U N I V E R S I T À D E G L I S T U D I D I M I L A N O Facoltà di Scienze Politiche – Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Mediazione Linguistica e culturale
T R A S T E P H E N K I N G E J O E R . L A N S D A L E : R O M A N Z I D I F O R M A Z I O N E A M E R I C A N I
Relatore: Prof. Mario Maffi
Elaborato finale di: Federico Vegetti
Matr. N° 629949
A n n o A c c a d e m i c o 2 0 0 4 / 2 0 0 5
3
Ringraziamenti
Alla mia famiglia: grazie di tutto.
Ai miei amici di sempre e a tutte le persone conosciute negli ultimi quattro
anni.
Al professor Mario Maffi, per i suoi insegnamenti e il suo appoggio.
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INDICE
1. INTRODUZIONE 6
2. BILDUNGSHOW 11
3. STORIE DI INFANZIA E DI MORTE: DA STAND
BY ME A LA SOTTILE LINEA SCURA 15
4. CASTLE ROCK E DEWMONT: L’IDILLIO E LA
WILDERNESS NELLA SMALLTOWN 21
5. STADIO DI MARGINE: L’IDILLIO E LA
WILDERNESS NELLA NATURA 25
6. IL TRENO NELLA VALLE ADDORMENTATA 31
7. MORTE E RINASCITA: LA FINE DELLA STORIA 45
8. BIBLIOGRAFIA 55
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Introduzione Molte storie parlano della fine dell’infanzia e dell’inizio dell’adolescenza.
Molte persone sorridono pensando a quei momenti, che, quasi per una coincidenza,
restano nitidi nella mente di tutti come pochissimi altri ricordi sono capaci. Momenti,
sensazioni, facce e nomi di vecchi amici, colori più o meno sbiaditi tornano alla mente
come un suono che arriva da lontano, pronti ad essere riversati su carta o pellicola da
chiunque ne senta il bisogno.
Nella storia della letteratura, in molti ci hanno provato. Per alcuni i ricordi sono belli, per
altri terribili.
Per tutti, impossibili da cancellare.
Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, perché le parole le immiseriscono – le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lanciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portar via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare.1
Questo è il pensiero di Gordon Lachance, scrittore immaginario che racconta la fine della
sua innocenza ne Il corpo di Stephen King, novella un po’ atipica di un autore il cui nome
viene associato più che altro a romanzi dell’orrore. Leggendo le parole riportate sopra,
viene da pensare che King abbia messo molto di se stesso tra quelle pagine. E in effetti è
ispirato ad un fatto realmente accadutogli da bambino.
Nel 1986, Rob Reiner ne trae un film, intitolato Stand by Me, che diventa abbastanza
famoso pur senza mai trasformarsi in un classico. Un film sentimentale, che mette la
natura in primo piano e non pretende di sfruttare la fama dello scrittore del Maine,
risultando a tratti molto più «tranquillo» del racconto originale, e mettendo in luce la
caratteristica di questo che lo rende un’opera unica nella bibliografia di King: il fatto di
essere un racconto di formazione.
1 S. KING, Il corpo, Stand by me, in S. KING, Stagioni diverse, Sperling & Kupfer, Milano, 1987, p. 339
7
Molto gotico, impregnato di quegli elementi che Leslie Fiedler riconosce come propri del
«romanzo nero»2 che negli ultimi secoli si è sviluppato nel nuovo mondo, Stand by Me ci
mostra un rito di passaggio in maniera alquanto nitida, senza bisogno di espedienti
narrativi secondari. La storia, nel racconto e nel film, non vuole essere una metafora per
raccontare un passaggio di età, essa vuole mostrarci questo passaggio così com’è. Per
questo l’opera di King e il film che ne è stato tratto sono due elementi culturali
importantissimi all’interno di un genere letterario abbastanza conosciuto, che ha avuto la
sua fortuna in Europa seguendo le intricate vie del romanzo sentimentale. Ma non solo.
Nel 2003 viene pubblicata negli Stati Uniti l’ennesima opera di uno scrittore texano che da
qualche anno a questa parte sta suscitando un interesse sempre maggiore tra il pubblico
americano ed europeo. Lo scrittore si chiama Joe R. Lansdale ed il romanzo è intitolato La
sottile linea scura.
C’è molto Stand by Me in quest’opera, che infatti viene subito accostata a quelle di altri
autori che, come Mark Twain, hanno creato e sviluppato il romanzo di formazione
americano. C’è così tanto dello spirito con cui King scrisse il suo racconto sul rituale di
passaggio da far pensare ad una sua riscrittura in chiave “anni duemila”, fatta non a caso
da un altro autore che guarda molto al gotico e allo spaventoso.
Può non essere un caso, o forse sì. Certamente, al fine di meglio comprendere certe
tematiche proprie del romanzo di formazione americano, occorre fare delle premesse.
Prima tra queste, la totale ed inevitabile differenza tra esso ed il bildungsroman europeo,
ampiamente analizzato da Franco Moretti nel suo saggio Il romanzo di formazione.
Citando l’autore:
Colgo l’occasione per motivare, per quanto brevemente, una doppia esclusione, che non sarebbe dispiaciuta al generale De Gaulle: del romanzo russo […] e del romanzo americano (completamente assente). Per la Russia, la ragione sta nel permanere di una fortissima dimensione religiosa […], sicché l’esistenza individuale acquista senso seguendo vie inimmaginabili nel mondo pienamente secolarizzato del romanzo di formazione europeo-occidentale. Ciò vale anche per la narrativa americana, dove per di più la «natura» conserva un valore simbolico estraneo alla tematica fondamentalmente urbana del romanzo europeo; e dove l’esperienza decisiva, a differenza che in Europa, non mette a confronto con lo «sconosciuto», ma con l’«alieno» - indiano, nero o «selvaggio» che sia.3
2 L. FIEDLER, Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano, 1983, pp. 159-160 3 F. MORETTI, Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino, 1999, p. 3
8
Moretti esclude tre elementi dal romanzo di formazione europeo, che sono quelli che a noi
interessano di più: la dimensione religiosa, il ruolo della natura e il rapporto con l’alieno.
Per analizzare queste tematiche, in una cultura molto più giovane di quella del vecchio
continente, occorrerà dunque cercare un riferimento antropologico che possa permettere di
comprendere più facilmente la loro presenza nelle opere prese in considerazione.
Con questo obiettivo, I riti di passaggio di Arnold Van Gennep offre un ottimo punto di
partenza per una serie di riflessioni non eccessivamente circoscritte all’ambito
antropologico, permettendoci così di comprendere il valore dei suddetti elementi
all’interno della narrativa americana.
Occorre però fare una precisazione: quando Moretti parla di «dimensione religiosa» si
riferisce prima di tutto al romanzo russo. Per quello americano è necessaria una
definizione più ampia, che sposti l’attenzione dall’elemento religioso a quello spirituale.
In entrambi i casi si prenderanno le distanze dal «mondo pienamente secolarizzato» del
romanzo europeo, ma così facendo si eviterà di dare troppa importanza ad un fattore che
compare solo in alcuni episodi della narrativa americana e che, generalmente, non è
proprio del genere letterario a cui si fa ora riferimento.
Il concetto di sacro, nella letteratura statunitense, non sempre è applicato secondo i rigidi
canoni religiosi della cultura europea, e quando ciò accade è sempre all’interno di
determinate società particolari che non rappresentano certo la totalità della cultura del
paese. Ciò significa che, sebbene il cristianesimo sia la religione più importante negli Stati
Uniti, e la sua presenza venga resa ancora più visibile dai piccoli e grandi estremismi
presenti nelle varie dottrine, essa non ha quell’importanza «assoluta» che ha invece in
Europa; piuttosto, essa convive con i tantissimi elementi rituali più o meno legati alla
natura che assieme compongono la grande differenza che c’è nel mondo sacro tra il
vecchio e il nuovo continente.
Anche Van Gennep affronta la questione del mondo religioso, sostenendo come
all’interno delle società moderne, riferito a quelle degli stati europei, esso sia l’unica
società particolare ad essere separata in maniera abbastanza netta da quella generale. Con
il termine società particolari l’autore si riferisce a tutte quelle categorie che, pur
mantenendo delle proprie caratteristiche spesso diverse e indipendenti le une dalle altre,
vanno a formare il grande insieme/contenitore che è la società generale, intesa questa
come una grande casa all’interno della quale, per passare da una stanza all’altra, è
9
necessario compiere alcuni riti. Questi, però, avranno una valenza cerimoniale solamente
quando si avrà a che fare con il mondo sacro, caratterizzato secondo Van Gennep da una
grande «incompatibilità» con quello profano. Tutti gli altri passaggi da una società
all’altra avranno quindi «una base esclusivamente economica o intellettuale»4: saranno
cioè meno evidenti, tutti facenti parte di una rosa di comportamenti tipici del vivere
comune. Gli atti speciali, si avranno dunque solo all’interno del mondo sacro.
A questo si riferisce Moretti quando parla del «mondo pienamente secolarizzato del
romanzo di formazione europeo-occidentale» (dando per scontato che le sue
rappresentazioni siano tutte all’interno della società laica). E qui sta la differenza con
quello americano: le sue pagine sono piene di riferimenti metaforici a rituali che, pur non
sfociando nel cerimoniale, non sono nemmeno assimilabili al comune vivere urbano.
Entra dunque in gioco la wilderness, la natura selvaggia, che di volta in volta ha il compito
di rappresentare o lo «stadio di margine»5 o il territorio inospitale che è la vita fuori
dall’idillio della smalltown, metafora della gioventù. Avventurarsi dentro di essa ha
dunque una funzione rituale nemmeno tanto velata nei numerosi romanzi e racconti che
narrano del passaggio di un giovane personaggio dall’infanzia all’adolescenza, o
dall’adolescenza all’età adulta. In ogni caso, la natura avrà un ruolo fondamentale nella
formazione del protagonista, e questo ruolo non può che essere dovuto a una connotazione
spirituale, a volte animistica, che essa ha nella cultura americana.
Come terzo elemento citato da Moretti abbiamo il rapporto con l’alieno. E qui il discorso
antropologico si fa piuttosto labile.
Nel saggio di Van Gennep si parla di straniero, ma tutti i rituali legati a esso sono
finalizzati alla sua integrazione nella società e al cambiamento di prospettiva della società
stessa nei suoi confronti. Nella narrativa americana il rapporto con lo straniero è cosa
piuttosto comune a ogni genere letterario, ma è nel romanzo di formazione che esso
assume una caratteristica simbolica notevole (un esempio di questo simbolismo affiora a
tratti dalle pagine de Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, forse primo
esempio, anche se piuttosto anomalo, di romanzo di formazione americano). Per questo,
per il valore cioè che ha il rapporto con l’alieno nelle pagine della narrativa degli Stati
4 A. VAN GENNEP, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino, 1981, p. 4 5 ibid., p. 16
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Uniti, daremo altrettanta importanza a un diverso elemento dalle caratteristiche molto
simili ma allo stesso tempo più proprie del romanzo nero: il rapporto con la morte.
Tutti questi elementi sono presenti nelle opere che verranno prese in considerazione.
Dichiariamo però subito che questo scritto non intende essere un saggio sul romanzo di
formazione americano, ma solo l’analisi di alcuni oggetti culturali, molti dei quali hanno o
ebbero in passato un grande successo di pubblico. Per cominciare, quindi, andiamo al
cinema.
11
Bildungshow Chiunque sia nato a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 sa cos’è una DeLorean.
Quest’auto, dalla linea sportiva e fortemente legata ai canoni estetici del decennio di
Ronald Reagan e delle scarpe Timberland, è conosciuta da un’intera generazione per una
«particolarità» non certo diffusa tra i comuni mezzi di trasporto: la capacità di viaggiare
nel tempo.
Questo è ciò che sicuramente affascinò le migliaia di persone che nel 1985 andarono al
cinema a vedere Back to the Future (Ritorno al futuro) di Robert Zemeckis, primo
capitolo di una fortunata trilogia conclusa nel 1990 e mai dimenticata.
Naturalmente non era la prima volta che nel cinema si parlava di viaggi nel tempo, ma la
storia del giovane Marty McFly, catapultato nel 1955 a bordo della time machine a
plutonio costruita dal dottor Emmet «Doc» Brown con una DeLorean, appassionò così
tanta gente da trasformare il film in uno dei più grandi campioni di incassi di tutti i tempi.
Ma è sul giovane protagonista che focalizzeremo la nostra attenzione. Marty (interpretato
da Michael J. Fox) ha diciassette anni, ed è un loser. La sua esistenza è frustrata
dall’insicurezza e dalla totale mancanza di carattere del padre che incombono come
ombre sul suo futuro, non molto attraente, nella cittadina di Hill Valley. Il suo modo di
reagire all’insicurezza lo rende un good bad boy che arriva sempre in ritardo a scuola, si
attacca dietro alle auto con lo skateboard e non sopporta di essere chiamato «fifone».
Rappresenta, per certi versi, la disillusione dell’irrealizzato sogno americano durante la
crisi economica dei primi anni ottanta. Si sente inadeguato, in quel microcosmo che è Hill
Valley, al punto di farsi amico un altro eccellente outsider di paese, uno scienziato
ossessionato dal futuro e dalle invenzioni impossibili, considerato pazzo e lasciato solo
da tutti tranne che dal suo cane e, appunto, da Marty. Insieme, i due protagonisti
abbandoneranno per un po’ l’illusione dell’idillio suburbano per inoltrarsi nella
wilderness, e dare così un senso alla propria vita.
Certo, non si troveranno dispersi nel bosco o nel deserto, o abbandonati tra le montagne
innevate, e non saranno costretti a lottare per la propria sopravvivenza in una terra
selvaggia. A dire il vero, usciranno raramente da Hill Valley, e quando lo faranno sarà
più per motivazioni «logistiche» che simboliche (si prenda ad esempio la spettacolare
scena di Back to the Future Part III in cui il Doc del 1955 sceglie come luogo dove
permettere a Marty di effettuare indisturbato il passaggio del tempo un fantomatico drive-
12
in nella Monument Valley, con un plotone di guerrieri indiani dipinto sul muro.
Compiuto il viaggio temporale, e raggiunto l’anno 1885, il protagonista si troverà davanti
a un vero plotone di indiani posizionati esattamente dove nel 1955 c’era, o ci sarà, il
muro del drive-in. Tra le altre cose, questa scena offre anche un interessante spunto di
riflessione sul rapporto tra realtà e rappresentazione della realtà che rimanda a certi film
di Martin Scorsese).
La wilderness che i due viaggiatori del tempo si troveranno ad affrontare sarà dunque
qualcos’altro, qualcosa di meno ovvio ma altrettanto significativo, come la giungla
metropolitana di New York de Il giovane Holden. Potremmo chiamarla «wilderness
temporale», in quanto le sue peculiarità di territorio inospitale e pericoloso consisteranno
nelle difficoltà dei protagonisti di agire (e spesso anche di sopravvivere) all’interno di
contesti culturali «passati» o futuri.
