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Vite-lavori associate come nuovo koinos e welfare di community competenti

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Commons/Comune: geografie, luoghi, spazi, città è un volume delle Memorie Geografiche della Società di Studi Geografici

http://www.societastudigeografici.it

ISBN 978-88-908926-2-2

Numero monografico delle Memorie Geografiche della Società di Studi Geografici(http://www.societastudigeografici.it)

Certificazione scientifica delle OpereI contributi pubblicati in questo volume sono stati oggetto di un processo di referaggio a cura del Comitato scientifico e degli organizzatori delle sessioni della Giornata di studio della Società di Studi Geografici

Hanno contribuito alla realizzazione di questo volume: Maura Benegiamo, Luisa Carbone, Cristina Capineri, Donata Castagnoli, Filippo Celata, Antonio Ciaschi, Margherita Ciervo, Davide Cirillo, Raffaella Coletti, Adriana Conti Puorger, Egidio Dansero, Domenico De Vincenzo, Cesare Di Feliciantonio, Francesco Dini, Daniela Festa, Roberta Gemmiti, Cary Yungmee Hendrickson, Michela Lazzeroni, Valeria Leoni, Mirella Loda, Alessandra Marin, Alessia Mariotti, Federico Martellozzo, Andrea Pase, Alessandra Pini, Giacomo Pettenati, Filippo Randelli, Luca Simone Rizzo, Patrizia Romei, Venere Stefania Sanna, Lidia Scarpelli, Massimiliano Tabusi, Alessia Toldo, Paola Ulivi

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L’immagine di copertina è tratta dal volume di Emma Davidson Omnia sunt communia, 2015, p. 9 (shopgirlphilosophy.com)

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Aa.Vv. (2016), Commons/Comune, Società di studi geografici. Memorie geografiche NS 14, pp. 377-384

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SIMONE CERRINA FERONI

VITE-LAVORI ASSOCIATE COME NUOVO KOINOS E WELFARE DI COMMUNITY COMPETENTI

Uomini che, costituiti in unità, largirono filantropia e conobbero dolcezza, gioia di vivere

e infine mistico dolore. (Steinbeck, Cannery Row)

1. SOCIALIZZARE IL LONGLIFE LEARNING RENDENDOLO “BIOS-COMPATIBILE”. — Estenderemo il

commoning di beni immateriali (come informazioni, conoscenze, attività sportiva) alla “formazione e lavoro”, che integra cultura, socio-sanitario e sviluppo locale. Paradigmi di lettura e comprensione nei servizi di aiuto, orientamento, formazione e sviluppo, rivolti a individui, organizzazioni e territori, nei servizi di intermediazione di secondo livello ma soprattutto, soggettivando, nelle pratiche auto-dirette di apprendimento/cura e potenziamento, da 0 a 80 anni. La sfera di comunalità è il learning e orientamento lavoro-correlato, dove sfuma il confine fra aiutante e aiutato, modulabile, che si rigenera ancora più se condivisa, analogamente alla ricerca (competizione ma anche cooperazione, e infatti sia il web che la wikinomics sono sorti in questo ambito). Imparare a imparare è metacompetenza, “moto-rino funzionante” (1), riflessione sulle proprie azioni e sui propri schemi per possibilit-are vite “impoterate”. Sentimento benestante (Spaltro, 1984) di ”concorrere al progresso materiale e sociale” per i resilienti all’ispessimento dell’attenzione, per chi consuma per ricostruire e riusa il passato, suscita interesse, satura i desideri, ama le sfide (anche in gruppo) e sa rifarsi una vita, cogliendo della flessibi-lità le opportunità di vite ottative (activae) (Arendt, 1964). Il D.Lgs. 13/13 inquadra il “diritto all’apprendimento informale, anche non intenzionale, in attività di situazioni di vita quotidiana, nell’ambito del lavoro, quotidiano e del tempo libero […] in una prospettiva di crescita personale, ci-vica, sociale e occupazionale”. Un dispositivo life-deep di alternanza scuola-lavori, all’interno del “do-vere inderogabile di solidarietà sociale”, mediante le formazioni sociali in cui la persona si realizza nei limiti del “rispetto della dignità della persona umana e della sua integrità psicofisica”, che pare più so-ciale che individuale. Nuovo welfare di validazione delle competenze che sincronizza mondi vitali, so-cio-economici e istituzionali: in Italia tutto da costruire (2), ma in parte presente in Europa. Gli stili di vita-lavoro instabili richiedono un learnfare sofisticato, perché gli schemi erodono self efficacy (3) sui mercati delle opportunità, in cui conta saper intercettare i flussi e agire rapide scelte poco ragionate (ecco l’orientamento) di impiego di tempo competente, con un ritorno monetizzato e/o di riconosci-mento e motivazione. Un Centro per l’Impiego è una doppia consulenza di marketing, alla domanda e all’offerta. Il matching ha tratti fiduciari e la risorsa scarsa è il tempo esperto: infatti si cambia mestiere per scarsificarla. La communalship dei tempi di vita competenti (Virno, 2001, p. 44) trasforma mercati

