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Stefano Sacchi
Tesi di diploma
Corso triennale di formazione in Counseling a indirizzo biogestaltico della SIBiG, Scuola Italiana di BioGestalt®,
riconosciuto da AssoCounseling (CERT- 0078-2012)
La solitudine, questa compagna di viaggio
relatori
Alessandra Callegari e Riccardo Sciaky
Milano, 17 dicembre 2016
SIBiG – Scuola Italiana di BioGestalt®, di Brunella Di Giacinto - Via Fiamma 13, Milano - P. IVA 05228810965 Sedi didattiche: via Marcona 24, Milano; via Moroni 8, Sesto San Giovanni (MI); Centro Miri Piri, Pigazzano di Travo (PC)
E-mail: info@biogestalt.it - biogestalt@pec.it - Sito web: www.biogestalt.it
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Indice
Introduzione
La solitudine .................................................................................................................. 3
Capitolo 1
La mia solitudine ......................................................................................................... 6
Capitolo 2
La solitudine degli altri ................................................................................................ 11
Capitolo 3
Solitudine ed enneatipi: tanti modi per viverla ............................................................ 16
Questionario sulla percezione della solitudine ............................................................ 18
Capitolo 4
Frasi sulla solitudine: che cosa risuona in me. ........................................................... 22
Spunti da filosofi ......................................................................................................... 22
Spunti da porti, scrittori, attori e registi ........................................................................ 23
Spunti da compositori ................................................................................................. 28
Conclusioni ............................................................................................................... 33
Appendice
Un inquadramento statistico ....................................................................................... 34
Bibliografia ............................................................................................................... 37
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Introduzione La solitudine non è mica una follia è indispensabile per star bene in compagnia…… (da La Solitudine di Giorgio Gaber,1976/77 Libertà Obbligatoria)
Inizio con una canzone di Giorgio Gaber che ascoltavo da adolescente.
A quel tempo, pur adorando Gaber e le sue canzoni, questo passaggio concettuale della
canzone non mi era molto chiaro nei suoi contenuti e non mi risultava comprensibile al mio
sentire di allora.
Ricordo che in quel periodo, mentre uscivo da un lungo tunnel di solitudine, non avevo
percepito la sostanza della verità che Gaber proponeva.
Oggi, quarant’anni dopo e al termine di tre anni di corso di formazione in Counseling, che
concludo con questa tesi, sento che questo passaggio cantato da Gaber è quanto mai
vero rispetto al mio sentire; mi indica una strada che ho iniziato a percorrere, sulla quale
percepisco di essere ancora in viaggio verso il raggiungimento di un mio stato di
benessere globale.
Oggi la faccio mia e dedico la tesi di diploma a questo mio viaggio come un ulteriore
passaggio; un viaggio iniziato forse prima di questa esperienza, ma sicuramente attivato e
reso possibile nella sua meta dal percorso cominciato quattro anni fa, dai miei docenti, dai
miei tutor, dai miei compagni di corso, dai miei terapeuti e ancora oggi da tutto l’universo
che sto ancora frequentando nel mio nuovo ruolo di tutor.
La Solitudine È un nucleo che si può aprire nella storia di ognuno di noi. È un nucleo che ci può
accompagnare dalla nascita, ci può sorprendere presentandosi inaspettatamente o ancora
da trovare nel proprio percorso di vita.
Ognuno di noi, nella propria parte più intima, ha una solitudine che lo accompagna nella
vita.
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Una solitudine che a volte può addirittura rappresentare una ragione di vita, alimentando la
speranza di sopravvivere per combattere questo fantasma che inizia a seguirci quando
meno ce lo aspettiamo.
Una solitudine che ci accompagna sin da bambini e che ci ha segnato indelebilmente nei
rapporti con gli altri.
Una solitudine per un amore che non abbiamo avuto l’occasione o non ci siamo permessi
di vivere.
Una solitudine che ci può devastare o che invece ci può far evolvere nella sofferenza
verso una relazione più piena, più consapevole, più appagante di quello che la vita ci ha
permesso, sino a quando non l’abbiamo vissuta come elemento di “vuoto fertile”
rigeneratore.
Ognuno la può vivere e percepire come una compagna di viaggio più o meno gradevole,
come una intollerabile condanna o come una parentesi da concedersi ogni tanto per
assaporare la propria vita in compagnia di altri.
È evidente che il tema della solitudine è un tema che mi riguarda e per questo ha ispirato
la mia scelta per la tesi di diploma. Ho iniziato a sperimentare la solitudine quasi da subito
nella mia vita. Oggi la elaboro in modo molto diverso e sento che riesco ad apprezzarla
nelle sue diverse manifestazioni e che non solo riesco a “gestirla” ma addirittura inizio a
percepirne i benefici e gli effetti evolutivi su di me.
Parto dalla definizione della solitudine proposta nel dizionario della lingua italiana Devoto
Oli: “Esclusione da ogni rapporto di presenza o vicinanza altrui (vivere in solitudine)
desiderato o ricercato a scopo di pace e appartata e raccolta intimità (cercare, amare la
solitudine) oppure subito o sofferto in conseguenza di una totale mancanza di affetti, di
sostegno e di conforto (sento tutto il peso della mia solitudine)”.
Ci sono tantissime sfaccettature della solitudine che potrebbero meritare un
approfondimento, ma vorrei concentrarmi su due aspetti:
a) La mia solitudine
b) La solitudine degli altri :
- delle persone che ho conosciuto nel mio percorso di tirocinante e che possono
ben rappresentare tre diversi tipologie di solitudine;
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- la solitudine per come è vissuta da un gruppo di persone che hanno contatti più o
meno intensi con questa scuola, analizzandone le diverse percezioni attraverso
l’Enneagramma.
Penso che la solitudine sia vissuta da ognuno con una caratterizzazione talmente
personale che non sia possibile definire gruppi omogenei di emozioni sensazioni
comportamenti: ognuno la vive con la propria storia personale, con le proprie nevrosi, con
la propria capacità di reagire o di subire, di restare in ascolto o di agire per deviare la
strada percorsa. Il tentativo è quello di vedere se vi sono elementi di contatto tra le diverse
percezioni personali; se esiste un fil rouge che accomuna i nostri percepiti con quelli degli
altri.
Nel mondo della relazione di aiuto e in particolare del Counseling, credo che la solitudine
rappresenti una grande tematica e nel contempo una grande opportunità di
accompagnamento dei clienti nel loro percorso personale. E come in tutti i processi
interpersonali, ma in particolare nel Counseling, attraverso transfert e controtransfert,
serve anche ad aiutare se stessi.
Per quanto mi riguarda, credo che riuscire ad apprezzare la mia solitudine, ottenere da
questi momenti un aumento di consapevolezza, possa innanzitutto aiutare me nel
processo di crescita personale, ma possa rappresentare anche un elemento di supporto
empatico nei confronti dei clienti che mi porteranno questo tema.
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Capitolo 1
La mia solitudine
Ritorno alla definizione del Devoto Oli, che trovo lontana dal mio sentire. Penso che
questa definizione assolutista rappresenti una visione parziale della realtà e in linea con la
necessità di definire i contorni a livello teorico.
Trovo invece che la dimensione assoluta di solitudine, almeno nella mia esperienza
personale, sia stata quasi del tutto assente.
