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Antropologia applicata e professionale

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Davide Stocchero

quaderni di antropologia culturale

announonumerouno

INTRECCI

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Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’

Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 153

Davide Stocchero Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ Abstract The article briefly addresses some central questions about applied and professional anthropology in the Italian contest. Starting from the relationship between the identity of the anthropologist and the different academic training available in the Italian university, it then tries to point out some common dilemmas felt by Italian young anthropologist about the social relevance of the discipline, some features of the labour market and the challenge of facing other professional social scientists with different background. After these social and psychological insights, the author tries to open a reflexive path analyzing one of the first article about professional anthropology in Italy, published in 1991. Using the informations emerged, the author suggests some ideas about what professional anthropology would need to flourish in the Italian contest, such as a strong commitment on life long learning and training and a clear analysis and deep evaluation of the labour niches that show good potentials for anthropological engagement in private sector, NGOs, communication, research, health, education. The Italian anthropologists don’t have a basic professional habitus and the formal university training doesn’t help them out to set it in a pragmatic manner. This article is a little move toward a more open and structured debate about professional anthropology in Italy.

Key words Antropologia applicata, antropologia professionale, formazione continua.

Mi è stato chiesto di preparare un documento che riprendesse e ampliasse le discussioni attorno all’applicazione pratica dell’antropologia culturale al di fuori dall’accademia. Queste discussioni, nate nel blog di ‘Intrecci’ e nel forum di ‘Anthropos’, si sono poi sviluppate in diversi luoghi virtuali arrivando a

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toccare molti punti importanti della questione del potenziale lavoro antropologico professionale. È con un po’ di apprensione che affronto tali tematiche. Pare un po’ velleitario farlo di questi tempi: un mondo del lavoro e delle professioni autonome sotto scacco tra precarizzazione e restringimento continuo delle opportunità; un’accademia che vede i corsi di laurea in antropologia culturale eliminati o a rischio eliminazione in diverse prestigiose realtà; i mass media che perpetuano un continuo disinteresse o banalizzazione delle scienze sociali in tutta la sfera pubblica nonostante i repentini cambiamenti in atto a livello nazionale, europeo e internazionale sia dal punto di vista economico e socioculturale richiedano oggi più che mai tale tipo di lettura della realtà. C’è bisogno di parlare di conoscenze e di competenze antropologiche, di percorsi reali per costruirsi una capacità di intervento che sia riconosciuta e pertanto spendibile e retribuibile, di individuare opportunità, di esplorare delle nicchie sapendole poi abitare e far crescere, di continuare a formarsi e specializzarsi dopo la laurea, essendo questa l’inizio e non il termine del proprio percorso di apprendimento. Insomma, anche per i laureati in antropologia culturale arriva il momento di confrontarsi con il mercato del lavoro: cosa si può ragionevolmente fare se non si opta per la roulette accademica, per l’emigrazione o per l’abbandono precoce dell’amata antropologia? Sarà anche velleitario come approccio, ma vale la pena di essere tentato. Quali identità per l’antropologo?

Le lauree triennali e magistrali in antropologia culturale sono di recentissima istituzione nel nostro ordinamento accademico, le ultime arrivate, a distanza di decenni, rispetto a quelle nelle altre

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scienze umane e sociali. È utile ricordare che prima della nascita di lauree specifiche era possibile laurearsi in antropologia culturale sostenendo la tesi con il docente dell’omonima disciplina all’interno dei corsi di laurea in lettere, filosofia, lingue, sociologia o psicologia. Questo portava lo studente a costruirsi una doppia identità formativa che conduceva ad autodescrizioni del tipo ‘sociologo laureato in antropologia culturale’ oppure ‘dottoressa in lettere con indirizzo antropologico’. C’era quindi un corso formativo di un certo tipo, socialmente più riconosciuto, con un’iniezione specifica di antropologia acquisita durante una tesi di laurea che poteva comprendere o meno un periodo di ricerca sul campo. Attualmente questi due percorsi coesistono, nel senso che è possibile sia diventare dottori in antropologia culturale che dottori in qualche altro corso di laurea con un percorso che comprenda al proprio interno ‘dosi’ variabili di antropologia culturale. Questa premessa può essere importante per capire quanto l’identità dell’antropologo culturale nella realtà italiana sia molteplice fin dal percorso accademico. Scopo di questo contributo è fornire degli stimoli per riflettere su cosa si possa utilmente fare con una laurea in antropologia culturale in tasca, sia essa pura (triennale o quinquennale) o spuria (percorso di tesi innestato su altro corso di laurea). I due percorsi sono ovviamente diversi e peculiari, oltre ad avere una diversa serie di punti di forza e di debolezza quando, una volta conclusi, ci si avvicini al mondo del lavoro. In poche parole, perché la loro analisi richiederebbe un articolo dedicato, il percorso puro permette di acquisire una conoscenza dell’antropologia molto ampia e approfondita, mentre lo spurio è spesso settoriale e disomogeneo. Inoltre, il percorso puro spesso permette esperienze concrete di ricerca etnografica, mentre quello spurio prende spesso forma in termini di analisi concettuale o

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bibliografica, restando povero dal punto di vista metodologico e esperienziale. D’altro canto, la prima opzione rischia di creare maggior disorientamento perché l’antropologia culturale non è ancora una disciplina ‘da mercato del lavoro’, mentre il percorso spurio, grazie all’interazione tra la formazione di base e quella antropologica, può favore l’emergere di un profilo professionale più spendibile (penso soprattutto a lingue e antropologia, o psicologia e antropologia). In realtà, esisterebbe una altro possibile percorso, quello della triennale diversa è la specialistica in antropologia, soluzione a mio parere veramente interessante che potenzia alcune caratteristiche della laurea spuria senza perdere i vantaggi di quella pura. Resta il fatto che riflettere a fondo su quale sia stato il proprio percorso di studio, e imparare a costruire una traiettoria ottimale per i propri interessi e idealità lavorative è uno dei passaggi più delicati e fondamentali da cui discendono conseguenze per gran pare della carriera lavorativa. Partire con il piede giusto, in questo come i molti altri ambiti, è fondamentale per ottimizzare l’investimento in istruzione.