L’atto dell’uscire dal cerchio, oggetto simbolico che Francesco Dragosei ci dimostra
essere presente nella stragrande maggioranza delle opere partorite oltreoceano6, non
consiste qui nell’uscire fisicamente dalla smalltown. Piuttosto, di uscire dal modo di
vivere del proprio tempo (in un certo senso, dalla propria casa = home), da tutte le
certezze della quotidianità e della «normalità», per slittare a una dimensione alternativa,
dove tutto è uguale ma tutto è diverso. Il senso di straniamento che Marty prova quando
per la prima volta vede la sua città nel 1955 si può trovare in tutti i film e libri che
parlano di esplorazioni, di luoghi misteriosi e quasi sempre pericolosi. L’apice di questo
discorso viene raggiunto nel terzo episodio della saga, quando Hill Valley, nel 1885, si
mostra per quello che è: un territorio di frontiera, tra mito e realtà, che conserva tutti gli
stereotipi e le inquietudini del genere western. Qui per la prima volta i protagonisti
saranno in una situazione di reale pericolo, e finalmente si potrà verificare l’«esperienza
decisiva» che li porterà a concludere il proprio viaggio.
La conclusione stessa, il ritorno a casa, presenta un elemento molto importante, su cui
torneremo in seguito: il treno.
Se l’esempio di Back to the Future può sembrare un raro caso di presenza di alcuni
elementi del romanzo di formazione americano in un blockbuster di Hollywood, basta
cercare tra i film per adolescenti degli anni ’80 per trovarne subito un altro.
6 F. DRAGOSEI, Lo squalo e il grattacielo, Miti e fantasmi dell’immaginario americano, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 11
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In Karate Kid, di John G. Avildsen, il protagonista Daniel LoRusso ha difficoltà a
integrarsi nella nuova città dove si è trasferito con la madre. La sua condizione di
outsider è palesata da una serie di atti di bullismo che un gruppo di ragazzi abituali
frequentatori di una grottesca scuola di arti marziali compiono ai suoi danni. L’unica
possibilità di riscatto per il giovane Daniel consiste nell’imparate il karate, da un lato per
riuscire a difendersi e farsi rispettare, dall’altro per dimostrare l’avvenuta maturazione di
un senso di appartenenza all’ambiente circostante, rappresentata dalla sua love story con
una ragazza.
La persona che gli permetterà di imparare il karate e di compiere così il rito di passaggio,
è il vecchio Miyagi. Originario dell’estremo oriente, l’uomo dall’oscuro passato dichiara
di essere il discendente della famiglia che ha creato il karate, trasformandosi così
nell’essenza stessa del rito, nel fulcro attorno a cui ruota la formazione di Daniel. Ma non
solo. La figura di Miyagi rappresenta anche l’estraneo, il portatore di una cultura
alternativa, in rapporto alla quale il giovane può imparare a conoscere se stesso e a
confrontarsi con il mondo.
In Karate Kid sono presenti diversi elementi che innalzano il protagonista a figura eroica
dell’immaginario americano. In primo luogo il suo ingresso nella wilderness,
rappresentata dalla nuova città dove il ragazzo si trasferisce. Anche qui, come in Back to
the Future, la smalltown ha una chiave di lettura diversa a seconda della situazione: da
dentro a fuori dal cerchio, da «casa» dove il protagonista è al sicuro a luogo pericoloso, in
cui egli è continuamente oggetto della violenza degli abitanti. Il suo ingresso in essa (e
quindi l’uscita dal cerchio) ha già di per sé una valenza rituale molto forte (il già citato
«stadio di margine» su cui torneremo in seguito), ma perderebbe ogni funzione se il
protagonista ne uscisse sconfitto, rinunciando quindi all’occasione di trasformarsi in un
eroe. Unico suo sostegno, una forma di combattimento che, come più volte si insiste nel
film, «non serve per attaccare, ma per difendersi», un’arte marziale che usa i pugni,
simbolo secondo Dragosei dell’innocenza e della lealtà che l’eroe americano deve
necessariamente dimostrare7. Inoltre Daniel vive solo con la madre, e impara il karate
grazie ai famosi insegnamenti di Miyagi. Questo personaggio ha dunque una doppia
valenza: di «straniero» (o «alieno») con cui il giovane si deve rapportare, e di figura
7 ibid., p. 96
14
paterna destinata a trasmettere dei codici al ragazzo, una specie di biglietto con il quale
egli potrà entrare nel mondo degli adulti.
Finora abbiamo trattato storie di adolescenti che compiono viaggi nella wilderness e
imparano a combattere a mani nude per trasformarsi in eroi. Più che di romanzo di
formazione questi film parlano di self reliance, attraverso vicende che mettono alla prova
il coraggio e l’abilità del protagonista nell’affrontare le più ostili situazioni, e lo premiano
alla fine con il successo personale.
E’ interessante però notare come gli elementi caratteristici siano sempre gli stessi, ed è
strano e bello ritrovarli in due opere che di eroi proprio non parlano.
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Storie di infanzia e di morte: da Stand by Me a La sottile linea scura Nel 1986, diretto dal regista Rob Reiner, esce Stand by Me (completato nell’edizione
italiana dal sottotitolo Ricordo di un’estate), primo film in assoluto a prendere in
considerazione un racconto facente parte della produzione «realistica» di Stephen King.
Si tratta di The Body, novella presente nella raccolta intitolata Different Seasons, nella
quale lo scrittore del Maine narra quattro storie ispirate, per atmosfere ed ambientazioni,
ognuna a una diversa stagione dell’anno.
Il ruolo di The Body è quello di rappresentare l’autunno, e il tema che King sceglie per
raccontarlo è la perdita dell’innocenza. Non è un caso che il periodo scelto per affrontate
un argomento così profondamente introspettivo ed in parte ambiguo sia una fase di
transizione, un tempo caratterizzato da condizioni climatiche incerte e mutevoli, una fase
di passaggio da una stagione idilliaca, l’estate, a una stagione fredda ed immobile,
caratterizzata per un ragazzo dalla scuola e dalla routine.
King cerca di ricostruire il modo di pensare di un dodicenne, un ragazzino che sta per
affacciarsi all’adolescenza, e per farlo parte da quella sensibilità tipica dell’infanzia di
associare le condizioni climatiche a una serie di sensazioni e di pensieri ricorrenti che,
con l’andare del tempo, mantengono la memoria ben ancorata al momento in cui i fatti
ricordati sono successi. Ma la necessità di una tale introspezione obbliga l’autore a
riscrivere se stesso, basandosi su un fatto a lui realmente accaduto e creandosi un alter
ego su misura attraverso cui filtrare gli avvenimenti narrati, quasi per non rischiare di
apparire troppo autobiografico.
Nel film l’adulto Gordon Lachance è interpretato da Richard Dreyfuss, che compare
subito intento a compiere quell’azione ricorrente che coinvolge autore reale ed autore
implicito in un continuo scambio di identità: ricordare. Sembra quasi che il regista abbia
introdotto questa scena per mostrarci Stephen King stesso, ampliando la cornice
introduttiva, che nel racconto si limita a poche frasi, e trasformandola in un momento di
nostalgica preparazione per un ritorno al passato. Le note di sottofondo sono quelle di
Stand by Me, classico degli anni ’60 che qui assume il ruolo di «macchina del tempo», a
cui è affidato il compito di creare la giusta connessione con il passato, con quel 1960 che
fa da sfondo alla vicenda narrata. Gordon Lachance è seduto in macchina, fermo in
mezzo ai campi, al tramonto. Il suo sguardo è carico di malinconia; la sua voce, che
soffre nel doppiaggio italiano di un tono eccessivamente documentaristico, comincia a
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recitare alcune frasi di quello strano primo capitolo del racconto, di quei due capoversi
che hanno quasi il sapore di una giustificazione, da parte dell’autore, per essersi lasciato
sfuggire così tanto di se stesso.
Occorre ora specificare che la storia di Stand by Me e quella di The Body non sono
identiche. Alcune parti (e alcuni dialoghi) sono riprese fedelmente ed adattate in modo
molto preciso, mentre altre sono state modificate, in alcuni casi eliminate. E’ importante
però precisare che le piccole o grandi differenze che ci sono non vanno a intaccare i temi,
i simboli e soprattutto i messaggi presenti nella novella di King. Esse sono state
introdotte, si pensa, per rendere la storia più «cinematografica», senza alcuna volontà di
snaturarne la trama, da parte di un regista che porta comunque molto rispetto verso lo
scrittore di Bangor (ha chiamato la sua casa di produzione Castle Rock) e che ha diretto,
nel 1990, un altro film tratto da una sua opera, Misery non deve morire. Si parlerà quindi
degli elementi comuni a carta e pellicola senza farne distinzione, mentre in altri casi verrà
specificato. La storia presa in esame sarà comunque quella del film, molto più essenziale
e «carica» rispetto al racconto.
Gordie, Chris, Teddy e Vern sono quattro ragazzi di dodici anni, che passano le giornate
in una casa su un albero a giocare a carte, fumare sigarette e leggere fumetti. Vivono a
Castle Rock, nell’Oregon (nel racconto la cittadina si trova, come in quasi tutti i romanzi
di King, nel Maine), e hanno trascorso ogni giorno d’estate più o meno nella stesso modo,
con in sottofondo i vecchi classici degli anni ’50 trasmessi dalla radio KLAM di Portland.
Una vita normale per quattro ragazzini del 1960, in una cittadina piccola e rassicurante,
dove tutti si conoscono e dove il destino di ognuno è già un po’ deciso: il padre di Chris è
un alcolizzato, il fratello maggiore Eyeball è un teppista, e tutti si aspettano che anche lui
farà la stessa fine. Teddy è figlio di un veterano paranoico, ed è molto attaccato alla
figura del padre nonostante questi sia stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico dopo
avergli ustionato gravemente le orecchie. Come previsto, Teddy a volte si comporta in
modo strano, e in molti pensano che sia matto. Vern è decisamente meno intelligente
degli altri suoi amici e, come nel caso di Chris, è anche lui fratello di un bullo di
quartiere.
L’unico dei quattro a non venire bollato dagli abitanti di Castle Rock come una futura
nullità è Gordon, il protagonista e futura voce narrante, che però nel momento in cui si
svolge la storia sta scontando la propria invisibilità tra le quattro mura di casa. I genitori,
17
infatti, vivono da mesi sconvolti per la morte del fratello maggiore di Gordie, avvenuta
prima dell’estate mentre questi si trovava in un campo di addestramento reclute. Danny,
questo è il suo nome, è l’immagine perfetta del vincente, primogenito su cui soprattutto il
padre aveva riposto tutte le aspettative di una vita. Venuto a mancare lui, sulle spalle del
giovane protagonista si è accumulata di colpo una pesante eredità, che gli procura un
forte senso di inadeguatezza spingendolo con forza tra le braccia degli amici, alla ricerca
di una spensieratezza ormai inesistente in famiglia.
E’ Vern, la mattina del venerdì prima del «Labor Day», a comunicare loro la notizia: suo
fratello Billy ed il suo amico Charlie Hogan hanno trovato il corpo di Ray Brower,
ragazzino di dodici anni del vicino paese di Harlow, scomparso qualche giorno prima
dopo essersi addentrato nei boschi per raccogliere mirtilli. I quattro decidono dunque di
andare alla ricerca del corpo con l’intento di consegnarlo alle autorità, vista l’intenzione
di Billy e di Charlie Hogan di non dire niente a nessuno. Inizia così il viaggio che per
Gordie e Chris segnerà l’iniziazione al mondo degli adulti, attraverso una serie di episodi
significativi che li porteranno a raggiungere una maggiore consapevolezza di se stessi e
di ciò che sta fuori dalla città, dall’estate e dall’infanzia.
Su questi episodi si tornerà in seguito. E’ interessante però notare come essi si
susseguano l’uno all’altro in modo lineare, seguendo un intreccio molto simile a quello di
un grande «classico» della letteratura americana: The Adventures of Huckleberry Finn.
Come già dichiarato in precedenza, l’opera di Mark Twain è considerata uno dei primi
esempi di romanzo di formazione americano, completo di tutte le caratteristiche che ne
segnano il distacco da quello europeo. Il viaggio del giovane Huck lungo il fiume
Mississippi è carico di simboli ed immagini significative: la wilderness che il giovane
protagonista sceglie di attraversare per scappare da una realtà falsa ed opprimente funge
anche da «stadio di margine»; il rapporto con il nero Jim gli permette di compiere nel
momento decisivo una difficile scelta che lo costringe a confrontarsi con i valori morali
della società in cui vive; la sua decisione finale di andare verso il «Territorio» sa tanto di
«patto tra individuo e mondo»8 che Moretti ritiene necessario per considerare completata
la formazione del personaggio (nonostante rimanga un finale ambiguo, è da vedere
tenendo conto della grande differenza storica tra Europa e Stati Uniti: Moretti riconosce
nel matrimonio e nella famiglia le raffigurazioni del «possibile patto sociale» che porta il
8 F. MORETTI, op. cit., pp. 25-26
18
protagonista del romanzo europeo a trovare un senso alla propria vita rinunciando a parte
della libertà ma creando un «nesso», entrando cioè a far parte della società. Negli Stati
Uniti, nati da un bisogno utopico di libertà dove l’andare verso territori inesplorati è stato
per secoli l’unico gesto da compiere per scappare dalle oppressioni della società corrotta,
la scelta di Huck è perfettamente condivisibile in quanto compiuta per rilanciare la
propria identità, rifiutando di rimanere in un ambiente dove sarebbe condannato a essere
un outsider per sempre, e allo stesso tempo evitando di annullare la propria personalità in
favore del vivere sociale).
Nonostante queste somiglianze, però, il romanzo di Mark Twain è considerato il più
grande esponente di un altro genere letterario, facente parte della narrativa di viaggio: il
romanzo picaresco.
Un protagonista che vive alienato dalla società, spesso senza lavoro e senza grandi
aspettative, si trova coinvolto in un’avventura, generalmente un viaggio, che lo porterà a
un’evoluzione personale. Si parte quindi con dei personaggi outsiders e li si trasforma in
consapevoli eroi di se stessi, ponendoli dall’inizio come nemici dei peggiori valori
borghesi. Ciò che rende diverso Huckleberry Finn da questo genere letterario, risiede
però ancora una volta nel protagonista: non un qualsiasi disadattato reso cinico dalla vita
e rassegnato a vivere di espedienti, ma un ragazzino che dovrebbe in teoria essere ancora
illuso e sognatore, proprio come il suo compagno/amico Tom Sawyer. Un ragazzino che
ha molti soldi ma che sceglie da subito di negarsi certe possibilità, vivendo nell’ignoranza
e nella superstizione; non più un eroe antiborghese bensì un antieroe a tutti gli effetti. Un
protagonista che già conosce come vivere, il cui unico ostacolo è che ancora non conosce
il mondo.
Gli episodi che gli accadranno durante la sua avventura lo trasformeranno, gli forniranno
quella conoscenza che all’inizio non ha, e gli permetteranno di vivere come un adulto.
Proprio questi episodi sono il fulcro del romanzo picaresco. Il fatto stesso che ci siano, e
siano posizionati in modo lineare, uno dopo l’altro, caratterizza Huckleberry Finn. Ma
una struttura quasi identica, è presente in Stand by Me. I protagonisti di entrambe le storie
viaggiano all’interno della wilderness in modo rettilineo, percorrendo un sentiero già
esistente (la ferrovia nel racconto di King, il fiume Mississippi nell’opera di Twain) e
oltrepassando gli ostacoli che di volta in volta si presentano loro. Questi ostacoli sono
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disposti in progressione, e loro non devono fare altro che proseguire ogni volta,
addentrandosi nella storia, per raggiungere il finale.