Spesso mi sono trovato in un ambiente accogliente, ovattato, sicuro ma privo di un
accompagnamento, di un sostegno, di una base sicura sulla quale appoggiarmi.
Parto dalle mie prime esperienze di vita.
Sono nato a Milano nel 1960, in un quartiere popolato da quel nucleo di famiglie lavoratrici
che hanno contribuito allo sviluppo economico italiano degli anni ’50-’70, in particolare nel
Nord Italia. Una dimensione di discreto benessere economico, rappresentato da una realtà
sociale nuova, privata dei riferimenti familiari della comunità rurale.
Figlio unico di figli unici lavoratori, quasi da subito sono stato lasciato con mia nonna a
iniziare il mio percorso di vita: chiuso in un appartamento, isolato dal resto del mondo,
senza uno spazio comune di condivisione della socialità.
I miei genitori, entrambi lavoratori, ritornavano a casa alla sera e venivo lasciato con la
nonna materna, con noi convivente, a partire dai cinque mesi di vita. Non ho mai potuto
confrontarmi direttamente e quotidianamente con un altro bambino, non avendo avuto
fratelli o sorelle.
Sono vissuto in una dimensione di totale accudimento e di avvolgimento genitoriale, che
mi ha seguito sino alla età di diciassette anni, quando è morta mia nonna.
Da bambino accolto, accudito, avvolto in un bozzolo di cure e di attenzioni, ma mai
esposto alla realtà esterna se non sotto tutela, non ho realmente sentito la presenza di un
mio simile; anestetizzato dall’affetto famigliare, non ho mai sperimentato la socialità reale.
Quando avevo otto anni mia nonna ha perso la vista e da bambino avvolto e accudito ho
trasformato parte della mia infanzia in bambino che avvolge e accudisce.
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Nell’ambito scolastico i rapporti sono stati funzionali alla mia presenza nella comunità, ma
non ho mai sperimentato una reale condivisione di amicizia, almeno sino alla età di
quattordici anni.
Resto isolato nella avvolgente coltre familiare. Non mi rendo conto della realtà sociale che
mi circonda, passo le mie giornate tra gli impegni scolastici e pomeriggi vuoti. Le estati
passano tra vacanze con in genitori e un isolamento in un paesino di campagna sul lago di
Como. Sono come anestetizzato e non soffro questa solitudine in modo evidente, o
almeno in modo tale da poterne uscire con un atto dirompente e tale da modificare la mia
situazione.
Sono i primi turbamenti relazionali verso il mondo femminile che riducono la dose
anestetica e cominciano a risvegliare il mio corpo e la mia mente.
Mi porto dietro questa sensazione per qualche tempo, sino a quando percepisco che il
mondo degli adolescenti intorno a me sta vivendo in modo diverso dal mio. Non ho la forza
di reagire e di attaccarmi al loro treno e resto avvolto in un dolore solitario che guarda,
invidia ma non resta coinvolto.
Un rapporto di amicizia importante si sviluppa con un amico, con il quale passo i miei
pomeriggi in bicicletta, ma niente oltre questo. Sono esperienze di vita sociale molto labili
e solo all’inizio delle scuole superiori inizio un rapporto più aperto con il resto del mondo. I
miei genitori sono sempre accudenti e avvolgenti, ma non imparo da loro lo slancio verso
gli altri, anzi… Mi trattengono a loro senza porsi il problema di come sto io.
Nell’agosto del 1977 mia nonna muore improvvisamente, nella casa di campagna. Quella
sera sento che il mio momento di risveglio è definitivamente arrivato. Ho diciassette anni.
Da quel momento la mia vita cambia, sono più attivo, proattivo, imparo a nuotare, mi
confronto con i miei simili senza paura di essere escluso. Mi lancio in una attività politica
all’interno della scuola, ma ancora una volta senza aggregarmi realmente a un gruppo.
Sono un “isolato politico” (portatore di istanze di riformismo laico, socialista, libertario e
non violento, nello stile del Partito Radicale) e non mi aggrego alle forze politiche più
importanti del momento: Comunione e Liberazione o la Sinistra extraparlamentare.
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Per questa mia unicità vengo riconosciuto, visto, apprezzato ed eletto nel Consiglio di
Istituto della Scuola. Non ho più paura degli altri, non sento la necessità di confondermi
con gli altri ma solo quella di parlare di ciò che il mio sentire del momento mi ispira come
elemento di comunicazione. Non entro pertanto in alcun organismo politico, ma sempre
partecipo da fuori ma con una mia identità.
Questo atteggiamento, questo modo di essere con gli altri ma sempre con me stesso è un
fil rouge che mi porto ancora dietro oggi. Essere parte di un gruppo, sia esso di lavoro,
extra lavorativo o tra amici, mi fa sentire bene, soprattutto quando sono apprezzato e
riconosciuto, ma non posso dire di essermi sempre lasciato andare fino in fondo,
partecipando con tutto me stesso.
Vi è sempre un pezzo della mia vita che riservo a me stesso, come se la mia solitudine
bambina non mi avesse mai abbandonato. Come se questa solitudine avesse lasciato un
segno indelebile, che mi preserva dal partecipare completamente e mi trattiene da quello
che percepisco una sorta di ‘confusione’ con gli altri.
In questa solitudine mi sono trovato a volte anche nella vita di coppia.
A ventisette anni sono passato dalla famiglia nella quale sono nato alla creazione di una
nuova famiglia, formata unicamente da una coppia. Senza soluzione di continuità, senza
interrompere uno stato di condivisione della mia vita con altri.
Posso affermare, però, che ci sono momenti in cui il mio bambino solitario esce ancora e
chiede di essere lasciato solo. Ho sempre lasciato questa mia parte un po’ nascosta,
rattrappita, quasi fosse una vergogna cercare spazi di solitudine.
Ho imparato ad apprezzare la possibilità di restare solo lo scorso anno, durante una
settimana solitaria di viaggio motociclistico che mi sono concesso. Durante questa
esperienza ho potuto vivere appieno la libertà di fare esattamente quello che volevo, in
ogni istante, e questo si è rivelato inebriante e inaspettatamente leggero. Ho potuto
sperimentare la possibilità di essere libero nel mondo, senza l’angoscia di essere isolato,
senza percepire il senso di vuoto che, ricordo, mi pervadeva da bambino.
Sapevo di avere un posto dove tornare, una casa, una base sicura; ma non mi mancava.
Anzi, mi sono goduto la libertà. I fantasmi erano solo quelli di non avere nessuno di fianco
a me nella notte se fossi stato male, se avessi avuto bisogno di aiuto; ma questi fantasmi
erano marginali, non angoscianti né frustranti, e mi sono permesso di vivere una
dimensione nuova. Più i giorni passavano, più questa dimensione appariva possibile e
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quando sono tornato a casa qualcosa mi mancava; sentivo il bisogno di spazi miei molto
più di prima.
Anche questa estate mi sono permesso due sessioni di tre giorni in solitudine. Io e la moto
in mezzo alle montagne, le curve, l’aria in faccia e la libertà. Ho sempre vissuto la
solitudine come un fantasma, come una cosa da rifuggire, ma solo dopo queste
esperienze ho potuto apprezzare la possibilità di concedermi questo spazio per me.
