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Davide Caocci Castoro Riflessivo «Buongiorno Mondo!» primi passi di un uomo della Partenza sul cammino della vita

Buongiorno mondo! (di Castoro Riflessivo)

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Le pagine qui raccolte sono state “vissute” 20 anni fa, tra il 1992 e il 1993, e ritrovate oggi quasi casualmente: da allora, ho percorso molte strade e seminato molti pensieri in giro per il nostro mondo, ma ritengo che quei semi possano ancora portare frutto. Ecco perché mi sono deciso a dar loro una veste organica e offrirli liberamente a tutti coloro che sceglieranno di dedicare qualche momento alla lettura, alla riflessione, al confronto, alla elaborazione di una modalità originale per “lasciare questo mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato” (B.-P.). Grazie a tutti, buona lettura e “Buona Strada”!

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Davide Caocci ���� Castoro Riflessivo ����

«Buongiorno Mondo! »

primi passi di un uomo della Partenza sul cammino della vita

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A tutti i fratelli scouts e sorelle guide, dall’ultima zampa tenera al Grande Capo

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Pre-presentazione opportuna Le pagine qui raccolte sono state “vissute” 20 anni fa, tra il 1992 e il 1993, e ritrovate oggi quasi casualmente: da allora, ho percorso molte strade e seminato molti pensieri in giro per il nostro mondo, ma ritengo che quei semi possano ancora portare frutto. Ecco perché mi sono deciso a dar loro una veste organica e offrirli liberamente a tutti coloro che sceglieranno di dedicare qualche momento alla lettura, alla riflessione, al confronto, alla elaborazione di una modalità originale per “lasciare questo mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato” (B.-P.). Grazie a tutti, buona lettura e “Buona Strada”! Milano, 2013

Davide Caocci � Castoro Riflessivo �

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Due parole di necessaria presentazione Non sono uno scrittore e le pagine che seguono non hanno la pretesa di essere considerate un’“opera letteraria”; sono semplicemente uno scout, come molti di coloro che leggeranno questo quadernetto, più in generale sono un ragazzo che vive delle splendide esperienze insieme ad altri, grandi e piccoli, divertendosi un mondo e capendo, poco alla volta, ma sempre più in profondità, che quel divertimento ha una ragione ultima che è grandissima. Non voglio trarre io delle conclusioni che altri, forse hanno già fatte proprie, né voglio anticipare quelle di chi è ancora in cammino; voglio solo dire a chi avrà la compiacenza di non saltare questa introduzione che tutte le parole qui raccolte sprizzano vita, gioia, sudore, stanchezza, rabbia, lacrime, fede: in una parola, Amore!

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Sono tutte “parole vissute”, ed io ho avuto solo il compito di metterle per iscritto. Non merito complimenti perché non ho fatto fatica, avendole vissute sulla mia pelle; non merito complimenti anche perché è un caso che portino la mia firma e non quella di altri, di molti altri che hanno vissuto queste stesse parole insieme a me (Simona, Paola, Paolo, Massimo, Beppe, Lella, Maurizio, Ketty, Luigi, Gio, ... e tanti altri). L’intento perseguito è quello di offrire ad altri, giovani e meno giovani, scouts e non scouts, comunque attenti al valore educativo del vivere insieme, in gruppo, in comunità, delle riflessioni scaturite da giorni, mesi, anni di vita in comune in un certo “stile”, per noi quello scout. A voi ora, dunque, con la speranza di trovare, domani, milioni e milioni di simili “parole vissute”.

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Quattro chiacchiere sul Dio-prezzemolo Già Francesco d’Assisi nel 1225 componendo il suo Cantico tentò di “volgarizzare”, di “laicizzare” la lode che ogni figlio di Dio deve alla gloria del Padre che è nei cieli evidenziando, con grande abilità poetica, la presenza dell’Amore del Creatore, o dell’Amore-Creatore, in ogni creatura, in ogni esperienza del creato. Esplicito anche l’invito della lettera ai Colossesi: “E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di Lui grazie a Dio Padre” (Col 3,17), dal quale promana la vocazionalità del cristiano a vivere sì nel mondo, nel secolo, ma da testimone, da sponsor di quella novità annunciata agli uomini duemila anni fa e sempre attuale benché a volte appaia dimenticata o superata da nuove ideologie

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rivoluzionarie o da moderni carismi messianici. Ed ecco dunque che oggi chi testimonia “troppo” o con troppa veemenza ciò in cui crede fermamente, è considerato dalla pubblica opinione un baciapile, mentre chi trascorre la sua esistenza senza mai dichiarare più o meno esplicitamente “Io credo in ...” ottiene la gratificante qualifica di uomo moderno ed emancipato dalle tradizionali superstizioni di origine ebraico-cristiana. Ponendomi controcorrente, io voglio invece proporre un concetto, un’idea, un’immagine che, per quanto ardita possa sembrare, rappresenta in maniera istantanea e chiarissima quello che è o dovrebbe essere il modus vivendi del cristiano secolare alle soglie del 2000: si tratta dell’immagine del “Dio-prezzemolo”. Con questo termine intendo definire quel modo di vivere operosamente riconoscendo

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in ogni momento della propria esistenza i doni-manifestazioni del Signore. Ogni cosa è fatta per l’uomo; ogni cosa è fatta da Dio: perché dunque l’uomo dovrebbe disconoscere tale forte legame, legame d’amore, tra sé ed il Creatore del tutto, tra la Creatura per eccellenza, padrona del Creato, ed io proprio Fautore? Necessita quindi oggi più che mai una riscoperta ed una applicazione vera e sentita del “Dio-prezzemolo”, di quella lode continua a Dio esercitata con i gesti della vita quotidiana a Lui consacrati, senza comunque dimenticare i momenti esclusivamente dedicati a Lui quali la celebrazione eucaristica o la preghiera personale. Si tratta allora di rivedere, di riprogrammare la nostra vita non per inserirvi il minuto di meditazione quotidiano, ma per far sì che ogni minuto, ogni istante divenga meditazione, contemplazione, al limite scoperta e lode di Chi ci ha donato la vita, il

