + (lα ⋅αc − lc
α ⋅αα )
e pertanto wα(0) = yα
Proposizione 3: ∃ Rα > 0 tale che wα( Rα) = 0.
Dimostrazione: basta dimostrare che esiste Rα > 0 tale che
€
1−αα (1+ Rα ) = 0 . Questo si verifica
facilmente ponendo
€
Rα = (1−αα ) /αα
Proposizione 4: se
€
αc / lcα >αα / lα , allora la curva salario-interesse wα(r) è convessa.
Dimostrazione: abbiamo già calcolato la derivata prima [A3] della funzione wα(r), ora ne
calcoliamo la derivata seconda:
[A3]
€
d2wα
dr2= 2 lα ⋅αc (lα ⋅αc − lc
α ⋅αα )[lc
α + (lα ⋅αc − lcα ⋅αα )(1+ r)] 3
.
Nella [A3], il denominatore è positivo per ogni livello del tasso dell’interesse 0 ≤ r ≤ Rα, infatti:
[A4]
€
lcα + (la ⋅αc − lc
α ⋅αα )(1+ r) = lcα [1−αα (1+ r)] + lα ⋅αc(1+ r) .
Di conseguenza, la curva è convessa, ovvero d2wα / dr2 > 0, se e solo se
€
(la ⋅αc − lcα ⋅αα ) > 0 , cioè
se e solo se
€
αc / lcα >αα / lα
27
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