Un altro aspetto al centro del dibattito è quanta enfasi valga la pena di mettere sulla parola ‘antropologia’ una volta che si decida di operare mercato del lavoro. Una parte degli antropologi propone comunque di contraddistinguersi con questo termine, visto che è la disciplina propria all’interno della quale ci si muove, mentre altri tendono a smorzare l’impatto di questo termine decisamente impegnativo, vago e sconosciuto limitandosi a spiegare che si offrono servizi di ricerca, analisi o consulenza provenendo da una formazione ‘antropologica’, magari integrandola con altre conoscenze in ottica interdisplinare. Ognuno gestisce la propria identità come meglio crede, ma penso che gli appartenenti alla seconda categoria abbiano qualche argomento in più per validare la propria tesi

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rispetto ai primi. I dilemmi del laureato in antropologia culturale.

Quanto verrà qui abbozzato scaturisce da ormai un decennio di discussioni nella comunità di Anthropos, gestita dal network di Antrocom, e dal confronto con un buon numero di laureati in antropologia culturale che si affacciavano al mondo del lavoro una volta laureati, accantonate definitivamente le opzioni che più facilmente vengono alla mente, ossia il proseguire gli studi tentando di iniziare un dottorato o emigrare in cerca di miglior antropologia e miglior fortuna. Accantonate queste prospettive, non resta che fare seriamente i conti con cosa si possa fare con una laurea in antropologia in Italia.

Una delle frustrazioni principali è quella che emerge dal contrasto tra la passione che si è profusa negli studi e la completa assenza di posizioni lavorative pensate ad hoc per gli antropologi. A cosa è servita, e a cosa serve, la mia genuina passione per questa disciplina se nessuno è in grado di riconoscerla e valorizzarla? Non esistono posizioni aperte per ‘antropologi culturali’ in Italia. Il mercato del lavoro non conosce la categoria, un po’ come l’anagrafe italiano non contempla alcune professioni da inserire nel campo ‘professione’ nel documento di identità. È con notevole sgomento che si apprende, l’indomani della laurea per alcuni, ma già durante gli studi per molti altri, che in quanto antropologi non si sarà mai cercati da nessuno. Non è una formazione socialmente rilevata perché non è, al momento, percepita come socialmente rilevante. Il termine stesso circola pochissimo sui media, non è una parola semanticamente presente per il pubblico e per la società civile, nemmeno per quella istruita. Ciò è un dato. La divulgazione mira a modificare questo stato di cose, con beneficio di tutti, ma i tempi sono

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lunghi. Un'altra enorme frustrazione nasce dal confronto tra ciò che

l’antropologo culturale potrebbe portare per favorire la comprensione e valorizzazione delle persone nelle nostre società (immigrazioni, globalizzazione, politiche pubbliche, mediazione, conflitti, contatti fra culture, ecc.) e la realtà delle proprie attività concrete. D’altro canto, l’ampiezza e la dispersività del sapere antropologico è spesso visto come un ostacolo alla focalizzazione verso opzioni professionali che conducano verso una expertise spendibile sul mercato del lavoro. La forma di conoscenza macroscopica e olistica propria dell’antropologia culturale è fortemente distonica rispetto a un mercato del lavoro parcellizzato, iperspecializzato e decisamente asfittico, con un grave ritardo nello sviluppo del settore terziario e quaternario.

Un’ulteriore frustrazione emerge dal vedere come laureati in altre discipline, o personale nemmeno adeguatamente formato, lavorino in contesti dove l’antropologo porterebbe un grande valore aggiunto e potrebbe muoversi in maniera appropriata e professionale. L’ambito delle scienze umane e sociali è molto variegato e non è facile definire in maniera chiara chi sia adeguatamente abilitato a fare cosa. Ancora, mancano dispositivi formativi che aiutino a costruirsi un profilo professionale che incoraggi all’applicazione dell’antropologia nel mondo reale. I corsi essenzialmente teorici impartiti all’università aiutano a formarsi una mentalità antropologica che dà il meglio di sé nel assimilare contenuti attraverso lo studio di testi e renderli nuovamente sotto forma orale agli esami. Al mondo del lavoro queste abilità, seppur importanti, interessano solo in parte perché non aiutano di per sé a creare valore aggiunto a ciò che si può offrire al mondo. Mancano, ad esempio, tirocini istituzionali dedicati, momenti potenzialmente preziosi per mediare tra

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accademia e attività lavorativa Visto questo stato di cose, sarebbe opportuno attivarsi affinché gli studenti e i laureati in antropologia potessero beneficiare di un percorso di orientamento scolastico e professionale che integri un momento informativo (corsi disponibili, percorsi formativi peculiari, spendibilità dei titoli, condizioni del mercato del lavoro e previsioni, profili professionali realistici) ad un momento di autoformazione e autovalutazione attraverso gli strumenti del colloquio d’orientamento e del bilancio di competenze. Dovrebbe essere un compito delle istituzioni ma non è colto nella sua importanza. Può essere un’opportunità per dei servizi del terzo settore che vogliano sostenere l’inserimento lavorativo dei laureati in discipline culturali. Archeologia delle fonti scritte: cosa è successo nel 1991?

Nell’aprile 1991 la rivista La Ricerca Folklorica ha pubblicato un numero monografico intitolato “Professione antropologo”e che riporta al proprio interno un contributo intitolato “La domanda sociale di competenze antropologiche nei settori pubblico e privato”. Si tratta di una sessione di lavoro con relazioni e interventi provenienti dalle due metà del cielo: da un lato i rappresentanti del mondo imprenditoriale e socioculturale (CONFAPI – Confederazione nazionale piccole e media industrie, Confindustria, Confederazione italiana coltivatori, Museo nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, Ufficio cultura del Mondo Popolare della Regione Lombardia, Cooperativa antropologi di Napoli, e altri ) e dall’altro il mondo accademico (tra gli altri Maria Laura Bonin di Trento, Vanessa Maher di Torino, e altri). Cercherò di analizzare alcune parti che trovo salienti, consigliandone poi la lettura integrale a chiunque sia interessato alla storia del dibattito dell’antropologia applicata e

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professionale in Italia. Farò una sorta di esegesi, sperando di non risultare noioso né banale, perché trovo questo documento veramente rivelatore di ciò che costituisce la base, il nucleo profondo, della condizione dell’antropologia applicata in Italia.

