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1 Università degli Studi di Milano Bicocca a.a. 2012/2013 Dispense di Gestione della Conoscenza A cura di: Agostino Marco, Bianchi Alessia, Bollella Anna, Licandro Giovanni, Loliva Egle, Pisano Antonio

Dispense di Gestione della Conoscenza

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Università degli Studi di Milano Bicocca

a.a. 2012/2013

Dispense di Gestione della Conoscenza

A cura di: Agostino Marco, Bianchi Alessia, Bollella Anna, Licandro Giovanni,

Loliva Egle, Pisano Antonio

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Introduzione Se in un primo momento del loro sviluppo le aziende si concentravano prevalentemente

su problemi inerenti alla gestione delle informazioni - come raccoglierle, come

conservarle, come renderle accessibili- negli ultimi anni l’attenzione si è sempre più

spostata su quella che invece è la gestione della conoscenza. Si è capito infatti, che

limitarsi alla sola informazione, al suo stoccaggio o al suo accumulo poteva essere

paradossalmente sterile se non inserito all’interno di un paradigma più ampio che

vedesse la conoscenza alla base del tutto.

Il problema di incrementare il focus sull’importanza della gestione della conoscenza e

dell’informazione e di migliorarne la qualità nacque autonomamente negli Stati Uniti

degli anni ‘90 in un seminario tra aziende e studenti. Proprio all’interno di questo

contesto prese forma la riflessione su quanto gestire informazioni non fosse più

sufficiente, nè la struttura stessa dell’informazione potesse considerarsi soddisfacente.

Le aziende cominciarono ad avvertire forte la necessità di un cambiamento

organizzativo in grado di rispondere ad esigenze che fino a quel momento non erano

previste.

Erano anni di profondi cambiamenti in cui non solo si modificavano a poco a poco le

esigenze che le industrie ponevano sul mercato, ma ci si rendeva conto

dell’inadeguatezza di certe strutture: l’idea stessa di una struttura verticale ed

eminentemente gerarchica non era più adatta alla prospettiva globale che si stava

aprendo. Le nuove aziende dovevano identificarsi piuttosto come organismo - con parti

profondamente interconnesse ma autonome - creato appositamente per rispondere alle

richieste di un cliente generico, fornendo delle risposte in modo efficace ed efficiente in

modo da rispettare tempi e qualità dei contenuti. Un “tutt’uno orizzontale” in cui le

diverse funzioni aziendali erano svolte in base alle richieste del cliente e all'eventuale

risposta da fornire.

Questo cambiamento portò le aziende a porsi quesiti sul come riuscire a raggiungere un

tale obiettivo. Era chiaro, infatti, che in questo nuovo modello l’elemento comunicativo

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doveva evolversi da aspetto saltuario a fondamento essenziale di base con tutte le

conseguenze che questo avrebbe comportato.

A fronte di ciò, l’ormai sempre più calzante globalizzazione rendeva stringente la

necessità di capitalizzare le conoscenze e quale modo migliore di farlo se non iniziando

a riflettere su come si produca conoscenza, su come si trasformi e su come la si possa

gestire.

Allo stesso periodo è riconducibile la concezione della rete come insieme di

informazioni reperibili sempre e ovunque. Il rischio, tuttavia, era quello di incorrere in un

eccesso nozionistico a cui non corrispondesse necessariamente un miglioramento della

qualità delle nozioni. Questo ambiente ha finito per esaltare la selettività dell’individuo:

se prima il plus valore stava nella capacità di reperire un’informazione alla quale non

tutti potevano avere accesso, adesso tale plus valore veniva a risiedere nell’abilità di

cogliere l'informazione “giusta”, valorizzando quindi l'esperienza e la comprensione dei

singoli.

Esattamente su questo doveva focalizzarsi il nuovo prototipo di azienda nascente.

Da dove iniziare?

Considerata l’interdisciplinarietà della gestione della conoscenza, era necessario tener

ferma l’esperienza precedente cercando di armonizzare tra loro le varie discipline che

potessero confluire nella soluzione ricercata.

Economicamente si poneva la problematica della valorizzazione del capitale umano, in

merito al quale si distinguevano due differenti riflessioni:

- la formazione non come costo, ma come investimento (il che avrebbe implicato un

radicale cambiamento nelle modalità di trattamento delle persone legate all’azienda);

- la fusione tra formazione e conoscenza affinché la prima implementasse la propria

efficacia grazie all’ausilio dell’esperienza (è il concetto dell’ “imparare facendo” che

stravolge la concezione stessa di “informazione”);

All’atto pratico, tutte queste riflessioni dovevano ovviamente tener conto del capitale

sociale.

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In questo ambito, di fondamentale importanza viene ad essere il pensiero di due

studiosi giapponesi, Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi. L’occhio lungimirante dei due studiosi individua una serie di comportamenti pericolosi

spesso messi in atto dalle aziende: un esempio in questo senso, è la tendenza a porre

l'attenzione esclusivamente sulla razionalizzazione, che porta inevitabilmente ad un

irrigidimento della struttura organizzativa e di conseguenza ad una minore capacità di

adattarsi alle situazioni.

Le tecniche di gestione della conoscenza dovrebbero sempre partire dal basso, da

come le persone lavorano e adattarsi allo specifico contesto. È un errore introdurre

metodi o tecnologie generalizzati, poiché questi non tengono conto delle modalità

tramite le quali i singoli individui e le loro comunità gestiscono la conoscenza. La tematica della gestione della conoscenza dovrebbe diventare un elemento

essenziale del processo produttivo, al pari del controllo della qualità o dell’abbattimento

dei tempi di produzione.

Ciò è ben lontano dall'essere vero oggi, sia per una mancanza di sensibilità da parte

delle aziende sia perché gli effetti benefici della gestione della conoscenza sono visibili

solo dopo un periodo di consolidamento di questo nuovo approccio e quindi non

direttamente monetizzabili.

Parlando di organizzazione si fa riferimento ad un’entità molto generica, che va

dall’azienda burocratizzata fino alle ditte virtuali. Il contesto globale nel quale opera

l’organizzazione non può mai essere ignorato e i suoi meccanismi sono sempre molto

ritagliati sulla sua struttura specifica.

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Modello di Nonaka e Takeuchi Nonaka e Tekeuchi sono due ricercatori giapponesi che negli anni ‘90 analizzarono

l’andamento delle aziende negli USA.

Utilizzarono, poi, questa analisi in modo piuttosto indipendente per fornire due differenti

soluzioni al problema, considerate per anni parallele. Solo successivamente si arrivò a

comprendere che il rapporto tra le due non era di tipo esclusivo, bensì inclusivo: le

soluzioni proposte costituivano le due facce dello stesso fenomeno e dunque andavano

considerate unitariamente.

Le formulazioni dei due ricercatori riuscirono a svincolarsi dal contesto culturale dal

quale avevano avuto inizio e a raggiungere una rilevanza tale da essere considerate,

oggi, patrimonio universale di coloro che si affiancano a questa tematica.

Il primo concetto con il quale confrontarsi è senza dubbio quello di “conoscenza”.

Al di là delle disquisizioni filosofiche che potrebbero aprirsi a riguardo, è sufficiente

comprendere che, all’interno del modello di Nonaka, la conoscenza non può essere

inquadrata utilizzando gli schemi propri dell’approccio oggettivista, ossia come l’insieme

delle eredità acquisite col procedere del tempo, delle verità da interiorizzare e da

memorizzare - questo sarebbe “apprendimento”! - con una configurazione della verità

come statica, poiché unica ed esterna.

Nell’accezione di Nonaka la conoscenza rappresenta un insieme di credenze che

possono essere, in qualche modo, provate, sostenute e mantenute. É un “prodotto

sociale”: negoziazione di diversi che trovano un punto d’accordo nel momento in cui

qualcuno persuade qualcun’altro della maggiore utilità del proprio punto di vista rispetto

a quello del suo opponente. L’individuo non è più solo, ma inserito in un contesto

sociale in cui la sua personale conoscenza è costruita con gli altri.

Il secondo concetto con cui familiarizzare meglio è quello di “modello”. Ogni disciplina

ha una sua interpretazione, tuttavia nel caso di Nonaka, più che di “modello”, sarebbe

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corretto parlare di “descrizione di un fenomeno al fine di carpirne le caratteristiche”

(ovvero “quadro concettuale”!).

Ci possono essere conoscenze diverse, diversi punti di vista di uno stesso fenomeno

possono coesistere e non escludersi, in quanto entrambi validi nel loro contesto di

applicazione. Questa interpretazione della conoscenza è molto legata al concetto di

esperienza, ovvero quello che l’individuo costruisce come sua personale conoscenza

che sarà necessariamente diversa da quella di tutti gli altri.

C’è una socializzazione che consolida o nega quella che è la conoscenza.

Questa interpretazione è quella che più si adatta a trovare dei modelli interpretativi di

quello che succede nella realtà e dunque dei modelli di riferimento per la gestione della

conoscenza.

La distinzione tra “conoscenza esplicita” e “conoscenza tacita” costituisce sicuramente

un altro punto saldo del modello di Nonaka con il quale confrontarsi. Contrariamente a

quanto l’intuito suggerirebbe, tale distinzione non si esaurisce nelle distinzioni proposte

in epoca ellenica, bensì si basa sull’osservazione concreta dei gruppi.

Questa biforcazione teorica riguardo le due “modalità” di conoscenza esistenti secondo

Nonaka viene spesso esemplificata attraverso il paragone con le ricette di cucina.

Questo perché, la conoscenza esplicita viene definita “rappresentabile”, mentre la

conoscenza tacita è “non rappresentabile”, eppure proprio l’interdipendenza che tuttavia

esiste tra le due, così come avviene tra ingredienti ed esperienza durante l’esecuzione

di una ricetta, fa sì che non si possa mai prediligere una a favore dell’altra.

C’è un termine “non ufficiale” che sta nel mezzo: “implicita”. La negazione propria di

“esplicito”, infatti, non è tanto “tacito”, quanto “implicito”, ovvero “non scritto ma

rappresentabile”, tutto ciò che si potrebbe aggiungere per fornire una maggiore

precisione. Negare la conoscenza tacita rischia di non far capire alcune cose che sono

importanti perché nella costruzione del supporto tecnologico ovviamente non posso

rappresentare quello che non è rappresentabile, ma posso mettere le persone nelle

condizioni di sfruttare al meglio la loro conoscenza tacita non rappresentabile.

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Il processo di creazione della conoscenza secondo il modello di Nonaka si compone di

quattro fasi: socializzazione, esternalizzazione, combinazione ed internalizzazione (non

a caso viene chiamato il MODELLO SECI).

