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1 I profili di responsabilità civile degli “attori” delle crisi d’impresa Avv. Giuseppe Iannaccone * La responsabilità (civile) degli amministratori e dei sindaci in ambito concorsuale Le due norme di riferimento in tema di responsabilità di amministratori e sindaci sono, rispettivamente, l’art. 2392 c.c., secondo cui gli amministratori “devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze (…); essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri” e l’art. 2407 c.c., secondo cui “i sindaci devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico (…) essi sono responsabili solidalmente con gli amministratori (…); quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”. Da una prima lettura delle disposizioni appena citate, è immediatamente chiaro che la responsabilità civile degli amministratori e dei sindaci discende, anzitutto, da un loro inadempimento ai doveri dell’ufficio, doveri che sono precisati dall’art. 2380bis c.c., per quanto riguarda gli amministratori, e dall’art. 2403 c.c. rispetto ai sindaci. Ne consegue che la responsabilità di amministratori e sindaci non è mai una responsabilità oggettiva, ricollegata per esempio al mero dissesto della società; al contrario, essa presuppone, sempre e comunque, l’accertamento di una mancanza di professionalità e diligenza nel compimento dei doveri d’ufficio e, dunque, di una colpa imputabile ai medesimi. Precisamente, compito precipuo degli amministratori è quello di gestire l’impresa compiendo le “operazioni necessarie”, o anche solo funzionali, “per l’attuazione dell’oggetto sociale”. Spetta, invece, al collegio sindacale vigilare sull’attività degli amministratori e, in particolare, sull’osservanza, da parte loro, della norme di legge e di statuto, nonché “sul rispetto dei principi di corretta amministrazione” e “sull’adeguatezza” e funzionamento “dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società”. A ben vedere, l’oggetto del controllo dei sindaci [rispetto di legge/statuto/principi di corretta amministrazione/adeguatezza organizzativa] coincide con l’area dell’attività gestoria che è sindacabile e che, dunque, è distinta dalla scelta di merito in senso stretto che, in quanto tale, è di esclusiva competenza degli amministratori e, per definizione, rimessa alla loro autonomia (principio della c.d. business judgment rule).

I profili di responsabilità civile degli "attori" delle crisi d'impresa

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I profili di responsabilità civile degli “attori” delle crisi d’impresa

Avv. Giuseppe Iannaccone

*

La responsabilità (civile) degli amministratori e dei sindaci in ambito concorsuale

Le due norme di riferimento in tema di responsabilità di amministratori e sindaci sono,

rispettivamente, l’art. 2392 c.c., secondo cui gli amministratori “devono adempiere i doveri

ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico

e dalle loro specifiche competenze (…); essi sono solidalmente responsabili verso la società

dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri” e l’art. 2407 c.c., secondo cui “i sindaci

devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richiesta dalla natura

dell’incarico (…) essi sono responsabili solidalmente con gli amministratori (…); quando il

danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della

loro carica”.

Da una prima lettura delle disposizioni appena citate, è immediatamente chiaro che la

responsabilità civile degli amministratori e dei sindaci discende, anzitutto, da un loro

inadempimento ai doveri dell’ufficio, doveri che sono precisati dall’art. 2380bis c.c., per

quanto riguarda gli amministratori, e dall’art. 2403 c.c. rispetto ai sindaci.

Ne consegue che la responsabilità di amministratori e sindaci non è mai una responsabilità

oggettiva, ricollegata per esempio al mero dissesto della società; al contrario, essa

presuppone, sempre e comunque, l’accertamento di una mancanza di professionalità e

diligenza nel compimento dei doveri d’ufficio e, dunque, di una colpa imputabile ai

medesimi.

Precisamente, compito precipuo degli amministratori è quello di gestire l’impresa compiendo

le “operazioni necessarie”, o anche solo funzionali, “per l’attuazione dell’oggetto sociale”.

Spetta, invece, al collegio sindacale vigilare sull’attività degli amministratori e, in particolare,

sull’osservanza, da parte loro, della norme di legge e di statuto, nonché “sul rispetto dei

principi di corretta amministrazione” e “sull’adeguatezza” e funzionamento “dell’assetto

organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società”.

A ben vedere, l’oggetto del controllo dei sindaci [rispetto di legge/statuto/principi di corretta

amministrazione/adeguatezza organizzativa] coincide con l’area dell’attività gestoria che è

sindacabile e che, dunque, è distinta dalla scelta di merito in senso stretto che, in quanto tale,

è di esclusiva competenza degli amministratori e, per definizione, rimessa alla loro autonomia

(principio della c.d. business judgment rule).

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Come noto, tutte le questioni e problematiche in tema di responsabilità di sindaci e

amministratori (o, quanto meno, le principali) nascono dalla difficoltà di definire la linea di

demarcazione tra l’area sindacabile e l’area non sindacabile dell’attività gestoria; linea,

tuttavia, necessaria al fine di potere delimitare l’area di “rischio consentito” nello svolgimento

dell’attività d’impresa, rischiosa per definizione.

Sul punto, è necessario richiamare alcuni principi giurisprudenziali ormai consolidati e

formatisi, non a caso, proprio in tema di azioni di responsabilità svolte nei confronti di ex

amministratori e sindaci di società poi fallite.

Ora, la giurisprudenza, nel distinguere la sfera della funzione gestoria indubbiamente

insindacabile -attinente al merito della scelta e che, come tale, è di esclusiva competenza

dell’organo di amministrazione- dalla sfera suscettibile di essere sindacata, fa spesso

riferimento al concetto di “legittimità sostanziale” dell’atto di gestione.

Con tale locuzione si vuole intendere, non la convenienza dell’atto compiuto rispetto ad altre

possibili scelte imprenditoriali, quanto piuttosto la “correttezza del procedimento decisionale”

attraverso il quale la scelta gestionale è stata assunta. Ciò che può essere sindacato della scelta

di gestione è, dunque, l’iter decisionale che vi ha condotto e che consente di distinguere una

scelta “azzardata” e, quindi, censurabile, da una scelta ponderata (appunto, diligente) e in

quanto tale, incensurabile:

v “se è vero che l’opera di gestione ed amministrazione -discrezionale e finalizzata al

raggiungimento dello scopo sociale- si dispiega nell’ambito del rischio d’impresa,

non è meno vero che il rischio d’impresa debba essere sempre affrontato,

“incontrato” con valutazione critica dei fatti improntata, guidata ed ispirata alla più

ampia, profonda conoscenza dei possibili, prevedibili e pensabili fattori che

influenzano il risultato sia sul versante positivo sia su quello negativo. Solo dalla

ponderazione di tutti i dati conosciuti può sorgere -corretta e non sindacabile- la

scelta imprenditoriale: in mancanza di una ragionata analisi e di una ponderata

disamina, il risultato viene, invece, affidato alla pura sorte, alla irrazionalità di

decisioni neppure sorrette da intuizioni verificabili”; “necessità di una coerenza

giuridico-economica dell’attività di gestione con la direzione tracciata dallo scopo

sociale”; “Se è accettato il principio metagiuridico (quasi il “concetto puro” del

“conoscere come formula dell’agire”) del “prima fare luce e poi fare il passo” è

chiaro che la conoscenza, l’apprezzamento critico di tutti i termini economici,

finanziari e giuridici che definivano l’operazione avrebbero dovuto fornire il primo ed

essenziale supporto della decisione negoziale assunta. La conoscenza e

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l’apprezzamento dei fondamenti dell’azione da intraprendere rappresentano -infatti-

il primo connotato della prudenza come categoria giuridica” (Trib. Milano, 26 giugno

1989);

v “.. discrezionalità vuole dire libertà di identificare le scelte, senza esonerare

l’amministratore dall’osservanza del dovere di diligenza. Pertanto, se anche il giudice

non può sindacare la scelta in sé, deve però controllare il percorso attraverso il quale

essa è stata preferita. Secondo un criterio fatto proprio da questa Corte il discrimine

va individuato nel fatto che mentre la scelta tra il compiere o meno un atto di

gestione, ovvero di compierlo in un certo modo o in determinate circostanze non è

suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, al contrario, la

responsabilità può essere generata dall’eventuale omissione, da parte

dell’amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni

preventive normalmente richieste prima di procedere a quel tipo di scelta: in altre

parole, il giudizio sulla diligenza non può investire le scelte di gestione ma il modo in

cui sono compiute” (Cass. civ. 23.03.’04 n. 5718);

v “il controllo giurisdizionale deve essere diretto a verificare la ragionevolezza della

scelta dell’organo amministrativo tramite la verifica del procedimento di formazione

della decisione” (da ultimo, Trib. Santa Maria Capua Vetere, III Sez. Civ., Ordinanza

del 2 agosto 2012).