Oggi, l’esperienza di vivere in solitudine rappresenta una attrazione, ma solo nella
consapevolezza che rappresenta una parentesi che mi sto permettendo: dopo la
parentesi ci deve essere la “base sicura” di una relazione, di una struttura che mi accoglie
e mi fa percepire il suo calore. Altrettanto importante e vitale per me è la possibilità di
accogliere e far percepire la mia presenza, potendo rappresentare per l’altro la stessa
“base sicura” di cui io ho tanto bisogno io.
Per un simbiotico come me, il vuoto rappresenta l’elemento più pericoloso e sconosciuto,
dal quale scappare pur essendone attratti. Percepire la fusionalità simbiotica mi è
successo pochissime volte; credo che il fondersi con l’altro rappresenti per me il maggior
elemento di attrazione ma anche di distacco. Lasciarsi andare, fondersi con l’altro
rappresenta l’estasi, il completamento, il raggiungimento vero di un obiettivo. Ma
rappresenta anche una paura: la paura di perdersi nell’altro e che l’altro possa dissolversi,
scomparire, trascinando me insieme a lui nel vuoto.
Forse per questo non mi sono quasi mai lasciato andare completamente.
Per questo, stare in un gruppo di compagni di viaggio come è accaduto durante i tre anni
trascorsi insieme nel corso di Counseling ha rappresentato, ancora una volta, una grande
sfida verso me stesso. Entrare nel gruppo, sentirmi accolto e non giudicato, lasciarmi
andare, è stato per me molto difficile e i miei compagni, insieme ai miei docenti Alessandra
e Riccardo e ai miei tutor, ne sono stati testimoni.
Solo nel corso del terzo anno posso dire di essermi aperto e di aver potuto condividere le
mie debolezze con gli altri, entrando “quasi” completamente nel gruppo.
Come ho già detto nell’introduzione, questo percorso ha rappresentato e rappresenta per
me una grande evoluzione, ma è ancora in itinere e forse non terminerà mai.
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Roberto Sassone, psicoterapeuta reichiano, partecipando a un convegno su “Essere felici”
ha detto delle cose che mi hanno colpito molto e mi hanno fatto riflettere su quello che ho
sopra descritto.
“Se accade una cosa bella, scatta la paura di perderla, quindi il mio sistema che si era
aperto si richiude su se stesso per paura di perderla. Oppure la sensazione è troppo per
me, basta così… Non reggiamo la paura della troppa gioia. Non colgo la felicità perché
non accolgo la sofferenza. Il problema della sofferenza è che non ci poniamo nel modo
reale di come la viviamo. Di fronte alla realtà si può negarla o dare dignità alla sua
esistenza. Ma nel negare la realtà rafforziamo ciò che si è negato! Aumenta la corazza
che dà potere a ciò a cui ci opponiamo. Se ne prendo atto è un passaggio evolutivo. Se
lascio esistere la realtà e non mi oppongo l’impatto sarà diverso. Anche nella sofferenza
vivo la dignità della mia vita. La dignità della vita è dar valore a ciò che esiste, ma non
posso viverla se non mi do valore.”
Ecco, credo che la mia solitudine sia collegata proprio a questa incapacità di stare nel
pieno dell’esperienza, fuggendo prima di averla completamente gustata, assaporata,
masticata, digerita e assimilata.
Stare nell’esperienza, non fuggire, godersi il “ritiro” fino alla fine: stare nell’esperienza vuol
dire anche imparare a stare con me stesso senza ricercare sempre nuovi stimoli esterni.
Il vero obiettivo della mia vita è imparare a bastare a me stesso senza il bisogno di una
parte che mi accolga e mi sostenga e che abbia bisogno a sua volta del mio sostegno e
accoglimento. Questo è il punto di arrivo, il punto dal quale ripartire per una nuova
modalità di condivisione con il resto del mondo, per un più armonico ed equilibrato
rapporto con l’altro e con gli altri.
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Capitolo 2 La Solitudine degli altri
Nel corso della mia vita ho potuto osservare negli altri diversi tipi di solitudine. Vi sono
solitudini connaturate al periodo della vita, quale quella degli anziani, che conosco e
frequento molto bene.
Mia madre novantenne, vedova da ventitré anni, e mia “zia” di centoquattro anni, che vive
sola da ormai oltre trenta, rappresentano le due solitudini che frequento di più e che mi
sforzo di attenuare donando loro la mia presenza, almeno telefonica, quotidiana.
Vi sono solitudini sui luoghi di lavoro, che ho visto e vissuto direttamente negli ambienti
professionali che ho frequentato. La solitudine del manager, per esempio, spesso è una
solitudine non vista, non percepita dagli altri, ma di grande intensità.
Ma non intendo qui approfondire questi argomenti: in questa tesi vorrei piuttosto
esaminare tre diversi tipi di solitudine che ho potuto non solo osservare ma condividere e
accompagnare nel corso del mio periodo di tirocinio di counseling per il conseguimento del
diploma.
La prima che chiamo “in purezza”, relativa a una donna single di quarantasette anni
(cliente A);
La seconda “in coppia”, relativa a una donna sposata di quarantaquattro anni (cliente B);
La terza “in famiglia” relativa a un giovane di ventitré anni (cliente C).
La solitudine “in purezza” A vive da sola a Milano da ormai 25 anni.
La mamma muore dopo una lunga malattia e A si fa carico della gestione della situazione
per tutto il periodo, mentre padre e sorella sono solo figure di sfondo. Spariscono anche
dallo sfondo poco dopo la morte della madre e A rimane completamente sola, senza
l’unica vera compagnia della sua vita, sino a quel momento rappresentata dalla madre.
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In questa solitudine A si aggrappa al primo uomo che le presta attenzione in un periodo di
vacanza. A abita in un paese laziale e decide di lasciare le sue radici e di seguire
quest’uomo a Milano.
Per un certo tempo la vita di A è totalmente dedicata a quest’uomo che approfitta di lei e
della sua debolezza, frutto del fantasma della solitudine. Solo dopo ripetute vessazioni e
violenze (fino alla minaccia con coltello) A riesce a trovare la forza per scappare da questa
situazione, ritrovandosi da sola a Milano con almeno un lavoro che la rende autonoma sul
piano economico.
Negli anni a seguire A si ritrova a occupare le giornate in modo compulsivo e frenetico:
alterna all’attività lavorativa, peraltro impegnativa, una serie di corsi di ogni tipo, dai più
“leggeri” e femminili come il ballo e lo yoga, a quelli più pesanti e maschili come le arti
marziali e il tiro al bersaglio con la pistola. Non si concede mai momenti per se stessa, non
vuole provare la sensazione di vuoto che un momento di riposo e di attenzione per se
stessa le farebbe provare.
La relazione con il maschile è ovviamente molto compromessa sia dalla esperienza di
bambina con un padre non presente, pressoché inesistente e solo direttivo, sia dalla sua
prima relazione con un uomo.
A non riesce a trovare la persona giusta che si possa curare di lei accogliendola e
facendola sentire al sicuro. La ricerca è sempre spostata su persone che in qualche modo
comportano un elemento di distanza che non la fa sentire in pericolo. Vive nella sua
solitudine senza aprirsi all’altro, ma solo difendendosi da possibili minacce. È una
solitudine profonda, che non viene scalfita da niente; tende a riproporre una parte
femminile “ancillare” e mai di figura autonoma e capace di interpretare un ruolo proprio.