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mondo per viverla, dei fratelli sui quali riversare l’amore generatore al quale partecipiamo in quanto figli di Dio. Il prezzemolo è un condimento che si presta ad essere impiegato in un gran numero di ricette; generalizzando si potrebbe dire che un piatto non ha sapore se non gli si aggiunge un po’ di prezzemolo; ed è proprio questo sapore da dare a tutti i piatti che ci vengono posti davanti, a tutti i pranzi consumati nella nostra vita, di fretta, sontuosamente, al ristorante, in casa, ovunque e comunque, che bisogna riscoprire. Se si relega il “Dio-prezzemolo” alle sole grandi occasioni, alla domenica, ai giorni di festa, alle comunioni o ai matrimoni, si finisce col fare le famose grandi abbuffate una volta tanto che, del lauto e saporito banchetto, lasciano come unico ricordo un po’ di acidità di stomaco e niente più. Rendendo invece quotidiano il sapore della festa si avrà un sicuro giovamento generale

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per l’aspetto celebrativo che si dà al proprio vivere (“Con la vita celebro la vita e Chi me l’ha donata”) e si potrà ridimensionare l’eccessiva spettacolarità che l’ipocrisia dell’uomo ha affidato ai grandi pranzi di gala dello spirito che prima ricordavo. (Senza dimenticare che si eviteranno le acidità di stomaco!) Dio dunque deve trovare posto nel nostro essere di ogni giorno, deve essere ogni nostro giorno, tutti i giorni della nostra vita, deve essere la nostra vita: dobbiamo portarLo con noi e sentirLo con noi, nostro simile perché fatti a Sua immagine e somiglianza, Suoi figli, e così facendo sarà cosa naturalissima che al settimo giorno, il giorno del riposo dopo il lavoro, l’uomo voglia far festa partecipando al banchetto del Padre, di quel Padre che l’ha accompagnato durante tutta la settimana, nella fatica e nella preoccupazione come nella gioia e nella soddisfazione, e non avrà desideri di altre

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forme di festa, riposo o ringraziamento che escludano quell’estraneo d’un “Dio lontano”. “Dio-prezzemolo”, allora, Dio della nostra vita per darle finalmente un nuovo e vero sapore.

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Bisogna imparare a dire: “Ti voglio bene!!!” Oggi dire ad una persona “Ti voglio bene!” è diventato un tabù, tabù sociale, moderno, tecnologico, efficientista, per cui i rapporti interindividuali devono basarsi unicamente su una volontà di tipo contrattuale o pseudotale (quindi: superiore-subordinato; datore di lavoro-lavoratore; soci; purtroppo alcuni casi di rapporto uomo-donna, financo il matrimonio). Per tali situazioni l’unica formula che possa essere validamente utilizzata è quella dell’“Io voglio!”, tanto da una quanto dall’altra parte. Per riuscire ad arrivare invece al bellissimo “Ti voglio bene!”, occorre innescare un procedimento a catena che rivoluzioni ogni livello del nostro essere.

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Innanzitutto rendiamoci conto di cosa sia racchiuso da queste tre parole: l’io individualista possessivo proprio dell’“Io voglio” scompare dalla posizione di primazia lasciando il suo posto ad un “Ti” di meravigliosa valenza altruistica che apre il sé ad il resto del mondo, incondizionatamente; se poi il singolare della particella potesse sembrare esclusivo, non vi sono problemi a sostituirlo con un ugualmente valido “Vi”, per il quale però le modalità di applicazione risultano parimenti problematiche. Alla dichiarazione del destinatario (“Ti”) fa seguito la descrizione di quel qualcosa che costui deve ricevere: si tratta della propria volontà! Propria sì perché è sempre il soggetto singolo che deve agire, che deve porre in essere il qualcosa a cui ci stiamo riferendo; volontà sì perché si vuole sottolineare la forza che tale atto deve avere e promanare, e per cui un semplice desiderio non sarebbe sufficiente; ma comunque, ed è questo a distinguere

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principalmente e fondamentalmente le due formule che sto analizzando, questa potente volontà di un essere indirizzata ad un altro da sé ha per oggetto il bene, o Bene, o amore che dir si voglia. Dunque è questo “bene” che diviene caratteristica peculiare di quella scelta di vita rivoluzionaria che sta alla base di tutto il nostro discorso; ed è sempre questo stesso “bene” che diventa il vero fondamento per la costruzione di un rapporto nuovo, diverso, più vero, tra persone nuove, diverse, più vere. Persone che considerano il bene dell’uomo come il dono più grande che esse abbiano ricevuto venendo al mondo e che vogliono sia vissuto appieno da sé e da tutti coloro che incontrano sul proprio cammino ogni giorno; ecco allora che spargono questo lieto saluto che ricorda, anche solo per il significato globale che esso assume, il Salama della tradizione araba o lo Shalom di quella ebraica, e che porta in sé, oltre a tutto il bene che una persona prova per un’altra, il ringraziamento per la sua esistenza, a sua

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vita nel mondo e la sua azione al proprio fianco, la gratitudine per la cura e le attenzioni prestate e mille altre cose che solo le singole circostanze possono conoscere. In definitiva è racchiuso un intero mondo, un’intera vita, in questa frase lunga un secondo. E proprio grazie a questa formuletta magica si potrebbe cominciare a portare qualche piccola modifica all’egosistema in cui viviamo: infatti sciocca molto più profondamente un “Ti voglio bene” lanciato gratuitamente che un forte improperio alla volta di un notabile maneggione di indubbia fama. Ma non penso che questo possa far desistere chi fermamente crede nella forza del “Ti voglio bene” e nelle sue capacità terapeutiche: è questa una ideologia, una mentalità, una religione ... ... “Amatevi l’un l’altro come Lui vi ha amato”, e nulla più si richiede agli uomini.

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“Ti voglio bene” dunque, anzi “Vi voglio bene”!!!