L’iter decisionale che ha condotto alla scelta d’impresa consente, quindi, di distinguere una

scelta “azzardata” e censurabile, da una scelta ponderata e, appunto, diligente1; detto

altrimenti, l’iter decisionale corretto e conforme a diligenza vale a delimitare l’area di rischio

d’impresa “consentito”, il cui eventuale esito infausto non potrà essere addebitato agli

amministratori e, ancor meno, ai sindaci.

Va da sé che una scelta di gestione non è mai censurabile in astratto: essa si colloca sempre in

un preciso contesto, delineato dalla situazione generale di mercato, dalla situazione

economico-finanziaria della società, dalle caratteristiche delle eventuali controparti negoziali.

                                                                                                               1 Così, è stata ritenuta infondata l’azione di responsabilità esercitata nei confronti dell’organo di gestione che aveva deliberato un’operazione di acquisizione di un gruppo perché, a prescindere dall’esito infausto della scelta, quest’ultima era stata preceduta da un approfondito studio eseguito per verificare il quadro competitivo, la determinazione di sinergie, gli aspetti tecnico-contabili-finanziari dell’operazione. Pertanto, nessun profilo di negligenza è stato ritenuto sussistente e, quindi, nessuna responsabilità è stata ritenuta imputabile agli amministratori (Trib. Milano 1° ott. 1998, n. 13562). Al contrario, la responsabilità dell’organo di gestione è stata ravvisata in un caso in cui è stato possibile accertare che la commercializzazione di un prodotto era stata organizzata -in una situazione di saturazione del mercato- senza predisporre adeguati metodi di rilevazione al riguardo (Trib. Milano, 19 nov. ’98).

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La correttezza dell’iter decisionale è ravvisabile proprio laddove la scelta di gestione appaia

ben contestualizzata e assunta sulla base di una attenta valutazione e ponderazione delle

anzidette circostanze e di tutto il materiale informativo a disposizione.

*

Dai principi appena illustrati, si capisce bene il motivo per cui l’addebito più frequentemente

rivolto agli amministratori -soprattutto agli amministratori non delegati- consiste nella

violazione dell’obbligo di informarsi, cui consegue la violazione dell’obbligo di vigilanza.

Al riguardo, si consideri il riformato art. 2381 c.c., il quale -oltre a precisare e circostanziare

la diversa posizione degli amministratori delegati da quella dei meri consiglieri- conferisce

una importanza centrale alla corretta, sistematica e continua circolazione delle informazioni

all’interno del consiglio.

In particolare, da tale norma risulta:

(i) il dovere di ciascun consigliere di “agire in modo informato”, conoscendo dunque tutte

le informazioni funzionali a ponderare adeguatamente la questione su cui è necessario

esprimersi;

(ii) l’obbligo degli organi delegati di riferire periodicamente, almeno ogni sei mesi,

all’intero consiglio delegante ed anche al collegio sindacale, “sul generale andamento

della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior

rilievo, per le loro dimensioni e caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue

controllate”;

(iii) l’obbligo del consiglio di amministrazione di vigilare sulla base delle informazioni così

ricevute e il potere, configurabile in capo a ciascun consigliere, di richiedere ai delegati

“che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”.

*

Strettamente connesso al dovere di agire informati, è il dovere -che in alcuni casi la legge

specificamente impone agli amministratori- di motivare le scelte di gestione assunte: se,

infatti, l’iter decisionale è sindacabile, ne consegue la necessità di renderlo manifesto e chiaro.

Non è, dunque, un caso se gli obblighi di specifica e analitica motivazione siano imposti

proprio laddove ci si trovi di fronte a un’operazione particolarmente delicata e/o in apparente

o potenziale contrasto con l’interesse sociale e laddove, quindi, il procedimento decisionale si

presti più facilmente ad essere sindacato e censurato (così, per citarne alcune, art. 2391 c.c., in

tema di operazioni in conflitto d’interesse, art. 2497ter c.c. in tema di operazioni infragruppo,

2501ter ss. c.c. in tema di operazioni di LBO).

Va da sé che tutti questi doveri di motivazione -a meno di volerli considerare (contro ogni

logica e in contraddizione con quanto sino ad ora osservato) doveri di natura meramente

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formale/documentale- valgono a identificare dei sottostanti doveri di carattere sostanziale e

delimitano i confini entro i quali le operazioni cui essi si riferiscono possono essere sindacate

sotto il profilo della legittimità sostanziale.

Ne consegue che l’assolvimento di tali obblighi motivazionali rileva anche e innanzi tutto

nell’interesse degli amministratori; questi ultimi, ove chiamati a rispondere giudizialmente

degli esiti infausti di determinate operazioni, potranno più facilmente sostenere la

ragionevolezza delle proprie scelte, ricostruendo –anche a distanza di tempo- l’iter logico a

suo tempo seguito e dimostrando che, in un’ottica ex ante, le scelte medesime erano state

diligentemente ricostruite e ponderate.

Tutte le considerazioni sopra illustrate in merito alla diligenza richiesta all’organo di gestione

e alla rilevanza dei doveri di informazione e trasparenza valgono a fortiori nei contesti di

turnaround, vale a dire nei contesti volti a un risanamento e a un rilancio delle imprese in

crisi o in declino (non è un caso se, come già evidenziato, gli obblighi specifici di

motivazione riguardino operazioni spesso eseguite in questi contesti).

Si consideri, in particolare, come in tali contesti agli amministratori sia richiesto, in primo

luogo, di rilevare tempestivamente i segnali di crisi; il che rappresenta, evidentemente, una

specificazione di quel dovere di informazione sopra illustrato. Invero, una delle contestazioni

più frequentemente sollevate nei confronti degli amministratori è proprio quella di avere preso

atto con ritardo della crisi, per colpevole inerzia o per l’inesistenza degli strumenti atti a

monitorare efficacemente l’andamento aziendale e sulla cui adeguatezza sono chiamati a

vigilare tutti gli amministratori (cfr. Trib. Verbania, 13.07.04, ove è stata addebitata agli

amministratori la mancata vigilanza sulla “concreta capacità della società di offrire

rappresentazioni attendibili della propria situazione economica”).

Aggiungo che, non appena colti i primi segnali di crisi, lo stesso dovere di informazione non

potrà che accentuarsi: l’attività dell’organo di gestione dovrà intensificarsi, le riunioni del

Consiglio dovranno avvenire più frequentemente, la esatta situazione patrimoniale dovrà

essere continuamente aggiornata, attraverso la redazione di situazioni infra-annuali.

Una volta accertata e a approfondita l’esatta entità della crisi, si tratterà di valutare se, come e

con quali strumenti sia possibile superarla.

Come noto, le profonde modifiche al diritto concorsuale sono senz’altro intervenute con

l’intento di agevolare le prospettive e le scelte volte ad un risanamento e ad un superamento

della crisi d’impresa, delineando tre diversi istituti finalizzati alla risoluzione delle “crisi

d’impresa”; il tutto nel dichiarato intento di fornire agli organi di gestione degli strumenti con

cui fronteggiare tempestivamente le patologie dell’impresa prima che degenerino in situazioni

di dissesto irrimediabili.

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Precisamente e in estrema sintesi, ricordo che tali strumenti sono:

- la nuova procedura di concordato preventivo ex art. 160 l. fall. (cui si aggiunge la

peculiare declinazione del concordato con continuità aziendale ex art 186bis l. fall.) e

gli accordi di ristrutturazione ex art. 182bis l. fall., che hanno entrambi, quale espresso

presupposto, l’esistenza di un vero e proprio “stato di crisi”;

- il piano attestato ex art. 67, co. 3° lett. d) l. fall. che, invece, almeno secondo

l’interpretazione che io ritengo di sostenere2, ha quale presupposto una situazione non

già di vera e propria ‘crisi’, bensì di mera tensione finanziaria.

Al riguardo, la prassi mostra come spesso si faccia ricorso, in maniera pressoché indifferente,

ai piani attestati ex art. 67, comma 3, lett. d, l. fall. e agli accordi di ristrutturazione ex art.

182bis l. fall..

Tuttavia, sarebbe bene tenere presente i diversi presupposti, non fungibili e/o alternativi tra

loro.

Senza qui potere soffermarsi al riguardo, mi limito a evidenziare come, almeno a mio avviso,

il ricorso ai piani attestati ex art. 67 l. fall. dovrebbe tendenzialmente essere riservato ai

contesti di tensione finanziaria transitoria, quali le semplici “crisi di liquidità”, o comunque a

tutte quelle situazioni di crisi in cui la cui soluzione non comporta, necessariamente,

interventi significativi sulla struttura dell’impresa.

