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INDICE
Introduzione
Capitolo 1: nascita dell'idea
1.1 - Una mia presentazione personale, che cos'è il Counseling ed il significato che ha per
me
1.2 - Una mattina di fine gennaio
1.3 - Ricerche
1.4 - Proposta a Frà Antonio
1.5 - Le mie intenzioni
1.6 - Accettazione da parte di Frà Antonio
1.7 - Cosa ha risuonato in me
Capitolo 2: discesa nelle Puglie!
2.1 - La necessità di incontrarti personalmente Frà Antonio
2.2 - L’ambiente
2.3 - L’incontro
Capitolo 3: intervista e racconto della vita di Fra’ Antonio
3.1 - Infanzia e decisione del proprio copione (A. T. e le Carezze)
3.2 - Adolescenza e il suo girovagare (Le Posizioni Esistenziali)
3.3 - La droga (Teoria della Gestalt e Ciclo di Contatto)
3.4 - Il periodo più buio, minaccia di morte (Comunicazione Nonviolenta e Programmazione
Neuro Linguistica)
3.5 - La disintossicazione
3.6 - L'ascolto e la decisione di cambiare
Capitolo 4: il lavoro
4.1 - La vita successiva: il discernimento fideistico, il percorso personale, il lavoro di
Counseling
4.2 - Il padre
Capitolo 5: oggi
5.1 - L'esperienza della vita di oggi e il Counseling in parrocchia!
Capitolo 6: conclusioni
6.1 - Le mie considerazioni personali
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INTRODUZIONE
Questo mio lavoro è frutto di un incontro fortunato e fortuito. L’incontro tra me
e Fra’ Antonio anzi prima tra me e la storia di Antonio Vito e poi tra me ed il Frate.
Dapprima solo virtuale, posso dire, grazie alla tv. Un incontro coltivato come un
qualcosa di molto prezioso per me.
Tutto nasce da un’idea, nata dalla sorpresa sorta in me nell’ascoltare poche
parole di una sua intervista, all’incontro personale con Fra’ Antonio e con la sua storia
per la realizzazione di questa tesi in cui ho la possibilità di affermare ciò che per me è
importante: l’accettazione di ciò che è la vita con tutte le sue continue prove. Con le
scelte che ognuno fa in quei momenti decisivi che ti portano direttamente in una
direzione eliminando tutte le altre.
La forza delle nostre risorse, l’ascolto e l’amore di sé che porta alla
consapevolezza di dove si è arrivati in quel preciso istante, di che persona si è diventati,
per poter dar luce alle proprie risorse e diventare le persone che desideriamo essere
attuando dei cambiamenti.
Ecco: semplicemente questa mia tesi è il racconto di una storia e del potere che
ognuno di noi può avere nella propria vita.
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Capitolo 1: nascita dell'idea
1.1 - Una mia presentazione personale, che cos'è il Counseling ed il significato
che ha per me
All'inizio della scuola di Counseling1 il pensare di finire i tre anni di corso mi
pareva una sfida davvero troppo impegnativa e invece mi ritrovo all'ultimo anno.
Questo è un anno particolare perché gran parte di esso è stato occupato dal
tirocinio.
Con il tirocinio ho messo in pratica ciò che nel mio percorso di apprendimento
nella scuola ho vissuto e studiato. In realtà a fatica delimito la teoria dalla pratica perché
in questo mio percorso di Counseling ho imparato a sentire, riconoscere e vivere le mie
emozioni seguendo ciò che ogni giorno sperimento e vivo. E il tirocinio mi porta
proprio dentro questo viaggio di scoperta e di ascolto del vissuto della vita degli altri e
della mia.
Il Counseling secondo la definizione dell'associazione di Counseling
Assocounseling: è:
“Il Counseling professionale è un'attività il cui obiettivo è
il miglioramento della qualità di vita del cliente,
sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di
autodeterminazione.
Il Counseling offre uno spazio di ascolto e di riflessione,
nel quale esplorare difficoltà relative a processi evolutivi,
fasi di transizione e stati di crisi e rinforzare capacità di
scelta o di cambiamento.
È un intervento che utilizza varie metodologie mutuate da
diversi orientamenti teorici. Si rivolge al singolo, alle
famiglie, a gruppi e istituzioni. Il Counseling può essere
erogato in vari ambiti, quali privato, sociale, scolastico,
sanitario, aziendale.
(Definizione dell'attività di Counseling approvata
dall'Assemblea dei soci in data 2 aprile 2011)”2.
1 Scuola Gestalt Institute Pegasus*, Master triennale in Gestalt Counseling Integrato. 2 Sito www.assocounseling.it.
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Nella seconda metà del 1900 Carl Rogers, Psicoterapeuta americano, teorizza un
nuovo modo di vivere il suo lavoro e poi la sua vita divenendo così il padre del
Counseling nell’ambito della relazione d’aiuto. Apre alla psicologia umanistica dopo
una pratica professionale clinica in cui attua un approccio sulla persona considerando
il paziente come un proprio pari e non solo un corpo (soma) da curare.
La relazione di aiuto è “una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha
lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il
raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato. L'altro può essere un
individuo o un gruppo. In altre parole, una relazione di aiuto potrebbe essere definita
come una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire in una o ambedue le
parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto ed una maggior
possibilità di espressione". 3
La base del suo approccio è la sua famosa triade: congruenza, empatia ed
accettazione incondizionata.
Congruenza o accettazione:
il concetto di autenticità riguarda la capacità di essere spontanei e trasparenti nelle
relazioni. Mostrare ciò che realmente c’è, senza, ad esempio, nascondersi dietro il
ruolo che in quel momento stiamo ricoprendo. Essere autentici vuol dire esprimere
solo ciò che realmente corrisponde al proprio sentire, evitando frasi stereotipate e
restando in contatto empatico con il nostro interlocutore.
Empatia:
è la capacità di sintonizzarsi e comprendere gli stati emotivi e cognitivi del cliente.
Questa capacità richiede una buona dose di attenzione e sensibilità nell’accogliere i
vissuti dell’altro, anche quando questi possono divergere profondamente per
esperienza, valori o idee dai nostri.
La capacità di sentire il mondo dell’altro e accettarlo come unico e irripetibile.
Accettazione incondizionata:
l’accettazione dei vissuti e delle esperienze, astenendosi da ogni forma di
interpretazione e/o giudizio, accettare la realtà esistenziale dell’altro e valorizzare
l’altro per ciò che è.4
Dice Rogers nel citato libro “La terapia centrata sul cliente”:
“La maggior parte degli errori che faccio nelle relazioni
interpersonali, la maggior parte dei fallimenti cui sono andato
incontro nella mia professione, si possono spiegare col fatto che,
per qualche motivo di difesa, mi sono comportato in un modo,
3 Carl Rogers, La terapia centrata sul cliente, Firenze, Giunti Editore, 1951. 4 www.sociocounseling.it.
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mentre in realtà sentivo in un modo del tutto diverso”.5
Bene, al di là delle dovute definizioni di questa Professione, per me il Counseling
è una magia.
Rogers negli anni del suo lavoro ha imparato che se egli davvero si ascoltava,
cioè ascoltava ciò che provava, allora riusciva a dar ascolto a ciò che provavano i suoi
pazienti.
Nel momento in cui io sono alla pari di chi mi sta di fronte, e con questo intendo
che so cosa io sto provando (congruenza), accetto l'altro e sento ciò che sente l’altra
persona o gruppo (accettazione ed empatia). La relazione attuata è tale che tutti i
membri sono riconosciuti come tali ovvero come persone.
Se al primo momento può sembrare una banalità il dire che le persone all’interno
della relazione vengono considerate tali, è soffermandosi a riflettere sul significato di
questa affermazione che si può capire la portata rivoluzionaria di essa!!!
Mi sono chiesta allora quante relazioni nella mia vita sono in uno stato di
riconoscimento di me e dall'altro...beh, la risposta onesta dell’epoca è stata: poche.
E queste poche sono conquistate ogni giorno con l'impegno ed il rispetto.
A scuola, al lavoro e nella vita quotidiana, il più delle volte per me la relazione
era in conflitto.
La svalutazione dell’altro risponde, a mio modo di vedere, ad una relazione di
sfoggio di potere.
Ecco che il Counseling mi ha insegnato che ascoltandomi in ciò che provo e
rispettandomi, porto rispetto e riconoscimento nei confronti chi mi sta di fronte.
Riconoscendomi so anche difendermi da chi per una qualche sua intima ragione
mi vuole svalutare e questo per me è stato il dono più grande del Counseling.
1.2 - Una mattina di fine gennaio
In questa mattina di fine gennaio mi concedo una colazione serena dato che mi
sono svegliata prima del dovuto e sì, lo ammetto, per via dell'ansia e del desiderio che
il tirocinio mi crea.
Oggi inizierò una nuova formazione con la scuola di Counseling e la mia
concentrazione è alta per centrarmi in un equilibrio aperto e costante.
Le emozioni si accavallano e per me è un'opportunità ascoltarle e accoglierle.
Preparo con calma la tavola in salotto e accendo la tivù per ascoltare le ultime
notizie mentre aspetto che il caffè gorgogli. Sento che nessun programma si addice al
mio stato d'animo, e così inizio a cambiarli con velocità e mi imbatto in una immagine
che attira la mia attenzione nella trasmissione del canale TV2000 “Bel tempo si spera”.6
5 C. Rogers, La terapia centrata sul cliente, Firenze, Giunti Editore, 1951. 6 “Bel tempo si spera” di Fausto Della Ceca, in onda dal lunedì al venerdì, dalle 7. 30 alle 10.00 su TV2000.
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La presentatrice, Lucia Ascione, è seduta di fronte ad un uomo vestito con il saio,
con tantissimi capelli riccioli ed una folta barba pepe e sale proprio come nel mio
immaginario dev’essere un frate.
E sono le parole dette da quest'uomo, che è un frate francescano di cui ancora
non so il nome, a richiamare la mia attenzione così come il suo sguardo.
Sento un accordo tra il mio stato d'animo e questo avvenimento.
E il mio stato d'animo questa mattina è di apertura, ascolto e di ricerca.
Il frate parla di ascolto quello vero, attivo e totalizzante, tanto da farti sentire
accolto e un tutt'uno con il resto del mondo, in un'armonia che poche volte si prova
nella vita. E questo ascolto gli ha fatto cambiare rotta nella sua vita.
Ed è davvero completamente cambiata.
1.3 - Ricerche
Io resto rapita all'ascolto delle sue parole in questa intervista e mi sale una forte
irrequietezza di saperne di più.
Cerco velocemente un po' di informazioni su internet, quel tanto che basta per
calmare questa curiosità che sale e che mi fa sorridere.
Scopro che si chiama Fra’ Antonio Salinaro e che vive a Taranto ed è un parroco
di una chiesa della città.
Taranto è distante da Venezia e chissà perché è il primo pensiero che mi viene in
mente! Nella pagina della parrocchia ci sono due numeri di telefono, uno fisso ed un
cellulare e questo per ora può bastare.
Finisco il mio caffelatte e sparecchio la tavola con la testa già piena di pensieri;
decido di tenere queste sensazioni di gioia mista a curiosità al centro dello stomaco
dove le sto sentendo per decantarle e capire bene che cosa mi vogliono dire.
È ora di andare verso altre emozioni.
Durante i tre giorni di formazione mi sento bene e cullo la sensazione che mi ha
procurato l'intervista di Fra’ Antonio. Si sta facendo chiarezza un panorama più ampio,
come se la mia ricerca che fin qui mi ha reso irrequieta stesse trovando non una risposta,
ma un posto e una sua dimensione perché semplicemente accolta e accettata.
E forse apprendo con la mia esperienza le parole di Carl Rogers:
“mi sembra che solo quando un'esperienza a livello
viscerale sia pienamente accettata e accuratamente e
consapevolmente descritta, essa possa dirsi completa. Solo
allora una persona riesce ad andare oltre”.7
Ciò che vivo e sento durante gli incontri di questa formazione si può sintetizzare
Condotto da Lucia Ascione, con Giacomo Avanzi, Enrico Selleri e Antonella Ventre.
7 Carl Rogers, Un modo di essere, Firenze, Giunti Editori, 1980, pp. 167.
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con una parola: gratitudine.
1.4 - Proposta a Fra’ Antonio
Il giorno dopo aver terminato la formazione, riapro il sito della parrocchia di Fra’
Antonio, la chiesa di San Pasquale Baylòn di Taranto.
E riprendo l’appunto con il numero di cellulare.
Mi ritrovo con il telefono che squilla e nella mente frasi sconnesse che si
rincorrono da ripetere alla perpetua del tipo “buongiorno signora vede avrei bisogno di
parlare con Fra’ Antonio” oppure “buongiorno signora sono tizia e vorrei un
appuntamento con Fra’ Antonio, sì telefonico, per un bisogno che…” insomma un
bisogno avevo e però era ancora poco definito!
Vengo letteralmente spaventata dal “pronto?” di una voce maschile.
“Ehm, sì, ecco, io, sì, mmm”, dall’altra parte silenzio.
Possibile che sia proprio il frate a rispondermi? E la perpetua o il segretario che
filtrino telefonate e contatti, dove stanno?
Un bel respiro e nel mio dialogo interiore mi dico: centrati Silvana!
Continuo con “Buongiorno, sono Silvana Sarli e cerco Fra’ Antonio” e fin qui
bene l’ho detta tutta d’un fiato!
“Sono io, buongiorno” risponde lui.
“Ah ecco” e che gli dico ora? Penso che non mi ero preparata a dovergli parlare
subito perché come ho già scritto, un bisogno c’era ma ancora non mi era chiaro e non
lo avevo ben definito.
“L’ho vista in tv in una intervista e le sue parole mi hanno colpito”.
Dall’altra parte sempre silenzio, mmm.
“Io sono al terzo anno del mio percorso di Counseling e le sue parole mi sono
risuonate come familiari, ecco vede io vorrei scrivere su di lei” azzardo a dirgli.
Eh sì, boom, l’ho detto! Ecco ho definito il mio bisogno e desiderio: sì, voglio
scrivere la tesi sulla tua storia, Fra’ Antonio, e non chiedermi cosa e come, perché ora
mi godo il solo fatto di aver colto che cosa voglio.
E invece Fra’ Antonio me lo chiede “esattamente che cosa vorresti scrivere? E
diamoci del tu... eh sì, sono un Counselor”.
E allora lì mi dico che sto vivendo un’opportunità comunque vada a finire,
perché sto facendo una cosa che fino a poco tempo prima non mi sarei nemmeno
sognata, così chiusa nella mia gabbia di buona educazione, timidezza e paura di essere
inopportuna e quindi rifiutata. Invece sono proprio nel qui e ora, come insegna il
Counseling, e riesco a sentirmi anche fisicamente, cioè sento il mio corpo che è teso e
la mia emozione di gioia mista a paura che mi fa battere forte il cuore e così mi
tranquillizzo perché ora mi sento.
Con molta naturalezza incomincio a raccontare come mai sto chiamando uno
sconosciuto, che nemmeno pensavo potesse rispondermi, e che ora non ho ben definito
in mente il progetto ma ho accolto il desiderio di scrivere su di lui e che sono comunque
felice di aver avuto la sua anzi la Tua attenzione caro Fra’ Antonio. La sua risposta è
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molto gentile e congruente: “sono in treno e sono molto stanco. Ti do il mio indirizzo
mail così mi mandi una mail in cui mi scrivi la tua richiesta ed io ci penserò su”. Bene,
per me è già un successo.
Alla sera comincio a scrivergli e alla fine mi ritrovo con una pagina fitta in cui
racconto un po’ delle mie vicissitudini che mi han portato fin qui, le motivazioni che si
stanno delineando e alla fine gli chiedo espressamente: hai voglia di accettare la mia
proposta?
Chiudo il computer e me ne vado a letto tutta contenta, chissà perché questo
progetto mi mette di buon umore, io per ora sono soddisfatta di quanto ho vissuto fin
qui perché mi sembra già una piccola avventura.
1.5 - Le mie intenzioni
Le teorie e le pratiche di questi anni di scuola, il mio percorso degli ultimi anni
con le prove dolorose che la vita mi ha posto e l'ascolto delle vite degli altri è come se
mi dessero l'opportunità di cogliere l'ampio paesaggio comune: siamo pieni di risorse
e il modo in cui a volte sbucano per darci respiro ha dell'incredibile. Ed anche Frà
Antonio nel momento più buio della sua vita si è ricordato delle risorse che aveva e ha
fatto un percorso per scoprirne molte altre.
E come un classico insight: [“letteralmente visione interna” che “consiste nella
comprensione improvvisa e subitanea utile ad arrivare alla soluzione di un problema”8
propriamente gestaltico “ve ne sarete resi conto all’improvviso, forse con tale sorpresa
da lasciarvi sfuggire un’esclamazione. Gli psicologi della gestalt definiscono questa
una esperienza ahah!”]9 colgo cosa mi ha affascinato del frammento della storia di
frate Antonio che sono riuscita a sentire quella mattina di fine gennaio: semplicemente
una storia.