Conoscenza Tacita Esplicita

Tacita Socializzazione:

Arricchisce le informazioni

con la conoscenza

dell’esperienza e delle idee

altrui.

(PRIMA FASE)

Esternalizzazione: trasforma

la conoscenza da tacita a

esplicita

(SECONDA FASE)

Esplicita Internalizzazione:

Trasforma la conoscenza da

esplicita a tacita.

(QUARTA FASE)

Combinazione:

Arricchimento grazie alla

combinazione delle

conoscenze pregresse con

quelle nuove.

(TERZA FASE)

Prima fase

Si parte con in un gruppo di persone che generalmente non hanno mai lavorato

insieme: si inizia a comunicare, si scambiano informazioni sul proprio profilo, sulle cose

che si sanno fare, ma anche informazioni di carattere personale. Con la

socializzazione si crea un contesto di riferimento su cui poter inserire e agganciare la

collaborazione.

Parola chiave: interazione fra le persone

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Seconda fase

Man mano che le persone si conoscono, è naturale che parte delle conoscenze che

hanno scambiato vengano rese esplicite. Conoscenze che vengono rese condivisibili e

permanenti a vantaggio del lavoro di gruppo; e vengono rese oggettive nel senso che

c’è un supporto che le rappresenta costituendo una sorta di memoria collettiva.

Parola chiave: costruire rappresentazioni

Terza fase

Le persone continuano ad avere delle interazioni specifiche sempre legate alla pratica e

all’esperienza, generalmente si arriva ad un primo livello di elaborazione con

conoscenze che vengono poi combinate.

Parola chiave: Ristrutturare conoscenze

Quarta fase

E’ una fase di apprendimento: arricchisce la conoscenza che da esplicita torna ad

essere tacita, ed è pronta per tornare in circolo per con la prima fase di socializzazione.

Parola chiave: apprendimento C’è una spirale delle fasi che costruisce nuova conoscenza.

I limiti di questo modello

Appena si tenta di formalizzare qualcosa di reale, ci sarà sempre qualcosa che

mancherà all’appello; è un processo, la formalizzazione della realtà, simile alla

quadratura del cerchio: ci si avvicina senza mai sovrapporsi completamente. Il modello

di Nonaka è uno strumento e come tutti gli strumenti è buono per certe cose e meno

buono per altre.

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Questo modello non vuole essere un modello esplicativo dei modelli cognitivi. Non

vuole essere nemmeno un modello descrittivo a livello di gruppo. E, sicuramente, non

si può pretendere che esaurisca l’intera teoria della conoscenza.

È, piuttosto, un modello analitico che identifica alcune fasi riconoscibili nella

costruzione della conoscenza e che serve come strumento per organizzare i supporti

al processo di formazione della stessa; così facendo, consente di scomporre in parti più

comprensibili la complessità del fenomeno.

Tra le critiche più forti ricordiamo:

1. La sequenzialità delle fasi: non sempre le fasi vengono percorse una dopo l’altra.

L’ordine può essere sfalsato. Non solo, ma nella realtà è impossibile distinguere

facilmente fra le quattro fasi.

2. Il modello parla di conoscenza esplicita e non di informazione (che tuttavia

possiamo considerare un errore strategico di Nonaka, dato che la conoscenza

esplicita può essere tradotta a tutti gli effetti in informazione, in dato interpretato).

Approfondimento delle fasi:

Socializzazione

Si ha in questa fase una condivisione di esperienze, tramite:

○ Comunicazione verbale /non verbale (narrazione)

○ Fare cose insieme (bidirezionale)

○ Osservare chi fa (monodirezionale)

La comunicazione può essere sincrona o asincrona e può essere effettuata nello stesso

spazio o in spazi diversi. Le diverse possibilità di tempo e di spazio possono dare dei

grandi problemi di efficacia della tecnologia, poiché essa non riesce a rendere tutto

quello che succede nella realtà.

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La tecnologia ha delle prospettive, vede la realtà da un certo punto di vista, quello delle

telecamere tanto per cominciare. Impone dei punti di vista che non sono naturali,

perché il nostro punto di vista sul mondo è continuo.

Esternalizzazione

Una buona domanda, a questo punto, potrebbe essere: cosa succede alla conoscenza

quando da tacita diviene esplicita?

In primis c’è una perdita di informazione; questo poiché la conoscenza tacita è molto più

vasta della conoscenza esplicita. La trasformazione di conoscenza esplicita, dunque, si

esplica come “sottoinsieme” della conoscenza tacita. La perdita è quindi oggettiva: la

conoscenza esplicita è solo un’approssimazione di quella tacita.

Riprendendo l’esempio culinario prima menzionato, la riproduzione di una ricetta (il

corrispettivo della nostra conoscenza esplicita) non esaurisce il concetto di “cucinare”

(ovvero la conoscenza tacita). Se così non fosse non ci sarebbero così tante varietà di

cucina e cuochi differenti. É la stratificazione delle conoscenze messe in atto in maniera

tacita, spontanea, non codificata che rende possibile la diversificazione del prodotto in

base a chi lo pone in essere.

Altro esempio con cui potersi cimentare per meglio comprendere nel concreto la

differenza tra i due aspetti della conoscenza secondo Nonaka è costituito dall’andare in

bicicletta. Muoversi su due ruote può senz’altro essere descritto come una serie di

azioni da tenere per mantenersi in equilibrio, ma trovarsi a doverlo spiegare

comporterebbe non poche difficoltà. perché? Andare in bicicletta è il frutto di

un’esperienza passata, il risultato dell’acquisizione di una capacità di risolvere situazioni

che non è trasmissibile se non attraverso metodi indiretti quali l’osservazione o il “fare

insieme”.

In conclusione, quindi, è bene sempre ricordare quanto ciò che può essere esplicitato

sia parziale rispetto a ciò che è tacito.

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Ma allora come si può parlare di “creazione di conoscenza” in un processo dove si ha

una perdita così inevitabile?

Nel corso della trasformazione da tacito a esplicito l’azione di riferimento è la

rappresentazione: un qualche cosa che descrive, l’oggetto della trasformazione

stessa. Per avere una trasformazione, però, è necessario un linguaggio.

Distinguiamo tre tipologie di linguaggio:

1. linguaggio naturale, il più libero, il meno strutturato, ma anche il più ambiguo

(pensiamo, ad esempio, alle figure retoriche); insomma un linguaggio ricco ma

poco immediato.

2. linguaggi formali, poveri di capacità espressiva ma di facile comprensione.;

3. linguaggi grafici, intermezzo tra i primi due, leggibili ma limitati.

Il passaggio fra tacito ed esplicito può non essere immediato. L’oggetto della

rappresentazione infatti può essere frutto di diversi passaggi o di un’elaborazione

progressiva piuttosto articolata. Questo perché si deve tener presente che durante tale

trasformazione avviene una “presa di consapevolezza”, ovvero proprio nel momento in

cui si esplicita qualcosa ci si rende conto di conoscere ciò che si sta descrivendo.

Considerando la radicalità del cambiamento dalla “non-strutturazione” e “continuità”

della conoscenza tacita “all’ordine” e “discrezione” della conoscenza esplicita, è facile

intuire che tale presa di coscienza possa riguardare più di un passaggio.

Di conseguenza potrebbe agevolare avere diversi supporti linguistici che possano in

qualche modo aiutare:

- la metafora: si realizza quando si utilizza lo schema concettuale maturato in un

determinato dominio e lo si sfrutta per descrivere un dominio differente (definizione di

Nonaka).

Es. “L’organismo politico”→ “un’organizzazione è una macchina composta di

parti…”.

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Sebbene la metafora possa essere impiegata anche in modi molto articolati, la sua

caratteristica portante risiede nella capacità che le compete di evocare qualcosa di noto

per descrivere qualcosa di meno noto.

Dire che “l’organizzazione è come una macchina”, pur non entrando nei dettagli,

fornisce già una prima interpretazione del concetto.

Se descrivo l’organizzazione come una macchina, le do delle precise connotazioni:

1. La macchina non evolve;

2. La macchina non si auto-ripara;

3. La macchina non si disintegra come si disintegra un organismo

4. Si perde il concetto di dinamicità

Diversamente, parlare di “organismo” avrebbe reso più difficile “separare” le parti e di

conseguenza meno immediata l’intuizione dell’esistenza di una struttura gerarchica

all’interno dell’organizzazione oggetto della metafora.

Così facendo si capisce quanto già preferire l’impiego di una metafora piuttosto che di

un’altra significhi orientare l’ascoltatore verso una determinata interpretazione. L’uso

della metafora ha quindi importanti implicazioni sulla descrizione dell’oggetto in esame.

Anche fuor di metafora c’è da dire che qualsiasi concetto espresso con linguaggi “non

formali” eredita comunque un certo grado di ambiguità.

Ma questa ambiguità è sempre e solamente negativa?

Da un’ambiguità può nascere l’esigenza di un approfondimento che quindi porta a un

arricchimento della descrizione. Si può dunque dire che l’ambiguità abbia una valenza

positiva, nella misura in cui venga risolta.

É dunque necessario scegliere il linguaggio a seconda del contesto in cui ci si muove,

tenendo in considerazione i pro e i contro della flessibilità di questo mezzo. Lavorando

tra macchine ovviamente la scelta sarà pressoché obbligata, ma in tutti gli altri contesti

la scelta va fatta in maniera oculata.

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Combinazione

La combinazione è un arricchimento, un’elaborazione di conoscenza esplicita

(informazione), ossia di qualcosa che possa essere rappresentato in modo finito.

Cosa può caratterizzare questo arricchimento?

● Annotazioni: aggiungere conoscenza esplicita in un testo con sottolineature,

commenti etc...

● Rappresentazioni, come ad esempio differenziare le cose “comuni” da quelle

“non comuni”;

● Ricerca di altre informazioni;

● Traduzione: nell’operazione di traduzione di un testo da un linguaggio ad un

altro, si ha un arricchimento culturale. La traduzione infatti non è mai mera

trasposizione, quanto piuttosto fusione tra le due culture (di partenza e di arrivo)

congiuntamente all’apporto esperienziale unico e ineguagliabile del singolo

soggetto che la effettua (in proposito, si vedano anche i lavori di Umberto Eco);

● Ordinare le informazioni: dare un ordine ai concetti facilita l’uso delle

informazioni in essi contenute, incrementando di conseguenza il loro valore

cognitivo; l’ordine può anche essere automatico (vedi il page ranking, i.e.);

La combinazione è già una fase che in qualche modo compensa eventuali perdite di

informazione: è più della somma delle sue esternalizzazioni, ergo in certa misura le

arricchisce.

