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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÁ DEGLI
STUDI DI BOLOGNA
FACOLTÁ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di laurea in:
SCIENZE ANTROPOLOGICHE
ORTI-CULTURE
Riflessioni antropologiche sull’orticoltura urbana.
Prova finale in:
SEMIOTICA
Relatore Presentata da
Francesco Marsciani Lorenzo Cioni
I
A.A. 2011/2012
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Indice
Introduzione
Capitolo 1. Storia delle città e dell’orticoltura
urbana.
1.1 Diversi modelli di città.
1.1.1 Città rurali.
1.1.2 Città moderne.
1.1.3 Città sostenibili.
1.2 Sviluppo storico dell’orticoltura urbana.
1.2.1 All‟origine degli orti urbani.
1.2.2 Orti urbani in Italia.
Capitolo 2. L’orto: un microcosmo urbano.
2.1 Disagio ecologico.
2.1.1 Cementificazione e degrado.
2.1.2 Agri-civismo.
2.2 Valenza sociale.
2.2.1 Il dopolavoro e gli orti per gli anziani.
2.2.2 Orti didattici.
2.2.3 Orti terapeutici.
2.3 Economia alternativa.
2.3.1 Orti in affitto.
2.3.2 Auto-produzione: individuale o associata.
2.3.3 Mercati biologici.
3
Capitolo 3. L’orti-cultura: sociologia e
antropologia dell’orto urbano.
3.1 Sociologia degli orticoltori.
3.1.1 L‟orto famigliare.
3.1.2 L‟orto domestico tra passione e reazione.
3.1.3 Riferimenti letterari.
3.2 Community gardens, collective gardens e neo-
ruralismo.
3.2.1 Community gardens: il caso di via Salgari.
3.2.2 Collective gardens in Nord america.
3.2.3 Neoruralismo.
3.3 Orti-cultura.
3.3.1 Uomo artificiale e uomo naturale.
3.3.2 Genus loci.
3.3.3 Orto come memoria: i miti legati alla terra.
Conclusioni.
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Introduzione.
A Bologna, al numero 18 di via Orfeo, si trova l‟ingresso di un
magnifico orto-giardino dalla storia secolare. Quest‟area verde,
compresa nel quadrilatero costituito da via della Braina, via Dè
Coltelli, via Orfeo e da via Rialto, è stata definita "un documento
vivente di primaria importanza in quanto eccezione al sistema seriale
degli orti di lottizzazione storica"1 e costituisce l'ultimo esempio
superstite e ancora intatto di orto storico ex conventuale nel centro di
Bologna.
Con i suoi alberi da frutto, la vecchia peschiera, il pozzo, questo
giardino rappresenta un luogo di grande fascino e insieme un polmone
verde per la città.
L'area è tutelata dal Piano Regolatore Generale 1985 (art.66 e 67), ma
ciò nonostante è ora minacciata dalla completa distruzione: la
proprietà degli "Orti di via Orfeo" ha pianificato la realizzazione di un
grande parcheggio sotterraneo privato, della capienza di almeno 200
posti.
A suo tempo questa decisione suscitò la reazione di un gruppo di
abitanti del quartiere che decisero di unirsi, nell‟aprile del 2002,
formando il Comitato "Gli Orti di Via Orfeo". Il Comitato capì fin da
subito quanto fosse necessario coinvolgere tutti gli abitanti del
quartiere e così, con l‟aiuto del bar “Mike & Max”, iniziarono ad
organizzare eventi e feste di strada che riscossero grande successo.
Queste iniziative furono fondamentali per stimolare il radicamento nel
territorio del Comitato, consentendo ai vari componenti di incontrarsi
con tutti gli abitanti locali, i curiosi e gli interessati in genere; inoltre
1 Scannavini R., Palmieri R. La storia verde di Bologna, Bologna 1990.
5
questo permise di rendersi conto delle potenzialità del quartiere.
Musicisti, artisti, poeti, grafici hanno dato vita ad un'associazione
culturale che si è posta come alternativa alle proposte del comune.
Degno di nota è proprio lo spirito dei membri del Comitato, i quali
riescono ad unire una giusta causa ad uno spirito di festa aperto a tutti,
come dimostra l'idea dell'inaugurazione fatta con una festa di strada.
Io abito in via De‟ Coltelli e in qualche modo sono stato coinvolto in
prima persona in quello che a oggi sembra sia stato un successo.
Anche se non ho la fortuna di affacciarmi su quel piccolo polmone
verde che è stato mantenuto intatto per secoli, ho avuto occasione di
visitarlo ed è entrato nella mia mente anche come il mio orto.
È un luogo molto bello, quasi “sacro” per chi ci abita vicino, e anche
se non lo si può vedere se ne percepisce la presenza, soprattutto in
primavera quando si diffondono aromi e profumi deliziosi nelle strade
circostanti.
Ma soprattutto è confortante sapere che dietro alle case e ai palazzi c‟è
un angolo di verde che pulsa, rendendo più vivibile e salutare
l‟ambiente che ci circonda.
Di fatto io non posseggo un orto, ma è come se gli “Orti di Orfeo”
fossero anche un po‟ miei, e questo penso sia stato il pensiero di molti
di coloro che hanno contribuito e partecipato al mantenimento di
questo piccolo “angolo di paradiso”.
Sono stato stupito dall‟interesse e dalla sensibilità degli abitanti del
quartiere per una causa che, apparentemente, sembrerebbe di poca
importanza. Posso dire che proprio da questo stupore è scaturita la
curiosità di voler indagare come e perché questi spazi si siano venuti a
creare all‟interno delle città, in un ambiente simbolicamente opposto a
quello che l‟orto rappresenta. Infatti, si può dire che all‟“orto”
6
appartengano molti di quei valori e simbolismi che la “città” nega o
esclude: un ritorno alla “naturalità” del vivere la vita, conoscendo di
nuovo il tempo delle stagioni; la lentezza del crescere degli alimenti;
la cura e la pazienza di far crescere le piante.
È anche per questo che ho deciso di interessarmi a questi “strani”
luoghi, che pur essendo dentro la città, sembrano quasi volersi
nascondere per il timore di essere scoperti e trasformati in città a loro
volta.
Nel primo capitolo ho voluto tracciare il profilo storico dell‟orticoltura
urbana: partendo da una breve storia dello sviluppo urbanistico delle
città, dalle città rurali fino a quelle moderne, per arrivare ai nuovi
progetti di città sostenibili o Transition Town. Ho evidenziato come
gli orti siano entrati e usciti dal contesto urbano, analizzando i motivi
e le ideologie che stavano alla base di questi cambiamenti, e come
fossero utilizzati a seconda delle differenti necessità.
Attraverso il paradigma dell‟orto ho cercato di vedere come la società
è cambiata e sta cambiando. Perché prima della Rivoluzione
Industriale le città, e la gente che le abitava, ammettevano la presenza
della campagna al loro interno? Quali i cambiamenti simbolici che
sono stati assunti per giustificarne la successiva rimozione dagli spazi
vissuti?
Nel secondo capitolo ho cercato di individuare le principali funzioni
degli orti all‟interno del contesto urbano. Contro il degrado e
l‟inquinamento cittadino, innanzi tutto; come utile strumento di
socialità e socializzazione, concretizzati negli orti del Dopolavoro, per
esorcizzare l‟alienazione degli operai delle fabbriche; gli orti per gli
anziani, per creare comunità e un‟utile attività per il loro tempo libero;
7
gli orti didattici, per poter reinsegnare un tipo di conoscenza che va
sempre più perdendosi; gli orti per curare malattie psicosomatiche.
Nel terzo capito ho evidenziato, per mezzo di un approccio
sociologico, la rilevanza del mondo degli orticoltori amatoriali
avvalendomi della ricerca effettuata da Italia Nostra; questa ha
dimostrato che non tutte le categorie sociali sono ugualmente
contagiate dalla passione per l‟orticoltura.
Concentrandomi sull‟analisi dei community gardens e dei collective
gardens, come nuovi strumenti di politica sociale, sono arrivato a
parlare del fenomeno socio-culturale del neo-ruralismo, indentificando
in quest‟ultimo l‟espressione di un disagio della vita in città.
Facendo riferimento allo studio di Marc Augè sui luoghi e non-luoghi,
ho quindi indagato il luogo dell‟orto urbano con i suoi simbolismi e le
sue prerogative, trovandolo carico di valori contadini rinnovati e
ripensati a livello cittadino.
Ho infine scritto del background culturale che sussiste agli orti urbani:
dalla dicotomia classica uomo-natura per arrivare a quella di
campagna-città; indagando i miti di riferimento di una “naturalità”
persa dall‟uomo e analizzando lo “spazio orto” con i suoi significati e
valori.
8
Capitolo 1: Storia delle città e dell’orticultura
urbana.
1.1 Diversi modelli di città.
Negli ultimi due secoli si è prodotta una rottura di continuità nei
plurisecolari rapporti tra l‟universo urbano e quello rurale, sui quali si
sono fondate tutte le civiltà storiche; rottura di continuità che ha
proceduto lungo due direttrici principali, che in parte ne
contraddistinguono anche i tempi e i modi d‟evoluzione.
Dapprima questo rapporto si manifesta nella forma di un netto
dominio – demografico, economico, politico e culturale – della città
sulla campagna, che man mano viene ridotta a mero settore
produttivo, sempre più marginale nel quadro di un‟economia
prevalentemente industriale. Progressivamente, e successivamente, le
campagne assorbite, anche dal punto di vista spaziale, all‟interno della
dimensione urbana, divenuta ormai totalizzante, smarriscono ogni
residua autonomia funzionale. Città e campagna si fondono così in
quel continuum rurale-urbano che ormai costituisce la connotazione
prevalente del paesaggio dei paesi sviluppati dell‟Occidente e che di
recente ha costituito l‟oggetto di studio più significativo di molta
sociologia rurale urbana2.
Questo processo di «urbanizzazione della campagna», che in parte
coincide con la scomparsa della società rurale, si è configurato come
la progressiva urbanizzazione della popolazione agricola,
ridisegnando completamente la distribuzione della popolazione sul
territorio.
2 Girotti F., Città, in Il mondo contemporaneo, Firenze, 1985.
9
1.1.1 Città rurali.
La mescolanza di aspetti urbani e rurali ha caratterizzato la vita
economico-sociale delle città del Medioevo fino alla metà
dell‟Ottocento. Tra campagna e città vi era continuità ecologica.
L‟aperta campagna, che iniziava appena fuori dalle mura, era
agevolmente raggiungibile dal centro cittadino. Le città beneficiavano
dunque, dal punto di vista ecologico, dell‟influenza della campagna
circostante e inoltre potevano contare sul patrimonio di verde,
produttivo e ornamentale, che arricchiva il tessuto urbano.
Nel Duecento, l‟insediamento nei centri urbani degli ordini
mendicanti (domenicani, francescani, ecc.) provocò un incremento del
verde urbano: ornamentale e di sussistenza. È importante ricordare che
nel Medioevo, l‟orticultura e l‟agricoltura praticate all‟interno della
cinta muraria avevano l‟importante funzione di assicurare la
sussistenza alimentare degli abitanti in caso di assedio militare.
La stessa Roma agli inizi del Quattrocento manteneva ancora l‟aspetto
di un grosso borgo rurale. Molti importanti monumenti dell‟antica
città sono rimasti per secoli circondati da prati e campi seminati.
Gli umanisti del tempo, trovavano scandaloso che le rovine del
glorioso passato rimanessero ignorate e abbandonate in aperta
campagna. Nella sua Roma instaurata Biondo Flavio, mercante di
antiquariato del Quattrocento, considera riprovevole il fatto che si
praticasse la viticoltura sui colli Aventino e Quirinale, mentre lo
spazio intorno al Mausoleo di Augusto era utilizzato come pascolo:
10
«così sempre herboso, che non manca mai a gli animali, che vi
vadano, da dare a pascere»3.
La rinascita urbanistica e artistica di Roma perseguita dai papi in
epoca rinascimentale e barocca non riuscì a eliminare gli aspetti rurali
che continuavano a caratterizzare il paesaggio e la vita sociale
romana.
Le varie piante di Roma disegnate nei secoli XVI-XVII, con il
proposito di documentare l‟impegno urbanistico-edilizio dei papi4,
mostrano che gran parte del territorio cittadino compreso all‟interno
delle mura è stato a lungo utilizzato come pascolo o per le coltivazioni
orticole e vinicole.
Anche le piante cinque-secentesche di Milano documentano la
ricchezza di spazi aperti e naturali, esistente all‟interno dell‟area
compresa tra la cinta medievale e le mura spagnole.
Una sorprendente Venezia orticola emerge invece dalla pianta
disegnata nel 1500 da Jacopo De Barberi. L‟orticoltura, la viticoltura e
l‟olivicoltura risultano ampiamente praticate alla Giudecca, nell‟ isola
di San Giorgio, nei sentieri di Cannareggio, Castello, ecc.
Particolarmente impegnate nell‟attività orticola appaiono le numerose
comunità monastiche conventuali quali il convento di San Jacopo alla
Giudecca, sia quello dell‟isola di San Giorgio5.
In epoca rinascimentale, grazie all‟edificazione di sfarzosi palazzi
aristocratici circondati da artistici giardini e ampi parchi destinati
all‟ozio il tessuto urbano si arricchì di verde ornamentale.
3 Cit. da Cesare D‟Onofrio, Visitiamo Roma nel Quattrocento. La città degli Umanisti, Romana Società Editrice, Roma 1989, pp. 142 ss. 4 Crf. I. Insolera, Roma, immagni e realtà del X al XX secolo, Laterza, Bari 1981. 5 A cura di Corrado Balistreri-Trincanato e Dario Zanverdiani, Jacopo De Barberi. Il racconto di una città, Edizioni Stamperia Cetid, Venezia, 2000.
11
Anche la città ottocentesca, pur già così propensa a sacrificare gli
spazi aperti a beneficio della crescita edilizia, ebbe il suo verde: quello
degli alberi piantati ai lati dei lunghi viali e dei giardini collocati nelle
piazze antistanti gli edifici pubblici, con cui la borghesia emergente
cercava di conferire magnificenza alla nuova città del lavoro e degli
affari che si proiettava al di là delle mura, oramai demolite o
largamente sventrate; ad esso si aggiunse nella seconda metà del
secolo XIX il verde dei parchi pubblici creati nel tentativo di rendere
igenicamente più salubre l‟atmosfera cittadina e al fine di offrire una
opportunità di svago alla popolazione.
La progressiva prevalenza del verde ornamentale e sociale-ricreativo
non comportò la totale scomparsa del verde produttivo, che continuò
ad avere un suo spazio in città. Rimanevano infatti dotati di orti e
frutteti i palazzi signorili, le residenze delle comunità religiose; anche
le abitazioni popolari beneficiavano spesso di un piccolo orto
domestico; venivano inoltre destinati alle coltivazioni agricole (vite,
frutta, fieno) i terreni adiacenti alle mura cittadine e quelli ancora
inedificati.
Le planimetrie sette-ottocentesche consentono di valutare con
precisione il rapporto tra spazi costruiti e spazi aperti-naturali esistente
prima che l‟espansione demografica e urbanistica di epoca industriale
alterasse irreparabilmente il paesaggio urbano.
La pianta di Milano di Giacomo Pichetti ci mostra una città che
all‟inizio del XIX è ancora ricca di verde, il che trova un riscontro
anche nei dati catastali: su 8,2 milioni di metri quadri, 2,5 sono
costituiti da giardini, orti e vigneti6.