A me piacciono e proprio tanto le storie, quelle di vita vissuta. La vita di ogni
persona che nel racconto delle proprie esperienze diventa una storia piena di emozioni,
scelte, incertezze, incontri e addii.
Volevo quindi scrivere della sua storia, pur essendo molto lontana e diversa dalla
mia, perché mi ha catturato fin da subito anche solo cogliendo poche parole.
Proprio durante la pratica del mio tirocinio dallo sfondo si sono definite delle
esigenze che per me risultano fondamentali: ascolto profondo, accettazione di sé e dei
propri limiti affidandosi alle proprie capacità.
Credo profondamente nell’ascolto che permette di essere accompagnati verso
l’accettazione di sé in un perdono ed una consapevolezza della propria umanità che dà
la forza poi di compiere imprese straordinarie.
E frate Antonio per me è un’espressione di tutto ciò. La curiosità di ascoltarlo è
8 www.wikipedia.org / Insight. 9 F. Perls, R.F. Hefferline, P. Goodman, Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Roma, Ed. Astrolabio, 1994, pp.
299-300.
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così forte e urgente che voglio sapere tutto di lui. Quel tutto non dettagliato in ogni
passaggio ma di ciò che per lui è stato ed è importante, di ciò che sente nel ripercorrere
la sua storia ascoltandola nelle tappe da lui scandite dal suo vissuto e sentito.
Questa mia tesi è la storia di come, a volte, ci si possa ricordare di respirare anche
nel momento più buio in cui si crede non ci sia altro che disperazione.
1.6 - Accettazione da parte di Fra’ Antonio
Passano i giorni e quindi le settimane ma Fra’ Antonio non risponde né per mail
né per messaggino telefonico.
E la mia contentezza appassisce sotto questi pensieri dettati dall’attesa e dalle
mie proiezioni: oh! che peccato, probabilmente la mia idea gli sarà parsa poco
interessante, oh, che peccato, probabilmente alla fine avrà pensato che sono una
scocciatrice come tante, oh, che peccato, probabilmente è un tale personaggio che di
un’alunna che deve scrivere la tesi non sa che farsene visto il suo successo nazionale.
Soprattutto oh, che peccato!
La mia curiosità è incontenibile e gli scrivo su WhatsApp in cui lo ringrazio per
la sua gentilezza e butto giù pure due idee come alternativa di lavoro.
Poco dopo risponde comunicandomi che ha letto la mail e che ci sta pensando
su. Sarà impegnato in un ritiro spirituale e che ci saremmo sentiti la settimana
successiva. La cosa si fa interessante perché non mi ha ancora liquidato!
Ancora i giorni passano e così anche le settimane e i mesi finché oramai a marzo
mi decido di inviargli un sms in cui esprimo il mio bisogno di sapere se ha voglia di
accettare la mia proposta, anche perché dal grande anticipo sulla programmazione della
mia scuola, ora siamo passati al momento in cui devo decidere il Relatore e rendere
conto di che genere di tesi voglio portare.
La risposta mi sconcerta perché mi rende contenta, orgogliosa e allo stesso tempo
mi procura una preoccupazione tale da rimanere lì bloccata sul divano in silenzio per
qualche minuto.
Fra’ Antonio si era dimenticato per impegni e vicissitudini familiari e accetta ben
volentieri. Ma io in quale pasticcio mi sono andata a ficcare? Sono felicissima e allo
stesso tempo provo un disagio fastidioso alla bocca dello stomaco per una sensazione
di rincorsa che prevedo dovrò fare. E così è stata: proprio una rincorsa ad ostacoli in
cui però mi sono divertita tantissimo.
Ci diamo un appuntamento telefonico per la settimana successiva e questa volta
gli chiedo giorno e ora esatta.
La domenica successiva frequento il corso della mia scuola in cui qualche ora è
dedicata proprio alla tesi e così chiedo al direttore della scuola, il dottor Alberto Dea,
se accetta di essere il mio Relatore e prendo un appuntamento per la settimana
successiva per parlargliene.
Così nel giro di qualche giorno riesco a sentire Fra’ Antonio e a definire i
contorni di ciò che potrà diventare questa mia tesi tutta dedicata alla sua storia. Ci
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lasciamo con la promessa da parte sua di inviarmi del materiale di alcune sue interviste
e interventi nelle scuole, così da farmi un’idea un po’ più ampia.
Poi ne parlo al mio Relatore che all’inizio mi ascolta serio serio, poi mi chiede
esattamente quale è lo scopo, ed infine mi accoglie con il suo solito entusiasmo
dicendomi che è molto curioso di leggere questo lavoro.
Rientro a casa, cammino senza toccare terra dalla contentezza e poi prendo
coraggio e mando un vocale a Fra’ Antonio perché il materiale promesso mica me l’ha
mandato. Mi risponde per sms che si era dimenticato.
Ed è in questa fase che gli rivelo che sento un leggero senso di abbandono da
parte sua e che questo non fa altro che aumentare la mia sensazione di essere
inopportuna. La sua risposta mi scalda il cuore perché la sua autenticità espressa con
la naturalezza che gli è propria è disarmante e a me dà la sensazione che la vita a volte
può essere anche facile. Mi risponde che devo scrivergli ogni giorno, essere presente
ed insistente e che devo diventare come un corvo. Così io mi faccio una bella risata e
gli prometto che proverò questa modalità a me così lontana e mi sento felice.
E così con la pressione giornaliera Fra’ Antonio incomincia ad inviarmi del
materiale che io passo in rassegna ascoltando i file audio dei suoi interventi nelle scuole
tra i ragazzi, leggendo gli articoli che parlano di lui e rivedendo al computer le
interviste rilasciate in tv.
1.7 - Cosa ha risuonato in me
Cosa ha risuonato in me fin dal primo ascolto di Fra’ Antonio che mi ha spinto
a compiere questa mia avventura? È di difficile messa a fuoco anche se già ho scritto
sul mio insight e su ciò che dal fondo del mio vissuto è uscito alla luce
accompagnandomi in questo mio percorso, ed è già molto. Tuttavia sento che ancora
qualcosa dev’essere pescato, definito e contornato.
Ogni storia è a sé eppure, come scritto, colgo un filo rosso che le lega e che a me
pare inondi la vita. Le difficoltà esistono quotidianamente come pure mi vien da dire
la gravità della difficoltà. Dalle piccole scelte pratiche su cosa vorremmo mangiare a
cena alle riflessioni profonde per migliorare il nostro futuro fino all’affrontare dolori e
malattie. Tutto verso un benessere a cui le persone tendono.
Come insegna Rogers:
“ogni organismo è animato da una tendenza intrinseca a
sviluppare le potenzialità e a svilupparle in modo da
favorire la sua conservazione e il suo arricchimento”.10
Questa tendenza è chiamata tendenza attualizzante ovvero l’essenza della
natura umana con la sua energia interiore, questa spinta vitale al miglioramento e alla
10 Cit. Carl Rogers, La terapia centrata sul cliente, Firenze, Giunti Editore, 1951.
pag. 13
ricerca del proprio benessere.
E ancora la “resilienza: il termine proviene dalla
metallurgia.
Indica la capacità di un metallo di resistere alle
forze che vi vengono applicate. … La resilienza
psicologica è la capacità di persistere nel perseguire
obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le
difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul
cammino. … Di fatto l’individuo resiliente presenta una
serie di caratteristiche psicologiche inconfondibili: è un
ottimista e tende a leggere gli eventi negativi come
momentanei e circoscritti…La buona notizia iniziale, siamo
progettati per affrontare problemi e difficoltà, non è sola.
Ce n’è un’altra: la resilienza può essere potenziata,
possiamo imparare a migliorarla.”11
Questo termine è a me poco gradevole perché ritengo che negli ultimi tempi sia
usato troppo superficialmente per cui preferisco valermi di una delle definizioni della
biochimica e giornalista scientifica Christina Berndt: elasticità psichica.
“Nessuno è invulnerabile o immune davanti al destino …
Con il termine resilienza s’intende piuttosto la capacità di
dominare le crisi nel ciclo della vita facendo affidamento su
risorse personali e sociali e di utilizzarle come occasioni di
crescita.
Essere resilienti non significa poi che si torni alla
condizione precedente del tutto indenni e immutati…
significa piuttosto che si è in grado di affrontare
con successo le condizioni sfavorevoli, che ci si sa
districare in mezzo a quelle situazioni, che si impara dalle
contrarietà e che si è capaci di integrare quelle esperienze
nella trama della propria vita. Si è vulnerabili, ma le ferite
si rimarginano in media rapidamente e lasciano dietro di sé
cicatrici non troppo evidenti … Sono vulnerabili, ma
invincibili.
Ogni tanto si è feriti, ogni tanto si può anche finire al
tappeto. Ma alla fine si ha di nuovo la forza per qualcosa di
nuovo.
Chi è resiliente si riprende meglio dalle esperienze
negative.”12
11 P. Trabucchi, Resisto, dunque sono, Milano, Garzanti, 2007, pp. 13-15. 12 C. Berndt, Il segreto della resistenza psichica, Milano, Feltrinelli, 2013, pp. 90-91.
pag. 14
Ecco che le parole di Fra’ Antonio hanno ripreso ciò che ho provato e vissuto e
che, come in ogni storia, anche nella mia, vivo: la forza interiore a non dolersi della
vita a provare e riprovare nuovi metodi per affrontarla perché per me importante è non
solo ciò che accade ma il come lo affronto.
Come dice Zygmunt Bauman:
“da quando sono uomini, gli uomini hanno sempre compiuto
scelte. … la necessità di compiere quotidianamente delle
scelte in condizioni di dolorosa eppure incurabile
incertezza, con il timore di rischi ignoti pronti a colpire gli
ignari uomini della scelta, non è mai stata sentita con
altrettanta intensità e con effetti altrettanto spaventosi di
adesso … in questo mondo moderno, liquido e fluido.
…come amava dire l’acuto sociologo italiano Alberto
Melucci siamo afflitti dalla fragilità del presente, la quale
richiede solido fondamento laddove non ne esiste alcuno….
Così quando contempliamo il cambiamento, siamo sempre
lacerati tra desiderio e timore, tra aspettativa e incertezza.
Ecco: incertezza. O, nella definizione preferita da Ulrich
Beck, rischio, lo sgradito e fastidioso, invadente compagno
(o molestatore?) di tutte le aspettative. Il macabro spettro
che tormenta noi uomini della decisione.”13
In Fra’ Antonio avevo scorto quella inquietudine che a volte sento nello scorrere
della mia vita e la sua capacità di domarla. La serenità raggiunta con la sconfitta di
fragilità e paure. La consapevolezza di essere ciò che si è per ciò che si ha vissuto e
che dopo un lungo cammino di accettazione può portare alla serenità.
Tutto ciò ha risuonato in me. La forza di vivere nonostante le difficoltà e come
canta Elisa “eppure sentire nei fiori tra l’asfalto…un senso di te”14, la capacità di
sentirsi nelle difficoltà.
Capitolo 2: discesa nelle Puglie! 13 Z. Bauman, Bellezza: ovvero un sogno da cui abbiamo paura di svegliarci, C.P.E. Centro Programmazione Editoriale,
2003, Fondazione Collegio San Carlo per Festival filosofia, p. 13. 14 Elisa, Eppure sentire (un senso di te), dall’album Soundtrack ’96-‘06, 2007, Sugar etichetta.
pag. 15
2.1 - La necessità di incontrare personalmente Fra’ Antonio
Le settimane se ne andavano velocemente tra qualche telefonata con Fra’
Antonio, in cui era in pausa da un incontro, da un ritiro o in treno di ritorno da qualche
intervista, e un po’ di lavoro di ricerca in cui la mia gioia cresceva per la possibilità di
lavorare a questo progetto e per la possibilità che avevo di conoscerlo sempre più.
Il tempo e l’attenzione che mi dedicava, in questa sua vita che capivo essere
piena, per me erano preziosissimi.
Ascoltavo e sbobinavo i file audio, vedevo il materiale che mi aveva inviato e
però dopo un po’ mi pareva che alla fin fine le risposte fossero sempre le stesse perché
le domande erano le stesse.
Raccontava più o meno le stesse cose e a me non bastava.
Mi mancava sentire ciò che lui provava.
Nella narrazione dei fatti in ordine cronologico trovavo un’assenza importante…
il senso.
Mi sembrava di essere come quei bimbi all’acquario attaccati al vetro con il
desiderio di nuotare con le mante e l’incapacità di raggiungerle.
Da qui la mia richiesta di avere più dettagli del suo percorso di Counseling per
poter parlare lo stesso linguaggio e poter così afferrare il senso che lui stesso dava
anche solo a qualche termine e che a me sfuggiva.
Così ho lasciato che questa diciamo frustrazione trovasse un posto dentro me per
poterla accogliere e vederla e per capire come poi scioglierla.
In effetti io volevo conoscere personalmente Fra’ Antonio per vederlo e viverlo
nel suo presente, per conoscerlo oggi anche nelle sue attività in parrocchia e nella sua
vita di ora.
E così in una delle nostre telefonate ho chiesto a Fra’ Antonio se potessimo
trovare qualche giorno da passare assieme per svolgere i nostri colloqui e in cui io
potevo anche partecipare ai suoi gruppi di crescita in parrocchia con le coppie e con i
giovani.
Con mia grande gioia Fra’ Antonio risponde entusiasta a questa mia proposta e
così le settimane successive son servite ad accordare i suoi impegni con i miei e alla
fine i giorni sono stati definiti. Fine maggio. E dopo l’organizzazione pratica sua e mia
mi son preparata a quanto davvero fosse per me importante: una pulizia interna
profonda per un ascolto attivo. E non è stata cosa facile per il periodo personale che
stavo vivendo e che da lì a poco avrebbe stravolto la mia vita: accogliere un bimbo
nella vita mia e di mio marito per tenerlo con noi allargando così la famiglia.
Tutto e tanto assieme e quindi centrarmi e far silenzio dentro me è stata
un’impresa impegnativa impiegando uno dei principi base del Counseling e cioè
pag. 16
rimanere nel qui e ora.15 Vivere il presente momento per momento per poter essere
completamente centrata in ciò che accade senza preoccupazione di ciò che è appena
stato o di ciò che dovrò fare subito dopo. La giusta presenza a me stessa nel momento
in cui sono e vivo e così molte tensioni scompaiono e riesco a concentrarmi in ciò che
è appunto qui e ora.
Il giorno della partenza è arrivato e sono contenta di poterla condividere con i
miei genitori che ne approfittano per una gita. Scendiamo in macchina da Venezia a
Taranto e il viaggio è sì lungo ma molto piacevole perché assaporo il pensiero che a
breve l’attesa finirà.
2.2 - L’ambiente
Eccoci nel tardo pomeriggio di questo mercoledì di fine maggio alle porte di
Taranto con il mare a fianco e il bianco delle case e poi tanto tantissimo traffico fino a
diventare un ingorgo. I vigili che scorgo per strada sono affannati a dare indicazioni
agli automobilisti agitati e quando riusciamo finalmente ad avvicinarci e a chiedere
informazioni ci dirottano da tutt’altra parte per entrare in città. Chi dice che la città è
allagata da un temporale appena finito, chi dice che c’è una manifestazione e alla fine
chiedendo informazioni per trovare la strada che ci porti all’interno del centro
scopriamo che c’è sì una manifestazione ma spontanea, dopo un ennesimo funerale di
un giovane di ventisette anni operaio dell’Ilva. Lascia moglie e due figli piccoli. E di
colpo sono catapultata nella quotidianità di questa città meravigliosa stuprata
dall’ideale di un capitalismo sfrenato e sfacciato che ha avvelenato la popolazione e il
suo territorio.
Nei giorni successivi non faccio domande perché non servono. Le informazioni
riesco a recuperarle dalle locandine dei giornali appese alle edicole, dai mozziconi dei
discorsi che sento al bar mentre bevo un caffè e dalle tante persone che fermano Fra’
Antonio per raccontargli di progetti e associazioni nate per dar voce alle tante mamme
e papà e famiglie segnate dai lutti per malattie dovute all’inquinamento. La cosa che
più mi lascia sconcertata è il numero di mortalità infantile cresciuto esponenzialmente
negli ultimi anni tanto da segnare quasi ogni famiglia.
È una città ferita, prima dalla mancanza di lavoro e quindi dall’emigrazione verso
il nord o paesi stranieri dei suoi giovani talentuosi, poi proprio dal lavoro che negli
anni ’80 ha dato un benessere che ora gli abitanti stanno pagando con la vita.
E passeggiando per la città, partecipando a qualche manifestazione culturale in
questi giorni colgo la voglia di riprendersi la propria città e la propria vita da parte dei
tarantini.