Il lavoro fatto con A nel corso di oltre 25 incontri è stato pertanto incentrato sul farle
percepire se stessa passando attraverso l’esperienza di essere un corpo, concedendosi la
possibilità di ascoltarsi e di essere accolta. In alcune occasioni è riuscita a contattare la
sua corazza abbandonandosi a un pianto profondo e intenso, molto liberatorio.
Da questo percorso A è uscita con una nuova consapevolezza del proprio essere sola e
delle possibilità che la vita le può ancora donare.
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La solitudine in coppia B vive con il marito da oltre tredici anni, ha un figlio di sette e “condivide” il ruolo di coppia
genitoriale senza amore, senza sesso, senza un sentimento di reciproca appartenenza.
Il suo stile caratteriale dominante, quello masochista, le permette di sopportare questa
relazione non soddisfacente e di sopravvivere in una vita priva di amore.
L’amore per il figlio rappresenta l’ancora di salvataggio e di sopravvivenza; nei confronti
del marito vi è un rapporto di “condominio” che è funzionale alla quotidianità e alla crescita
del bambino. Il rapporto tra i due adulti si basa sulla reciproca assistenza quotidiana e
sulla condivisione dei compiti genitoriali ma non si sviluppa nel vero ruolo di ognuno nella
coppia.
L’accettazione dello status quo, giustificato anche da ragioni economiche, trova radici in
una serie di esperienze vissute da bambina e da adolescente, quando il ruolo del padre ha
sempre avuto una funzione direttiva unidirezionale. L’accettazione incondizionata della
figura maschile paterna si è trasformata in un’accettazione incondizionata della figura
maschile di marito. Il rapporto di coppia senza sesso è subito e non rappresenta per B un
elemento di sofferenza dirompente, tale da porre la questione al centro della relazione.
La necessità di vivere la propria figura femminile in modo pieno è stata sopita,
addormentata in un ruolo prima di figlia, poi di compagna e infine di madre. La solitudine è
vissuta nella coppia e si manifesta nella non condivisione del ruolo di moglie e marito.
Gli elementi di accompagnamento della solitudine nella coppia sono: la fede buddista che
la impegna anche in attività di tipo sociale e un “amico” con il quale B si concede qualche
momento di “leggerezza”, anche in termini di una relazione sessuale. Ma anche in questa
relazione B resta sempre chiusa, bloccata nell’accettazione del ruolo stereotipato sia
proprio sia del maschio dal quale sente di dipendere, e non riesce a uscire neanche in
questo caso da un involucro avvolgente, protettivo ma limitante.
Il buddismo da lei praticato, con la recitazione quotidiana delle preghiere, rappresenta un
lenitivo alla solitudine casalinga e un elemento di condivisione e di appartenenza a un
gruppo al quale fare riferimento per il suo bisogno di stare in relazione.
Nell’ambito del lavoro, infine, ancora una volta la figura maschile (in questo caso del
fratello) rappresenta un elemento frenante per lo sviluppo della propria autonomia
femminile.
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La solitudine non è per B l’elemento primario di criticità percepito, attutita com’è dai diversi
ruoli ricoperti e dalle attività sociali svolte, ma rappresenta il nucleo profondo della sua
incapacità di uscire dal “guscio” di bambina, che neanche in età adulta ha saputo
dischiudere le proprie ali.
Il lavoro fatto con B nel corso di circa 30 incontri, si è pertanto concentrato sulla ricerca di
una propria presenza femminile nel rapporto con gli uomini della sua vita, un “peso
proprio” che faccia spostare la sua attenzione dagli altri a se stessa. Molto efficace è stato
il lavoro con il corpo, facendo percepire a B il peso (in senso letterale) che era in grado di
sopportare sulla propria schiena prima di riuscire a dare una risposta personale ed
efficace a questo “schiacciamento”.
Altrettanto efficace è stato lavorare con le sedie, interpretando le due parti prevalenti:
quella quotidiana, abituata a “obbedir tacendo” o a “sopportar deglutendo”, e quella libera
che esprimeva la propria rabbia repressa e che voleva rendersi viva ed essere autentica
prima di tutto verso se stessa e poi verso gli altri.
La solitudine in famiglia C vive a Milano con la famiglia dalla nascita ha ventirè anni , una famiglia agiata, senza
problemi economici, ma con una scarsa presenza e affettività.
In particolare, le attenzioni già scarse dei genitori sono convogliate sulla sorella minore
che presenta alcuni problemi cognitivi sin dalla nascita.
Di questo fattore di isolamento C parla molto poco, ma si sente nel suo racconto della
propria vita una grande solitudine percepita sin da piccolo. Superati senza fatica gli studi
elementari e medi, con l’inizio della adolescenza si palesano le prime difficoltà scolastiche.
Dopo una serie di insuccessi e di cambiamenti di indirizzo scolastico, riesce finalmente a
diplomarsi alla età di 21 anni.
La presa di responsabilità progressiva, che l’adolescente dovrebbe effettuare
accompagnato dai genitori, per lui non si è mai realizzata. Qualsiasi insuccesso viene
gestito dalla madre come fosse un sopruso perpetrato dagli insegnanti e dalla scuola
verso il figlio, cercando sempre mille giustificazioni a tutela del ragazzo, mentre il padre si
astrae dal processo di crescita di C, provvedendo unicamente a finanziarne i vari percorsi
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scolastici. La solitudine e l’isolamento rappresentano l’elemento di sofferenza nel periodo
più complesso della sua vita, in cui C non è stato affatto accompagnato dalla famiglia.
Anche il periodo universitario purtroppo con presenta grandi modifiche di comportamento
da parte di C in termini di suo processo evolutivo e nemmeno da parte dei genitori. Dopo il
primo insuccesso universitario (iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza) , C viene mandato a
Londra per effettuare un’esperienza all’estero, in vista di un possibile futuro percorso di
studi fuori Italia.
La solitudine che C ha sempre vissuto in casa, chiuso nella propria camera e isolato con i
videogiochi, senza avere una reale presenza dei genitori, si ripropone in una dimensione
sconosciuta e più ampia. C vive un periodo molto complesso e tormentato di circa 4 mesi
e viene rimpatriato dopo un episodio non chiarito, quando viene ritrovato nel Tamigi, forse
dopo un eccesso di droga o alcool di cui lui stesso non sa fornire spiegazioni.
Questo passaggio, del resto, non viene mai approfondito nel corso dei nostri incontri e il
mio ruolo con lui è stato solo quello di accompagnarlo nella decisione di quale percorso
universitario effettuare dopo i problemi sopra riportati. La mia presenza è stata finalizzata
a focalizzare l’attenzione sulla scelta degli studi e non su temi che, per la loro delicatezza
e profondità, richiedevano di essere seguiti da uno psicoterapeuta.
Nel corso degli incontri è emersa evidente la solitudine da lui vissuta dall’infanzia in poi. Il
mio ruolo è stato quello di un fratello maggiore che ascolta, elabora insieme, aiuta a
superare i pensieri di negatività, ma rilancia nella individuazione degli elementi di possibile
interesse e stimolo. La solitudine di C si manifesta nella sua non abitudine al confronto,
alla discussione analitica, all’approfondimento e nella incapacità di trovare insieme a
qualcuno una soluzione. Più volte sembra arrendersi, voler fuggire e abbandonare tutto,
scegliendo l’evitamento come unica strada percorribile.