Viceversa, ogni qual volta l’azienda versi in uno stato di incapacità di sostenere, in una

prospettiva di medio-lungo periodo, il proprio modello di business in condizioni di

economicità e di equilibrio patrimoniale e finanziario, l’imprenditore, dovendo rivedere in

sostanza le fondamenta e la struttura della propria attività, dovrà inevitabilmente ricorrere agli

accordi di ristrutturazione o, nei casi in cui gli interventi siano ancora più massicci, addirittura

alla procedura concordataria.

Va poi considerata e ponderata la diversa “tenuta” dei piani laddove l’esito sia infausto: a

fronte, cioè, di un tentativo di risanamento finito male, ai fini delle responsabilità di

amministratori e sindaci, ben diverso sarà il vaglio giudiziale in presenza di un piano attestato

ex art. 67 l. fall. rispetto a quello in presenza di un concordato omologato.

Non vi è dubbio, infatti, che, nel primo caso, l’autorità giudiziaria bene avrà il potere di

valutare e approfondire, seppure in un’ottica ex ante, la ragionevolezza dei criteri utilizzati

                                                                                                               2 Sul punto, segnalo l’esistenza di pareri contrastanti: secondo alcuni interpreti, anche il piano attestato ex art. 67 l. fall. rappresenterebbe uno strumento utilizzabile nelle situazioni di crisi d’impresa in senso stretto, in alternativa quindi con lo strumento dell’accordo di ristrutturazione previsto dall’art. 182bis cit.. Tale impostazione non è da me ritenuta condivisibile in ragione del fatto che i due istituti in considerazione si fondano su presupposti oggettivi del tutto differenti fra loro.

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per la redazione del piano e, dunque, valutarne la “legittimità sostanziale”, secondo i principi

sopra citati (in quella sede, cioè, l’autorità giudiziaria tornerà a chiedersi se le previsioni

contenute nel piano fossero l’esito di un iter decisionale corretto, precedute da adeguate

indagini, conformi alle prospettive di mercato, etc.).

Il criterio con cui l’autorità giudiziaria svolgerà tale sindacato sarà quello della c.d. prognosi

postuma (ponendosi cioè in un’ottica ex ante); trattasi, evidentemente, di un criterio di

giudizio assai delicato e difficile da applicare (pur in presenza delle migliori intenzioni). In

sostanza, è intuitivo che l’intervenuto fallimento del piano -soprattutto laddove le dimensioni

del fallimento siano significative- potrà sviare il sindacato e/o comunque influenzarne l’esito.

Diverso il caso degli accordi di ristrutturazione o dei concordati: in questi casi, infatti,

essendovi già stato un intervento dell’autorità giudiziaria ex ante (realmente ex ante), è chiaro

che proprio tale intervento e il sindacato già svolto rappresenteranno ostacoli allo svolgimento

di un nuovo e diverso sindacato.

Si badi che è ormai pacifico che il controllo spettante all’autorità giudiziaria tanto sugli

accordi di ristrutturazione ex art. 182bis l. fall., quanto sui concordati preventivi sia un

controllo di “legittimità sostanziale”.

Sul punto sono intervenute recentemente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sent. n.

1521/2013)3, chiarendo che al Tribunale, oltre al compito di supervisione generale diretto a

verificare la regolarità della procedura, spetterà anche analizzare la fattibilità giuridica della

procedura prescelta, vagliando se la proposta concordataria (o, di nuovo, mutatis mutandis,

l’accordo di ristrutturazione) sia effettivamente in grado di adempiere alla causa della

procedura prescelta, ossia se sia idonea ad assolvere la propria funzione economica (id est, il

superamento della crisi, con soddisfazione in qualsiasi percentuale dei creditori per la

procedura di concordato e con “ristrutturazione del debito” per gli accordi ex art. 182bis). Ciò

significa che il controllo del giudice può (e deve) spingersi a verificare la coerenza e la

razionalità delle argomentazioni dell’attestazione del professionista posta alla base della

procedura di concordato (o, mutatis mutandis, dell’accordo di ristrutturazione), tale per cui le

conseguenze “previste” nel programma di risanamento risultino logicamente consequenziali

rispetto alle premesse4. «Ogni qualvolta detta razionalità dovesse mancare (…) il tribunale

                                                                                                               3 E’ doveroso precisare che la Suprema Corte è intervenuta, nello specifico, sui poteri del giudice civile nell’ambito della procedura di concordato preventivo; riteniamo che i principi raggiunti siano, mutatis mutandis, comunque applicabili anche per delineare i confini dell’intervento giudiziale sugli accordi di ristrutturazione in sede di omologa. Si veda, anche, Cass. Civ., Sez. I, Sent. 27 maggio 2013, n. 13083. 4 «Ne discende che, ogni qual volta il tribunale dovesse individuare, nella relazione attestatrice, un iter argomentativo non compatibile con i contenuti o con i dati del piano, si evidenzierebbe un aspetto di irrazionalità rilevante sotto il profilo dell’ammissibilità della proposta e della fattibilità del piano»,

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avrebbe il potere-dovere di arrestare la procedura»5.

*

Parlando di responsabilità degli amministratori (e sindaci) nei contesti di crisi di impresa, non

può omettersi un breve cenno alle conseguenze pratiche che discendono dal riconoscimento

della responsabilità degli amministratori per i danni cagionati dall’improvvido tentativo di

risanamento poi colposamente sfociato nel dissesto. E’ noto che il curatore fallimentare, ex

art. 146 l.fall., può essere autorizzato ad esercitare – in sede civile – l’azione di responsabilità

contro gli amministratori della società fallita per le violazioni dagli stessi commesse rispetto

ai doveri del loro ufficio. Il punto è, adesso, il seguente: di quanto potrà essere chiamato a

rispondere, in concreto, l’amministratore?

Il tema della quantificazione del danno da addebitare agli amministratori e ai sindaci che

abbiano determinato o aggravato, mediante il compimento di atti di mala gestio, la perdita del

capitale sociale è stato affrontato da pratici e teorici del diritto soprattutto con riferimento

all’ipotesi di violazione, da parte degli amministratori, di quel dovere di astensione dal

compimento di nuove operazioni che viene sancito anche dopo la riforma, mediante la

previsione di un generale obbligo di gestione conservativa ex art. 2486 c.c., in caso di

scioglimento della società. Questa fattispecie rappresenta, infatti, la censura che più

frequentemente viene sollevata nei confronti degli organi sociali della società poi fallita.

Sul punto, la dottrina e la giurisprudenza hanno enucleato, nel tempo, tre diversi criteri:

1. un primo orientamento giurisprudenziale riteneva ammissibile, sia in caso di vera e propria

determinazione del dissesto che di aggravamento, una liquidazione commisurata alla

differenza tra l’entità dell’attivo e quella del passivo del fallimento6. In sostanza, si

semplificava l’onere della prova gravante sull’attore utilizzando il criterio “matematico” del

c.d. “deficit fallimentare”.

Non sono mancate, in dottrina come in giurisprudenza, le critiche all'impiego di tale principio

in quanto lo stesso:

a. anzitutto, presenta un eccessivo grado di approssimazione, non arrivando a fornire

una quantificazione effettiva dei danni cagionati dall’inadempimento

dell’amministratore, potendo «risultare addirittura limitativo nei confronti della

società, perché il danno può per quest’ultima essere superiore allo stesso deficit

fallimentare» (Trib. Napoli, Sent. 27 novembre 1993);                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          M. VITIELLO, Il problema dei limiti del controllo del tribunale sulla fattibilità del piano come risolto dalle Sezioni Unite, (in) Il Fallimentarista, 2013. 5 M. VITIELLO, Il problema dei limiti del controllo del tribunale sulla fattibilità del piano come risolto dalle Sezioni Unite, Op. Cit. 6 Così, tra le tante, Trib. Roma, Sent. 5 dicembre 1986; App. Bologna, Sent. 5 febbraio 1997; Trib. Genova, Sent. 19 settembre 1988; Trib. Catania Sent. 30 agosto 1986.

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b. è concettualmente inaccettabile, perché oggettivizza la responsabilità degli

amministratori, ponendosi in contrasto «con i principi, da cui è retto il

risarcimento del danno civile, che impongono l’individuazione di un preciso

nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui taluno è chiamato a

rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nell’altrui sfera giuridica»

(Cass. Civ., Sent. 24 luglio 2013, n. 12966)

c. non considera che: a) alla formazione del passivo possano avere contribuito anche

cause ed operazioni pregresse rispetto alla causa di scioglimento; b) il deficit

fallimentare ottenuto potrebbe essere inferiore all’effettivo danno provocato (per

es. nel caso di rinuncia di alcuni creditori ad insinuarsi al passivo); c) le nuove

operazioni, anche se illecitamente intraprese, potrebbero avere realizzato delle

sopravvenienze attive.