15 Op. Cit. Rogers.
pag. 17
2.3 - L’incontro
Alla sera del nostro arrivo dopo esserci sistemati riesco ad accordarmi con Fra’
Antonio per incontrarci proprio solo per qualche minuto tra un suo impegno ed un altro
e, come da accordi, trovarci poi la sera successiva a cena.
Il primo incontro avviene giù del convento di San Pasquale Baylòn attorno
all’ora di cena, orario da gente del nord come siamo noi, non secondo i canoni del sud
in questi giorni di caldo quasi estivo!
Parcheggiamo davanti all’entrata del convento e suono il campanello con su
scritto “ufficio pastorale”. Nessuna risposta. Riprovo e nulla. Chiamo al telefono Fra’
Antonio che mi dice di entrare in convento ad aspettarlo perché deve terminare un
colloquio, ma il portone è sempre chiuso perché difettoso. Dopo poco si apre ed esce
un signore che mi saluta e incomincia a chiacchierare dicendomi che sta aspettando
che i bimbi finiscano il catechismo, poi arrivano delle persone che mi salutano ed
entrano e sentendo il clima molto amichevole io e i miei genitori seguiamo le
indicazioni di Fra’ Antonio.
Passa il tempo e il Convento pare un piccolo labirinto per cui restiamo lì in
corridoio finché sento un “Silvanaaaa”. Eccolo finalmente, anche se ancora non lo
vedo. C’è Frà Antonio!
Di corsa vedo arrivare un uomo alto, magro, pieno di capelli e barba e anelli e
bracciali, vestito in maniera estiva con maglietta e bermuda colorati e subito mi si
scalda il cuore: Antonio.
Dopo le presentazioni decidiamo di aspettarlo in chiesa per poterci salutare con
un po’ di calma. E così ho qualche minuto per sentire le sensazioni di quell’incontro.
Unire il suono della voce al profumo della persona e al viso.
Mi hanno colpito i gesti veloci delle mani talmente eleganti da sembrare dipinte,
l’inquietudine dei suoi occhi che poi, confrontandomi con lui, mi ha detto che “no, non
sono inquieti ma irrequieti!” perché esprimono la voglia di vivere, fare e condividere,
senza perdere nemmeno più un minuto di vita. E la risata improvvisa, chiara e
amichevole.
Il suo aspetto mi ha dato la sensazione di essere accanto ad un artista, e per
riuscire ad esprimere questa mia sensazione è come se mi trovassi in una macchina
sportiva con il pilota che va 300 all’ora mentre canta a squarciagola una canzonetta e
sistema qualcosa sul cruscotto e poi ti chiede: come stai?!!!
Eh sì sono proprio felice di incontrarti Fra’ Antonio.
Capitolo 3: intervista e racconto della vita di Fra’ Antonio
pag. 18
3.1 - Infanzia e decisione del proprio copione (A. T. e le Carezze)
La mattina del venerdì ho appuntamento con Fra’ Antonio per iniziare le nostre
chiacchierate. Ho scelto di accompagnarlo in giro per la città a far la spesa per calarmi
subito nel suo mondo e vedere e sentire come interagisce con la gente e come si muove
tra le vie a lui tanto familiari. Eh sì perché Fra’ Antonio è nato e cresciuto a Taranto e
pure lui è rimasto molto sorpreso di essere nominato parroco di una chiesa del centro
della sua città.
È vestito in maniera “civile”, come mi piace prenderlo in giro e i suoi vestiti sono
colorati. Dal convento passiamo al bar, dove viene accolto con calore da tutti, per un
doveroso caffè che ci dia la carica per iniziare.
Poi camminiamo per il centro e noto sguardi ammirati con cenni di saluti e molti
altri sguardi invece severi ed anche con un qualcosa negli occhi che ancora non riesco
a tradurre. È Fra’ Antonio che me ne parla senza che io chieda e mi dice tranquillamente
che ci sono molte persone scandalizzate dal fatto che lui porti bracciali e anelli, che lo
trovano fuori posto, quasi finto, solo perché veste con pantaloncini e maglietta e per
come svolge le sue messe. E com’è che celebra le messe Fra’ Antonio? Ma non glielo
chiedo tanto avrò l’occasione di vederlo.
Nel frattempo chiacchieriamo di qualsiasi cosa, dal negozio in cui preferisce
comprare il pesce a qualche ricordo d’infanzia, a come ho trovato la sua città il giorno
prima visitandola da turista. E così mi piace passare le prime ore del nostro incontro
come se fossimo amici che si ritrovano dopo tanto tempo perché così risulta tutto molto
informale e mi dà il tempo di capire le sue espressioni, l’inflessione della voce,
insomma di prendere un po’ più di confidenza anche con il suo linguaggio non
verbale.16
Rientriamo in convento e saliamo al secondo piano che è il piano privato in cui
vive con due frati: Francesco, un frate giovane con cui ha condiviso gli anni di studio
compreso il Counseling e Pio, un frate ultranovantenne che è entrato subito nelle mie
simpatie pur avendo condiviso solo il tempo del pranzo.
Ci sistemiamo nel grande terrazzo adiacente la cucina, tra le piante mediterranee
e le pareti di altre case e sotto il gazebo io mi sento sciogliere dal caldo già solo dopo
pochi minuti di colloquio. Per fortuna Fra’ Antonio viene chiamato per sistemare un
piccolo imprevisto così poi ci sistemiamo nel loro salotto in penombra, dove il fresco
aiuta la mia concentrazione.
Gli chiedo se posso registrare dei video dei nostri colloqui per non perdermi
qualcosa distraendomi a trascrivere subito tutto sul mio quaderno. Percepisco
dell’imbarazzo da parte di Antonio tant’è che entrambi facciamo qualche battuta e ci
16 A. Lowen, Il linguaggio del corpo, Milano, Feltrinelli, 1983.
pag. 19
facciamo qualche risata.
Però a me non piace la nostra posizione, siamo separati dal tavolo da pranzo,
così mi dice di avvicinarmi accanto a lui. Il suo telefono squilla subito e gli chiedo se
vuole controllare la chiamata e la sua risposta è no con la testa, così si parte!
Silvana - Da dove vuoi partire tu?
Antonio - Da dove vuoi tu.
S. - Raccontami la Taranto di tua mamma.
A. - Non te la posso raccontare, non lo so.
S. - Non glielo hai mai chiesto? E lei non ti ha raccontato com’era ai
suoi tempi?
A. - Eh, no non gliel’ho mai chiesto. – E si liscia per due tre volte
nervosamente la lunga barba – Mi ha raccontato un po’ le sue
vicissitudini quando era rimasta incinta, ragazza madre, cacciata da casa
dal padre, raminga per i fratelli.
S. - È stato un amore improvviso, tuo padre era troppo giovane?
A. - No, no, l’amore è durato anche nel tempo, mio padre era già sposato
con famiglia e nel 1969, per quell’epoca, rimanere incinta senza essere
sposata era un’onta. Mio nonno la cacciò di casa. Poi, quando sono nato
io l’ha richiamata dicendole che si poteva occupare di lei ma non di suo
figlio. “Di tuo figlio ti devi occupare tu” le ha detto.
S. - Quanti anni aveva tua madre?
A. - Ventitré anni, mia madre è nata il 21 novembre ed io un giorno dopo.
Così mi ha raccontato un po’ quello che ha vissuto ma non della Taranto
di quel periodo. Posso raccontarti Taranto del mio periodo in cui ero
adolescente o piccolo.
S. - Partiamo da quando eri piccolo.
A. - Io ho sempre vissuto con i miei nonni fin quando me ne sono andato
via, quando sono entrato in convento.
Fino ai diciotto anni a Taranto città, poi un po’ fuori città dove mio
nonno aveva un pezzo di terra in cui costruì le case per tutti i figli. Ancor
oggi mia madre vive lì, vicino alle mie zie.
Da piccolo frequentavo il catechismo, andavo sempre a giocare per
strada con i miei amici oppure giocavo con le miei cugine e cugini a
casa loro perché mia madre lavorava. Era una commerciante, aveva un
suo negozio di cartoleria e merceria, in realtà un gran bazar ed era
remunerativo. Mio nonno era un ramaio, faceva grondaie ecc., e anche
lui aveva orario di negozio. Anche lui poco presente ma molto
accentratore, tutti gli dovevano stare attorno durante le feste e le
vacanze. Da lui ho imparato la passione del canto. Lui cantava le opere
ed io gli andavo dietro. Praticamente canto nei cori dall’età di sei anni.
L’estate era il periodo più bello per me perché stavamo io e i miei tanti
cugini tutti insieme a casa di mia nonna e giocavamo all’aperto,
andavamo al mare.
pag. 20
Fondamentalmente non sono stato mai da solo.
Mia nonna non riusciva a gestirmi da solo perché ero tremendo…
S. - Ma tu dici così perché gli adulti attorno a te lo ripetevano di
continuo o …
A. - Bè perché lo ero proprio e lo dico con cognizione di causa. Non
facevo mai quello che mi dicevano, ero dispettoso, combinavo guai ed
ero estremamente vivace. Mia mamma lavorando tutto il giorno e non
volendomi lasciare solo mi portava in giro tra le sorelle e fratelli, quindi
tutti volevano farmi da mamme e papà.
S. - E ti piaceva?
A. - No, troppa gente che mi diceva cosa fare. Per mia zia, mio zio ed i
miei nonni, vivevamo tutti assieme in casa, ero come un peluche, un
bambolotto. E di contro ero molto autonomo perché non essendoci la
mamma, perché fuori casa per lavoro, mi lavavo, vestivo da solo, facevo
anche i compiti da solo.
S. - Il ritmo della tua giornata com’era?
A. - All’asilo facevo il tempo pieno ed uscivo alle 16.00, ma a volte
pranzavamo tutti assieme a casa.
S. - Ti piaceva stare all’asilo?
A. - Sì, diciamo di sì. Ho alcuni ricordi piacevoli, altri divertenti ed altri
spiacevoli. Io ero terribile e mi tiravano per le orecchie tant’è che c’ho
pure un lobo un po’ staccato – ridacchia e risponde alla mia domanda –
era un asilo statale ed erano le maestre a tirarmi le orecchie.
Un altro ricordo è che ero molto amico del figlio della direttrice.
Un altro bimbo ci scocciava, forse perché geloso e per la voglia di stare
con noi, ed io stufo di doverci difendere, una volta lo minacciai di
tirargli una pietra…
S. - E tu sei stato di parola?
A. - Ben cinque punti in testa! Presi tanti schiaffi.
S. - Da chi?
A. - Da tutti, dalla direttrice, dalle maestre, perché poi questo qui era il
figlio di un poco di buono di Taranto e quindi per paura di casini… Poi
per il resto ho bei ricordi.
S. - Alle elementari mi hai detto che giravi da solo per la città, prendevi
e te ne andavi anche da scuola.
A.- Sì, sì. Senza avvisare nessuno aprivo la porta di casa e me ne uscivo,
immagina mia nonna – e si mette le mani nei folti capelli. Oppure da
scuola.
In terza elementare ho cambiato maestro e non ci eravamo simpatici,
lui mi prendeva a ceffoni per calmare la mia vivacità. Sono andato
anche dallo psicologo perché scappavo da scuola proprio perché questo
maestro non mi piaceva. Entravo, lasciavo lo zainetto sulla seggiola e
me ne scappavo via. Giravo per la città e poi andavo a casa di mia zia.
Mia madre poi passava a prendermi. L’analisi dello psicologo poi è
pag. 21
risultata che mia madre non era ferma nell’educarmi, che la sua
incertezza, nel dirmi i no e i sì, creava spazi che mi confondevano.
Ti racconto un ricordo che mi è riaffiorato dopo aver fatto un percorso
di analisi: ero in camera di mia madre a giocare quando lei entra per
prepararsi per andare al lavoro. Si guarda allo specchio ed io mi
nascondo dietro di lei così da farle una sorpresa quando mi avrebbe
visto ma lei non mi ha visto e se n’è andata dalla stanza ed io mi sono
visto allo specchio.
- Pausa di silenzio. E noto che Fra’ Antonio abbassa lo sguardo nella tipica posizione di chi si
raccoglie in se stesso, nel linguaggio non verbale, in un dialogo interiore, così da rivedere e sentire
quei momenti vissuti da bimbo. -
S. - Ti ricordi l’emozione e che hai la sensazione corporea che hai
provato nel vederti?
A. - Di abbandono e di rabbia. La sensazione corporea era di calore, sì
ero accaldato.
Di lì a poco, anche se non collego gli episodi, ho deciso che avrei fatto
di tutto per rompere, essere inopportuno e combinare disastri. Avevo
circa sette o otto anni.
- A questo punto io credo sia necessario fare un intervallo per illustrare
brevemente una teoria. Fra’ Antonio grazie ai suoi studi di Counseling utilizza l’analisi
transazionale, da ora in poi A. T., teorizzata da Berne negli anni Sessanta.
“L’A.T. è una teoria della comunicazione basata sull’analisi
delle transazioni di specifici stati dell’Io coinvolti (genitore,
adulto, bambino), e permette di comprendere come i nostri
schemi abbiano origine nell’infanzia (copione), e
continuino a riproporsi nella vita da adulti (posizioni
esistenziali, giochi), rivelandosi talvolta inadeguati o
dannosi.” 17
“Tale modello ci aiuta a capire come funzioniamo e come
esprimiamo la nostra personalità nel comportamento.
L’A.T. offre anche una teoria dello sviluppo infantile.
Il concetto di copione spiega come gli schemi di vita attuale
abbiano origine nell’infanzia. L’analisi del copione spiega
come nella nostra vita da adulti, noi continuamente
riproponiamo strategie infantili anche quando esse
generano risultati autolesionisti o dolorosi.” 18
Durante l’infanzia si sceglie il proprio copione:
17 www.incoaching.it. 18 Alberto Dea e Rita Sommacal, Dispensa del secondo anno, Analisi Transazionale. Gestalt Institute Associazione
Culturale, Punto Gestalt® “PEGASUS”.
pag. 22
“Prima degli otto anni il bambino si forma un concetto su
quello che è il proprio valore e formula delle idee sul valore
degli altri; inoltre cristallizza le sue esperienze, decidendo
che significato rivestono per lui, quale parte reciterà e
come. Questi sono per il bambino i giorni della decisione” 19…
“I giorni della decisione portano una persona ad assumere
delle posizioni psicologiche. Io sono Ok, tu sei Ok / Io sono
Ok, tu non sei OK/ Io non sono OK, tu sei OK / io non sono
Ok e tu non sei ok” 20…
“Possiamo brevemente definire il copione come un piano di
vita, molto simile a un copione teatrale, che una persona si
sente costretta a recitare.
Un copione è legato alle decisioni e alle posizioni che il
bambino ha assunto nell’infanzia. È nello stato dell’io
Bambino ed è scritto a partire dalle transazioni fra il
bambino e i suoi genitori. I giochi fanno parte del copione.
Una volta individuati la posizione esistenziale e giochi, si
può diventare più consapevoli del proprio copione.” 21
E si può cambiarlo. -
Fra’ Antonio prosegue.
A.- E per farti capire l’attuazione del mio intento, seppur non
consapevole, ti racconto alcuni fatti. Durante il periodo di Natale, in
negozio di mia madre c’erano le tombole, ce ne saranno state una
cinquantina, ed io le ho aperte tutte mischiando i numeri così chi le
avrebbe comprate avrebbe avuto tutta la tombola scombinata!
O ancora, mi è appena tornato alla memoria questo episodio: vicino al
negozio di mia madre c’era uno dei primi grandi magazzini in cui
vendevano il cinevisor che era una specie di proiettore, ed io lo volevo
assolutamente anche se mia madre mi ripeteva di no. Io lo andai a
rubare. Perché il mio intento era: lo rubo, lo metto in negozio di mia
madre senza che nessuno se ne accorga facendo finta che qualcuno se
lo sia dimenticato così me lo prendo io… - risate.
S. - E poi ci sei riuscito, nel tuo intento?
A. - Sì, sono rimasto appostato un sacco di tempo, poi una sera il
proprietario si è distratto, e ho preso questo cinevisor e l’ho portato in
negozio. Mia madre si è accorta, mi ha rimproverato e l’ha riportato in
magazzino.
S - L’ha riportato lei al proprietario?
19 M. James / D. Jongeward, Nati per vincere, Analisi transazionale, Cinisello Balsamo (Milano), Edizioni San Paolo,
1987, p. 56. 20 Ivi, p. 57. 21 Ivi, pp. 61, 62.
pag. 23
A.- Eh sì, e poi me lo sono ritrovato a Natale come regalo e ho ottenuto
quello che volevo…forse.
O, ancora, come quella volta che la combinai proprio grossa. Ero a casa,
ammalato o per le vacanze di Natale, una mattina ho aperto il mobile
bar e ho bevuto tutta la bottiglia di sambuca e mezzo litro di whisky
fino ad andare in coma etilico, per fortuna mio zio si è accorto e di corsa
mi ha portato all’ospedale, di fatto salvandomi.