Internalizzazione

Anche questa è una fase di trasformazione, così chiamata in opposizione

all’”esternalizzazione”.

La conoscenza esplicita arrivata fin qui, per diventare conoscenza tacita e dunque per

essere realmente appresa, deve essere inglobata nei nostri schemi concettuali. É

questo il momento di interiorizzare le conoscenze esterne per andarle a combinare con

la nostra esperienza passata.

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Non è un caso che Nonaka non usi la parola “apprendimento” e preferisca piuttosto

“internalizzazione”: l’apprendimento, infatti, è presente fondamentalmente in tutte le fasi

e si risolve dunque in un concetto più generale e difficilmente limitabile solo a questo

singolo passaggio; l’internalizzazione, invece, in virtù del ruolo di “fase regina”,

necessita un appellativo che renda merito alla sua unicità determinata dal fatto che,

senza di essa, le conoscenze resterebbero esterne. Tali conoscenze grazie

all’internalizzazione entrano nella sfera del “saper fare”.

Fondamentale da ricordare è che nell’internalizzazione, l’individuo non è isolato, bensì

può impiegare l’interazione col mondo per avere chiarimenti, approfondire o integrare.

Le relazioni col mondo esterno possono avvenire in molti modi diversi e non devono, o

quanto meno non dovrebbero, essere limitate. Le occasioni di relazionarsi col mondo

esterno costituiscono occasioni di crescita sia per il dipendente che per l’azienda.

In questo senso le restrizioni al web rappresentano un vero e proprio limite e

andrebbero evitate. Sebbene, infatti, ci possa essere la paura che il dipendente

“sprechi” il suo tempo, il potenziale arricchimento che ne deriverebbe per l’azienda

sarebbe decisamente più alto di questo timore, il quale per altro, potrebbe essere

arginato con metodi molto più tenui che non la mera censura mediatica. In ogni modo,

web o non web, le organizzazioni attuali effettuano continui contatti con il mondo

esterno ed è questa una fonte imprescindibile di arricchimento.

Nell’internalizzazione il tipo di apprendimento “learning by doing” è estremamente

importante poiché le conoscenze di una persona sono correlate non tanto alla quantità

di nozioni che possiede, ma a come queste sono legate tra loro.

É corretto allora parlare di “perdita di conoscenza”?

In verità non c’è una vera e propria perdita. La conoscenza persa nella fase di

esternalizzazione, infatti, viene compensata dall’arricchimento che si realizza

nell’internalizzazione.

Chiaramente è necessario garantire che la fase di internalizzazione avvenga, altrimenti

il risultato che si otterrebbe sarebbe equiparabile al rifocillamento di una dispensa alla

quale, tuttavia, la gente non può accedere.

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Al fine di impedire quanto più che si realizzi un effetto del genere, è bene che l’azienda

lasci aperti degli spazi che, seppur apparentemente “inutili” in quanto non direttamente

produttivi, rappresentano momenti fondamentali di sperimentazione libera, di

socializzazione e di gestione di conoscenza. Per quanto importante sia, tale possibilità

è spesso la più trascurata dalle aziende le quali, in realtà, così facendo accumulano

conoscenza inutilizzabili generando del mero nozionismo.

Nonaka conclude dicendo che tutto questo complesso processo ha senso ed è efficace

solo nel momento in cui esiste un’organizzazione che favorisce lo sviluppo e la

maturazione delle quattro fasi fin qui descritte con aspetti motivazionali, con momenti

formativi e produttivi.

Teniamo poi sempre presente che l’opera di Nonaka nasce nel 1991, ormai oltre venti

anni fa, in situazioni decisamente diverse. Ciononostante resta attuale la

considerazione su come sia molto più importante la circolazione della conoscenza

piuttosto che l’accumulo di essa: la circolazione è formativa e collaborativa, pertanto

assume un valore infinitamente più grande rispetto alla conoscenza cristallizzata in un

ufficio e non valorizzata.

In un’ottica così cooperativa, come fa l’individuo a sentire gratificata anche l’esigenza di

riconoscimento individuale e a sedare invece la paura del rischio di sostituzione da

parte di colui col quale ha condiviso le sue conoscenze?

Un’organizzazione che favorisce la circolazione della conoscenza difficilmente andrà a

penalizzare proprio colui che questa conoscenza l’ha fatta circolare. Dopotutto, un

individuo che sa insegnare o che è disponibile a farlo sicuramente non perde di valore,

bensì per l’azienda vale ancor più di prima!

Se però l’azienda adottasse davvero un comportamento corrosivo del genere sarebbe

la prima a subirne le conseguenze disastrose nel lungo periodo. Infatti, sebbene di

primo acchito i due tipi di conoscenza potrebbero sembrare equivalenti e dunque

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sostituibili, successivamente invece mancherebbe personale idoneo all’istruzione delle

“nuove leve”, determinando così una perdita di conoscenza nell’organizzazione.

Comunità di Pratica Nel 1991, in perfetta sincronia temporale, ma in totale asincronia spaziale rispetto a

Nonaka, usciva un articolo che introduceva il concetto di “comunità di pratica”,

successivamente raffinato in un libro pubblicato nel 1997 che è quello da cui traiamo

oggi la sua definizione.

La nascita del "culto" della gestione della conoscenza sia in Oriente che in Occidente

indicava un salto culturale evidente; un parallelismo che smentiva le affermazioni di

Nonaka in merito al fatto che “in Occidente si ragionasse in modo diverso” e che creava

un interessante complementarietà tra questi due contributi.

Mentre Nonaka lavorò molto sui temi del “tacito ed esplicito” (figura della spirale),

viceversa la comunità di pratica lavora sull'asse “individuo-gruppo e organizzazioni”.

Wenger, infatti, integra il discorso di Nonaka, approfondendo un aspetto da lui

trascurato e fornendo così un quadro completo grazie alla combinazione dei due punti

di vista all’interno della sua concettualizzazione.

Punto di partenza è l’osservazione che, indipendentemente dalla struttura

organizzativa, esistano organizzazioni reali in cui gruppi di persone spesso attraversano

la struttura sia orizzontalmente che verticalmente, rompendo quindi la struttura formale

dell'organizzazione.

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Questa osservazione permette di intuire fino a che punto tali strutture informali siano

legate ai processi di apprendimento e di innovazione. Il legame che caratterizza queste

persone non è un “imperat esogeno” ma un obiettivo interno mirante ad acquisire

conoscenze e competenze molto spesso legate ai processi di innovazione.

Il concetto di comunità di pratica nasce, dunque, come caratterizzazione di questi

gruppi. La denominazione fonde insieme due concetti espliciti: quello di “comunità”

(qualcosa che lega le persone in modo non burocratico) e quello di “pratica” (legato

all'apprendimento alla base dell'innovazione). Attraverso l’unione dei due concetti è

possibile ottenere una panoramica molto concreta e di facile comprensione della visione

di Wenger.

Il significato ci dice come viene interpretata la conoscenza e il processo di costruzione

della stessa in modo da aver chiaro il riferimento a cui si punta. Wenger lega l’idea della

conoscenza all'interpretazione di cosa avviene nel mondo, non come esistente e da

scoprire (oggettivista), ma come fenomeno sociale che caratterizza il processo di

apprendimento relativo all’individuo all’interno di una struttura (idea, pertanto, legata alla

pratica costruttivista).

Tuttavia il significato è anche un oggetto dinamico che evolve nel tempo in quanto frutto

di una negoziazione. La negoziazione di significato è uno dei concetti base della

comunità di pratica e in essa il contesto è fondamentale poiché sempre presente

(similitudine con Nonaka). Oltre al linguaggio, secondo Wenger, le persone coinvolte

nella negoziazione utilizzando diversi strumenti che permettono l'interazione.

Poiché legato alla negoziazione, il significato è dinamico e storico (evolve nel tempo),

pertanto il nuovo significato è fortemente collegato a quello precedente anche “per

opposizione” (questa idea ricorda molto la concezione di ciclo di Nonaka). Inoltre si

configura come individuale e collettivo (altro punto di contatto con la visione di Nonaka).

La negoziazione richiede un’interpretazione che è sempre legata alla pratica, infatti

l’interpretazione avviene necessariamente all’interno di un’azione.

La negoziazione del significato è frutto di due azioni: il concetto di “partecipazione” e

quello di “reificazione”.

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Partecipazione è un termine di uso comune e proprio per questo è forte il pericolo di

cadere in un’interpretazione troppo generica; la partecipazione che si intende in questo

contesto è legata al riconoscimento reciproco, ossia alla piena consapevolezza

dell’esistenza delle caratteristiche dell’interlocutore.

Il riconoscimento è intimamente legato all'identità dell'individuo all'interno del gruppo di

cui fa parte, il che implica che l'individuo e la comunità si influenzano reciprocamente.

Anche Nonaka non nega la possibilità di una collaborazione con la comunità o con

comunità diverse, tuttavia non la enfatizza. La partecipazione non è legata solo

all’interazione, ma è qualcosa che sopravvive al di là della stessa, stimolando il

soggetto a essere membro di una data comunità anche se prende parte ad altre, in virtù

del fatto che il bagaglio costruito durante la partecipazione a un gruppo sopravvive

anche nel rapportarsi ai membri di un gruppo nuovo. É possibile, quindi, relazionare il

concetto di “partecipazione” alla fase di “socializzazione” di Nonaka.

Contrariamente a “partecipazione”, “reificazione” non fa parte del senso comune.

Wenger la definisce come quel processo che dà forma all'esperienza (interpretazione

dinamica) producendo oggetti che la plasmino in una entità materiale. In linea con la

visione della negoziazione di significato, quindi, tale processo non è identificato come

cosa statica, bensì come un agire, un’attività in cui l’input è l’esperienza (il “tacito” di

Nonaka) e l’output è un oggetto che le dia “materia”. Fermo restando che per “materia”

non si intende però entità fisica quanto piuttosto una semplice identificabilità, una

riconoscibilità.

L’esempio classico è ciò che una parola fa con il significato che racchiude. Il legame tra

input e output può essere sia dinamico (ovvero modificabile nel tempo ma soltanto da

un individuo - cambia solo se qualcuno lo fa cambiare), che “istantaneo” (paragonato a

un fermo immagine, relativo dunque all’insieme di esperienza di un determinato

momento).

Facendo un parallelismo con Nonaka, la reificazione ha molti elementi

dell’esternalizzazione; non copre però tutto il concetto poiché in quest'ultima trova

spazio l’idea di rappresentazione (un modo di interpretare l'oggetto con un’ottica

abbastanza precisa), invece nella reificazione la visione è più generale.