2. Dal ripudio di ogni automatismo risarcitorio basato sullo squilibrio fallimentare, il

Tribunale di Milano era giunto all’individuazione di un secondo e diverso criterio, definito

della “differenza dei netti patrimoniali”: il danno imputabile all’amministratore infedele

dovrebbe essere, più correttamente, individuato nella differenza tra la situazione patrimoniale

della società al momento del verificarsi della causa di scioglimento e la situazione

patrimoniale al momento della dichiarazione di fallimento.

Anche questo criterio non ha ricevuto l’avallo della giurisprudenza di legittimità, la quale ha

sottolineato che:

a. anche il metodo della “differenza dei netti patrimoniali” approda, in sostanza, ad una

quantificazione in via meramente presuntiva;

b. non solo non si tiene conto del necessario rapporto di causalità che deve legare l’atto di

mala gestio e il danno denunziato, ma, inoltre, imputando sic et simpliciter agli

amministratori la perdita incrementale successiva alla causa di scioglimento, non si

prende nella dovuta considerazione che una parte di essa si sarebbe potuta produrre

anche in caso di immediata liquidazione o (addirittura) in caso di tempestiva istanza di

fallimento7.

3. Dal superamento dei metodi finora citati, un terzo criterio, che riceve ad oggi i maggiori

consensi, impone una quantificazione del danno da effettuarsi “in concreto”, compiuta cioè in

                                                                                                               7 In questi termini, Cass., 23 giugno 2008, n. 17033, in Giust. Civ. 2009, I, 2437. La Corte, con riferimento alla violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, ha osservato che non è giustificata, in mancanza di uno specifico accertamento in proposito, l’applicazione del criterio della differenza dei netti patrimoniali, in quanto non tutta la perdita accertata dopo la causa di scioglimento può essere considerata derivante dalla prosecuzione indebita, potendo tale perdita essere dovuta, ad es., alla svalutazione dei cespiti aziendali in dipendenza del venire meno del going concern, dell’operatività dell’impresa.

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  10  

base al concreto accertamento del nesso di causalità tra le singole condotte e i singoli effetti

dannosi e che porti alla esatta determinazione di ogni singolo pregiudizio. Si tratta di

un’indagine caso per caso delle conseguenze imputabili alle specifiche operazioni compiute

dagli amministratori dopo la causa di scioglimento, con particolare attenzione alla natura di

tali operazioni, dal momento che rilevano, ai fini della quantificazione del danno, solo quelle

idonee a generare nuovi rischi per la società. Da qui l’onere del curatore di indicare i singoli

atti gestori aventi una finalità non conservativa e/o liquidatoria, adottati dagli amministratori

in violazione del divieto di cui all’art. 2486, comma 1, c.c. Pertanto, ai fini della

quantificazione del danno occorre sottrarre dallo sbilancio patrimoniale:

i. le passività derivanti da quelle scelte gestionali precedenti alla causa di scioglimento e

che avevano logorato il capitale;

ii. quel deficit patrimoniale derivante da operazioni successive alla perdita ma in sé

legittime poiché, se pur concretamente pregiudizievoli, risultano astrattamente conformi

ad un’ottica liquidatoria/conservativa (cfr., da ultimo, Cass. Civ., Sent. 24 luglio 2013,

n. 12966)8.

4. Infine, solo nei casi di impossibilità (debitamente motivata dal giudice) nel ricostruire la

precisa determinazione del danno, che deve comunque essere provato insieme alla

individuazione delle operazioni di mala gestio, potranno soccorrere i criteri di liquidazione in

via equitativa9.

*

La banca e il finanziamento dell’impresa in crisi: tra «concessione abusiva» e

«interruzione brutale» del credito

Premessa: il rapporto banca-impresa.

Esaurito l’esame dei profili di responsabilità dell’intraneus (ossia, l’amministratore ed,

eventualmente, il sindaco) dell’impresa in crisi, mi occuperò delle possibili responsabilità

dell’extraneus, trattando una tematica particolarmente delicata: il difficile rapporto tra il

creditore bancario, da una parte, e un imprenditore non più in bonis, dall’altra.

                                                                                                               8 Trib. Napoli, Sent. 27 novembre 1993; Trib. Milano, Sent. 22 settembre 1988; Cass. Civ., Sent. 22 ottobre 1998, n. 10488; Trib. Padova, Sent. 16 luglio 1999; Trib. Roma, Sent. 7 maggio 2002; App. Milano, Sent. 6 giugno 2007; Cass. Civ., Sent. 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass. Civ., Sent. 22 aprile 2009, n. 9619. 9 Al riguardo, è doveroso ricordare anche che il criterio del c.d. “deficit fallimentare” non è stato totalmente abbandonato dalla Cassazione, potendo essere attribuito allo stesso un ruolo sussidiario: tale criterio, infatti, «può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con la analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento dei sindaci (o degli amministratori), ma, in tal caso, il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta di costoro» (Cass. 22 aprile 2009, n. 9619; nello stesso senso Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538).

Page 11: I profili di responsabilità civile degli "attori" delle crisi d'impresa

  11  

Difficile perché nel corso della fase calante della vita dell’impresa la banca è attraversata da

istinti diametralmente opposti, da spinte centripete e centrifughe: da un lato, essa sa bene che

il suo appoggio finanziario è determinante perché l’imprenditore possa anche solo pensare di

superare la crisi; dall’altro, l’imprenditore in dissesto è un soggetto il cui merito creditizio

risulta essere, inevitabilmente, compromesso. Ed allora ecco la posizione ambigua della

banca: mantenere le linee di credito o revocare gli affidamenti pregressi? Concedere nuovi

finanziamenti o rifiutarne l’erogazione? Rigore o flessibilità?

Per quanto riguarda, in particolare, la responsabilità civile, il rapporto con il cliente in crisi

costringe la banca tra la “interruzione brutale di credito”, da una parte, e la “concessione

abusiva del credito”, dall’altra: «da un lato si accusa la banca di essere eccessivamente

restrittiva, rigida, avara nella concessione del credito, dall’altro lato antinomicamente, si

accusa la banca di essere eccessivamente larga, corriva, generosa nell’accordare credito che

l’affidato non meriterebbe»10.

Qual è, dunque, l’atteggiamento che una banca accorta dovrà tenere, nell’ambito della crisi

d’impresa, per evitare di incorrere in responsabilità risarcitorie?

*

La responsabilità civile della banca per “concessione abusiva di credito” all’impresa in

stato di decozione.

1. Passato vs. presente.

Volgendo lo sguardo al passato, si può agevolmente porre in evidenza come, prima della

riforma del diritto fallimentare, fosse difficile – per non dire quasi impossibile – trovare un

finanziatore professionale (e penso, ovviamente, alle banche) propenso a concedere credito ad

un’impresa in crisi che attraversasse una fase di ristrutturazione stragiudiziale.

Qualora infatti il tentativo di “salvataggio” dell’impresa sovvenuta non fosse andato in porto e

fosse, dunque, sopravvenuto il fallimento, l’inquietante spettro della responsabilità civile per

“concessione abusiva di credito”, nonché dell’incriminazione per fatti di bancarotta si sarebbe

aggirato dietro l’angolo. Senza contare, oltre a ciò, il rischio delle revocatorie ed il loro

regime probatorio schiettamente favorevole alla curatela; e senza contare, ancora, che un

eventuale credito sorto nei confronti dell’impresa finanziata sarebbe quasi certamente finito

nel mare magnum dei crediti concorsuali e, come tale, inesorabilmente assoggettato

all’impietosa falcidia fallimentare.

Oggi, il panorama sembra (almeno in parte) meno inquietante del passato: le esenzioni dalla

revocatoria previste all’art. 67 l. fall., la nuova disciplina della prededuzione di cui agli artt.

                                                                                                               10 V. ROPPO, Responsabilità delle banche nell’insolvenza dell’impresa, (in) Il Fall., 1997/IX/870.

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  12  

111 e 182-quater l. fall., nonché l’esenzione dai reati di bancarotta del nuovo art. 217-bis l.

fall., consentono ai finanziatori, in specie a quelli professionali, di avvicinarsi con meno

timore alle imprese in crisi che intendano far “decollare” un tentativo di ristrutturazione.

Qui si tratta di vedere se ed in quale misura detti finanziatori possano stare più tranquilli e

sereni con riferimento al rischio di incorrere in responsabilità d’ordine civile e penale.