Roma, ancora nella seconda metà del secolo XIX, si presentava come
una «metropoli paesana», dove «le gregge di pecore e capre […]
6 L.Gambi, M.C. Gozzoli, Milano. Laterza, Bari 1982, pp.68 ss
12
andavano per la città con lo stesso diritto delle carrozze pedonali»7.
Per Insolera, a Roma, «il passaggio dalla città costruita alla cerchia
verde è tutt‟altro che netto. Ville e vigne penetrano nell‟abitato; i rioni
sfrangiano tra giardini e orti»8.
1.1.2 Città moderne.
Il passaggio dall‟urbanesimo preindustriale a quello industriale
provocò la progressiva totale deruralizzazione dell‟ambiente cittadino
e l‟antica continuità ecologica tra l‟ambiente urbano e il territorio
rurale circostante venne irrimediabilmente compromessa.
Già agli esordi della rivoluzione industriale apparve chiara la tendenza
della città ad allontanarsi dalla natura.
La storia dell‟urbanistica novecentesca può essere raccontata come
una vera e propria guerra all‟orto, una guerra condotta innanzitutto sul
piano ideologico.
Engels, in uno dei suoi più importanti saggi di critica del capitalismo,
si oppone ai tentativi “borghesi” di migliorare la condizione abitativa
delle famiglie operaie, offrendo loro un alloggio nei villaggi-operai
fatti costruire direttamente dai proprietari delle fabbriche.
Egli è convinto che gli industriali, i quali si preoccupano di assicurare
ai loro operai una piccola casa dotata di orto-giardino, fanno soltanto
il loro interesse perché in questo modo possono pagare salari ancora
più bassi e, in aggiunta, guadagnano con il canone dell‟affitto. Per lui,
il cottage operaio, la casa giardino, rappresenta una regressione, segna
il ritorno all‟antico, quando i lavoratori erano “inchiodati” alla loro
condizione sociale proprio in virtù della casa e di un pezzo di terra.
7 Negro S., Seconda Roma(1850-18709, Neri-Pozza Editore, Vicenza 1966, p. 56. 8 Insolera I., cit., pp.316 ss
13
Engels è convinto che il corso della storia ormai si muova verso
un‟altra direzione, quella della concentrazione urbana delle
manifatture e dei lavoratori, i quali, attratti dal lavoro in fabbrica, sono
spinti ad abbandonare la campagna per andare a vivere in città.
“Soltanto il proletariato creato dall‟industria moderna, liberato da tutte le catene
ereditarie, anche da quelle che lo inchiodano alla terra, solo il proletariato pigiato
nelle grandi città è in grado di compiere la grande trasformazione sociale che
metterà fine ad ogni sfruttamento di classe. I tessitori campagnoli di un tempo,
con casa e focolare, non sarebbero mai stati in grado di farlo, non avrebbero
potuto concepirne nemmeno il pensiero, e ancor meno attuarlo”9.
Secondo Engels bisogna aiutare i contadini diventati operai ad
emanciparsi dalla tradizione rurale per assimilare la nuova cultura
urbana. Infatti, scrive Engels, «le grandi città sono la culla del
movimento operaio,[…] in esse per la prima volta si è manifestato il
contrasto tra proletariato e borghesia, da esse sono uscite le
associazioni operaie, il cartismo e il socialismo»10
.
Un altro elemento su cui si basa la “guerra all‟orto” pronunciata dalla
moderna urbanistica è la convinzione di molti architetti,
principalmente Le Corbusier, che le sorti e i destini della città e delle
persone che lavorano dentro di essa, fossero autonomi e distinti da
quelli della campagna. Le Corbusier, infatti, non ha dubbi
nell‟identificare la grande città con il progresso, considerando la
concentrazione urbana un segno distintivo della modernità, si oppone
al decentramento urbano basato sull‟idea della città-giardino.
9 Engels F., La questione delle abitazioni, Editori Riuniti, Roma, 1988. 10 Engels F., La situazione della classe operaia in Inghilterra, cit., p. 158.
14
“evidentemente la casetta con accanto l‟albero amico e il frutteto o l‟orticello, sta
nel cuore e nella mente della massa: e ciò permette agli uomini d‟affari di
realizzare lauti profitti lottizzando terreni. […] La casetta unifamigliare schiaccia
la donna di casa sotto il peso delle cure domestiche e schiaccia le finanze
comunali con gli oneri di servizio. Al suo attivo rimane tuttavia il concetto, valido
e perfino sacro, dell‟unità della famiglia che tenta di rimettersi ancora nelle
«condizioni di natura». […] I fautori delle città-giardino, i responsabili della
disarticolazione delle città hanno proclamato a gran voce: a ciascuno la sua
casetta, il suo piccolo giardino, la sua garanzia di libertà. Menzogna e abuso di
fiducia! Il giorno ha soltanto ventiquattr‟ore che non bastano”11
.
In un‟ottica meramente funzionalistica, secondo la quale la migliore
organizzazione spaziale è quella che ottimizza il rapporto distanza-
tempo, la città-giardino non adempie alla funzione essenziale della
città e costituisce pertanto uno snaturamento del fenomeno urbano.
In Italia lo sviluppo industriale-urbano novecentesco ebbe come prima
conseguenza l‟allontanamento dalla città dei boschi e dei campi
coltivati. Ma il divorzio tra città e natura è un fenomeno che non
interessò soltanto i centri urbani investiti dalla rivoluzione industriale
che si trasformarono in città-fabbrica. Un‟analoga soppressione del
patrimonio verde urbano, sia ornamentale che produttivo, si verificò
anche nelle città che, pur non investite dal processo di
industrializzazione, furono oggetto di una rapida crescita demografica
ed edilizia in ragione delle nuove funzioni (commerciali, finanziarie,
politico-amministrative) che andavano assumendo.
Quel grande miracolo che i papi erano riusciti a compiere, facendo di
Roma una grande città dal punto di vista monumentale-architettonico
pur conservandone dal punto di vista economico-sociale la fisionomia
di un grosso centro semi-rurale, finì dopo la conquista dello Stato
11 Le Corbusier, Maniera di pensare l’urbanistica, Laterza, Bari 1965, pp. 7-8.
15
italiano. Infatti lo sviluppo edilizio, indispensabile per una capitale
che si gonfiava rapidamente di abitanti, si tradusse in una impietosa
distruzione del patrimonio di giardini e parchi accumulato nel corso
dei secoli.
1.1.3 Città sostenibili.
A causa dell‟esagerato grado di artificialità raggiunto dall‟habitat
urbano, che rischia di rimanere privo delle basi biologiche minime
indispensabili alla sua sopravvivenza, oggi ci si sta rendendo sempre
più conto che il futuro dell‟urbanesimo occidentale è sempre più
minacciato. Sono sempre più numerosi, infatti, coloro i quali pensano
che sia necessario ristabilire un rapporto tra la città e il mondo
naturale, riportando all‟interno dell‟ambiente urbano non solo il verde
estetico-ornamentale, ma anche il verde produttivo-agricolo degli orti
di cui beneficiava la città preindustriale.
Rob Hopkins, un giovane insegnate di permacultura, nel 2004 ha
cominciato, insieme ai suoi studenti, a cercare soluzioni di
sostenibilità. Il tipo di soluzioni trovate si sono rivelate talmente
efficaci che già nel 2006, lo stesso Hopkins, è riuscito ad applicarle
alla sua città natale, Totnes.
L'iniziativa ha avuto rapida diffusione e, alla data del 25 aprile 2008,
si segnalano oltre cinquanta comunità riconosciute ufficialmente come
Transition Towns in Regno Unito, Irlanda, Australia, Nuova Zelanda e
Italia. L'appellativo "città" rappresenta in realtà comunità di diverse
dimensioni, da piccoli villaggi (Kinsale) a distretti (Penwith) fino a
16
vere e proprie città (Brixton)12
. In Italia l'unica città riconosciuta
ufficialmente in transizione è Monteveglio.
Il concetto che sta alla base delle Transition Towns è quello di
resilienza. Questo termine esprime una caratteristica tipica dei sistemi
naturali, quella di adattarsi ai cambiamenti, anche traumatici, che
provengono dall‟esterno senza degenerare.
L‟obiettivo delle città di transizione è proprio quello di creare
comunità fortemente resilienti, attraverso la ripianificazione
energetica e la rilocalizzazione delle risorse di base della comunità
(produzione del cibo, dei beni e dei servizi fondamentali).
Ma anche ricominciare ad imparare le conoscenze pratiche che
abbiamo perso, abituati ad una società dell‟usa e getta, fa parte di un
atteggiamento di resilienza: la riqualificazione del “saper fare”, saper
riparare le cose, saper cucinare, saper coltivare ecc.
Il movimento delle Transition Towns nasce ufficialmente nel
settembre 2006 a Totnes, cittadina della contea di Devon (Inghilterra),
e si presenta come un modello di convivenza/collaborazione tra gli
abitanti di un determinato territorio, e (più in generale) come risposta
locale alla crisi socio-ambientale che negli ultimi anni sta diventando
una vera e propria crisi sistemica13
. Gli elementi più caratterizzanti
alla base del pensiero transizionista riguardano il concetto di resilienza
e un tentativo di ideare uno scenario energetico post petrolifero.
Pensare resiliente significa dotare la comunità e il territorio di una
propria energia e di un proprio dinamismo. Nel concreto significa
attuare delle scelte differenziate per ottimizzare le risorse e aprire la
strada all‟innovazione creativa. Trasformare un parcheggio in un orto
comunitario; piantare alberi da frutto piuttosto che piante
12 Hopkins R., Manuale pratico della Transizione, Arianna Editrice, Bologna
2009 13 Ibidem.
17
“decorative”; limitare l‟esportazione di beni primari producibili in
loco; riciclare piuttosto che smaltire; utilizzare i mezzi pubblici e
organizzare “car sharing”; favorire i gruppi di acquisto e la solidarietà
sociale; istituire una moneta locale ecc… Tutti questi e molti altri
sono esempi di come favorire una resilienza locale.
Quando nel 2006 è stata inaugurata la TTT (Transition Town Totnes)
la sfida consisteva nel rendere partecipi del cambiamento e della
riqualificazione energetica non solo alcuni studenti, ma ottomila
persone, ovvero l‟intera popolazione di Totnes. Per facilitare la
partecipazione si è ricorso a strumenti per valorizzare l‟“intelligenza
collettiva” degli abitanti, come i “World Cafè”, le “Open Space
Technology” e il lavoro per gruppi di interesse. In quel momento è
nato il primo esperimento di Transizione, la cui recente storia ha già
visto una cospicua mobilitazione di risorse umane e una diffusione
sempre maggiore del modello, prima in Inghilterra e poi in Europa e
nel mondo14
.
Le Transition Town hanno dimostrato che il lavoro da svolgere nelle
città per renderle meno insostenibili è straordinariamente faticoso, ma
presenta una grande opportunità di coinvolgimento e partecipazione
della gente. Il ruolo delle comunità locali e quindi delle
amministrazioni locali può divenire sempre più significativo e
importante.
1.2 Sviluppo storico dell’orticoltura urbana.
È proprio di questi ultimi venti anni una rinascita di una vecchia
istituzione, quella degli “orti senza casa”, cioè di orti collocati
all‟interno del tessuto urbano. Orti che non appartengono a chi li
14 Ibidem.
18
coltiva, ma sono proprietà di associazioni o delle amministrazioni
comunali, e vengono assegnati a coltivatori non professionisti. Il
fenomeno nasce per la prima volta a Lipsia, in Germania, verso la
metà del XIX secolo, con i kleingarten riservati ai bambini, ma trova
il suo aspetto più interessante nei jardins ouvriers francesi.
L‟Italia, oltre la parentesi fascista, prontamente chiusa e rimossa, non
ha una storia associativa riguardo agli orti urbani. La creazione di orti
urbani è sempre originata da iniziative individuali, disorganiche,
spesso abusive, mal tollerate se non apertamente disprezzate od
osteggiate dagli abitanti dei quartieri in cui si trovano.
All‟epoca il Fascismo aveva promosso l‟iniziativa dell‟ “orticello di
guerra”, nel quadro della “battaglia del grano” e della ruralizzazione
degli italiani che Mussolini perseguiva. In particolare l‟Opera
Nazionale del Dopolavoro Ferroviario fu molto attiva in questo senso,
e promosse concorsi per l‟abbellimento delle stazioni ferroviarie. Il
“Dopolavoro” partecipava anche alle periodiche riunioni dell‟Office
International.
A tutt‟oggi le statistiche rivelano che per la totalità degli intervistati
gli orti non possono convivere con la città, che sono antiestetici e
danno un aspetto decadente, “di paese”. Insomma, che il posto
dell‟orto è la campagna, mentre la città è il luogo del giardino e del
parco. I tenutari degli orti sono considerati dei poveracci, dei parassiti
della società, improduttivi, quasi dei “barboni”.
1.2.1 All’origine degli orti urbani.
In tutti i paesi europei si sta assistendo ad un rinnovato interesse per la
pratica amatoriale dell‟orticoltura urbana, in particolare vi è stato un
rilancio degli orti associativi, «senza casa».
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La prima esperienza di questi tipi di orti è sorta a metà del secolo XIX
in Germania. Fu il medico tedesco Daniel Schreber a lanciare l‟idea di
reperire i terreni liberi alla periferia di Lipsia per realizzarvi dei
piccoli giardini, i cosiddetti Kleingarten. L‟intento principale era di
ordine igenico-sanitario e pedagogico: consentire ai bambini del
grande centro industriale di giocare all‟aria aperta e di addestrarsi alla
pratica del giardinaggio. In seguito i Kleingarten diventarono presto
orti urbani a disposizione di intere famiglie15
.
Dopo la prima guerra mondiale ebbero una grande diffusione, tanto
che una legge del 1919 riconobbe ufficialmente la loro importanza e
vennero introdotte varie forma di sostegno pubblico.
In Francia, il ruolo di iniziatore del movimento degli orti urbani spetta
ad un sacerdote cattolico, l‟abbé Jules Lemire.
Esponente del cattolicesimo sociale nel 1986 fondò la Lingue du Coin
de Terre et du Foyer che ebbe come obiettivo la creazione dei jardin
ouvriers, mediante l‟acquisizione alla periferia delle città industriali di
terreni inedificati da assegnare agli operai perché li coltivassero ad
orto16
.
Lemire voleva perseguire contemporaneamente intenti sociali e
morali: coltivando un orto gli operai raggiungevano una certa
sicurezza alimentare ed insieme disponevano di un modo sano di
trascorrere il tempo libero in seno alla famiglia sfuggendo al vizio
dell‟alcolismo. Vi erano poi i benefici morali legati alla coltivazione
operaia dell‟orto: come antidoto all‟alienazione del lavoro in fabbrica
e come mezzo di educazione ed elevazione morale della classe
operaia.
15 Panzini F., Per i piaceri del popolo, cit., pp. 287 ss. 16 Cabedoce. B. Ph Pierson, Cent ans d’histoire des jardins ouvriers, Créaphis, Bar-Le-Duc 1996.)
20
Infatti, nelle ore dedicate alla coltivazione dell‟orto, l‟operaio svolge
un‟attività che lo impegna psicologicamente, che diventa fonte di
soddisfazioni personali, che lo educa al sentimento della bellezza;
inoltre la pratica dell‟orticoltura consente di instaurare relazioni
gratificanti, poiché l‟orto tende a diventare anche un luogo di vita
comunitaria.
In effetti i jardins ouvriers furono un tentative di applicare in ambito
urbano-industriale le dottrine «terrianiste» elaborate sotto l‟influenza
della sociologia cristiana di Le Play. Queste dottrine erano imperniate
attorno all‟idea di conservare e ripristinare, anche nella moderna
società, il legame tra la famiglia e la terra.