Molto meno palese, è invece il percorso che dovrà affrontare un altro ragazzo, entrato da
poco nella letteratura americana: il suo nome è Stanley Mitchell Jr., vive a Dewmont, in
Texas, ed è il protagonista de La sottile linea scura, di Joe R. Lansdale.
Nell’estate del 1958, quando si svolgono i fatti narrati, Stanley ha tredici anni, e per sua
stessa ammissione vive ancora nel pieno dell’ingenuità che caratterizza gli anni prima
dell’adolescenza:
Io avevo tredici anni, ed ero il più giovane del clan dei Mitchell. Non che fossi poi un tredicenne tanto sveglio: la mia conoscenza delle cose del mondo era pari a quella che un maiale può avere di posate e galateo. E di cosa fosse il sesso, non avevo la benché minima idea. Dispiace dirlo, ma avevo appena smesso di credere a Babbo Natale, e la cosa ancora mi faceva andare in bestia. La verità su questa faccenda, me l’avevano detta alcuni compagni di scuola sei mesi prima che ci trasferissimo a Dewmont, e da parte mia la questione era andata a finire in rissa con Ricky Vandermeer. Me n’ero tornato a casa con una guancia malridotta, un occhio nero, zoppicante: un fracco di botte, in sostanza.9
A differenza di Gordie Lachance e i suoi amici, che vengono visti già dalla prima volta
intenti a emulare alcuni comportamenti del mondo degli adulti per dimostrare agli altri,
ma anche a se stessi, una maturità non ancora raggiunta, il tredicenne Stanley è carpito al
margine di un’infanzia dilatata, giustificata in parte dall’ambiente: nel momento in cui si
svolgono i fatti narrati da Lansdale la famiglia Mitchell si è appena trasferita a Dewmont
da una città ancora più piccola il cui nome sembra quasi messo lì a indicare la disillusa
tranquillità delle piccole comunità del Texas orientale: No Enterprise. La paura
dell’ignoranza e dell’ingenuità saranno utili al giovane protagonista per acquisire un
metodo che gli permetterà di soddisfare in modo pragmatico la propria curiosità: il
romanzo, infatti, è composto da un intreccio che a tratti sembra quello di un noir, genere
in cui comunque Lansdale si è spesso cimentato.
Se Stand by Me è strutturato a episodi, disposti l’uno dopo l’altro in progressione su una
linea retta come il tracciato di una ferrovia, e in Huckleberry Finn le avventure del
giovane «picaro» Huck seguono la corrente del Mississippi, ne La sottile linea scura ci si
trova alle prese con un’intricata serie di indizi che arrivano dal passato e danno 9 JOE R. LANSDALE, La sottile linea scura, Einaudi, Torino, 2004, p. 9
20
l’impressione di voler celare qualcosa che non deve tornare a galla: una mattina,
giocando con il suo cane fuori dal drive-in dove la famiglia Mitchell vive e lavora,
Stanley trova uno strano cofanetto pieno di vecchie lettere d’amore, che scopre essere in
qualche modo arrivato da una casa bruciata e ricoperta dalla vegetazione che sta in un
bosco nelle vicinanze. Questo oggetto, apparentemente senza valore, sarà per il giovane
protagonista la chiave che gli permetterà di entrare in un nuovo modo di vedere le cose:
per primo rinnoverà il rapporto con la sorella Caldonia, di sedici anni, che tramite
imbarazzate spiegazioni farà scoprire al fratello l’esistenza del sesso e del suo valore
nella vita delle persone. Quando poi verrà mostrato anche a Buster, il vecchio
proiezionista di colore che lavora nel drive-in, esso aprirà a Stanley le porte di altre,
spesso brutali, verità al di fuori dell’idillio dell’infanzia: la morte, il razzismo, la
violenza.
Un unico oggetto, contenente tutto un mondo che per Stanley era, fino a poco tempo
prima, assolutamente impensabile. Un moderno vaso di Pandora, che intacca l’innocenza
e la corrompe con la realtà.
21
Castle Rock e Dewmont: l’idillio e la wilderness nella smalltown Nonostante l’evidente differenza di intreccio, La sottile linea scura ha molti punti in
comune con Stand by Me: primo su tutti, la scelta di ambientare entrambe le opere alla
fine degli anni Cinquanta (più precisamente, nel 1958 il primo, e nel 1960 il secondo).
Nel caso di Stephen King la scelta sembra quasi obbligata, essendo lui nato nel 1946:
risulta logico che l’autore, nello scrivere un racconto sul passaggio dall’infanzia
all’adolescenza, abbia scelto di ambientarlo nel periodo in cui egli stesso aveva quell’età.
Le descrizioni sono infatti molto precise: titoli di canzoni e di fumetti compaiono a volte
con lo scopo quasi di ribadire la veridicità della storia raccontata, e di immergere ancora
di più il lettore nell’atmosfera del 1960. Un po’ diverso il discorso riguardante Lansdale:
l’autore è nato nel 1951, quindi nel periodo in cui avverrebbero i fatti raccontati ne La
sottile linea scura aveva sette anni; inoltre in una nota introduttiva al romanzo egli, forse
per evitare malintesi, specifica l’assenza di intenti autobiografici:
Film, musica e certi avvenimenti citati nel libro sono proprio quelli del 1958, ma la trama del romanzo mi ha costretto a ravvicinare certe date che li riguardano. Vogliate perdonarmi questa infrazione. La città di Dewmont e il Dew Drop Drive-in me li sono inventati io, e a quanto ne so non esistono. Se mai dovessero esistere, non hanno alcun legame con le mie invenzioni narrative. Certi passaggi del romanzo si ispirano a situazioni autobiografiche, ma sono un puro e semplice pretesto e non intendono certo raffigurare fatti o persone reali.10
Stesso periodo, dunque, ma non stessi intenti narrativi: un autore racconta se stesso, l’altro
tiene a specificare la trascurabilità delle poche situazioni autobiografiche. In entrambi i
casi, però, siamo a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, in un epoca di passaggio tra
l’«idillio» consumistico del boom economico e l’aperta contestazione sociale. Come se la
«perdita dell’innocenza» dei protagonisti di questi racconti sia una metafora dell’acquisto
della consapevolezza da parte della classe media.
Non a caso, un altro fattore comune alle due opere è la smalltown, anch’essa
rappresentativa dell’idillio del conformismo culturale e sociale. Lo spostamento della
classe media nei suburbs inizia infatti durante il periodo di slancio economico degli anni
Cinquanta (un esempio lampante è Happy Days, serie televisiva celebre in tutto il mondo
ambientata in quegli anni a Milwaukee), ed occorrerà poco tempo prima che la psicosi da
10 ibid.
22
Guerra Fredda trasformi la town in un’isola minacciata dalla wilderness fuori dal cerchio
(Invasion of the Body Snatchers, di Don Siegel, è del 1956).
Castle Rock e Dewmont sono dunque rappresentate in un periodo in cui la piccola città ha
un ruolo molto forte di microcosmo sociale, al di fuori dal quale il pericolo si annida
dentro ogni anfratto. Il male può arrivare dallo spazio (come appunto nei Body Snatchers
e in alcune scene di Back to the Future) ma può anche essere creato dall’uomo (come il
treno che uccide Ray Brower); spesso il male è lo straniero (o l’alieno), come il nero
Bubba Joe ne La sottile linea scura, che più volte insegue Stanley con intenti poco
rassicuranti, ma può essere anche frutto della natura, come nella scena delle sanguisughe
in Stand by Me.
Ruolo del tutto particolare, in molte storie ambientate nella smalltown, è quello del bullo
di quartiere. Gordie e i suoi amici si troveranno, alla fine del loro viaggio, davanti al
corpo di Ray Brower ad affrontare Ace Merrill per contendergli il merito del ritrovamento
del cadavere dello sventurato ragazzino. A differenza che su pellicola, nel racconto di
King la scena si svolge sotto un violento temporale, per evidenziare forse il valore
catartico del momento, e la compagnia dei ragazzi grandi, capitanata da Ace (di cui fanno
parte anche il fratello di Chris, Eyeball, e Billy e Charlie Hogan, da cui Vern è venuto a
conoscenza della locazione del corpo) sembra essere arrivata sul luogo giusto in tempo
per assumere il ruolo di «prova finale» vivente, mettendo così a confronto Gordie e Chris
con le proprie incertezze, dandogli una possibilità di sconfiggerle (una scena dal valore
simile si trova anche nel primo Back to the Future, quando il giovane George McFly,
padre di Marty, affronta e sconfigge con un pugno in faccia il bullo Biff Tannen,
guadagnandosi così il rispetto nel futuro/presente).
Ace Merrill in Stand by Me impersona l’archetipo del cattivo ragazzo destinato a essere la
nemesi del protagonista, buono e onesto. Una figura assimilabile alla società, che rifiuta
però tutti i valori di lealtà e di correttezza richiesti per diventare un eroe, e per questo
destinato alla sconfitta (è curioso notare come Stephen King sia particolarmente «attratto»
dalla figura del bullo di quartiere, tanto da inserirla nella quasi totalità delle sue opere).
Ne La sottile linea scura una figura del genere non esiste, il rapporto con l’altro è
qualcosa di più effettivo, ambientato comunque in una smalltown un po’ diversa da quella
delle raffigurazioni classiche idealizzate dai media: a Dewmont, Texas, le persone della
classe media non stanno tutto il tempo davanti alla televisione o a tagliare l’erba del prato
23
fuori casa, i ragazzini non passano le giornate in una capanna su un albero ma devono
spesso e volentieri lavorare (l’amico di Stanley, Richard Chapman, sfruttato e
regolarmente picchiato da un padre paranoico che alla fine si scoprirà anche efferato
omicida, Stanley stesso nel drive-in di famiglia), e, soprattutto, le minoranze etniche ci
sono e si vedono. La Section (o Nigger Town) è un quartiere di Dewmont abitato da
afroamericani, dove il giovane protagonista si inoltra per andare a casa di Buster. E’ una
zona povera e malridotta, raramente frequentata da bianchi, dove la vita è molto diversa
rispetto agli ambienti conosciuti da Stanley:
Di colpo, l’aspetto delle querce cambiò. Per la prima volta mi accorsi che gli alberi su Oak Street (così si chiamava), quelli più vicini al centro città, erano potati e ben curati; ma via via che ci si inoltrava all’interno della Section, le querce erano tutte contorte, e parecchie visibilmente malate, con protuberanze annerite. Trascurate, tutte quante, al pari del selciato di mattoni.11
La descrizione del progressivo degrado trasforma il quartiere nero in qualcosa di diverso
dalla classica smalltown mostrata nei telefilm come Happy Days. Si stenta a riconoscere il
rifugio tranquillo e rassicurante della classe media degli anni del boom economico, e certi
elementi particolarmente strani catturano la fantasia del lettore: le querce «contorte», con
le loro «protuberanze annerite», sembrano quelle della foresta ai confini di Salem, dietro a
ognuna delle quali «ci potrebbe essere un Indiano figlio del demonio»12, che Nathaniel
Hawthorne descrive ne Il giovane compare Brown; il cimitero delle persone di colore, con
l’erba alta e le «pietre tombali inclinate a destra e a sinistra», alcune delle quali addirittura
cadute o spezzate, sembra uscito da un film dell’orrore; l’atmosfera generale è abbastanza
atipica per una classica cittadina di provincia americana. E infatti Stanley e Buster non si
trovano più nella smalltown. Sono finiti in quel luogo pericoloso fuori dal cerchio, dove la
minaccia può arrivare da qualsiasi direzione, dove il corpo di Ray Brower sta aspettando
che qualcuno lo ritrovi: sono nella wilderness, entro i confini di Dewmont ma anni luce
dal mondo di Stanley e della middle class bianca degli anni Cinquanta.
A conti fatti, è proprio questo l’elemento, a cui più volte si è accennato, che
contraddistingue maggiormente la narrativa di formazione americana rispetto a quella
europea. La sua presenza nella stragrande maggioranza delle opere prodotte oltreoceano 11 ibid., p. 118 12 N. HAWTHORNE, Il giovane Compare Brown, in N. HAWTHORNE, Opere scelte, Mondatori, Milano, 1994, p. 187
24
non fa altro che confermarne il valore simbolico, che si completa in questo ambito con
un’evidente funzione rituale.
25
Stadio di margine: l’idillio e la wilderness nella natura Il romanzo di formazione, come si è già detto, è una celebrazione della gioventù, e, in
particolare, di quei meccanismi che formano la coscienza e la personalità di ogni
individuo. Non c’è da stupirsi, quindi, che in Europa esso abbia scelto le vie del romanzo
sentimentale, svelando l’adolescenza dei protagonisti attraverso una profonda e seria
introspezione, svolta comunque in rapporto a un preciso sfondo sociale. Non c’è
nemmeno da stupirsi che questo tipo di letteratura abbia scelto negli Stati Uniti la via del
romanzo gotico, andando a sostituire l’elemento dell’amore con quello, molto più oscuro
e se vogliamo «primordiale» della morte. La formazione di ogni personaggio è però legata
in ogni caso all’esperienza, e da questa non si può scindere. E’ necessario che capiti
qualcosa perché il protagonista della storia possa definirsi cambiato, qualcosa che vada a
penetrare nel suo modo di vedere il mondo esterno.
Questo è il rito di passaggio. Un elemento fondamentale che da sempre vive nella cultura
americana e che spesso si ritrova in molte opere che a prima vista sembrano parlare
d’altro. Il rapporto tra la natura e il rituale di passaggio è un argomento che va però oltre
la cultura degli Stati Uniti, e per analizzare questo è prima necessario definire cos’è
secondo Van Gennep, lo «stadio di margine».
Nel suo studio di questi riti, l’antropologo spiega fin dalle prime pagine come essi siano in
realtà divisi in varie categorie e sequenze. Dando per scontato che nell’ambito di questa
riflessione l’interesse sarà focalizzato sui «riti di iniziazione», quelli cioè riguardanti la
pubertà, è utile osservare come Van Gennep divida i riti di passaggio in Riti di
separazione, Riti di margine e Riti di aggregazione. Citando l’autore:
Queste tre categorie interne non sono state sviluppate in ugual misura per una stessa popolazione, né in un identico insieme cerimoniale. I riti di separazione infatti sono stati studiati maggiormente nelle cerimonie funebri, mentre i riti di aggregazione in quelle matrimoniali; quanto ai riti di margine, essi possono costituire una sezione importante, per esempio, nella gravidanza, nel fidanzamento, nell’iniziazione oppure ridursi al minimo nell’adozione, nel secondo parto, nelle seconde nozze, nel passaggio dalla seconda alla terza classe d’età ecc. Se dunque lo schema completo dei riti di passaggio comporta in teoria dei riti preliminari (separazione), liminari (margine) e postliminari (aggregazione), bisogna che nella pratica vi sia un’equivalenza dei tre gruppi, sia per la loro importanza, sia per il loro grado di elaborazione.13
13 A. VAN GENNEP, op. cit., p. 10
26
Stand by Me e La sottile linea scura non sono però studi antropologici finalizzati a
descrivere le cerimonie di iniziazione che si svolgono nel Maine o in Texas. Tutto ciò che
in essi viene raccontato non è suddivisibile in sequenze cerimoniali, nonostante forti
simboli legati alla separazione e all’aggregazione siano presenti, per altri motivi, nella
letteratura americana. L’atto di varcare una soglia è un elemento molto forte nella cultura
degli Stati Uniti, soprattutto nei suoi primi episodi.