(1) Su questo si veda Bresciani (2005). Il longlife learning sta all’education come il posfordismo al fordismo, e analogamente l’orientamento longlife rispetto all’orientamento professionale. Non entro nel merito perché argomento molto tecnico: qui lo riduco al suo nucleo centrale e lo applico al commoning, come in precedenti ricerche effettuate (Cerrina Feroni, 2013-2015) che riporto in bibliografia, operazione simile sui temi del benessere, della qualità della vita, del welfare e dei processi partecipativi, quindi alla democrazia. Per motivi di spazio ho preferito fare un riassunto secco e quindi ho limitato i riferimenti bibliografici, sterminati, al minimo indispensabile per chiarire i termini. Ogni altra scelta sarebbe stata uccidere autori che amo.

(2) Le modifiche costituzionali correlate sono in corso. (3) La piramide di Maslow mostra friabilità ai livelli sottostanti, cioè i bisogni di autorealizzazione sono minati al centro dallo

sfaldamento dei bisogni sottostanti di sicurezza e riconoscimento sociale. La piramide si liquefà, si fa circolare e riflessiva.

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di individui in mercati di competenze, certo identitarie, ma anche socializzanti, però l’empowerment di comunità (Rappaport, Seidman, 2000) è assente nel longlife learning (4).

I sistemi di salute/sicurezza, qualità e apprendimento transitano dalle organizzazioni ai posti di la-voro integrati alle vite (5), inducendo a potenziare la capacità vitale oltre gli orizzonti “naturali” del buon senso (un tempo definito “comune”), che vacilla, è banale come l’uomo comune (6). Vantaggio competitivo, ma anche danno esistenziale per chi resiste all’unlearning necessario nel learning adulto. Ma cum-petere (chiedere insieme, scoprire che per l’altro è uguale), è – anche nelle imprese e fra di loro – common autopropellente, capitale umano circolante, dono scambiato nell’intorno sociale. Le vite-lavori, se capabilities collettive, sono stupore e orgoglio di nuove passioni relazionali, gratitudine, mutua legittimazione e reputazione. In Italia invece prevale la tendenza alla condivisione minima, nei gruppi primari, che invece, estesa alle community (7), apre una prospettiva di animazione psicosociale (De Maria, 2000), certo complessa (e impossibile se eterodiretta da politiche di welfare o omologanti), ma praticabile se autossemblata con un’anima gruppale e organizzativa.

L’imperativo culturale (8) di McClelland (1961) dell’autorealizzazione, dell’obiettivo, dell’auto-nomia onnipotente è anche helplessness, coazione a ripetere consuetudini e traumi primitivi, imbarazzo ad evidenziare le mancanze. I supereroi turboperformanti celano l’utente risentito e aggressivo, la qua-lità ipernutrita il desiderio di difetti. L’ambivalenza verso l’oggetto “che obietta” è il disagio silente dei precari (anche potenziali) nel fronteggiare le sfide “sovrumane” della crescente riflessività intrapren-dente finalizzata al miglioramento continuo (Avallone, Paplomatas, 2005) perché troppi “strappi” do-vuti allo stress da “sovrabbondanza a benessere” esondano le difese psichiche, prosciugando la capa-cità di coping psicosociale (Karasek, Theorell, 1990). La tragedia tranquilla dei nuovi invisibili Sisifo (ex ceti medi, non i classici poveri), affogati nei lutti delle infinite opportunità scartate, inidonei e sosti-tuibili, con uno stigma vergognoso (la timidezza oggi è malattia da curare). Vite sprecate che stingono nell’irrilevanza, vite-costo che bruciano valore: i “vulnerabili in esodo silente dalla cittadinanza” (Maz-zoli, 2012) percepiscono la propria non qualità in modo “egonomico”, come cattivi investimenti nel sé, ma in realtà osserviamo organizzazioni e territori in crisi o dimenticati, depauperati nel longlife learn-ing come capacità psicosociale e organizzativa di padroneggiare la trasformazione di risorse in func-tioning (Sen, 1986) a partire dai suoi antecedenti come la consapevolezza e la conazione.