2. La responsabilità civile della banca erogatrice di credito: la c.d. “concessione abusiva

di credito”.

Principiando dalle responsabilità d’ordine civile – cioè, per esser chiari, dalla probabilità che

venga contestata la c.d. “concessione abusiva di credito” – diciamo subito (è, a mio modo di

vedere, un’utile osservazione empirica!) che, nei confronti delle banche, le intenzioni dei

curatori fallimentari non sembrano essere fra le più miti: sotto questo profilo, non è certo un

mistero – e lo sostengono gli interpreti più autorevoli – che siffatta, atipica ed incerta forma di

responsabilità sia « destinata a costituire una sorta di nuova frontiera per i curatori, i quali,

‘orfani’ ormai della revocatoria fallimentare » cercheranno giocoforza di « ripiegare proprio

su que[sta] figura per tentare di rimpinguare gli attivi delle procedure »11.

Diciamo, allora, che promette “mal tempo” per le banche!

Ma è il caso di chiedersi: sopraggiunto il fallimento, può il curatore esperire un’azione per

“concessione abusiva di credito” nei confronti della banca finanziatrice? E se può esperirla,

quali sono le sue chance di vittoria?

2.1. La questione di diritto processuale.

Se il curatore fallimentare possa esperire l’azione in discorso – ovvero, in termini

eminentemente processuali, se abbia la c.d. legittimazione ad agire – è tema ancora

lungamente e fortemente dibattuto; ciò nondimeno, in proposito, lo stato attuale della

giurisprudenza e della dottrina sembra suggerire di distinguere fra tre ipotesi.

La prima ipotesi è quella in cui il “nostro” “Aulo Agerio” deduca il danno che la

“concessione abusiva di credito” avrebbe cagionato ai creditori dell’impresa sovvenuta;

ipotesi, questa, rispetto alla quale la Suprema Corte – con le tre note sentenze “gemelle” della

sua più autorevole composizione – ha recisamente negato la legittimazione attiva

dell’organo della procedura; con ciò consolidando un indirizzo già propugnato dalla

                                                                                                               11 Così, testualmente, NIGRO, La responsabilità della banca nell’erogazione del credito, in Soc., 2007, p. 438.

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  13  

giurisprudenza milanese12 e poi condiviso nei più recenti arresti di quella successiva, tanto di

legittimità13, quanto di merito14.

Il ragionamento della Cassazione è senz’altro ispirato ad una logica ferrea; ed infatti:

§ la premessa maggiore del sillogismo, è che « la legittimazione del curatore ad agire in

rappresentanza dei creditori è limitata alle azioni c.d. di massa », ossia a quelle azioni «

finalizzate alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia

generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo

»;

§ la premessa minore del sillogismo è che a tale tipologia di azioni (i.e., alla tipologia

delle « azioni c.d. di massa ») non afferisce quella per “concessione abusiva di credito”, in

quanto tale azione, « analogamente a quella prevista dall’art. 2395 cod. civ., costituisce

strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore »;

§ la conclusione del sillogismo è, inevitabilmente, che la legittimazione del curatore non

sussiste con riferimento all’azione volta a contestare la “concessione abusiva di credito”

15.

In altri termini, la Corte non nega che la “concessione abusiva di credito” possa produrre un

danno in capo al singolo creditore preesistente al finanziamento abusivo, il quale – per effetto

di quest’ultimo e dell’aggravarsi del dissesto – abbia visto diminuite le proprie possibilità di

soddisfacimento; così come, ancora, la Corte non nega che dalla medesima “concessione

abusiva” possa discendere un danno in capo al singolo creditore successivo al finanziamento

abusivo, il quale – evidentemente – non avrebbe instaurato un rapporto contrattuale con

l’impresa sovvenuta se non fosse stato tratto in inganno dall’apparenza di solvibilità

ingenerata dall’erogazione abusiva di credito.

Tuttavia, la Corte è dell’avviso che un danno di tal fatta – proprio perché si produce

direttamente sul patrimonio di ciascun singolo creditore ed è diverso da caso a caso – potrà

essere fatto valere soltanto dal singolo creditore ipoteticamente danneggiato, e non già dal

                                                                                                               12 Cort. App. Milano, Sent. 11 maggio2004, in Banca borsa tit. credito, 2004, p. 643; Trib. Milano, Sent. 21 maggio 2001, in Dir. banca e mercato fin., 2002, p. 259. 13 «Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato i seguenti principi: 1) il curatore fallimentare non è legittimato a proporre, nei confronti del finanziatore responsabile, l’azione da illecito aquiliano per il risarcimento dei danni causati ai creditori dall’abusiva concessione di credito diretta a mantenere artificiosamente in vita una impresa decotta, suscitando così nel mercato la falsa impressione che si tratti di impresa economicamente valida (…) Dal principio di cui alla prima massima - al quale il collegio, pienamente condividendo, intende dare anche in questa occasione, integrale continuità - discende l’infondatezza delle censure miranti all’affermazione della legittimazione del curatore a promuovere l’azione per abusiva concessione di credito quale rappresentante della massa dei creditori» (Cass. Civ., Sez. I, Sent. del 1 giugno 2010, n. 13413; cfr. anche, Cass. Civ., Sent. 23 luglio 2010, n. 17284). 14 Trib. Monza 8.2.2011, n. 317, (in) Riv. dott. comm., 2011, p. 440. 15 Cass. Civ., Sez. Un., Sentt. 28 marzo 2006, nn. 7029, 7030 e 7031.

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  14  

curatore fallimentare, il quale, altrimenti, sarebbe inspiegabilmente legittimato, contro il

disposto dell’art. 81 cod. proc. civ., a far valere in nome proprio un diritto altrui, per tale

intendendosi il diritto dei singoli creditori asseritamente danneggiati. E può essere giusto

osservare che autorevole dottrina giudica l’opinione espressa dalla Corte come «

assolutamente ineccepibile »16.

Veniamo ora alla seconda ipotesi: quella in cui il curatore agisca deducendo il danno che “la

concessione abusiva di credito” avrebbe cagionato (non già ai creditori dell’impresa

sovvenuta, bensì) al patrimonio della medesima impresa sovvenuta.

Qui le Sezioni Unite, con una motivazione a tratti sibillina17, non hanno escluso una volta per

tutte la legittimazione attiva: esse si sono semplicemente limitate ad affermare, con

riferimento alle vicende loro sottoposte, che la domanda era stata formulata solo in grado di

cassazione ed era pertanto inammissibile.

Nelle tre sentenze “gemelle”, insomma, non si è detto che il curatore è privo di legittimazione

ad agire per l’ipotesi in cui alleghi il danno dalla “concessione abusiva di credito”

asseritamente cagionato all’impresa sovvenuta, ma soltanto che egli deve proporre una simile

domanda tempestivamente, cioè a dire senza incorrere nelle preclusioni dell’ordinario

processo di cognizione18.

Vediamo infine la terza ipotesi: quella in cui l’impresa sovvenuta sia una società di capitali ed

il curatore agisca deducendo (non già il danno che la “concessione abusiva di credito”

avrebbe cagionato ai creditori dell’impresa, e nemmeno il nocumento che la stessa

“concessione” avrebbe cagionato al patrimonio dell’impresa, bensì) un inadempimento degli

amministratori nei confronti della società ed il concorso della banca erogatrice del credito in

siffatto inadempimento.

Ebbene, anche a questo riguardo la Cassazione19 – come chiosa reputata dottrina20 – sembra

aver riconosciuto la legittimazione ad agire del curatore: sembra cioè che là dove quest’ultimo

affermi che gli amministratori, differendo l’apertura della procedura concorsuale, si sono resi

inadempienti verso la società, il finanziatore possa essere convenuto come concorrente

                                                                                                               16 NIGRO, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito, (in) Giur. comm., 2011, p. 312. 17 Le Sezioni Unite hanno evidenziato che la società fallita (abusivamente finanziata), «partecipò al contratto che dette luogo alla abusiva concessione del credito. Essa dunque da quel contratto non trasse un credito nei confronti della banca, oggi rivendicabile dal curatore. Piuttosto dette luogo, nella stessa costruzione della curatela, all’illecito di cui si discute (…) Nella vicenda in esame si ha che l’abuso del credito affermato si è perfezionato mediante la conclusione di un contratto al quale la s.r.l. partecipò con i suoi organi, a tanto legittimati dai statuti» (Cass. Civ., Sez. Un., Sent. n. 7029 del 28 marzo 2006). 18 Per quest’osservazione cfr. anche F. BONELLI, « Concessione abusiva » di credito e « interruzione abusiva » di credito, in ID. (a cura di), Crisi di imprese: casi e materiali, Milano, 2011, p. 259 e ss. 19 Cass. Civ., Sez. I, Sent. 1 giugno 2010, n. 13413. 20 Cfr. NIGRO, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito, cit., p. 317.