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Si fa tutto giocando, non si fa niente per gioco Lo stress della vita di tutti i giorni porta oggi sempre più persone a ricercare specifici momenti di svago che diventano tanto più vuoti di significato quanto più aumento il peso della quotidianità da sopportare. Si chiede allora di giocare, di giocare, di giocare, senza capire che non è ammissibile il gioco fine a se stesso, che neanche i bambini, quando sembra che non facciano altro che “stupidi” giochi, in realtà stanno attuando il loro vero essere, realizzando la propria dimensione bambino. Mentre l’adulto, o almeno colui che anagraficamente è ritenuto tale, troppo preoccupato dalla serietà operativa del suo agire professionale, riesce a convincersi che il vero gioco è solo quello in cui la materia grigia viene lasciata a riposo, in cui si è

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esonerati dal pensare, in cui la materia corporale agisce senza nessun intervento di quella spirituale comunque propria dell’uomo, dove viga dunque un totale laisser-faire ludico da paese dei balocchi di collodiana memoria. Bisogna invece rendersi conto che, come mi ha insegnato un grand’uomo che possiede ancora uno stupendo animo da bambino, si fa tutto giocando ma non si fa niente per gioco. In verità questo suo insegnamento si riferiva al comportamento da tenere nell’applicazione di un particolare metodo educativo a dei bambini, i veri maestri del gioco; ma sono convinto non me ne vorrà a male per l’uso estensivo che faccio dei suoi insegnamenti. Infatti a parer mio questa regola di vita si presta benissimo ad essere applicata anche all’educazione, o se vogliamo alla formazione, di adulti seri ed impegnati. Ma andiamo con ordine. Una volta che ci si è resi conto del fatto che il tempo passa per tutti e che la propria vita si svolge sempre più

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davanti ad un tavolo da lavoro e sempre meno a correre in bicicletta al parco o a tirar calci al pallone all’oratorio, allora si cerca di compensare questo desiderio di spensieratezza gettandosi nel “gioco” sfrenato, dissennato, insensato, stupido. Un gioco che sicuramente impegna del tempo, spesso anche degli interi fine settimana, sicuramente richiede energie fisiche, alla fine si è spossati (pronti a riprendere diligentemente ed uniformamente il proprio piccolo posto nel sistema), sicuramente porta a vedere moltissima gente, gli stressati sono moltissimi, sicuramente permette di non pensare per qualche ora a ... starei per dire “ai vari e gravosi dilemmi della vita e del mondo” ma preferisco dire soltanto “permette di non pensare”. Ed ecco il vero problema del gioco oggi: chi chiede di giocare spesso è solo alla ricerca di una parentesi della propria vita, di un rifugio ove possa fuggire alle responsabilità che il crescere inevitabilmente, e fortunatamente, comporta, per tornare quasi allo stato

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prenatale in cui il bambino in formazione è al sicuro dal mondo esterno, di cui ha una percezione attutita e lontana, e deve unicamente preoccuparsi di ricevere regolarmente il nutrimento da colei che lo porta in grembo. È logico che in questi casi non sia possibile vivere il gioco “per ...”, ma si avrà, si cercherà e si desidererà unicamente il gioco fine a se stesso. Difficile appare dunque capire la seconda parte di quell’insegnamento sopra proposto: non si fa niente per gioco, dopo aver affermato in modo tanto deciso che si fa tutto, o si può fare tutto, giocando. Sembra una contraddizione in termini, invece non lo è: nell’educazione dei bambini è ormai comunemente accettato che il metodo migliore per arrivare ad ottenere risultati apprezzabili è quello di proporre al soggetto educando gli oggetti che dovranno far parte della sua formazione nella maniera a lui

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meno estranea possibile, anzi ancor meglio sarebbe se il soggetto in questione partecipasse a tale azione in maniera diretta sì ma inconsapevole. Questo può avvenire, per esempio, con l’impiego del gioco, elemento proprio del bambino ma che, opportunamente indirizzato, consegue lo scopo di trasmettere enormi moli di dati di qualsiasi natura, di farli ricevere con incredibile facilità (proporzionata comunque alla bravura dell’educatore), di farli assimilare al ricevente perché legati ad un momento particolare e proprio (da qui l’importanza a che le aule scolastiche perdano quella seriosità da gabinetto ministeriale che fa invecchiare i bambini prima di farli diventare uomini) e, attraverso questo, di far esprimere la sua autentica personalità perché non costretto in un ambito “ufficiale”, “da grandi”, ma libero di muoversi, ben inteso sotto attenta e preparata guida, in un ambiente fatto in scala per lui. Come il bambino ha la propria dimensione “gioco”, così l’adolescente e l’uomo hanno le

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proprie e tipiche, senza con questo escludere che il gioco possa trovare posto anche in stadi di formazione successivi al primo. Ciò che voglio qui mettere in evidenza è che mentre per il bambino il gioco è caratterizzante e peculiare per ogni aspetto della propria vita (gioco è l’apprendimento prima descritto, gioco è la pappa, gioco è il lavarsi, etc.), per l’adulto, per il non-bambino, il gioco diventa un aspetto di quella multiforme varietà di patrimoni che dovrebbe aver accumulato e che, ora, dovrebbero dare i loro frutti grazie alla loro oculata e matura combinazione ed alla discrezionalità di giudizio di chi la pone in essere. Chiarito, dunque, questo, mi sembra però di poter sentire le rimostranze di quanti si vedono colpiti da questo mio scritto: “Allora il si fa tutto giocando, non si fa niente per gioco vale solo per la pedagogia infantile”, oppure “Allora anche il divertimento, anche il gioco, sono cose serie”, e ancora “Ci si prende in giro da piccoli e non ci si permette di divertirci neanche da grandi”.

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Tutte queste critiche (quante volte me le sono sentite rivolgere!) sarebbero a questo punto accettabili solo a condizione che chi me le pone abbia attentamente letto quanto scritto in queste pagine e non ne sia comunque rimasto convinto, oppure abbia avuto l’opportunità di confrontarsi personalmente e direttamente con qualcuno che la pensa in tal modo e tuttavia sia rimasto radicato nelle sue posizioni iniziali: situazioni apprezzabilissime certo, ma per ovviare alle quali mi sento di dovere spendere ancora due parole per completare il discorso fin qui fatto e per offrire nuovi spunti di riflessione e, spero, di discussione. Cerchiamo adesso di allargare il nostro orizzonte: assunto che il gioco è una delle molteplici dimensioni del complesso essere uomo, e che non può esistere un gioco intelligente che sia fine a se stesso, si potrebbe avanzare la proposta, per l’individuo adulto nel senso prima considerato di non-bambino, di adottare la divisa “si fa tutto