Nuove povertà non socializzate né civilizzate: gli intrappolati nei flussi sono passivi e tristi rifugiati dalla vita, diffidenti, rancorosi o cinicamente apatici alle proprie vite smarrite, e a quelle altrui. Ingol-fati, alla deriva, spaesati (assenza di luoghi) e sconnessi in vite insensate ridotte a pure maschere (per-sone come ruoli), terrorizzati dalla paura di essere abbandonati e spinti unter, ma con scarso esame di realtà, rigidità e resistenza passiva all’exnovazione, se non regressione verso dipendenze/controdipen-denze neotribali o ocnofile (9). La prudenza dell’esercito di riserva al contrario assume anche le forme del vivacchiare svogliatamente nella performance minima vitale, nei doppi giochi, nell’inefficacia in-tenzionale (suicidaria in questo caso), fino al soldiering sociale come rivolta deviante ballardiana (Bal-lard, 2003). O quelle restaurative di schemi premoderni (rispetto, onore, il guru). Ma anche la ricerca della sicurezza come “limite di velocità” e tempo per pietas, agape misericordiosa, dubbio, modestia, il soggetto “in sé” e non solo “per sé”.

I rischi generati dall’“ipervita” dei capitali umani, mezzi e luoghi di produzione/consumo perfor-mante, di studio e lavoro senza residui, isomorfa al ciclo di vita di progetti, imprese e prodotti, impon-

(4) Meno nell’orientamento più fine (rogersiano). (5) Mantenere i territori in buona salute per la crescita mediante sensation seeking diffuso finalizzato all’autoapprendimento come

miglioramento continuo. (6) Da ricaricare di pluralità, cioè commoning come senso “comune”. (7) Community è qui intesa come piccola comunità in senso protestante, cioè democratica, bottom up, ma più impersonale. Ad

esempio, comunità virtuale, comunità di pratica, comunità hobbystica. (8) Perché ci sono culture invece più collettiviste, ad esempio quelle asiatiche, e in parte quella italiana. (9) Balint (1983) descrive la coppia concettuale ocnofilo (che si attacca all’oggetto) e il suo opposto filobate, che sembra accettare

l’oggetto esterno e la sfida brivido, illudendosi che sia controllabile, ma in realtà riproduce ancora di più il trauma primitivo.

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gono un longlife learning di community (10), che vada al cuore della con-vivenza. Un’alterazione così massiccia di abitudini, relazioni e scelte di vita è invece rimossa, è senso di colpa non simbolizzato, non “lavorato”: nel longlife learning mancano le raccolte di fondi e un Terzo settore specifico (quarto, di nuova generazione?), mancano le forme preliminari al commoning (processi partecipativi, discorso pubblico), non c’è attenzione agli espatriati, che sono più degli immigrati, capro espiatorio parados-salmente più immune. La società è sempre più inter-attiva, ma la risposta a questa nuova emergenza è individuale, la si considera troppo sofisticata e ognuno vede solo il suo pezzetto (job) di rischio, come i lavoratori precari/autonomi.

2. WELL-LIVING&WORKING LIFES. — Negli anni Cinquanta si scoprono le disfunzioni causate dai

fattori umani (oggi diremmo le vite) nelle organizzazioni: nascono le living organizations, le learning orga-nizations (11). Bene per le organizzazioni, male per le vite: l’imprenditore schumpeteriano è distruzione, creatrice ma rapace. Oggi assistiamo alle disfunzioni dell’aziendalizzazione (pubblico-privata) delle vite, inquinate dall’esaltazione compulsiva del nuovo: più che espropriazione, una de-differenziatezione fra oikos e lavoro, fra amicizia e interesse. Poiché sono working lifes, che transitino davvero alle attività-lavori (Gorz, 1997) e al plusessere riossigenante di un nuovo modello di civiltà socio-organizzato nei mi-cro e mesolivelli, ribaltandone gramscianamente il segno: “dalle vite nelle organizzazioni all’orga-nizzazione delle vite-lavori”. Mettere in trasparenza e rovesciare l’assenteismo dalla turbovita e l’appa-rente invulnerabilità in vulnerabilità feconda, collettivizzando e riumanizzando la non autosufficienza dei soprannumerari logorati dall’ipercompetizione: ce lo chiedono anche formatori, orientatori e consulenti, insoddisfatti (12), ed essi stessi a rischio burnout, cioè il calore eccessivo dell’agitazione da moto brow-niano brucia proprio le freudiane professioni impossibili (formazione, aiuto e comando). La precarietà individualizzata genera mobbing, in-capacità, disagio o disturbi psichici ed esclusione sociale, disfacendo le istituzioni sociali (e viceversa, cioè parliamo della stessa cosa). Un tempo, ad esempio nei distretti indu-striali, il learning era meno problematico perché spontaneo accumulo di senso civico, competenze tecni-che e capitale sociale, sfruttando le reti sociali informali. Ora va sostenuto con servizi personalizzati che riproducano la capacità esaurita e declinino un “noi” (e un “dopo di noi”) nei disordini di seconde vite di invecchiamento attivo o, per i più giovani, nell’ordinare il puzzle delle vite alla giornata.