Durante la prima guerra mondiale apparve in tutta evidenza
l‟importanza alimentare dei jardins ouvriers, tant‟è che lo Stato si
incarico di sovvenzionarne la creazione.
Dalla Francia l‟idea degli orti urbani si diffonde negli altri Paesi
europei. Già negli anni Venti in tutta Europa sono attive associazioni
che si occupano della creazione degli «orti senza casa», utilizzando
terreni liberi alla periferia dei centri urbani.
Nello stesso tempo si assiste anche ad un ampliamento delle finalità
assegnate all‟orticoltura urbana: finalità assistenziali, ricreative ed
urbanistiche.
I soggetti coinvolti non sono più esclusivamente gli operai delle città
industriali, ma indistintamente le famiglie che hanno bisogno di
assistenza alimentare, i pensionati alla ricerca del modo migliore per
riempire il loro tempo libero e chi semplicemente ne vuole fare un
hobby.
Nel 1952 la Lingue du Coin de Terre et du Foyer ha cambiato
denominazione in Fedération Nationale des jardins Familiaux. Il
cambiamento è avvenuto in concomitanza all‟introduzione nel Codice
21
Rurale di una definizione giuridica dell‟associazionismo orticolo, la
quale distingue due tipi fondamentali di associazioni: quelle che
hanno lo scopo di gestire e organizzare i jardins ouvriers, e quelle che
si propongono di associare i coltivatori di jardins familiaux, cioè orti
privati, sia domestici che commerciali17
.
L‟intento non era più quello di circoscrivere le iniziative ad esclusivo
beneficio del proletariato industriale, ma quello di coinvolgere più
ampi settori della popolazione urbana (pensionati, ceto impiegatizio).
Tale scelta segnava il superamento delle originarie intenzioni
assistenziali e moralizzatrici, reso inevitabile dall‟evoluzione
registrata dall‟esperienza dei jardins ouvriers nella fase prebellica.
Questi ultimi avevano infatti visto indebolirsi progressivamente le loro
funzioni economico-alimentari ed erano diventati essenzialmente
un‟attività ricreativa, volta a soddisfare bisogni psicologici, morali e
sociali degli abitanti delle città: avere un utile passatempo, rimanere
inattività anche dopo il pensionamento, arricchire le proprie relazioni
sociali.
1.2.2 Orti urbani in Italia.
In Italia, un tentativo di sviluppare uno specifico associazionismo
finalizzato alla promozione degli orti urbani, venne compiuto in epoca
fascista dall‟Opera Nazionale Dopolavoro18
.
L‟inclusione dell‟orticoltura amatoriale tra le attività dopolavoriste
veniva considerata dal Regime come un modo concreto di favorire
quella ruralizzazione degli italiani che Mussolini dichiarava di voler
17 Weber F., L’honneur des Jardiniers, Belin, Paris 1998. 18 Gente nostra, la rivista dell‟Opera Nazionale Dopolavoro, nel numero 31 del 19 Settembre 1929.
22
perseguire. Come si legge in uno scritto propagandistico dell‟epoca19
,
il «ruralismo dopolavorista» vuol essere una risposta all‟esigenza del
cittadino il quale «se non può diventare un rurale nel fatto, deve
diventarlo nelle aspirazioni e nel desiderio». Gli operai e gli impiegati
che, a causa della loro attività, sono costretti a vivere in città, possono
ruralizzarsi anch‟essi dedicandosi alla coltivazione dell‟orticello.
Durante il conflitto mondiale, l‟orticoltura urbana visse il suo
momento di gloria con l‟esperienza degli orti di guerra. Come
avvenne in molti Paesi impegnati nel conflitto bellico, il governo
cercò di aumentare il grado di autosufficienza alimentare dell‟Italia
stimolando lo sviluppo dell‟orticoltura «casalinga e scolastica». Le
famiglie italiane furono esortate a sfruttare tutti gli spazi esistenti per
la coltivazione di ortaggi e l‟allevamento di animali da cortile. Come
si spiega in uno dei numerosi manuali pratici diffusi in quel periodo,
l‟orto di guerra poteva avere anche una dimensione minima e quindi
qualsiasi superficie di terreno (incolta o coltivata a piante da fiori od
ornamentali) poteva essere destinata a tale scopo. Ovviamente, la
diffusione degli orti di guerra non doveva avvenire a scapito delle
altre colture alimentari (frumento, granoturco) o industriali. «Gli orti
di guerra – si raccomanda – debbono impiantarsi (oltrechè nei giardini
e nei parchi annessi alle ville) nei cosiddetti resedi di terreni, nei
relitti, ossia in quelle superfici non coltivate che sono vicine alle case
coloniche, nei minuscoli appezzamenti di terra che non vengono
normalmente coltivati nelle aziende agricole, ovunque è un po‟ di
terreno adatto allo scopo e non coltivato»20
. L‟esortazione, più volte
ripetuta, è di lasciar perdere la coltivazione dei fiori, per dedicarsi alla
produzione di ortaggi. «Ora occorrono prodotti alimentari. I fiori li
19 Bertinetti G., Il libro del dopolavoro, S. Lattes e C. editori, Torino 1939. 20 Montanari V., Gli orti di guerra, Edizione a cura del Consorzio Agrario Provinciale di Vicenza, Vicenza 1942.
23
coltiveremo con tutto il nostro amore a guerra conclusa»21
.
Nell‟intento di invogliare gli italiani, anche quelli che possedevano
solo pochi metri quadrati di terre, a dedicarsi alla produzione di
ortaggi, il fascismo prometteva che «a guerra vinta» gli orti di guerra
potevano essere conservati e costruire un piccolo contributo
all‟autarchia nazionale. Le cose andarono diversamente. Terminata la
guerra, la pagina degli orti-giardino fascisti e degli orti di guerra
venne subito chiusa. Le organizzazioni sindacali democratiche, che
ereditarono i compiti dell‟Opera Nazionale Dopolavoro, si guardarono
bene dal dare continuità alla politica dopolavorista e l‟esperienza degli
orti urbani diventò, nella storia italiana, solo una breve parentesi.
In Italia l‟orticoltura urbana non ha una storia associativa, ma abusiva.
Difatti la presenza nelle città italiane degli orti «senza casa» è sempre
stata il frutto di iniziative individuali spontanee, abusive, ignorate
dalla pubblica amministrazione, mal tollerate quando non apertamente
osteggiate dagli abitanti dei quartieri in cui si trovano ubicati.
L‟indagine sugli orti urbani condotta all‟inizio degli anni Ottanta da
Italia Nostra, che rappresenta il primo tentativo di attirare l‟attenzione
su tale questione22
, appurò che il fenomeno degli orti urbani, ignorato
dalle istituzioni locali e dalle statistiche, era presente in maniera
significativa in molte città del Nord e anche del Centro. Ubicati per lo
più alle estreme periferie urbane, utilizzavano terrene di risulta, rive di
fiumi, nonché superfici pubbliche vincolate ma non ancora utilizzate.
Ad una maggiore presenza di orti urbani nelle città più industrializzate
e a maggior densità abitativa settentrionali e centrali, faceva riscontro
una più debole presenza o completa assenza nelle città meridionali,
dove invece risultava attiva un‟orticoltura commerciale intensiva,
21 Ibidem. 22 Orti urbani una risorsa, a cura di Italia Nostra, Franco Angeli, Milano, 1982.
24
ubicata anche all‟interno del centro cittadino. A quella data erano
pochissimi i comuni che avevano cominciato ad interessarsi del
fenomeno degli orti urbani, preoccupandosi di regolamentarli. Si
distinguevano alcuni comuni dell‟Emilia-Romagna (Reggio Emilia,
Modena, Bologna) che avevano cominciato ad inserire gli orti urbani
tra le iniziative di assistenza agli anziani.
Un aspetto interessante evidenziato dall‟indagine di Italia Nostra è
rappresentato dalla disapprovazione che la presenza degli orti
suscitava allora nella gente comune. La figura dell‟orticoltore urbano
veniva identificata nell‟anziano o nell‟immigrato da altre zone
dell‟Italia. Una persona che, se si metteva a coltivare ortaggi, voleva
dire che «era ormai arrivata al capolinea», un individuo che aveva
perso ogni ruolo sociale. La presenza degli orti in città era considerata
una causa di fastidi, gli orti erano accusati di rendere ancora più brutto
il paesaggio urbano periferico. Si trattava di valutazioni influenzate
anche dal carattere abusivo e precario degli orti urbani, ma che erano
soprattutto originate dalla convinzione secondo cui alla città si addice
il giardino, il parco, non l‟orto.
Indicando negli orti urbani «una risorsa della città», Italia Nostra
sollecitava un impegno diretto delle amministrazioni comunali. Volto
non solo a regolamentare il fenomeno per eliminare abusivismo e
precarietà, ma anche a promuovere l‟orticoltura urbana mettendo a
disposizione aree adatte allo scopo e fornendo i servizi indispensabili
ad una qualificata attività coltivatrice. Nonostante questo, nel 2000,
uno studio effettuato dalla Facoltà di Agraria dell‟Università di Bari,
limitatamente ai comuni capoluogo di provincia, appurava che solo il
25
5% dei comuni che avevano adottato un regolamento del verde aveva
preso in considerazione gli orti urbani23
.
Il fenomeno degli orti urbani continuava dunque ad essere ignorato
dalla maggior parte delle amministrazioni cittadine e gli orticoltori
urbani proseguivano la loro attività all‟insegna della precarietà e
dell‟abusivismo, biasimati dagli abitanti del quartiere, considerati
quasi alla stregua di barboni.
Oggi la situazione appare molto cambiata, l‟elenco dei comuni che
hanno cominciato ad interessarsi attivamente al fenomeno degli orti
urbani si è molto allungato. In questi ultimi anni numerose
amministrazioni comunali hanno emanato regolamenti per la
concessione in uso di aree per orticoltura. L‟esame di questi
regolamenti evidenzia che l‟ottica privilegiata è ancora quella
dell‟assistenza agli anziani; gli orti urbani sono concepiti
essenzialmente come «orti per anziani», tant‟è vero che, anche quando
non sono previsti limiti minimi di età, agli anziani viene sempre
assicurata la precedenza nell‟assegnazione delle aree. Ma cominciano
a diffondersi anche in Italia altre esperienze di orticoltura sociale
urbana. Si contano già numero iniziative di restauro del verde
scolastico, vale a dire dei giardini annessi agli istituti scolastici che
spesso si trovano in grande stato di deperimento; spazi che vengono
qualche volta usati anche per esperienze di orticoltura pedagogica.
Anche il verde ospedaliero comincia ad essere utilizzato per praticare
l‟orto terapia.
23 Sanesi G., Stato dell’arte della regolamentazione del verde urbano in Italia.
Prima indagine sui comuni capoluogo di provincia, paper presentato al convegno
«La regolamentazione del verde urbano 2001» della facoltà di agraria
dell‟Università di Bari, 28 settembre 2001.
26
CAPITOLO 2: L’orto: un microcosmo urbano.
2.1 Disagio ecologico.
Il nuovo interesse per gli orti urbani come mezzo di qualificazione
ecologica e urbanistica della città, dimostra che, a livello di
immaginario collettivo, si va affermando una nuova immagine della
città, la quale segna il definitivo abbandono del pregiudizio secondo
cui l‟orticoltura è incompatibile con l‟ambiente urbano.
La collocazione degli orti all‟interno dei parchi cittadini è una
soluzione che vanta ormai una lunga tradizione all‟estero, dove da
tempo si è scoperto che gli orticoltori, quotidianamente presenti nei
loro orti, finiscono per svolgere una utile funzione di custodia del
parco, specie di quelle parti che, confinando con gli insediamenti
urbani, sono più esposte al vandalismo e all‟utilizzo improprio
(spaccio di droga, prostituzione, ecc.).
2.1.1 Cementificazione e degrado.
Il rapporto tra la superficie a verde e quella a parcheggio è
sicuramente un indicatore della vivibilità della città, in grado di far
capire se è stata pensata per le persone o per le automobili.
Viviamo in un mondo urbanizzato, in cui crescita della popolazione e
urbanizzazione sono le tendenze demografiche dominanti.
L‟attuale scala del processo di urbanizzazione è un fenomeno che non
ha precedenti nella storia: per gran parte della nostra esistenza siamo
vissuti in habitat naturali e in piccoli gruppi di cacciatori raccoglitori.
Le città non sono habitat naturali: richiedono una concentrazione di
27
cibo, acqua, energia e materiali che la natura non può fornire, e tutti
questi materiali vengono poi abbandonati come scarti, rifiuti umani e
inquinanti atmosferici e dell‟acqua.
Abitare in città impone un carico eccessivo sull‟ecosistema terrestre:
infatti, per soddisfare i bisogni giornalieri dei cittadini si devono
concentrare nelle aree urbane molte risorse, e alla quantità di cibo e
acqua che entra in città corrisponde, in uscita, un flusso di rifiuti che
vanno collocati da qualche altra parte. Inoltre, le industrie che
impiegano la forza lavoro urbana richiedono materie prime che
devono essere anch‟esse trasportate, spesso per lunghe distanze. Poi i
prodotti finiti vengono spediti ai mercati nazionali e, con la
globalizzazione, anche verso altre parti del mondo.
Le prime città utilizzavano le risorse alimentari e idriche delle
campagne circostanti; oggi le risorse delle città, anche quelle
alimentari e idriche, provengono da luoghi distanti.
Uno degli aspetti meno desiderabili della straordinaria espansione
urbana degli ultimi cinquant‟anni è stato lo sprawl urbano, ovvero la
crescita disordinata delle città.
Un analista ha definito così lo sprawl: «Una forma urbana degenerata,
troppo congestionata per essere efficiente, troppo caotica per essere
bella troppo dispersa per possedere la vitalità di una grande città»24
.
Negli Stati Uniti e in molti altri paesi in via di sviluppo, dove le città
sono cresciute in gran parte dopo l‟avvento dell‟automobile, si è
ignorata la pianificazione e lo sparwl è divenuto la forma dominante
di sviluppo urbano.
Periferie sempre più estese, arterie stradali, maxi-parcheggi e
capannoni, il cemento si sta mangiando l‟Italia, al ritmo di 10.000
24 Brown R. L., Eco-economy: una nuova economia per la terra, editori Riuniti, 2002.
28
ettari di territorio all‟anno. È il nuovo allarme lanciato dal
rapporto Ambiente Italia 2011, promosso da Legambiente25
.
Grappoli disordinati di sobborghi residenziali e centri commerciali
sorti in mezzo alle campagne. È l‟ambiente nel quale vivono 6 italiani
su 10. Lombardia, Veneto e Campania guidano la classifica: cresce
l‟asfalto, la terra soffre, va in crisi il sistema idrogeologico. Mancano
regole a tutela del suolo, aumentano i danni ambientali e i costi
sociali26
.
La jungla di cemento della città occidentale offre infiniti scorci urbani,
la maggior parte dei quali costituisce esempi decisamente negativi dal
punto di vista di chi parteggia e si batte per il recupero della forma
originaria del rapporto tra uomo e natura che in queste realtà moderne
si è oramai dissolto27
.
L‟automobile ha promesso mobilità, e in ambienti prevalentemente
rurali ha offerto proprio questo; ma con l‟urbanizzazione delle società,
il conflitto interno fra automobile e città è divenuto anche troppo
evidente, dato che quasi tutte le città del mondo sono afflitte dal
traffico, dal rumore e dall‟inquinamento atmosferico causato dalle
macchine.