S.- Da bimbo bere così tanto, ti ricordi gli effetti che ti produceva
l’alcool mentre bevevi?
A.- Sentivo che l’alcool era dolce e poi mentre scendeva mi bruciava la
gola e lo stomaco così andavo in bagno e bevevo dal rubinetto l’acqua.
Poi tornavo al mobile bar e continuavo a bere alcool. Questo andirivieni
mi ha salvato dal coma irreversibile. Ricordo che poi saltavo sul letto
come impazzito e poi non ricordo più niente fino al risveglio in
ospedale.
S. - Ti ricordi la sensazione che provavi nel fare queste cose?
A. - Mmm, io ero in cerca di attenzioni, fondamentalmente, volevo
essere guardato perché non mi sentivo guardato.
S. - Con tutta questa gente attorno a te nonni, zii, cugini, amici, quale
sguardo ti mancava? Cercavi uno sguardo? O cercavi quello sguardo?
– ed il “quello” lo diciamo assieme.
A. - Quello sguardo. – ed alza l’indice della mano sinistra – Lo sguardo
di mia madre. Più che lo sguardo di papà quello della mamma. Anzi
quello di mio padre, che ogni tanto veniva a trovarmi, mi infastidiva e
molto. Nel senso che mi rompeva le uova nel paniere, l’unica cosa che
mi piaceva era che mi faceva i regali, cioè qualsiasi cosa gli chiedessi
lui me la comprava. La sua figura era ingombrante nel senso che entrava
ed usciva dalla mia vita.
E comunque io non ero frequentato da mio padre perché mi voleva bene
ma perché ero un tramite, un modo, per arrivare a mia madre. Siccome
mia madre gli rompeva le scatole perché non veniva a salutarmi, non
pensava a me e non mi prestava attenzione, allora lui ogni tanto veniva
più per far piacere a mia madre e per avere la possibilità di vederla, vista
la loro relazione clandestina.
Dovessi fare una scultura che mi rappresenta nella mia situazione
famigliare ci sarebbero due figure, mia mamma e mio papà, che si
guardano negli occhi ed io al centro basso e non visto.
Io lo so che per mia mamma sono il frutto del suo amore, del suo grande
amore per questo uomo, e so che sono stato pure di intralcio al loro
amore perché ero, appunto in più, il bimbo che ostacolava la loro
relazione.
- Per me ora è importante sottolineare come sia fondamentale porre l’attenzione
sullo sguardo dell’altro. Lo sguardo su di me e il mio sull’altro.
pag. 24
Sguardo e reciprocità.
L’excursus sarebbe troppo lungo, tanto da scrivere un’altra tesi, qui accenno solo
che dalla filosofia, alla teologia, all’arte e alla psicologia è uno dei temi centrali di
ricerca dell’uomo.
Io che sono riconosciuta dallo sguardo dell’altro, fin dal primo quello della
madre, che definisce me stessa e mi rende viva e presente. Se tu mi guardi io sono
determinata e degna d’amore. Dallo sguardo altrui il mio senso dell’esistere e
dell’essere. Allora la mia vita è una continua ricerca di quello sguardo che dall’infanzia
all’età adulta mi permette di esserci, nell’esistenza. E questa ricerca è una continua
ridefinizione, correzione e scoperta dell’equilibrio tra il tuo sguardo ed il mio, che
permette a te, altro, di esserci in reciprocità con me. E che permette al mondo di essere,
attraverso il mio sguardo, definito e riconosciuto come il mio mondo.
In A.T.:
“Ogni qualvolta una persona ne riconosce un’altra con un
sorriso, un cenno del capo, con un fiero cipiglio o con un
saluto verbale, ecc., questo riconoscimento, nel linguaggio
dell’A.T., è chiamato carezza. Una transazione è composta
di due o più carezze.” 22
“Ognuno di noi ha bisogno di essere toccato e di essere
riconosciuto dagli altri…Berne ha denominato fame queste
esigenze biologiche e psicologiche… la fame di esser toccati
e riconosciuti può essere appagata con le carezze: queste
sono qualsiasi atto che implichi il riconoscimento della
presenza dell’altro. Possono essere date carezze in forma di
reale contatto fisico o in qualche forma simbolica di
riconoscimento come uno sguardo, una parola, un gesto o
una qualsiasi azione che significhi so che ci sei.” 23
In altre parole:
“sono un’unità di riconoscimento. Il nostro bisogno di
riconoscimento si basa sulla necessità di essere considerati:
questa è una carezza.
Le Carezze possono essere verbali o non verbali, positive e
piacevoli o negative e spiacevoli, condizionate e riferite
quindi a ciò che uno fa, non condizionate e riferite quindi a
ciò che uno è.
Qualsiasi tipo di Carezza è meglio di nessuna Carezza…
Quindi se non ci sono sufficienti Carezze positive passeremo
a cercare quelle negative.” 24
S. - A casa con i tanti parenti vissuti a stretto contatto sentivi un senso
di comunione, qual era l’idea di fondo che percepivi, con il senno di poi
22 Ivi, p. 44. 23 Ivi, p. 67. 24 Cf. Alberto Dea e Rita Sommacal, Op. Cit.
pag. 25
intendo.
- E Fra’ Antonio si prende un momento per rifletterci su. E dalla posizione seduta, rivolta quasi
opposta alla mia e un po’ scomposta, lo vedo avvicinarsi e rivolgersi verso di me cercando una
posizione più intima. -
A - Sentivo un’accoglienza condizionata, non piena. Un po’ perché io
ero difficile da gestire e poi perché condizionata dal fatto che io ero
comunque il figlio illegittimo della relazione di mia madre. Da tutte
queste persone ero visto e sopportato e di conseguenza io facevo di tutto
per essere insopportabile. Sì adesso con te riflettendoci io ero mal
sopportato da tutti i parenti, da alcuni che sistematicamente mi
svalutavano, anche mia madre lo faceva perché credeva così di
spronarmi a migliorare a scuola ad esempio e da altri perché non
corrispondevo a ciò che secondo loro Antonio, io, dovevo essere.
Ripensando alla mia vita, durante il mio percorso di senso, ho ammesso
che io non mi sono sentito amato.
- A volte quando Fra’ Antonio mi racconta di alcuni avvenimenti della sua
famiglia e descrive le sensazioni che lui ha provato o sente nel momento presente in
cui ricorda ho l’impressione che siano quasi delle confessioni, anche un po’ a se stesso,
perché cambia postura avvicinandosi a me e abbassa la voce. Mi sembra di scorgere
del pudore ed io ammiro la sua lucidità e serenità nel raccontare episodi spinosi e a
volte poco lusinghieri; respiro proprio la sua accettazione che aiuta anche me
nell’ascolto.
Per me, durante il mio personale percorso, ho sentito che comprendere il proprio
bisogno di riconoscimento in maniera adulta e consapevole senza lamentele o accuse
nei confronti di chi aveva anche il dovere di dispensarlo, è una delle cose più difficili
e significative da realizzare. È prendere coscienza della propria paura:
Il bambino ha paura se non può più essere visto, oppure se
non si sente più visto da qualcuno; se non può più udire gli
altri, o essere udito da essi. Dal punto di visto
fenomenologico il sonno consiste nella perdita della
coscienza del proprio essere e del mondo; così il bambino
ha bisogno di sentirsi visto e udito da un’altra persona
mentre, nel processo di addormentarsi, sta perdendo la
coscienza del suo essere.25
E trasportando il pensiero di Laing alla vita adulta, la paura di non essere visti e
riconosciuti è impregnante e difficile, appunto, da riconoscere. Ecco il perché della mia
ammirazione nei confronti di quest’uomo che è qui davanti a me, fino a pochi giorni fa
25 Ronald D. Laing, L’io divido, studio di psichiatria esistenziale, Torino, Einaudi, 1969, p. 120.
pag. 26
persona a lui sconosciuta, a parlare delle sue più intime sensazioni ed emozioni tanto
da scovarne alcune rimaste nel fondo, di farle salire liberamente per affrontarle con me,
lì seduti su quel divano, riflettendoci su e tentando di dar loro spazio nel mosaico della
sua vita.
3.2 - Adolescenza e il suo girovagare (Le Posizioni Esistenziali)
S. - Da adolescente?
A. - Per quanto riguarda la scuola: alle medie c’erano due ragazzi che
mi avevano preso di mira. E quel periodo è stato più pesante rispetto
alle elementari. Erano in classe mia ed appena potevo scappavo da loro.
Sono stato, come si dice ora una vittima del bullismo. Stufo, un bel
giorno ho deciso di affrontarli perché ho pensato che le avrei prese ma
le avrei pure date, delle mazzate! Così è stato ma da quel giorno mi
hanno lasciato stare.
Alle superiori sono stato bocciato più volte ed ho girato più scuole.
Passavo i pomeriggi fuori casa, in patronato a cantare, scherzare e a non
studiare. Ricordo le tante persone che frequentavo, avevo più
compagnie di amici. Stavo con i più forti e per far parte del gruppo mi
facevo condizionare, combinavo stupidaggini. Stavo dietro alle persone
che manifestavano anche il piccolo interesse nel volermi ed io facevo
tutto ciò che facevano loro, anche che loro volevano facessi, ovvero i
più forti mi usavano, pur di essere accettato.
S. - Ripetendo per tre volte la prima superiore tu che pensavi?
A. - Non avevo un sogno per il futuro, mi mancava un senso e non ci
pensavo.
- A questo punto intendo riprendere le posizioni esistenziali dell’A. T.
“Il bambino piccolo, all’inizio del processo di formazione
del Copione, quindi nei primissimi anni (…) ha già assunto
su se stesso, sui suoi genitori e sulle persone che lo
circondano, alcune convinzioni.
Tali convinzioni sono:
Io sono Ok
Io non sono Ok
Tu sei Ok
Tu non sei OK
Unendo queste posizioni in tutte le loro possibili
combinazioni si ottengono affermazioni su se stessi e sugli
altri:
Io sono OK tu sei OK
pag. 27
Io non sono OK tu sei OK
Io sono OK tu non sei OK
Io non sono OK tu non sei OK
Queste affermazioni sono le posizioni di vita. Sono le
posizioni fondamentali che una persona assume circa il
valore essenziale che percepisce di sé e negli altri. Una
volta adottata una di queste posizioni il bambino tenderà a
costruire il resto del proprio Copione in modo che collimi
con esso. Il bambino che sceglie 1 elaborerà probabilmente
un copione vincente. Egli considera se stesso degno
d’amore e decide che i suoi genitori sono degni d’amore e
fiducia e più tardi estenderà agli altri questa convinzione.
Se il bambino sceglie il 2 scriverà una storia perdente o
banale. Elaborerà il proprio copione intorno al tema di
essere vittimizzato o di perdere di fronte agli altri.
La combinazione 3 può costituire la base del Copione che
sembra essere vincente. Ma questo bambino avrà la
convinzione di dover essere super. Potrà raggiungere i suoi
desideri ma solo con una continua lotta. Altre volte intorno
a lui si stancheranno di essere in posizione di inferiorità e
lo rifiuteranno. In questo modo egli passerà dalla posizione
di apparente vincitore a quella di perdente.
La combinazione 4 è la base più probabile di un Copione
perdente. Il bambino è giunto alla conclusione che la vita è
futile e disperata. Si considera inferiore e indegno d’amore.
È convinto che nessuno potrà aiutarlo perché non è OK
come lui. Con il suo Copione è incentrato sul tema di dare
e ricevere il rifiuto.
Secondo Berne la posizione di vita è assunta dai tre ai sette
anni: quindi si strutturano prima le decisioni e poi le
posizioni di vita per far sì che il mondo giustifichi ciò che è
stato deciso. Un esempio è dato dalla convinzione “non
rischierò mai di amare nessuno visto che la mia mamma mi
ha mostrato che non sono degno d’amore”. Più tardi il
soggetto giustificherà questa posizione con la convinzione
“non sarò mai amato” che si traduce in “io non sono
OK”.” 26
3.3 - La droga (Teoria della Gestalt e Ciclo di Contatto)
26 Cf. Alberto Dea e Rita Sommacal, Op. Cit.
pag. 28
A - All’età di diciassette anni, dopo aver frequentato ogni anno un paio
di mesi la scuola e poi lasciarla, aver fatto qualsiasi tipo di lavoro, con
qualche raccomandazione, e sotto le pressioni di mia madre, ho
superato l’esame di ammissione della Marina Militare.
Questa, all’epoca, era l’alternativa per i ragazzi che non avevano voglia
di studiare: fare i marinai.
Ricordo la soddisfazione di vedermi in divisa, sia mia, di mia mamma
che dei parenti.
Ero bravo a scuola e nel lavoro, eh sì, tutti mi volevano bene e mi
cercavano.
S. - Sento sorpresa nella tua voce!
A. - Sì, perché per me era la prima volta che mi accadeva. Il periodo che
ho vissuto in Marina è stato bello ed è durato quattro anni, dai
diciassette ai ventuno anni. Un periodo con successi in cui ero ben
voluto ed anche corteggiato socialmente e sessualmente.
E per darti l’idea della situazione in cui ero mentalmente, proprio come
un bimbo, senza consapevolezza e senza maturità, sono entrato in
Marina il 21 settembre del 1987 e dopo tre giorni, durante le prime ore
di libera uscita, mi son trovato nella pineta della caserma e ho visto un
gruppo di ragazzi vicino ad un albero. Mi sono avvicinato e loro si
stavano fumando una canna. Per la prima volta ho fumato anch’io,
giusto per stare nel gruppo e farmi accettare da dei nuovi amici.
Da quella sera con alcuni ragazzi di quel gruppo abbiamo stretto
un’amicizia legata dallo stesso scopo: fumare qualsiasi tipo di
cannabinoidi.
Poi sono stato imbarcato e ho trovato altri ragazzi che si fumavano le
canne come me e quindi quando arrivavamo nei porti, in cui
sbarcavamo, andavamo a cercare i posti dove comprare il fumo
migliore. Poi però non ci è più bastato e abbiamo iniziato a fare uso di
altre sostanze: la pasticca, il tiro di cocaina, la punta d’acido e lsd.
S. - Era una fuga?
A. - Sì una fuga dalla routine e poi c’era anche l’equazione - tanto mi
sballo tanto mi diverto – questo era il mio stile di vita.
Una notte di guardia mi annoiavo a morte ed esagerai con il fumo.
Venne il comandante a riprendermi perché cantavo troppo forte. Il
giorno dopo ero in consegna e sotto esami medici. I risultati degli esami
delle urine hanno stabilito che ero positivo agli oppiacei e ai
cannabinoidi. Mentre il risultato della situazione è che sono stato
espulso dalla Marina e ho dovuto terminare “a terra” il periodo fino
all’ufficializzazione.
Quell’evento è stata una brusca frenata, una tale e forte delusione che
ha segnato la mia rotta.
E un senso di fallimento totale mi ha pervaso.
Un fallimento come figlio perché senza padre e con la consapevolezza
pag. 29
di non essere il figlio che mia madre voleva, quindi mi sentivo
fallimentare a livello affettivo. Fin da piccolo considerato la pecora nera
della famiglia, a scuola un “ciuccio” di prima categoria e poi cacciato
dalla Marina perché drogato o quasi.
A livello esistenziale perché avevo perso tutto, il lavoro e i soldi che mi
davano la mia indipendenza.
Avevo la netta sensazione di essere sbagliato e di non essere come gli
altri mi volevano.
L’evento dell’espulsione ha prodotto l’effetto di buttarmi sempre più
giù, fino a buttarmi via.
S. - Come tu avessi assunto dalla famiglia, fin da piccolo, questa identità
che aleggiava, nemmeno tanto velatamente, di te, bimbo, figlio del
peccato, turbolento e ingestibile fino a diventare un ragazzo difficile. E
poi questo evento è come se ti avesse fatto vedere tutta la tua vita
indietro.
- E Fra’ Antonio risponde “mmm” e con la testa va su e giù quasi a rafforzare
questo sì che io sento pesantissimo. -
A. - Sì l’espulsione è stata come scoperchiare il vaso di pandora27, è
saltato tutto fuori. Sentivo di aver perso qualcosa di importante
anche se stare in Marina non mi piaceva nel senso che non era ciò
che volevo. Mi sentivo perso, imbruttito, sentivo di non valere
niente, di distruggere tutto ciò che mi passava tra le mani, e di non
riuscire a mantenere niente di buono.
Al racconto di questi avvenimenti sento molto forte, quasi con dolore fisico, la
ricerca di un senso di appartenenza in cui riconoscersi da parte di quel bimbo divenuto
ragazzo. Il suo vagare alla ricerca di conferme del proprio copione in cui “non solo non
sono Ok ma non sono nemmeno degno d’amore”.