Leslie Fiedler, nel saggio Amore e morte nel romanzo americano, parla del personaggio di
Rip Van Winkle come di colui che «presiede alla nascita delle creazioni fantastiche
americane»14, archetipo dell’uomo che esce di casa per andare verso le montagne e
ritrovarsi fuori dal tempo e dalla società. La sua è la storia di una fuga, principalmente
dalla moglie (e qui Fiedler riconosce nella figura femminile il simbolo del matrimonio, e
quindi della responsabilità, da cui l’immaginario americano cerca di scappare attraverso la
letteratura) ma implicitamente da tutta una società, che sia essa rappresentata dal «vecchio
mondo» o da una simbolica «Zia Sally», la donna da cui Huckleberry Finn scappa per
andare verso il «Territorio». Durante questa fuga, il personaggio della narrativa americana
va alla ricerca di una zona franca, di un luogo dove egli possa essere realmente libero,
fuori dalle costrizioni temporali e spaziali, con la speranza di svegliarsi, esattamente come
nella leggenda di Rip Van Winkle, in un mondo dove «tanto la bisbetica donna che lo
tiranneggiava» quanto chi «aveva oppresso il suo paese, hanno finito di vivere».15
Il personaggio della letteratura americana varca una soglia, esce dalla civiltà ed entra nel
luogo di «margine» che rappresenta per lui la libertà. Tenendo a mente questo discorso,
totalmente indipendente da studi antropologici bensì frutto di accurate analisi letterarie e
culturali, è utile fare un raffronto con la definizione che Van Gennep dà del termine
margine:
Attualmente da noi un paese confina con un altro; ma non era così quando il suolo cristiano non costituiva che una parte dell’Europa; intorno a questo territorio esisteva tutta una fascia neutra, divisa praticamente in sezioni, le marche. Esse si sono a poco a poco ritirate, e sono poi scomparse, ma il termine letterale di marca conservò il significato letterale di passaggio da un territorio a un altro attraverso una zona neutra. […] Queste zone sono costituite, di solito, da un deserto, da una palude e soprattutto da una foresta vergine in cui si può passare e cacciare in piena libertà. Dato il carattere ambivalente della nozione di sacro, i due territori occupati sono sacri per coloro che vivono nella zona, ma d’altra parte la zona è
14 L. FIEDLER, op. cit., p. 24 15 ibid., p. 353
27
sacra per gli abitanti dei due territori. Chiunque passi dall’uno all’altro si trova perciò, da un punto di vista materiale e magico-religioso, per un periodo più o meno lungo, in una situazione particolare, nel senso che sta sospeso tra due mondi. E’ questa la situazione che designo col termine di margine, e uno degli scopi di questo libro è quello appunto di dimostrare che questo margine ideale e materiale al tempo stesso si ritrova in forme più o meno accentuate in tutte le cerimonie che accompagnano il passaggio da una situazione magico-religiosa o sociale a un’altra.16
Ciò che Van Gennep ci descrive sembra proprio il luogo migliore a cui Rip Van Winkle,
Huckleberry Finn e chiunque altro nella letteratura americana possano aspirare nel
momento in cui si apprestano a varcare la soglia. La natura è una zona neutra, perfetta per
scappare dalla società, ma allo stesso tempo ideale per dare al rituale di iniziazione un
valore speciale. Risulta quindi chiara l’importanza che essa ha nel romanzo di formazione
americano: nel suo procedimento di crescita interiore, il protagonista riceve la sua
consacrazione non tramite l’unione sentimentale, come avviene nel più classico del
Bildungsroman europeo, ma tramite la natura, che rappresenta nell’immaginario
d’oltreoceano la fuga proprio dal matrimonio e dalle responsabilità sociali che esso
simboleggia17.
Questa però è solo una delle tante interpretazioni che sono state date all’interno
dell’immaginario americano. Sarebbe infatti limitante pensare che il nuovo continente
abbia rappresentato per secoli agli occhi degli europei solamente un luogo dove
nascondersi dalle responsabilità della vita moderna. Certamente una delle prime e più
importanti motivazioni che spinse i Puritani ad affrontare l’insidiosa vastità dell’oceano fu
quell’Act of Uniformity, voluto dalla regina Elisabetta, che dal 1559 sancì l’obbligo da
parte di tutti i cittadini inglesi di uniformarsi alla chiesa di stato, trasformando così in
fuorilegge tutte le varie frange del protestantesimo non anglicano, tra cui, appunto, quella
dei futuri Padri Fondatori18. Una fuga a tutti gli effetti, che però conteneva già al suo
interno i semi di un ideale di rinascita che avrebbe spinto i primi coloni sulle coste di un
nuovo mondo con l’utopia di fondare una nuova e più armoniosa civiltà.
16 A. VAN GENNEP, op. cit., p. 16 17 Questo almeno secondo il testo di Fiedler, che trova nel rapporto del maschio statunitense con la donna una chiave di lettura applicabile a diversi elementi della narrativa americana. «Fin d’allora, il tipico protagonista della nostra narrativa è stato un fuggiasco, spinto nella foresta e per il mare, lungo il fiume o nelle battaglie, dappertutto, pur di sfuggire alla “civiltà”, cioè a quell’incontro dell’uomo con la donna che lo fa soccombere al sesso, al matrimonio e alla responsabilità» 18 F. DRAGOSEI, op. cit., p. 15
28
L’idea che essi avevano della natura, che tuttora viene rappresentata in molte opere come
un qualcosa di idilliaco, è una comunione perfetta con l’ambiente circostante, creata dalla
capacità di costruire un mondo a metà strada tra civiltà e wilderness. Nel saggio La
macchina nel giardino, Leo Marx parla di «ideale pastorale» descrivendolo come un
elemento «utilizzato per definire il significato dell’America fin dall’epoca delle scoperte
geografiche»19 e traendo profonde riflessioni sull’importanza della natura nella letteratura
statunitense. Il suo scopo è quello di mostrarci che cosa essa sia stata in grado di incarnare
nelle menti di molti scrittori che, soprattutto tra il XVIII e il XIX secolo, hanno visto
nell’armonia tra uomo e paesaggio l’utopia di una nuova nascita: il giardino. In questa
opera, Marx ci dice che «nel buon pastore, figura principale della forma classica,
virgiliana, il motivo predominante era quello di ritirarsi dal grande mondo per iniziare una
nuova vita in un paesaggio nuovo e verdeggiante»20. Una rinascita a tutti gli effetti,
quindi, che non ha mancato di affascinare l’uomo europeo nel momento in cui esso si è
trovato di fronte un continente vergine. Una rinascita il cui significato metaforico può
essere presente anche nella letteratura di formazione: se la natura è il mezzo per la ricerca
di una felicità lontana dalla figura del padre oppressivo (una delle immagini che il vecchio
continente ha assunto agli occhi di chi decideva di partire alla ricerca della libertà), non
sarà altrettanto credibile che essa si faccia teatro del rito di iniziazione che segnerà la
nascita del personaggio all’interno del mondo degli adulti?
La risposta a questa domanda non è così ovvia come si potrebbe pensare: l’ideale
pastorale che si ha della natura nell’immaginario americano è dopotutto una ricerca
dell’idillio. Ma in precedenza si è dichiarato che il rito di iniziazione nel romanzo di
formazione americano deve avvenire al di fuori di esso. L’idillio è l’infanzia. L’idillio è
l’estate. L’idillio è la smalltown. Tutto ciò che rappresenta l’innocenza e l’armonia. Tutto
ciò che deve rimanere fuori dalla corruzione della società europea ma che non ha il
coraggio di addentrarsi nel territorio inospitale della frontiera. Una terra di mezzo dove
esiste ancora l’utopia, dove per un po’ si continua a credere in un ideale di felicità senza
tempo. Al contrario, nella narrativa di formazione americana la rinascita dei protagonisti
non avverrà in nome di un’illusione pastorale; lo «stadio di margine» servirà qui per
metterli in contatto con qualcos’altro.
19 L. MARX, La macchina nel giardino, Edizioni Lavoro, Roma, 1987, p. 9 20 ibidem.
29
Giungiamo quindi a parlare di wilderness, ossia del lato «spaventoso» della natura,
l’elemento forse più presente nelle opere e nell’immaginario americano. Letteralmente, il
termine inglese si riferisce ad un ambiente desertico, desolato, e fu utilizzato inizialmente
per descrivere il territorio «selvaggio» intorno alle colonie. Tuttavia, nonostante il suo
valore sia legato a doppio filo all’elemento «natura», esso ha assunto col tempo una
connotazione molto ampia e insieme molto precisa, indossando varie maschere a seconda
delle situazioni descritte nelle opere, ma rimanendo pur sempre la stessa cosa: il male che
risiede fuori dalla comunità.
Nel saggio Lo squalo e il grattacielo, Francesco Dragosei ci parla della wilderness
elaborando un paradigma che egli ritiene applicabile alla quasi totalità della produzione
culturale americana: il cerchio ferito.
Secondo l’autore, tutto nasce dalle pressioni psicologiche esperite dai Puritani, prima
perseguitati in patria perché considerati di religione fuorilegge, poi costretti ad affrontare i
pericoli dell’oceano a bordo di una nave, per giungere infine in una terra inospitale e ricca
di insidie naturali. Nel loro immaginario si verificò una netta scissione tra il bene e il
male: il primo, nella devozione a Dio e nella volontà di fondare una nuova società, chiuso
all’interno di un cerchio dove i giusti risiedono e vivono le proprie vite; il secondo,
simbolo del diavolo e delle minacce di tutto ciò che è oscuro e lontano da Dio, situato
fuori dal cerchio, ma intenzionato ad entrare con tutti i mezzi. Se la wilderness viene
considerata quindi il territorio dove il buono è minacciato dal male, essa non sarà
necessariamente parte della natura: potrà essere anche la metropoli, dove il crimine
minaccia gli uomini giusti e li costringe a fuggire nei suburbs, perseguendo nella
smalltown un nuovo ideale pastorale. Potrà essere anche la stessa town vista però in
un’altra epoca, dove il giovane Marty McFly affronta le minacce provenienti dal bullo di
quartiere Biff Tannen e dai suoi diversi alter ego delle varie epoche. Se in moltissimi casi
la wilderness coincide dunque con la natura, non sempre è così. Viceversa, non sempre il
paesaggio suscita nella mente del personaggio della narrativa americana il senso di
inquietudine: come si è detto, esso è visto anche come luogo idilliaco.
Il giovane protagonista del romanzo di formazione dovrà conoscere entrambe queste
facce; sarà costretto ad abbandonare l’idillio per comprendere la propria condizione
all’interno del cerchio ferito. Dovrà entrare nella wilderness, affrontare i pericoli celati in
essa e rendersi conto dell’impietoso incedere del destino sopra ogni cosa. Prima di
30
analizzare ciò con cui egli si troverà a che fare, però, è il caso di fermarsi un po’ sul
momento in cui la natura cambia faccia, mostrando il suo lato minaccioso e oscuro.
31
Il treno nella valle addormentata Come si è accennato, una delle reazioni degli europei trovatisi di fronte ad un continente
appena scoperto fu la creazione di un’ideale utopico di armonia dell’uomo con
l’ambiente, ormai irrealizzabile nel vecchio mondo, che Leo Marx chiama «ideale
pastorale». Questa connotazione molto positiva della natura convive con quella negativa
della wilderness per il semplice fatto che l’immaginario americano seppe creare sin
dall’inizio una divisione metaforica del paesaggio: a Est, oltre l’oceano e sulla costa, la
civiltà metropolitana dell’Europa e della Nuova Inghilterra; a Ovest, la frontiera e il
territorio selvaggio. In mezzo, l’agricoltura e l’Arcadia, assieme a tutti gli ideali di una
società perfetta. Nessun conflitto, dunque, tra le due visioni della natura per il fatto che sin
dall’inizio ci fu tra esse una chiara e netta separazione. Nel suo saggio, Leo Marx si
occupa principalmente del lato positivo del paesaggio, per contrapporlo all’entrata (ma se
vogliamo anche penetrazione) in esso di un elemento destinato a farne crollare la visione
idilliaca, in una brusca presa di coscienza dell’inarrestabile avanzare della società: la
macchina. Distrutta l’utopia, della natura rimarrà solo la visione demoniaca; e mentre la
wilderness si insinua in ogni ambiente, andando a minacciare tutti gli aspetti della vita
americana, la letteratura ci mostra molte e più volte l’infrangersi del sogno e l’arrivo della
consapevolezza di quanto esso sia appunto solo un miraggio, e l’immagine con cui sceglie
di darne prova è proprio la tecnologia.
L’autore definisce l’«episodio della Valle Addormentata»21 come un paradigma presente
in moltissime opere, e che si scoprirà essere parte anche di quelle da noi analizzate. Tale
episodio si svolge «la mattina del 27 luglio 1844» ed ha per protagonista nientemeno che
Nathaniel Hawthorne, che decise quel giorno di recarsi in un bosco vicino a Concord, nel
Massachusetts, chiamato appunto la Valle Addormentata, con l’intento di appuntare
«qualsiasi piccolo avvenimento che potesse capitare»22. Leo Marx parla di questo scritto
descrivendolo come una via di mezzo tra un’opera vera e propria ed una serie di
annotazioni; ciò che lo distingue da quest’ultima definizione è, a detta dello studioso,
«una certa struttura formale» che acquista forma intorno al «piccolo avvenimento» che si
rivelerà essere il fulcro delle riflessioni svolte nel saggio. Hawthorne comincia con una
descrizione del luogo in cui si trova, esaminando ogni cosa nei minimi particolari e dando
21 ibid., p. 18 22 ibid., p. 15
32
grande importanza fin da subito ai sentimenti e alle emozioni che si susseguono senza
sosta nella sua mente. L’immagine che Marx ci dice risultare dal testo è quella di «un
uomo che si trova in una condizione di tranquillità pressoché perfetta e che pigramente
medita sulle minuzie della natura»; un uomo che prova un senso di grande armonia con
l’ambiente circostante, che si sente a suo agio senza lasciare spazio ad alcuna forma di
tensione, «né all’interno dell’io né tra l’io e l’ambiente circostante». Per Hawthorne ogni
pensiero che in quel momento giunge alla mente ha un valore positivo, e nemmeno
udendo i suoni delle campane e i rumori di varia natura che giungono dal villaggio la sua
tranquillità e il suo senso di armonia subiscono alcun cedimento. Ciò che egli sta
provando e riportando nei suoi appunti è una sensazione idilliaca di perfetta comunione
tra uomo e natura: i suoni legati all’agricoltura e alla vita nel villaggio non disturbano la
quiete del bosco, ma anzi si integrano con essa. La natura è un luogo di pace e
tranquillità, e le immagini dell’uomo dentro di essa non possono che essere positive:
Nella sua forma più semplice, archetipica, questo mito asserisce che nel Nuovo Mondo gli europei subiscono una rigenerazione. Diventano uomini nuovi, migliori e più felici – nascono a nuova vita. Nella maggior parte delle versioni la forza rigeneratrice si trova nel terreno rurale: l’adito a una Natura incontaminata, munifica e sublime spiega la virtù e la particolare fortuna degli americani; permette loro di progettare una comunità a immagine di un giardino, ideale fusione di natura e arte.23
L’avvenimento citato in precedenza, però, non tarda ad arrivare infrangendo i sogni
pastorali di Hawthorne e gettando la sua mente in un profondo sconforto: concentrato
nelle sue riflessioni, lo scrittore viene di colpo distratto dal potente fischio di una
locomotiva, che lo riporta brutalmente alla realtà e spezza l’armonia che negli istanti
precedenti si era creata. Egli perde da quel momento ogni tipo di pensiero idilliaco e si
ritrova immerso in un profondo sconforto. L’equilibrio è perso, la pace distrutta. Il fischio
del treno si sovrappone e cancella ogni altro suono prodotto dall’uomo che fino a quel
momento aveva trovato spazio, senza turbarlo, all’interno di quell’ambiente. Un evento
apparentemente normale che però rappresenta, secondo Leo Marx, il «momento della
scoperta». Una domanda sorgerà spontanea: scoperta di che cosa?