Un altro costo delle città “dedicate” all‟auto è di carattere psicologico,
e si verifica quando la mancanza di contatto col mondo naturale crea
una sorta di “complesso dell‟asfalto”. Ci sono sempre più prove del
bisogno innato di contatto tra l‟uomo e la natura e sia psicologi che
ecologi ne sono al corrente da tempo. Gli ecologi, guidati da
E.O.Wilson, hanno formulato l‟«ipotesi biofilia», in cui si sostiene che
25 www.legambiente.it 26 www.inu.it 27 www.terranauta.it
29
chi è deprivato del contatto con la natura ne soffre psicologicamente, e
che questa mancanza porta a un declino misurabile del benessere28
.
Nel frattempo, anche gli psicologi hanno coniato il loro termine, «eco-
psicologia», con il quale esprimono lo stesso concetto. Theodore
Roszak, un leader in questo settore, cita uno studio che documenta la
dipendenza umana dalla natura in base alla percentuale di guarigione
dei pazienti ricoverati in uno ospedale in Pennsylvania. Quelli
ricoverati in stanze con vista sul parcheggio sono guariti più
lentamente rispetto a quelli ricoverati in stanze con vista su giardini
con distese erbose, alberi, fiori e uccelli29
.
Una delle argomentazioni a favore degli orti pubblici è che, oltre a
fornire ortaggi, offrono spazi verdi e un senso di comunità. Lavorare
la terra e veder crescere ciò che si pianta ha un effetto terapeutico che
riporta indietro ai tempi in cui tutti lavoravano la terra.
Insomma, gli orti rappresentano un tentativo da parte della natura di
riappropriarsi dei suoi spazi in ambito urbano, degli spot - macchie -
grazie ai quali essa ci aiuta a sopravvivere anche in quei luoghi da cui
l‟abbiamo completamente estromessa.
Lo spazio orto, insieme ai giardini e le aiuole delle città, non solo
diventa un polmone verde nel cuore delle metropoli industrializzate,
ma anche una valida alternativa, su piccola scala, alla grande
agricoltura intensiva e a tutti i problemi che ne derivano.
2.1.2 Agri-civismo.
Oggi più che mai, il terreno agricolo vicino alle città è compromesso e
a rischio; la pianificazione urbana prevede sempre più “aree verdi”,
28 Wilson E. O., Biophilia, Harvard University Press, 1984. 29 Kanner, Roszak, e Gomes. Ecopsychology: Restoring the Earth, Healing the Mind, Sierra Club Books, 1995
30
ma spesso queste non sono altro che parcheggi improvvisati. Anche se
una questione così complessa come la crisi ecologica non è risolvibile
con un ritorno all‟agricoltura urbana, la partecipazione dei cittadini ad
attività agricole può essere di grande aiuto nell‟indirizzare il discorso
urbano verso questioni ambientali.
Una soluzione potrebbe essere quella dell‟«agri-civismo»30
. Gli
obiettivi dell‟agri-civismo sono due:
1) Promuovere una sinergia tra l‟abitato e l‟eco-sistema risanato;
2) Fondare un senso di appartenenza e quindi di responsabilità verso
lo spazio urbano.
Alcuni esempi di lotta al degrado cittadino tramite queste pratiche di
agri-civismo si trovano nei luoghi più improbabili.
Per esempio nel cuore di Manhattan, nel Greenwich Village, si
trovano due piccoli giardini talmente in contrasto con il tessuto
densissimo e poco naturale di New York da suscitare profonde
riflessioni: il “Time Garden” di Alan Sonfist (1978) e il Liz Christie
Community Garden (1972). Il primo, un‟opera di arte concettuale, è
un semplice lotto urbano recintato; l‟artista ha piantato le specie
autoctone della sua regione, lasciando il sito indisturbato dall‟uomo e
restituendolo al suo stato ecologico primordiale. Il secondo giardino,
gestito dal vicinato riunitosi in una piccola associazione, è un centro
d‟orticultura impegnata, che illustra come recuperare lotti urbani
abbandonati.
L‟iniziativa di Liz Christie ha dato luogo negli anni Ottanta a molte
altre esperienze di recupero di brownfields, per lo più guidate dai
“green guerrillas”31
. Nell‟East New York, zona povera con problemi
endemici di droga e violenza, nacque allora un programma
30 Ingersoll R., Sprawltown, Meltemi, Roma, 2004. 31 Nato negli USA negli anni '70, Il Guerrilla Gardening prevedeva “l'assalto” di aree urbane degradate e la loro “piantumazione abusiva”.
31
partecipatorio, con la finalità di bonificare il 16% dei terreni urbani
rimasti abbandonati e di trasformarli in giardini. Poi, nel 1998, è stato
fondato “East New York Farms!”, un ente nato per assistere gli oltre
venti giardini della zona; un giardino tipico occupa 700 metri quadrati,
quanto un lotto urbano; giovani studenti tra i 10 e i 14 anni vengono
assunti come apprendisti per lavorare due giorni alla settimana. I
coordinatori hanno coinvolto la municipalità per insediare un mercato
all‟aperto dove vendere i prodotti dei giardini; il vicinato è stato così
riqualificato, i cittadini sono più attivi, i giovani imparano, e quello
che non si mangia si vende32
.
L‟agri-civismo non riguarda soltanto gli orti, ma anche l‟impegno
civile. Con un po‟ di fantasia gli orti possono diventare componenti di
un sistema sociale e paesaggistico.
Intrecciare i terreni coltivati con il tessuto urbano è un modo decoroso
per provvedere al fabbisogno locale e risolvere problemi idrici. La
presenza dell‟agricoltura in città inserisce un altro ritmo del tempo,
quello dei cicli stagionali delle piante, che fa da contrappunto al ritmo
quotidiano del lavoro. L‟impatto sociale di tanti giardinieri urbani
responsabili delle coltivazioni dovrebbe catalizzare un nuovo senso di
appartenenza al luogo. L‟agricoltura, che per secoli significava non-
città, può dare al contesto urbano un nuovo significato civico.
2.2 Valenza sociale.
Da un punto di vista sociale, o ancora meglio comunitario, la
dimensione orto trova il suo lato più fertile e ricco. Infatti le varie
realtà ortive rispondono all‟esigenza di “fare comunità” e offrono una
alternativa alle categorie sociali emarginate dalla società moderna.
32 Ibidem.
32
L‟orto diventa così uno spazio di coesione, dove il lavoro è inter-
generazionale e inter-etnico e dove avvengono scambi di diverso tipo:
di informazioni di botanica, di differenti modi di coltivazione
(permacultura, agricoltura biodinamica) e fertilizzazione, di semi;
diventa anche “solo” uno spazio per incontrarsi e scambiare delle
chiacchere, oppure un posto dove poter ritrovare quelle tradizioni e
quelle radici che in un ambiente cittadino si perdono facilmente.
2.2.1 Il dopolavoro e gli orti per anziani.
Nel 1926 con la creazione dell‟Office International du Coin de Terre
et des Jardins Ouvriers, a Lussemburgo, viene soddisfatta un‟esigenza
di coordinamento del movimento per la diffusione degli orti urbani in
tutta Europa.
La delegazione italiana al congresso internazionale dei jardins ouviers
era composta da rappresentanti dell‟Opera Nazionale Dopolavoro.
Infatti, come avevo già ricordato precedentemente, in epoca fascista
l‟Opera Nazionale Dopolavoro, all‟interno della quale era stata
istituita una «Sezione Orti-Giardino», ebbe il compito di promuovere
l‟orticoltura amatoriale. E proprio in questa veste l‟O.N.D. entrò a far
parte dell‟Office International des Jardins Ouvriers partecipando ai
congressi internazionali.
Il ruolo promozionale svolto dal Dopolavoro a sostegno
dell‟orticoltura amatoriale si articolava in una vasta gamma di
iniziative, tra cui rientravano la distribuzione gratuita di semi,
piantine, concime per incoraggiare la coltivazione dell‟orto domestico,
l‟organizzazione di corsi di giardinaggio, orticoltura, frutticoltura, la
effettuazione di concorsi provinciali riservati agli operai ed impiegati,
esclusi i coltivatori di professione.
33
L‟O.N.D. cercò di promuovere la diffusione degli orti urbani
collettivi, gli «orti senza casa», su terreni messi a disposizione dalle
amministrazioni comunali, dalle industrie, dalle ferrovie, dalle società
tranviarie. I terreni, presi in carico dai vari Dopolavoro provinciali e/o
comunali, venivano assegnati a gruppi organizzati di dopolavoristi. Un
elenco delle provincie dove sono già attivi gruppi di dopolavoristi
coltivatori di orti, contenuto in una pubblicazione del 1930 sui primi
cinque anni di attività dell‟O.N.D., comprende Bergamo, Torino, La
Spezia, Ravenna, Roma, Pescara, Padova, Milano, Lucca, Firenze,
Como, Chieti, Belluno, Alessandria33
.
Particolarmente impegnato nella promozione degli orti collettivi fu il
Dopolavoro ferroviario, che metteva a disposizione dei propri iscritti i
terreni lungo le linee ferroviarie, nei pressi delle stazioni, dei depositi
e degli altri impianti. Il Dopolavoro ferroviario organizzava altresì
concorsi per incoraggiare l‟abbellimento floreale e arboreo delle
stazioni ferroviarie. All‟azione svolta dal Dopolavoro in ambito
urbano si aggiunse quella del Dopolavoro rurale, che si attivò per
incoraggiare la diffusione dell‟orto domestico ed anche del giardino
ornamentale nelle fattorie di campagna, assumendo iniziative per
l‟abbellimento delle aie, il miglioramento delle siepi di recinzione,
ecc.
2.2.2 Orti didattici.
Gli orti didattici sono un‟altra grande iniziativa che si sta sempre di
più diffondendo. A Bologna hanno aderito a questa attività le scuole
Fortuzzi e le Longhena.
33 I primi cinque anni di attività dell’Opera Nazionale Dopolavoro. 1926-1930, Edizioni OND, Roma.
34
Ma l‟esempio più importante di città resiliente con tanto verde urbano
in Emilia-Romagna è Ferrara.
La Provincia di Ferrara, in collaborazione con i Centri di Educazione
Ambientale (CEA) di Ferrara, Piacenza, Bologna e Forlì-Cesena, sta
realizzando il progetto “Le città degli orti”, cofinanziato dalla Regione
Emilia-Romagna attraverso il bando INFEA-CEA 200934
.
Le finalità principali del progetto sono da una parte favorire lo
scambio di informazioni e conoscenze sulle buone pratiche di
coltivazione di orti urbani, dall‟altra realizzare orti cittadini sulla base
di un sistema di principi e metodi gestionali condivisi.
Un‟azione specifica del progetto prevede il coinvolgimento del mondo
della scuola attraverso un corso di formazione rivolto agli insegnanti
delle scuole di ogni ordine e grado.
Il coinvolgimento della scuola è finalizzato a promuovere iniziative di
educazione all‟alimentazione, di rispetto dell‟ambiente e tutela del
territorio e a diffondere il modello di gestione degli orti dando
impulso alla rete degli orti scolastici.
Più di tre genitori su quattro spera di far crescere i propri figli in un
ambiente semplice, familiare e naturale dove sia possibile giocare
all‟aria aperta con piante e animali, e mangiare cibi sani. È quanto
emerge da un‟indagine Coldiretti/Swg 201035
, i cui risultati sono stati
diffusi in occasione di “Far crescere il futuro”, organizzato da Donne
Impresa della Coldiretti, dove è stata presentata una nuova
sperimentazione nei processi formativi e di crescita del talento:
l‟“agriasilo”, ovvero l‟asilo in fattoria, una realtà già presente in
alcune regioni dell‟Italia settentrionale - Piemonte, Veneto, Trentino e
Friuli - e in forte diffusione su tutto il territorio, come dimostrato da
34 www.horticity.it 35 www.coldiretti.it
35
centinaia di richieste, inoltrate soprattutto da giovani imprenditrici
agricole.
Grazie alle nuove normative è possibile accogliere all'interno di
aziende, agriturismi e fattorie, bambini fino a 3 anni (negli “agrinidi”)
e dai 3 ai 6 anni (negli “agriasili”), per far trascorre loro le ore
scolastiche immersi nella natura, a contatto con gli animali e
mangiando prodotti naturali e di stagione.
Queste innovative strutture per l‟ospitalità infantile si stanno
diffondendo nelle campagne, o in zone limitrofe alle città con progetti
che coinvolgono anche le grandi metropoli, per supplire alla carenza
delle strutture esistenti in città, nonché al basso livello di
soddisfazione riscontrato dalle famiglie italiane nei confronti
dell'offerta di nidi o scuole materne comunali36
.
Secondo l‟indagine, i genitori prediligono gli agriasili principalmente
per quattro motivazioni: la possibilità di stare all‟aria aperta,
il contatto diretto con la natura e con gli animali, e la possibilità
di mangiare cibi stagionali, locali e di stagione.
La Coldiretti ha sottolineato come la possibilità “vera” di conoscere i
sapori e i profumi dei prodotti rurali abitua i giovani ad un consumo
più sano del cibo37
.
Il metodo educativo prevede l‟avvicinamento graduale all‟ambiente
agricolo, attraverso attività ludiche che mirano a sviluppare le capacità
creative-manuali e a far emergere le abilità. I bambini, partecipando a
laboratori didattici che si differenziano in base alle peculiarità
dell‟azienda agricola, imparano a fare il pane, a conoscere i ritmi
stagionali della natura, a coltivare un orto e a prendersi cura degli
animali della fattoria.
36 www.trafioriepiante.it 37 www.coldiretti.it
36
Probabilmente per un bambino di oggi è più “naturale” stringere fra le
mani un mouse, un cellulare o un joystick piuttosto che un pomodoro.
L'ortaggio lo avrà visto a volte impacchettato e impilato negli scaffali
dei supermercati o spezzettato in qualche zuppa con ogni probabilità
preconfezionata.
Così in un processo di ribaltamento della prospettiva tipico dell'era
moderna, ciò che è più naturale, anzi è frutto principe del rapporto fra
uomo e natura e ancora oggi è alla base della nostra alimentazione,
diventa strano, lontano, sconosciuto. Chiunque può sopravvivere in
una città d'oggi senza sapere com'è fatta una pianta di zucchine, come
si coltiva una melanzana, se le carote crescono sugli alberi o sotto
terra.
Per fortuna qualcuno si è accorto di questo assurdo controsenso e ha
tentato di porre rimedio. Già dagli ultimi anni ottanta
l'associazione Slow Food (nata in Italia, a Bra nel 1986 ed in poco
tempo divenuta internazionale) promuove la creazione di orti urbani.
Intorno alla metà degli anni novanta Slow Food USA partorì
l'iniziativa “The Edible Schoolyard”, che incentivava lo sviluppo degli
school garden, orti educativi affidati alle scuole in cui i bambini
imparano a coltivare gli ortaggi e a sviluppare un rapporto più sano
con la natura. Il progetto si è in breve diffuso in tutto il mondo,
giungendo in Italia nel 2003 con il nome di “Orto in condotta”.
La terra fa paura perché è sporca, lascia macchie visibili sul corpo e
sulle mani.
Vincere la paura della terra significa comprendere che quanto più un
alimento è vicino alla terra, prodotto seguendo i suoi ritmi e le sue
leggi, tanto più sarà sano; viceversa quanto più è modificato, alterato,
37
lontano dalla terra, sigillato, confezionato, lucido, tanto più sarà –
probabilmente – nocivo.