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giocando, non si fa niente per gioco” quale style of life. Ciò significherebbe adottare in perpetuum quello spirito di gioia gratuita, non il sorriso ebete o la risata sguaiata, che è propria del gioco vissuto con intelligenza e maturità, e portarlo con sé sempre, in ogni occasione della propria vita, impegnandosi a godere nel modo più pieno fin il più piccolo piacere che la nostra esistenza può offrirci, e questo ricordandosi del precetto “si fa tutto giocando”. E in fondo cos’è la vita se non uno stupendo e sempre imprevedibile grande gioco? Ma ci si deve poi rammentare che “non si fa niente per gioco”, e quindi la gioia non deve portare ad un ottimismo incosciente ed acritico, ma ad un real-ottimismo maturo che sappia, nelle cose della vita, discernere il positivo dal negativo e, in forza della gioia che si porta dentro, esaltare il primo senza comunque scordarsi dell’esistenza del secondo. Al limite si arriverebbe a portare il

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sorriso anche nelle avversità memori delle gioie capitalizzate, godendo di un continuo buon umore (“si fa tutto giocando”) e contemporaneamente si renderebbe un inestimabile servizio al mondo, almeno a quel microcosmo che gravita quotidianamente intorno a noi, illuminando con la luce di un volto radiante il grigiore di chi ha dimenticato come si fa a sorridere, di chi si considera troppo grande per mettersi a scherzare, di chi colloca i sorrisi o le risa solo in apposite parentesi (“non si fa niente per gioco”). Dunque, gioco intelligente, gioco-vita, gioco educativo, gioco-servizio, gioco-gioco, gioco-parentesi, gioco ebete, gioco ... a voi scegliere quale; a voi scegliere come giocare, la vostra vita.

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Servizio? No, grazie! Quando servizio significa sporcarsi le mani (nel senso proprio del termine), vedere colare fino a terra il proprio sudore, arrivare stanchi a casa la sera, collaborare con altri alla costruzione di qualcosa che si vede crescere pian piano grazie agli sforzi di tutti e di ciascuno; quando, con una parola, servizio significa “compromettersi”, vale a dire “mettersi con qualcuno (altro rispetto a sé) per qualcosa (che si ha in comune)”, allora e solo allora il servizio comincia ad essere veramente servizio. Prima si hanno solo belle e vacue parole che possono intessersi in pomposi discorsi ma che mai muteranno la realtà in cui ci si trova. Se invece il servizio vuole qualificarsi come impegno nel reale, quasi azione politica, occorrono certamente i discorsi, e sarei portato a dire i migliori discorsi di cui siamo

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capaci per svegliare i dormienti e scuotere gli indecisi, per formare una coscienza comune, ma fondamentale rimane il fatto concreto, l’esercizio pratico e vivo di quella coscienza che si va predicando. E di sicuro un’azione portata avanti con tenacia e determinazione fino al suo compimento risulta avere un effetto persuasivo ben maggiore dell’arringa del miglior oratore del foro. Ma proprio qui si trova il punto cruciale: quanti sono pronti, e disposti, all’azione? Occorre giocare il tutto per tutto, mettere in discussione ciò che si è e rischiare di vedere crollare le proprie certezze fatte solo di borghesi abitudini e consolidare con la viva esperienza quello che dovrebbe diventare un credo: il servizio. Molti, posti davanti all’esplicito invito di fare qualcosa (il “fac” o “facite” della Chiesa), si sentono venir meno le forze, e, come il

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giovane ricco del racconto del Vangelo, pur avendo osservato per tutta la vita i comandamenti e le Scritture, davanti all’invito rivoltogli dal Cristo, invito che esigeva una risposta chiara ed univoca, senza possibilità di false parole o mezze certezze, sono costretti a chinare il capo e fuggire con la coda tra le gambe senza neanche trovare il coraggio di riconoscere la piccolezza e l’ipocrisia della propria vita. Molti, quindi, scappano dalla grandiosità ed imprevedibilità dell’azione per tornare a rifugiarsi nella minuta certezza del mondo delle idee. Ma come la Storia insegna, nessun pensiero per quanto rivoluzionario potesse essere, ha mai prodotto conseguenze rilevanti senza una qualche azione, spesso rivoluzione, che incidesse nel reale. Oggi i sociologi, i pedagoghi, gli psicologi, e quanti altri ne hanno i titoli continuano a dire che il tempo delle grandi ideologie, delle grandi rivoluzioni è terminato; non dicono però cosa possa prendere il posto di quella

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ineludibile forza propulsiva che le ideologie sociali hanno rappresentato per il passato. Sembrerebbe che, quasi per una reazione a contrario, come le generazioni che ci hanno preceduto erano impegnate nel sociale, nel pubblico, nel politico, a livelli e correnti differenti, così oggi la maggior parte dei potenzialmente capaci si dedica di preferenza al privato, all’egoico, al sé, ponendo in simile prospettiva anche gli eventuali rapporti interpersonali. Non c’è più spazio per un servizio attivo disinteressato sul territorio che possa avere incidenza sull’oggi e sul domani? Dobbiamo rassegnarci al: “Servizio? No, grazie!” o possiamo aspettarci qualcosa d’altro? “Il Figlio dell’Uomo è venuto non per essere servito ma per servire” (Mt 20,28).

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E sì, è proprio così: Gesù Cristo, il Figlio di Dio, il Re dei Re, è venuto tra noi per compiere il suo servizio, la sua missione: salvarci con la sua morte e la sua resurrezione. E noi, che non siamo degni neppure di slacciarGli i calzari, noi ci turbiamo sin quasi all’offesa quando ci viene fatto osservare che il nostro comportamento vegetativo, permissivo, omissivo o commissivo, non porterà certamente alcun miglioramento al mondo in cui viviamo, che impegnarsi oggi non vuol dire solamente “fare l’alternativo” per contestare un sistema, che comunque usiamo perché ci fa comodo, ma vivere e proporre l’alternativa, senza rompere con la realtà in cui siamo ma, anzi, cercando di interagire con essa il più possibile. Ci sono molte comunità che hanno in sé delle enormi potenzialità oggi, ma che si fermano alle dichiarazioni d’intenti, a volte anche di notevole valore letterario, contenute nelle loro magnae chartae: noi faremo, noi ci impegneremo, noi saremo, e così via; senza così accorgersi di perdere solo del tempo