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  15  

nell’inadempimento (e ciò, va da sé, secondo il comodo regime dell’obbligazione risarcitoria

solidale di cui all’art. 2055 cod. civ. che, come risaputo, non implica il litisconsorzio

necessario fra i concorrenti). In tal contesto, il curatore agirebbe secondo il combinato

disposto degli artt. 2393 cod. civ. (che disciplina la responsabilità degli amministratori

verso la società) e 146 l. fall. (che attribuisce allo stesso curatore la legittimazione ad

agire ex art. 2393 cod. civ.).

In definitiva, «se un unico evento dannoso» (nel caso di specie, l’aggravamento del dissesto

in virtù del finanziamento abusivo) «è imputabile a più persone» (ossia, agli amministratori

in primis che hanno richiesto il finanziamento illegittimo e alla banca che ha provveduto ad

erogarlo) «al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell’obbligo risarcitorio è sufficiente,

in base ai principi che regolano il nesso di causalità e il concorso di più cause efficienti nella

produzione dell’evento, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo

efficiente a produrlo, configurandosi a carico dei responsabili del danno un’obbligazione

solidale» (Cass. Civ., Sez. I, Sent. 1° giugno 2010, n. 13413).

I principi di diritto affermati dalla Suprema Corte nella sentenza n. 13413 del 2010 appena

citata hanno trovato accoglimento nelle corti di merito con la sentenza n. 25 del 10 gennaio

2013 del Tribunale di Parma: il Tribunale ha infatti riconosciuto la legittimazione del

commissario straordinario (ma la statuizione è valida, mutatis mutandis, per il curatore

fallimentare) a far valere processualmente la responsabilità della banca, che abbia continuato

illegittimamente a concedere credito ad un’impresa ormai in grave stato di decozione, per i

danni cagionati al patrimonio dell’impresa abusivamente finanziata in concorso con gli

amministratori dell’impresa medesima: «nel caso in esame invece è stata allegata dalle

attrici un’azione risarcitoria promossa contro il terzo che concorrendo con i propri

amministratori abbia cagionato un danno al patrimonio della società aggravandone il

dissesto. Ciò determina la titolarità del rapporto dal punto di vista passivo sia degli

amministratori in forza dell’art. 2393 c.c., sia di coloro che abbiano concorso nell’illecito ai

sensi dell’art. 2055 c.c.» (Tribunale di Parma, Sent. del 10 gennaio 2013 n. 25).

In sostanza, la possibilità di far valere la responsabilità civile della banca in sede fallimentare

è stata espulsa dalla finestra e fatta rientrare dalla porta (sic!), in quanto si è negata la

legittimazione attiva del curatore a far valere un danno dei (singoli) creditori per concessione

abusiva di credito, ma se ne è affermata la legittimazione (in via decisamente “principale”) a

far valere un danno della società fallita per concorso/complicità nell’illecito degli

amministratori.

Page 16: I profili di responsabilità civile degli "attori" delle crisi d'impresa

  16  

2.2. La questione di diritto sostanziale.

A conti fatti, nella concreta dimensione processuale, la legittimazione attiva del curatore

rispetto all’azione per “concessione abusiva di credito” sembra essere ormai destinata a

divenire una realtà: una realtà che il finanziatore professionale che si accinga a far credito ad

imprese in situazione di difficoltà dovrà inevitabilmente tener presente, poiché un giorno (a

fallimento dichiarato) un qualche “Aulo Augerio” potrebbe agire contro di lui.

Sennonché, si tratta di vedere, nel merito, quali margini di vittoria abbia quell’“Aulo Agerio”;

e cioè quali siano i presupposti sostanziali in forza dei quali il giudice potrebbe porre in carico

alla banca l’obbligo risarcitorio.

Ora – nell’ambito delle riflessioni che da anni, anzi da svariati decenni, la letteratura va

facendo (anche e soprattutto sulla scia della giurisprudenza d’oltralpe) sul fenomeno della

“concessione abusiva di credito” – sembra potersi affermare che l’azione in discorso,

riconducibile al paradigma dell’illecito extra-contrattuale, possa dal curatore essere

vittoriosamente esperita solo ove quest’ultimo fornisca in giudizio una rigorosa prova:

ovvero, la dimostrazione che la banca ha erogato il credito ad un impresa che, al momento

della concessione dello stesso, versava in una situation désespérée, per tale intendendosi una

crisi definitiva ed irreversibile che, se esteriorizzata, legittimerebbe ed anzi renderebbe

doverosa la dichiarazione di fallimento; situation désespérée che la banca conosceva o, con

l’esigibile diligenza, avrebbe dovuto conoscere21.

Ebbene, potrebbe prima facie ritenersi che il “nostro” curatore abbia, per così dire, la “strada

spianata”: non è chi non veda come, in effetti, l’erogazione del credito “in funzione” od “in

esecuzione” di una ristrutturazione dell’impresa in difficoltà sempre presupponga – per

definizione – la conoscenza, da parte dell’ente finanziatore, della situazione precaria

dell’impresa (e magari, proprio, di … una situation désespérée)22.

Tuttavia, per l’attore in responsabilità il “gioco” è meno facile di quanto possa apparire.

Sul tema che ci occupa risulta decisivo osservare che la giurisprudenza francese – il cui esame

(va ancora rammentato) ha da sempre costituito la “pietra di paragone” per la letteratura

italiana – non esita ad escludere la responsabilità della banca là dove esista un « piano di

risanamento credibile »23.

Ricalcando il modello transalpino, la dottrina italiana più accorta non ha mai mancato di

sottolineare come la banca, là dove il credito sia stato concesso ad un’impresa in situazione di

                                                                                                               21 In senso sostanzialmente analogo cfr., per tutti, ARATO, La responsabilità della banca nelle crisi di impresa, in Fall., 2007, p. 255 e ss. Cfr., per la necessità che si tratti di un’insolvenza attuale (e non già soltanto potenziale), App. Milano 11.5.2004, in Banca borsa tit. cred., 2004, II, p. 643. 22 Ciò che coglie acutamente anche BONELLI, « Concessione abusiva » di credito, cit., p. 268. 23 Cass. Com. 15.6.1993, in JCP, 1993, p. 253; App. Paris, 15.12.1995, in D., 1996, inf. rap., p. 65.

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  17  

crisi definitiva e irreversibile, possa ben andare esente da responsabilità se dimostra di aver

escluso l’esistenza della situation désespérée in forza, giustappunto, di un « credibile piano di

risanamento »24, ossia sulla base di un progetto « oggettivamente serio, vale a dire dotato di

comprovate ed obiettive possibilità di realizzazione »25.

In analogo ordine di idee, il brillante Autore che testé citavo ha affermato che « chi concede

finanziamenti » nell’ottica di un « tentativo serio di soluzione della crisi » non può essere

ritenuto responsabile se il tentativo non ha successo » ; nel senso che « solo quando si opera

in condizioni, non di semplice incertezza sul vantaggio per i creditori, ma di ragionevole

certezza circa l’assenza di un vantaggio per costoro può esservi la reazione sanzionatoria

dell’ordinamento »; sicché la responsabilità del finanziatore potrebbe sorgere solo là dove

quest’ultimo avesse attribuito nuove risorse ad un’impresa in difficoltà « consapevole

dell’inutilità del finanziamento per gli interessi dei creditori »26.

Se così è, non pare allora revocabile in dubbio che – alla pretesa del curatore – la banca possa

ragionevolmente contrapporre il proprio affidamento su di un “fattibile” piano di risanamento,

cioè a dire la propria convinzione circa l’utilità dello stesso per i creditori; e qui si apriranno,

come è subito intuibile, vari “scenari”: perché differenti sono gli strumenti che la prassi e la

vigente legislazione fallimentare conoscono per evitare il fallimento e consentire la

ristrutturazione.

2.3. Segue: gli “scenari” possibili.

Orbene, sono a mio avviso logicamente distinguibili, in un’ideale “griglia” di analisi (forse, a

prima impressione, un po’ cervellotica), i seguenti “scenari”.

Il primo “scenario” è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un piano di

risanamento non attestato o non ancora attestato; “scenario” che mi sembra logicamente

assimilabile a quello in cui la banca eroga credito in vista della presentazione della domanda

di omologazione dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall., ovvero della domanda

di concordato preventivo senza che siano state ancora redatte, rispettivamente, la relazione del

professionista sull’« attuabilità » dell’accordo e sulla « fattibilità » del piano allegato alla

domanda di concordato.