A questo si risponderà in seguito. Per ora è importante rivedere la situazione: un uomo si
trova nell’idillio, pervaso da un senso di beatitudine e tranquillità. L’arrivo del treno, 23 ibid., p. 188
33
mostratosi anche solo attraverso il fischio di una locomotiva, fa cambiare ogni cosa;
distrugge la serenità e abbatte il suo stato d’animo: da quel momento non avrà che
pensieri negativi.
Ora, questo paradigma è presente, a detta anche di Leo Marx, in moltissime opere della
letteratura americana. La sua è più che altro una funzione di turning point, con lo scopo
cioè di dare una svolta alla narrazione, ed è particolarmente famosa la raffigurazione che
esso ha ne Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain.
E’ abbastanza nota la volontà dello scrittore, nel momento in cui egli incominciò la
stesura di quella che poi sarebbe diventata indubbiamente la sua opera più importante, di
scrivere un seguito a Le avventure di Tom Sawyer, romanzo destinato più che altro a un
pubblico giovane che fruttò all’autore un grande successo di pubblico. La prima parte del
racconto è infatti carica di un indubbio valore comico: Huck è un ragazzino, amico di
Tom Sawyer, che vive alla giornata come un outsider in una piccola cittadina sul fiume
Mississippi e descrive con innocente cinismo le situazioni che di volta in volta gli si
presentano davanti. La comicità degli eventi narrati è dovuta più che altro al modo in cui
il giovane protagonista si rapporta a essi, raccontando i fatti con un tono spesso
dissacrante e comportandosi da cattivo ragazzo dietro la falsariga di Tom nel romanzo
precedente. Egli, dopo che la vedova Douglass e la signora Watson tentano senza
successo di «civilizzarlo» e dopo che suo padre, un ubriacone costruito sulla figura del
bianco povero del Sud, lo rapisce e lo tiene rinchiuso in una casupola fuori città, decide di
simulare la propria morte e di scappare su un’isoletta in mezzo al fiume. Lì Huck incontra
Jim, uno schiavo nero di proprietà della stessa Miss Watson che è fuggito dalla sua
padrona e si sta nascondendo. I due, dopo un breve periodo di convivenza idilliaca nella
natura, si trovano costretti ad andarsene per non rischiare di essere scoperti, e decidono
così di seguire il corso del Mississippi a bordo di una zattera fino alla confluenza del
fiume Ohio, per poi risalire quest’ultimo e dirigersi verso Nord, verso la libertà.
Mark Twain inizia a lavorare sul romanzo negli anni ’70 del XIX secolo, e scrive i primi
sedici capitoli di getto, producendo quello che sembra a tutti gli effetti un seguito, solo un
po’ più serio, di Tom Sawyer. Mentre quest’ultimo mostra però una visione totalmente
spensierata della smalltown e dell’infanzia, già dai primi capitoli di Huckleberry Finn
traspare chiaramente il senso di inadeguatezza del protagonista di fronte ai giochi da
bambini organizzati dall’amico e alle abitudini del vivere sociale: la sua attenzione è,
34
secondo Leo Marx, «rivolta ai boschi bui, come se là fuori qualcosa stesse tentando di
comunicare con lui»24. Tuttavia la storia prosegue, prendendo le prime vie del romanzo
picaresco di cui si è già parlato, fino a un punto in cui l’autore non riesce più a
continuare: nel capitolo 16 la nebbia impedisce ai due viaggiatori di scorgere la città di
Cairo, dove il Mississippi si unisce al fiume Ohio, facendogli perdere la via della
salvezza; poco dopo, il paradigma della Valle Addormentata si rivela nella sua essenza
più pura: un grosso battello a vapore finisce, causa la scarsa visibilità, proprio contro la
zattera su cui stanno Huck e Jim, spezzandola a metà e separando i due protagonisti.
Mark Twain arriva a questo punto della narrazione nel 1876, e qui si ferma: per sette anni
non mette mano al manoscritto, fino al 1883.
Come si era accennato prima, questa vicenda è abbastanza nota; uno dei motivi principali
è senza dubbio il fatto che Twain stesso ne fa parola all’interno di un’altra sua opera: Life
on the Mississippi (1882) è il «ritorno» dell’autore sul fiume dove ha trascorso l’infanzia.
Tra le sue pagine troviamo molte cose, dalla storia del fiume a diverse ed interessanti
riflessioni sulla società dell’epoca, e nel terzo capitolo Twain parla del romanzo, ai tempi
in fase di work in progress, ne racconta la trama fino a quel punto e ne riporta un episodio
poi tagliato dall’edizione originale. Ciò che però da sempre suscita l’interesse dei saggisti
è il perché l’autore si sia fermato per così tanto tempo proprio in quel punto. Leo Marx
prova a darne una spiegazione:
Clemens [Samuel Clemens, il vero nome di Mark Twain, nda] aveva cominciato a rendersi conto che il viaggio, in quanto implicava la ricerca di una vita nuova e più libera, non poteva riuscire. Così come egli la descrive, la libertà a bordo della zattera significa molto di più che assenza di schiavitù nel senso stretto, istituzionale del termine. Abbraccia tutte le inconsuete possibilità di sufficienza, di spontaneità e di gioia che erano state proiettate nel suo paesaggio americano sin dall’epoca delle scoperte. Il pensiero che questa grande speranza sarebbe stata sommersa dalla storia – che egli vedeva come una triste registrazione delle speranze perdute dell’uomo – diede origine all’immagine di un mostruoso battello a vapore che improvvisamente sbuca fuori dall’oscurità grande, pauroso, inesorabile e sfonda da parte a parte la zattera.25
La storia, dunque, attraverso un grande battello a vapore che esce dalla nebbia, è destinata
ad infrangere i sogni di libertà. La consapevolezza che le speranze riposte nel paesaggio
nella ricerca dell’idillio fossero destinate a rimanere vane costrinse Mark Twain a 24 ibid., p. 261 25 ibid., pp. 263-264
35
fermarsi per riflettere e decidere se era ancora il caso di continuare con l’illusione o se
cambiare rotta. Così fece, e i capitoli successivi del romanzo ne sono la prova: al loro
interno l’autore descrive un’America triste e brutale, ricca di paradossi e situazioni
grottesche, a volte spaventosa nella sua disillusa cattiveria. Passato il turning point, non
può esserci nient’altro che disincanto. Proprio come negli appunti di Hawthorne subito
dopo il fischio del treno nella Valle Addormentata.
Torniamo ora ai nostri quattro ragazzi di Castle Rock. Si è già notato come il fatto che
essi abbiano scelto di seguire le rotaie accomuni Stand by Me ad Huckleberry Finn,
soprattutto nella struttura. Il film e il racconto sono però molto diversi da un romanzo
picaresco in quanto, appena usciti da Castle Rock, i quattro protagonisti non incontrano
pressoché nessuno fino alla fine: gli episodi che ad essi capitano possono riguardare la
natura o il passato, attraverso i fatti che essi raccontano, ma in nessuno di questi veniamo
a contatto con la classica struttura dell’episodio picaresco, in cui il personaggio principale
trae una lezione da ogni luogo visitato, ripartendo poi verso un’altra destinazione.
L’impressione che si ha guardando Stand by Me è che la natura svolga un ruolo
fortemente simbolico, a volte catartico, scagliando dei violenti attacchi da cui i
protagonisti si trovano costretti a difendersi per poter proseguire. Ma questo avviene dopo
l’ingresso nella wilderness, quando la superficie idilliaca attraverso la quale i ragazzi
vedono il mondo è ormai incrinata.
I primi episodi che capitano a Gordie e ai suoi amici hanno in effetti molte caratteristiche
del romanzo picaresco. Non appena i giovani protagonisti partono verso il territorio della
cittadina di Harlow, si rendono conto di non aver portato con sé niente di cui cibarsi.
Stanno per abbandonale le rotaie, quando il treno annuncia il suo arrivo da lontano. Teddy
decide di rimanere sulla ferrovia fino all’ultimo, per dare agli altri una prova di coraggio.
La sua visione della realtà, e dei rischi che essa può comportare, è ancora quella di un
ragazzo: per lui lo «scansatreno» è un gioco, una dimostrazione di forza destinata ad avere
un lieto fine, come è nella finzione. Non esistono pericoli, la morte è una cosa lontana e
poco chiara, ogni cosa è destinata a risolversi per il meglio. Infatti, quando i suoi amici lo
strappano con forza dalle rotaie, Teddy si arrabbia molto con loro, come se l’avessero
privato di un divertimento e di una possibilità di rivalsa. Ma la tensione si risolve con un
piccolo battibecco, il treno passa e la vita continua identica a prima.
36
Gli unici due personaggi «reali»26 che incontreremo da questo punto fino quasi alla fine
saranno il proprietario di un emporio e il gestore della discarica comunale. Occorre
tuttavia premettere che le scene di cui si parlerà in seguito faranno riferimento per lo più
al racconto di King, piuttosto che al film. In quest’ultimo, infatti, la narrazione prosegue
in modo abbastanza fluido e veloce, lasciando allo spettatore tutte le interpretazioni
necessarie e trascurando in buona parte le considerazioni della voce narrante, che per il
nostro ragionamento saranno invece fondamentali.
Il primo personaggio, proprietario del Florida Market, è soprattutto nel racconto una
figura ambigua, che parla con Gordie di suo fratello Dennis onorandone la memoria, ma
che subito dopo cerca, senza successo, di raggirarlo. Il secondo, Milo Pressman, è
l’artefice di una vera e propria lezione di vita per i quattro ragazzi: gli permetterà infatti di
scoprire che il suo temutissimo cane di nome Chopper, dipinto dalle leggende cittadine
come l’incarnazione del demonio, altro non è che «un bastardello di mezza taglia di un
comunissimo bianco e nero». Dopo un violento scontro verbale tra Teddy e il vecchio
gestore della discarica i protagonisti ripartono, lasciandosi apparentemente la vicenda alle
spalle e dando a Gordie il tempo di trarre le sue conclusioni, proprio come nel romanzo
picaresco:
Le cose non sarebbero potute andare molto peggio – in effetti, pensavo, sarebbe stato meglio cercare di risparmiare ai miei il dolore di avere un figlio nel cimitero di Castle View e l’altro nel riformatorio di South Windham. […] E anche se Chopper non era la belva feroce che lui andava raccontando, certo mi avrebbe strappato il fondo dei calzoni se non avessi vinto la gara fino alla rete. Tutto ciò metteva una nuvola nera sulla giornata. E c’era un’altra idea cupa che mi girava per la testa – l’idea che forse quello non era un incidente da ridere, e che forse la nostra iella ce la meritavamo. Forse era addirittura Dio che ci avvertiva di tornarcene a casa. Che ci andavamo a fare, comunque, a vedere un disgraziato che era stato maciullato da un treno merci? Ma lo stavamo facendo, e nessuno aveva intenzione di smetterla.27
La figura di Milo Pressman, tuttavia, non ha solo la funzione di svelare ai ragazzi il reale
valore delle tall tales; durante la lite con Teddy egli cerca in tutti i modi di infangare
l’immagine di suo padre, in parte riuscendoci: colui che per il giovane era sempre stato un
eroe, gli viene mostrato per la prima volta, dagli occhi di un estraneo, come un pazzo 26 il termine indica i personaggi che i protagonisti incontreranno di persona durante il loro viaggio. L’intreccio porterà in seguito alla comparsa di alcune figure create dalla mente di Gordie, come i personaggi dei suoi racconti o le visioni del padre durante il sonno. 27 S. KING, op. cit., pp. 403-404
37
paranoico rinchiuso in una clinica per veterani. Nonostante i ripetuti tentativi degli amici
di consolarlo, Teddy esplode quindi in una crisi di pianto, «come se una grande ondata
interna di marea avesse schiantato un sistema accuratamente costruito di dighe mentali».
L’idillio inizia a infrangersi proprio in questo momento, e nonostante i ragazzi cerchino
ancora per un po’ di ancorarsi all’idea di una gita di piacere, nelle loro menti inizia a farsi
strada il pensiero che forse i giochi stiano finendo:
« Non sono proprio sicuro che è uno spasso », disse Vern improvvisamente. Chris lo guardò. « Stai dicendo che vuoi tornare indietro, amico? » « No… No! » La faccia di Vern si chiuse nei pensieri. « Ma andare a prendere un ragazzo morto – non dovrebbe essere proprio una gita, probabilmente. Voglio dire, se mi capite, voglio dire… » Ci guardò con aria dura. « Voglio dire, potrei anche essere un po’ spaventato. Se mi capite.»28
Proprio come nel capitolo 15 di Huckleberry Finn, quando Huck inizia a sentire il peso
della responsabilità riguardo alla fuga di Jim, stiamo per arrivare a un turning point: non
c’è luogo dove l’ombra impietosa della realtà non possa arrivare, né la zattera che scivola
lenta sul Mississippi né il mondo solare fatto di giochi ed eroi dell’infanzia. Nonostante
questi presagi e incuranti delle «nuvole nere» all’orizzonte, i ragazzi proseguono
ugualmente fino a giungere al Castle River, il fiume che segna i confini della città di
Castle Rock. Per attraversarlo, solo il ponte ferroviario. Dall’altra parte, la wilderness:
«Da dove eravamo noi, dal lato di Castle Rock, il lato di fitta foresta dalla parte di Harlow
sembrava tutto un altro paese.»29
Dopo alcuni istanti di riflessione, la decisione di attraversarlo a piedi, consapevoli che il
treno potrebbe passare da un momento all’altro. «Guardando il ponte, sentimmo tutti la
paura che prendeva a strisciarci nello stomaco… e mista alla paura c’era l’eccitazione di
una grossa sfida, ma grossa davvero, qualcosa di cui potevi poi vantarti per settimane una
volta tornato a casa… se tornavi a casa.»30 Forse è proprio questa consapevolezza a
rendere Stand by Me così diverso, a dare al mito della Valle Addormentata una valenza
singolare, che in Huckleberry Finn non troviamo: nella loro mente, Gordie e i suoi amici
sanno che il treno passerà. Sanno che quel viaggio servirà in qualche modo a cambiarli, e
la cosa li spaventa ma li attrae al tempo stesso.
28 ibid., p. 407 29 ibid., p. 409 30 ibidem.
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Sanno che quei tre giorni del fine settimana saranno gli ultimi dell’estate, che lunedì sarà
il «Labor Day» e ricomincerà la scuola, che sicuramente si perderanno di vista perché
inizieranno le superiori e ognuno di loro dovrà seguire la propria strada. Sanno che il
tempo dei giochi è giunto al termine, che non ci sarà più la casa sull’albero dove
trascorrere le giornate al riparo dal mondo degli adulti, sanno che le vere sfide della vita
iniziano ora e che ciascuno dovrà affrontarle da solo, con le proprie forze. Nonostante
siano consapevoli di tutto questo, decidono comunque di attraversare il ponte a piedi e di
uscire da Castle Rock, dalla loro piccola città.