Già il titolo contiene informazioni molto utili per le nostre riflessioni. Innanzitutto, si parla di “domanda sociale”. Questo vuol dire che si fa propria la logica di un sistema di mercato, ossia di ‘domanda’ e ‘offerta’. Senza qualcuno a cui interessi ciò che abbiamo da offrire in quanto antropologi non esiste possibilità di entrare nel circuito sociale. Per domanda si intende quindi l’azione di una o più persone che attivamente richiedono una risposta per placare un bisogno, una necessità, risolvere un problema. Penso che affrontare la questione della ‘domanda di antropologia culturale’ sia centrale perché ciò ha ricadute enormi sulla struttura della professione stessa. Questione legittima e urgente, quindi, anche se la sede dell’elaborazione delle risposte difficilmente sarà l’accademia. Lo sarà forse il web, questo e altri giornali, associazioni e reti di colleghi che attraverso l’operatività quotidiana creano le condizioni per far nascere qualcosa di nuovo dal versante professionale.

Il titolo prosegue con “competenze antropologiche”. Si presume che questo termine si riferisca a ciò che viene trasferito all’interno di un corso di laurea in antropologia. Uno studente si iscrive al rispettivo corso perché vuole diventare competente in quella disciplina, e sarà questa competenza che gli garantirà quel capitale cognitivo e creativo per svolgere attività e prestazioni remunerate dalla società perché utili a soddisfare certi bisogni. Ma di che competenze antropologiche parliamo? Spesso le competenze, ciò che so fare e realizzare concretamente, vengono schiacciate dalle cosiddette “conoscenze antropologiche”, ossia informazioni organizzate inerenti diversi ambiti del reale. Le

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conoscenze si acquisiscono, si immagazzinano e si restituiscono principalmente per via linguistica, orale e scritta. Ciò produce oratori e scrittori, che è ciò che l’accademia richiede per perpetuare se stessa: persone che trasmettano la disciplina e contribuiscano alla conoscenza pura realizzando ricerche e scrivendo saggi e articoli. Questi sono i bisogni dell’accademia, e chi segue quel percorso formativo diventerà un produttore e trasmettitore di conoscenza antropologica. Riflettere a fondo sul rapporto fra conoscenze e competenze antropologiche è urgente perché è il cuore della costruzione di una identità professionale solida. Su quali competenze professionali può contare un laureato in antropologia? Se la professione è ancora in gran parte da inventare, codificare e testare sul campo, è difficile che le competenze siano già disponibili, codificate e pronte. Saranno presumibilmente incerte, abbozzate, in fase di test e di confronto con altre. Servirà un lavoro a ritroso: a partire dalla domanda della società, che va fatta emergere, occorre comprendere le risorse dell’antropologia culturale scavando nella sua storia e nella sua attualità fino ad acquisire le competenze tali per rispondere ai bisogni stessi. È un percorso riflessivo e operativo che richiede tempo, e che in gran parte sarà simile a quanto fatto da altre professioni imperniate sulle scienze umane e sociali.

Il titolo conclude con “settori pubblico e privato”. La loro unione rappresenta la totalità della platea che può chiedere agli antropologi di soddisfare i propri bisogni tramite l’utilizzo di competenze antropologiche. Le logiche organizzative, politiche e economiche del pubblico e del privato differiscono, almeno ai miei occhi, in maniera radicale. Ciò che è più importante è che le prestazioni verso il pubblico sono remunerate con risorse provenienti dalla fiscalità generale nazionale, e quindi devono essere potenzialmente di interesse ampio, pubblico, di orientamento generale, ‘antropologico’ per definizione, diciamo.

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D’altro canto, lo spazio privato apre diverse possibilità di intervento in quando è potenzialmente infinito il grado di creatività e di particolarità sia della domanda che dell’offerta perché essa si basa su contrattazione privata tra le parti, senza necessità di interventi burocratici, valutazioni politiche e di opportunità elettorali. L’antropologia culturale è una sapere profondamente contestuale e credo che il contesto ‘pubblico’ e quello ‘privato’ differiscano a tal punto da portare alla costituzione di due antropologie applicate diverse e spesso scarsamente correlabili. Ciò non toglie che sia stimolante misurarsi con entrambi i contesti, avendo ben chiare in mente le loro peculiarità. Il percorso che traccerò all’interno del documento è ovviamente personale e dettato da ciò che colpisce me oggi, tenendo conto delle mie esperienze passate e presenti. Invito nuovamente tutti gli interessati a procurarsi il documento e realizzare la propria personale lettura e conseguenti riflessioni. Presenterò prima un breve riassunto dell’intervento e in seguito alcune brevi riflessioni spontanee.

Lanfranco di Mario, di CONFAPI, ritiene che le piccole e medie industrie siano direttamente coinvolte nella discussione della professionalità dell’antropologo. Lamenta la carenza di una funzione pubblica che non supporta le PMI nello stare al passo con l’evoluzione velocissima dei processi produttivi, con le dinamiche della globalizzazione e con la necessità di stare sul mercato in maniera competitiva. La piccola impresa spesso non ha capacità culturale per comprendere l’evoluzione del mercato e quindi le competenze dell’antropologo potrebbero essere utili. Lamenta le carenze dell’istruzione pubblica e della formazione aziendale e conclude dicendo che le valutazioni sulla professionalità dell’antropologo non si risolveranno parlandone, ma solo vedendo i risultati concreti degli antropologi all’opera.

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Di Mario porta l’attenzione sulle piccole e medie imprese italiane, l’ossatura del nostro sistema produttivo. L’internazionalizzazione delle PMI è sicuramente uno scenario che vede potenzialmente l’antropologia culturale come sapere strategico che possa mediare nei processi economici tra il tessuto economico italiano e quello di altri paesi e intere aree in rapido sviluppo (Est Europa, India, Cina e numerose realtà africane). D’altro canto, credo che in Italia, nel 1991, non esistesse nessun antropologo qui formatosi in grado di predisporre un piano di consulenza aziendale per PMI. L’intervento è piuttosto vago ma evocativo, prospettando una collaborazione possibile tra aziende, imprenditori e antropologi culturali.