Tuttavia, al termine dei nostri 10 incontri , C sceglie la soluzione più sfidante ma anche più
stimolante per lui, una soluzione che rappresenta un affrancamento dal nucleo familiare e
una presa di responsabilità nei confronti di se stesso: un’università in Olanda , in lingua
inglese, presso la facoltà di relazioni internazionali.
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Capitolo 3
Solitudine ed enneatipi: tanti modi per viverla
Dato che nel percorso da me svolto nell’ambito della formazione in counseling abbiamo
anche studiato le diverse personalità o caratteri utilizzando alcune mappe, ho pensato di
verificare se la percezione della solitudine varia a seconda delle varie personalità e se tali
differenze hanno una loro ricorrenza significativa.
Ho fatto riferimento in particolare alla mappa nota come Enneagramma: frutto di una
sapienza forse antichissima (il nome deriva dal greco ennea, nove e gramma, segno),
mantenutasi per tradizionale orale da maestro a discepoli in ambito esoterico, sia nella
tradizione della mistica cristiana sia in quella islamica (sufi), è stata sistematizzata in
chiave psicologica a partire dagli anni Sessanta/Settanta da due psicoterapeuti
sudamericani: Oscar Ichazo e Claudio Naranjo.
L’Enneagramma è una “mappa” di auto-conoscenza e trasformazione interiore che
descrive nove tipi di personalità e i rapporti tra loro. Ogni personalità rappresenta la
cristallizzazione delle nostre difese infantili nel processo di adattamento precoce con
l’ambiente e si struttura attorno a un nucleo emozionale (passione dominante), un nucleo
cognitivo (fissazione dominante) e un nucleo che riguarda la sfera degli istinti che regolano
l’attività umana (istinto conservativo, sessuale e sociale). In questa sfera è possibile
individuare tre sottotipi per ogni enneatipo, a seconda dell’ambito in cui si investono più
energie e che è ritenuto più importante: quello della sopravvivenza e della soddisfazione
dei bisogni primari, della sicurezza nel mondo fisico, per il conservativo; quello del
rapporto one-to-one o di coppia per il sessuale; quello del rapporto con gli altri in generale
e dell’appartenenza a un gruppo, per il sociale, arrivando a un ricchissimo e sofisticato
ventaglio di 27 tipi.
Gli enneatipi sono raggruppati nel simbolo dell’Enneagramma (una circonferenza con
all’interno un triangolo equilatero e una stella a sei punte) a tre a tre, sulla base di
caratteristiche comuni: il Due, Tre e Quattro sono i caratteri più emotivi; Cinque, Sei e
Sette quelli più razionali; Otto, Nove e Uno quelli più istintivi. Al di là delle differenze legate
alle singole passioni e fissazioni, c’è una tendenza di fondo nella visione del mondo e nel
percepire la realtà che distingue i tre gruppi: gli enneatipi nell’angolo di sinistra tendono a
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privilegiare la ragione, e la loro intuizione è basata sulla mente; quelli a destra tendono a
essere più in contatto con i propri sentimenti, e la loro intuizione è basata sull’emozione;
quelli in alto tendono a essere più rivolti all’azione e la loro intuizione è basata sul corpo.
La paura fa da sfondo a tutti e tre i tipi razionali, la tristezza, oltre all’immagine e al bisogno
di riconoscimento ai tre emotivi, la rabbia ai tre istintivi.
I vari enneatipi hanno però, rispetto a queste passioni di fondo, atteggiamenti diversi. Nel
caso dei tipi istintivi, la rabbia è diversamente vissuta. l’Uno, che pure è caratterizzato
dall’ira come passione specifica, fa fatica a riconoscersela, a vedere che è la passione
fondante della sua personalità; ha bisogno di sentirsi nel giusto per poterla legittimare;
l’Otto è invece molto in contatto con la rabbia e la esprime facilmente, è una modalità
normale di essere in relazione; il Nove sente la rabbia ma fa fatica a esprimerla; la sua
rabbia è repressa, e si manifesta semmai in forma di aggressività passiva. Nel caso dei tipi
emotivi, il bisogno di riconoscimento e la preoccupazione per l’immagine che li caratterizza
ha sfumature diverse. Il Due tende vuole soprattutto un riconoscimento legato alla bontà,
generosità, disponibilità, il Tre un riconoscimento delle proprie capacità di fare e di essere
bravo, di avere successo; il Quattro tende a sentirsi diverso dagli altri e, dotato di
un’elevata capacità estetica e creativa, è quello che maggiormente sente il bisogno di
essere visto come speciale e unico. Nel caso dei tipi razionali, la paura che li caratterizza
si manifesta nel Sei in maniera conclamata, visto che è la loro passione specifica, ed è
proiettata sull’ambiente, sugli altri; nel caso del Cinque si manifesta più come una
tendenza al ritiro, una paura di sentire; e nei Sette è più legata alla paura del dolore, della
noia, del disagio, e si frammenta, per evitarli, in alternative piacevoli.
Poiché ogni individuo appartiene a un certo enneatipo e condivide con i suoi “simili” molte
caratteristiche, di tipo cognitivo, emotivo ed energetico, ho pensato che potesse essere
interessare verificare se anche nel rapporto con la solitudine è possibile rintracciare
analoghe similitudini. Ho così deciso di ricorrere a un questionario.
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Questionario sulla percezione della solitudine
Quello da me utilizzato e sotto riportato è ispirato a uno studio sviluppato da un gruppo di
ricercatori della UCLA, University of California Los Angeles ed è stato somministrato a
oltre sessanta persone, per lo più allievi ed ex allievi della SIBiG, ai quali è stato richiesto
di indicare il proprio enneatipo (ed eventuale sottotipo), insieme a tre parole chiave sulla
solitudine.
QUANTOFREQUENTEMENTE…tisentiinsintoniaconlepersoneintornoate?sentilamancanzadiunacompagnia?sentichenonc'ènessunoacuipuoifarriferimento?tisentisolo?tisentipartediungruppodiamici?tisentichehaimoltoincomuneconlepersoneintornoate?sentichenonseipiùincontattoconaltri?senticheituoiinteressieletueideenonsonocondivisedaquelliintornoate?tisentileggeroapertoeamichevole?tisentichiusoneiconfrontideglialtri?tisentiabbandonato?sentichelerelazioniconaltrinonhannosignificato?senticheinrealtànessunoticonoscebene?tisentiisolatodaglialtri?sentichepuoitrovarecompagniaquandolovuoitu?sentichecisonopersonecheticapisconoveramente?tisentitimidoriservatotimoroso?sentichelepersonesonointornoatemanonconte?sentichecisonopersoneconlequalipuoiparlare?sentichesisonopersoneallequalipuoirivolgerti?
A ognuna delle venti domande era possibile rispondere in cinque modi diversi: Mai –
Raramente – Qualche volta – Spesso – Sempre. Rispetto al questionario originale ho
aggiunto una variabile (spesso), che a mio parere permetteva una maggior ventaglio di
risposte.
Non avendo trovato nella documentazione disponibile le metodologie di analisi del
questionario ho ideato un mio originale “Indice sintetico di Solitudine”.