La formula commoning riduce l’alone economico dello sharing, e stimola gruppi e organizzazioni alla comune capacit-azione, soprattutto nel Terzo Settore, in realtà poco relazionale, all’interno e fra le asso-ciazioni, e poco innovativo nel prodotto e nel processo, perché sussidiarizzato ma finanziato perde le ca-pacità critiche e diventa solo più efficace, efficiente ed economico. Il longlife learning come bene comune assume anche la forma di nuove sociazioni (dialettiche, per Simmel): il settore pubblico da solo non regge volumi così ampi e differenziati di utenza, e il privato o il “faidate” ampliano, per loro natura, i de-terminanti delle disuguaglianze crescenti. La carenza di condivisione in questo campo spinge a una let-tura decommodificata del longlife learning, inalienabile (in senso psicologico) e “messa in sicurezza” postfordista, per analogia col welfare fordista che allievava con soluzioni assicurative/assistenzialistiche i bisogni di salute, reddito e sicurezza. Rispondendo alle paure primarie di morte, solitudine, ignoranza, fame, arbitrio, e contemporaneamente ai desideri di onnipotenza, onniscienza e immortalità. Oggi (fi-nalmente) prevalgono i desideri sulle paure: il longlife learning si fa allora allenatore/attivatore delle ca-pacità desideranti, che solletica e rinvia ai soggetti stessi motivandoli all’automiglioramento. E qui incro-cia il neoliberismo: nei welfare di flexsecurity (13) l’approccio individualistico è addirittura correzione dei recalcitranti all’autoimprenditorialità, biasimo per il sussidiato ozioso, e la redistribuzione è contri-

(10) Mi riferisco ad esempio all’esperienza scandinava dei circoli di studio, autoformazione in piccolo gruppo (cfr. Poliver, 1987). (11) L’ibridazione è tecnica di marketing, per attirare su ciò che sembra una vita migliore, e sparisce il pensiero critico. (12) Posso citare un noto formatore aziendale milanese finito a fare il tassista. (13) Welfare “in salsa scandinava”, dove la fiducia per l’altro generalizzato è tripla rispetto all’Italia (che a sua volta è una media).

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buto alla catena del valore. Dopo la salute e l’assistenza, ecco l’orientamento e il learning faidate, ma la sintesi solidarietà-libertà è monca se manca l’organizzazione sociale.

Nell’iperbolico completo benessere (14) delle augmented life, occorre un contraltare gruppale alla messa al lavoro di sentimenti, cognizioni e emozioni, perché le competenze si accumulano (e si disper-dono) nei territori. Più che promozione e training del cambiamento di stile di vita-lavoro (non man-cano i mercati in cui scegliere palestre di corpi e menti, coach e mentori), che mette in ombra scelte non sempre libere di svilupparsi, è più ragionevole un intervento “alle persone” che aggreghi vite de-gradate, passando da una funzione pubblica a una funzione collettiva (relazionalizzante più che razio-nalizzante) e dall’interesse collettivo all’interesse socio-relazionale. Oggi i servizi sono privati con resi-dui di politiche passive del lavoro. Si chiede lavoro allo “Stato”, che dal mercato del lavoro è uscito perché troppo complesso da governare. I pilastri della coesione UE del 97 sono solidalproduttivisti, li-blab (15), centrati su adattabilità, imprenditorialità, occupabilità, spendibilità delle competenze, a cui è stata aggiunta la qualità della vita locale, ma da noi declinati con schemi giuridici (specializzazione monolavorativa, sportelli aperti in orari incompatibili, poco ospitali, che non si parlano fra loro) inade-guati ad attrarre e abilitare vite-lavori. I progetti, finanziati solo coi fondi comunitari, sono sperimen-tali, e welfare, servizi socio-sanitari e servizi alla formazione e occupazione non sono integrati. Perché non ipotizzare società dei lavori o aziende di longlife learning e occupazione? In questo ambito poi lo scarso riconoscimento degli esodati è umiliante, non rispettoso.