A questo servono gli orti scolastici: ad educare i bambini, fin da
piccoli, a un diverso rapporto con il cibo, al valore della biodiversità e
al rispetto dell'ambiente. Ad amare la terra, sperando che da grandi se
lo ricordino.
2.2.3 Orti terapeutici.
“Tutto ciò che può accadere a un giardino può accadere all‟anima e alla psiche”38
.
È risaputo che il verde faccia bene. È sinonimo di equilibrio e serenità.
Occuparsi di un giardino contribuisce al benessere. Il therapeutic
garden, nato più di quindici anni fa in America, è il giardino che cura:
“Guardando un paesaggio si riacquista serenità, si riducono stress e
ansia e si favorisce la connessione delle diverse aree del cervello”,
spiega una ricerca dell‟università inglese di Sheffield. Uno studio
della Sapienza di Roma, invece, dimostra che occuparsi delle piante
diminuisce del 70% la tensione fisica e mentale.
“Le piante vivono assieme a noi e noi partecipiamo al loro ciclo
vitale”, spiega la psicoterapeuta Maria Teresa Coglitore, “sono un
elemento di relazione: le persone ci parlano e quelle amate appaiono
più belle di quelle meccanicamente accudite. Chi decide di occuparsi
del verde vive bene perché crea un rapporto di dedizione e di
responsabilità”39
. La giardinoterapia o l‟ortoterapia, oltre a permettere
l‟ascolto e sviluppare la pazienza e l‟osservazione, richiedono un
impegno fisico. Per curare le piante si spendono circa 300 calorie l‟ora
38 Pinkola Estés C. e Pizzorno M., Donne che corrono coi lupi, Sperling & Kupfer,
2011. 39 Burattino Rossella, Corriere della Sera: Therapeutic garden, 7 maggio 2011.
38
trasformando un gradevole hobby in un‟attività fisica utile per
l‟organismo. Una passione che non coinvolge solo le donne. “Tanti
uomini si spogliano degli abiti da manager e rilassano il corpo e la
mente accudendo i fiori”, nota la psicoterapeuta, “i bambini in
giardino riscoprono il gusto di giocare, sviluppano la creatività e il
rapporto umano. Per gli anziani, ritarda le malattie generative
dell‟invecchiamento, permette una migliore ossigenazione e favorisce
l‟esposizione alla luce solare”.40
Facendo giardinaggio non solo la nostra pressione sanguigna si
abbassa, ma si riduce lo stress e si combatte la depressione. Sarà
confortante leggerlo su pubblicazioni scientifiche, ma era cosa da
tempo nota a stuoli di appassionati giardinieri. Se un giardino con la
sua ricchezza di profumi, forme e colori è ideale oasi felice, anche
qualche pianta in vaso ha insospettati poteri lenitivi. V‟è un piacere
speciale nel prendersi cura di qualcosa di vivo, che ricambia le nostre
attenzioni silenziosamente, con una nuova foglia. Tastando il terreno
per capire se c‟è bisogno d‟acqua, osservare il colore delle foglie per
giudicarne la salute ci estraniamo da angosce quotidiane.
Fare giardinaggio (bastano anche i vasi sul balcone o in casa) aiuta a
non pensare soltanto a se stessi, è un‟occasione per guardare fuori.
Spoglia la testa dai pensieri, allenta le tensioni. “Il giardino è un
complemento della terapia”, spiega Cristina Borghi, medico che dopo
trenta anni di attività nell‟industria farmaceutica è approdata allo
studio dei giardini nei luoghi di cura. “È una cornice meditativa:
trasmette pace, è luminoso, non c‟è inquinamento. La sua
frequentazione può aiutarci a convivere con gran parte delle malattie
che la medicina convenzionale non riesce ancora a curare (da deficit
40 Ibidem.
39
del sistema immunocompetente, psichiatriche e neurologiche), a
diminuire l‟incidenza e la severità e può allentare le malattie tipiche
del benessere (cardiovascolari, metaboliche e osteoarticolari)”41
. Ma il
giardinaggio non dà benefici soltanto ai malati o alle persone anziane:
è un toccasana per chiunque. Sono sufficienti anche solo venti minuti
al giorno per staccare la spina, abbandonare l‟attenzione dello scopo e
raggiungere quella del ristoro. Così aumentano i pensieri positivi e si
recupera il controllo sulla propria vita.
Il rischio di vivere in una città moderna è “patire per l‟astinenza di
bellezza naturale” secondo Donald Norfolk, osteopata londinese di
fama mondiale. “Perché il giardino ha il potere maieutico di tirare
fuori il meglio dalle persone, mentre, il brutto le avvilisce. La bellezza
è fatta di colori, di profumi, di osservazione degli animali e anche del
costruito (se armonico). Nella natura ogni cosa è al suo posto: si è
accolti in un ambiente confortevole che non giudica e non ci
ferisce”42
. La vista gode dei colori: “il bianco è fondamentale per chi
torna a casa la sera, perché è l‟unico colore che si percepisce. I fiori
blu distendono chi è stressato, insonne, quelli gialli danno energia a
chi è sfibrato dalla malattia, infondono vigore e la volontà del sole. Il
rosso attiva l‟ottimismo nella depressione, è fonte di pensieri
positivi”43
.
In italia: oltre agli orti dell‟ospedale di Carrara, abbiamo anche gli orti
terapeutici nel Parco di Monza dedicati alle fasce più disagiate come
tossicodipendenti o malati di alzhaimer. Importante è anche l‟orto
dell‟ospedale Meyer di Firenze, un ospedale pediatrico dove i bambini
hanno la possibilità di curare ed entrare in contatto con la pratica
dell‟orticoltura. A Milano, nell‟ex ospedale psichiatrico Paolo Pini,
41 Ibidem. 42 www.donaldnofolk.co.uk 43 Borghi C., Il giardino che cura, Giunti Editore, 2007.
40
tramite il giardinaggio vengono coinvolti ragazzi con disagi fisici o
psichici, invece, al carcere di Bollate l‟orto è curato dai detenuti.
A Venezia è l‟associazione Spazi Verdi ad aver lanciato l‟idea. In un
giardino di una casa di riposo alla Giudecca si utilizzano i sistemi
dell‟agricoltura sinergica, lavorando il meno possibile la terra e
utilizzando sostanze organiche come fertilizzanti. “Abbiamo 1.500
metri quadrati di orto” - spiega Eliana Caramelli, una delle ragazze
dell‟associazione - “e tutti riusciamo a mangiarci, ma l‟aspetto più
bello è lo scambio di competenze, di semi e di idee”.44
2.3 Economia alternativa.
Dagli orti in affitto all‟autoproduzione, per arrivare ai mercati del
biologico.
Vediamo quali sono le possibilità e le risorse degli orti, che possono
incidere sia sulle piccole economie domestiche sia diventare veri e
propri investimenti imprenditoriali.
Il tutto rispettando l‟ambiente, creando socialità e comunità, e
rilocalizzando i prodotti da consumarsi all‟interno delle terre
d‟origine.
2.3.1 Orti in affitto.
Per i tanti che abitano in città, senza spazi verdi a disposizione, si
stanno moltiplicando, su tutto il territorio nazionale, iniziative che
danno la possibilità ai privati di prendersi cura - senza esserne
proprietari - di un terreno, assumendone oneri e onori, con l'obiettivo
44 Burattino Rossella, Corriere della sera: Therapeutic garden, 7 maggio 2011.
41
di ottenere prodotti biologici, per potenziare il nostro sistema
immunitario con alimenti più nutrienti di quelli del supermercato, oltre
che più saporiti.
Tra le prime iniziative italiane di “adozione” di un orto c'è la felice
esperienza dell‟azienda agricola “Terra e Acqua” a San Giuliano
Milanese, nel cuore del Parco Agricolo Sud Milano45
. Un progetto
nato dall'intuizione e dall'impegno dell'agronomo Mario Arnò, di Irene
di Carpegna, Luciana Appiano e Fabio Bonvini, grazie al quale é stata
riportata in vita, con i principi e i materiali della bioedilizia, la cascina
Santa Brera Grande, risalente presumibilmente al IX secolo. “Pagando
una quota fissa di 400 euro l‟anno, i nostri 50 iscritti, tra singoli e
gruppi famigliari, possono raccogliere da soli tutte le verdure e la
frutta di cui hanno bisogno, con un limite di quantità dettata solo dalla
necessità e dal buon senso - racconta Irene di Carpegna, una delle
responsabili dell‟azienda agricola - negli anni abbiamo cercato di
prestare un‟attenzione crescente al coinvolgimento e alle relazioni
sociali degli associati, attraverso l‟organizzazione di momenti
conviviali e di condivisione, come nel caso delle feste per celebrare
l‟arrivo della nuova stagione, delle riunioni periodiche di
monitoraggio delle attività dell'orto o dei corsi di autoproduzione”46
.
Ad Ardea, a pochi kilometri da Roma, sta nascendo l'Orto dei desideri,
progetto particolare di affitto di un campo, che prevede la divisione di
30.000 mq di terreno in lotti da 200 mq, da dare in locazione a privati
interessati a una coltivazione diretta e non solo alla raccolta dei
prodotti, in cambio di un‟esigua somma pari a 300 euro l‟anno.
“La peculiarità della nostra iniziativa sta nell‟offrire non solo un
lembo di terra da lavorare, ma anche tutti quei servizi aggiuntivi che
45 www.cascinasantabrera.it 46 www.terranauta.it
42
facilitano la coltivazione dei terreni, come la presenza di rubinetti per
l‟irrigazione, la disponibilità in loco di attrezzature agricole e di
ripostigli personali, la presenza di servizi igienici e di un bar
automatizzato. Inoltre, in considerazione del fatto che i tempi per gli
spostamenti da un posto all‟altro sono sempre più lunghi, abbiamo
progettato anche uno spogliatoio per indossare gli abiti di un moderno
contadino, senza tornare a casa dopo il lavoro” - racconta l‟ideatrice
del progetto, Ornella Bardi, una volitiva impiegata di 44 anni, che ha
cercato di dare nuova vita al terreno di famiglia, produttivo e
biologicamente puro, perché mai trattato con prodotti chimici. “Anche
le colture lo saranno, incentiveremo l‟utilizzo di sistemi naturali per
eliminare i parassiti, come la mistura di acqua e ortica, attraverso
l‟organizzazione di corsi tenuti da agronomi dell‟Università di Latina”
conclude la Bardi47
.
Un‟altra iniziativa che merita menzione é quella ideata dal Comune di
Scontrone - cittadina in provincia dell‟Aquila, sita alle pendici del
Monte Greco.
A Scontrone, come per ogni paese italiano che vive di un‟economia
agricola e pastorale, si sta assistendo a un progressivo abbandono da
parte dei giovani che preferiscono vivere nelle grandi città, anche a
causa di una diminuzione delle possibilità lavorative. Per ovviare
questa tendenza il Comune ha pensato al progetto ancora in itinere
“Agriturismo in un piccolo mondo antico”, grazie al quale si cerca di
incoraggiare i giovani a rimanere a vivere nel proprio territorio,
attraverso la creazione di nuove opportunità occupazionali48
.
Nello specifico, una volta individuati i terreni abbandonati e incolti di
proprietà comunale, ne è avviato il risanamento. Gli appezzamenti
47 www.ortodeidesideri.it 48 www.comunivirtuosi.org
43
sono poi dati in concessione a “contadini in erba”, precedentemente
formati da anziani del luogo, esperti di tecniche di coltivazione tipiche
del territorio.
Una volta portata a regime la coltivazione biologica, viene attivata la
filiera, attraverso la trasformazione locale e il commercio. In questa
fase, é previsto anche lo sviluppo degli “orti in affitto”, un‟iniziativa
pensata per allargare il bacino di utenza dei terreni, garantendo anche
una risorsa economica supplementare.
Il progetto, inoltre, mira a incentivare il turismo locale, da un lato con
la cura delle infrastrutture e delle attrezzature sportive e ricreative -
come piste ciclabili, percorsi ecologici e naturalistici - e dall‟altro
stimolando la creazione di strutture ricettive e agriturismi, in cui sia
data l‟opportunità ai visitatori di passare un periodo in un “piccolo
mondo antico”, prendendo cioè attivamente parte alla lavorazione dei
campi. Un progetto avviato con molti sforzi dall‟amministrazione
locale, che sta già cominciando a dare i suoi frutti in termini
occupazionali.
Per chi invece non ha tempo o voglia di coltivare direttamente un
campo, l´azienda agricola Giacomo Ferraris di Bianzè a Vettigné nella
campagna vercellese, ha reso possibile l'“adozione a distanza” di un
orto. Il progetto, ideato dai tre pronipoti di Giacomo Ferraris di
Bianzè, si chiama “Le verdure del mio orto” e prevede l´affitto degli
appezzamenti a “coltivatori indiretti”, a persone cioè che non devono
lavorare, seminare e irrigare il terreno, ma solo ideare telematicamente
il proprio orto49
.
C‟è chi ha deciso di fare dell‟urban gardening un‟attività
remunerativa, imprenditoriale. È il caso di Claudio Cristofani,
architetto milanese, che su un terreno privato di due ettari, non
49 www.terranauta.it
44
edificabile, ha lanciato un progetto pilota di giardini familiari: “Ne
abbiamo 130, da 75 metri quadrati l‟uno. Li affittiamo per un euro al
giorno. Al mattino i nonni coltivano gli ortaggi, al pomeriggio le
mamme portano i bambini a svagarsi mentre la sera, dopo il lavoro, i
papà si dedicano ai lavori più pesanti”50
.
A Torino invece, Gaetano Bruno ha scelto la via dello sky garden,
dell'orto-giardino sul tetto. Lì ha distribuito su 5 terrazze i suoi 25
alberi da frutto e un invidiabile orto che gli garantisce una produzione
complessiva di oltre 3 quintali annui tra frutta e verdura. Ma ci si può
dilettare e coltivare specie orticole anche disponendo di uno spazio
molto ristretto51
. Lo ha capito anche il mercato che ormai ha reso
disponibili “ortaggi nani”: pomodori ciliegia, zucchine e carote a
misura di vaso.
2.3.2 Autoproduzione: individuale o associata.
Per quasi tutto il corso della storia, la gente ha prodotto e consumato
la maggior parte di ciò di cui aveva bisogno (e a volte tutto)
all‟interno della propria abitazione, o comunque alla distanza richiesta
dalle attività di caccia e raccolta.
Per la maggior parte delle persone ciò è rimasto vero fino ai tempi
della Rivoluzione industriale e oltre, ma ha finito per emergere una
netta distinzione tra il luogo di dimora e quello dove si ottenevano
beni e servizi.
La valenza economica degli orti non è da sottovalutare. A cominciare
da quanto possa incidere su un‟economia domestica l‟autoproduzione
di frutta e verdura, soprattutto in tempi di “crisi” come questi. Il
50 Serafini Marta, Corriere della Sera: Insalata metropolitana, 21 Aprile 2011. 51 Ibidem.
45
desiderio di avere in tavola prodotti naturali e non contaminati, unito a
una sempre più diffusa coscienza della correlazione tra alimentazione
e salute, ha portato a esperienze di autoproduzione di ortaggi e frutta,
attraverso la realizzazione di piccoli orti nel giardino di casa.
I Gruppi di Acquisto Solidali (G.A.S.), invece, nascono da una
riflessione sulla necessità di un cambiamento profondo del nostro stile
di vita. Come tutte le esperienze di consumo critico, anche questa
vuole immettere una «domanda di eticità» nel mercato, per
indirizzarlo verso un'economia che metta al centro le persone e le
relazioni52
.