Aldo Giuliano, di Confindustria, si rifà subito alla business anthropology americana, e in particolare alle ricerche di business ethnography svolti al PARC della Xerox, che volevano capire ‘come si lavora negli uffici’. L’antropologia può dare un contributo nei processi di cambiamento culturale o di trasferimento o unificazione di culture diverse e preesistenti. Ritiene che al centro del mondo economico stiano la conoscenza e le nuove tecnologie della comunicazione e che il ruolo dell’innovazione tecnologica sia il motore dell’evoluzione sociale. Servono persone che sappiano governare il cambiamento e la tecnologia con l’obiettivo di migliorare la vita di tutti. Ritiene che l’antropologo non abbia minori competenze di altri professionisti che lavorano nella pubblicità, nell’analisi dei comportamenti di consumo, nella comunicazione e nella sponsorizzazione culturale. Anche se l’antropologo si forma nella società ‘primitive’, esso acquisisce strumenti che possono essere ben utilizzate nell’impresa. In particolare, i problemi dell’impresa che l’antropologo potrebbe affrontare sono quelli legati alla cultura aziendale, ai modelli di comunicazione e alla resistenza all’innovazione. La ragione dell’antropologo in azienda è quello

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di capire la cultura aziendale, capacità che non hanno né gli imprenditori né i consulenti. Cita Olivetti, Apple, IBM. L’antropologo potrebbe essere al fianco della aziende con le proprie analisi per favorire processi di cambiamento, di fusione, di delocalizzazione, di privatizzazione o statalizzazione. Ma allora, se esiste tutto questo potenziale di incontro proficuo, perché le aziende non chiamano gli antropologi? Giuliano risponde “A mio avviso, non è l’azienda che ignora l’antropologo, ma è questi che ignora l’azienda, ignorandone i problemi, la realtà”.

L’intervento di Giuliano è spesso preso a modello, tra i partecipanti, per la capacità di stimolare in maniera appropriata il dibattito fornendo buoni spunti. Lo stile e la competenza è decisamente da Ufficio Studi, così come l’aggiornamento sulle pratiche di ricerca internazionali in ambito antropologico/manageriale. Il concetto di ‘cultura aziendale’ è stato un punto di svolta per gli studi sull’impresa in ambito anglosassone, ma pare che in Italia questo concetto non sia mai stato preso sul serio. Non lo era allora come non lo è oggi. L’antropologia culturale italiana non ha mai visto nemmeno lontanamente come proprio oggetto di studio il mondo dell’impresa. Come conclude Giuliano, le imprese sentono di aver potenzialmente bisogno di antropologia ma non chiamano gli antropologi perché per prime sanno che gli antropologi, di impresa, non sanno nulla, e quindi non potranno mai rispondere ai loro bisogni. Come si cambia tale stato di cose, secondo Giuliano? Aprendo la mente degli antropologi stessi, inserendo tesi di laurea aziendali, tenendo corsi adeguati, facendo orientamento verso temi di ricerca innovativi e agganciati all’antropologia culturale internazionale.

Maria Laura Bonin, antropologa a Trento, ritiene che esista

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uno spazio per gli antropologi nelle aziende, lavorando lei stessa nel mondo della moda. Dice

[…] penso che il giorno in cui nascerà una generazione di studiosi disposta ad occupare questo spazio ne sarò contenta, perché non sarò più sola a portare avanti questo tipo di collaborazione considerata peccaminosa.

Sostiene che gli antropologi, occupandosi di miti, potrebbero indagare quelli aziendali e del mondo della produzione e del consumo di oggetti, cercando di scoprire come le persone attribuiscono loro un significato. Attività questa sicuramente molto lontana dalla ricerca teorica che si svolge tradizionalmente in accademia.

Intervento tanto breve quando denso da parte di una delle poche antropologhe che aveva il coraggio di lavorare con le aziende, una ‘peccatrice’ secondo molti colleghi ben più puri e ortodossi. Il mondo della moda, eccellenza italiana, è una possibilità di grande interesse per l’antropologia applicata perché intreccia questioni di gusto, di design, di rapporto tra cultura e stile, di collezioni etniche, di globalizzazione e codici comunicativi.

Marisa Iori interviene in qualità di operatore museale a Roma. Lamenta il misconoscimento della professionalità tecnica dell’antropologo e i limiti della formazione antropologica universitaria rispetto al lavoro pubblico:

gli strumenti conoscitivi elaborati nella nostra area di studi non producono infatti competenze immediatamente impiegabili sul mercato del lavoro pubblico, la cui complessità è data proprio dalla necessaria e non sempre risolta integrazione dialettica dell’aspetto teorico-scientifico con quello amministrativo-istituzionale.

È strettissimo il rapporto tra riconoscimento della professione

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e qualità della formazione. È impossibile al giorno d’oggi proporsi come professionisti sul mercato senza una formazione solida e approfondita a livello universitario unita a una formazione applicata che continui lungo tutta la vita attiva. Ritroviamo poi il rapporto tra strumenti conoscitivi e competenze impiegabili, altra chiave di volta da sviluppare e chiarire prima di poter pensare a qualsiasi strutturazione professionale dell’antropologia culturale.

Bruno Pianta, operatore culturale della regione Lombardia, spiega che nel territorio in cui opera non si parla mai di antropologia anche se c’è una notevole richiesta di psicologi, esperti di gruppi, fotografi, esperti di audiovisivi, ecc. C’è pertanto una concorrenza notevole nel settore culturale tra gli antropologi e altre figure ben più abituate a muoversi nel mercato del lavoro. Gli antropologi rischiano di trovarsi disarmati. Sottolinea che negli interventi di Giuliano e Bonin bastava cambiare qualche termine e i loro discorsi potevano valere per psicologi, sociologi, grafici, artisti…gli antropologi dovranno lottare “con il coltello” contro altre competenze ben più agguerrite. Non esiste nessun Eldorado. Dice che in Lombardia manca una tradizione antropologica accademica e i funzionari pubblici ignorano del tutto cosa essa sia. Non esistevano corsi di antropologia, nemmeno clandestini. Non è un discorso di scarsa credibilità dell’antropologo, in Lombardia l’antropologo non esiste proprio. Accennando alla struttura della macchina pubblica, rileva il fatto che è il politico a decidere se approvare un progetto o meno, e che il funzionario può solamente spingere e incoraggiare. A decidere è sempre l’apparato amministrativo-legislativo, non quello funzionale.