Il disallineamento domanda-servizi incrocia le biopolitiche (Bazzicalupo, 2006) di miglioramento, più o meno smart, gentilmente indotte: comunicare, essere, creare, emozionarsi assumono allora un baumaniano retrogusto amaro di vita “a caccia di qualità” in cui la vita non è tutta “buona” perché il soggetto è più gettato sotto (sub-jectum) che avanti (pro-jectum). Le biopolitiche sono oggetto di microdiscorso: il commoning pare allora il miglior antidoto alle “vite da detective” (sempre solo, tranne nei gialli scandinavi), invase dal lavoro, febbrilmente (perché mai?) attentive, thrilling. L’accelerazione turbocompetitiva dei mercati demand-driven è sismografica: soggettivazione, oggettivazione di vite (commodities del sé) e rapido godimento (consumo) che ricrei il desiderio, in spirali depressione-euforia simili a quelle borsistiche, con una sensazione di non esser pienamente in control, come l’infans (16). Il “papalagi non ha tempo” (17): corpi e abilità sono ottimizzati e produttivi 24 × 7: nei call center hai tre minuti di forza-valore per fissare l’appuntamento. L’urgenza del memento vivi oltre il pieno sconfina col vuoto, perde ponderazione, in una schizofrenica caccia all’inconsueto che ricorda lo stare all’erta come (gruppi) di antenati cacciatori (e difesa dai predatori) nella savana, depotenziando i ritmi omeo-statici ed ecologici dei raccogliori della foresta. Benessere e desideri non hanno la velocità dei mercati e si invertono così di segno, consumandosi in un patologica ansia di arricchire vite-longlife learning, ri-schiose (Beck, 2000), che possono fallire se non arriva la buona mano di carte al lifegame (ludopati-che). Nel “very business of living” (Giddens, 1991) si snaturano le emozioni, commodificate, “uberiz-zate”, trafelate sull’hic et nunc del work life imbalance (18). La polarizzazione fast life-vite vuote, salvati e sommersi, pare superabile solo col commoning, che allarga lo spettro degli interessi a un coping rie-quilibratore più gruppale.

(14) OMS (1948), e dagli anni Ottanta ancora più decisamente sociale (ma dalla protezione alla promozione, non a caso col sorgere del neoliberismo).

(15) Una sintesi complessa fra libertà competitiva (di desiderare, scegliere, svilupparsi e competere) e uguaglianza cooperativa (interesse pubblico a functionings minimi vitali).

(16) Più esattamente la spirale è desiderio ipernarcisista di nuovi mondi di vita potenziati (assedio di opportunità di consumo), rapida scelta e incorporazione/reificazione (accumulazione autosfruttante) in competenze da vendere (capitale umano, capitale sociale), quindi depressione (ma con ridotta elaborazione simbolica perché troppo rapida, non sedimenta il lutto) e innesco di nuovo desiderio.

(17) Il Papalagi è l’uomo bianco di Scheuerman, 1994. O la Regina Rossa di Alice nel Paese delle Meraviglie. “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio cose”, ma affannoso, non pigramente morettiano.

(18) Davvero crinale cruciale, tema che richiama le pari opportunità, le differenze di genere nella salute, il carico dei lavori di cura e dell’oikos mal distribuiti, un turnover troppo rapido di competenze e flessibilità di orario/sede di lavoro che riduce gli investimenti affettivi stabili. Si pone un problema politico centrale, non pienamente compresa, di compatibilità vita-lavori, perché poca formazione è rischio di esclusione sociale.