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La reificazione coinvolge un insieme di azioni. La rappresentazione è una di queste: gli

oggetti vengono utilizzati per focalizzare l'attenzione sull'oggetto di riferimento, avendo il

vantaggio di semplificare la comunicazione. Wenger afferma che un linguaggio

specifico non necessariamente deve far riferimento ad una realtà esterna, ma può

essere costituito da un insieme di convenzioni che le persone hanno e che aiutano la

comprensione reciproca. Le convenzioni possono definirsi come “negoziazioni di

significato congelate” poichè sono più persistenti nel tempo, altrimenti sarebbero delle

interpretazioni.

Anche un oggetto fisico, uno strumento - quindi non solo il linguaggio - può essere visto

come la reificazione di certe pratiche che hanno portato a definirlo.

Wenger infatti utilizza il termine “reificazione” sia come oggetto che come processo.

Sostanzialmente è vero che l'esternalizzazione crea qualcosa di distinto da chi lo

produce - l'oggetto ha vita propria e quindi può evolversi secondo diverse sfumature e

diversi contesti - tuttavia le modalità d’impiego di un oggetto dipendono dal contesto

locale, per cui il suo utilizzo in senso evocativo ha senso solo in termini locali. Un

oggetto può essere utilizzato da più persone, ma per essere oggetto di apprendimento

ha bisogno sempre di un contesto locale. L'oggetto che reifica qualche tipo di

esperienza porta con sé degli aspetti positivi, come la semplificazione della

comunicazione (che la rende più efficace ed efficiente) e tuttavia, vincolandola alla sua

autonomia, rischia di evocare entità sbagliate nel contesto sbagliato (effetti negativi).

Parliamo di ambiguità e l'ambiguità crea problemi proprio a livello dell’interazione.

Questa valenza positiva e negativa che lega partecipazione e reificazione le rende

reciprocamente distinguibili, anche se fortemente intrecciate.

Secondo Wenger nella realtà reificazione e partecipazione avvengono

contemporaneamente.

Un esempio è la conversazione: la partecipazione avviene perché sono presenti due

soggetti, la reificazione invece avviene in quanto esistono un linguaggio e un insieme di

segni che consentono la comunicazione. Questo semplice esempio quotidiano

Page 20: Dispense di Gestione della Conoscenza

20

sintetizza un meccanismo identico a quello che prende corpo all'interno di una struttura

organizzativa, basti guardare ai gruppi di individui.

Concludendo è possibile sostenere che la partecipazione e la reificazione si

compensano a vicenda: entrambe prese singolarmente non coprono tutto il fenomeno

ma messe insieme riescono a descrivere in maniera completa il processo che genera

significato. Esse di focalizzano su due aspetti complementari che creano due sotto

fenomeni dell'interazione: la partecipazione per la sua definizione rischia di generare un

contesto scarsamente rappresentato ed è interattivamente poco incisiva, il che rende

più difficile il fare comune. La reificazione compensa esattamente questo aspetto: i

segni generati permettono un’interazione più efficiente e aiutano il fare comune.

L'aspetto negativo è il congelamento del significato di un’esperienza in un segno, il che

comporta la perdita di dinamicità; inoltre, essendo legata all'astrazione per

rappresentare un’esperienza, la reificazione crea ambiguità e quindi incomprensione.

Su questi due limiti interviene però la partecipazione: l’interazione fa evolvere il

significato di un segno nel tempo, mentre la partecipazione consente di risolvere i

conflitti attraverso l'interazione.

Ecco perché Wenger rappresenta partecipazione e reificazione tramite la figura dello

zen.

Naturalmente come tutte le cose che si contrappongono e si integrano il problema è

quello di trovare un equilibrio per un’efficace gestione della conoscenza. Il trovare e

mantenere questo equilibrio è il problema di tutte le iniziative organizzative.

Indifferentemente dalla sua natura, Wenger ci propone il concetto di “comunità” come

ente che interagisce e negozia significati mediante gruppi di persone che si relazionano

fra di loro.

Caratterizzano la comunità:

- impegno reciproco;

- impresa comune;

- repertorio comune;

Quello che colpisce subito di questi tre concetti è l'enfasi sul “comune” condiviso.

Page 21: Dispense di Gestione della Conoscenza

21

L'impegno reciproco sta nel riconoscere l'identità dell'altro nel suo valore complessivo e

nel mantenere i legami che uniscono i membri della comunità e che permettono di

negoziare i significati, aiutando quindi a definire il senso di quello che vi avviene,

condiviso nei suoi elementi di conoscenza e di scopo. É importante capire che

l'impegno a cui si fa riferimento è diverso da un impegno formale o da un contratto: nel

caso della comunità l'impegno viene preso fuori dalla struttura organizzativa, anche se

comunque deve sempre sottostare a un impegno istituzionale che caratterizza i singoli

membri.

L'impresa comune è definita come qualcosa che va al di fuori degli impegni istituzionali.

Secondo Wenger la caratterizzazione di questa impresa è un modo di dare senso alle

cose che si fanno: la comunità pensa di costruire un contesto operativo che non veda le

azioni compiute come mera risposta all'impegno istituzionale.

Altro aspetto è la partecipazione periferica: se si pensa alla comunità come a uno

spazio dove abbiamo una densità di membri con forti legami tra di loro, per ogni nuovo

membro che entra nella comunità essa deve impegnarsi a fargli percorrere una

traiettoria che lo porti a diventare sempre più partecipe. Questo impegno non è dettato

da semplice buonismo, ma dalla consapevolezza che, affinché la comunità funzioni, tutti

devono essere messi in condizione di essere attivi e di dare il meglio di sé, sfruttando la

propria esperienza e mescolandola con quella degli altri così da far crescere la

conoscenza della comunità stessa.

Analizziamo adesso casi apparentemente paragonabili alla comunità di pratica:

- Il gruppo: nel senso comune ha un impegno reciproco quasi nullo, non interagisce,

semplicemente condivide uno spazio.

- Il team: ha un’impresa istituzionale comune ma non ha un’impresa di comunità; può

diventare comunità ma non necessariamente: vi possono nascere infatti dei conflitti

interni che distruggono il team; viene costruito a livello organizzativo, quindi viene

creato ed eliminato; se i conflitti vengono risolti con un’idea di mantenimento della

comunità allora si può iniziare a vederla germogliare nel tempo.

- Il network: in generale risponde abbastanza bene all'impegno reciproco; vi è un

riconoscimento reciproco e un’impresa comune, ma non ha un repertorio condiviso.

Page 22: Dispense di Gestione della Conoscenza

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L’impresa comune e l'impegno reciproco hanno l’onere di mantenere il repertorio

condiviso. Il repertorio condiviso è un luogo dove i membri della comunità archiviano le

loro tracce. La comunità solitamente si inventa un linguaggio che permette di

raggiungere l'impegno istituzionale in modo più piacevole e facile.

Il repertorio condiviso può essere associato alla reificazione che è legata

all'esternalizzazione, ma anche memorizzato, quindi confrontabile con la fase di

combinazione di Nonaka.

Non sempre le comunità vengono identificate all'interno di un’organizzazione: se non è

in grado di riconoscere le comunità che ospita e non valorizza questo impegno,

l’organizzazione non fa altro che limitare questa conoscenza.

Anche il mantenimento all'interno dell'istituzione fa parte dell'impegno reciproco:

naturalmente ciascun membro deve rispettare delle regole e deve essere messo in

condizione di non nuocere alla comunità. Un’organizzazione deve stare attenta a

gestire la comunità, essendo questa una soggetto fragile: non dovrebbe opprimerla in

quanto ciò rischierebbe sia di minarne l’efficienza sia di aumentare la possibilità che

essa si sgretoli.

Wenger definisce degli stati che la comunità attraversa all'interno di un’organizzazione,

considerandoli non necessariamente sequenziali.

1. Non percepita: la comunità non viene percepita dall'azienda e talvolta nemmeno

dalla stessa comunità;

2. Comunità carbonara: nel relazionarsi all’organizzazione la comunità si protegge

rimanendo in segreto fino a quando non matura una propria struttura interna;

3. Comunità legittimata: l'organizzazione la percepisce, viene riconosciuta e accettata,

ma non le viene dedicato molto tempo; l’organizzazione non interferisce, ma nemmeno

investe su di essa;

4. Comunità strategica: l'organizzazione la percepisce e la considera positiva,

potenzialmente utile cioè da sfruttare per ottenere risultati migliori; viene quindi

sostenuta creando situazioni favorevoli che non fanno altro che migliorarne la qualità

Page 23: Dispense di Gestione della Conoscenza

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della vita all'interno della struttura organizzativa; è percepita come un valore molto forte

da parte dell'organizzazione; la visione più rilevante si verifica quando la comunità

riesce a influenzare l'organizzazione.

É importante sottolineare che una comunità di pratica non può essere “costruita”: nasce

e cresce all'interno di una struttura organizzativa in modo spontaneo. Nella stessa

comunità, inoltre, vi è una struttura organizzativa che permette di identificare i ruoli che

ogni membro può ricoprire:

- esperto: è quello che nella missione istituzionale della comunità lavora sulle

competenze e organizza; qui in qualche modo vengono riconosciute le attività di ogni

membro sempre con l'approvazione di tutti;

- documentarista: permette il mantenimento del repertorio, ruolo importante perché

deve essere costantemente aggiornato con la conoscenza;

- pubbliche relazioni: tiene conto del fatto che la comunità non sia isolata e mantiene

le relazioni con il mondo esterno nei momenti formali e informali; è il ruolo che gestisce

il legami istituzionali, che si preoccupa di comunicare con le diverse figure e ha

possibilità di parlare a livelli alti, dove vengono decise le strategie; ha una visione più

grande che consente di far apprezzare la comunità all'interno dell'organizzazione;

- innovatore: utile per arricchire altri ruoli che permettano di implementare la comunità;

Ogni ruolo si colloca sullo stesso livello d'importanza.

L'ultimo set di concetti completa il quadro della comunità, la quale può configurarsi

come un organismo che si evolve nel tempo al punto da far parlare di ciclo di vita della

comunità. Anche qui troviamo la presenza di stati che non devono necessariamente

susseguirsi in modo sequenziale.