A ogni risposta ho assegnato un punteggio da 5 a 1 o da 1 a 5 in relazione alle diverse
modalità di percezione di solitudine, come sotto indicato:
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DOMANDA MAI RARAMENTE QUALCHEVOLTA SPESSO SEMPREQUANTOFREQUENTEMENTE…..
1 tisentiinsintoniaconlepersoneintornoate? 5 4 3 2 12 sentilamancanzadiunacompagnia? 1 2 3 4 53 sentichenonc'ènessunoacuipuoifarriferimento? 1 2 3 4 54 tisentisolo? 1 2 3 4 5
5 tisentipartediungruppodiamici? 5 4 3 2 16 tisentichehaimoltoincomuneconlepersoneintornoate? 5 4 3 2 1
7 sentichenonseipiùincontattoconaltri? 1 2 3 4 58 senticheituoiinteressieletueideenonsonocondivisedaquelliintornoate? 1 2 3 4 5
9 tisentileggeroapertoeamichevole? 5 4 3 2 111 tisentichiusoneiconfrontideglialtri? 1 2 3 4 511 tisentiabbandonato? 1 2 3 4 512 sentichelerelazioniconaltrinonhannosignificato? 1 2 3 4 513 senticheinrealtànessunoticonoscebene? 1 2 3 4 514 tisentiisolatodaglialtri? 1 2 3 4 5
15 sentichepuoitrovarecompagniaquandolovuoitu? 5 4 3 2 116 sentichecisonopersonecheticapisconoveramente? 5 4 3 2 1
17 tisentitimidoriservatotimoroso? 1 2 3 4 518 sentichelepersonesonointornoatemanonconte? 1 2 3 4 5
19 sentichecisonopersoneconlequalipuoiparlare? 5 4 3 2 120 sentichesisonopersoneallequalipuoirivolgerti? 5 4 3 2 1
Ho poi elaborato tale indice in questo modo: ho dapprima sommato i risultati ottenuti da
ogni questionario in base alle risposte fornite e ho diviso tale risultato per il numero totale
dei rispondenti. In tal modo ho ottenuto un Indice confrontabile tra i diversi enneatipi,
anche in presenza di un numero diverso di risposte, ottenendo dei valori significativi sulla
diversa percezione di solitudine da parte di persone di enneatipo diverso.
Di seguito le principali evidenze emerse dall’analisi dei risultati:
Enneatipi N.Questionari % Indicesinteticodisolitudine Deltavsmedia Deltavsmediain%
1 7 11% 41,29 -6,36 -13%2 8 12% 45,63 -2,02 -4%3 7 11% 49,71 2,07 4%4 4 6% 60,25 12,61 26%5 6 9% 52,67 5,03 11%6 13 20% 51,62 3,97 8%7 4 6% 36,75 -10,89 -23%8 6 9% 44,50 -3,14 -7%9 11 17% 46,36 -1,28 -3%
Totale 66 100% 47,64 0 0% L’indice sintetico riportato, pari a 47,64, rappresenta la grande media delle 66 persone che
hanno risposto al questionario.
Risulta molto interessante, pur con frequenze molto diverse tra loro in termini di
rispondenti, la diversa percezione di solitudine da parte dei diversi enneatipi.
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Come era abbastanza prevedibile, i Quattro risultano essere quelli più sensibili e quelli che
percepiscono maggiormente di essere soli (+12,61 vs la media pari al 26 % in più del
campione).
Al contrario e a ulteriore conferma, i Sette sono quelli che percepiscono meno la solitudine
(-10,89 vs la media, pari al 23% in meno rispetto alla media del campione).
Più in generale i Quattro, Cinque e Sei sono quelli che risultano pìù “soli” o quantomeno
che percepiscono la solitudine in modo più intenso: usando la terminologia inglese, si
sentono più “lonely”, che indica appunto il “sentirsi/percepirsi solo”, mentre “alone” indica
l’essere oggettivamente solo. In altre parole, si può essere “alone” ma non sentirsi “lonely”.
E viceversa, sentirsi “lonely” pur non essendo “alone”.
I Sette, Otto e Uno sono quelli che hanno della solitudine una percezione più attenuata, e i
Due Tre e Nove sono quelli con minor scostamento rispetto alla media del campione.
Ho provato a verificare anche i raggruppamenti degli enneatipi delle triadi rabbia/istintivi,
paura/razionali e tristezza/emotivi e anche in questo caso ne risulta una conferma di
quanto la teoria dell’enneagramma propone.
Tipologia Indicesinteticodisolitudine Deltavsmedia Deltavsmediain% rabbia/istintivi
891 44,05 -3,59 -8%
tristezza/emotivi 234 51,86 4,22 9%
paura/razionali 678 44,29 -3,35 -7%
Com’era prevedibile e come è stato confermato dalle risposte al questionario, il gruppo
emotivi dei Due, Tre e Quattro è quello che in misura maggiore percepisce la solitudine ( +
4,22 vs la media, pari al + 9%). Per diversi motivi gli altri due gruppi si distinguono per uno
scostamento dalla media intorno al - 7% (razionali) e al – 8% (istintivi).
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Parole chiave associate alla Solitudine
Come sopra accennato ho anche proposto al campione di indicare fino a tre parole
considerate rappresentative del proprio modo di sentire la solitudine. Ho assegnato, su
base soggettiva ma cercando di essere il più oggettivo possibile, un valore “positivo” o un
“negativo” alle parole indicate.
Sono state riportate un totale di 174 parole di cui solo 11 comuni ad alcuni enneatipi e 48
ripetute per almeno due volte.
La solitudine appare pertanto molto variegata nella percezione di chi ha risposto, essendo
per oltre il 70% definita da parole tutte diverse tra loro.
Qui sotto riporto la configurazione sintetica di queste parole ripetute e la ripartizione tra
parole “positive” e “negative”.
Enneatipi N.parole negativepositive- +
1 21 11 10 52% 48% tristezza libertà paura pace vuoto ricerca
2 21 7 14 33% 67% tristezza paura compagna risorsa
3 21 9 12 43% 57% tristezza paura rifugio vuoto intensità4 10 3 7 30% 70% intensità compagna5 9 1 8 11% 89% rifugio
6 33 11 22 33% 67% tristezza libertà paura compagna vuotofertile
7 12 1 11 8% 92% paura ricerca vuotofertile8 15 4 11 27% 73% libertà9 32 10 22 31% 69% tristezza libertà paura rifugio pace vuoto intensità risorsa
174 57 117 33% 67% 12 7 6 4 4 3 3 3 2 2 2 Interessante notare che la netta prevalenza delle parole associate è positiva (67% del
totale) mentre solo il 33% è caratterizzato da elementi considerati negativi. Questo
risultato mi ha in realtà stupito e lo sento distonico rispetto al mio sentire, che invece
associa alla solitudine una prevalenza di parole negative (tristezza paura abbandono)
Tristezza è la parola più ricorrente (dodici volte), riportata da 5 diversi enneatipi;
interessante notare che due persone E2 e due E3, appartenenti alla triade
tristezza/emotivi, l’hanno citata, mentre non è stata indicata da nessun appartenente al
gruppo E4. Parimenti la parola paura, presente sei volte, è stata indicata da un solo E6 e
da un solo E7, mentre non è stata associata alla solitudine dagli E5. Interessante notare
da nessun enneatipo è mai stata indicata la parola rabbia
Stimolante, per me, rilevare la presenza per ben sette volte della parola libertà, che in
effetti io associo alla solitudine, come ho detto nel Capitolo 1, da poco tempo.