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prezioso e di sciupare quei talenti che ciascun uomo ha ricevuto e che è suo preciso compito far fruttare. Io dico a queste comunità: “Fate! Impegnatevi! Siate!”, o ancor meglio “Facciamo! Impegniamoci! Siamo!”, rischiando la propria faccia, la propria reputazione, mettendo in gioco tutte le certezze acquisite in tanti anni di letargo, volendo fare veramente qualcosa per, come disse qualcuno, “lasciare il mondo un po’ meglio di come lo abbiamo trovato”. Arriviamo a dire: “Servizio? Sì, grazie!”, senza guardare in faccia chi ce lo domanda, senza soppesare i sacrifici che questo chiederà, senza pensare ad eventuali tornaconto: ci è chiesto di prestare un dato servizio, anziani, handicappati, tossicodipendenti, bambini, extra-comunitari, oratorio, centro sociale, famiglia, partito, scuola, lavoro, ... è chiesto proprio a noi, non ad un altro; questo vuol dire che chi ce lo propone ha bisogno di noi, del nostro aiuto, ha fiducia in noi, nelle nostre forze, e noi non possiamo tradirlo perché anche quando ci sentissimo affranti

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dall’ennesimo errore, dall’ulteriore sconfitta, da una nuova difficoltà, potremo pure noi contare su Qualcuno che è sempre al nostro fianco, che mai ci abbandona e che non serve chiamare a gran voce o supplicare perché venga in nostro soccorso: Egli è con noi per questo. Abbiamo allora ricevuto la vita, un mondo in cui vivere, un’intelligenza per capire come vivere, un cuore capace di amare, dei fratelli da amare: spetta solo a noi, ora, farci accompagnare docilmente verso l’impegno nel servizio attivo. “Servizio? Sì, grazie!”

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Quando manca qualcuno ... Se la comunità è, come dice lo Zingarelli (“Vocabolario della lingua italiana” Zanichelli), una “pluralità di persone unite da relazioni e vincoli comuni di varia natura, in modo da costituire un organismo unico” affrettandosi ad aggiungere, per meglio chiarire il significato più ampio del termine, “che vivono insieme accettando uno stesso sistema di vita”, allora è impensabile una comunità di monadi anacoretiche distinte come, ugualmente inconcepibile diventa, una comunità di assenti. Quindi, due eccessi che, purtroppo, sono ben poco teorici e si ritrovano spesso nelle nostre comunità giovanili dove le dichiarazioni d’intenti, i progetti, i programmi, sono sempre grandiosi e pieni d’entusiasmo ma poi, col passare del tempo, il solo entusiasmo non è sufficiente a tenere acceso il fuoco che sempre deve ardere al centro di qualsiasi

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comunità, ed i singoli cominciano ad allontanarsi gli uni dagli altri con moto centrifugo facendo prima affievolire, poi spegnere completamente quel fuoco di amore che tanto li aveva riscaldati in precedenza. La comunità rimane, almeno nominalmente, ma come un corpo non può sopravvivere quando gli manchi regolarmente il cuore, il fegato o il cervello, o nel caso in cui questi si mettano a funzionare alternativamente, ora l’uno ora l’altro, a loro discrezione, così l’“organismo unico”-comunità pian piano svanisce per la ripetuta assenza, materiale o spirituale dei suoi membri e, senza clamore alcuno, muore, e nessuno se ne sorprende. La comunità “è” solo quando è insieme, al gran completo, nella comunione tra i suoi componenti, fraterna e con il Padre, filiale, quando è una vera e visibile unità di pensieri e di azioni, quando esiste una vita della comunità risultante dalla somma delle differenti esperienze dei singoli ma da queste distinta e di più ampia portata (come i mattoni

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non possono da soli essere casa e la casa non può considerarsi semplicemente un insieme di mattoni). Dunque l’assenza anche di una sola persona può pregiudicare l’esistenza della comunità (... un corpo senza cuore, una casa senza un mattone), e questo perché le si toglie l’ossigeno, la fonte stessa della sua vita: l’apporto vivo e vero di ciascuno. Ogni uomo è portatore di una propria umanità, di un particolare microcosmo carico di ricchezze; il riservarle per il proprio e solitario godimento, senza apportare un qualche contributo alla comunità alla quale si appartiene (“... tanto possono fare senza di me. Tanto non ho niente da dire. Tanto non interesserebbe a nessuno. Tanto ...”), è manifestazione di un egoismo da insicurezza. Tutti i membri di una comunità sono essenziali, indispensabili ed insostituibili, unici nel loro genere ed irripetibili, e forse sarebbe buona cosa che ogni tanto si sottolineasse

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questo fatto con una dose di sano incoraggiamento. Naturalmente, perché simile operazione non divenga una sterile autoesaltazione o un’inutile pacca sulla spalla, occorre che i responsabili delle nostre comunità di giovani, di norma più maturi e più sicuri delle scelte intraprese, conoscano bene i propri ragazzi, sappiano fin dove ognuno può arrivare con le sue forze e dove invece serve un rinforzo, una parola, un gesto semplice, e quindi agiscano con amorevole sicurezza affinché nessuno possa sentirsi marginale nella comunità, essendo tutti dei primi tra pari. Comunità non dunque come un cerchio, quale regione del piano, superficie delimitata da una circonferenza, con infinite posizioni tra il centro e la periferia geometrica, ma come circonferenza propria, “luogo dei punti del piano equidistanti da un punto fisso detto centro” (Cosa o Chi sia tale centro ogni comunità dovrà stabilirlo prima di intraprendere qualsiasi iniziativa, pena il nascere morti).

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Quando qualcuno manca, allora, è la comunità a mancare e niente e nessuno può sopperirvi: quando c’è in gioco una vita, la nostra vita, non valgono supplenze, deleghe o mandati, bisogna “esserci”, anima e corpo, cuore e cervello, e far sentire la propria presenza. Solo così, comunità “è”!