Intervento denso e opportuno, tocca temi centrali per la professione. L’antropologia è talmente ampia che moltissime

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operazioni che legittimamente potrebbero rientrare nel suo dominio sono svolte da persone con altre formazioni, spesso in maniera più efficace e strutturata perché già preparati, fin dall’università, ad applicare le proprie conoscenze. È il caso degli psicologi sociali e culturali, degli educatori e dei formatori, dei sociologi spesso ottimi etnografi e metodologicamente ben attrezzati, esperti di turismo, progettisti sociali, di consulenti di varia estrazione che, da autodidatti, giungono a offrire servizi culturalmente sensibili senza aver mai frequentato un corso di antropologia. Tutte queste persone non sono antropologi, ma intercettano ampie fette di bisogno d’antropologia e lo soddisfano. È molto difficile individuare degli ‘atti tipici’ della professione antropologica, e forse non è nemmeno così utile in questa fase preliminare di analisi. Inevitabile però che l’identità e la riconoscibilità sociale sia assente. Il fattore competizione con altri e della competitività della propria preparazione è quindi centrale.

Duccio Canestrini, redattore di Airone, porta il discorso dell’antropologia sul piano della divulgazione e del giornalismo. Lamenta la presenza di luoghi comuni e di approssimazione nel settore delle tradizioni popolari e dell’etnologia nelle riviste di viaggi e di culture. Consiglia di formarsi in maniera approfondita e poi dedicarsi ad esempio alla cronaca estera, come antropologi-reporter, producendo materiali di vario genere dai luoghi più diversi del mondo. Altra prospettiva quella di dedicarsi al giornalismo d’inchiesta rivolto a tematiche antropologiche, al cambiamento sociale, alle minoranze etniche, al mondo dell’arte e dello spettacolo. Secondo Canestrini è compito dell’antropologo rimanere equilibrato tra le diverse forze che da un lato spingono verso l’esotismo, che tutto appiattisce, e dall’altro verso il ‘bingobonghismo’, che tratta tutti gli altri come primitivi.

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Canestrini autorevolmente muove dal proprio settore di attività portando dei consigli pratici a chi, provvisto di una formazione antropologica, voglia intraprendere la via del giornalismo e della divulgazione di alto livello. Conoscenza approfondita di ciò di cui si parla, capacità di critica e sguardo sveglio sulla realtà sono gli ingredienti base per contribuire ad alzare il livello medio della pubblicistica etnologica e di viaggio. L’antropologia culturale applicata e professionale vent’anni dopo. Cosa è cambiato?

Rispetto al periodo di pubblicazione dell’articolo appena analizzato sono cambiate molte cose sia nell’antropologia italiana che nel mondo, mentre altre sembrano rimaste inalterate. Nel primo ambito inserirei sicuramente la nascita di corsi di laurea dedicati interamente all’antropologia culturale, che garantiscono una preparazione più ampia, approfondita e solida. Metterei la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che impattano radicalmente sugli stili di vita, sulle possibilità formative e informative, sulle dinamiche sociopolitiche e economiche. Oggigiorno l’antropologia culturale non può prescindere dall’evoluzione di internet e delle reti comunicative globali che creano spinte di trasformazione culturale straordinarie. Tra queste, emerge con sempre maggior forza l’uso delle tecnologie per la produzione e la diffusione dell’antropologia stessa, che vede forum, blog, social network e riviste open access come vettori principali per far uscire il sapere antropologico dalle torre d’avorio accademica, permettendogli contaminazioni, collaborazioni e confronti decisamente vitali in un contesto altrimenti piuttosto tradizionalista e asfittico.

Tra le cose inalterate rispetto agli interventi direi sicuramente

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il profondo disinteresse, nemmeno dissimulato, dell’accademia per qualsiasi prospettiva applicativa concreta dell’antropologia culturale. Tra le righe del documento analizzato emerge una chiara incomunicabilità tra il mondo produttivo e sociale e i rappresentanti della disciplina. Trapela l’imbarazzo reciproco, il non detto soverchia chiaramente il detto, in una danza statica che mirava probabilmente a far terminare il prima possibile quell’incontro tra persone che, di fatto, non hanno nulla da dirsi salvo frasi di circostanza per salvare la faccia senza compromettersi nel rispettivo ambiente di attività. Il mondo del lavoro, la realtà dell’impresa, le possibilità consulenziali, la dinamica domanda-offerta applicata alla conoscenza e alle competenze nelle scienze umane semplicemente non sono conosciute né comprese all’interno della logica dell’accademia così come è concepita in Italia. Non solo gli antropologi italiani, nella gran maggioranza, ignorano il versante applicato della loro disciplina, ne ignorano gli sviluppi internazionali e la storia creata dai practitioner statunitensi, ne ignorano le potenzialità ma, soprattutto, non ritengono sia di loro competenza. Chiedendo informazioni riguardo alle applicazioni pratiche del sapere antropologico agli antropologi italiani si ottiene, e parlo per esperienze personali, una espressione del viso che comunica chiaramente il seguente pensiero: ‘perché chiede a me queste cose?’. Non mi sembrava che ci stessero pensando ma non trovassero risposte, non è che ignorassero e lo ammettessero (non ci sarebbe nulla di male, non si può sapere tutto); pareva che la loro coscienza intellettuale non possedesse la categoria, non disponesse della possibilità, non com-prendesse la domanda. Potrei sbagliarmi, ma la sensazione è stata chiara. L’unica prospettiva antropologica applicata che esiste in Italia è quel poco nato attorno all’antropologia dello sviluppo nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, che conta qualche cultore che ha

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concretizzato collaborazioni con qualche organismo internazionale come la FAO, la Banca Mondiale o qualche importante ONG soprattutto in temi di sviluppo agricolo e rurale. Il resto, e parlo di un mondo intero di conoscenze, pratiche, decenni di sperimentazioni internazionali nelle dinamiche culturali aziendali, di progettazione sociale, culturale e urbana innovativa, di gestione di risorse ambientali, turistiche, di ricerche applicati in settori militari, spaziali, di intelligence, nelle nuove tecnologie, nel counseling, nell’antropologia medica, nella formazione, nel management interculturale, non c’è praticamente traccia. Mentre l’antropologia applicata e professionale mondiale provava, certo con fatica, ad evolvere, in Italia tutti si fissavano l’ombelico ben soddisfatti della loro produzione intellettuale, evitando accuratamente di sporcarsi le mani, e di macchiarsi la carriera, con progetti nel settore applicato. Formazione continua, unica soluzione.