Da ultimo, è interessante notare anche la presenza della parola vuoto, indicata per tre
volte, e in due casi qualificato come “vuoto fertile”.
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Capitolo 4
Testi sulla solitudine: che cosa risuona in me.
Ho identificato tra vari testi alcune frasi che hanno suscitato in me, nel tempo,
un’attenzione particolare provocandomi vari tipi di risonanza. Ho deciso pertanto di
selezionare alcune di queste frasi e aggiungere un mio breve commento personale
Spunti da filosofi
Un uomo deve mantenere un piccolo spazio dove può essere se stesso senza riserva; solo nella solitudine può conoscere la vera libertà. (Michel de Montaigne)
Ecco una “perla” di questo filosofo francese del 1500 che mi ha molto colpito. Credo che la
capacità di mantenere uno spazio riservato per noi stessi nella nostra vita, senza farlo
invadere da altri, sia un elemento di crescita personale molto importante.
Trattenere a sé uno spazio di vita nel quale sentire di non dover in nessun modo
rispondere ai condizionamenti che ognuno di noi vive nella relazione con altri, rappresenta
un momento di ossigenazione necessario per poter poi, come dice Gaber, “star bene in
compagnia”. Darsi la possibilità ogni tanto di sentirsi completamente padroni di se stessi è
un elemento di benessere molto importante e vitale.
Queste pillole di libertà personale, e di dedica a se stesso della propria vita, le associo
molto alle mie esperienze motociclistiche solitarie, anche di un solo giorno. Avere un’idea
di dove andare ma poter cambiare in qualsiasi momento strada, accelerare e frenare
impostando la propria velocità senza condizionamenti esterni, prendere le curve senza
ostacoli davanti a sé, rappresentano per me piccoli momenti di estasi di pura libertà.
A ulteriore rafforzamento di quanto sopra ho trovato questa frase di Schopenauer:
Chi non ama la solitudine non ama neppure la libertà, perché soltanto quando si è soli si è liberi (Arthur Schopenauer)
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Spunti da poeti, scrittori, attori e registi
La solitudine è come una lente di ingrandimento: se stai bene e sei solo… stai benissimo se stai male e sei solo stai malissimo
(Giacomo Leopardi)
Questa poesia di Leopardi credo sia proprio la giusta descrizione di quanto ho accennato
nell’introduzione: la Solitudine come lente di ingrandimento delle emozioni. Mi piace molto
questa metafora e la sento molto mia.
Nel mio bilancio personale penso di avere ancora molta strada da percorrere per
compensare i momenti di solitudine “maligna” vissuti nella mia vita. E ancora oggi lo
sconforto da solitudine che ho percepito (anche recentemente) mi ha portato ad allargare
forse eccessivamente il percepito della solitudine, facendomi agire di conseguenza,
scappando da essa.
Saper vedere questo passaggio è stato importante; con gran fatica ho iniziato ad
apprezzare la solitudine anche come momento di massima libertà, di totale apertura alle
esperienze cosi come si presentano, di disponibilità ad accogliere eventi inaspettati come
un elemento di sorpresa e non di insoddisfazione o frustrazione.
Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera.
(Salvatore Quasimodo)
Questa poesia così essenziale ma cosi potente nel messaggio che porta è, a mio parere,
una perfetta rappresentazione della solitudine.
Ognuno di noi nasce e si trova nel mondo che lo circonda, percependo diversi tipi di
solitudine nei vari periodi della propria vita.
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Il raggio di sole che ci trafigge penso sia l’opportunità che ci viene offerta dalla vita; solo
pochi riconoscono il momento, molti lo perdono, molti ne sono impauriti, molti lo
riconoscono ma ne scappano via, incapaci di viverlo.
Proprio questa mancata opportunità può rappresentare la solitudine che ci seguirà per il
resto della vita, facendoci percepire soli con noi stessi. Se ciò avviene il percorso può
essere molto complicato e difficile da affrontare.
Ritengo che l’evoluzione citata nell’introduzione del “bastare a se stessi” diventi il modo
per affrontarla, per sopravvivere, per portare a termine la propria vita senza sofferenza,
senza dolore, ma trasformandola in auto centratura, in capacità di stare con se stessi e in
relazione con gli altri in modo più equilibrato.
Credo di essere attualmente in cammino verso questo obiettivo e di poter continuare in
questa direzione.
Noi, gli altri, l’amore e la solitudine
“Ti aspetterò” era una frase semplicissima e fondamentale. La ragione per cui era sopravvissuto. Era un modo comune per dire che avrebbe rifiutato tutti gli altri. Solo te. Torna da me.
(Ian McEwan, Espiazione: un romanzo d’amore e penitenza)
Penso che in questa poesia risieda un nucleo importante della solitudine dell’uomo. Un
amore non realizzato, un amore in attesa, un amore che non si è potuto vivere; un amore
interrotto per un lutto, un amore tradito…
Quanta solitudine possono procurare queste esperienze?
L’esperienza di aver vissuto un amore, ma non averlo potuto sperimentare sino in fondo;
un amore solo sognato ma mai realizzato, a volte neanche parzialmente; un amore che
non ha potuto essere vissuto per sempre, per la scomparsa del proprio amato oppure,
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ancora peggio, un amore tradito che, dopo averci investito la vita, non è più stato
corrisposto.
Credo che la impossibilità o la interruzione di un amore rappresenti uno dei nuclei più
profondi della solitudine, forse il più profondo. Intendo la solitudine del proprio cuore, dei
propri sentimenti, che mai potrà essere compensata dalla presenza di altre persone, siano
i compagni del momento o degli amici.
Una Gestalt mai chiusa, che rappresenta la ferita primaria della sofferenza; forse a partire
dall’amore materno, mai percepito o ricevuto come avremmo voluto.
La solitudine è molto bella, quando si ha vicino qualcuno cui dirlo.
(Gustave Becquer)
Due non è il doppio ma il contrario di Uno. Due è alleanza, filo doppio che non è spezzato.
(Erri De Luca)
In entrambe queste frasi trovo che la “presenza di un altro nella nostra vita” come
elemento lenitivo della solitudine sia perfettamente rappresentata.
Potersi godere la solitudine avendo la propria “base sicura”, il proprio compagno cui dare e
dal quale ricevere Amore.
Un compagno al quale manifestare la propria solitudine ancestrale, con il quale
condividere i propri vissuti e potersi regalare vicendevolmente le cure necessarie per
lenire le proprie ferite primarie.
Essere in due è proprio l’elemento di diversità dall’essere in Uno; ma spesso, purtroppo, si
è in due restando da soli.
Essere in due veramente è alleanza terapeutica, è sostenersi l’un l’altro, è darsi la
possibilità di sopravvivere alla propria esistenza con l’obiettivo di poter dispiegare le
proprie ali.
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La solitudine è poter ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno.
(Jim Morrison)
Questa frase è il giusto contrappunto delle due precedenti.