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Buongiorno mondo! Suona la sveglia, dalla tapparella filtra un filo di luce e si sentono dalla cucina i rumori tipici di ogni casa di prima mattina, il caffè sul fuoco, le antine della dispensa, il frigorifero. È proprio arrivato un nuovo giorno, tutto da vivere, con gusto fino all’ultimo. Non c’è tempo per rimanere a letto a poltrire, non si può temporeggiare, non è permesso chiedere una dilazione di sonno: bisogna aprire bene gli occhi, stirare i muscoli intorpiditi ed uscire dal folto delle coperte con un bel salto. E, una volta a terra, stando ben dritti davanti allo specchio e guardandosi negli occhi, si deve dire, ad alta voce e con un tono sicuro e deciso: “Buongiorno Mondo!!!”. Avrebbe sicuramente maggior effetto se, invece che davanti allo specchio, ci si mettesse alla

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finestra e lo si gridasse veramente “al mondo”, ma penso che se ne possa fare a meno. Iniziare la propria giornata con un magnifico saluto al mondo e, eventualmente, ripeterlo alcune volte nell’arco delle successive ore, reca un sicuro giovamento a chi ha tale attenzione e, indirettamente, a tutti coloro che avranno occasione di incontrarlo; permette di affrontare ogni cosa con la forza di un sorriso dal momento che tutto e tutti, noti o sconosciuti, affabili o scontrosi, tutti indistintamente hanno ricevuto il nostro primo saluto mattutino, primo dopo il dovuto ringraziamento per il dono di un nuovo giorno di vita a nostro Signore, e partecipano quindi della gioia del risveglio; ci rende possibile ridere di noi stessi e delle nostre seriosità e non prenderci troppo sul serio visto che un tale augurio al mondo nasconde nel suo profondo un pizzico di sana e simpatica follia. Il valore terapeutico del “buongiorno mondo” è scientificamente provato e posso garantire

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che dopo un primo periodo in cui il saluto viene pronunciato di nascosto, molto discretamente e sommessamente quasi per paura (del mondo?), si arriva senza accorgersene a rivolgere il saluto a voce alta, con la certezza di avere un interlocutore che sta aspettando solo di risponderci e, spesso, in cuore riusciamo anche a sentire la risposta. E allora via quei musi lunghi quando ci si sveglia presto per andare a scuola o al lavoro, via il grigiore che intristisce i tram cittadini e le strade intasate, via il malumore che accompagna molti dei corridoi d’uffici e università rendendo insopportabile lo stesso vivere: ci si è svegliati, si è avuto il dono di un altro giorno di vita, mentre altri si sono addormentati ieri per l’ultima volta, per il loro sonno più lungo, perché sprecare questa possibilità che ci è concessa, perché lasciare di noi un ricordo legato ad un broncio, perché vivere il forse ultimo giorno da arrabbiati? Perché invece non aprire il cuore e portare noi il sole anche là dove stenta ad arrivare?

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E dopo il buongiorno al mondo si può, e anzi si deve se si vuole essere coerenti con ciò che si è appena fatto, passare ai singoli e particolari buongiorno a Tizio, Caio e Sempronio (Qui, Quo e Qua, Cip & Ciop e Paperino), sempre con cortesia e senza voler avere una risposta a tutti i costi: non si saluta per ottenere un qualcosa dall’altro, ma per comunicargli il nostro buon umore, per farlo partecipe della nostra buona giornata affinché questa diventi anche sua. Dopo aver fatto tutte queste riflessioni ed avere provato prima davanti allo specchio, poi alla finestra, ed aver scoperto che, in fondo, non ho tutti i torti mi trovo quindi in una situazione meravigliosa ma in tremendo ritardo, con lo spazzolino in una mano, il dentifricio nell’altra, la caffettiera che continua a borbottare sul fuoco e la sveglia che, implacabile, mi preannuncia un ennesimo ritardo in ufficio. Comunque sia: “Buongiorno Mondo!!!”.

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Costruire insieme Insieme si può marciare, portare lo zaino, raccogliere i fiori, godere del vento, apprendere che il vero senso della vita è l’amore, come dice una famosa canzone, ed in più si può costruire qualcosa di grande. Sì, qualcosa di immenso, di incommensurabile e di meraviglioso è alla nostra portata solo volendolo e solo se lo si cerca insieme, solo se insieme, tutti insieme, si lavora di comune accordo per la sua conquista. E, così facendo, si capisce quello che Gesù disse ai suoi discepoli: “Quando due o più di voi saranno riuniti nel Mio nome, ecco, Io sarò in mezzo a loro”, e si capisce cosa è ciò che unisce e ciò per cui insieme si lavora: l’Amore del Padre, il Padre d’Amore.

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Ma occorre essere insieme, comunità d’intenti, di sentimenti, di pensieri e d’azioni, comunità di uomini e di donne, insieme. E insieme credere in quello che si sta facendo e, proprio per questo, buttarcisi a capofitto per giocare tutti se stessi e “compromettersi” (dal latino: cum-pro-mitto-se = lanciarsi per o verso qualcosa con qualcuno); e a tale sinergia sorge la realizzazione del sogno, l’utopia diviene realtà: diverse vite, diverse realtà si uniscono in un unico mondo in cui credono, e vivono insieme, e sperano, e costruiscono. Cosa serve per questo? Ben poco: almeno due persone possibilmente diverse tra loro (si spera non nelle convinzioni fondamentali), un grande ideale in cui credere e per cui lavorare, un progetto comune da realizzare e, se possibile, un ambiente meraviglioso, incontaminato, più vicino al cielo che alla terra per completare il quadro e renderlo più “magico” (ma vi assicuro che l’ultimo

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ingrediente non è indispensabile, pur se è enorme il suo potenziale dirompente). Tutto questo messo insieme a cuocere per un paio di giorni sotto un caldo sole d’estate ed a rinfrescare nelle notti alpine ad alta quota. A preparazione ultimata, al grido “Insieme, ce l’abbiamo fatta!”, si potrà ammirare la deliziosa leccornia che si ha di fronte: una dolce comunità, molto dolce, molto comunità. Proprio insieme, proprio!