La comunità può essere:

- potenziale: il gruppo iniziale, tramite l’interazione, si rende conto della possibilità di

unirsi e valuta l’ipotesi di creare una comunità;

- costruzione: si inizia a concretizzare;

- impegnata: si assume l'impegno reciproco; la comunità si è riconosciuta come tale e,

anche se in maniera non burocratica, si attiva nella realizzazione di sé stessa;

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- apprendimento: è una fase che avviene nella realizzazione dell'impegno;

- comunità attiva: l'investimento iniziale diventa produttivo senza la necessità di

cambiamenti (una fase più di quiete);

- adattamento: la comunità si arricchisce di conoscenza e di membri; questa situazione

la porta a prendere una decisione che può essere positiva o negativa: positiva quando

la comunità si è talmente arricchita e consolidata da sentirsi soffocata in un’unica

comunità, per cui ne gemma di nuove; negativa quando la disintegrazione comporta la

distruzione della comunità che si scinde nei singoli membri, ognuno dei quali porta con

sé la propria esperienza.

Esaminiamo adesso le fasi attraverso cui passa una comunità di pratica, connettendole

alle trasformazioni proposte da Nonaka nel suo modello.

Nella fase potenziale della comunità, il riferimento più naturale è alla socializzazione di

Nonaka. La conoscenza che va da tacita a esplicita concretizza la possibilità di definire

quello che Nonaka chiama un “orizzonte comune”, qualcosa che accomuna le persone

e che permette di proseguire verso fasi più costruttive. La prima fase della comunità, a

volte, può essere anche l’unica fase dal momento che si potrebbe non arrivare a

identificare un interesse sufficiente, un impegno, un’impresa, un repertorio che possano

essere comuni. Quindi la socializzazione ha un ruolo fondamentale nello stato di

potenzialità.

Superata questa fase, si passa alla costruzione di quello che lega la comunità.

Nella costruzione, si incomincia a esplicitare la conoscenza, resa condivisibile, da tacita

a esplicita, in termini sempre più significativi. E’ chiaro che si continua anche a

socializzare , ma la fase predominante è quella che comincia a definire le prime regole.

La fase di impegno è una fase in cui gli aspetti fondamentali della comunità di pratica,

quindi “impresa comune” e “repertorio”, vengono costruiti; mentre fino ad adesso,

eravamo in una fase di costruzione di “regole del gioco”, qui siamo in una fase di

impegno attivo ad arricchire, a costruire e mantenere i legami all’interno della

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collettività. Possiamo dire che le due fasi di “esternalizzazione” e “combinazione” sono

difficili da distinguere perché la combinazione arricchisce cose già esplicitate e, inoltre,

si giocano tutte e due in maniera abbastanza paritetica.

Nella fase di operatività, si smette di costruire e si comincia a mettere in uso. Si

incomincia ad avere il vantaggio di aver fatto questo investimento, si usano i concetti

acquisiti ed è predominante la combinazione; anche l’esternalizzazione, tuttavia, può

ancora giocare un ruolo in quanto la conoscenza condivisa ed esplicitata può sempre

essere in qualche modo incrementata all’interno dell’interazione, dell’operatività del

“fare insieme” e del mantenere il repertorio condiviso; il tutto per portare avanti un

impegno comune.

Lo stato di adattamento è uno stato meno identificato, più caotico, in cui gioca di nuovo

un ruolo importante la fase di socializzazione. In un momento di adattamento - che è

quello che fa cambiare la struttura di una comunità in quanto essa si espande, si

trasforma o si distrugge - c’è un certo ritorno a una fase di discussione: i membri della

comunità decidono l’evolvere di orizzonti comuni per le sotto-comunità e i gruppi, i quali

a un certo punto possono autonomizzarsi e costruire comunità più indipendenti.

Si può capire dunque che all’interno della stessa struttura organizzativa è possibile

avere diverse comunità in stati diversi, oppure all’interno della stessa comunità è

possibile avere, a seconda dei temi, del repertorio, della particolare sotto-impresa

comune, certe imprese che sono già più mature, che sono già “operative”, mentre altre

che sono ancora più pesantemente in fase di costruzione. In un certo senso, perciò, le

fasi, i ruoli, la caratterizzazione delle comunità di pratica ci dicono che nella realtà non è

così semplice riconoscere le comunità stesse perché possono essere in stati diversi,

avere al proprio interno ruoli definiti presenti o assenti a seconda del tipo di comunità e,

infine, possono avere diverse relazioni con la struttura istituzionale.

Veniamo ora alla fase dell’ apprendimento (individuale). Questa è particolarmente forte

durante l’operatività in quanto costituisce uno dei motivi per cui la comunità nasce: se

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non c’è apprendimento, i soggetti non si sentono arricchiti dalla partecipazione e quindi

l’investimento non paga.

L’apprendimento tuttavia è qualcosa di onnipresente nello stato della comunità,

d’altronde, come detto, non è necessario attraversare tutti gli stati in maniera

sequenziale per arrivare all’apprendimento individuale e quindi all’internalizzazione;

esso può avvenire anche in altre forme, soggettive e individuali. In ogni caso

l’apprendimento costituisce il collante principale della comunità e il motore che le

permette di svolgere al meglio le sue attività, considerando che il suo obiettivo

principale è cooperare nel miglior modo possibile (di qui la condivisione delle

conoscenze si identifica come fondamentale).

Con queste relazioni (sempre da prendere con attenzione) i due concetti iniziali

(modello SECI e comunità di pratica) si identificano come sinergici e di supporto l’uno

all’altro, per cui possono essere usati simultaneamente nell’analisi e nella costruzione di

tecnologia che supporta l’evoluzione positiva delle comunità in ciascuna delle loro fasi.

Emergono infine alcuni aspetti importanti da tenere presenti:

- la forza dei legami tra membri della comunità;

- il livello di riconoscimento da parte della struttura ospitante;

queste due dimensioni, che sono l’aggregazione di tanti indici più dettagliati,

consentono di discriminare le situazioni che si sono create in svariati casi reali. Pur non

coprendo la totalità delle possibilità, forniscono una chiave semplice da applicare per

riconoscere se siamo all’interno di una comunità di pratica o meno.

Intersecando queste due dimensioni (riconoscimento alto/basso – legami deboli/forti)

sono state individuate quattro zone di analisi.

Quando i legami non sono forti come all’interno della comunità di pratica, si parla di

“comunità di interesse” (in cui almeno una delle tipologie di legame viste – interesse

comune, repertorio condiviso, impegno reciproco - non è significativa). Le comunità di

interesse hanno dei legami medio-bassi che identificano un gruppo di persone come

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legate in qualche modo, ma con caratteristiche parzialmente diverse dalla comunità di

pratica, nella quale comunque potranno sempre evolversi a fronte di un rafforzamento

degli impegni. Quando invece abbiamo legami forti e riconoscimento alto si parla di

“comunità strategiche”.

Mettiamo ora in relazione la gestione della conoscenza con la tecnologia.

Per quanto la gestione della conoscenza sia stata concretizzata anche prima

dell’introduzione massiva della tecnologia, è innegabile che quest’ultima faciliti le

organizzazioni - e quindi, per derivazione, la gestione della conoscenza - nel tempo e

nello spazio. Fino a quando le persone condividono ambiente e tempo, la gestione della

conoscenza è una questione basata su relazioni 1:1, ma quando ciò non è più possibile

la tecnologia diviene essenziale.

Quando la tecnologia è sostanziale nella gestione della conoscenza e quando è invece

solo un supporto?

Innanzitutto bisogna considerare il “contesto locale” che se ignorato potrebbe portare a

una banalizzazione di questa analisi e al rischio di non esaltare la conoscenza vera alla

base di queste organizzazioni. A seconda delle caratteristiche del contesto locale si può

cercare di trovare la soluzione migliore e più adatta alla specifica situazione. I concetti

analizzati precedentemente possono fornire, se non proprio una metodologia, degli

strumenti “usa e getta” per comprendere meglio la situazione.

Uno dei modi che è possibile utilizzarli per analizzare le esigenze di una situazione

locale è quello di porsi il quesito “riesco a identificare delle comunità di pratica?”.

Così facendo si sfrutta già una situazione ben definita (tutte le caratteristiche

determinanti di tali comunità) alla quale la tecnologia deve adattarsi. Tuttavia la risposta

a una domanda del genere non è semplice; abbiamo visto quante sfumature diverse

possa avere una comunità di pratica. Un altro modo di affrontare la situazione sarebbe

cercare di vedere se si riconoscono, nella situazione analizzata, un impegno, un

repertorio, un’impresa comune dai quali poi risalire alla comunità di pratica.

Page 28: Dispense di Gestione della Conoscenza

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In genere, i sistemi di gestione della conoscenza sono fortemente basati sulla loro

capacità di favorire l’apprendimento delle persone (individuale e collettivo) e il

miglioramento delle modalità di esecuzione dei compiti. Se un sistema informativo è mal

progettato, le persone lottano per usarlo perché non possono far diversamente; nel

caso di un sistema di gestione della conoscenza non funzionate o problematico, invece,

esso verrà semplicemente ignorato in quanto non c’è nulla che possa obbligare le

persone a continuare ad adoperarlo. Questo è un dato molto importante da tener

presente perché giustifica il fatto che molte volte grossi investimenti su tecnologie di

gestione della conoscenza hanno portato a grandi fallimenti, proprio a partire dalla

considerazione che le persone non “dipendono” da tali tecnologie per cui riescono

sempre a trovare soluzioni alternative in caso di inadeguatezza delle stesse. Nel

momento in cui viene ignorata, chiaramente la tecnologia perde qualsiasi tipo di

efficacia in quanto si svuota del suo stesso scopo di “integrazione alla vita del

soggetto”.

Porsi domande sull’esistenza o meno di comunità di pratica è fondamentale per capire

quali tipi di tecnologie possano essere consone agli stili di vita delle comunità presenti e

non finiscano per essere ignorate. Nel momento in cui la risposta al quesito iniziale

fosse negativa, i presupposti del ragionamento cambierebbero radicalmente.

Il Caso Pirelli I casi concreti ci aiutano a capire quanto sia importante comprendere la situazione su

cui si vuole intervenire per riuscire a costruire delle tecnologie focalizzate e idonee allo

scenario specifico.

Cominciamo a ragionare su uno di questi: un progetto sviluppato attorno ai primi anni

2000 in risposta a un’azienda molto legata alla Bicocca, la Pirelli.

Il rischio di una grossa perdita di competenze per questioni generazionali e di

cambiamento organizzativo portò alla luce l’esigenza di riflettere sulle tematiche di

gestione della conoscenza. A seguito di questo, partì un’iniziativa pilota in un primo

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momento limitata all’ambito organizzativo, ma che eventualmente si sarebbe potuta

espandere a tutta l’azienda.

Era questa un’iniziativa applicata nel settore della progettazione che, per la parte di

Pirelli che si occupa di pneumatici, è il cuore delle competenze, conoscenze e capacità

di innovazione.