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Il longlife learning è anche prosumerista: produttori-consumatori che coprogettano e covalutano servizi (cioè se stessi). Tutti critici-attori-registi sociali (19), empresarios, politici, giornalisti e pubblico di debordiani spettacoli socio-economici. Coercizione neotoyotista alla qualità totale, cioè integrazione dei flussi, delegando ai comakers (fornitori, clienti e cittadini) inter-imprenditorialità e capitale orga-nizzativo diffuso, ma non potere (proprietà, strategie, bilanci). Il learning, coprodotto e riflessivo per definizione, ma oggi integrato nei mondi vitali, incassa plusvalenze gratuite: l’accelerazione è la wiki-nomics (Demil, Lecocq, 2006) dei “prosumer alla spina”, pallido germe di nuova solidarietà. Per il pro-sumer il privato è pubblico e struttura biopoliticamente le vite, ma è vero anche il contrario: chi aiuta impara (e rivende), è riflessivamente “doppio del doppio”. Punto dolente (o arricchente) dei servizi: consumo attentivo e cliente iperesigente più l’ambiguità classica servo-padrone (Capranico, 1992).

Sommando tutto ciò, appaiono nuovi dualismi: un “al di là del principio di benessere”, un ap-prendimento con effetto boomerang, una psicopatologia della qualità della vita quotidiana (Lipowe-tsky, 2007), una salute caduceo, che diventa episodi e disturbi da prosumer difettoso e fitness forzato, sia per i disoccupati underload che per gli iperoccupati overload. La clinica segnala come i livelli di di-fesa adattivi si logorino e emergano distorsioni (negazione, proiezione) anche gravi (ipertrofia schi-zoide del senso comune o distacco del typus melancholicus) (Stanghellini, Monti, 2006) e i sé multipli oscillino fra sé grandioso e sé disintegrato, fra controllo e terrore assoluto. Con scarsa cura di sé, errori, decisioni impulsive, sospettosità aggressivo/passiva, surf acting che cela il virtuale, l’autistico e amore/odio per routine e tempi e spazi morti. Essere sempre presenti è desiderio di sottrarsi, l’ipericchezza tracima in desiderio di povertà, surmenage è sousmenage. La vita è vuota se esci dal rea-lity, e ipernarcisismo e juissance cronicamente avide e mortifere tramutano in fantasma minacciante di una vita double face che è mancanza (a benessere), che spiega l’esaurimento della gioia di vivere e la farmacia del benessere (vite artificialmente eccitate o calmate).

In positivo, da tempo (20) osserviamo anche il passaggio dal rifiuto del lavoro salariato (che oggi non c’è), al politeismo multitasking labor-opus, vita passiva-vita attiva, lavoro cioè (anche) come attività life friendly, prima considerate extralavorative. Life-Work Balance, cioè vite nel lavoro come formula più socio-economica che economico-sociale, che valorizza passioni amatoriali, relazioni e competenze e leisure di utilità sociale, ambientale, tecnologico, culturale, artistico-artigianale, agricolo. Volontariato e autoproduzione /autoconsumo, welfare grassroots, “longlife learning by doing”. Vite-studio-lavori (i trattini connettono): si riusano competenze apprese in azienda o studi precedenti in attività (più o meno volontarie, più o meno commodificate, più o meno volute) che sono soprattutto nuovi stili di convivenza. Ad esempio incentivi alle organizzazioni a prestarsi i dipendenti o a utilizzarli per interesse pubblico: svolgere attività che piacciono è interesse di tutti. Forse inquinate esse stesse in torsioni bio-politiche, in un lean reenginnering dei processi vite-lavori: emancipante o nuovo autosfruttamento? E poiché uguaglianza è termine in crisi, non possiamo non citare il dibattito sul basic income, qui da in-tendere come riconoscimento di basic learning e diritto alla scelta di benessere, salute e qualità della vita minima vitale, decente, indipendentemente dal valore prodotto.

3. OFFICINE DI LONGLIFE LEARNING A “TRAZIONE BEN CUM-VIVENZA”. — Occorrono tempi,

luoghi e climi dedicati a seminare (e a raccogliere, citando un autore “autorevole”) e un rallentamento deliberato, ben temperato, del benessere che sostenga la rigenerazione dei functioning esausti, con mo-dalità naturali perché naturale è la socializzazione. Lizze in cui rifiatare dopo i tornei, evoluzione dei centri culturali, biblioteche, agenzie formative, scuole, associazioni di categoria, parti sociali e agenzie di sviluppo locale su belle reti e bei progetti, fatti di Sabati e gruppi di incontro “comunale”, di “luo-

(19) Meglio il cinema o la vita, fu chiesto a Truffaut, il quale rispose: “È come chiedere se vuoi più bene al babbo alla mamma. Mi pare però che l’ultima parola spetti alla vita”.