Un gruppo d‟acquisto è formato da un insieme di persone che
decidono di incontrarsi per acquistare all‟ingrosso prodotti alimentari
o di uso comune, da ridistribuire tra loro.
Ogni GAS nasce per motivazioni proprie, spesso però alla base vi è
una critica profonda verso il modello di consumo e di economia
globale ora imperante, insieme alla ricerca di una alternativa
praticabile da subito. Il gruppo aiuta a non sentirsi soli nella propria
critica al consumismo, a scambiarsi esperienze ed appoggio, a
verificare le proprie scelte.
I gruppi cercano prodotti provenienti da piccoli produttori locali per
avere la possibilità di conoscerli direttamente e per ridurre
l‟inquinamento e lo spreco di energia provocati dal trasporto. Inoltre si
cercano prodotti biologici o ecologici che siano stati realizzati
rispettando le condizioni di lavoro.
I gruppi di acquisto sono collegati fra di loro in una rete che serve ad
aiutarli e a diffondere questa esperienza attraverso lo scambio di
informazioni. Attualmente in Italia sono censiti oltre 600 GAS53
.
52 www.retegas.org 53 Ibidem.
46
2.3.3 Mercati biologici.
Gli stessi mercati biologici o a chilometri zero sono una dimostrazione
di come questo tipo di attività si sia ritagliata uno spazio dentro un
economia alimentare sempre più in crisi.
Un sintomo dell‟accresciuta sensibilità verso la provenienza e la
salubrità dei prodotti, e verso l'impatto ambientale delle tecniche di
produzione.
Produzioni biologiche ed ecologiche in alternativa allo sfruttamento
intensivo della terra e degli animali e contro l'uso di pesticidi e
concimi chimici. Piccole produzioni locali in alternativa alle grandi
produzioni industriali e a merci che vengono da migliaia di chilometri
di distanza quando potrebbero essere prodotte localmente. Vendita
diretta in alternativa a quella impersonale dei supermercati. Il
produttore si espone direttamente con il suo prodotto per vendere,
senza intermediazioni, il frutto del suo lavoro.
Il mercato torna ad essere luogo di incontro e di scambio di idee e non
più luogo astratto delle transazioni monetarie. Il cittadino diventa
responsabile delle sue scelte, sa quello che acquista e compie un atto
di forte carattere sociale e importante peso politico. Le relazioni
umane si sostituiscono allo spreco, al consumo acritico di beni inutili
proposti dalla pubblicità54
.
Un ottimo esempio di questo tipo di “mercato alternativo” è
rappresentato a Bologna dallo Spazio Sociale XM24 (via Fioravanti
24, Bologna) che da più di quattro anni insieme al Coordinamento
cittadino per la Sovranità Alimentare organizza, ogni giovedì dalle 18
alle 21, un mercato di vendita diretta, tenuto dagli stessi produttori
54 www.bologna.paginearcobaleno.it
47
locali, dove reperire prodotti agricoli biologici di stagione e alcuni
prodotti trasformati. Un'esperienza concreta gestita collettivamente da
produttori e consumatori. Un luogo di economia non mercantile dove
lo scambio dei beni si affianca alla costruzione di nuove relazioni
sociali55
.
55 www.sovranitaalimentare.net
48
CAPITOLO 3: L’orti-cultura: sociologia e
antropologia dell’orto urbano.
3.1 Sociologia degli orticoltori.
In ordine alla composizione sociologica del mondo degli orticoltori
amatoriali, la ricerca effettuata da Italia Nostra dimostra che non tutte
le categorie sociali sono ugualmente contagiate dalla passione per
l‟orticoltura. Risulta che questa passione interessa gli uomini piuttosto
che le donne, gli individui di mezza età o anziani piuttosto che
giovani, gli appartenenti alle classi popolari (operai o pensionati ex-
operai, piccoli artigiani) piuttosto che gli appartenenti ai ceti medio-
alti (impiegati, dirigenti, professionisti), i coniugati piuttosto che i
celibi56
.
Nel tentativo di spiegare perché gli operai industriali siano la categoria
maggiormente dedita alla coltivazione amatoriale dell‟orto, i
ricercatori si sono trovati di fronte a un paradosso. Sarebbe infatti
logico pensare che la convenienza economica di poter disporre di
frutta e verdura senza doverla acquistare al mercato costituisca la
principale ragione che spinge una categoria a basso reddito, qual è
appunto quella operaia, a praticare l‟orticoltura nel tempo libero. Ma
dalle risposte fornite dagli orticoltori alle domande loro rivolte allo
scopo di conoscere le motivazioni soggettive che spingono a dedicarsi
alla cura dell‟orto si deduce che la convenienza economica riveste in
realtà un‟importanza secondaria. Questo non significa che detta
convenienza economica sia negata del tutto. Anzi, a mano a mano che
56 Italia Nostra (a cura di), Orti urbani una risorsa, Franco Angeli, Milano, 1982.
49
si scende dalle categorie sociali più elevate a quelle più basse,
maggiore è l‟importanza attribuita al vantaggio rappresentato dal fatto
di non dover acquistare al mercato la frutta e la verdura per la
famiglia. Vero è comunque che dalla maggioranza degli orticoltori
amatoriali, operai compresi, la coltivazione dell‟orto viene considerata
e praticata come un piacere e un passatempo non come una necessità
od opportunità economica. E sono parecchi coloro i quali sottolineano
che, a ben guardare, si tratta di un passatempo costoso, che non
varrebbe neppure la pena di praticare se si dovesse considerare
soltanto la convenienza economica. Tutto ciò ha indotto i sociologi ad
ipotizzare che la cura dell‟orto costituisca una delle forme in cui gli
operai reagiscono all‟alienazione del lavoro industriale.
L‟insoddisfazione sul lavoro che l‟operaio sperimenta all‟interno della
fabbrica, a causa della scarsa autonomia personale, dell‟assenza di
creatività, dell‟autoritarismo, della mancanza di senso, potrebbe essere
la molla che spinge questa categoria di lavoratori a trascorrere il
tempo libero dedicandosi all‟orto di casa, alla ricerca di quella
soddisfazione personale che può procurare solo un lavoro autonomo,
creativo, dotato di senso, esercitato all‟aperto.
3.1.1 L’orto famigliare.
Gli approfondimenti di ordine etnografico hanno confermato che la
coltivazione amatoriale dell‟orto non risponde quasi mai a una logica
esclusivamente alimentare-economica. L‟etnologa francese Florenze
Weber propone di distinguere tre tipi di orto famigliare: l‟orto di
produzione, l‟orto-villeggiatura, l‟orto dimostrativo (ostentatoire). Si
tratta di una distinzione che è già evidente nella collocazione fisica
dell‟orto stesso. L‟orto di produzione è situato in una posizione
50
nascosta e a volte anche separate e perfino lontana dalla casa di
abitazione. Il suo scopo è esclusivamente economico-alimentare
(produrre i legumi, la frutta e la verdura necessari al consumo annuale
della famiglia, la quale dispone infatti normalmente di un congelatore
per la conservazione) ed è condotto senza nessun criterio estetico, anzi
appare spesso contrassegnato da un certo disordine. L‟orto-
villeggiatura è associato a una seconda casa e costituisce una parte
defilata del giardino; la sua funzione principale non è quella di
produrre alimenti, ma di dare l‟illusione della campagna. L‟orto
dimostrativo è annesso a una villetta mono-famigliare utilizzata come
abitazione primaria ed è di solito collocato in bella mostra, esso non
risponde – se non minimamente – a una logica alimentare-economica,
tant‟è che la famiglia non sente neppure la necessità di dotarsi di un
congelatore ma chiede all‟«orto di casa» di fornire ortaggi e frutta per
il consumo stagionale, cioè proprio quando essi sono meno cari sul
mercato; i prodotti che eccedono il consumo stagionale sono regati a
terzi oppure non vengono neppure raccolti. La funzione principale di
questo terzo tipo di orto, che costituisce oggi la modalità prevalente di
praticare l‟orticoltura amatoriale, è quella di rispondere ai bisogni di
tipo espressivo: sostenere l‟auto-stima, sentirsi attivi e creativi,
rafforzare la reputazione sociale della famiglia. E infatti l‟orto viene
curato all‟insegna dell‟impeccabilità: aiuole ben disegnate, vialetti
efficienti, assenza di erba, ecc. esso deve suscitare l‟ammirazione
degli altri ed ostentare il sistema di valori (attaccamento alla casa,
voglia di lavorare, integrità morale) nel quale il nucleo familiare si
riconosce57
.
57 F. Weber, L’Honneur du Jardinier, Belin, Paris 1998.
51
3.1.2 L’orto domestico tra passione e reazione.
L‟adesione alla moda degli stili di vita alternativi (slow food,slow life)
fa sì che, all‟orticoltura praticata da pensionati, impiegati e operai, si
affianchi l‟orticoltura degli intellettuali, dei liberi professionisti, degli
artisti che inevitabilmente attira la curiosità dei giornalisti. Il dato
importante dal punto di vista sociologico è che il giardinaggio e la
cura dell‟orto sono oggi considerati da un numero crescente di persone
un modo di trascorrere il tempo libero alternativo a quelli oggi
largamente dominanti. La sociologia ha individuato nel grande
incremento del tempo libero individuale uno degli aspetti qualificanti
della società post-industriale. Essa ha nel contempo dimostrato la
condizione di scarsa libertà in cui si viene a trovare l‟uomo d‟oggi
proprio quando trascorre il tempo libero, costretto a subire i
condizionamenti della moda, della pubblicità e dell‟industria culturale.
La preferenza oggi accordata alla cura dell‟orto rappresenta una
reazione all‟uso consumistico del tempo libero.
Nel volume dedicato alla storia del weekend, Witold Rybczynski,
dopo avere osservato che nei Paesi dell‟Est Europa (Polonia,
Ungheria), ma anche in Gran Bretagna, il giardinaggio e la cura
dell‟orto costituiscono oggi uno dei passatempi preferiti, vede in
questo fatto la dimostrazione che gli svaghi tradizionali sono
«inattaccabili alla modernità»58
. In effetti, bisogna ammettere che la
tradizione appare oggi un serbatoio da dove è possibile estrarre
antiche pratiche sociali in grado di aiutare l‟uomo del XXI secolo a
vivere; la coltivazione dell‟orto è una di queste pratiche.
Secondo Jean-Claude Kaufmann, estimato sociologo francese,
l‟attuale tendenza a rifugiarsi in una piccola proprietà e dedicarsi alla
58 Rybczynski W., Aspettando il weekend, Instar libri, Torino 2003, p. 173.
52
cura del giardino e dell‟orto è uno dei modi in cui gli individui
cercano di reagire e di sottrarsi alle pressioni e allo stress che
comporta il vivere nell‟epoca dell‟iper-modernità. Diversamente da
ciò che succedeva in passato, quando le condizioni dell‟agire
individuale erano precostituite dalle istituzioni sociali e l‟individuo
non doveva impegnarsi troppo a trovare la propria identità personale,
oggi l‟individuo non può più contare sull‟aiuto di istituzioni forti in
grado di programmare la sua vita, orientare il suo comportamento, ma
deve continuamente impegnarsi in uno sforzo di «invenzione del sé»,
creare da se stesso le condizioni del proprio agire con la riflessione
soggettiva, cercare il proprio spazio e il proprio ruolo in un incessante
confronto-competizione con tutti gli altri.
Tale impegno di ricerca e adeguamento della propria identità
personale comporta una grande fatica, il rischio della perdita
dell‟autostima è sempre dietro l‟angolo. Per sottrarsi a questo stress,
gli individui sono portati a cercare una condizione di stabilità, di
tranquillità, rifugiandosi in un luogo e/o in un‟attività che non
costringe a mettersi continuamente in discussione, a reinventare
incessantemente il proprio sé. Certi tipi di hobby, e in primis proprio il
giardinaggio e l‟orticoltura, possono essere una risposta a questo tipo
di esigenza psicologica. «Quelli che hanno una piccola proprietà (un
piccolo giardino, una casetta) possono tentare di sottrarsi alla società
“iper-moderna” per ritrovare se stessi in un residuo dell‟antica società,
dove l‟esistenza era segnata da ciò che si faceva di più semplice:
bricolage, giardinaggio, barbecue e non era necessario mettersi
continuamente in gioco»59
.
59 Cfr. intervista pubblicata su Sciences Humaines, n.154, nov. 2004.
53
3.2 Community gardens, collective gardens e neo-
ruralismo.
Gli orti metropolitani diventano un importante strumento di politica
sociale: per combattere le nuove forme di povertà, per facilitare
l‟inserimento professionale delle categorie svantaggiate, per favorire
l‟integrazione degli immigrati. Accanto ai community gardens si sono
affiancati i collective gardens, concepiti come strumento aggiuntivo e
innovativo del sistema del welfare.
Neo-ruralismo, fenomeno socioculturale in ascesa, rappresenta il
disagio dell‟uomo urbano che nel andare ad abitare in campagna,
vuole ritrovare tradizioni e valori andati perduti nella vita cittadina.
3.2.1 Community gardens: il caso di via Salgari.
Tra le virtù dell‟orticoltura metropolitana non va dimenticato il fatto
che, poiché le persone che vi aderiscono appartengono alle più diverse
“etnie”, i community gardens diventano occasione di scambi
multiculturali e sono quindi un modo di contrastare la tendenza alla
ghettizzazione su base etnica della popolazione immigrata.
È quello che è successo tra le case popolari del Pilastro, nel quartiere
San Donato di Bologna. Negli orti urbani di via Salgari, italiani per lo
più anziani e stranieri lavorano fianco a fianco il proprio lotto di terra,
uscendo dall‟isolamento in cui spesso sono relegati. Grazie al progetto
“Coltiviamoci insieme” dell‟associazione Annassim60
, che ha portato
alla concessione degli orti anche alle donne straniere, a pochi metri di
distanza crescono menta palestinese e melanzane, cetrioli del Marocco
60 www.sociale.regione.emilia-romagna.it
54
e peperoni. E come accade alle piante, che riescono ad adeguarsi a
terre straniere, gli ortolani di via Salgari si mischiano, con diffidenza e
curiosità, imparando a convivere.
“Coltivare culture. Gli orti di via Salgari” realizzato da Salvo
Lucchese e Rossella Vigneri, prodotto dall‟associazione “Bandiera
Gialla”, è un documentario dedicato proprio a questa piccola comunità
sorta in un quartiere che fino a pochi anni fa, e forse da qualcuno
ancora adesso, non era molto bene considerato.
Protagonisti della storia sono Salvatore, Renzo, Liliana e gli ortolani
anziani che, tra cespi di lattuga e foglie di menta, raccontano i tempi e
gli impegni dettati dalla cura dell‟orto e le reazioni nate dall‟arrivo dei
“nuovi immigrati” e, prima ancora, degli italiani del Sud. Alle loro
voci si aggiungono quelle di Hend, Fatima e Lella, donne italiane e
migranti dell‟associazione Annassim di Bologna ed esperte ortolane.
“All‟inizio è stato un po‟ difficile convivere perché le donne
marocchine non amano mescolarsi con gli uomini, ma poi ci siamo
integrate bene, abbiamo imparato a conoscerci e ci siamo fidati l‟uno
dell‟altro abbattendo le barriere – spiega Hend –. La nostra
associazione vuole anche organizzare una giornata nella quale offrirà
cous cous agli ortolani, sarà un momento per rompere il ghiaccio ed
avvicinarci. Abbiamo scelto il cous cous perché in Marocco significa
„piatto della pace‟ e viene mangiato da tutti nello stesso piatto, è
quindi un modo per condividere”61
.