Quello che in generale preme alle aziende è il mantenimento del “prodotto” (i

pneumatici in questo caso), ma ciò che manca solitamente (e soprattutto nel nostro

case study) è la consapevolezza del processo che usa la conoscenza per produrre

l’output aziendale (oggetto di studio specifico della materia).

In definitiva, bisognava capire quali erano le competenze messe in gioco e come fosse

possibile supportare il processo per tesaurizzare queste competenze: sia per renderle

più efficaci, sia per renderle più condivisibili a fronte di questi due processi.

N.B. A fronte di questo caso c’è stata una situazione particolarmente felice poiché Pirelli

ha investito molto in questo progetto non solo in termini economici, ma anche in termini

temporali (nei tempi dei propri progettisti). Il tempo delle persone solitamente è un

valore molto scarso all’interno di una struttura organizzativa, ecco perché la scelta di

Pirelli rende questo progetto “speciale” e non facilmente ripetibile, dato che spesso i

progetti di gestione della conoscenza si scontrano con l’impossibilità del committente di

spendere del tempo nel ragionare unitamente sul processo e quindi di porre in essere

attività esterne al “quotidiano”.

L’interazione con il team Pirelli è avvenuta partendo da una considerazione molto

banale: c’erano due gruppi di esperti, quelli che possedevano conoscenza di

produzione di pneumatici e quelli che possedevano conoscenza informatica e i due

gruppi non comunicavano propriamente. Questa situazione ha imposto di impiegare

parte del tempo nel far sì che i primi fornissero ai secondi un minimo di informazioni sul

processo con cui avrebbero dovuto avere a che fare, attraverso seminari.

Inoltre non poteva trascurarsi l’interdipendenza tra la fase di progettazione e le altre fasi

del processo afferente alla produzione di pneumatici, e in particolare la fase di

produzione (ecco perché alla fine erano presenti anche degli esperti di chimica, di fisica

Page 30: Dispense di Gestione della Conoscenza

30

e di marketing). Proprio per questo legame fra domanda e produzione, all’interno di

questi seminari, gli esperti Pirelli hanno dato molte informazioni sia sulla struttura del

prodotto, sia sui vincoli che la sua progettazione doveva tenere in considerazione. Al

contrario delle aspettative, tali seminari si sono protratti nel tempo e non hanno visto la

partecipazione dei soli esperti della progettazione dei pneumatici, ma anche di altri

collaboratori Pirelli in quanto, nel raccontare il proprio lavoro a degli “esterni”, il gruppo

Pirelli socializzava ed esternalizzava (non solo verso l’esterno, ma anche al proprio

interno). Così facendo si evidenziava, inoltre, quanto alcune attività svolte per anni,

fossero per loro divenute così implicite da essere ardue da spiegare a parole a chi non

condividesse la loro stessa esperienza. Pertanto quella che apparentemente poteva

sembrare una “perdita di tempo” si è rivelata altamente utile e fortemente apprezzata

come occasione per far meglio comprendere le modalità di svolgimento di un lavoro.

Ricordiamo che nella fase di progettazione sono coinvolte diverse discipline: da quelle

più tecniche (chimica, fisica, ingegneria), a quelle rivolte alla comprensione delle

esigenze del mercato, a quelle economiche (relative alla produzione e al prodotto).

All’interno dei seminari erano presenti esperti di ognuna di queste branche, per cui nelle

loro narrazioni finivano per legarsi tutti questi elementi.

Il fenomeno che è emerso da tali narrazioni e conseguenti discussioni è che, di base, gli

aspetti di conflitto erano abbastanza limitati (e venivano risolti attraverso le stesse

discussioni); la comunicazione collettiva tra persone così diverse e provenienti da

discipline molto settoriali e con linguaggi specialistici avveniva senza grosse difficoltà.

Com’era possibile? Ragionando in termini di gestione della conoscenza, quindi

attraverso i seminari e le discussioni con i singoli, è emerso che tali soggetti avevano

definito un gergo che in qualche modo faceva da “fattore comune” di tutte le

competenze e consentiva alle persone di capirsi. I creatori di questa soluzione

raccontarono attraverso aneddoti le origini di tale gergo: prima delle riunioni, ciascuno

era solito prepararsi delle note informali che gli consentissero di spiegare esigenze

specialistiche in modo tale da far capire gli effetti della propria proposta anche a chi non

fosse un esperto del proprio stesso settore.

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Si è quindi cercato di mettere ordine in queste liste di appunti per arrivare a capire quali

fossero i punti di definizione essenziali di questa soluzione comunicativa da poter

eventualmente tramandare ai nuovi assunti.

Si è giunti a definire tre categorie di oggetti del linguaggio:

- le performance, le caratteristiche del prodotto finale (incluso il costo);

- le componenti della mescola - ovvero ciò che determina la consistenza della gomma -

descritte proprio in termini di “ricetta”;

- le quantità dei componenti di ciascuna “ricetta”;

il lavoro di progettazione era vissuto come dovere di fornire delle “dosi” affinché il

risultato potesse rispondere alle caratteristiche desiderate dal mercato. Per ciascuna

ricetta venivano espresse relazioni tra componenti e quantità o componenti e

performance, attraverso il gergo condiviso.

Una volta acquisito ciò, insieme ai dipendenti Pirelli è stata costruita una struttura

informativa estremamente semplice, presentata sotto forma di matrice. Nella pratica, a

fronte di una particolare richiesta del marketing, venivano identificate le performance

necessarie e così via, quindi una richiesta generica veniva trasformata in un elenco di

particolari tipi di prestazioni.

Non si partiva però mai da zero, bensì era presente una “ricetta standard” che

rispondeva alle esigenze di base e veniva rielaborata a seconda delle implementazioni

desiderate. Era infatti organizzata in modo da definire, attraverso simboli, la possibilità

di incremento/riduzione di un determinato ingrediente. Stesso discorso a livello di

performance, dove si erano identificati, sempre attraverso simboli, gli effetti

(positivi/negativi/neutri) prodotti da una particolare modifica della ricetta base.

Questa struttura, che definiva tali tipologie di relazioni, costituiva la base di conoscenze

inferenziali che i progettisti mettevano in gioco quando discutevano su come la mescola

progettata fino a quel punto poteva essere più o meno rispondente alle richieste del

prodotto. Si lavorava su una struttura di questo tipo, successivamente ciascuno

rientrava nel proprio contesto “specialistico”, si elaboravano dei prototipi da testare e

infine il processo si arricchiva di nuove discussioni relative alle considerazioni sui

risultati ottenuti e di nuovo si ripartiva dalla modifica della nuova ricetta base.

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Tirando le somme di questa analisi, ciò che è emerso in maniera evidente è che il gergo

fosse estremamente semplice e asciutto rispetto alla complessità dei fenomeni trattati

(“sotto-specificato”), in quanto ciascuno, quando entrava in questo mondo, dimenticava

tutta una serie di aspetti specialistici che agli altri non solo non interessavano, ma che

se introdotti avrebbero creato solamente grande confusione e dispendio di energie;

eppure nel tempo i protagonisti di questo case study avevano conseguito livelli di

dettaglio tali da poter gestire aspetti fondamentali del processo in questione con uno

sforzo minimo.

L’ausilio della gestione della conoscenza, in questo caso, ha aiutato semplicemente a

trovare una struttura uniforme in cui tutto questo venisse messo insieme e reso

utilizzabile da tutti. Il valore di ogni cella della matrice elaborata era affidato alla

responsabilità dell’esperienza e della pratica di una particolare disciplina, rimessa cioè

alla cura di esperti. Ciò ha permesso di fornire una risposta esaustiva anche al naturale

quesito sul chi avesse il “diritto di modifica” su ciascuna cella della matrice, quando si

aveva a che fare con zone ben definite. La soluzione offerta dall’informatica era

standard: ciascuna cella è di responsabilità dell’esperto della materia di cui si tratta.

Tale soluzione, tuttavia, benché diplomatica, fu sostanzialmente rifiutata perché troppo

rigida: molto spesso infatti l’aggiornamento che avveniva durante le riunioni comuni non

era svolto da un esperto del settore, ma avveniva comunque sotto la sua supervisione;

motivo per cui, anziché garantire competenza, una tale restrizione impediva la giusta

operatività. Principio comune, tuttavia, doveva essere la volontà di rispettare i dettami

indicati dagli esperti. La struttura informativa si presentava come molto piatta e leggera.

Se ognuno ha preso coscienza dell’esistenza di determinati vincoli, violandoli si rischia

soltanto di intaccare tutto ciò che in qualche modo caratterizza quello che nelle

comunità di pratica abbiamo chiamato “impegno reciproco”, “impresa comune” e

“repertorio comune”.

La decisione di non voler essere limitati nella modifica della matrice era frutto anche

della volontà di mantenere l’integrità della struttura informativa, sia in termini di

aggiornamento, sia in termini di qualità del contenuto dell’informazione, proprio perché

la sua preservazione era scopo collettivo della comunità stessa ed era garantita

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dall’impegno che le persone si erano reciprocamente prese e dal forte legame di fiducia

che le univa.

Un altro aspetto emerso come vera preoccupazione era la sicurezza (intesa come

protezione assoluta della base di conoscenza condivisa da parte degli esperti-

informatici); infatti la base di conoscenza rappresentata in modo così essenziale

attraverso la matrice e pertanto meglio assimilabile anche dall’esterno, rappresentava il

core della Pirelli, ovvero il preziosissimo risultato della stratificazione delle esperienze e

conoscenze dei progettisti collaboranti unicamente con tale azienda. A questo problema

si è ovviato non mettendo in rete la struttura o mettendola su una rete interna, molto

protetta.

Messa a punto la prima parte del progetto, che ha riguardato la strutturazione del gergo

comune e la formulazione della matrice informativa, la seconda parte ha affrontato il

problema del mantenimento delle competenze e ha visto la ricerca di regole (estratte

dalle competenze delle persone coinvolte) che legassero performance e componenti

rispetto alla matrice e regole che definissero i vincoli interni alle varie singole discipline.

Di fondamentale importanza in questa seconda fase la “rappresentazione della

conoscenza” nonché la ricerca di “regole”, intese come modalità di rappresentazione

delle capacità di ragionamento delle persone attraverso una formalizzazione. Tali

rappresentazioni hanno consentito di definire delle capacità di inferenza.

Il primo obiettivo di tale elaborazione era quello di dare supporto ai progettisti. Si

pensava infatti che uno strumento di questo tipo gli potesse essere utile nella fase di

progettazione di una nuova mescola e di rendere quest’ultima più efficiente ed efficace.