Le attività applicate e professionali in generale necessitano di una certa specializzazione settoriale. È molto improbabile riuscire a operare come antropologi limitandosi alle conoscenze e alle competenze acquisite durante il corso di laurea. Questo non succede ormai per nessuna disciplina professionalizzante, dove la life long learning è diventata la regola per riuscire prima ad entrare, e poi rimanere, nel mercato del lavoro. Se a questo uniamo il fatto che all’iter formativo in antropologia culturale mancano alcune conoscenze e competenze di base per poter cominciare a operare professionalmente, si capisce come la laurea sia solo il primo passo di una lunga camminata per aspirare a diventare dei professionisti dell’antropologia che

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possano garantire servizi di qualità. Come per altre formazioni, occorre effettuare una svolta pratica. Sapere che per fare ricerca occorre scrivere un progetto non significa saperlo fare. Sapere le fasi di una ricerca etnografica non significa saperla realizzare. Ed è questa la differenza fra il sapere e il saper fare. Finché gli esami di profitto accademici (cioè di livello delle conoscenze) saranno a crocette o domande aperte si sforneranno molti laureati capacissimi di compilarli, con l’unico inconveniente che nessuno nel mondo del lavoro ti darà un incarico retribuito che consista nel rispondere a domande aperte. È per questo motivo che la formazione applicata viene spesso demandata alla fase post-lauream, dove sulla base delle conoscenze già acquisite si cominciano ad innestare e sviluppare competenze specialistiche legate al fare concreto attraverso la propria disciplina. Si cominciano a fare sessioni di etnografia, a scrivere progetti realistici con metodi realmente adottati nel mondo del lavoro, si opera in gruppo, si scrivono report come un ipotetico committente li vorrebbe probabilmente vedere, visto che la tesi di laurea come la commissione la vuol vedere si è già scritta una o due volte. Si acquisiscono nuovi linguaggi, si accede ad altra bibliografia, ci si confronta con problemi che emergono dalla realtà sociale aperta e non da qualche dipartimento universitario. In pratica, si comincia ad esplorare l’altra metà del cielo, quello dove ai problemi occorre portare una evoluzione concreta, non una disquisizione teorica. L’idea è che unendo le due metà del cielo, la teorica in una prima fase, la pratica in una seconda, si ottenga poi un professionista a tutto tondo capace di muoversi in autonomia e con competenza in diversi scenari professionali. Per iniziare questo percorso, lungo e non facile, esistono una serie di corsi di perfezionamento, master, scuole private e ambienti di vario tipo che vanno scelti in base ai propri interessi e competenze da acquisire e che sono un passo ormai obbligato per

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costruirsi un profilo antropologico più spendibile sul mercato del lavoro non tanto in quanto tale (alla fine domanda di antropologia ce n’è pochissima) ma in quando capace, questo corso, di mettere nelle condizioni di produrre qualcosa che il mercato veda come utile, e quindi degno di essere retribuito. Sarà banale da ripetere, ma il mercato del lavoro cerca sempre meno titoli e sempre più capacità e abilità, spesso trasversali ai corsi di studi. Sarà sempre meno importante il portafoglio titoli e sempre più rilevanti il portafoglio competenze, il valore aggiunto che si saprà portare per far crescere il settore dove si opera.

Questo appena tratteggiato è un percorso di natura formale che si impernia sull’università e su altri corsi erogati da altre scuole o centri formativi. Esiste però un altro tipo di traiettoria, a mio parere in molte condizioni è da privilegiare per diversi motivi, che definirei di tipo autodidattico. Con questo termine si intenda l’attivazione delle risorse personali per costruirsi un capitale di esperienze pratiche, competenze e conoscenze in modo peculiare a seconda delle variabili tempo, impegno, interesse, occasione e obiettivi. In altre parole, è il formarsi in autonomia e in relazione ai vari contesti di apprendimento in vista di un obiettivo che evolve con il tempo. È un metodo di formazione molto adatto se si vogliono affrontare ambiti nuovi e quindi incerti e in rapido cambiamento, oppure se si punta ad avvicinarsi a settori di nicchia per i quali non sono previsti percorsi istituzionali o, ancora e soprattutto, se mal si tollera, per questioni caratteriali o economiche, la prolungata permanenza all’interno del sistema formativo istituzionale.

Sostanzialmente, una volta acquisita una preparazione teorica di base, triennale o quinquennale, si comincia a muoversi con iniziativa personale appoggiandosi a risorse diverse dalle agenzie formative. L’antropologia culturale, come altre arti,

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pratiche creative, discipline di confine e mondi professionali è probabilmente uno dei campi d’elezione per l’autodidattica. In alcuni ambiti è addirittura necessario essere autodidatti, perché l’antropologia culturale italiana contempla ad oggi un numero molto ristretto di ‘interessi disciplinari’ rispetto al resto del mondo. Semplicemente, in interi ambiti di esperienza l’antropologia culturale non è ancora arrivata con le sue analisi e riflessioni. Ciò non toglie che siano campi di grande interesse, e spesso i più innovativi e lavorativamente promettenti. Fondamentale per attivare un processo autodidattico è la capacità di movimento personale, la curiosità, la voglia di esplorare e di connettere esperienze diverse per formare un bagaglio di conoscenze e competenze ampio, strutturato e originale. In un mondo dove i titoli di studio sono sempre più rapidamente obsoleti e le richieste del mercato del lavoro sempre più varie, schizofreniche e peculiari, aver intrapreso questa strada, sicuramente faticosa e incerta, può riservare delle sorprese positive in termini di impiegabilità e richiesta professionale. Inutile dire che il percorso autoformativo non si può imporre, in quando emerge dallo studente che si trasforma in studioso autonomo intento a costruirsi le possibilità stesse del proprio apprendere. È tipico di chi decide per questo scenario formativo la capacità di far interagire l’antropologia culturale con altre discipline anche lontane, l’aver fatto esperienze pratiche consistenti, ad esempio, nel terzo settore, in imprese di vario tipo, l’aver sviluppato un ‘curriculum nascosto’ in occasioni di attività extrascolastiche, in viaggi di vario tipo, sfruttando condizioni educative particolari, ecc. Spesso il percorso passa dalla pratica alla teoria, cioè mira a ricostruire le basi teoriche e metodologiche a posteriori rispetto a quanto appreso sul campo in un primo momento.