Il secondo “scenario” è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un piano di

risanamento attestato; “scenario” che mi pare affine a quello (attualmente disciplinato

dall’art. 182quater l.fall.) in cui la banca eroga credito in vista della domanda di concordato                                                                                                                24 Così testualmente, per tutti, ARATO, La responsabilità della banca, cit., p. 256. 25 Così testualmente, già prima della riforma, CASTIELLO D’ANTONIO, Il rischio delle banche nel finanziamento delle imprese in difficoltà: la concessione abusiva di credito, in Dir. fall., 1995, p. 254 26 Così, testualmente, STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte e finanziamenti alla ristrutturazione, in Fall., 2010, pp. 1361-1362.

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  18  

preventivo, allorché sia stata già redatta la relazione del professionista sulla «fattibilità» del

piano allegato che verrà accluso alla domanda medesima; “scenario” che, ancora, mi sembra

somigliante a quello in cui la banca eroga credito in vista della domanda di omologazione

dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall. là dove si sia già in presenza della

relazione sull’«attuabilità».

Il terzo “scenario” è rappresentato dall’erogazione di credito, sulla base

dell’autorizzazione del Tribunale , ex art. 182quinquies, comma 1, l. fall., al debitore che

abbia presentato:

a. una domanda (anche “prenotativa” o “in bianco” ai sensi del nuovo sesto comma

dell’art. 161 l. fall.) di concordato,

b. oppure, domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione ex art. 182bis,

comma 1, l. fall.,

c. oppure ancora una «proposta di accordo di ristrutturazione» ai sensi del sesto comma

dell’art. 182bis;

a patto che, in ogni caso, vi sia l’attestazione del professionista che comprovi la funzionalità

del finanziamento richiesto al miglior soddisfacimento dei creditori, una volta verificato

l’effettivo fabbisogno finanziario dell’impresa sino al momento dell’omologazione del

concordato o dell’accordo di ristrutturazione.

In presenza delle condizioni appena citate, il credito della banca, in virtù del finanziamento

erogato, sarà dotato, in caso di eventuale fallimento del beneficiario, del carattere della

prededucibilità ai sensi dell’art. 111 l. fall.

Il quarto ed ultimo scenario, infine, è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un

accordo di ristrutturazione omologato, ovvero di un concordato preventivo.

Non sarà eccessivamente arduo afferrare il criterio logico-giuridico che presiede alla

classificazione dianzi proposta.

Difatti:

§ il primo “scenario” corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca concesso

in assenza della certificazione di un soggetto terzo, ossia del professionista che – iscritto

nell’albo dei revisori contabili ed in possesso dei requisiti richiesti per lo svolgimento

dell’incarico di curatore – attesta la “fattibilità” (o “credibilità”, “attuabilità” … che dir si

voglia!) del piano di risanamento;

§ il secondo “scenario” corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca

concesso in presenza della certificazione del professionista in ordine alla “fattibilità”

(variamente denominabile) del piano;

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  19  

§ il terzo “scenario” si verifica laddove il credito è erogato dalla banca in presenza di un

particolare atto del professionista che attesti, sulla base del complessivo bisogno

finanziario dell’impresa fino all’omologa, la funzionalità del finanziamento medesimo alla

“migliore soddisfazione dei creditori” nonché in presenza dell’autorizzazione

dell’Autorità Giudiziaria.

§ il quarto “scenario”, infine, corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca

concesso in presenza sia della certificazione del professionista sulla “fattibilità” del piano,

sia di un controllo giudiziale espletato dal Tribunale in sede di omologazione dell’accordo

di ristrutturazione o del concordato preventivo.

Proviamo adesso a “misurare” ciascuno di tali scenari con la premessa da cui siamo partiti,

vale a dire con la premessa che la banca potrà e dovrà andare esente da responsabilità per

“concessione abusiva di credito” là dove esista un “fattibile” (o “credibile”, “attuabile” … che

dir si voglia!) piano di risanamento.

Ne risulteranno – a mio sommesso avviso – le seguenti, lineari conseguenze:

§ quanto al primo “scenario”, la banca – mancando la certificazione di un soggetto terzo

sulla “fattibilità” del piano – potrà sì andare esente da responsabilità, ma solo se avrà

dimostrato di aver erogato il finanziamento in presenza di un piano che, pur non attestato,

era degno – in una prospettiva ex ante – di essere creduto, in quanto la situazione

economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa dava adito, con ragionevole sicurezza,

a concrete prospettive di ristrutturazione;

§ quanto al secondo “scenario”, la banca – mancando un controllo giudiziale sulla

fattibilità del piano – andrà esente da responsabilità se avrà dimostrato la bontà e la

correttezza, in altre parole la plausibilità, della certificazione rilasciata dal professionista,

in una prospettiva che chiaramente dovrà essere anche qui e rigorosamente ex ante, dal

momento che – bene insegnava il Manzoni – « del senno di poi son piene le fosse »27;

§ quanto al terzo “scenario”, in presenza dell’atto certificativo del professionista che

attesta la funzionalità dei finanziamenti erogati “alla migliore soddisfazione dei creditori”,

per un verso, e l’autorizzazione del Tribunale, per l’altro, non vi è spazio per riconoscere

eventuali profili di responsabilità della banca, trattandosi di concessione di credito

tutt’altro che “abusiva” in quanto specificamente autorizzata dall’Autorità Giudiziaria;

                                                                                                               27 Cfr. sul punto, si vis, IANNACCONE, La crisi d’impresa, in Atti del Convegno Paradigma - Milano 16-17 dicembre 2010, pp. 28-29, ove rilevavo che – nell’ambito di un piano di risanamento attestato ex art. 67 l. fall. – le banche, al fine di evitare contestazioni, dovrebbero procedere, prima di concedere il finanziamento, ad una puntuale « verifica di logicità e coerenza dell’attestazione rilasciata dal perito e di fattibilità del piano ».

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§ nell’ultimo “scenario”, infine, la banca – essendo presente un controllo giudiziale sulla

fattibilità del piano – andrà esente da responsabilità per definizione, avendo fatto credito

all’impresa in crisi in forza di un piano che gode dell’“imprimatur” dell’autorità

giudiziaria; ciò perché, come saggiamente evidenzia un Autore, «sarebbe (…)

contraddittorio che il Tribunale dapprima (in sede di omologa…) affermi che l’insolvenza

è reversibile, sicché la nuova finanza prevista nel piano era legittima, e poi, dopo il

fallimento, affermi invece che malgrado l’omologa e malgrado il piano di

ristrutturazione, la società era rimasta insolvente, sicché la nuova finanza era

illegittima»28.

E sarà appena il caso di notare – con un poco di esprit de geometrie – come tale

conclusione collimi pressoché perfettamente, mutatis mutandis, con il regime di stabilità

(i.e., irrevocabilità) contemplato, anche per i finanziamenti (e le eventuali garanzie),

dall’art. 67, comma 3°, lett. d), l. fall.: quando il finanziamento viene concesso « in

esecuzione » di un piano attestato, la revocabilità è esclusa solo se il giudice conferma la

plausibilità delle valutazioni operate dal professionista in punto di “fattibilità” del

progetto; diversamente, quando il finanziamento è concesso « in esecuzione » di un

accordo di ristrutturazione omologato o di un concordato preventivo, la revocabilità è

esclusa, per dir così, automaticamente29.

*

La responsabilità civile della banca per interruzione “brutale” del credito nell’ambito

della crisi d’impresa.

Sempre sulla scorta della giurisprudenza francese, le Corti italiane sono giunte a delineare una

ulteriore tipologia di responsabilità civile gravante sugli operatori bancari che interviene sulla

base di condizioni (per certi versi) opposte rispetto alla responsabilità per abusiva concessione

di credito: si tratta, come anticipato all’inizio del mio intervento, della responsabilità per

interruzione “brutale” di credito.

Tale fenomeno generatore di responsabilità, delineato dalla giurisprudenza francese ed

espressamente codificato dalla legislazione d’oltralpe (art. 442-6, comma 5, Code de                                                                                                                28 Così, testualmente, BONELLI, « Concessione abusiva » di credito, cit., p. 274. Cfr., in senso convergente, VITIELLO, Responsabilità delle banche per concessione abusiva di credito e risanamento, in Il Fallimentarista, p. 7. 29 Cfr. sul punto, per l’apprezzabile chiarezza, ROPPO, Profili strutturali e funzionali dei contratti « di salvataggio » (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), in Dir. fall., 2008, p. 391, che sottolinea come « col sigillo dell’omologa, l’accordo di ristrutturazione [come il concordato preventivo] dà certezza formale che sussiste il presupposto per l’esonero da revocatoria; non così per il piano di risanamento, la cui adeguatezza e ragionevolezza, e quindi idoneità a produrre l’effetto esonero, in mancanza di accertamento previo sono soggette all’alea di un giudizio ex post »; cfr. anche D’AMBROSIO, Sub art. 67 l. fall., in JORIO (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2006, p. 992.