Alla matrice elaborata nella prima fase si è agganciato questo sistema inferenziale

modellato sia dalla gestione della conoscenza che dai principi della rappresentazione

della conoscenza, pertanto nei meccanismi alla base dell’elaborazione di nuova

conoscenza a partire da quella data.

Tuttavia questa funzione non è stata particolarmente sfruttata nella pratica: i progettisti

non hanno utilizzato queste strutture inferenziali che invece si pensava potessero

alleggerire il loro lavoro.

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Il processo inferenziale è stato, invece, di grande utilità nella formazione dei giovani che

entravano in azienda in previsione del ricambio generazionale. Questo perché tale

sistema aveva finito per indentificare delle regole che rappresentavano il modo di

ragionare con cui, grosso modo, i progettisti Pirelli lavoravano, riducendo drasticamente

i tempi di educazione dei nuovi da parte dei senior.

La matrice è stata trasformata in una interfaccia di rappresentazione sperimentale: una

specie di palestra per i neo-assunti che in questo modo erano messi alla prova. Si

assegnavano loro le specifiche di progettazione e gli veniva chiesto di provare a

costruire la “ricetta” per le gomme. Il sistema dava delle indicazioni, constatando se la

mescola rispondeva alle regole di ragionamento tipiche del mondo Pirelli, oppure

intervenivano gli esperti per spiegare e aiutare l’aspirante progettista a trovare un’altra

soluzione. Questo strumento ha alleggerito il carico didattico degli esperti poiché

attraverso l’esercizio, molte cose venivano apprese automaticamente e il bisogno di

intervenire era limitato solo ad alcuni casi in cui il sistema non copriva il caso specifico,

lasciando spazio all’inventiva della persona giovane pur guidandola verso un

ragionamento d’azienda.

Prima dell’introduzione delle nuove tecnologie, il dialogo tra “nuovi” e “vecchi” era

comunque esistente, ma si basava su un’acquisizione già avvenuta delle modalità

operative del contesto Pirelli. In questo modo si è riusciti anche a soddisfare (sebbene

in modo imprevisto rispetto agli “scopi” di partenza) la richiesta di supporto al turn-over

effettuata dal committente.

Naturalmente dalla matrice riadattata a palestra per i neo-assunti è stata eliminata tutta

la conoscenza di punta, quella più innovativa e che doveva essere protetta dal mondo

esterno. Togliendo il tipo di informazioni che formalizzavano la conoscenza per

l’innovazione, è stata mantenuta la conoscenza meno critica: tutte le informazioni

rispetto ai vecchi progetti e le ricette delle vecchie mescole per creare i pneumatici.

La soluzione informatica nel suo complesso poteva essere vista come un’interfaccia

utente (che è la matrice) posta sopra a un sistema inferenziale che controllava il rispetto

delle sue regole. Nell’ipotesi di legame tra il mondo “matrice” e il mondo “inferenze” il

limite è l’evoluzione: l’aspetto inferenziale, infatti, pone grossi problemi organizzativi ed

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economici nel momento in cui diventano impellenti dei cambiamenti, in quanto il sistema

inferenziale ha bisogno necessariamente dell’aiuto di esperti.

Questo sistema offre uno spunto interessante per riflettere su quanto, a volte, agendo

su un punto dell’organizzazione si possano influenzare anche altri settori. Nel caso

Pirelli la presenza di questa struttura ha influenzato i rapporti tra progettazione e

produzione.

Con l’introduzione della matrice, la parte meno innovativa della progettazione era stata

resa accessibile in lettura anche alla produzione, il che le consentiva - grazie a una

acquisizione del significato dei simboli della matrice - di tentare degli aggiustamenti

avendo una guida per garantire l’uniformità senza dover sempre, per ogni minimo

cambiamento, interferire con la progettazione. Questo ha portato a un miglioramento

palpabile dei rapporti tra queste due sezioni del processo, fino ad allora molto

problematici.

Questa struttura ha anche alleggerito il lavoro degli esperti di progettazione che,

quando qualcosa non andava venivano continuamente chiamati dal reparto di

produzione perché magari la ricetta andava aggiustata e gli unici che potevano farlo

erano quelli che l’avevano costruita. Con questa struttura informativa intermedia, alcuni

casi potevano essere risolti localmente e si creava anche una specie di “competenza

locale” rispetto a queste esperienze.

Quindi dal progetto pilota, che era partito solo per il settore della progettazione, si è

andati a influire anche sulla produzione arrivando a cambiare la visione aziendale e

accorgendosi che migliorando la comunicazione e dando più importanza e autonomia

alla produzione, alla lunga un minimo di esperienza su come si risolvevano i problemi

ricorrenti era stata acquisita. Essendosi creato un dialogo informale che ha migliorato

tutto il ciclo è stata rotta la separazione culturale netta tra questi due mondi.

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Esercizio sul caso Pirelli.

Partiamo dalla comunità di pratica. La prima domanda che ci si può porre è: “ma questo

gruppo interdisciplinare non omogeneo di persone che sono state analizzate,

costituisce una comunità di pratica?”

Riprendiamo le categorie che caratterizzano la comunità di pratica e vediamo se questa

comunità si avvicina o meno per una o per l’altra categoria (se più o meno tutti gli

indicatori sono presenti possiamo dire che lo è, man mano che gli indicatori

diminuiscono di peso o scompaiono possiamo dire che non lo è).

Quali sono le caratteristiche che denotano la presenza di una comunità di pratica nel caso Pirelli?

- Impresa comune intesa non tanto come fare la progettazione della mescola, ma come

integrare esperienze; l'impresa comune nel caso Pirelli era facilitare il riuso di esperienza per migliorare il processo di produzione in maniera armonica e collaborativa, il che ha permesso di evitare di commettere gli stessi errori e ridurre i

costi di progettazione in termini di tempo e risorse.

- Impegno reciproco: l’impegno al mantenimento corretto della struttura informativa.

Ciascuno mette dentro cose di sua competenza di cui è responsabile, sulla base di

esperienze. Nel caso Pirelli l’impegno reciproco era dato dal fatto che le informazioni

erano state validate dall’esperienza.

- Repertorio: dal repertorio è stato estratto il gergo che ha ispirato la progettazione della

tecnologia. Il gergo era stato costruito dagli stessi lavoratori per fare in modo che si

potesse ragionare sui problemi di progettazione in un ambito molto differenziato.

Questo teneva conto di tutte le discipline coinvolte senza dare troppe informazioni

tecniche che avrebbero spiazzato chiunque non fosse stato esperto, mantenendosi

quindi a un certo livello di astrazione per permettere a ognuno di utilizzare nel proprio

laboratorio le informazioni di dominio, ma riuscendo a comunicare con gli altri

mantenendosi nel livello più astratto.

Page 37: Dispense di Gestione della Conoscenza

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Gli attori in questione “giocavano" con conoscenza tacita o esplicita?

In questo caso non c’è assolutamente dubbio sulla presenza di entrambe.

Quando erano stati coinvolti dagli specialisti in gestione della conoscenza, gli esperti

Pirelli avevano esplicitato concetti e relazioni, andando addirittura oltre il gergo e

chiarendo come questi concetti venivano usati nel ragionamento della progettazione

definendo dei vincoli.

La conoscenza tacita era quella legata alla loro esperienza e al fatto che in un certo

senso quando dicevano “un po’ più di questo” nella loro testa c’era un modo di

quantificare che non poteva essere formalizzato sotto forma di regola perché dipendeva

da tanti fattori caratteristici della conoscenza tacita che riesce a mettere insieme in

maniera non algoritmica e non riproducibile, la capacita di connettere situazioni e

trovare delle risposte.

C’è stato, quindi, da parte dei professionisti Pirelli, un processo di presa di coscienza

del proprio modo di lavorare e del gergo utilizzato.

Si trattava di una comunità di pratica informale o istituzionalizzata?

Visto che loro stessi si erano creati la loro cultura, il loro gergo e modo di lavorare si

può dire che si trattava una comunità di pratica informale. Ma dal momento in cui è

stato fatto questo lavoro c’è stata un’ulteriore presa di coscienza: i lavoratori,

riconoscendosi in un concetto con accezioni positive come quello di comunità di pratica,

si sono sentiti appagati per lo sforzo fatto e hanno rafforzato i legami che erano già

molto forti. .

Questo lavoro però è servito a far riconoscere questa realtà anche alla struttura

organizzativa, che attraverso la descrizione di un esterno ha apprezzato e valorizzato,

quindi in un certo senso ha riconosciuto una situazione che c’era già, ma della quale

non era a conoscenza.

Nel caso Pirelli ha giocato un ruolo cruciale una persona (ambasciatore verso

l’istituzione) che aveva lavorato per anni nel mondo della progettazione, che ha fatto da

tramite ed è riuscito a far riconoscere e combinare i linguaggi e i punti di vista sia del

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management di più alto livello, che del gruppo di cui aveva fatto parte per tanti anni in

precedenza e di cui quindi conosceva molto bene le modalità operative.

Si deduce che quella del caso Pirelli era una comunità di pratica informale, successivamente riconosciuta e valorizzata (ovvero istituzionalizzata). In che fase del ciclo di vita era questa comunità di pratica quando è stata identificata, dopo aver interagito con loro?

La comunità di pratica del gruppo Pirelli non si riconosceva come tale, ma era già attiva

perché aveva il suo repertorio e il suo impegno reciproco, quindi sapeva come lavorare,

come mettere in pratica e sfruttare le cose. Ha dovuto fare una sorta di auto analisi per

esplicitare e rendersi conto di essere una comunità attiva e funzionante. Quindi la fase

di maturità era già abbastanza consolidata.

Nel momento in cui la società ha riconosciuto la presenza della comunità di pratica ha

deciso di investire in un progetto pilota e di far sviluppare l’artefatto tecnologico che

potesse supportare i lavoratori.

Dal punto di vista delle caratteristiche tecnologiche, il fatto di avere un’impresa comune

e l’impegno a un uso corretto della stessa (aggiornando le cose in maniera validata

senza andare a corrompere i dati contenuti nella struttura formativa), ha portato a non

porre vincoli d’accesso molto forti sulla base della sfera di competenza, ma a prestare

attenzione soltanto alla sicurezza dei dati (non si poteva accedere ai dati a meno che

non si fosse autorizzati). Se non ci fosse stato questo tipo di situazione la tecnologia si

sarebbe dovuta preoccupare anche di porre dei vincoli per regolamentare la correttezza

nell’aggiornamento dati.