La continua ricerca di attenzione e allo stesso tempo di conferma, di questo
messaggio oramai assunto, cioè quello di essere sbagliato, ad ogni marachella, azione
ribelle e poi vero e proprio guaio, fino alla consapevolezza, quasi disperata, da giovane
adulto di non essere nemmeno la persona che lui stesso voleva essere.
Ora mi sembra giunto il momento di scrivere poche righe sulla teoria della
Gestalt (forma), indirizzo dei miei studi di Counseling, che mi aiuteranno nel definire
quello che io ho sentito e provato nel conoscere la sua storia.
La teoria della Gestalt nasce attorno al 1920 in Germania ed è centrata sui temi
della percezione e dell’esperienza. Circa a metà del secolo scorso da questa teoria
prende spunto un approccio psicologico nuovo legato al modello fenomenologico: la
terapia della Gestalt che dà importanza all’esperienza e alla realtà così come si
presenta. Il motto che riassume la tendenza gestaltista è: “il tutto è maggiore della
27 Esiodo, Le opere e i giorni, Milano, Garzanti, 2006. Nella mitologia greca, il Vaso di Pandora raffigura il contenitore
che racchiude tutti i mali della terra. Finché chiuso i mali e l’uomo non erano in contatto, una volta aperto il mondo è
pervaso dai mali dell’uomo.
pag. 30
somma delle sue parti”. Da una esperienza percettiva si ha la “forma” totale a cui la
nostra mente attribuisce significato, al di là di ogni singolo dettaglio. Sostanzialmente
la nostra esperienza percettiva avviene al confine tra noi e l’ambiente e ciò che avviene
all’interno di questo confine merita di essere sentito e conosciuto. La cura non è
comprendere la genesi del disturbo ma sentirsi riconosciuti dall’altro che per noi è
significativo. Questa relazione tra noi, l’interno, con l’oggetto o ambiente, l’esterno, è
chiamata Ciclo di Contatto, ed organizza il ciclo di esperienza della Gestalt. Ogni
qualvolta provo un desiderio o bisogno, dal primario e fisiologico a quello più
spirituale, attivo il ciclo di contatto per raggiungere la soddisfazione di esso. Questo
permette di comprendere il punto in cui l’esperienza si può inceppare, e in una qualche
maniera capire dove non si chiude, facendo così rimanere aperta la Gestalt, ovvero
senza soddisfare il bisogno.
Immaginiamo un cerchio al cui interno c’è il sé e l’esterno è l’ambiente. Il
confine, ovvero il confine tra noi e l’esperienza, ha diverse tappe: la prima la
sensazione, poi la consapevolezza, la mobilizzazione, l’azione, il contatto pieno, la
soddisfazione ed infine il ritiro.
Con questo ciclo possiamo giungere ad una consapevolezza delle nostre possibili
interruzioni e lavorare affinché si possano superare per chiudere il cerchio, e quindi la
Gestalt, e raggiungere la soddisfazione del nostro bisogno o desiderio.
A mio avviso Antonio Vito fin da piccolo ha avuto la sua maggior difficoltà nella
prima tappa ovvero nella sensazione o sensibilizzazione: io non sento, non mi sento
nemmeno fisicamente, oltre che emotivamente, e continuo ad aprire Gestalt per poter
arrivare alla soddisfazione del mio più grande desiderio, quello di essere visto,
riconosciuto ed accettato. Ma se non riesco a sentire il mio bisogno non riesco
nemmeno a renderlo consapevole e quindi la mia ricerca sarà senza alcuna soluzione e
continuerà quasi senza sosta, alimentando il mio spaesamento. E questo comporta tutta
una serie di scelte nemmeno tanto ponderate, perché non essendo presente al mio
bisogno, la mia ricerca risulterà senza un senso. E cosa più importante, a mio avviso,
non riuscirò nemmeno a comprendere come cambiare modalità d’azione dopo i miei
tentativi senza successo ed i miei errori.
Perché le mie risorse saranno tutte bloccate lì, all’inizio del ciclo, senza testare,
con azioni sempre più efficaci, la possibilità di realizzare per davvero un mio bisogno.
Ecco, per me, come counselor, l’interruzione del ciclo gestaltico per Antonio
Vito è stato nella prima tappa, quella della sensazione, del sentirsi, vivendo in uno
scorrere continuo delle giornate, e quindi dell’infanzia e giovinezza, a tratti senza
consapevolezza. -
3.4 - Il periodo più buio, minaccia di morte (Comunicazione Nonviolenta e
Programmazione Neuro Linguistica)
S. - Mi dicevi che sei passato all’eroina.
pag. 31
A. - Una sera in giro con la macchina ho incontrato l’amico marinaio,
con cui fumavo in Marina, che mi ha presentato alcuni suoi amici e mi
sono fermato. Ripensandoci tante volte ho sperato di poter cambiare
quell’evento, di decidere diversamente e di proseguire dritto per la
strada con la macchina, invece, mi sono fermato a fare due chiacchere.
Con queste persone, che poi ho preso a frequentare. per la prima volta
ho provato l’eroina. Ho iniziato sniffandola, una sera in macchina con
questi amici, che mi erano venuti a prendere per andare in giro e si erano
già fatti. Quando son salito in macchina li vedevo strani, e ho chiesto
loro che avevano fatto, così poi ho detto che anch’io volevo provarla.
Da lì in poi sono diventato un tossico a tutti gli effetti.
La prima volta che la prendi, l’eroina, ti fa sentire bene poi, invece, la
tiri per stare bene perché altrimenti è un continuo malessere.
S. - Cosa facevi in quel periodo? Dopo aver terminato gli ultimi mesi di
firma militare a terra, dove vivevi e come impiegavi il tuo tempo?
A. - Sono tornato a casa con mia mamma, senza soldi, in tasca e messi
da parte, perché avevo speso tutto quello che avevo. Lo stipendio in
marina era alto ed io avevo comprato uno stereo professionale, poi ogni
mese spendevo centinaia delle vecchie lire in dischi perché mi piaceva
molto ascoltare la musica. Spendevo vivendo.
Mi comprai anche la macchina, dopo due ore, feci la fiancata nuova
grattandola nel cancello d’ingresso. Ricordo ancora tutte le male parole
che mi son detto…
S. - Avevi un dialogo interiore molto violento.
A. - Sì, in continuazione, mi dicevo che ero un coglione, che non ne
facevo una di giusta…
Ricordo che in quegli anni io mi sono proprio odiato.
S. - Pur avendo anche dei ritorni molti positivi da persone come i
colleghi ed alcuni amici e pure molti famigliari?
A. - Mi ero abituato a ricevere le Carezze negative, di quelle positive
nemmeno mi accorgevo.
-Delle Carezze ho già scritto considerando l’A.T.
Ritengo qui di inserire alcune informazioni sulla Comunicazione Nonviolenta
(CNV) di M. B. Rosemberg:
“un primo aspetto importante della nostra vita in cui
possiamo cominciare a sostituire la violenza verso noi stessi
con l’empatia è il modo in cui, valutiamo noi
stessi…Purtroppo, spesso siamo stati educati a valutare –
giudicare - noi stessi in modi che ci spingono più ad odiarci
che ad apprendere…Valutare noi stessi quando siamo stati
meno che perfetti…comincio chiedendo ai partecipanti di
pensare ad una recente occasione in cui hanno fatto
pag. 32
qualcosa che desidererebbero non aver fatto. Poi passiamo
in rassegna i modi in cui hanno risposto a se stessi dopo
aver fatto quello che comunemente viene chiamato uno
sbaglio o un errore. Frasi tipiche sono: che idiozia che ho
fatto!, Come ho potuto fare una cosa del genere?, Che cosa
c’è che non va in me?, Faccio sempre pasticci…
Chi parla in questo modo di solito è stato educato a
giudicare se stesso in modi che implicano che la sua azione
è stata sbagliata o cattiva; il suo auto-ammonirsi implica
che sta pensando di meritarsi di soffrire per quello che ha
fatto. È davvero tragico che così tanti di noi si impantanino
nell’odio verso se stessi invece di beneficiare degli errori
che ci mostrano i nostri limiti e ci guidano verso la
crescita…La vergogna è una forma di odio verso noi stessi
e le azioni che vengono intraprese come reazione al senso
di vergogna non sono azioni libere e gioiose…Nella nostra
lingua c’è una parola che ha fortissimo potere di creare
vergogna e senso di colpa. Questa parola violenta, che
usiamo comunemente per giudicare noi stessi, è talmente
radicata nella nostra coscienza che molti di noi non
saprebbero immaginarsi come vivere senza di essa. Si tratta
del verbo dovere…”28
La Comunicazione Nonviolenta:
“è un approccio alla comunicazione – alla parola e
all’ascolto - che ci porta a dare dal cuore, connettendoci
con noi stessi e con gli altri in un modo che permette alla
nostra naturale empatia di sbocciare…utilizzando il
termine “nonviolenza” nel modo in cui lo usava Gandhi –
per fare riferimento al nostro stato naturale di empatia,
quando la violenza ha ceduto il posto al cuore. Anche
quando non consideriamo “violento” il modo in cui
parliamo, le nostre parole spesso portano al dolore e al
ferimento, sia di noi stessi che degli altri…La CNV si basa
su abilità di linguaggio e di comunicazione che rafforzano
la nostra capacità di rimanere umani, anche in condizioni
difficili. Non contiene nulla di nuovo: tutto quello che è stato
integrato nella CNV è già noto da secoli. Il suo scopo è
quello di farci ricordare ciò che già sappiamo – circa il
modo in cui gli uomini sono fatti per relazionarsi tra
28 Marshall B. Rosemberg, Le parole sono finestre (oppure muri), introduzione alla comunicazione non violenta, Reggio
Emilia, Esserci edizioni, 1998, pp. 160-161.
pag. 33
loro– … La CNV ci guida nel ripensare il modo in cui
esprimiamo noi stessi ed ascoltiamo gli altri. Invece di
limitarsi ad essere reazioni automatiche, abituali, le nostre
parole diventano risposte coscienti basate sulla solida
consapevolezza di ciò che percepiamo, ciò che sentiamo e
ciò che vogliamo. Siamo perciò indotti ad esprimere noi
stessi con onestà e chiarezza, prestando agli altri allo stesso
tempo un’attenzione rispettosa ed empatica. In ogni
scambio, arriviamo ad ascoltare i nostri bisogni più
profondi e quelli altrui. La CNV ci prepara ad osservare
attentamente ad essere in grado di individuare i
comportamenti e le condizioni che ci influenzano.
Impariamo a identificare e ad articolare con chiarezza che
cosa vogliamo concretamente in ogni situazione.
La forma è semplice e tuttavia capace di generare potenti
trasformazioni.
Quando la CNV sostituisce i nostri vecchi schemi di difesa,
rinuncia o attacco di fronte alla critica e al giudizio,
arriviamo a percepire noi stessi e gli altri, così come le
nostre intenzioni e le nostre relazioni, in una nuova luce. La
resistenza, l’atteggiamento di difesa e le reazioni violente
vengono minimizzate. Quando ci concentriamo sul fare
chiarezza su ciò che osserviamo, che proviamo e ciò di cui
abbiamo bisogno, anziché sull’emettere diagnosi e giudizi,
scopriamo la profondità della nostra empatia… Benché io
mi riferisca ad essa come un processo di comunicazione o
un linguaggio di empatia, la CNV è assai più di un processo
o linguaggio. Ad un livello più profondo, essa ci sollecita
continuamente a concentrare la nostra attenzione su un
piano diverso, dove è più probabile che otterremo ciò che
stiamo cercando”29 .
- Queste poche righe sulla CNV per farci intendere quanto importante è il nostro
dialogo interiore, che se violento genera continuamente violenza anche nei
comportamenti, nei confronti di noi stessi e degli altri. Modificando il nostro
linguaggio modifichiamo anche le nostre azioni, il nostro comportamento e di
conseguenza il mondo attorno a noi.
E da ciò che ha raccontato Fra’ Antonio ho recepito che fin da piccolo era stato
attorniato da forme di violenza verbale e non, da continui giudizi e a volte pregiudizi,
che lo ingabbiavano in un ruolo che alla fine lui stesso ha introiettato, comportandosi
in modo tale da non disattendere quel ruolo stesso.
29 Ivi, pp. 25-26.
pag. 34
Un’altra preziosa tecnica per comprendere quanto è importante il linguaggio da
noi usato è la Programmazione Neuro Linguistica (PNL):
“La P.N.L. è nata dal frutto di anni di ricerche, compiute
da Richard Bandler e John Grinder, orientate a scoprire
quali fossero gli elementi comportamentali e linguistici che
permettevano alle persone di successo di avere una
costanza di risultati positivi talmente rilevante. I risultati
sono stati l’individuazione di una serie di strategie
comportamentali e di modelli linguistici specifici e
riproducibili”.30
In altre parole:
La PNL è uno strumento operativo che consente di creare
nelle persone schemi mentali nuovi e strategie nuove
(Programmazione) che si sviluppano nel nostro cervello
(Neuro) attraverso l’uso del linguaggio (Linguistico).
La PNL non si limita a facilitare questo processo, ma ci
permette anche di minimizzare o di eliminare del tutto
l’influsso di esperienze passate, creando e installando al
loro posto stati mentali nuovi.
Alcune persone, invece, pensano di persistere in situazioni
a loro note, evitando di cambiare schema, e ottenendo per
questa ragione i risultati disagevoli che hanno sempre
ottenuto.
In pratica si parte dal presupposto che è fondamentale
pensare che se una cosa non funziona, basta provarne
un’altra di diversa per ottenere risultati diversi e non
fermarsi…
Ogni ambiente ha dei codici comportamentali e
comunicativi che possiamo definire programmi o copioni (v.
Analisi Transazionale), che hanno il potere di determinare
il nostro modo di essere nei confronti di tutto ciò che ci
circonda… Quando manteniamo sempre gli stessi codici
comportamentali, otteniamo necessariamente sempre gli
stessi risultati. E se i risultati ottenuti non ci soddisfano, va
da sé che dovremo modificare i nostri comportamenti. La
PNL si occupa proprio di questo: porta le persone a
modificare i programmi personali, in modo da ottenere
agevolmente risultati migliori e più soddisfacenti.
Uno degli assunti principali della PNL afferma che, a
30 www.pnl.info.
pag. 35
seconda del momento che stiamo vivendo, influenzati dai
nostri schemi mentali o dall’ambiente esterno, noi possiamo
trovarci in uno stato (d’animo) positivo quindi benefico, o
negativo e quindi portatore di malessere. Lo stato in cui ci
troviamo determina le decisioni che prenderemo…
Altrettanto importante, quindi, lavorare per imparare a
modificare il nostro stato, al fine di poterci mettere in azione
in modo positivo e sicuramente portatore di benessere.31
S. - Conclusa l’esperienza in Marina, quando sei tornato a casa, avevi
vent’uno anni e che facevi tutto il giorno?
A. - Bighellonavo, e poi ho trovato lavoro presso un garage di proprietà
del padre di un mio amico. In quel garage succedeva di tutto. C’erano
parcheggiate le macchine delle famiglie mafiose della città e quindi
sparatorie, minacce insomma dei giri strani. Questo proprietario mi
dava un tanto al giorno, proprio poco, per star lì a controllare il garage.
Ed è in questo garage che ho iniziato a farmi per la prima volta.
S. - In che senso? Non eri già sotto gli effetti della droga in questo
periodo?
A. - Prima tiravo, qui in questo garage per la prima volta mi sono bucato.
S. - Degno teatro…
A. - Sì, degno teatro squallido. In questo garage c’era uno sgabuzzino
ed io lì per la prima volta ho usato la siringa.
Adesso parlando con te ricordo l’evento esatto che ha scatenato questa
reazione. Mi era venuto a trovare quell’amico-collega di Marina che
aveva saputo dai suoi amici che tiravo l’eroina e ricordo che mi disse
che gli facevo schifo e che non voleva avere più niente a che fare con
me.
S. - Sento tanta tristezza e disperazione.
A. - Mi son sentito triste e deluso, questa cosa mi ha ferito perché a lui
tenevo molto. Lui era come l’ultima àncora e legame affettivo. Un’altra
delusione che non potevo sopportare e quindi per sedare ho deciso di
bucarmi. Ricordo anche com’ero vestito. Sono andato nello sgabuzzino,
ho tirato su la manica della maglia e ho chiesto al mio amico, che
lavorava lì con me e che già si drogava, di farmi la prima siringa.
S. - E quando parli di questa tristezza e delusione e senso di abbandono
dove lo senti cioè in che parte del corpo?
A. - uhuhu qua.
-E si stringe la pancia con una mano come fosse una morsa. Poi mi guarda finché non lo
guardo negli occhi e mi dice sì con la testa, ed ho la sensazione che lo faccia per vedere se io sto bene
in questo momento profondo ed impegnativo. E questo mi riempie di profonda tristezza e dolcezza.