Gli stranieri coltivano nei loro orti le piante del loro paese di origine,
per questo è nata una collaborazione con la Facoltà di Agraria di
Bologna che studia come questi ortaggi reagiscono in un ambiente
differente. L‟esperienza dell‟orto ha anche portato alla nascita di un
corso di cucina organizzato dall‟associazione Annassim aperto a
61 Ibidem.
55
stranieri ed italiani. Quindi non solo scambi di conoscenze pratiche di
coltivazione, ma veri e propri scambi culturali anche a livello
alimentare oltre che umano, e tutto questo grazie all‟orto.
3.2.2 Collective gardens in Nord America.
L‟antropologa Manon Boulianne che ha condotto una ricerca sui
collective gardens sorti negli anni Novanta (Nelle città di Montreal e
Quebec), evidenzia il fatto che, mentre i community gardens
rimangono nel campo dell‟iniziativa privata, i collective gardens
assumono la natura di un vero servizio sociale, nell‟ambito del quale il
lavoro salariato (o sovvenzionato da programmi di politica del lavoro
e di formazione professionale) si affianca e a vote soverchia il lavoro
gratuito dei volontari. Nei collective gardens i fini pubblici diventano
prevalenti e consistono in un tentativo di riaggiustamento dello Stato
Sociale. Ne consegue che la gestione dei collective gardens tende ad
essere centrallizata, affidata ad esperti, con la conseguenza negativa
che diminuisce la partecipazione dei singoli coltivatori. Si viene così a
determinare una netta divisione del lavoro tra gli esperti, da una parte,
cui è affidata la elaborazione dei piani colturali e la programmazione
dell‟attività coltivatrice, e i coltivatori, dall‟altra, il cui ruolo è quello
di eseguire il lavoro e che diventano passivi beneficiari di una forma
di aiuto alimentare e di una opportunità di addestramento e
inserimento professionale62
Un‟altra critica che viene rivolta ai collective gardens tiene conto del
fatto che l‟iniziativa è rivolta principalmente alle donne che non
riescono ad entrare nel mercato del lavoro. Essi diventano così un
62 Boulianne M., L’agriculture urbaine au sein des jardins collectifs quèbècois, in «Anthropologie et Sociètès», vol. 25, n. 1, 2001.
56
palliativo con cui si attenua il problema dell‟occupazione femminile
senza incidere sul funzionamento dell‟economia capitalistica ma
affiancando a quest‟ultima della forme di economia domestica che
perpetuano l‟inferiorità femminile sul mercato del lavoro.
Se è vero che – come hanno messo in evidenza anche i risultati della
ricerca della Boulianne – dal punto di vista delle istituzioni promotrici
i collective gardens si differenziano nettamente dai community
gardens per l‟importanza dei fini pubblici e assistenziali con essi
perseguiti, dal punto di vista degli orticoltori tale differenza scompare
o si attenua: gli effetti psicologici e morali della partecipazione ai
collective gardens (l‟orgoglio di veder crescere le piante, aumento
dell‟autostima, integrazione comunitaria, ecc.) sono considerati
altrettanto importanti, se non di più, dell‟aiuto alimentare ed
economico che se ne ricava.
3.2.3 Neo-ruralismo.
L‟antropologo Jean-Didier Urbain tenta di cogliere le peculiarità del
neo-ruralismo63
odierno distinguendolo da tutte le manifestazioni
precedenti, giusto per concludere che si tratta di un fenomeno che non
ha niente a che vedere con il «ritorno alla campagna»64
.
Ripercorrendo la vicenda del neo-ruralismo della seconda metà del
XX secolo, lo studioso francese distingue tre diversi momenti. Il
63 Il neo-ruralismo è una delle tendenze socioculturali più caratteristiche
dell‟attuale fase storica. Un numero crescente di cittadini è tentato di abbandonare
le città per andare a risiedere in campagna. Si tratta di un fenomeno legato alla
transizione post-industriale e anche all‟emergere di un‟idea post-moderna della
città e della campagna. Le conseguenze di questo cambiamento culturale sono
davanti agli occhi. Da una parte, c‟è la città che cerca di ri-naturalizzarsi,
intergrando nel verde urbano il verde produttivo degli orti, dei campi e dei boschi.
Dall‟altra, c‟è la campagna che si agricolizza e si trasforma in uno spazio
residenziale e turistico. 64 Urbain J.-D., Paradis verts, Payot, Paris, 2002.
57
primo risale agli anni Cinquanta e Sessanta ed è quello del neo-
ruralismo elitario degli industriali e dei grandi borghesi che vedono
nel possesso di una villa in campagna un modo per affermare la
propria ricchezza e la propria superiorità sociale. Un secondo è quello
del neo-ruralismo protestatario degli anni Settanta, di cui sono
protagonisti i delusi del Sessantotto che concepiscono il trasferimento
in campagna come l‟epilogo inevitabile della loro contestazione del
sistema e vedono nel ritorno all‟agricoltura l‟unica e l‟ultima
possibilità di sperimentare praticamente un‟alternativa al modo di
vivere capitalistico. E infatti il trasferimento in campagna si traduceva
nell‟assunzione o quanto meno nel tentativo di assumere una nuova
identità professionale e sociale: si abbandonava l‟attività borghese per
diventare agricoltori. Il terzo momento, quello attuale, iniziato nel
decennio Ottanta, ha come protagonista il cittadino che cerca in
campagna, non una alternativa di vita o professionale, bensì una
residenza complementare a quella urbana, da utilizzare come rifugio,
per isolarsi, nascondersi. La campagna dove il cittadino di oggi aspira
a trasferirsi o avere una seconda residenza è apprezza soprattutto in
quanto “vuoto”, deserto, come un‟oasi felice e sperduta. Ciò spiega
perché generalmente il neo-rurale sceglie una casa individuale, si
preoccupa di proteggere con cura la propria privacy, circonda la sua
villetta con mura e recinti, si guarda bene del partecipare alla vita
sociale della collettività locale. Quando si trasferisce in campagna, il
neo-rurale di oggi non «condivide un territorio, ma acquista un lotto di
terreno»65
. Nell‟interpretazione dell‟antropologo, il neo-ruralismo del
XXI secolo appare come l‟invenzione di una «terza campagna», che si
aggiunge a quella produttiva e a quella turistica: una campagna
65 Ibidem.
58
appunto residenziale, piena soprattutto di seconde case, nella quale
trova soddisfazione l‟aspirazione alla doppia residenzialità.
La conclusione di Urbain è che gli argomenti con cui tradizionalmente
si giustificano e si spiegano i movimenti di ritorno alla campagna (la
ricerca di un rapporto con la natura, il bisogno di identità e di
appartenenza territoriale, il desiderio di legami comunitari) non siano
dunque utilizzabili per spiegare le nuove funzioni residenziali assunte
dallo spazio rurale. Il desiderio di una casa in campagna non è
motivato dal rifiuto della città, ma è il frutto di una inclinazione al
nomadismo che costituisce un tratto distintivo della personalità
dell‟uomo postmoderno, il quale vorrebbe poter vivere
contemporaneamente in città e in campagna, restare costantemente
sospeso tra natura e cultura, usufruire della campagna senza
abbandonare lo stile di vita e di consumo urbani.
La nascita della «terza campagna» rappresenta una risposta alle
passioni tipiche dell‟uomo della tarda modernità, completamente
«individualizzato», con una invincibile tendenza al nomadismo, che
vede nella multi-residenzialità una risposta alla propria irrequietezza.
Tuttavia, non si può non riconoscere che, accanto al neo-rurale iper-
moderno,66
vi è il neo-rurale (cui potrebbe essere più
appropriatamente riservata la qualifica di post-moderno) che si
trasferisce in campagna spinto dal bisogno di sfuggire all‟iper-
urbanismo e all‟iper-consumismo della società tardo-moderna, deciso
66 Impegnata cogliere i tratti distintivi della società contemporanea, la sociologia ha mutato dalla filosofia il concetto di post-modernità e ha inquadrato sotto questa
categoria i principali fenomeni socioculturali di fine secolo XX. Ultimamente,
però, la convinzione che si sia verificato il passaggio dalla modernità alla post-
modenità è stata messa in discussione. Proprio i sociologi che sono diventati
famosi per le loro teorizzazioni postmoderniste (Giddens, Beck, Bauman) hanno
cominciato a sostenere che la società detradizionalizzata, individualizzata,
riflessiva, «liquida», descritta nelle loro analisi presenta piuttosto le caratteristiche
di una società ipermoderna.
59
a cambiare vita, alla ricerca di una nuova identità personale, mosso dal
desiderio di tornare ad essere «uomo naturale», di rimettersi in
sintonia con le grandi tradizioni spirituali e morali.
3.3 Orti-cultura.
Il background culturale che sottostà allo “spazio orto” affonda le sue
radici nei miti legati alla terra, come il giardino dell‟Eden, ma anche
nella classica dicotomia campagna-città. L‟orto urbano è carico di
valori derivanti dall‟antica cultura contadina, valori che a volte
vengono ritrattati e ripensati per essere al passo con la vita delle città.
Quindi un vero e proprio “luogo” contrapposto ai tanti “non-luoghi”
che occupano gli spazi urbani. Un catalizzatore di socialità e di un
rinnovato modo di vivere la vita nelle zone urbane.
3.3.1 Uomo artificiale e uomo naturale.
“Io credo che il compito dell‟uomo non sia quello di dominare la natura, ma
precisamente quello di coltivare: coltivare se stesso così come coltivare la natura,
proprio perché non sono separabili. Direi di più: una coltivazione di me stesso che
non sia anche cultura della natura non è cultura dell‟uomo. E io non faccio
separazione fra coltivazione del corpo, coltivazione dell‟anima e coltivazione
della natura”67
.
La complicità che, nella guerra all‟orto condotta dall‟urbanistica
novecentesca, si stabilisce tra filocapitalismo liberale e anticapitalismo
marxista trova una spiegazione nel fatto che entrambi sono interessati
al raggiungimento di due obiettivi: la de-tradizionalizzazione della
67 Raimon Panikkar, Concordia e armonia, Mondadori, Milano, 2010.
60
società, cominciando con l‟abbandono di ogni forma di economia
domestica per fare spazio all‟economia di mercato, e la
proletarizzazione della classe lavoratrice, considerata come il
presupposto di una facile e rapida acculturazione industriale. Sono
obiettivi esattamente opposti a quelli perseguiti dall‟anticapitalismo
romantico ottocentesco, sia quello socialista (Proudhon), sia quello
cristiano. Entrambe queste correnti di pensiero sognavano una società
composta da lavoratori indipendenti, proprietari della loro casa, in cui
l‟economia domestica conservasse un suo spazio accanto all‟economia
di mercato. La complicità tra filo-capitalismo e anticapitalismo è resa
possibile dal comune giudizio positivo nei confronti della grande città.
La concentrazione della classe lavoratrice nelle città e la
generalizzazione di un modello abitativo che segna un radicale e
definitivo distacco dalla terra avrebbero favorito la nascita di una
mentalità operaia contrapposta alla mentalità contadina, necessaria –
nell‟ottica filocapitalistica – per procedere nella modernizzazione
industriale, ma indispensabile anche – nell‟ottica marxista – per
condurre vittoriosamente la rivoluzione comunista.
La sistemazione in un appartamento in affitto diventa così il più logico
epilogo dell‟esodo rurale, segnando il definitivo e assoluto distacco
dalla terra dell‟ex contadino, appunto la sua completa
proletarizzazione. È andando ad abitare nei casermoni dei nuovi
quartieri periferici delle città industriali, che l‟ex contadino diventa
quell‟«uomo artificiale» che Jean Giono68
contrappone all‟«uomo
naturale». Secondo l‟intuizione dello scrittore francese, con l‟avvento
dell‟urbanesimo industriale si determina una differenziazione a livello
antropologico tra gli uomini che “vogliono vivere in modo naturale”, i
68 Giono J., Lettera ai contadini sulla povertà e la pace, Ponte delle Grazie, 2004.
61
contadini, e gli uomini che invece ormai “desiderano una vita
artificiale”, gli operai industriali.
Piano piano, la cultura dell‟abitare in appartamento fa breccia anche
tra gli ex-contadini immigrati in città i quali cominciano a vedere nelle
comodità della nuova edilizia economico-popolare (acqua corrente,
bagno, riscaldamento, ecc.) un segno di emancipazione sociale.
I valori dell‟urbano e del rurale capaci, ciascuno a suo modo, di
essere veramente portatori di componenti ideali intrinseche e di
proprietà specifiche.
Una natura letta come elemento capace di riequilibrare i caratteri
propri di una urbanità profondamente caratterizzata; natura quindi
intensa come momento di salvazione ultima.
Nel passaggio da ipotesi di pensiero ambientalista forte alla recente
crisi si incuneano molti fattori; e non ultimo il declino di quella
“spinta alla modernità” che tanto peso aveva avuto nei momenti di
programmazione iniziale della città industriale classica. Dove il
naturale e da un lato e l‟urbano dall‟altro avevano significati ben
precisi, perché ad essi facevano riferimento due modalità distinte di
vita.
La crisi dell‟ideologia modernista ha deprivato le ipotesi
evoluzionistiche, riferite alle dimensioni della natura, della scansione
di passaggi successivi verso modelli di società sempre più avanzati,
specializzati, efficienti, godibili e perfetti. Ritrovabili nei più recenti
contesti urbani razionalmente progettati; dove la componente “verde”
rappresentava una parte integrante dello scenario e degli spazi di vita.
Un verde degradato a puro ornamento; eppure idealizzato ad elemento
forte; a componente veramente capace di influire sui processi
percettivi, sulla formazione della personalità, sulla storia individuale.
62
Oggi la diversità è sostanzialmente caduta; almeno così come inteso
dal modello evolutivo.
La prima considerazione che le varie correnti di pensiero
ambientalista vengono evidenziando è che occorre ragionare in
termini di post-materialismo. Dove per post si intende una sostanziale
mutazione nel modo di intendere il nostro rapporto con le cose ed il
loro controllo; non più dominati da valutazioni di ordine economico,
produttivistico e meccanico, come pure una revisione dei fini che ci
prospettiamo nel rapporto uomo-natura.
È possibile cogliere da un lato un filone di pensiero sostenitore di una
rottura sostanziale con il passato. Pensare ad un post-materialismo
significherebbe, secondo questa prima ipotesi, prendere atto che il
modo di produzione della società industriale è causa inequivocabile di
degrado ambientale.
Un secondo percorso di pensiero può essere invece individuato in una
concezione dove l‟accento viene posto sul fatto che post-
materialismo significa passaggio ad una diversa interazione uomo-
natura. Quindi, non si intende tanto una fase di stravolgimento e di
negazione totale dell‟attuale società industriale, quanto piuttosto la
ricreazione di nuovi equilibri tra uomo e natura, con l‟allentamento
della dipendenza delle variabili antropiche dalla natura stessa.
3.3.2 Genus loci.
“L‟idea di un luogo gioioso, dove l‟anima e il corpo potessero trovare quella
serena felicità che raramente s‟incontra nella vita quotidiana è stata, forse sin dalle
origini, un‟aspirazione dell‟uomo che si è concretizzata in quello che veniva
63
chiamato locus moenus, cioè luogo del piacere, ricco di meraviglie e abitato dagli
dei”69
.
Che cosa è un «luogo»? Luogo può essere localizzato, ma non tutte le
localizzazioni possono qualificarsi come luoghi. Alcuni degli elementi
che contribuiscono alla creazione di un «luogo» non hanno carattere
esclusivamente fisico, ma al contrario hanno qualcosa d‟intangibile,
sono legati ad esperienze e memorie sensoriali, sono intrisi di
sentimenti e significati, e fanno star bene chi abita quel luogo.