Attraverso l’analisi sono state definite delle specifiche che hanno messo in guardia sul

fatto che per questa comunità porre dei vincoli eccessivi vuol dire rompere il loro modo

di lavorare, quindi non bisogna assolutamente pensare che certe cose debbano essere

fatte per convenzione. Prima di buttarsi a progettare bisogna capire di che tipo di

situazione si sta parlando.

Questo tipo di condizione nel caso della progettazione è un episodio unico?

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No. Lo stesso gruppo di ricerca è stato coinvolto in altri due casi di analisi di situazioni

di progettazione e si è potuto osservare che non è un caso unico. Uno di questi

prevedeva delle circostanze per certi aspetti simili ma non identiche a quelle appena

affrontate.

Si trattava di un dominio e di una struttura organizzativa completamente diversi, in

un’azienda più giovane, più dinamica, che affrontava la tematica del riuso di esperienza

ma non perché l’azienda percepisse come problema quello del ricambio generazionale.

Il problema da affrontare era la riduzione dei costi di progettazione.

Oggetto della progettazione: l’azienda era un “system integrator” quindi prendeva

componenti già sviluppate da altri produttori software e a fronte della richiesta di un

cliente, le integrava per dare una soluzione. A esempio: una banca che vuole un

sistema di banking online, necessita di tante componenti che devono essere messe

insieme (pagamento, gestione dei dati, sicurezza etc) senza riprogettarle da zero, ma

venendo prese dal mercato o anche sviluppate in casa con l’idea, poi, di poterle

riapplicare a diverse situazioni.

L’azienda era molto consapevole del fatto che la riduzione dei costi per il riuso non era

un qualcosa di astratto o teorico, ma doveva essere definito per il loro modo di

progettare. Anche qui come per la Pirelli non si trattava della progettazione in generale,

ma della progettazione all’interno di una struttura organizzativa specifica con tutte le

sue caratteristiche.

Rispetto al caso Pirelli, quindi, c’è un comune concetto di riuso, c’è in comune l’idea che

l’esperienza era quella locale e non generica, quello che è stato completamente diverso

è stato il processo di acquisizione di queste informazioni, perché l’azienda era

americana. Per questo motivo, le interazioni sono state molto ridotte e le informazioni

sono state filtrate e veicolate da una persona italiana, dipendente dell’azienda, che ha

fatto da ponte, rendendo così diverso dal solito il processo di analisi. Ciononostante si è

cercato di verificare se si potesse attuare un riuso anche a livello di analisi.

Similmente al caso Pirelli, anche qui era presente un gergo, che in questo caso andava

a definire le diverse relazioni fra componenti, andandone a identificare sei tipologie.

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Delle componenti inoltre, i lavoratori erano soliti considerare anche elementi non

eminentemente funzionali, ma comunque di fondamentale importanza: a esempio,

l’affidabilità del produttore, il contratto di manutenzione, i contratti sugli aggiornamenti, il

costo di manutenzione etc.

Quindi avevano messo insieme una struttura informativa orientata a caratterizzare la

qualità tenendo conto di tutti questi aspetti non funzionali.

Anche questo sistema di qualità era stato definito autonomamente da loro e in maniera

assolutamente protetta.

Il gergo si è tradotto in schemi con etichette particolari, in una struttura informativa che

metteva in relazione diversi indici di qualità con diversi livelli di raffinamento e delle

regole di consistenza.

É emerso un impegno molto forte ad aggiornare queste strutture con legami e valori di

questi indici di qualità sperimentati. .

Molto spesso nelle situazioni reali non vengono utilizzati approcci metodologici

standardizzati perché il comportamento delle persone, in particolare quando devono

gestire informazioni di tipo professionale riguardanti la loro competenza e le loro

conoscenze, è quello di adottare il criterio dell’efficacia più che quello dell’economicità.

Infatti sia nel caso Pirelli che in quello della progettazione del software, sostanzialmente

le strutture informative che sono state identificate (la matrice delle performance delle

mescole da una parte, le architetture e la struttura degli indicatori di qualità nel caso del

software) sono molto sotto-specificate rispetto alla complessità del fenomeno che

stanno descrivendo o a cui danno supporto, perché la funzione di questa struttura

informativa è principalmente quella di evocare nelle persone delle conoscenze che non

sono rappresentate, ma fanno parte degli individui.

Queste non vengono messe esplicitamente nella struttura informativa perché se fossero

troppo specifiche renderebbero la comunicazione meno efficace e meno ergonomica.

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Infatti, le altre persone sarebbero distratte nel tentativo di comprendere aspetti troppo

tecnici rispetto alla possibilità di trovare un gergo abbastanza astratto che dia

l’opportunità di capire senza avere particolari difficoltà. Stiamo parlando di efficacia e di

economicità nel mantenimento della struttura informativa perché se questa è leggera e

quindi non richiede uno sforzo cognitivo particolarmente gravoso viene mantenuta in

maniera più costante e più garantita. Il concetto di “sotto-specifica” è importante per poter capire, dal punto di vista delle

strutture informative, che le comunità di pratica riescono a colmare ove necessario

questo tipo di sotto specifica. Ovviamente in certe situazioni era necessario fare degli

approfondimenti, chiarire qualche aspetto più di dettaglio, però erano occasionali

perché, dopotutto, non si chiedeva di mantenere una struttura informativa sempre così

dettagliata; in certi momenti, infatti, veniva riempita con informazioni aggiuntive, ma non

era una parte del repertorio esplicitato e quindi non entrava nella manutenzione

corrente della struttura (non veniva memorizzato).

Chiaramente questo è un discorso di equilibrio tra quantità di informazione ed efficacia

ed economicità. L’informazione può consentire di avere una definizione più completa

del problema però si scontra con la necessità di manutenzione. Quindi il livello di

specifica, cioè quanto è sottospecificato, dipende dal rapporto tra efficacia ed

economicità: se è troppo poco specificato e non dà informazioni non serve a niente, se

è troppo specificato non è economica la sua manutenzione. Per questo motivo, i

lavoratori avevano trovato in maniera autonoma l’equilibrio tra queste due

caratteristiche e avevano definito il loro livello di sottospecifica che funzionava. La

stessa cosa vale anche nel caso della progettazione del software: le relazioni e i

concetti che avevano messo in gioco per rappresentare le loro architetture dal punto di

vista del riuso e della comunicazione interna dell’azienda erano sufficienti anche se dal

punto di vista tecnico della professione del progettista software sono estremamente

astratte e poco significative se ci si dovesse basare solo su quelle. Anche in quel caso

avevano la funzione evocativa di puntare su una conoscenza che non era

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rappresentata ma che poteva essere o nella testa di chi leggeva o in quella di chi aveva

introdotto l’informazione. Quindi abbiamo visto che in questi due casi ci sono state caratteristiche comuni, per cui

una soluzione di questo tipo non è unica.

Ma quando si parla di progettazione i gruppi lavorano sempre allo stesso modo? No.

È stato analizzato un terzo caso in cui c’era un problema di riuso, di ottimizzazione del

processo produttivo e la situazione era completamente diversa. Qui la progettazione

riguardava stampi (vedi seminario Colombo) per creare scocche di automobili. Nel

caso in questione la differenza sostanziale stava nel fatto che il gruppo di progettisti non

era una comunità di pratica: non c’era un’impresa comune, c’era un’organizzazione

molto settoriale per cui ogni lavoratore si occupava sempre delle stesse cose e non

aveva interesse nel lavoro degli altri e pensava di risolvere i propri problemi senza

comunicare con gli altri, per cui anche le conoscenze erano assolutamente personali e

molto spesso implicite dal momento che non lavorando in collaborazione con gli altri

non c’era nessun interesse a esplicitarle.

In questo caso i progettisti sono stati intervistati singolarmente e non con riunioni di

gruppo che raccoglievano diverse competenze, come negli altri casi. Sono state estratte

le diverse caratteristiche individuali e l’ingegnere della conoscenza ha costruito la

sintesi, non basandosi su esternalizzazioni già in atto rispetto a diverse persone, ma

semplicemente stimolando l’esternalizzazione delle conoscenze individuali e cercando

di formare una base comune che mettesse in gioco la complessità di costruire questi

stampi (oggetti molto complicati e con problemi meccanici parecchio significativi) e

costruendo un modello del dominio come astrazione di quello che i vari lavoratori gli

raccontavano. Quindi il processo di esternalizzazione non è stato fatto in prima persona

dai lavoratori, a differenza degli altri casi in cui la comunità aveva già elaborato un certo

livello di consapevolezza, in questa occasione questo lavoro è stato fatto all’esterno.

Questa è la distinzione fondamentale tra questo caso e gli altri.

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Quando ci si trova in situazioni di questo tipo una delle prime domande è: qual è il

livello di dettaglio utile per far si che sia condivisa la conoscenza e che la stessa sia poi

riutilizzata?

Qui l’ingegnere della conoscenza si trova nella difficoltà di dover decidere il livello di

dettaglio sperando di non esagerare. Quindi per il fatto di non trovarsi di fronte a

un’esperienza pregressa positiva rispetto alla progettazione del supporto è stato fatto

questo tipo di sforzo concettuale.

In questo caso il prodotto del processo di esternalizzazione è servito come formazione

delle persone verso un’idea di condivisione. È stato quindi innescato un processo più

virtuoso verso una struttura di comunità e sull’aspetto organizzativo sono state

effettuate delle modifiche su come erano disposte fisicamente queste persone in

azienda per favorire un maggiore scambio di esperienze. In questo caso la costruzione di un modello di dominio ha creato le premesse per un

cambiamento di mentalità, di pratiche di lavoro, di scambio di conoscenze e di

esperienze che prima non c’era. Ciò vuol dire che nel momento in cui non si scopre in

maniera naturale che c’è una predisposizione a condividere esperienza, sono

necessarie delle attività esterne che possano stimolare e creare delle premesse che

portino alla costituzione di una comunità (perché le comunità non si possono costruire,

va al massimo stimolata la creazione di un processo). Questi processi sono di varia

natura: ci sono delle situazioni in cui la condivisione viene stimolata attraverso incentivi

economici o di carriera o di ruolo all’interno della struttura aziendale o in certi casi lo

stimolo viene da un input esterno legato all’utilizzo di certe tecnologie. Il messaggio che questi tre casi ci danno è che non bisogna partire dal presupposto che

nella comunità che si sta osservando sia presente un certo tipo di struttura. Se questa

esiste va innanzitutto riconosciuta, quindi si deve procedere individuando i problemi o le

soluzioni già messe in atto nell’ambito della comunicazione e quindi dell’interscambio e

delle interazioni. Solo allora agire di conseguenza, senza imporre soluzioni predefinite.