31 Cf. Alberto Dea e Rita Sommacal, Op. Cit., pp. 21-22.
pag. 36
Ed io sento in quel preciso istante tutta la sua disperazione che è stata ed anche la magia del momento
che stiamo vivendo lì insieme. Il lavoro che stiamo facendo che serve a me per questa tesi, e in realtà
anche personalmente, e a lui per riprendersi dei ricordi, seppur dolorosi, sempre suoi, e che la droga
ha cancellato. Ecco perché ritengo che questo momento sia stato così importante perché Fra’ Antonio
si sta riprendendo un pezzettino di vita. Ed io mi sento così vicina a lui, che oramai è disteso su questo
divano e ricorda, parla e racconta, tanto che mi dice che queste cose le sappiamo solo io ed il suo
psicoterapeuta. –
A. - Con questi lavori personali, di Counseling e colloqui, poi la
psicoterapia ecc. mi ritornano alla mente pezzi di vita vissuta che sono
nascosti e dimenticati, perché la droga mi annebbiava in continuazione
di questi ultimi due anni ho dei buchi temporali. Ad esempio ricordo dei
frammenti di un viaggio a Roma, ma non so né quando o con chi l’ho
fatto o il perché.
L’eroina è una droga bruttissima, ti spersonalizza cioè non sei più tu.
Non esiste più lavarsi, mangiare, ero magrissimo in quel periodo.
Non esiste parlare, figuriamoci in maniera lucida, o interessarsi agli
altri. Ti porta via tutto.
L’eroina seda tutto anche dagli affetti.
Io ho alzato le mani su mia madre per avere i soldi per una dose.
Non esiste più l’amicizia, l’affetto materno, il rapporto di coppia e lo
stare insieme agli altri. L’eroina si prende tutto e l’unico pensiero è
quello di farsi. Pensa che sono arrivato a farmi anche cinque volte in un
giorno.
- Mentre parla di questo periodo io noto i gesti delle mani e della testa.
Spesso le mani si muovono con dei gesti che allontanano velocemente l’aria. È un gesto rapido ed è
accompagnato anche dalla testa che si gira dall’altra parte, anche questa si muove velocemente. La
lingua schiocca quasi in un naaa! Secco. L’espressione del viso è molto seria. -
A. - Dal rientro a casa dalla Marina i due anni successivi sono stati
proprio pesanti. Anni in cui ero in caduta libera, e in cui ho rischiato più
volte di morire.
S. - Da quello che mi hai raccontato sembra quasi ti volessi annullare,
anche se non posso saperlo ed è solo un termine per indicare il tanto
dolore che sento mentre mi parli.
A. - Proprio così, mi volevo annullare e la droga sedava tutto ciò che
avevo dentro, rabbia e ansia.
Seguivo sempre questo amico del garage che tagliava le dosi e
spacciava per conto di una famiglia malavitosa, ed io lo aiutavo. Una
volta a casa mia sopra il tavolo ci stava una montagna di droga perché
lui la tagliava per tenersene un po’ e poi dividerla con me. È arrivata
mia mamma ed io ho visto la sua espressione e mi son sentito male.
S. - Nel senso che tu hai capito cosa stavi facendo? Un momento di
consapevolezza?
pag. 37
A. - Nel senso che io ho capito in quel momento che facevo del male a
mia mamma, a lei, ma non a me. Perché di me non me ne fregava niente
e mi dispiacevo di farla star male ma fondamentalmente mi dicevo
pazienza. Poi un tossico è un mentitore seriale e mi mentivo dicendomi
che non mi sarei più bucato ma poi ricapitava.
In seguito, dopo un anno che ero tornato a casa, mia madre per tenermi
più sotto controllo ha aperto un negozio come il suo, una cartoleria, e
così ho iniziato a lavorare lì con una mia cugina, che aveva l’incarico
anche di “sorvegliarmi”. Durante questo periodo incominciavo ad avere
sbalzi d’umore e ad essere irascibile.
S. - Tua madre e i tuoi parenti ti tenevano sotto controllo?
A. - Sì, o mia madre direttamente o qualche cugino giravano per la città
e venivano a scovarmi, magari dopo giorni che non tornavo a casa
nemmeno per dormire. A mia madre bastava sapere dov’ero e sapere
che ero vivo.
S. - È in questo periodo che è capitato l’evento scatenante? Quello che
in qualche modo ha segnato il cambio di rotta?
A. - Sì, dopo circa un altro anno, quel mio amico del garage è sparito
con della droga non sua ma di una delle famiglie malavitose.
Sapendo che io gli ero amico una sera all’ora di chiusura del negozio si
sono presentati due uomini e mi hanno riempito di mazzate tanto che
alcuni denti sono volati via. Poi mi hanno minacciato con la pistola e io
ho creduto di morire. Dalla paura me la sono fatta addosso e non è un
modo di dire, figurato, intendo proprio fisicamente. Il tutto perché
credevano che io sapessi dove fosse finito questo ragazzo con il carico
di droga. Ma io non sapevo nulla.
S. - Ecco anche in questo episodio molto grave, tu ti sei trovato in questa
situazione perché seguivi questo spacciatore non perché lo fossi tu in
prima persona, intendo non hai mai guadagnato con la droga.
A. - No, no, no. Io lo seguivo, era un mio amico e ogni tanto lo aiutavo.
S. - E da questo episodio come è proseguita la tua vita?
A.- Beh per più di un mese male, mi pedinavano, me li trovavo
dappertutto e mi seguivano ovunque per controllare se avessi qualche
contatto con questo ragazzo scappato via.
Un giorno ho detto a mia madre che mi doveva aiutare perché avevo
deciso di disintossicarmi.
3.5 - La disintossicazione
-Nei colloqui in cui Fra’ Antonio racconta questa parte della sua vita ho notato un
rallentamento della velocità della parlata, delle pause più lunghe e molto spesso dei
pag. 38
sospiri. A volte l’espressione del volto mi è sembrata volesse come esprimere un “eh,
già!” quasi a sottolineare che la alcuni accadimenti della vita si vivono e basta.
Considerando con il senno di poi mi ha detto che l’esperienza del passato se la sarebbe
volentieri risparmiata!!!-
S. - Tua mamma come ha reagito a questa richiesta? E a lei hai chiesto,
intendo, una richiesta di aiuto così importante.
A. - Certo a lei, lei che non mi ha mai abbandonato, anche prima c’era
solo che io non la vedevo. Mi ha detto che mi avrebbe accompagnato
in comunità ma io ho risposto che volevo farcela da solo, a casa.
S. - Hai deciso di disintossicarti a casa da solo?
A. - Da solo, la comunità mi spaventava. Stare con altre persone. E poi
avevo la netta certezza che ce l’avrei fatta, se aiutato.
La fortuna è che un amico di famiglia, medico, mi ha seguito, e poi con
l’aiuto di molti miei parenti.
Disintossicarsi dalla droga è bruttissimo.
È un trauma.
L’eroina prende tutto ed è un trauma fisico: ogni fibra e cellula del tuo
corpo reclama la droga. Oramai ero arrivato al punto che se non mi
facevo ero uno straccio, versavo in uno stato di malessere che solo la
droga per un po’ migliorava. Un trauma psicologico: pensi solo a quello.
Essere tossico è anche una mentalità quella dell’uso. La droga non è
associativa ma disgregativa, ci sei tu con il tuo pensiero e ossessione
fissi e basta.
S. - Quanto tempo hai impiegato per liberarti fisicamente?
A.- Due settimane di inferno. Durante il giorno vomitavo, non
mangiavo e non riuscivo a fare nulla. Durante la notte non dormivo e
avevo allucinazioni.
Il medico all’inizio voleva darmi dei psicofarmaci ma io ho rifiutato,
non volevo cascare in un’altra dipendenza. Passava ogni giorno a
controllarmi.
Avevo dolori ovunque. Volevo dormire e riposare ma non ci riuscivo.
L’unico pensiero fisso era quello che se prendevo una dose sarei stato
meglio.
S. - E che pensavi in quei momenti?
A.- Ce la devo fare, al massimo muoio. Sì, il peggio che mi può
succedere è di morire, ecco a che pensavo.
S. - In questo periodo e nelle settimane successive avevi compagnia?
Qualcuno ti veniva a trovare?
A. - Non sono stato mai solo, a turno i miei cugini o qualche altro
parente mi facevano compagnia ogni giorno.
Piano, piano ho iniziato a passare qualche ora in cui riuscivo ad alzarmi
dal letto.
Ho ripreso a lavarmi e a mangiare. Ho ripreso a dormire qualche ora.
pag. 39
Ogni giorno sempre un po’ di più.
Ho ripreso ad ascoltare musica, a leggere, a fare una conversazione da
lucido. Mamma mia ricordo le prime conversazioni, riuscivo a parlare,
a scambiare proprio un dialogo essendo presente a me stesso.
Ho ripreso me stesso.
Questo periodo di cambiamento è stato molto duro, per tutti quelli che
mi stavano attorno, la mia famiglia. Anche per loro è stato un lungo
percorso di cambiamento.
S. - E poi come è proseguita la ripresa della tua vita? E le persone che
frequentavi? So essere tra le cose difficili spezzare il legame con
l’ambiente e le persone fin prima bazzicate?
A. - Mia madre ha telefonato alle famiglie dei vari amici dicendo loro
di tenermeli alla lontana. Questo ha sortito un doppio effetto. Il primo
che queste famiglie venissero a conoscenza della situazione, ovvero che
pure i loro figli si drogavano. L’altro che davvero nessuno più si
avvicinasse in un momento così delicato, alcuni anche per vergogna,
che non mi frequentassero più insomma.
Un po’ alla volta, ho ripreso a lavorare e oramai la mia vita era lavoro e
casa.
Il fatto è che non sapevo che farmene di questa mia decisione.
S. - Ancora un senso faticava ad esserci?
A. - Sì, un senso ancora non c’era e proprio per questo sono entrato in
depressione. Che senso aveva questa mia vita? E stavo nuovamente
malissimo.
S. - Come affrontavi la giornata?
A. - Programmando la mia morte o pensare di tornare a drogarmi, che
equivale alla stessa cosa.
3.6 - L'ascolto e la decisione di cambiare
- Nel racconto di questa parte della sua vita Fra’ Antonio mi è parso sempre più in
confidenza, anche con la vicinanza fisica, nel senso di apertura. Un’informazione che
ho colto anche grazie al linguaggio corporeo, in cui Fra’ Antonio era più rilassato e
disteso, i respiri più regolari e i gesti meno veloci. E le sue pause di riflessione,
profonda, in cui prendeva contatto con se stesso, in cui lo sguardo si abbassava proprio
a cercare dentro di sé ciò che mi voleva raccontare. Nettamente diverso, diciamo il
clima, rispetto alle pause molto lunghe e ai sospiri detti prima. Ho sentito come un
regalo il fatto che mi stesse dando fiducia e proprio come un dono che mi affidasse i
suoi ricordi. -
pag. 40
S. - Cosa ti ha fatto cambiare idea circa i tuoi progetti funesti?
A. - Una volta ho sentito mia mamma e mia nonna che parlavano con
entusiasmo del prete nuovo da poco arrivato nella nostra parrocchia e
avendo rifiutato il consiglio di mia mamma di andare da uno psicologo
ho appuntato questa informazione mentalmente.
Una sera, chiuso il negozio, ero in uno stato depressivo molto elevato,
e passando davanti alla chiesa mi sono ricordato la conversazione tra
mia mamma e mia nonna. Forse mi sono pure ricordato della mia
adolescenza, quando in chiesa stavo bene. Fatto sta’ che sono entrato.
S. - Avevi scelto di affidarti a quel prete?
A. - Il pensiero che ricordo come fosse ora è stato: adesso io entro,
racconto tutto al prete che mi giudicherà ed io proverò ancora più
vergogna così quando esco mi uccido o ritorno a drogarmi, tanto è lo
stesso.
S. - La vergogna che tanto era presente nella tua vita. E chi e cosa hai
trovato in questa disperazione di totale mancanza di senso?
A. - Ho trovato Padre Antonio, un prete poco più grande di me, solo di
qualche anno.
Ho chiesto che mi confessasse ed io in quella confessione mi sono
sentito accolto e accettato nei miei sbagli. Ho pianto e riso, ho
raccontato di me. Ed io mi sono sentito degno, mi sono sentito umano
e amato. E ho capito che c’era un futuro anche per me.
S. - Padre Antonio ti ha detto qualcosa? Ricordi le parole?
A. - Padre Antonio non ha detto alcuna parola, ha solo ascoltato.
-E tutti e due sorridiamo sapendo, lui per la sua esperienza ed io per la mia, che l’ascolto, quello
attivo indicato da Carl Rogers, è potente e rivoluzionario. Talmente tanto da far cambiare direzione
alla vita. -
L’ascolto attivo avviene quando ogni fibra del tuo corpo è in ascolto e in accoglienza,
senza alcun giudizio di ciò che l’altro porta e ti dona. L’empatia e l’accettazione verso
l’altro sono le caratteristiche fondamentali di questo ascolto:
“…un ascolto molto attento, era un modo significativo di
essere d’aiuto. Così, quando avevo dei dubbi su ciò che
dovessi attivamente fare, ascoltavo. Mi pareva sorprendente
che un simile tipo di interazione passiva potesse rivelarsi
utile…
È uno dei modi più delicati e potenti che abbiamo di usare
noi stessi.”32
“…l’empatia dissolve l’alienazione. Il beneficiario, almeno
32 Cf., Carl Rogers, Op. cit., p. 145.
pag. 41
per il momento, si riconosce come una parte connessa alla
razza umana…” 33 “l’empatia fornisce il clima per
imparare di più su se stessi…quando le persone sono
intimamente capite, si rendono conto di potersi avvicinare
di più ad una gamma più vasta del loro esperire. Ciò dà loro
un riferimento più ampio a cui possono affidarsi per
comprendere se stesse e orientare i loro comportamenti. Se
l’empatia è stata accurata e profonda, queste persone
possono essere anche in grado di sbloccare il flusso del loro
esperire e lasciarlo scorre non più inibito.”34
A. -Da quel momento ho iniziato a frequentare Padre Antonio e la
parrocchia, perché lui mi ha coinvolto in vari progetti con i ragazzi.
Capitolo 4: il lavoro
4.1 - La vita successiva: il discernimento fideistico, il percorso personale, il
lavoro di Counseling
A. - I cinque anni di vita successivi li ho vissuti in quella parrocchia.
Anni in cui ho ritrovato me stesso ed ho vissuto varie esperienze di
33 Ivi, p. 159. 34 Ivi, p. 164.
pag. 42
comunità. Ho capito che uomini nasciamo tutti ma umani lo
diventiamo.
Nella mia vita ho fatto delle scelte che mi hanno fatto diventare
disumano: dalla sessualità, al modo di trattare me stesso, di
comportarmi con gli altri e con gli affetti più cari.
Ed io ho iniziato il mio percorso di recupero della mia umanità. E pure
quello di recupero della mia fede.
S. - In quel periodo avevi qualche relazione amorosa?
A. - Sì, ero fidanzato ufficialmente, con conoscenza delle rispettive
famiglie e pure l’anello. Però proprio in quel periodo sentivo di voler
recuperare a pieno la mia vita. Volevo vivere al massimo, diventare un
Antonio completo, quasi un super Antonio ovvero l’Antonio migliore
di sempre. E l’idea del matrimonio ha incominciato ad essermi stretta
perché si stava facendo strada l’idea di farmi frate.
Quando riprendi in mano la tua vita non la puoi vivere mediocremente.
Allora ho incominciato ad interrogarmi insieme ad una persona, un
prete, che mi ha aiutato ed ho capito che quello che stavo facendo e
vivendo non lo volevo fare né vivere.
Volevo capire qual era il mio desiderio profondo dentro di me, la
volontà di Dio, che realizza a pieno la mia vita.
S. - Così hai deciso di farti frate?
A. - Ho fatto una prima esperienza dai Benedettini. Devo ammettere che
tutto quel silenzio non fa per me!!!
- Ed io sento l’allegria con la quale ridiamo per la situazione, che ben conoscendolo, deve essere
stata veramente faticosa! –
A. - In quel convento sono arrivati due frati francescani ed io mi sono
trovato benissimo con loro, certe risate, che ho chiesto ospitalità in un
convento francescano.
Lì ho fatto esperienza di fraternità e condivisione. Questo è il mio centro
affettivo, parlare, ridere, condividere e stare assieme agli altri.
S. - L’hai ereditato dalla tua famiglia in qualche modo allargata?
A. - Sì, ho ritrovato questo e me lo sono sentito mio. In convento ho
conosciuto un Dio che non è buono o cattivo, come quello del
catechismo, ma è un Dio che mi ama per quello che sono e che mi vuole
libero. Ho iniziato a leggere e a studiare. La libertà è bella e difficile
perché siamo condizionati. I condizionamenti e i giudizi sono tanti ed è
difficile rendersene conto e liberarsene.