E’ quindi naturale che il treno arrivi, facendo sentire il suo fischio alle loro spalle e
costringendoli a scappare verso i boschi di Harlow, dove da qualche parte giace il corpo di
Ray Brower. Come, in Huckleberry Finn, il battello distrugge la zattera dove i due
protagonisti avevano costruito l’immagine di una vita di libertà, qui il treno frantuma il
guscio dell’idillio e scaraventa i loro corpi e le loro anime all’interno della wilderness,
dove la natura non ha più una valenza buona e ideale bensì minacciosa, spesso
demoniaca, e la morte li attende acquattata nel sottobosco pronta a colpire.
Mentre Chris e Teddy hanno quasi raggiunto l’altra sponda, Gordie e Vern sono ancora in
mezzo al ponte quando un presentimento spinge il protagonista a chinarsi per toccare la
rotaia. Nel momento in cui si accorge che sta vibrando, la sua mente si ferma un attimo,
bloccata dal terrore; tuttavia è proprio il pensiero della morte a spingerlo verso la
rinascita:
Un’immagine di Ray Brower, spaventosamente maciullato e scaraventato in un fosso da qualche parte come un sacco di biancheria squarciato, mi si presentò davanti agli occhi. Lo avremmo raggiunto, o almeno lo avremmo raggiunto Vern e io, o almeno l’avrei raggiunto io. Ci eravamo invitati al nostro funerale. Quest’ultimo pensiero ruppe la paralisi e scattai in piedi. Probabilmente a chi mi avesse visto sarei sembrato un pupazzo a molla di quelli che balzano fuori dalla scatola, ma a me diedi l’impressione di uno visto al rallentatore sott’acqua, che schizza su non per un metro e mezzo di aria ma attraverso centocinquanta metri di acqua, muovendosi lentamente, muovendosi con paurosa fiacchezza in mezzo all’acqua che si apre a fatica. Ma finalmente ruppi la superficie.31
Stephen King descrive gli attimi vissuti da Gordie sul ponte con una lentezza quasi
forzata, evidenziando con grande attenzione ogni singolo pensiero del ragazzo. Il suo
31 ibid., p. 414-415
39
scopo pare proprio quello di mostrare la reazione che dentro di lui determina la rinascita a
nuova vita. Nel momento in cui egli decide di muoversi, di iniziare a correre spronando
Vern a fare altrettanto, Gordie varca la soglia che lo porta fuori dall’idillio.
Ipoteticamente, all’interno del rito, l’attraversamento del ponte può avere una sua valenza
particolare di «stadio di margine». Van Gennep sostiene infatti che in alcune società il rito
di iniziazione consiste proprio nel passare sotto una porta che, secondo una sua
interpretazione, è «il confine tra due periodi della vita, cosicché passare per la porta
equivale a uscire dal mondo dell’infanzia per entrare in quello dell’adolescenza»32, e
questo potrebbe significare qui uscire dalla visione idilliaca della natura per entrare in
quella spaventosa. Tuttavia nella novella di King, e conseguentemente nel film, sono
molti i momenti significativi che mettono il protagonista di fronte ad una «porta»
attraverso cui passare. Da questo momento in poi, comunque, i ragazzi saranno a tutti gli
effetti dentro a quello «stadio di margine», inteso come luogo senza spazio né tempo,
dove tutto ciò che avverrà sarà significativo per la loro formazione. La soglia del ponte
sul fiume è piuttosto l’introduzione al rito, non il suo momento topico, e non è un caso
che coincida con la distruzione dell’idillio. Da questo momento in poi i quattro ragazzi
sono nella wilderness, e dovranno dimostrare di saperla affrontare perché la loro
formazione possa dirsi completa.
Un’altra incursione del treno nella Valle Addormentata dell’infanzia si può trovare ne La
sottile linea scura, e qui la sua funzione sarà resa più evidente da alcuni slittamenti
semantici che andranno a ricoprire spesso e volentieri il ruolo che la natura ha in Stand by
Me. Come già accennato in precedenza, il cofanetto che Stanley trova sepolto vicino al
bosco dove giacciono i resti di una casa bruciata, poco distante dal drive-in di famiglia, è
la chiave grazie alla quale il giovane protagonista può entrare nel mondo degli adulti, e
l’intreccio che Lansdale sceglie di dare a questa sua storia di formazione è quello del
romanzo noir. La trama presenta quindi diverse storie parallele, che si intersecano tra loro
solo in alcuni momenti della narrazione ed hanno tutte un proprio valore nel percorso di
maturazione di Stanley; inoltre in ognuna di queste storie sono coinvolti uno o più
personaggi, oltre chiaramente al protagonista, ma mai tutti assieme. Questo fa sì che ogni
personaggio ricopra un ruolo abbastanza circoscritto che, integrandosi con gli altri, darà
vita ad una struttura ben elaborata sulla quale il romanzo di formazione andrà lentamente
32 A. VAN GENNEP, op. cit., p. 52
40
a costruirsi. Tuttavia, non ci interessa ora entrare nel merito della storia, ricca comunque
di interessanti spunti di riflessione inerenti a diversi temi, quanto determinare il turning
point e notare le differenze tra le esperienze di Stanley prima di esso e quelle che
avvengono dopo. Nell’opera di Lansdale, infatti, l’uscita dall’idillio e l’ingresso nella
wilderness non vengono presentati tramite un «passaggio materiale» attraverso la soglia
metaforica che in Stand by Me è rappresentata dal ponte. A un certo punto della
narrazione si incontrerà però il «piccolo avvenimento» che cambierà la posizione del
protagonista nei confronti del mondo intorno a sé.
Il fatto in questione è narrato nel capitolo 12. Prima di questo punto, il protagonista non è
mai veramente in pericolo, i suoi incubi sono popolati da lupi mannari e fantasmi di donne
senza testa, l’unica incursione che compie da solo in un luogo spaventoso (una casa in
cima alla collina del quartiere ricco che alcune voci vogliono abitata da spettri) si
conclude con una caduta in bicicletta, dovuta tra l’altro all’eccessiva velocità, e una
conseguente frattura alla gamba. Ciò che Stanley comincia come un gioco, però, si
trasforma lentamente in qualcosa di più serio, di pericoloso, una storia più grossa di lui
nella quale egli è, volente o nolente, ormai implicato.
I personaggi a cui Stanley parla del cofanetto e della casa bruciata sono quattro: sua
sorella Callie, la domestica di colore Rosy Mae, l’amico Richard e il vecchio proiezionista
nero Buster; ognuno di loro porterà il ragazzo a vedere la storia da un diverso punto di
vista, svelandogli progressivamente tutte le implicazioni. Callie, complici gli episodi
raccontati sulle lettere contenute nel cofanetto, si farà promotrice delle tematiche
riguardanti le relazioni tra i sessi, trasformandosi nella guida del fratello all’interno del
mondo dell’adolescenza. Questo suo ruolo è chiaro già dalle prime pagine del libro,
quando il padre trova in camera sua un preservativo usato (che poi si scoprirà essere stato
messo da un’altra ragazza come gesto di rancore) e le impedisce di uscire di casa per
parecchio tempo. Agli occhi di Stanley, Callie sarà quindi la figura chiave per una
maturazione sessuale, se non altro a livello teorico, che può rappresentare il primo stadio
della perdita dell’innocenza. La domestica Rosy Mae, che dopo poche pagine dall’entrata
in scena scappa dal violento fidanzato Bubba Joe e si stabilisce a vivere con i Mitchell,
svelerà a Stanley il lato violento e pauroso della storia che sta dietro alla casa bruciata e al
cofanetto, raccontandogli la leggenda del fantasma senza testa di una ragazza assassinata
sulla ferrovia che di notte vaga in quel luogo, e impersonando parecchie volte lo
41
stereotipo del nero superstizioso. Richard, l’amico di Stanley, viene picchiato
continuamente da un padre predicatore violento e paranoico, ma nonostante questo non
perde il senso dell’umorismo e dello scherzo. Infatti, quando il protagonista gli racconta
della casa bruciata egli vede tutta la storia come un gioco, e spinge più volte l’amico
all’azione. Nel finale, Richard subirà una trasformazione che concluderà il romanzo con
una tragica perdita dell’innocenza.
Un ruolo particolare è, per ultimo, quello di Buster, il proiezionista nero del drive-in, che
prenderà la questione molto seriamente e si impegnerà per venirne a capo assieme a
Stanley, insegnandogli un metodo e cercando continuamente di trasferirgli le proprie
convinzioni morali. E’ infatti suo il compito di iniziare il giovane protagonista al lato
oscuro del mondo, insegnandogli a scoprire la realtà nascosta dietro la facciata
dell’apparenza:
- E cosa vuoi che conti il suo aspetto? – disse Buster. – Secondo te tutti i delinquenti sono brutti? O mostruosi? Toccano in terra con le mani? Eh, figliolo? Davvero lo pensi? Era ormai buio. Eravamo nel gabbiotto del drive-in, e Buster stava proiettando un western con Audie Murphy. - Che ne so. Quel Bubba Joe, lui dicono che sembra cattivo, e infatti è vero. - Hai ragione. Però questo non vuol dire che chi sembra cattivo poi è cattivo sul serio. Così come quelli che somigliano a Howdy Doody non sono certo tutti buoni e cari. Capito, figliolo? - Sissignore. - Prendila come una lezione molto importante. Il bell’aspetto è piacevole da guardare, ma quel che c’è sotto… Be’, non si sa mai. Se no, perché un sacco d’uomini si ficcano nei guai con le donne? Prima ci si lascia incantare dal bell’aspetto, e poi magari sotto quel bell’aspetto si finisce per trovare un’arpia. Lo sai cos’è? - Nossignore. - Un essere femminile con le ali che tormenta la gente. L’unica differenza con le donne vere e proprie, per quanto ne so io, è che le donne non hanno le ali.33
Il rapporto di Stanley con il vecchio protezionista è un continuo insegnamento, una
continua spiegazione della realtà vista attraverso lo sguardo cinico e disilluso di un
vecchio uomo di colore. Se per il ragazzo la vita all’inizio della storia è fatta di
ingenuità34, per Buster essa non è altro che wilderness a tutti gli effetti, dove il pericolo
può essere nascosto dietro ogni superficie, bella o brutta che sia. Lentamente, il ragazzo
33 JOE R. LANSDALE, op. cit., p. 114 34 vedi cit. p. 19
42
approfondisce i rapporti con questi quattro personaggi e l’indagine si sviluppa, portando
anche all’ipotesi (che poi si scoprirà vera) che la ragazza uccisa sulla ferrovia sia l’autrice
di alcune delle lettere d’amore contenute nel cofanetto. Ad un certo punto, poi, Buster
invita Stanley a casa sua per fare delle ricerche, all’interno della Section, il quartiere nero
di Dewmont.
Abbiamo già visto in precedenza la descrizione della Nigger Town fatta dal protagonista,
abbiamo già notato come essa lasci trasparire gli aspetti più inquietanti del paesaggio,
mostrandocela come un vero e proprio territorio selvaggio all’interno della smalltown. La
prima incursione del ragazzo sul luogo, tuttavia, avviene in un clima relativamente
disteso, in quanto la compagnia di Buster è per lui un fattore di sicurezza. Non c’è niente
di minaccioso, a parte il fatto di essere in un luogo sconosciuto. Anche il ritorno a casa,
senza la compagnia dell’uomo di colore, viene liquidato in poche frasi perché privo di
valore emotivo: una normale passeggiata.
Lentamente però, la paura di una minaccia costante inizia a farsi chiara anche nella mente
di Stanley: Bubba Joe, l’uomo che viveva con Rosy Mae prima che lei scappasse, è
fermamente intenzionato a riprendersela, e vede i membri della famiglia bianca che la
ospita con odio e rancore. Nel capitolo seguente, l’undicesimo, egli tenta di pedinare
Callie e sua madre mentre queste sono in città, facendo scoppiare tra i Mitchell una
piccola psicosi da minaccia esterna. Tuttavia Stanley prende una decisione importante:
parlando con Richard riguardo al fantasma della ragazza assassinata sulla ferrovia, si
lascia convincere a fare un’escursione notturna alla sua ricerca, alla quale, nel momento
della partenza, si unirà anche Callie.
Si giunge quindi al capitolo 12, al turning point. I ragazzi si inoltrano nel bosco, e, dopo
un passaggio arricchito da racconti di leggende popolari ed incontri inquietanti (il padre di
Richard che seppellisce il suo cane, piangendo), nel perfetto stile dell’autore texano, essi
incontrano effettivamente il loro fantasma, pur senza essere certi della natura di ciò che si
presenta ai loro occhi:
Là dove i binari giravano attorno agli alberi e alla palude avevo visto un chiarore. Non si capiva di che colore fosse: un istante sembrava verde, un attimo dopo color oro. Si muoveva verso di noi, dondolando in su e giù come se qualcuno lo facesse rimbalzare. Poi iniziò a spostarsi da una parte all’altra. Poi sparì. Infine ricomparve, e riprese ad avanzare nella nostra direzione.35
35 JOE R. LANSDALE, op. cit., p. 151
43
Quando decidono di andarsene, notano una presenza che li segue all’interno del bosco.
Scappano sulle rotaie, mentre i binari cominciano a ronzare, segno dell’arrivo del treno.
Da una semplice occhiata, Stanley capisce che l’uomo al loro inseguimento è Bubba Joe,
mosso da intenzioni non certo amichevoli. I ragazzi riescono tuttavia a superare le rotaie
poco prima che il treno li investa, mettendosi in salvo e tornando a casa:
Io rimasi sveglio tutta la notte per sbirciare dalla fessura tra la finestra e il condizionatore e vedere se Bubba Joe era là fuori. Di lui non c’era traccia, e al levarsi del sole mi sentii troppo stanco per restarmene ancora di guardia. Così mi addormentai. Fu un sonno agitato, affollato dalle immagini della segheria e di quel gracchiante scivolo per la segatura. Di quella luce ballerina, che poteva essere Margaret. Del Re delle Rane, il nero che avrebbe fatto meglio a lasciar stare le donne altrui. Di Bubba Joe. Del cadavere del cane, avvolto nella trapunta. Del padre di Richard, che singhiozzava e pregava. Infine non ci fu che il treno, nero e serpeggiante, il bagliore dei fanali e il suo fischio lancinante, il vento gelido sollevato dalla locomotiva e dai carri merci che ci passavano a fianco.36
Nonostante l’incursione del treno possa qui sembrare casuale, priva di ogni valore
simbolico, in realtà questo capitolo è un momento molto importante all’interno della
storia. Stanley infatti da questo momento in poi è spaventato da una minaccia manifesta,
da qualcosa di tangibile e quindi molto più reale, nella sua pericolosità. La wilderness ora
esiste, non è più frutto delle paure irrazionali di un ragazzino. La prova della concretezza
di questa minaccia è un episodio che accade nel capitolo 14, quando il protagonista si
trova nella Section, sotto un tremendo temporale, con la sola compagnia del suo cane. E’
naturale che Bubba Joe torni a farsi vivo, e con la precisa intenzione di uccidere chi gli ha
portato via Rosy Mae. Questa volta l’inseguimento si svolge sotto una pioggia torrenziale,
e Stanley non riesce a scappare: Bubba Joe lo raggiunge e lo afferra. Se non fosse per
l’arrivo di Buster, lo ucciderebbe. Non più incubi di mostri immaginari e paure irrazionali
quindi, ma pericolo reale. Il viaggio del ragazzo nella wilderness è cominciato.