L‟architetto paesaggista Alan Gussow ha definito il luogo come “un
pezzo d‟ambiente di cui ci siamo riappropriati con i sentimenti”70
. Per
molti cittadini, gli unici spazi di vita quotidiana di cui si sono
riappropriati con l‟affetto, a cui possono attribuire il titolo di «luogo»,
sono gli ambiti privati: la casa, il giardino, ecc. Gli spazi pubblici, le
aree aperte della nuova città sono diventati – per gran parte della
popolazione – dei «non-luoghi». L‟impressione è che non ci sia
nessuno che li ama e se ne prenda cura, che insieme al progressivo
peggioramento della qualità dell‟ambiente costruito si sia sviluppato
anche un marcato distacco tra i cittadini e gli spazi della città.
I luoghi riguardano uno spazio relazionale identitario storico, cioè uno
spazio in cui le relazioni sono sollecitate e sono parte integrante di
questo luogo, i soggetti si riconoscono al suo interno e per questo è
definito identitario e storico perché i soggetti hanno una storia comune
o si richiamano ad essa.
Il non-luogo ha caratteristiche opposte, riguarda gli spazi di transito,
di attraversamento, che sono pensati a prescindere dalla relazione,
69 Campbell J., Il potere del mito, TEA, Milano, 1994, p.61. 70 E.V. Walter, Placeways a Theory of the Human Enviroment, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1988.
64
infatti, non sono identitari cioè non sono spazi in cui ci si riconosce
come appartenenti71
.
Nella contemporaneità proliferano questi spazi che sono pensati
attorno a dei fini, essi sono come degli incroci di mobilità, dove il
rapporto principale si svolge tra il luogo e l'individuo, non tra gli
individui all'interno di questo luogo. Naturalmente poi ogni non luogo
può diventare un luogo per qualcuno: si tratta quindi, di una
distinzione di atteggiamento e non di sostanza.
Il non-luogo: è uno spazio privo delle espressioni simboliche di
identità, relazioni e storia: esempi tali di „non luoghi' sono gli
aeroporti, le autostrade, le anonime stanze d'albergo, i mezzi pubblici
di trasporto, i supermercati .
Bauman72
riprende una distinzione fatta da Levi-Strauss, tra spazi
antropoemici e spazi antropofagici, cioè tra spazi che sono costruiti in
modo da respingere, da disincentivare la socialità e spazi invece che
sono costruiti in modo da fagocitare i soggetti, i comportamenti
disciplinati in qualche modo, annullando quella alterità che rende
possibile la socialità.
I non-luoghi hanno alcune caratteristiche dei luoghi emici
(antropoemici), ma accettano l'inevitabilità di una loro frequentazione
da parte di estranei, chiunque vi si trovi deve sentirsi come se fosse a
casa propria ma non comportarsi come se davvero lo fosse.
Si è scritto molto sul genius loci, lo spirito di un luogo. Ed è appunto
questa la qualità di uno spazio capace di renderlo memorabile e
rappresentabile. Una qualità che è senz‟altro presente in quei luoghi
che ci danno la sensazione di «essere arrivati». Questo sentire che «io
71 Augé M., Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità,
Elèuthera, 2009. 72 Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002.
65
sono qui» è, in parte, l‟identità di un luogo, quello che lo caratterizza
come distinto e particolare.
L‟identità di un luogo è intimamente intrecciata con l‟identità degli
individui e della comunità che lì trovano dimora. Il legame tra un
luogo e una comunità è inscindibile. Ovviamente è molto difficile
affermare il proprio essere nelle strade anonime e tra i palazzi grigi e
uniformi delle nuove periferie.
Lo “spazio orto” permette di potersi identificare con la località nella
quale si abita, potersi sentire parte di una comunità e di uno o più
luoghi urbani. Questi sono elementi che contribuiscono non soltanto
alla qualità della nostra vita ma anche al nostro modo di fare politica,
inteso come disponibilità a farsi coinvolgere nei processi decisionali, a
partecipare.
Ecco che la dimensione dell‟orto urbano torna a dare nuovo
significato al senso di comunità e al senso di luogo.
3.3.3 Orto come memoria: i miti legati alla terra.
“Vi voglio raccontare un mito.
C‟era una volta un Giardino, il quale conteneva molte centinaia di specie (era
forse nella zona sub-tropicale) che vivevano in grande fecondità ed equilibrio, con
abbondanza di humus, e così via. In quel giardino c‟erano due antropoidi più
intelligenti degli altri animali. Su uno degli alberi c‟era un frutto, molto in alto,
che le due scimmie non erano capaci di raggiungere. Esse cominciarono allora a
pensare. Questo fu lo sbaglio: cominciarono a pensare per raggiungere un fine.
Dopo un po‟ la scimmia maschio, che si chiamava Adamo andò a prendere una
cassa vuota, che mise sotto l‟albero; vi montò sopra, ma ancora non riusciva a
raggiungere il frutto. Allora andò a prendere un‟altra cassa e la mise sopra la
prima; si arrampicò sopra le due casse e finalmente raggiunse la mela. Adamo ed
66
Eva erano ebbri d‟eccitazione. Così si doveva fare: si escogita un piano, ABC, e si
ottiene D. Cominciarono allora ad esercitarsi a fare le cose secondo un piano. Di
fatto essi estromisero dal Giardino il concetto della sua natura sistemica globale e
della loro stessa natura sistemica globale”73
.
Che cosa era l‟Eden se non un orto? Un orto nel quale Dio collocò
Adamo ed Eva perché lo coltivassero. Come ha chiarito Jean
Delumeau, il racconto biblico relativo al giardino dell‟Eden si è
mescolato con altri miti orientali e greco-romani riguardanti giardini
originari, con la conseguenza che il paradiso terrestre della tradizione
giudaico-cristiana è diventato un luogo di delizie, un ambiente
fantasmagorico, pieno di elementi strabilianti74
. Ma il giardino
dell‟Eden descritto nella Genesi ha semplicemente le caratteristiche di
un orto-frutteto, ricco d‟acqua, e quindi facilmente e felicemente
coltivabile. L‟incarico ricevuto da Adamo – ha precisato W. Teichert
– consisteva essenzialmente nella pratica di una «sobria e seria attività
agricola»75
. Prima di esserne scacciati a causa del peccato originale,
Adamo ed Eva si dedicarono alla cura dell‟orto che Dio aveva messo a
loro disposizione, ritagliando e rendendo particolarmente fertile un
angolo di quella aperta campagna che era la Terra da poco creata.
Prima del peccato originale, coltivare quell‟orto che era l‟Eden
costituiva un piacere.
Avendo ben presente il racconto biblico, gli apologeti dell‟orticoltura
del passato (ma anche contemporanei) si sono spinti a pensare che,
dietro alla coltivazione amatoriale dell‟orto, ci sia la nostalgia del
paradiso terrestre. Gli uomini, che dopo il peccato originale
continuano a sognare il paradiso perduto dedicandosi alla coltivazione
73 Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 1977. 74 J. Delumeau, Storia del Paradiso, Il Mulino, Bologna 1994. 75 W. Teichert, I giardini dell’anima, Red edizioni, Como, 1995, p42.
67
dell‟orto, cercano di riprovare quel piacere primordiale, di ritrovare la
felicità originaria. «se crediamo alle Sante Scritture – scriveva il
diplomatico-letterato inglese William Temple, un grande amante e
praticante dell‟orticoltura – dobbiamo riconoscere che Dio
onnipotente ha pensato che la vita d‟un uomo in orto fosse la più
felice che gli potesse dare, altrimenti non avrebbe collocato Adamo ed
Eva in quello dell‟Eden; che quella era una condizione innocente e
felice; e che l‟agricoltura e le città cominciarono dopo la Caduta, con
la colpa e la fatica»76
. Se, come è lecito pensare, il mito dell‟Eden ha
un fondamento storico, esso può essere considerato un indizio del
fatto che l‟orticoltura ha preceduto l‟agricoltura. Prima di cimentarsi
con la faticosa coltivazione dei campi, l‟uomo potrebbe avere dedicato
le sue cure ad un piccolo orto, accuratamente recintato e difeso. Di
questa condizione primordiale sarebbe rimasta traccia nella memoria
collettiva, e ciò spiegherebbe perché il giardinaggio e l‟orticoltura non
cessano di attrarre gli uomini.
“Se riusciremo ad accettare che nel mondo contemporaneo c‟è la presenza di un
incanto, e non solo del disincanto, allora avremo una possibilità”77
.
“Il Cielo ricopre e la Terra sostiene” è la formula che in Oriente
designa la posizione di due principi cosmici che hanno nell‟uomo il
loro mediatore. Infatti tra la terra e il cielo l‟uomo compone i distanti,
e perciò simbolo della loro armonia.
Ma con il pensiero Occidentale l‟armonia si spezza, e una sorda
diffidenza, se non addirittura un‟insanabile inimicizia, matura tra
l‟uomo e la terra. La nostalgia delle origini, rintracciabile in tutti i
76 W. Temple, I giardini di Epicuro ovvero sull’orticoltura, a cura di Mario
Manlio Rossi, Passigli, Firenze 1995, p. 59. 77 Varchetta G., Investire in emozioni: radicalità e criticità, For 52, 2002.
68
popoli mitologici e storici, è nostalgia di un simbolo distrutto, in cui
l‟uomo non si sentiva apolide, straniero sulla terra, perché profonda
era l‟intimità, anzi l‟identità tra il suo logos e il Logos immanente al
Cosmo78
. Al pensiero come rivelazione succede il pensiero come
intenzione. Da qui la nascita della coscienza dell‟Io in virtù di
quell‟emergere, di quell‟e-sistere, di quello stare fuori dalla
composizione simbolica, che più non sfocia nell‟integrazione
dell‟essere umano nella totalità dell‟essere, ma al contrario degna
quell‟abisso insormontabile che divarica l‟uomo dal tutto, e lo rende
straniero. Il proporsi del suo ordine sull‟ordine del cosmo. Il simbolo
che compone Cielo Terra Uomo cede il posto così al progetto
dell‟uomo che inizia a disporre del cielo e della terra79
.
Se, rinunciando a scomodare i grandi miti e ad addentrarsi in ardite
speculazioni antropologico-filosofiche, si rimane al livello dell‟analisi
psicologica, un‟altra spiegazione suggestiva dell‟attrazione che
l‟orticoltura esercita su molti individui è quella che la considera una
specie di passione ereditaria, che si trasmette di padre in figlio.
L‟inclinazione all‟orticoltura si apprende nel corso dell‟infanzia.
Grazie al fatto che molti grandi letterati hanno unito l‟amore per la
scrittura a quello dell‟orticoltura, disponiamo di parecchie
testimonianze letterarie le quali dimostrano che l‟esempio dei genitori
svolge un ruolo fondamentale nel suscitare una inclinazione alla
pratica dell‟orticoltura.
Il già citato studio curato da Italia Nostra sul fenomeno degli orti
urbani riporta anche i risultati di un sondaggio svolto presso un
campione di orticoltori milanesi, con l‟intento di tracciare un profilo
dell‟orticoltore urbano. Alla domanda «da quanto ha cominciato a
78 Consorzio di gestione nel Parco fluviale del Secchia (a cura di), Progetto N.U.T.
Nuove Opportunità Unitarie per il Territorio, I quaderni del centro airone, 2003. 79 Ibidem.
69
lavorare all‟orto?», il 67% degli interpellati ha risposto «fin da
bambino»80
. Un risultato che conferma quanto era già emerso nel
corso dei colloqui in profondità effettuati in vista della messa a punto
e della somministrazione del questionario. Sollecitati a giustificare il
loro impegno orticolo, gli intervistati tendevano a rispondere che si
trattava di una vecchia passione, legata alle loro radici rurali e al
mestiere di contadino esercitato prima del trasferimento a Milano.
Anche chi non era un immigrato e non aveva origini contadine,
attribuiva la sua passione per l‟orto al fatto di aver trascorso l‟infanzia
e la giovinezza in un ambiente ancora rurale quale era una volta la
periferia milanese. La maggioranza degli intervistati (57%) si dichiarò
d‟accordo sul fatto che «orticoltori si nasce», tant‟è che, alla luce di
queste risposte, l‟autore della ricerca è indotto a concludere che la
coltivazione di un orto urbano è vissuta «come la naturale
continuazione di un comportamento che era spontaneamente presente
in gioventù»81
.
80 Cfr. Orti urbani, una risorsa, cit., p. 218. 81 Ibidem, p.165.
70
Conclusioni.
Abbiamo visto come in epoca preindustriale, tra città e campagna ci
fosse una vera e propria continuità ecologica. Con la crescita della
dimensione territoriale e demografica dei centri urbani, questa
continuità è andata persa, anzi, possiamo dire che vi è stata una vera e
propria “guerra all‟orto”, in quanto simbolo di un epoca passata e
superata. Negli ultimi anni le Transition Town stanno cercando di
reintegrare la campagna nelle città. I motivi sono tanti a partire dal
costruire nuovi modelli di vita sostenibili, essendo sempre più
pressante l‟emergenza ambientale, ma non solo. Infatti si è visto come
la figura dell‟orto urbano cambi aspetto e funzione nel corso della sua
storia. Se dapprima l‟orto si coltivava per necessità alimentare, come
nel caso degli orti di guerra, quando questa necessità si fa meno
presente, inizia una trasformazione della sua funzione. L‟utilizzo
dell‟orto come bene economico alimentare persiste, ma viene anche
utilizzato nelle grandi città come strumento di politica sociale: per
riqualificare zone cadute in stato di degrado civile e architettonico o
per favorire l‟integrazione degli immigrati.
In realtà in quest‟epoca dell‟iper-modernità dedicarsi alla cura del
giardino o dell‟orto risulta essere per molti una valvola di sfogo, per
staccare dalla routine della vita frenetica cittadina. Così gli orti
diventano un modo per fare passare il tempo libero agli anziani, o per
esorcizzare l‟alienazione degli operai delle fabbriche. Gli orti
diventano didattici, per re-insegnare ai bambini di città ad avere un
rapporto con la natura, ma anche terapeutici, per curare o migliorare la
risposta alle cure, negli ospedali psichiatrici.
Dunque cosa rappresenta l‟orto urbano? Di che tipo di valori e
simboli si fa portatore?
71
L‟orto è diventato una risorsa simbolica di lotta, attiva o silente, nei
confronti di un modello economico sociale che sta, sempre di più,
mettendo in luce i suoi paradossi e i suoi limiti. L‟orto diventa così
una forma di resistenza che parte dal “basso”, una denuncia contro il
consumismo e il superfluo, rappresenta passioni in totale contrasto con
quello che il capitalismo intende e persegue.
Orto quindi come re-interpretazione di un capitale culturale
appartenente al passato ma soggetto alle contraddizioni ed alle
necessità dell‟attuale mondo sociale. Ci si vuole riappropriare di
qualcosa che si è perso: essere di nuovo produttori reali di necessità
valoriali.
La speranza è quella di vedere sempre più orti urbani nelle nostre
città. C‟è un bisogno latente che l‟esperienza del verde prenda
nuovamente possesso dell‟asfalto e che i tempi e gli spazi siano di
nuovo reinventati a misura d‟uomo.
Concludo ringraziando tutti coloro che mi sono stati vicino e che mi
hanno aiutato in questo mio percorso. Grazie.
72
Bibliografia
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Elèuthera, 2009.
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