Per un percorso professionale in antropologia culturale può

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essere quindi importante più il proprio curriculum vitae (l’esperienza globale di vita) piuttosto che quello studiorum, che invece è vincolante per molte altre professioni più standardizzate. Le competenze richieste ad un antropologo culturale, in qualsiasi ambito lavori, sono tanto di natura cognitiva che di natura relazionale (soft skills), in quanto egli è spesso impiegato in contesti umani ad alta complessità e in condizioni di disagio o trasformazione. L’università non forma in alcun modo le risorse empatiche, relazionali e umane, che vanno pertanto forgiate in contesti opportuni e possono rivelarsi una ingrediente necessario per mettere in campo un agire professionale di qualità. Antropologia culturale applicata e professionale: quali possibilità?

Come abbiamo già visto, grande è l’eterogeneità sotto il cielo antropologico. C’è chi comincia a fare esperienza sul campo da volontario fin dalla triennale, che acquisisce competenze trasversali in contesti extra-accademici, come lavorare in associazioni, fare assistenza ai disabili, attività di animatore, lavori serali e nei fine settimana per mantenersi agli studi e vedere da dentro il mondo del lavoro, riesce a prendere parte come uditore alle situazioni più diverse – ONG, gruppi di auto-aiuto, consigli comunali. La capacità di movimento degli studenti di antropologia è veramente notevole, stando alle storie che mi è capitato di sentire e alle persone incontrate, sia realmente che virtualmente. Inutile dire che chi fa queste scelte ha poi una marcia in più una volta finito il corso di studi rispetto a chi ha, legittimamente, scelto di dedicarsi esclusivamente alla preparazione teorica.

L’esperienza diretta sul campo, in qualsiasi attività, purché

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fatta da apprendista antropologo ha dei risvolti formativi eccezionali: innanzitutto addestra precocemente a confrontare la teoria con la realtà, il funzionamento sociale e culturale descritto nei libri con il fluire della vita sociale reale. Quanto ci si rende conto che il proprio oggetto di studio e di lavoro sarà la seconda di queste, una ‘folgorazione preoccupata’ è ciò che si prova. Ancora, si impara a gestire la propria inadeguatezza nello spiegare perché si è lì, cosa si studia e la connessione tra le due cose: chiunque l’abbia fatto, sa che non è immediato. E nella professione di antropologo applicato capiterà sempre: saper presentarsi e spiegare in poche parole comprensibili ciò che si vuol fare credo sia il cinquanta per cento della professionalità. Farlo, è l’altro cinquanta. Poi, entrando in un settore particolare si verifica se si ha reale interesse per quell’ambito di attività, per quello spaccato di realtà: ecologia? Comunicazione? Formazione? Salute? Immigrazione? Aziende? Musei? Se non ho mai sperimentato nessuna situazione, non posso sapere cosa mi piace, posso solo supporlo. Infatti molto laureati in antropologia culturale non sanno dire quali siano i loro reali interessi, cosa vogliano approfondire. Finché tutto resta nel vago, nel potenziale, il proprio movimento personale risulta debole e discontinuo, scarsamente efficace. Ancora, si ha modo di conoscere persone, iniziare qualche scambio, scrivere qualcosa, costruire comunioni di intenti che possono tornare utili una volta completati gli studi, quando si hanno più conoscenze e più tempo per concretizzarle. Altra cosa importante, si apprende la lingua dei nativi. Se l’obiettivo è lavorare con le aziende, dobbiamo conoscere la loro lingua meglio di chi ci lavora dentro, così come ci preoccupiamo di apprendere quella delle popolazioni nei quattro angoli del pianeta dove gli antropologi fanno ricerca. Lo stesso vale per le ONG, per le istituzioni burocratiche, per le logiche del mercato. Spesso gli studenti

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sottovalutano questa criticità tipica dell’antropologia fatta ‘a casa propria’: essendo nativi, credono di avere tutte le competenze per muoversi nel ‘loro’ ambiente. Niente di più sbagliato: spesso l’essere nativo, se non viene analizzato in profondità con una buona dose di riflessività e di autocritica, porta a posizionarsi sul campo in maniera problematica, pieno di stereotipi e stereotipie che offuscano gran parte della realtà. Muovendo da questi presupposti, e da altri che ognuno scoprirà in autonomia per prove ed errori, è possibile inquadrare velocemente alcuni ambiti dove gli antropologi culturale possono provare a muoversi una volta acquisita la giusta formazione. Ne indicherò brevemente alcuni che derivano dalla mia esperienza e da quella di antropologi culturali con cui ho maggior scambio di informazioni. Terzo settore/privato sociale no profit

Con una opportuna formazione metodologica di etnografia, interviste, questionari si riesce a operare in associazioni, cooperative, ONG, centri di ricerca privati come analisti e progettisti sociali, addetti alla ricerche preliminari di fattibilità, conduttori di gruppi e responsabili di laboratori di vario tipo. Cominciano a emergere anche antropologi in ruoli di responsabilità amministrative e formative, dove una formazione sociale di base deve unirsi a doti manageriali e gestionali adeguate alla complessità del terzo settore. Si può intervenire nella fase di start up come consulenti, sondare il territorio per far emergere risorse e necessità latenti, supportare nella stesura di mission, vision e organizzazione societaria. Dal punto di vista dell’innovazione sociale gli antropologi culturali potrebbero concentrarsi sui servizi alla popolazione immigrata non solo da

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integrare ma anche da supportare nei processi evolutivi: penso all’imprenditoria immigrata, all’orientamento scolastico e professionale di seconde generazioni, di supporto alla comunicazione tra gruppi di immigrati, all’empowerment di comunità. Interessanti anche le tematiche dell’invecchiamento, del benessere sociale dell’anziano e dell’attivazione di reti di supporto territoriale. Peculiare l’ambito della comunicazione sociale e della promozione del cambiamento culturale in vari ambiti quali disabilità, omosessualità, emarginazione sociale, infanzia, valorizzazione della diversità. I profili concorrenti in questo ambito sono soprattutto psicologi sociali e di comunità, pedagogisti, cooperanti allo sviluppo non antropologi, sociologi. Aziende e servizi for profit