S. - Quindi tu mi stai raccontando che hai iniziato ad essere più
consapevole anche dei condizionamenti che hai subìto. A questo
proposito a me sorge un quesito: secondo te sei passato da una divisa
ed un corpo organizzato, quello della Marina, ad un’altra divisa e in un
ambiente sempre molto organizzato, il saio e la Chiesa?
pag. 43
A. - Questa divisa io me la sono scelta.
S. - E la tua famiglia che reazione ha avuto di fronte a questa tua scelta?
A. - Non ci credevano, pensavano fosse un capriccio. Mia mamma fin
da piccolo per i miei facili innamoramenti verso le cose e le novità mi
chiamava: Anto’ mezzo servizio!
S. - A proposito di giudizi!
A. - Sì, fin da piccolo da parte degli adulti attorno a me c’è stata
un’etichetta che mi è rimasta appiccicata fino a questi anni di profondo
cambiamento.
Mentre ero in convento ho iniziato a studiare e così mi sono preso pure
il diploma. In pochi mesi ho studiato per tutti i cinque anni delle
superiori e poi ho fatto l’esame da esterno. Mi hanno chiesto di tutto e
di tutti gli anni, mi hanno promosso e ho preso pure un voto dignitoso!!!
Ricordo che ho chiamato mia mamma e appena ha risposto non mi ha
lasciato il tempo di parlare che ha iniziato a dirmi che mi ero
dimenticato di lei, che non potevo fare così, che non mi facevo mai
sentire. Io le ho risposto che se continuava avrei chiuso la chiamata e
così è stato, ho messo giù il telefono.
Passata una settimana ho richiamato e quando ha risposto mi ha detto:
“Ciao Antonio, tutto bene, come stai?”
S. - Si è adattata?
A. - Quando qualcuno compie una scelta e vive il cambiamento
cambiano anche i rapporti. Il mio stato di vita è cambiato e quindi
devono cambiare anche le relazioni. Voglio che cambino perché non
possono essere più quelle di prima perché io mi relaziono in maniera
diversa, con tutto il mondo.
- A me torna alla mente il paradosso di Rogers:
“Mi sembra che solo quando un’esperienza a livello
viscerale sia pienamente accettata e accuratamente e
consapevolmente descritta, essa possa dirsi completa. Solo
allora la persona riesce ad andare oltre.”35
S. - Quindi da quando sei entrato in convento hai iniziato il tuo
discernimento fideistico e proseguito con gli studi, non solo quelli
ministeriali.
A. - Sì dunque sono entrato in convento, il quattro gennaio del 1998, e
ci sono ancora. E da questa scelta tutto poi è avvenuto con semplicità.
Anche il mio percorso di consapevolezza è stato un unico fluire.
All’inizio in convento ho avuto le mie difficoltà, stare con gli altri per
me è stato molto faticoso. Come pure fare obbedienza.
35 Ivi, p. 167.
pag. 44
- In questi ultimi colloqui Fra’ Antonio è sereno ed io sento nel suo racconto il tessere
del suo percorso, quasi a vedere passo dopo passo di esso.
Quando è entrato a far parte della comunità dei frati, non aveva ancora un adulto
interiore armonioso e sviluppato ma un bambino adattato interiore molto ingombrante,
secondo le indicazioni dell’A.T.
Oggi è il frate e uomo che ho conosciuto: autocentrato, autonomo e fiducioso perché
senza paura.
Ha cambiato copione, tenendo come riferimento la teoria dell’A.T.: ora è un copione
vincente.
Mentre, secondo il Ciclo Gestaltico, rispetto alla sua giovinezza ora ha un contatto
pieno prima no. Per non vivere a pieno il fallimento, la vergogna e la mancanza di
senso, il contatto era sempre evitato.
Ora a suo dire è meno scontroso e molto collaborativo. E a me è sembrato molto sereno
in effetti, anche se ho avvertito, in alcune occasioni con i suoi parrocchiani, che alcuni
si avvicinavano a lui con estrema prudenza, soprattutto nel fargli domande!!!
Il conflitto lo gestisce perché ha imparato a gestire la sua frustrazione. Questo il sunto
di varie chiacchierate sui risultati di alcuni lavori che ha compiuto nel suo percorso
personale.
Ora prova amore per se stesso e per gli altri. Dai frati ha iniziato ad avere fiducia. Ha
cambiato il suo dialogo interiore ed ora, sempre rimanendo nell’A.T., il suo bimbo
interiore da ribelle è divenuto adattato positivo perché ha cambiato il suo genitore
interiore. Ora il genitore è amorevole e si è riempito di Carezze e di amore. -
A. - Dopo il diploma ho studiato Teologia laureandomi, ed ho
conseguito anche la seconda laurea in filosofia ed ora sto studiando per
il dottorato.
Ho vinto borse di studio anche internazionali che mi hanno portato ad
esempio in Grecia a studiare il greco.
S. - Quindi è iniziato un periodo di grandi soddisfazioni e attività.
A. - Ho scoperto che studiare mi piace.
Poi è arrivata l’occasione di frequentare il corso triennale di Counseling
Pastorale.
Tutto mi è servito per rendermi responsabile. Un passo alla volta.
Durante questo percorso mi sono reso conto di ciò che sono stato e di
com’ero, a volte davvero incompreso da tutti. Poi qualche nodo da solo
con le mie esperienze non sono riuscito a scioglierlo così ho deciso di
andare in terapia da uno psicoterapeuta per circa un anno e mezzo. Sono
riaffiorati ricordi di un bimbo a volte anche spensierato. A casa stavo
bene, avevo i miei spazi, essendo una casa molto grande. Tanti giochi e
tanti amici con cui facevo tante cose divertenti. Le stagioni che
preferisco fin da piccolo sono l’autunno e l’estate e preferisco la Pasqua
al Natale.
E a tal proposito ricordo che quando pioveva mi mettevo davanti ad una
pag. 45
finestra e mia nonna spaventata dal temporale mi diceva:
- e qui Fra’ Antonio cambia voce imitandola-
“allontanati dalla finestra che arriva un fulmine!”.
Ho partecipato ad un seminario di Costellazioni Familiari36 e poco più
di un mese dopo alcune situazioni hanno iniziato a collocarsi al loro
posto, quello giusto.
4.2 - Il padre
S. - A proposito di famiglia tuo padre l’hai frequentato da grande?
A. - A sedici anni mio padre ha voluto presentarmi le sue sorelle ed io
ho instaurato una relazione che ancora si mantiene con queste zie.
Con mio padre avevo una relazione saltuaria.
Succede che la moglie di mio padre ha scoperto la relazione in questo
modo: la moglie di mio padre ha finto di andarsene da casa e mio padre
ha chiamato mia madre. La moglie ha sentito tutta la telefonata ed è
andata in negozio da mia madre con le figlie ad insultarla. Mia madre
lo ha lasciato nel periodo della mia tossicodipendenza, quando io avevo
compiuto all’incirca diciott’anni.
Negli anni in cui faccio esperienza di amore e comunità in parrocchia
dopo essermi disintossicato, lavoro nel mio negozio di cartoleria ed ho
bisogno di aiuto economico per sistemare una situazione temporanea.
Decido così di farmi avanti chiedendo a mio padre, per la prima volta
nella mia vita, aiuto. Lui ha rifiutato. Io ci sono rimasto malissimo, mi
sono arrabbiato e così ho deciso di farmi riconoscere legalmente. Mio
padre ha rifiutato la cosa, per cui ho deciso di andare per vie legali.
La controparte ha assunto la difesa dicendo che la paternità non è certa
perché mia madre era una donna di facili costumi, il tutto appoggiato
dalla moglie e dalla famiglia di mio padre. Si è arrivati alla prova del
dna e qui mio padre ha capitolato. Ecco perché porto i due cognomi.
Da quel momento mio padre non mi ha rivolto più la parola, quando
m’incontrava per strada cambiava marciapiede togliendomi il saluto!
Per lui, ex poliziotto, essere portato in tribunale è stata un’onta troppo
grande.
Fino a quando sono entrato in convento. Un giorno ho ricevuto una
telefonata da mio padre in cui diceva che mi voleva incontrare con
presente anche sua moglie. Io gli ho risposto che non se ne parlava
proprio, già dovevamo chiarire la relazione tra noi due, figuriamoci a
36 Rimando alle Costellazioni Familiari di Bert Hellinger.
pag. 46
complicarla in un primo momento anche con sua moglie. Quindi gli ho
detto che se voleva poteva venire in convento da solo. Ha accettato, di
venire da solo, e in quell’occasione gli ho detto che non pretendevo che
lui mi volesse bene come ad un figlio perché non c’è stata mai una
relazione, e né lui poteva pretendere che io l’amassi come un padre ma
potevamo iniziare una relazione diversa, nuova.
Questa cosa ha permesso una riconciliazione e anche un perdono
reciproco e abbiamo iniziato a fare questo percorso di conoscenza più
approfondita in cui mi sono ritrovato a fare il papà di mio papà. Lui ha
incominciato a raccontarmi le vicissitudini famigliari dopo la scoperta
della relazione con mia madre. Ricordo quel periodo, la moglie voleva
vedermi morto, ricevevamo a casa telefonate minatorie, lettere con
minacce. Mio nonno all’epoca ha ricevuto una telefonata con la
proposta in denaro per far sparire la figlia, cioè mia madre. Insomma da
parte della moglie e delle figlie un comportamento da pazze.
Un paio d’anni prima che morisse, mio padre, ha la ferma convinzione
di farmi conoscere le figlie, cioè le mie tre sorelle. Un giorno si sono
presentate in convento ed io accolgo tutti. Nella conversazione ad un
certo punto ho dovuto sentire questa affermazione: “noi siamo qui ma
a casa c’è una donna che soffre, cioè la loro mamma. Noi non abbiamo
potuto scegliere di averti come fratello ma tua madre poteva scegliere
di non averti e quindi abortire”.
Molto tranquillamente ho risposto loro: “per prima cosa mia madre ha
fatto la scelta giusta, perché sono nato io”
– ridacchia –
“indipendentemente da voi, seconda cosa, voi non potete dire queste
cose in un convento e terza se volete possiamo iniziare una relazione
che sia arricchente per tutti altrimenti io sono già felice così, ovvero la
mia vita scorre felice anche senza voi.”
Non le ho più viste.
Nel frattempo mio padre si è ammalato di tumore ed io sono andato a
trovarlo sia a casa che in ospedale perché voleva vedermi e parlarmi.
Qualche tempo dopo mi sono recato ad Assisi per un progetto con i
giovani, era il 2006, e mentre ero lì ho ricevuto una telefonata in cui mi
avvisavano che mio padre si era aggravato. Parto praticamente subito
ma nel viaggio di ritorno lui è morto.
Nella tristezza della situazione nella camera ardente mi si è avvicinata
una delle figlie e mi ha comunicato che avevano fatto il manifesto,
epigrafe, del padre e che non mi avevano inserito tra i figli perché il
manifesto è la fotografia di una persona e della sua vita e quindi io non
ci dovevo essere. Rispondo che hanno fatto la fotografia sbagliata!!!
E aggiungo: “non mi interessa partecipare anche perché quello che dite
pag. 47
e fate dice quello che siete, per cui non vi preoccupate.”
Al funerale di mio padre era pieno di frati, miei amici, perché in
convento lo avevano conosciuto tutti. Quando sono entrato in chiesa
tutti hanno capito che ero il figlio di mio padre perché chi conosce mio
padre dice che fisicamente sono spiccicato a lui e invece chi conosce
mia madre dice che assomiglio molto a lei.
S. - Quindi tutti sapevano, o hanno capito, che eri il figlio di tuo padre
nato da una relazione extra coniugale.
A. - Sì, e finito il funerale sono spariti tutti. Non li ho più sentiti fino al
trigesimo, ma io avevo già deciso che non volevo avere nulla più a che
fare con loro perché la situazione vissuta al funerale era stata proprio
sgradevole: tutti loro da una parte ed io solo dall’altra, questo grazie
alla moglie una donna accentratrice e manipolatrice.
E poi ero ancora arrabbiato e infastidito da delle cose dette da parte
della famiglia di mio padre.
S.- Ti erano arrivate voci riguardo a delle reazioni da parte dei suoi
famigliari?
A. - Una cosa in particolare. Un amico intimo di mio padre, tanto da
sapere tutta la nostra storia, aveva proposto alla moglie di mio padre di
darmi la sua vecchia macchina, visto che se ne stava ferma in garage.
Lei ha risposto che era già tanto che aveva permesso che io entrassi in
casa sua a salutarlo. Insomma nulla faceva presagire che potessimo
avere una relazione serena.
S. - Da quell’episodio, quasi dodici anni fa, non hai più visto o sentito
qualcuno di loro?
A. - Quando sono stato trasferito qui come parroco, era agosto di due
anni fa, dopo pochi mesi, in un giorno di ottobre in chiesa si presenta
una ragazza che mi saluta dicendomi: “ciao io sono Valeria” – ed io ho
pensato Valeria chi? Poi mi sono ricordato che era una delle tre sorelle.
Ha iniziato a frequentare ogni domenica la messa, ogni tanto parliamo
ed ora, in questo momento storico della mia vita, posso dire di avere
una relazione civile, nel senso che ci vediamo. Con chi ho una vera
relazione affettuosa, in cui ci sentiamo e condividiamo esperienze, è
con i quattro nipoti. Ed è molto più semplice con loro perché non sono
legati direttamente a retaggi famigliari della moglie di mio padre.
Con le altre sorelle non ho alcuna relazione perché sono ancora legate
alla mamma che tiene molto alla sua reputazione.
Io ho imparato nei miei percorsi a non dare spazio alla rabbia, al
risentimento e ora sono felice così.
S. - Con tua mamma hai parlato poi di tuo padre?
A. - Sì, abbiamo parlato di tutto. Io e mia mamma abbiamo sempre
dovuto arrangiarci da soli quindi c’è sempre stato un legame affettivo
molto forte. Ora è libero, di confidenza e aperto. Non è il classico
rapporto madre e figlio, è una relazione normale, serena alcune volte, e
pag. 48
conflittuale altre, di certo non è idilliaca ma ci siamo. Quando ho fatto
il mio percorso di conoscenza e di discernimento della fede mi sono
confrontato con mia madre in maniera molto seria, rischiando anche di
farla sentire in colpa, ma io sentivo che dovevo avere questo confronto
perché questo mi rasserenava. Questo mi ha dato modo di rendermi
consapevole di alcune situazioni, certe causate da lei, altre da me.
Anche mia madre ha fatto il suo percorso seriamente, ora ad esempio ci
unisce anche la Fede.
- Il percorso di Fra’ Antonio nella responsabilizzazione e consapevolezza di se stesso
lo ha portato ad approcciarsi in maniera totalmente diversa soprattutto con le persone
per lui importanti. Poi anche con chi gli sta attorno. Centrarsi in un’attenzione verso se
stessi, come dice Rogers, è fondamentale per poter ascoltare e vedere anche gli altri.
Capitolo 5: oggi
5.1 - L'esperienza della vita di oggi e il Counseling in parrocchia
Nei giorni trascorsi a Taranto sono stata invitata a partecipare ad alcuni incontri
tenuti da Fra’ Antonio in parrocchia e ad un ritiro spirituale a Fasano con il suo coro.
Sono state delle esperienze molto utili per assistere al lavoro da lui svolto. Inserisce il
Counseling all’interno del suo mondo di fede. Usa le tecniche di Counseling integrato,
tra cui le teorie qui evidenziate. Svolge colloqui di ascolto dei suoi parrocchiani come
fossero colloqui di Counseling, ed io ho raccolto delle testimonianze sul suo operato.
Un incontro con le coppie, l’ultimo per la loro stagione, mi ha particolarmente colpito.
pag. 49
In quel gruppo ho sentito proprio l’accoglienza. Alcuni partecipanti sono divorziati,
altri formano coppie dello stesso sesso, altri ancora giovanissimi mentre altri sposati
da decenni. Per la Chiesa è ancora difficile accettare alcune cose considerate da essa
“moderne”. Per Fra’ Antonio l’amore è Amore, non siamo certo noi a dover giudicare
chi si ama. L’assenza di giudizio che conduce all’attuazione dell’accettazione di
Rogers è semplicemente realizzata lì in quella stanza, in tutta la sua portata, direi, quasi
rivoluzionaria. L’incontro si è svolto secondo il ritmo di un gruppo di crescita. Il
Setting, ovvero lo spazio in cui avviene l’incontro, era preparato con le sedie disposte
a cerchio su cui sedevano i partecipanti. Dopo essersi presentati e salutati, hanno
ascoltato un brano che introduceva l’argomento dell’incontro, hanno svolto un lavoro
personale ed infine sono stati invitati alla condivisione di esso. Ho visto persone
commuoversi e sentito vicinanza nei momenti di condivisione della propria vita e di
conseguenza di quella di coppia.