A differenza di Stand by Me, che presenta un approccio abbastanza semplicistico ad un
simbolismo comunque chiaro e lineare, nella Sottile linea scura l’evoluzione del
protagonista avanza di pari passo ai progressi nell’indagine, trasformando lentamente ogni
cosa in una facciata ingannevole e priva di valore. Non sarebbe infatti corretto credere 36 ibid., p. 154
44
che, dopo il treno, la wilderness sia ancora presente solo nella Section. In realtà da quel
momento e fino alla fine del processo di maturazione del protagonista il pericolo sarà
nascosto in ogni cosa: dalla ricca famiglia degli Stilwind, implicati nella questione della
casa bruciata e della ragazza assassinata, al padre di Richard, che lentamente perderà ogni
freno diventando sempre più pericoloso anche per una persona esterna alla famiglia come
Stanley. Sarà la conclusione della vicenda a porre fine al viaggio del protagonista, che
dopo aver compiuto il rito potrà rientrare nella normalità della sua vita nella smalltown
finalmente trasformato.
In ogni caso, anche qui la storia è divisa in due parti, non perfettamente distinte come nel
racconto di King, ma altrettanto riconoscibili. Prima del momento di svolta, l’idillio; dopo
di esso, il disincanto e il pericolo. Tuttavia, se in Stand by Me la wilderness indossa i
panni se vogliamo più intuitivi della natura, nel romanzo di Lansdale essa è ben occultata
dietro la facciata della smalltown, quartiere nero o meno. Si può dunque arrivare ad una
prima conclusione: che il rapporto tra l’originale Il corpo di Stephen King e La sottile
linea scura di Joe R. Lansdale sia di naturale evoluzione. Se l’opera di King può infatti
rappresentare un archetipo37, quella dello scrittore texano pare, soprattutto in alcuni
passaggi, la sua riscrittura «modernizzata», ricca di elementi presi da altri generi narrativi
ma prodotta comunque da uno scrittore che con King ha in comune la grande
dimestichezza nel trattare atmosfere gotiche e storie spaventose. In ogni caso, frantumato
l’idillio ed entrati nello stadio di margine della wilderness, i nostri protagonisti dovranno
ora affrontare l’esperienza decisiva che darà un senso al loro viaggio all’interno del rito di
iniziazione, strappando l’innocenza dai loro cuori e macchiandoli con quel peccato
originale che la cultura americana sente continuamente gravare su di sé.
37 E’ qui necessario precisare che, nonostante in America siano stati pubblicati diversi romanzi di formazione antecedenti e nonostante parecchi elementi possano sembrare ripresi da Huckleberry Finn, considerato a sua volta e da molti un grande romanzo di formazione, Il corpo, e la conseguente trasposizione Stand by Me, rappresentano assieme una delle opere più importanti e conosciute che mostrano il rito di passaggio nella sua forma più essenziale, in un intreccio libero da altre storie parallele o secondarie.
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Morte e rinascita: la fine della storia Un forte rumore frusciante cominciò a levarsi tra gli alberi ai due lati della ferrovia, come se la foresta si fosse appena accorta che eravamo lì e stesse commentando la cosa. La pioggia era iniziata. Gocce grosse come monete mi caddero sulla testa e sulle braccia. Colpirono la massicciata, facendo per un attimo la terra nera – e poi il colore cambiava di nuovo mentre il terreno arido si beveva avidamente tutta l’umidità. Queste gocce grosse caddero forse cinque secondi e poi si arrestarono. Guardai Chris, e lui mi restituì lo sguardo. Poi, improvviso, il temporale si scatenò, come se in cielo avessero tirato la catena della doccia. Il suono bisbigliante di prima si mutò in una sfuriata violenta. Era come se ci stessero rimproverando la nostra scoperta, e faceva paura. Finché non sei al college nessuno ti parla dell’errore di prestare sentimenti umani alla natura… e anche allora ho notato che solo le teste più dure credono completamente che sia proprio un errore. Chris saltò giù per la scarpata, i capelli già bagnati e appiccicati alla testa. Io lo seguii. Vern e Teddy vennero subito dopo, ma Chris e io fummo i primi a raggiungere il corpo di Ray Brower. Era steso bocconi. Chris mi guardò negli occhi, la faccia tesa e seria – una faccia da adulto. Io annuii leggermente, come se avesse parlato ad alta voce. Penso che se era laggiù e relativamente intatto anziché su tra le rotaie e completamente maciullato, era perché stava cercando di togliersi dai binari quando il treno lo aveva colpito, scaraventandolo giù a capofitto. Era atterrato con la testa verso la ferrovia, le braccia sopra la testa come un tuffatore pronto a buttarsi. Era atterrato in questa sacca di terreno paludoso che si stava trasformando in un piccolo stagno. I suoi capelli avevano un colore rossastro scuro. L’umidità dell’aria glieli aveva leggermente arricciati. C’era sangue, ma non molto, non molto diffuso. Le formiche erano più grandi delle macchie di sangue. Aveva una maglietta di cotone verde scuro e i blue jeans. Aveva i piedi nudi, e a pochi passi dietro di lui, impigliati tra i rovi, vidi un paio di scarpe da ginnastica tutte sporche. Per un attimo fui perplesso – perché lui era qui e le sue scarpe lì? Poi capii, e la risposta fu un pugno cattivo sotto la cintura. […] Era stato strappato via dalle sue scarpe. Il treno lo aveva strappato via dalle sue scarpe come aveva strappato via la vita dal suo corpo.38
Eccoci davanti a Ray Brower, per la prima volta. Circondati dalla wilderness, sotto
enormi gocce di pioggia che sembrano quasi lacrime dal cielo, Gordie e i suoi amici
vengono a conoscenza della morte in un solo istante. La scena è drammatica, le pagine si
fanno scure come il cielo sotto il quale l’idillio sta per essere definitivamente distrutto, il
bosco si trasforma nel teatro della tragedia dell’infanzia, cancellata dalla visione catartica
del ragazzino travolto dal treno.
La rappresentazione che Stephen King ci offre in questi paragrafi è così evocativa che
sembra quasi di vederla. E in effetti non può che essere in questo modo, viste le premesse: 38 S. KING, op. cit., pp. 469-470
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un’opera ricca di simboli, nella quale l’autore racconta una parte di sé cercando di
mostrarla in modo completo ma allo stesso tempo essenziale. L’obiettivo di King è qui
evidentemente quello di valorizzare il più possibile il messaggio che il racconto intende
comunicare, e per raggiungerlo egli non lascia spazio ad alcun minimalismo. La perdita
dell’innocenza non viene solamente lasciata intravedere dalle larghe maglie di una trama
ben articolata, piuttosto viene mostrata con grande impatto drammatico all’interno di una
scena nella quale è il pensiero a comandare ogni cosa. Il corpo di Ray Brower è l’agente
di questo rito, e solo venendo a conoscenza di esso i quattro ragazzi potranno trovarsi di
fronte all’esperienza decisiva.
Tuttavia, solamente Chris e Gordie concluderanno la propria iniziazione, che nel loro caso
specifico coinciderà con l’inizio del percorso, in età adulta, verso il successo personale.
King anticipa questo nella frase «Chris e io fummo i primi a raggiungere il corpo di Ray
Brower»: oltre ad essere giunti per primi vicini al ragazzo esanime, essi sono i soli che nel
periodo di tempo racchiuso nel testo compiono il passo decisivo verso la maturità. Degli
altri due non ci è dato sapere molto, solo alcune frasi di epilogo per accennare alla loro
vita da adulti, che non ci sono tuttavia di grande interesse. Solo Gordie e Chris
comprenderanno nel profondo il significato della morte, aprendo finalmente gli occhi
sulla gelida realtà della natura; soltanto loro potranno quindi permettersi di affrontarla per
aspirare alla self reliance, sicuri di non venire schiacciati dall’imponente ombra che la sua
immagine proietta sul destino degli uomini. Prima della fine del racconto essi dovranno
dimostrare di poter far fronte all’oscurità che risiede fuori dai confini della smalltown, e lo
faranno, con una «resa dei conti» squisitamente romanzata, nel perfetto stile dell’opera di
Stephen King: quando il demoniaco Ace Merrill giunge per portare via il corpo e
prendersi il merito, accompagnato dai suoi amici (tra cui ci sono anche Eyeball Chambers,
fratello di Chris, e Billy Tessio, fratello di Vern), i due protagonisti si oppongono con
decisione alla sua volontà, in un primo momento a parole (Gordie risponde alle sue
provocazioni e non scappa quando egli si avvicina con i suoi compari per picchiarlo) e
successivamente, quando il pericolo si fa più concreto, agendo nel più classico stile dei
racconti di frontiera: Chris estrae la pistola del padre e spara un colpo in aria, reagendo
alla minaccia esterna e difendendo il cerchio ferito. Alla fine, il male abbandonerà il
campo sconfitto, lasciando il corpo ai vincitori, i quali tuttavia non lo porteranno con sé:
ora che tutto è avvenuto, la spoglia di Ray Brower ha perso il suo valore, sfruttando ogni
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carica simbolica come carburante per alimentare il rito, che si esaurirà assieme all’ultima
goccia di pioggia.
Non ha quindi importanza se, dopo qualche tempo, i quattro amici verranno presi a uno a
uno e picchiati per vendetta: la guerra sarà comunque stata vinta da loro durante la
battaglia al cospetto del corpo, quella in cui Gordie e Chris hanno dimostrato di poter
affrontare le minacce del mondo senza paura, come dei veri uomini. È evidente come
Stephen King abbia voluto descrivere la prima battaglia morale della vita dei quattro
personaggi nel modo più epico possibile. L’oscurità del bosco durante il temporale regala
all’ambientazione un indubbio carattere gotico, che l’autore sfrutta per evidenziare la
tragedia che egli stesso sente propria. Molto differente, da questo punto di vista, è la scena
che Rob Reiner ci mostra in Stand by Me: niente pioggia né grandine, ma un luminoso
tardo pomeriggio di fine estate. Gordie, e non Chris, punta la pistola contro Ace Merrill
dopo aver sparato un colpo in aria, rischiando forse di somigliare troppo a un cowboy che
affronta l’indiano nella wilderness. Lo stesso Ace, dotato del tratto somatico da «cattivo
ragazzo» di Kiefer Sutherland, sembra proprio quello che è: un delinquente di periferia
che si comporta da duro quando sa che può farlo. Siamo anni luce dal confronto decisivo
con il male attraverso cui l’autore del Maine ha voluto mostrarci la sua versione della
perdita dell’innocenza. Nonostante questo, il procedimento di attenuazione dei toni
operato dal regista porta a ottimi risultati: la scena è il naturale proseguimento di ciò che è
stato visto fino a quel momento, e il film ne guadagna in credibilità.
Leggendo il racconto, si rimane con l’idea che King abbia voluto scriverlo per liberarsi da
alcuni «fantasmi», e creando la figura di Gordon Lachance scrittore egli può aver messo
un filtro attraverso il quale parlare senza farsi riconoscere. Colui che scrive le parole che
leggiamo nel racconto è infatti proprio il protagonista, e ogni scena che la pagina ci
riporta sarà da noi vista attraverso i suoi occhi. Reiner, invece, ci mostra la storia di uno
scrittore che ricorda i fatti accadutigli da ragazzo. Ciò che noi vediamo è ciò che l’occhio
esterno della cinepresa ha immortalato su pellicola, in modo chiaro e nitido, ma parecchio
distante dal punto di vista di qualsiasi personaggio. Rimane la voce narrante dell’adulto
Lachance, a creare il ponte tra presente e passato, come la canzone che suona nel
tramonto all’inizio del film. È naturale che ci sia più distacco nel mostrare l’esperienza
decisiva, ed è quindi logico che in questa sede ci interessi di più la versione del racconto.
In essa, il contatto tra i protagonisti e la morte è una vera e propria bruciatura che lascerà
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per sempre il proprio marchio, e lo straniero non è un bullo da quattro soldi ma una vera
figura demoniaca, che rappresenta perfettamente l’immagine dell’altro come minaccia,
come la freccia che penetra nel cerchio ferito39.
In Stand by Me, il regista, oltre a mostrarci un’immagine più «normalizzata» di Ace
Merrill, sceglie anche di farlo vedere in altri momenti, con il risultato che il fatto di
trovarlo alla fine, un po’ come il «cattivo finale» di un videogioco, sia prevedibile. King
invece, inserendolo all’interno dei dialoghi e dei pensieri dei protagonisti, contribuisce a
creare un forte interesse sulla sua figura, per poi mostrarla solamente in piena wilderness.
Entrambe queste scelte sono giustificate dagli intenti comunicativi degli autori delle
opere: come abbiamo già visto, nel caso di King il forte simbolismo è dovuto sicuramente
a una sua eccessiva «immersione» all’interno delle figure dei protagonisti (e soprattutto
dentro lo scrittore-narratore Gordon Lachance); al contrario, nel caso di Reiner si pensa
che la volontà del regista di portare sugli schermi la trasposizione di un’opera esistente
abbia prodotto un ottimo film, molto curato e ricco di idee, che tuttavia, per ovvi motivi,
non riproduce le esatte sensazioni trasmesse da Il corpo, ma le ricrea seguendo una traccia
più positiva, tagliando molto sugli elementi gotici e oscuri, con il risultato di un prodotto
forse più credibile ma meno ricco di simboli, e sicuramente più adatto alle esigenze del
grande schermo.
Le cose si complicano quando andiamo a ricercare l’esperienza decisiva dentro La sottile
linea scura: essendo infatti la storia di formazione del protagonista inserita all’interno di
una trama noir, l’incontro di Stanley con la morte non tarderà molto ad arrivare. Tuttavia,
proprio come nel racconto di King, esso avverrà sotto la furia degli elementi atmosferici e
comprenderà il confronto con lo straniero, per quanto complesso questo possa essere.