(20) Mi riferisco al socialismo utopico (William Morris, Babel, Bucharin) o al Marx dell’Ideologia tedesca (“cacciare al mattino, pescare nel pomeriggio, badare al bestiame la sera, fare il critico dopo cena, senza essere competente in nessuna”).

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ghi comuni”. Vedo quattro livelli: il primo è la “sussidiarietà” volontaria (privato sociale, leve civiche, se-nior volunteering/servizio civile generalizzato) che dai nuovi settori (credito, cultura, consumo) esplori il Community care nel longlife learning (21). Dono o munus (che aumenta servizi a pagamento colla-terali). Sostegno leggero di ipermoderne Case del popolo o Società di mutuo soccorso (22) cioè in cui si va anche come occasionali, informali (assistere a piccoli gruppi è formativo, come in un t-group) (23), per co-abitare “reciprocità e fiducia” di vicinato, fraternità (24) nell’altro sufficientemente generalizzato, civismo minimo che si autoalimenta per livelli superiori (come mimesi di interesse ai fatti pubblici).

Se aumenta la reciprocità siamo nello sharing, come strumentazione tecnica, evoluzione delle Ban-che del Tempo (dove tutti siamo solvibili) in Banche della competenza. Se il lavoro è colpa, sharing è espiazione? Nuovi usi civici dove fluidificare densità e sforzo, anche interorganizzativi (dalle partner-ship alla cogestione). “Accomodare” socialmente lo sbilancio vita-lavori scoprendo le complementa-rietà è forma di governance avanzata, come nell’amministrazione condivisa, in cui il cittadino esperto è coprosumer della PA nell’impostare/valutare i servizi, fino ai processi partecipativi applicati al longlife learning, con assistenti sociali, famiglie, orientatori, formatori e ricercatori, nuove agorà dove i giaci-menti di energie e abilità insature rientrano nella sfera pubblica come shareskills.

Più de-biopolitica, a bassa intensità di invasione dei mondi vitali, appare la terza direttrice: l’“autogestione cooperativa” di competenze e servizi, che espande invece la fiducia ed è meno loyalty e più exit (Hirshman, 1970) dall’orizzonte mercato/burocrazia/clan. Circoli di miglioramento, laboratori di mutuo ascolto, circoli del lavoro, della salute e delle competenze (art. 43 Costituzione) come di coo-perazione sociale, che rigruppino la solidarietà. Strumenti di co-living, luoghi privati “ben pubbliciz-zati” (GAS, orti sociali, monete locali) dove esplicitare, esplorare e rielaborare collettivamente resi-stenze e sconfitte, mutuo apprendimento laterale, ascolto e condivisione anche e soprattutto dei più “potuti”, senza creare nuove disuguaglianze. Competizione fair, longlife learning center, sussidiarietà orizzontale che riduca le zone di indifferenza vita-lavoro. Col rischio del corporativo, del locale, di so-luzioni di social innovation in fondo private.

Infine, la sintesi dell’ispessimento di reciprocità e fiducia larghe è l’“autogoverno” collettivo (dalle Comunità di pratiche; Wenger, 1998) alla solidarietà di pratiche, co-ricombinazione critica di saperi, vite e organizzazioni. Nuovi organi e strumenti sociali e organizzativi di companionship, nuovi modelli di rapporti di lavoro, e nuova cittadinanza. Système d’echange local, dove lo scambio è solidale, eudai-monico, compagnonnage generalizzato dove migliorare tutti, common che abbatte le distanze e colonizza il lavoro (25).

Prendiamo ad esempio il co-working. È welfare (bando per finanziare uno spazio pubblico), mutuo-aiuto di prosumer collettivi (chiedi al co-worker), autogoverno (impresa cooperativa per davvero, ge-stita coi cittadini), addomesticazione (condivisione pallida che insegue la propria reputazione per i clienti). E traslazione in forme economiche di bisogni di socialità e solidarietà che in fabbrica o negli uffici erano già dati: ora si paga per avere relazioni e uscire di casa, tutti chini sul proprio pc attenti a non sforare le ore, anzi si sfrutta il vicino. Come del resto si paga un master per essere introdotti (26). È chiaro come, se i mezzi di produzione sono già nelle nostre mani, la dimensione chiave sia la solida-rietà col debole, il passaggio dalla mutua indifferenza al vero mutuoaiuto, liberando l’immaginazione e