Le aziende richiedono supporto formativo e consulenziale per l’internazionalizzazione e lo sviluppo di una cultura dell’innovazione. Sono questi i due ambiti dove l’antropologia culturale può dare un contributo immediato al mondo dell’imprenditoria nostrana. Conoscenza delle lingue, del management e dei paesi esteri di riferimento sono condizioni imprescindibili per questo settore. Occorre sviluppare metodi di indagine seri per reperire informazioni utili a ridurre il rischio d’impresa e monitorare i processi di cambiamento aziendali. Gli strumenti etnografici, la prospettiva comparata, una forte conoscenza dei mercati sviluppata operando all’interno dell’azienda permette di costruirsi un profilo adeguato, meglio se incardinato su studi formali di business management. In diversi contesti le formazioni antropologiche e interculturali stanno dimostrando una netta superiorità rispetto alle formazioni manageriali più tradizionali. Settori quali il security management, il diversity management e le risorse umane sono ormai sempre più

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‘antropologizzati’. Spesso l’ingresso in azienda avviene ricoprendo altre mansioni, e sviluppando in seguito una traiettoria di carriera verso un ruolo dove la propria formazione antropologica sia uno strumento operativo quotidiano. I profili concorrenti sono dottori in economia aziendale, psicologi del lavoro, dottori in lingue, diplomati MBA, sociologi. Antropologia medica e della salute

L’antropologo culturale interessato alle prospettive curative, del benessere e della crescita personale può integrare le proprie conoscenze con corsi strutturati di naturopatia, discipline olistiche, counseling di vario tipo, tradizioni occidentali e orientali volte alla crescita personale. Esistono scuole ben strutturate e con formatori di grande esperienza anche in Italia in tutte le discipline più conosciute. Accanto alla pratica professionale si possono innestare momenti di ricerca personali in collaborazione con associazioni e gruppi di ricerca legati o meno all’accademia sulle tradizioni spirituali più diverse, sulle meditazioni, sull’empowerment personale. Questo settore del ‘benessere non terapeutico’ è in grande crescita nel nostro e in molti altri paesi occidentali. Servono formazioni approfondite e attenzione alle normative di riferimento nazionale per non incorrere nell’accusa di abuso della professione medica o psicologica. Formazione e istruzione

In qualità di antropologi culturali si può essere formatori per diversi enti privati. È opportuno un percorso ad hoc che permetta di acquisire i principali modelli formativi e strumenti operativi. Orientarsi nella formazione di persone immigrate, o seconde

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generazioni, privilegiando aspetti linguistici e comunicativi, senza omettere di considerare ambiti formativi nuovi tarati su precise esigenze della popolazione immigrata. Interessanti i servizi di supporto all’istruzione, come doposcuola pomeridiani e centri di supporto per studenti in difficoltà, che spesso vedono la compresenza di ragazzi e ragazzi dalle provenienze più diverse. L’interazione tra antropologia culturale e pedagogia interculturale può dare buoni frutti in questi contesti. I profili concorrenti sono formatori, pedagogisti, educatori, psicologi dell’età evolutiva, sociologi. Ricerca e divulgazione

Esistono delle possibilità nel fare ricerca sociale e culturale fuori dall’accademia presso enti privati, associazioni di categoria, o come ricercatori indipendenti. Gli antropologi culturali dovrebbero consolidare le loro capacità metodologiche soprattutto in termini quantitativi perché spesso è necessario fare ricerche con metodologia mista. L’etnografia è efficace in determinate condizioni e per determinati obiettivi, a volte costruire, somministrare e analizzare un buon questionario, o utilizzare dei test strutturati, dà risultati migliori in minor tempo. Spesso di tratta di fare ricerche su opinioni, atteggiamenti, preferenze, bisogni di una determinata popolazione, oppure riguardo a degli esiti di progetti, o ancora analisi preliminari che possano chiarire l’orizzonte operativo da intraprendere. Gli antropologi culturali potrebbero sforzarsi di mettere a punto degli strumenti di rilevamento ad hoc per indagare scenari di loro competenza. Interessanti a questo riguardo gli ambiti di ricerca più innovativi come le nuove tecnologie comunicative, il web e le sue applicazioni, i nuovi stili di vita, l’innovazione sociale, gli scenari della globalizzazione, le emergenze sociali, i gruppi di

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pressione planetari, il cosmopolitismo. I profili concorrenti sono sociologi, psicologi sociali, tutti i laureati interessati all’analisi della contemporaneità e alla comunicazione. Eventi, arte, spettacolo

Un settore in rapido sviluppo è quello della creazione e gestione di eventi culturali e artistici. Utile una formazione post-lauream dedicata e peculiari abilità organizzative e manageriali. Il mondo dell’antropologia si intreccia con i beni culturali e la promozione/marketing di eventi sociali che trovano nell’esperienza offerta al fruitore la loro ragion d’essere. Una formazione ulteriori garantisce la capacità di gestire la complessità dell’event management dal punto di vista organizzativo, contenutistico e economico. Interessante anche la prospettiva consulenziale in qualità di antropologi culturali specializzati in particolari settori (museale, artistico visuale, artistico musicale ecc.). Conclusioni

In questo contributo ho messo sul piatto alcune questioni che la comunità degli antropologi, così come si esprime sul web in diversi siti collegati, ritiene importanti per riflettere sul proprio sviluppo professionale. Ho accennato alle questioni di identità, ai percorsi formativi, alle conoscenze e alle competenze, alle frustrazione dello scoprirsi dottori in antropologia e non sapere cosa fare, al dibattito sull’antropologia applicata e professionale, ad alcuni atteggiamenti utili per non appendere subito l’antropologia al chiodo e un breve excursus su alcuni possibili posizionamenti operativi in diversi ambiti. Molto resta ancora da

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analizzare, strutturare e dibattere: inquadramenti normativi e burocrazia professionale, deontologia professionale, approfondimenti sulle competenze, metodologie applicate, buone pratiche internazionali, standard formativi, associazioni di categoria, bibliografie applicate e professionali, corsi utili e meno utili per formarsi, utilizzo dei social network, marketing e collaborazione con altre figure professionali….avremo modo di affrontare anche questi temi in modalità social web. Chiudo il contributo consigliando un volume che credo possa essere molto utile al lettore italiano anche se prodotto negli USA: Anthropology in practice. Building a career outside the academy di Riall W. Nolan – Boulder London (2003).