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È giunta l’ora di partire Si parte; è un lungo viaggio quello che ho davanti, ma ho fatto tutti i preparativi del caso: il materiale indispensabile, le vie da seguire, gli orari delle coincidenze (non posso permettermi di perderne neanche una, sarebbe la fine del mio viaggio!), tutto, tutto pronto. Ma io, io sarò pronto per un tal passo decisivo, di tale importanza e rilevanza per me e, in ugual misura, per coloro che vivono con me? O non mi sarò fatto prendere dalla fretta, dall’entusiasmo euforico che spesso mi caratterizza, dall’allegria o spensieratezza di un momento più semplicemente? Comunque sia, ora sono partito: mi trovo in alto mare, sul mio battello, sulla rotta che avevo previsto mesi fa, ma sono solo. Alcuni compagni di antichi viaggi passati, lasciati ora al lido da cui mi sono allontanato, li ritroverò

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sicuramente in altri porti domani, ma gli altri? Perduti per sempre? È la vita ad insegnare che nulla d’umano vive in eterno, ed è proprio per questo che, invece, l’amore, di cui l’uomo è solo un tramite, dura in eterno abbattendo le mura possenti del tempo e dello spazio, ed è per lo stesso motivo che ora, guardando con gli occhi del cuore questo mio viaggio, riesco a rivedere i volti di tutti i miei vecchi amici lasciati, a sentirne le voci, a ridere o ad arrabbiarmi con loro, come allora, ed ho la certezza che ovunque il nostro destino ci spingerà, qualunque cosa faremo, lo spirito che ci unì e che ci tenne uniti, farà in modo che il legame dei nostri cuori perdurerà e nessuno di noi potrà mai dirsi solo. E mai potrà, e mai potrò, se solo pensasse a Colui che cammina sempre al nostro fianco e che troppo soventemente viene dimenticato: Lui c’è, sempre, e sarà la prima guida del mio viaggio, il mio primo compagno di questa nuova avventura.

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Dovrò poi pensare a cosa fare, a come comportarmi, a cosa dire, quando toccherò il prossimo porto, quando incontrerò nuove genti, quando, finalmente solo con le mie forze e le mie capacità, dovrò dimostrare chi sono veramente e quanto valgo. Chi si sentiva esporre i miei dubbi a proposito del mio valore personale, subito mi poneva di fronte ad un famoso precedente storico: gli Apostoli. Anch’essi avevano vissuto per tre anni, tre stupendi anni, insieme a Gesù, in un ambiente familiare ed accogliente; poi, l’Evento, la Sua morte e resurrezione, esperienza unica ed irripetibile, fortissima per ogni uomo di buona volontà, figuriamoci per loro che la vivevano in prima persona. Ed ecco allora che proprio loro, per lo più semplici pescatori, popolani, vengono mandati per il mondo, ognuno per una strada diversa, difficile, sua, ma con un’unica missione: annunciare la Sua parola, testimoniare ciò che avevano vissuto insieme a Lui e vivere come Lui aveva insegnato.

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Semplice, mi si diceva; ed in verità ora mi rendo conto che è proprio un gioco da bambini (“Lasciate che i bambini vengano a me!”, “Se non ritornerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli!”). Anch’io ho vissuto un periodo stupendo, anch’io ho partecipato ad eventi meravigliosi, anch’io ho avuto una mia famiglia putativa per tre anni: anch’io, ora, sono pronto a partire per il mondo per testimoniare con la mia vita di tutti i giorni, con il mio viaggio in mezzo agli uomini, l’Amore che ho ricevuto in dono, gratuitamente, e che ho vissuto sino ad ieri quasi inconsciamente. Da oggi, svegliatomi, voglio farne partecipi tutti quelli che incontro per strada e donare a tutti, belli e brutti, senza nulla chiedere in cambio. E l’Amore che spargerò intorno farà sbocciare sorrisi, e più ne riverserò dal mio bagaglio, accumulato in tanti anni passati, più questo ne sarà carico, e più ne riverserò ...

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Quanti pensieri per questo viaggio che è appena iniziato; non ho ancora asciugate le lacrime dell’addio e già sto pensando ai prossimi benvenuti: stupendo! Intanto il timone del mio legno tiene la rotta, puntando là, verso l’orizzonte, dove i colori dell’arcobaleno si confondono con i sogni, i ricordi e le speranze.

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Con i bambini ... Con i bambini ...: quante cose da fare, fatte, fattibili, impossibili da farsi (?), eppure si fanno, tutte o quasi, giocando e divertendosi e cercando di far loro imparare a vivere la vita che Dio ha donato nel migliore dei modi possibile con la speranza, forse utopica ma meravigliosamente carica di energie propulsive, di aiutarli a divenire uomini di un domani meraviglioso. Ma cosa si può fare con i bambini? È presto detto: tutto! Basta saperlo fare, e farlo con amore, con immenso amore, passione, entusiasmo, fiducia e fantasia. Sono questi gli ingredienti grazie ai quali anche una fredda lezioni di educazione civica si trasforma in un gioco divertentissimo.

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È il gioco l’arma vincente: infatti non bisogna mai dimenticarsi di avere a che fare con dei bambini, non con degli uomini in formato ridotto, e ciò che si punta a fare sono “grandi cose” e non “cose da grandi”. I risultati di tutto questo “giocare” li si vedono poi dopo, spesso molto dopo, anche anni dopo, quando quei bambini diventano uomini, nel vero senso della parola, si fanno una loro vita, e parte (pur minima) di questa vita porta il segno di quei giochi, di quei canti, di quelle giornate, di quei lavori vissuti insieme e per i quali si sono passate notti in bianco per idearli, costruirli, reinventarli. Allora capisci il valore di tutto ciò che fai, che hai fatto e che farai; sul momento è difficile, vivi solo la gioia o la stanchezza del momento, spesso non riesci neanche a vedere la prospettiva temporale del tuo lavoro.

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E poi c’è sempre chi cerca di scoraggiarti, chi del tuo lavoro vede solo la perdita di tempo “prezioso”, l’inutilità di “giocare con i bambini”. Costoro sono di due categorie: quelli che non conoscono nulla di ciò che stai facendo, e ti denigrano per puro spirito di contraddizione, e allora meritano un po’ del tuo tempo per essere messi a conoscenza dei contenuti educativi delle attività svolte (sempre che abbiano la maturità per ascoltare criticamente e l’intelligenza di capire), e quelli che hanno vissuto le stesse cose, tempo prima, e se ne sono allontanati perché il gioco per loro era una cosa “troppo seria” e non capiscono come altri possano perseverare in un cammino che essi hanno trovato inadatto a sé. Invece, coloro che si sono allontanati da “amici”, in fondo al cuore hanno sempre quel segno di cui parlavo più sopra, e non appena avranno dei bambini propri, cercheranno di far con questi ciò che altri fecero con loro.