(21) Un esempio. studenti di Scienze dell’educazione che hanno fatto i volontari per aiutare i ragazzi in difficoltà a scuola. (22) Nasce con la grande recessione (questa è la nuova). Depressione invece è termine positivo in psicologia. (23) Vedi Bradford et al. (1964) dove parlano i protagonisti della più grande invenzione sociale del secolo scorso. A mio avviso

attualissima proprio in questo contesto che stiamo descrivendo. (24) Parola scomparsa: è vero che i fratelli si odiano, ma sono diversi senza essere uguali, e la convivenza non è empatia funzionale, è

condivisione di vite, si abita e litiga. Oggi la fraternità si allarga ai gruppi secondari e terziari, dove convivono pezzi di vite-lavori. Si è fratelli di avventura, carovane di pionieri.

(25) Adriano Olivetti collegava impresa e comunità: oggi occorre conciliare vite-lavori e communities. (26) Morini (2015). Un ragionamento analogo si potrebbe fare sul co-housing o le vite davvero comuni. O sul lavoro a casa (il corpo è il

nostro stesso guardiano?). O la socializzazione dei Centro sociali, che autogovernano che servizi sociali, formativi, sportivi, culturali e ricreativi.

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l’intelligenza collettiva su come condividere rischi e opportunità e soprattutto come avere tutti la ta-volozza di colori e saperla usare (mentre il benessere è scoprire il colore della vita). Serviranno anima-tori di atelier di community esperti di bridging di benessere sociale (27), di risocializzazione sofisticata, leggera, che rigeneri capacity building con-fluenti, competizione fair, anche ludica, come buffer vitale di mantenimento (Antonowsky, 1987) e, coscienziosità sociale. Se il futuro è ora, il faticoso learning del vulnerabile è il mio domani e aiutando mi aiuto. siamo soci, simili nella precarietà. Dare del tu al disa-gio è benessere del malessere, anzi, se è collettiva è il benessere stesso. Valorizzare le non-indifferenze alle vite altrui è bene comune (motivazione-soddisfazione), che del malessere coglie il germe del benes-sere collettivo, in circuiti virtuosi dalla mala-vita, indegna e irresponsabile alle vite belle perché ben impiegate e riprodotte in salute. Dal fantasma del cliente (in cosa posso essere utile) al vicino di vita (cosa posso fare per te?) la solidarietà non è etica o alta, è semplicemente una via obbligata.

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(27) Com’è accaduto con le competenze di comunicazione in gruppo, ora diffuse. L’orientamento longlife è in questo senso totalmente nuovo.

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Esperto di benessere organizzativo; [email protected] RIASSUNTO: Il diritto/dovere all’orientamento e al longlife learning, nuova competenza di base proclamata ma non

organizzata, se non sotto traccia con pratiche quotidiane di mutuoaiuto, è anche biopolitica di attivazione e stress da perenne adolescenza dei prosumer incitati all’autoproduttività. Accomunare la ricostruzione con-fluente del longlife learning, oltre sus-sidiarietà e sharing in cui questo merit good rimane nella tenaglia pubblico/privato, è qualità emergente della community life, squarcio di futuro nell’organizzarsi ad abitare collettivamente l’interfaccia vite-lavori. Bene comune relazionale (commoning come gerundio, processo che coincide col risultato) di co-vite operose, ma più livellate, che condividono le vulnerabilità e ac-cettano gli hostis. Sostenibile (socialmente) leggerezza dello sviluppo, reincanto dopo il disincanto da benesserismo, post postmoderno del “ben-vivere” di chi co-colora collettivamente gli stili di vita col ben-lavorare e il ben-sentire.

SUMMARY: Vocational orientation and life-long learning are both a duty and a right. They are a new kind of basic

competence, often proclaimed as a right although seldom enforced in the practice. The right to life-long learning is in fact implemented informally, through daily practices of mutual help; it may thus constitute an activating biopolitics as well as a source of stress for its eternally adolescent prosumers, constantly pressured towards self enhancement. Turning life-long learning reconstruction into a common resource, besides the mere application of subsidiarity, is a major achievement of community life, which permits to overcome the stark opposition between public and private. Such a sharing practice opens new future horizon by helping to organise the overlap between life and work. Commoning active lives foster cohesion as well as accept vulnerabilities, thus making for a more hospitable society. A socially bearable lightness of development, re-en-chantment following the disenchantment from the obsession, a “good living” of those who join hands to colour their lifestyles with well-working and well-feeling.

Parole chiave: commoning, longlife learning, biopolitica Keywords: commons, longlife learning, biopolitics