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Commerce: «determina la responsabilità dell’autore e lo costringe a riparare i pregiudizi

causati, il commerciante, l’industriale o la persona iscritta nei registri dell’industria e

artigianato (…) che interrompe brutalmente, anche solo in parte, una relazione

commerciale stabile senza preavviso scritto tenendo conto della durata della relazione

commerciale e rispettando la durata minima di preavviso, determinata sulla base della prassi

commerciale e degli accordi professionali»), è ammesso anche dalla giurisprudenza italiana

(ricondotto, in particolare, al fenomeno dell’abuso del diritto), sebbene sia, come anche

quello della concessione abusiva, tutt’ora ignorato dal nostro legislatore.

Ciò significa che, sebbene non sussista, allo stato, alcun obbligo in capo alla banca di fare

necessariamente credito (considerando che la stessa esercita pur sempre un’attività

d’impresa, come tale improntata ai criteri di economicità ed efficienza), l’interruzione

(consentita in via normativa o pattizia) del rapporto di finanziamento con il beneficiario,

qualora assuma i connotati della arbitrarietà e della imprevedibilità, può dare luogo a

responsabilità civile. La Suprema Corte ha infatti più volte affermato quanto segue:

«l’interruzione brutale del credito bancario (…) può essere causa di risarcimento del danno

ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari» (da ultimo, Cass. Civ.,

Sent. 7 giugno 2012, n. 9253).

Invero, nella gestione del rapporto creditizio con il cliente, la banca deve pur sempre

improntare la propria condotta al rispetto dei principi generalissimi di correttezza e

buona fede come “sacralizzati” nell’art. 1175 c.c. che solennemente afferma: “il debitore e il

creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”. Ebbene, come la

trasgressione del dogma della buona fede in sede di instaurazione del rapporto contrattuale

(i.e., delle trattative) può dare luogo a responsabilità civile c.d. pre-contrattuale, allo stesso

modo la violazione del paradigma della buona fede nel corso dell’esecuzione del contratto

può costituire il fondamento di una affine forma di responsabilità civile.

La giurisprudenza della Cassazione è costante nell’affermare quanto segue: «il principio

della buona fede oggettiva, intesa come reciproca lealtà di condotta delle parti, deve

accompagnare il contratto in tutte le sue fasi, da quella della formazione a quella della

interpretazione e della esecuzione, comportano, quale ineludibile corollario (…) il dovere di

agire, anche nella fase di patologia del rapporto, in modo da preservare, per quanto

possibile, gli interessi della controparte, e quindi, primo tra tutti, l’interesse alla

conservazione del vincolo. Peraltro, l’assenza nel nostro codice di una norma che sanzioni,

in via generale l’abuso del diritto (…) non ha impedito, a una giurisprudenza attenta alle

posizioni giuridiche in sofferenza, di sanzionare con l’illegittimità la cosiddetta interruzione

brutale del credito, e cioè il recesso di una banca da un rapporto di apertura di credito tutte

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le volte in cui, benché pattiziamente consentito, esso assuma connotati di arbitrarietà»

(Cass. Civ., Sent. 31 maggio 2010, n. 13208).

In applicazione di tali principi (e in particolare del divieto di abuso del diritto), il

comportamento della banca che come un “fulmine a ciel sereno” “chiuda i rubinetti” del

credito, con modalità del tutto impreviste e (soprattutto) arbitrarie ed abusando così della

propria facoltà di interrompere il rapporto contrattuale pur in astratto prevista (da disposizioni

contrattuali o finanche da disposizioni normative)30, cagionerà alla controparte un danno che

può essere qualificato ingiusto e che darà luogo alla propria responsabilità risarcitoria,

trattandosi di una condotta contraria all’affidamento che ragionevolmente il beneficiario

aveva riposto nella corretta esecuzione (e prosecuzione) del contratto da parte del creditore

bancario.

E’ doveroso sottolineare che, a differenza della responsabilità civile per “concessione

abusiva”, la responsabilità per “revoca brutale” del credito assume natura contrattuale,

sicché all’eventuale attore basterebbe denunciare la violazione del rapporto obbligatorio pre-

esistente (di regola di finanziamento), dovendo invece la banca concretamente dimostrare che

la propria condotta non contrastava con il principio della buona fede, costituendo al contrario

legittimo esercizio di un diritto nonché delle facoltà di autotutela delle proprie posizioni

giuridiche soggettive.

Come si pone, dunque, la “revoca brutale” del credito rispetto all’impresa in crisi? In altre

parole, potrà la banca essere ritenuta responsabile, nei confronti di un’impresa non più in

bonis, per la revoca dei finanziamenti in precedenza erogati?

Riteniamo che, in assenza di alcun dovere giuridicamente vincolante per l’istituto bancario

(così come per nessun altro creditore) di supportare (o, meglio, continuare a supportare) un

proprio cliente entrato in crisi, la banca non possa essere condannata sulla base del

semplice rifiuto di proseguire nel rapporto contrattuale, trovando lo stesso motivazione e

giustificazione più che ragionevole nella mutata condizione economica, finanziaria e

                                                                                                               30 «La Corte di Cassazione ha ritenuto configurabile un abuso del diritto nel comportamento del contraente che esercita verso l'altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati. In tema di recesso, in particolare, con riferimento alla c.d. interruzione brutale del credito, la S.C. ha avuto modo di affermare che il giudice non deve limitarsi al riscontro obiettivo della sussistenza o meno dell'ipotesi di giusta causa di recesso prevista in un contratto di apertura di credito per un tempo determinato, ma, alla stregua del principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, deve accertare che il recesso non sia esercitato con modalità impreviste ed arbitrarie, tali da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate (Cass., I, 16 ottobre 2003 n. 15482)», Consiglio di Stato, Sez. III, Sent. 17 maggio 2012, n. 2857.

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patrimoniale della controparte (a patto, ovviamente, che tale comportamento sia pur sempre

improntato ai criteri di buona fede e correttezza e non sia meramente pretestuoso).

Quid iuris, invece, quando l’imprenditore in crisi presenti alla banca un piano di risanamento

(per tale intendendosi, indistintamente, un piano di concordato preventivo o un accordo di

ristrutturazione dei debiti o un piano attestato ex art. 67 l. fall.) che appaia sin da subito come

serio, credibile e realizzabile? Sussiste, in tal caso, un dovere della banca di aderire al

tentativo di ristrutturazione aziendale, pena la sua eventuale responsabilità civile per aver

“brutalmente” revocato i propri affidamenti?

Anche qui, riteniamo che non sia giuridicamente corretto imporre alla banca di aderire ad un

progetto di risanamento in cui la stessa non creda, quand’anche lo stesso sia fattibile. E’ vero,

le modifiche del diritto concorsuale hanno voluto incoraggiare il finanziamento e l’ausilio

dell’imprenditore in crisi, ma per l’appunto si tratta di modifiche, di carattere premiale, volte

ad incentivare, e non a “costringere”, il supporto ai tentativi di risanamento aziendale.

Profili di responsabilità della banca potranno residuare laddove questa abbia inizialmente

mostrato di aderire ad un tentativo di risanamento, ingenerando un ragionevole affidamento

nell’imprenditore in crisi, e poi abbia, senza idonei motivi sopravvenuti, revocato il proprio

appoggio finanziario; il distacco della banca dal tentativo di ristrutturazione non potrà, invece,

essere considerato illegittimo al mutare in esecuzione dello status quo, tale per cui il

programma di risanamento non risulti più, per circostanze endogene o esogene, essere

fattibile.

E’ evidente, in conclusione, come la sopravvenuta irrealizzabilità del risanamento

dell’impresa costituisca motivo (o «causa di giustificazione»)31 più che valido per la banca a

revocare i propri affidamenti (sempre, ovviamente, sulla base di specifiche disposizioni

contrattuali che glielo consentano e nel rispetto della buona fede). Anzi, è noto che proprio

continuare a sostenere una ristrutturazione aziendale ormai priva di ragionevoli chances di

successo può dare luogo alla responsabilità civile della banca per concessione abusiva di

credito.

                                                                                                               31 A. CASTIELLO D’ANTONIO, Crisi d’impresa e responsabilità della banca: «revoca brutale» del fido, concessione abusiva di credito, (in) Il Dir. Fall., 2009/I/300.