Il ritiro spirituale è stato molto arricchente per me, sia per la mia partecipazione
attiva come membro, sia per l’osservazione dello svolgimento e delle dinamiche del
gruppo. Era dedicato al coro parrocchiale, una delle passioni di Fra’ Antonio: il canto.
Quando è arrivato in parrocchia era un coro di pochi membri e poco amalgamati fra
loro, oggi, dopo aver lavorato molto sul concetto di condivisione e accoglienza, a
cantare nel coro ci sono decine e decine di cantanti e musicisti.
L’intera giornata è stata scandita dai lavori, svolti sia singolarmente che in
gruppo in condivisione, tutti condotti da Fra’ Antonio: dalle regole del gruppo, ai
momenti di coscienza modificata fino agli esercizi di riflessione personale.
E ho visto, sentito e vissuto, come il Counseling possa essere praticato anche in
ambito Pastorale in una armonia che scalda il cuore.
L’altra esperienza molto interessante è stata quella di partecipare ad una messa
celebrata da Fra’ Antonio. I bambini sono accolti davanti all’altare su alcuni cucini così
sono liberi di distendersi e muoversi, ascoltando quando e come possono. La
partecipazione della gente è stata molto forte fino al massimo, proprio a fine messa, in
cui tutti si sono avvicinati all’altare per il canto e ballo finale. Una comunità che vive
e fa esperienza, con gioia e impegno, per crescere assieme anche nell’organizzazione
di attività in autonomia. Una celebrazione molto vivace e vera in cui le parole
dell’omelia sono molto sentite e per me, che le ho ascoltate solo in un paio di
celebrazioni, molto veraci, nel senso di congruenti.
Nel vedere come si svolge l’attività attorno a Fra’ Antonio, a volte frenetica, in
un susseguirsi di incontri, colloqui, organizzazione, formazione e convegni ho pensato
alla ricchezza della sua vita attuale. E lo stesso Rogers lo esprime mirabilmente:
“trovo di essere nella mia condizione migliore quando
posso permettere al fluire della mia esperienza di
trasportarmi avanti in una direzione che segna un progresso
verso mete di cui sono a malapena consapevole.”37
37 C. Rogers,, La terapia centrata sul cliente, Firenze, Giunti Editore, 2013.
pag. 50
S. - Come stai ora e come ti senti ad essere qui a vivere esperienze che
ti piacciono?
A. - Mi sento un sopravvissuto: a parte me e qualche altro, tutti quelli
che frequentavo durante il periodo della tossicodipendenza sono morti.
Sì, mi sento fortunato. In realtà sono stato protetto anche dai miei stessi
compagni che magari mi aiutavano a non fare certe stupidaggini.
Oppure protetto da Dio, a seconda di come uno la vede, come quella
volta che non avendo i soldi per comprare le siringhe abbiamo sniffato
dell’eroina. Sniffarla è tremendo, puzza di cadavere e dopo qualche
minuto inizi a vomitare così poi sale lo sballo. Invece io ho continuato
a vomitare fino a perdere i sensi. Mi hanno portato di corsa in ospedale
e i medici, avendo trovato la cartina che conteneva la droga nella tasca
dei miei pantaloni, l’hanno analizzata ed hanno scoperto che era stata
tagliata con stricnina ed escrementi di gatto. Quella volta sono stato
fortunatissimo.
Ora vivo e vivo a pieno, facendo le cose che mi piacciono e sto in mezzo
alla gente. Condivido con gli altri dopo un lungo percorso che ancora
sto praticando.
Adesso parlando con te mi rendo conto che paradossalmente il periodo
più brutto e difficile è stato quello più necessario. È servito a tutto il
resto che è venuto poi, al mio cambiamento.
- In questi giorni vissuti vicino a Fra’ Antonio, con i suoi ritmi e tra le sue attività, ho proprio
vissuto, o perlomeno colto, questo spostamento dall’io al noi in ciò che egli fa:
Solo orientandoci al noi possiamo compiere l’io. Abbiamo
bisogno di ridare vita a due termini: innocente ed ingenuo.
Tornare come bambini non nella inconsapevolezza, ma
nella capacità di accogliere e stupirsi, di orientarci al
positivo dopo avere tutto considerato, almeno per quanto ci
è possibile. Abbiamo bisogno di assumere lo sguardo non di
bambini dipendenti da tutto e da tutti, ma di adulti –
bambini che sanno meravigliarsi, vedere oltre e godersi la
vita.38
- Un altro pensiero che tengo dentro di me e che frulla da quando ho ascoltato le sue parole
nell’intervista, e che ho aspettato ad esporlo, quasi per timore, perché prima volevo conoscerlo. Poi
in uno degli ultimi colloqui l’ho fatto emergere:
S. - Come ti senti nell’aver reso pubblica la tua storia? Immagino ti
siano arrivate molte richieste di aiuto, come gestisci tutto questo?
A. - Credo davvero che nulla avvenga per caso. Pensa che la maggior
38 Raffello Rossi, L’io Resiliente, Bologna, EDB Edizioni, 2014, pp. VIII-IX.
pag. 51
parte delle persone che mi conoscevano e che mi conoscono erano
all’oscuro della mia storia. Gli stessi miei compagni frati, a parte
qualcuno, non sapevano nulla. Tutto è iniziato perché un amico ha
accennato ad una sua amica giornalista alcuni avvenimenti della mia
vita la quale mi ha contattato e poi è uscito l’articolo sulla rivista
Famiglia Cristiana.39 Da lì tutto si è concatenato, anche il fatto che tu
sia qui.
All’inizio ero molto timoroso, la paura del giudizio per un po’ mi ha
rincorso, come la vergogna. Il timore era riferito anche ai miei
famigliari. Poi ho pensato che poteva essere d’aiuto magari anche ad
una sola persona e questo mi ha tranquillizzato.
Il timore era anche tornare nella mia città, ma qui c’è tanto da fare.
Molte persone si avvicinano per chiedermi consiglio e aiuto per i loro
figli o per i loro cari perché tossicodipendenti. Gli stessi ragazzi mi
avvicinano perché avendo io avuto questo passato non si sentono
giudicati se mi raccontano, che so, che si fumano le canne!
Ho iniziato a girare per le scuole, a parlare con i ragazzi e i loro
insegnanti.
Alle volte il peso e la responsabilità si fanno sentire specie quando gli
altri mi prendono come punto di riferimento, addirittura come un guru,
e questo mi mette a disagio.
S. - Sei in qualche modo infastidito da ciò?
A. - Sì, mi sembra un’etichetta falsa che tende ad appiccicarsi addosso.
Ammetto che ho avuto timore anche quando mi hai contattato tu non
sapendo se avrei fatto bene ad accettare. Poi però mi sono detto che io
sono un “semplice” frate. E mi sforzo di ricordare che io posso
testimoniare la mia storia, solo la mia, e niente più. Il resto è un piacere.
39 AnnaChiara Valle, in Famiglia Cristiana, maggio 2017.
pag. 52
Capitolo 6: conclusioni
6.1 - Le mie considerazioni personali
Nel rispetto di una parte fondamentale del Counseling che è quella di non
interpretare ciò che l’altro porta ma di accogliere il suo mondo; nel rispetto di una parte
del Counseling che è quella di accettare che ognuno ha la libertà di provare e sentire in
maniera personale ciò che vive senza imposizioni: ecco che le mie considerazioni che
concludono questa mia tesi, sono mie e personali, su ciò che ho vissuto nell’accogliere
il mondo di Fra’ Antonio.
Per me la teoria e poi la pratica del Counseling sono inserite nel mio quotidiano.
Il filo conduttore di questo mio lavoro è l’effettiva pratica del Counseling con
pag. 53
gli altri, non solo nella formazione o nell’insegnamento ma nella vita, nell’approccio
con l’altro e nella modificazione delle emozioni in risorse per la vita. E nella storia di
Fra’ Antonio io ho sentito questa fantastica fusione ed unione tra vita, pratica e amore
per sé e per gli altri.
Come ho già scritto conoscere Fra’ Antonio è stato molto arricchente per me. Ho
vissuto, sentito e visto, con i miei occhi e toccato con le mie mani(!), la forza che le
nostre risorse possono avere. Una forza che se inconsapevole può diventare distruttiva.
Appena però diamo loro respiro accettando i nostri limiti, le nostre risorse, e di
conseguenza noi, ci possono far vivere esperienze straordinarie.
Con Fra’ Antonio ho respirato l’effetto che produce il dire sì alla vita.
Darsi delle possibilità che permettono di accettarci, o perdonarci nel caso di Fra’
Antonio, per poi andare avanti e cambiare.
Con le parole di Pietro Trabucchi porto una speranza che ho nel cuore:
“L’epigenetica ha dimostrato che le nostre esperienze di
vita - quindi le nostre scelte e i nostri comportamenti –
modificano il nostro DNA qui e ora…40Ciò aumenta in modo
esponenziale il potere degli individui sulla propria vita, ma
anche la loro responsabilità.”41
Cambiare modalità, pensieri, comportamenti. Cambiare vita, si può.
Fare esperienza di umanità nell’ascolto accogliente senza giudizio ci permette di
accettarci come persone, uomini e donne. Senza l’accettazione di sé non è possibile
l’autostima perché:
“l’autostima ha due componenti strettamente legate: una è
un senso basilare di fiducia di fronte alle sfide, o senso di
efficacia, l’altra è la convinzione di meritare la felicità,
altrimenti detta rispetto di sé.42
…Quando possediamo un’autostima senza conflitti, il
nostro motore è la gioia, non la paura. Vogliamo
sperimentare la felicità, non evitare la sofferenza. Il nostro
scopo è l’espressione di noi stessi, non l’evitare o il
giustificare noi stessi. Il motivo che ci spinge non è provare
il nostro valore, ma vivere le nostre possibilità.”43
Questa stessa avventura nella mia storia personale è testimonianza di ciò che ho
appena scritto. Dalla “casualità” dell’ascolto delle parole dell’intervista di Fra’
Antonio, al sì che ho detto ascoltando me e il mio desiderio, alla ricerca di contatto con
questo sconosciuto che fin dalla prima telefonata mi ha accolto come un’amica.
40 P. Trabucchi, Perseverare è umano, Milano, Garzanti, 2012, p. 14. 41 Ibidem, p. 15. 42 N. Branden, I sei pilastri dell’autostima, Milano, Edizione TEA, 2006, p. 45. 43 Ibidem, p. 39.
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Passando dalla sua conoscenza diretta, fino alla realizzazione di questo mio
progetto, sono stati mesi intensi in cui questa mia tesi ha preso forma. Fin da quel
lontano, oramai, fine gennaio l’ho cullata, alimentata e provata nella mia quotidianità.
Ho riflettuto sulle parole di molti libri, alcuni di essi qui inseriti, come ho
riflettuto sulle parole di Fra’ Antonio. Soprattutto ho vissuto delle esperienze, e queste
hanno contribuito ad aumentare la mia autostima, la saldezza del ricordo dell’uso, e
quindi dell’esistenza, delle mie risorse. Ho sperimentato le parole di Rogers:
“Molto di rado ci permettiamo di capire esattamente quale
sia per lui (l’altro) il significato della (sua) affermazione,
Credo che questa avvenga perché comprendere fa correre
dei rischi. Se veramente mi permetto di capire una persona
posso essere cambiato da quanto comprendo.”44
E durante i colloqui con Fra’ Antonio ho sperimentato questa comprensione
empatica in cui l’ascoltarlo in maniera attiva ha permesso a me di comprendere e di
cambiarmi nello scambio reciproco.
La rivoluzione già accennata nelle pagine della tesi è in parte questa: l’essere
compresa per comprendermi e comprendere poi l’altro, tanto da portarmi verso mete
inaspettate, dicendo sì a me stessa e alla vita, in un’accoglienza amorevole di me e
degli altri. Questo per me è davvero rivoluzionario. Un cambiamento che ognuno,
avendo le risorse, può compiere nella propria vita. E la storia di Fra’ Antonio racconta
questo: la rivoluzione che avviene nel momento dell’ascolto profondo di tutto ciò che
si è, e che permette, poi, alla forza delle risorse di continuare nel cambiamento nel
vissuto quotidiano.
E la fortuna di poter condividere con gli altri ciò che si vive. Ed io sono fortunata
perché ho imparato, dal corso della scuola di Counseling in poi, ad avere fiducia. Una
fiducia in me e nella vita che a volte mi fa sorridere così semplicemente sentendola.
Sono fortunata perché ho potuto condividere questa mia esperienza con i miei
cari e la mia famiglia e i miei “maestri”.
Sono diversa rispetto a quando mi è sorta l’idea perché in questa avventura ho
anche vissuto la sensazione di libertà che si prova nel darsi ascolto. Io ho provato
questo senso di libertà e di gioia, che provo anche ora nello scrivere queste ultime righe
di questa mia avventura.
Nell’esperienza bellissima che ho vissuto con Fra’ Antonio, per me è
rappresentata l’essenza del Counseling, che vorrei riassumere con i seguenti concetti:
- Counseling significa innanzitutto ascoltare se stessi
- Counseling significa ascoltare, di conseguenza, l’altro
- Counseling significa capire l’altro
- Counseling significa rimanere nell’ascolto senza emettere giudizi e sentire
l’altro come un dono
44 Cf., C. Rogers, Op.Cit.
pag. 55
- Counseling significa sostare, fermarsi e accogliere
- Counseling significa darsi il tempo per dire sì al cambiamento. Cambiamento
che avviene sia nel counselor che nel Cliente.
E solamente grazie ai punti che ho sopra descritto il colloquio potrà far scaturire
la libertà di espressione da parte del Cliente. E, grazie ad essa, ecco che possono,
miracolosamente, apparire le risorse, le capacità, le doti, spesso dimenticate o non
identificate, che faranno trasformare il Cliente stesso in una persona nuova, viva, libera
e pronta a confrontarsi con il mondo. Anche se il mondo non è sempre disponibile ad
accoglierci come siamo. Magari volendo dare tempo e ascolto anche al mondo, quello
attorno a noi intendo, un poco alla volta, può modificarsi e accoglierci.
La tesi di questo mio lavoro è tutta qui. Semplicemente nella forza delle nostre
risorse.
BIBLIOGRAFIA
Bauman Z. (2003), Bellezza: ovvero un sogno da cui abbiamo paura di svegliarci,
C.P.E. Centro Programmazione Editoriale, Fondazione Collegio San Carlo per
Festival filosofia.
Berndt C. (2013), Il segreto della resistenza psichica, Milano, Feltrinelli.
N. Branden N. (2006), I sei pilastri dell’autostima, Milano, Edizione TEA.
Dea A. e Sommacal R., Dispensa del secondo anno, Analisi Transazionale. Gestalt
Institute Associazione Culturale, Punto Gestalt® “PEGASUS”.
Esiodo, (2006), Le opere e i giorni, Milano, Garzanti.
Goodman P., Hefferline R.F., Perls F. (1994), Teoria e pratica della Terapia della
Gestalt, Roma, Ed. Astrolabio.
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James M., Jongeward D.(1987), Nati per vincere, Analisi transazionale, Cinisello
Balsamo (Milano ), Edizioni San Paolo.
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Einaudi.
Lowen A.(1983), Il linguaggio del corpo, Milano, Feltrinelli.
Rogers C. (1951), La terapia centrata sul cliente, Firenze, Giunti Editore.
Rogers C. (1980), Un modo di essere, Firenze, Giunti Editori.
Rosemberg Marshall B. (1998), Le parole sono finestre (oppure muri), introduzione
alla comunicazione non violenta, Reggio Emilia, Esserci edizioni.
Rossi R. (2014), L’io Resiliente, Bologna, EDB Edizioni.
Trabucchi P. (2012), Perseverare è umano, Milano, Garzanti.
Trabucchi P. (2017), Resisto, dunque sono, Milano, Garzanti.
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SITOGRAFIA
www.assocounseling.it
www.incoaching.it
www.pnl.info
www.sociocounseling.it
www.wikipedia.org
ARTICOLI
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Ringraziamenti
A mio marito Alberto che accoglie ogni mia idea con entusiasmo e allegria e che mi
sostiene nei miei momenti di difficoltà. Al nostro amore che in questi decenni ha
permesso a noi di diventare una famiglia, da poco anche allargata con il piccolo Akira.
Ai miei genitori, Galliano e Lorena, che sono i miei primi sostenitori, da sempre, e che
con la vitalità di due ragazzini mi hanno seguito in questa avventura.
A mia suocera Josè, mia sorella Elena e a mio cognato Massimo un grazie di cuore per
tutto il vostro appoggio.
Ai miei adorati nipoti Alice e Tommaso che la vita senza loro sarebbe noiosa e triste.
Al mio Relatore, Alberto Dea, che con la sua umanità ha permesso di sciogliere molti
miei nodi.
Ed infine a Fra’ Antonio, che ha consentito tutto ciò. Grazie perché mi hai accolta da
subito come un’amica.
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