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Ma torniamo ai bambini, anzi “con i bambini ...”; con i bambini, attraverso il gioco, c’è un solo modo per riuscire nel proprio intento educativo: farsi prendere dentro, farsi prendere tutto, buttarsi completamente, anima e corpo, in quello che si fa (i francesi direbbero “s’engager complètement”), senza risparmiarsi, senza conservarsi, senza mascherarsi, ma donandosi così come si è, senza paura, onestamente, con amore. È solo in questo modo che facendo anche piccole cose si otterranno grandi risultati: giocando con i bambini, si formeranno degli uomini!

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Perché uscire dagli scouts? “Basta! Non ne posso proprio più! Io esco dagli scouts!”. Perché dopo uscite, avventure, giochi, canti, emozioni e campi vari, uno decide di lasciare gli scouts? Non sono forse un’esperienza unica e travolgente, fatta apposta per ogni tipo di ragazzo? Non rappresentano un ambiente educativo sano e pulito, indispensabile oggi più che mai, per formare il buon cittadino di domani? Certamente sì! Eppure,capita di trovarsi davanti un ragazzo o una ragazza che ad un certo punto del suo cammino con te decide di cambiare strada, e tu, adulto-educatore (“fratello maggiore” secondo B.-P.), vieni assalito da tutti i possibili dubbi del caso: dove ho sbagliato? Forse quella parola di troppo? Maggior attenzione alle esigenze inespresse?

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Innanzitutto, non facciamoci prendere dallo sconforto: spesso accade che un ragazzo scopra, crescendo, di essere un grande atleta, o musicista, o che so altro, e quindi è inevitabile che lasci il Branco, il Reparto o il Clan per seguire la sua vocazione naturale. Lo Scautismo è senza dubbio un metodo educativo proponibile a tutti, ma non è detto che tutti siano portati a vivere “tutto” ciò che lo Scautismo propone (anch’io so tirare quattro calci al pallone, ma non mi sognerei mai di andare a giocare in una squadra). Detto questo, però, poniamo la nostra attenzione alle uscite “particolari”, a quelle defezioni che possono, e devono, far riflettere un capo nella sua qualità di educatore. Infatti, in moltissimi casi in cui un ragazzo abbandona un’unità scout adducendo come motivo il troppo studio, la vita privata sfrenata, gli impegni familiari più strani e diversi, il capo dovrebbe cercare di superare il primo momento di egoistico orgoglio che lo porta a

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dire “Ah sì, allora addio! Se preferisce lo studio (le feste, o ...), allora vuol dire che non è fatto per lo Scautismo”, e riflettere su quale tipo di Scautismo è riuscito a proporre ai propri ragazzi con le attività svolte negli ultimi tempi (mese, trimestre, anno). Scuola di roccia, percorsi Hebert (o di guerra), free-climbing, tecniche di guerriglia, saranno indispensabili a dei piccoli Rambo, ma dei contemplativi amanti della poesia di Keats e Shelley saranno inevitabilmente tagliati fuori; liturgia delle ore completa, dall’alba al tramonto, via crucis con crocefisso in massello massiccio, fustigazioni quaresimali, andranno benissimo in un ordine monastico, ma in un Branco-Cerchio? E gli esempi potrebbero continuare a lungo senza dover troppo sforzare la mia fantasia, dal momento che è l’esperienza quotidiana a darmi gli spunti. Il problema delle “perdite” è proprio questo: quanto i capi, prima di programmare le attività

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mensili, trimestrali, annuali, per la propria unità, conducono un’analisi della realtà con cui ed in cui si trovano a lavorare (caratteristiche, potenzialità ed esigenze dei ragazzi e del territorio) e quanto invece, si affidano al loro intuito (sicuramente indispensabile, ma sufficiente?)? Sono sicuro che un buon 50% dei ragazzi persi in itinere dai nostri gruppi scouts sarebbe rimasto se solo i capi avessero avuto una maggior attenzione anche alle loro esigenze, alle loro domande inespresse, ai loro sguardi smarriti. Senza poi parlare di coloro che escono nei momenti di passaggio da Branca a Branca: in questi casi la responsabilità dei capi delle due Branche è ancora maggiore, perché non sono riusciti a far vivere nel modo più giusto al singolo ragazzo la sua inevitabile e naturale crescita, il distacco dal “piccolo mondo” precedente e l’ingresso nel successivo “mondo dei grandi”, ma, in un modo o nell’altro, attivamente o con omissioni, hanno acuito il trauma che tale crescita sempre comporta.

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Attenzione, quindi, come sempre, anche in questi casi, attenzione al singolo e, per favore, non arrivate a chiedere inebetiti: “Perché uscire dagli scouts?”; dovreste saperlo (se solo aveste prestato la giusta attenzione).

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Indice PRE-PRESENTAZIONE OPPORTUNA.................. 3 DUE PAROLE DI NECESSARIA PRESENTAZIONE . 4 QUATTRO CHIACCHIERE SUL DIO-PREZZEMOLO 6 BISOGNA IMPARARE A DIRE: “TI VOGLIO BENE!!!”................................................................... 12 SI FA TUTTO GIOCANDO, NON SI FA NIENTE PER GIOCO ......................................................... 17 SERVIZIO? NO, GRAZIE!................................ 26 QUANDO MANCA QUALCUNO ... ..................... 33 BUONGIORNO MONDO! ................................. 38 COSTRUIRE INSIEME..................................... 42 È GIUNTA L’ORA DI PARTIRE .......................... 45 CON I BAMBINI ............................................. 50 PERCHÉ USCIRE DAGLI SCOUTS? .................. 54 INDICE......................................................... 59

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Nasco a Milano, nel 1972; a 8 anni entro negli scouts

dell’Agesci - Associazione guide e scouts cattolici italiani,

nel Gruppo Milano 29, dove vivo da lupetto,

esploratore, rover e capo la meravigliosa esperienza educativa dello Scautismo.

Gioco, avventura, strada, comunità e servizio diventano

vita corrente e, entrando in me, mi fanno divenire la persona

che sono.

«Semel Scout, Semper Scout»