Della scena si è già accennato in precedenza: nel capitolo 14, Stanley entra nella Section
per andare a vedere le condizioni di salute di Buster e, dopo averlo trovato ubriaco ed
essere stato cacciato, si trova, con il cane Nub, nel bel mezzo di un temporale all’interno
del quartiere nero:
Mi misi sotto una grossa quercia – o meglio, andai a sbatterci contro – e mi fermai, la schiena addossata al tronco, la pioggia gelida che mi faceva rabbrividire. Ripensai a quel che mi avevano insegnato a proposito degli alberi durante i temporali. Il posto peggiore era appunto sotto un albero, perché i fulmini
39 F. DRAGOSEI, op. cit., p. 11
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tendevano a colpire i punti più alti. Ma la quercia era grossa e massiccia. Il fogliame era ampio e fitto, e bloccava una bella quantità di pioggia, tanto da consentirmi di guardare attorno. Non molto lontano, certo, ma sempre più di quanto riuscissi a fare con l’acqua che mi scendeva a catinelle giù per il viso. Forse era il caso di approfittare della protezione dell’albero, pensai, a di aspettare che la bufera calasse, o passasse del tutto, ma on appena il fulmine tornò a lampeggiare mi toccò cambiare opinione alla svelta. A poco più di tre metri di distanza, col cappello calato sul volto, c’era un omaccione di colore, le mani penzoloni sui fianchi come prosciutti appesi a tratti di corda scura e contorta. Al lampo, sollevò la testa e inchiodò gli occhi su di me. Non ho mai più visto tanto odio sul viso di qualcuno; quegli occhi erano neri come gli spioncini della porta dell’inferno. Nub ringhiò e si strinse contro di me. Poi quel volto malvagio scomparve, e io mi ritrovai all’interno del mio piccolo raggio di visuale. La pioggia, oltre i fitti e fronzuti rami della quercia, era impenetrabile come le cortine di un carro funebre.40
L’incontro con Bubba Joe dentro la wilderness è per Stanley il primo momento di
confronto con le proprie paure, e in questo caso esse sono rappresentate dallo stereotipo:
un nero, grosso e spaventoso, che guarda il protagonista con occhi carichi di odio e
malvagità. Agli occhi di un tredicenne bianco del Texas degli anni Cinquanta la minaccia
arriva dunque dall’indiano, o da chi per lui, dipinto da Lansdale con le orribili fattezze
dello squalo che minaccia Watson nel quadro Watson and the Shark di John Singleton
Copley, di cui parla Dragosei:
Il soggetto non avrebbe niente di straordinario: un uomo aggredito da uno squalo. Quello che però è straordinario è il modo in cui l’evento è rappresentato. […] Nell’acqua diafana e immateriale, Watson, implausibilmente nudo, ha un incredibile corpo morbido e roseo, abbagliante di inerme innocenza offerta allo squalo che si accinge a divorarlo. E’ un angelo? Non lo sappiamo. La sognante tenerezza delle sue carni ci induce a sospettarlo. Di sicuro invece sappiamo che lo squalo che lo sta per divorare non è uno squalo, ma l’essenza stessa del male. Nero, con occhio di dannato e fauci infernali, esso è la personificazione del male nel mondo che si accinge a distruggere l’innocenza. E non basta. Osservando con attenzione le enormi labbra sensuali del mostro, abbiamo la sensazione che esse rimandino piuttosto allo stereotipo di un africano che a uno squalo; che la scena raffigurata da Copley ci dica involontariamente qualcosa anche sul rapporto che i nuovi arrivati vanno stabilendo con gli schiavi deportati dall’Africa.41
La breve descrizione dello squalo che l’autore ci propone ricorda molto quella che
Lansdale fa di Bubba Joe, e la cosa è sospetta. Viene da chiedersi: non può essere che,
40 JOE R. LANSDALE, op. cit., p. 168 41 F. DRAGOSEI, op. cit., p. 23
50
forse, lo scrittore voglia comunicarci qualcosa? Siamo proprio sicuri che Lansdale abbia
voluto raffigurare il confronto con l’altro, che abbiamo visto essere nell’opera di King la
raffigurazione del confronto con il male, o con la paura, in una scena che è effettivamente
il più grande luogo comune dell’immaginario gotico americano? Nella wilderness, sotto
un temporale pirotecnico che trasforma il giorno in notte, di fronte alla personificazione di
tutte le paure che hanno sempre accompagnato il rapporto del bianco degli Stati Uniti con
lo straniero, Stanley non è in una condizione molto diversa da quella di Watson. Non è
nudo, certo, ma rappresenta comunque l’infanzia, e quindi l’innocenza non ancora
perduta.
E’ tutto perfettamente inserito nel cliché. E’ tutto così banale.
O forse no. Forse ci sbagliamo.
Le avvisaglie che le cose non stanno proprio così del resto ci sono già state. Una di queste
l’abbiamo già riportata, ed è il dialogo tra Buster e Stanley sulle arpie42 e sull’errore di
giudicare una cosa dall’aspetto. Un’altra riguarda da vicino lo stesso Bubba Joe, ed è una
dialogo tra il giovane protagonista e Rosy Mae:
- E lui ti vuole bene? - Secondo me lui non vuole bene a nessuno. Neanche a lui stesso. Ah, signor Stanley… Stanley. Devi amare te stesso prima che puoi amare tutto il resto. Anche se è un fiore, o una chissà che pianta che stai facendo crescere. Capisci quel che dico? - Sì, signora. - Sei così educato. - E così pensi che ti potrebbe fare del male? - Eggià. Ma non pensare troppo male di lui. Lo sai cosa dice la Bibbia sul fatto che non bisogna giudicare gli altri prima di essere giudicati per se stessi? - No, - dissi. - Bé, dice proprio quello. Da qualche parte. O forse me l’ha detto un predicatore, però visto che mi teneva la mano sul ginocchio, mi sa che non mi stava mica dicendo la verità. E io gliel’ho detto, lei forse non dovrebbe giudicare, ma io di sicuro dovrei dirle di levarmi la mano dal ginocchio. E così ha fatto… Bubba Joe ne ha passati di tutti i colori, signor Stanley. - Stanley e basta. - Sissignore. I bianchi gliene hanno fatte di cotte e di crude. - Bianchi? Come? Rosy Mae scoppiò a ridere. – Oh, bambino mio, sei proprio un tesoro. E non sai proprio niente, e meno male che adesso è così, perché quando saprai qualcosa allora tutto sarà diverso. Allora tutti quelli di colore diventeranno negri. - Non penso.
42 vedi cit. p. 41
51
- Spero che hai ragione, figliolo. Lo spero davvero.43
Per quanto Rosy Mae possa essere innamorata di Bubba Joe, il suo punto di vista risulta
perfettamente credibile. Nelle pagine successive, infatti, la donna racconta a Stanley tutto
ciò che il suo uomo ha passato per colpa dei bianchi, parlando anche di Ku Klux Klan e di
posti in fondo sugli autobus. Non capita spesso che qualcuno prenda le difese del male. Le
azioni di Bubba Joe passano quindi da espressione di pura cattiveria a frutto di un rancore
profondo e incancellabile, acquistando, seppur ingiustificabili, una sorta di motivazione.
Per la prima volta, all’interno del romanzo, ci troviamo di fronte alla contrapposizione nei
fatti tra apparenza e realtà, tema che ruoterà attorno alla figura di Buster, aggiungendo una
nuova sfumatura al rapporto con lo straniero. Sarà, infatti, proprio uno straniero a salvare
la vita a Stanley nel capitolo 14: Buster, in preda ai sensi di colpa per aver cacciato di casa
il ragazzo, compare nell’oscurità e fronteggia Bubba Joe. In una breve colluttazione in cui
compaiono anche dei colpi di Jujitsu, il vecchio proiezionista riesce ad avere la meglio e a
uccidere l’avversario, sotto gli occhi atterriti del giovane protagonista che, esattamente
come Gordon Lachance, sosterrà in seguito di essere continuamente tormentato in sogno
dall’immagine del volto del cadavere.
Siamo giunti a un momento importante della narrazione: la figura dello straniero visto
come essenza del male abbandona il campo per lasciare il posto a un’immagine, se
vogliamo paterna, che difende il protagonista dagli attacchi della wilderness e, come si è
già visto, si addossa il compito di insegnargli a capire le contraddizioni della società.
Nonostante questa ambivalenza della figura dell’altro fosse già stata accennata più volte
nei capitoli precedenti, è in questo passaggio che essa si manifesta chiaramente. Possiamo
dire quindi che la prima morte con cui Stanley si trova a fare i conti è quella dello
stereotipo, da cui il giovane protagonista si libererà grazie all’aiuto di Buster: non
l’esperienza decisiva, dunque, ma un’altra soglia varcata, un ulteriore momento di
passaggio verso la maturità.
Da questo punto in poi ogni facciata nasconde qualcosa di misterioso, l’apparenza diventa
ingannevole e il processo di formazione di Stanley si trasforma quasi in un «corso» per
imparare a vedere oltre la forma esteriore. Le indagini sul caso delle due ragazze uccise e
delle lettere d’amore portano infatti a far riemergere dal passato inquietanti verità in cui è
43 JOE R. LANSDALE, op. cit., p. 49
52
implicata la più ricca e potente famiglia di Dewmont, gli Stilwind: incesto, violenza
carnale, omicidio, ogni forma di perversione giace tra le acque oscure sotto la luminosa
superficie dell’immagine sociale. Con l’aiuto di Buster, il protagonista impara a muoversi
in questo labirinto di specchi, ed acquisisce anche un metodo di indagine molto rigoroso
che gli servirà per il lavoro, nella sua vita da adulto.
Lo straniero, quindi, non è più il male che minaccia la purezza all’interno del cerchio,
come lo squalo nel quadro di Copley, ma diventa qualcosa di più simile a un genitore: tra
Buster e Stanley c’è infatti un continuo passaggio di codici, atto a trasmettere al ragazzo
le nozioni per poter diventare adulto, quasi una chiave per entrare in un mondo che fino a
quel momento gli era precluso. Ma non solo. Anche Rosy Mae, personaggio in continua
oscillazione tra una parodia da minstrel show dello schiavo (a tratti ricorda molto la figura
della serva di colore nella casa signorile del Sud, diventata famosa grazie a molti film) e
una forte immagine materna (soprattutto per le sue doti culinarie), avrà un grande rapporto
d’affetto con Stanley, che a volte quasi sostituisce quello tra il protagonista e la madre
Gal, personaggio lasciato molto spesso in secondo piano.
Si può dire perciò che, mentre nel racconto di King e in Stand by Me l’esperienza decisiva
mette il protagonista di fronte alle proprie paure, costringendolo ad affrontare la morte
dentro la wilderness per dare valore al suo ritorno dallo stadio di margine, nella Sottile
linea scura si oltrepassa questo per mostrare una maturazione più evoluta, che richiede al
personaggio principale la capacità di andare oltre le apparenze e gli stereotipi per potersi
muovere nel mondo degli adulti. Questo non significa che l’opera di Lansdale sia migliore
o più completa rispetto a quella di Stephen King; piuttosto, ci troviamo di fronte a due
modi diversi, seppur all’interno dello stesso contesto culturale, di raccontare la
formazione del personaggio. Se Il corpo può infatti rappresentare per l’autore del Maine
un’opera catartica, La sottile linea scura è invece un ottimo romanzo noir che, pur
attingendo da molti altri generi, presenta un intreccio all’interno del quale la storia di
formazione del protagonista è, seppur il più importante, solo uno dei fili che si possono
scegliere di seguire per avventurarsi nella narrazione.
In ogni caso, viste le premesse e visto lo stile dell’autore texano, l’esperienza decisiva non
mancherà di essere sconvolgente anche su queste pagine, seppur forse un po’ troppo
isolata dal resto della trama: risolto il caso, Stanley e Richard si avventurano ancora nel
bosco di notte. Dopo aver scoperto inquietanti verità sul signor Chapman, il padre di
53
Richard, i due ragazzi si trovano a fronteggiarlo, delirante e fermamente deciso a
ucciderli. Dopo una fuga che li porta nella vecchia segheria abbandonata, sarà l’amico del
protagonista a porre fine all’inseguimento, tagliando la testa del padre con una falce.
Questo segnerà l’effettiva fine della vicenda, dopo di che potrà avvenire il ritorno a casa,
come in Stand by Me: i personaggi tornano dalla wilderness, portando con sé il tesoro
dell’esperienza vissuta. Ciò li avrà cambiati, e la loro vita da qui in poi sarà diversa.
Il rito di passaggio prevede che l’iniziato, durante il periodo di margine, venga a
conoscenza della morte e si confronti con essa, e sarà questo incontro a permettergli di
tornare a casa. Se ciò non avverrà, il rito non potrà considerarsi completo, e il viaggio
nella wilderness sarà stato inutile. Tuttavia, la morte può avere diversi significati e
raffigurare differenti «passi» del protagonista durante il processo di formazione: abbiamo
già visto come nel caso di Bubba Joe essa simboleggi, per Stanley, la scomparsa
dell’immagine stereotipata dello straniero, in favore di una sua diversa rappresentazione
che si sviluppa progressivamente nella figura paterna di Buster (il quale, infatti, conclusa
la vicenda, cesserà di vivere lasciando in eredità al ragazzo tutti i suoi libri). Un ulteriore
esempio si può trovare nelle Avventure di Huckleberry Finn, quando il giovane Huck
«simulerà» la propria fine utilizzando sangue di maiale per poter scappare indisturbato dal
padre violento. Anche nel racconto La terza cosa che ha ammazzato mio padre, di
Raymond Carver, la vista del corpo di Dummy, amico del padre del protagonista e voce
narrante, significa per lui la fine dei bei tempi e «l’arrivo dei tempi duri»44. Nel caso di
Stand by Me, poi, il corpo di Ray Brower rappresenta il cadavere dell’infanzia che, con i
suoi occhi fissi al cielo, guarda l’arrivo dell’autunno e della pioggia, sotto la quale Gordie
e Chris affrontano la wilderness, accettando una delle sfide che la vita fuori da Castle
Rock ha in serbo per loro.
La perdita dell’innocenza, la fine dell’idillio, in fondo non sono altro che questo: la morte
dell’illusione di una vita felice, libera e priva di responsabilità com’è l’infanzia. Pronta a
prendere il suo posto ci sarà invece la consapevolezza che il mondo avanza, indifferente e
inesorabile come il treno che irrompe nella Valle Addormentata, distruggendo la serenità
che prima in essa regnava e portando con sé la paura dell’indiano e delle insidie della
natura. Dopo il suo sconvolgente passaggio, destinato a lasciare il segno e a cambiare ogni
44 R. CARVER, La terza cosa che ha ammazzato mio padre, in R. CARVER, Da dove sto chiamando – Racconti, Minimum Fax, Roma, 1999, p. 238
54
cosa, facendo da pretesto per lo stupro di una terra e lo sterminio di un popolo, rimarrà
solo il ricordo, che sia esso di un’estate o di un paradiso perduto, malinconico come una
vecchia canzone suonata al tramonto, in ogni caso sempre pronto a essere evocato
attraverso centinaia di storie che parlano di viaggi nel tempo e nello spazio. Esso è la
porta, l’unico vero passaggio per poter ritrovare le sensazioni che riempivano, secoli fa, le
menti delle persone che si apprestavano a raggiungere un continente vergine, per scappare
dall’oppressione della società europea. Che parli effettivamente dell’infanzia, il romanzo
di formazione americano, o che sia una metafora della disillusione di una nazione, poco
importa: in entrambi i casi esso ci racconta, per l’ennesima volta, la distruzione di
un’utopia.
55
Bibliografia
TESTI PRIMARI:
• King, Stephen, Il corpo, Stand by me, in Stagioni diverse, Sperling & Kupfer,
Milano, 1987
• Lansdale, Joe R., La sottile linea scura, Einaudi, Torino, 2004
TESTI SECONDARI:
• Carver, Raymond, La terza cosa che ha ammazzato mio padre, in Da dove sto
chiamando, Minimum Fax, Roma, 1999
• Dragosei, Francesco, Lo squalo e il grattacielo, Miti e fantasmi dell’immaginario
americano, Il Mulino, Bologna, 2002
• Fiedler, Leslie, Amore e morte nel romanzo americano, Longaniesi, Milano, 1983
• Hawthorne, Nathaniel, Il giovane Compare Brown, in Opere scelte, Mondatori,
Milano, 1994
• Marx, Leo, La macchina nel giardino, Edizioni Lavoro, Roma, 1987
• Moretti, Franco, Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino, 1999
• Twain, Mark, The Adventures of Huckleberry Finn, Penguin, London, 1994
• Van Gennep, Arnold, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino, 1981