Stare soli nella vita, ascoltare il vento come metafora della vita che soffia, senza avere la
vela che ci aiuta a muoverci, a spostarci, a sentire la brezza in faccia, a farci volare e
sentire leggeri. Soli con il vento, soli nella vita affondati nella pesantezza della
sopravvivenza quotidiana.
La depressione è una epidemia di portata mondiale. Nel 2020 secondo le stime dell’OMS sarà la malattia più diffusa del pianeta. Credo che la depressione abbia le sue radici nella solitudine, ma la comunità medica continua a chiamarla depressione. È più facile chiamarla depressione, liberandoci del problema formulando una diagnosi e somministrando farmaci. Se cominciassimo a parlare di solitudine, sapremmo che non ci sono farmaci, basta l’amore umano.
(Patch Adams, inventore della Clownterapia)
Questa frase del teorico della “cura del sorriso” mi è sembrata molto bella e intensa nella
sua semplicità.
In effetti, il continuo e crescente utilizzo di psicofarmaci nel mondo occidentale
rappresenta un indicatore terribile di solitudine; un indicatore sottostimato e che invece
rappresenta uno strumento per valutare l’involuzione del mondo occidentale.
A fronte di un trend così inarrestabile, travolti come siamo dalla nevrosi produttivista e del
profitto, tralasciamo le nostre capacità relazionali, a partire dalla capacità di amare, mentre
dovremmo concentrare tutte le nostre risorse su questi aspetti fondamentali dell’esistenza.
Ma come riuscirci? Molto stimolante è stato uno spunto fornito recentemente da un
incontro con Zygmunt Baumann al quale ho avuto la fortuna di partecipare. Baumann
riprende la teoria di Papa Francesco dell’invertire il processo dal prendere verso il dare.
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Sentire di poter dare prima di prendere o addirittura di pretendere, penso possa
rappresentare un elemento fondante per le relazioni umane in assoluto, in particolare per
quelle amorose.
Se non sappiamo dare non si riceve niente, e lì si apre il baratro della solitudine.
La solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista
(Bernardo Bertolucci)
Questa frase del regista Bertolucci mi risuona proprio come l’indicazione di un percorso di
evoluzione personale; riuscire a bastare a se stessi trasformando la sensazione di essere
la vittima di una tremenda condanna in quella di una meravigliosa conquista è il risultato al
quale vorrei tendere per il resto della mia vita.
Far propria la sensazione che il percepito della propria esistenza sia sufficiente per il
nostro star bene, che quello che siamo lo abbiamo accettato e possiamo iniziare da qui a
modificarlo rappresenta una tappa fondamentale verso una vita più intensa e - mi viene
banalmente da dire - “felice”.
La peggior solitudine è non essere a proprio agio con se stessi.
(Mark Twain)
Trovo che questa frase sia particolarmente intensa e rappresenti la vera essenza della
solitudine. Trovare un proprio equilibrio tra le tante forze che ci attraggono, trattengono,
stimolano o frustrano penso sia una conquista nel proprio cammino.
Restare prigionieri di queste forze senza trovare una direzione può rappresentare la
peggior solitudine che un uomo possa provare e dalla quale necessariamente deve uscire.
Questo ritengo valga in tutti i campi della nostra vita, sia a livello relazionale sia a livello
lavorativo, e spesso sento anche io di essere avvolto da queste forze contrapposte.
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Spunti da compositori
Ho identificato tra varie canzoni presenti nella mia memoria quelle che hanno suscitato
una speciale risonanza rispetto al tema della solitudine. Di seguito ne riporto dei brani, con
un mio breve commento:
La Solitudine, di Giorgio Gaber
(…) La solitudine non è mica una follia è indispensabile per star bene in compagnia. Uno fa quel che può per poter conquistare gli altri castrandosi un po' c'è chi ama o fa sfoggio di bontà, ma non è lui è il suo modo di farsi accettare di più anche a costo di scordarsi di sé ma non basta mai. La solitudine non è mica una follia è indispensabile per star bene in compagnia.
https://www.youtube.com/watch?v=tMxZKQYwNG8
Ho iniziato questa tesi citando questa canzone. Penso di poter dire che se la solitudine
diventa un elemento di evoluzione attraverso il quale si può vivere meglio con se stessi e
con gli altri, allora dovremmo darci tutti la possibilità di sperimentare “giuste dosi” di
solitudine.
Il vero tema è riuscire a passare nella dimensione della solitudine come vuoto fertile, come
elemento rigenerante e rivitalizzante di relazioni non adeguate con gli altri.
Passare dentro questo percorso è credo la fase più complessa della mia vita ma credo
anche della maggior parte delle persone che conosco.
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Vorrei poter proseguire in questo percorso di consapevolezza e poter aiutare i miei futuri
clienti utilizzando questa mia esperienza evolutiva.
Canzone dell'appartenenza, di Giorgio Gaber
L'appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme non è il conforto di un normale voler bene l'appartenenza è avere gli altri dentro di sé. L'appartenenza non è un insieme casuale di persone non è il consenso a un'apparente aggregazione l'appartenenza è avere gli altri dentro di sé. (…) L'appartenenza è assai di più della salvezza personale è la speranza di ogni uomo che sta male e non gli basta esser civile. È quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa che in sé travolge ogni egoismo personale con quell'aria più vitale che è davvero contagiosa. (…) Uomini uomini del mio presente non mi consola l'abitudine a questa mia forzata solitudine io non pretendo il mondo intero vorrei soltanto un luogo un posto più sincero. (…) Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi.
https://www.youtube.com/watch?v=nbdN1Vx8uJo
Vorrei riportare in questo capitolo una riflessione di Luciano Marchino, che ho potuto
ascoltare in occasione del convegno “Essere felici”, organizzato da IPSO nel 2014.
La Società nella quale viviamo rappresenta oggi una distorsione profonda rispetto al
nostro imprinting genetico. Siamo animali sociali che hanno vissuto sino a pochi decenni
fa in comunità, dove forse la parola solitudine non era così utilizzata e percepita
frequentemente come oggi.
Oggi siamo tutti sempre più isolati. Viviamo in città sempre più affollate, composte da case
con appartamenti che non ci permettono una relazione quotidiana con altri. Nel mondo del
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lavoro siamo sempre attenti a non esporci, a non essere veramente noi stessi per poter
vestire l’adeguata corazza che ci permette di sopravvivere nel mondo competitivo
aziendale.
Anche tra amici poter stare in compagnia rappresenta una occasione sempre meno
frequente; organizzare un incontro, pur supportati da tutti i possibili media, è diventato una
impresa ai limiti della realizzabilità. Siamo sempre più soli e isolati dagli altri e stiamo
disimparando il principio di mutualità e di socialità e conseguentemente di appartenenza.
Tutto questo processo di inaridimento relazionale genera dosi di solitudine crescenti.
Trovo molto intenso il verso della canzone di Gaber: “non mi consola l'abitudine a questa
mia forzata solitudine / io non pretendo il mondo intero / vorrei soltanto un luogo un posto
più sincero.”
Credo infatti che ci sia una necessità sempre crescente, in questa società composta da
nuclei mono familiari, di riattivare rapporti di sincera e profonda relazione; penso di aver
avuto la fortuna di poter sperimentare questa evoluzione tramite la partecipazione al
percorso iniziato ormai quattro anni fa.
Quando poi si ritorna nella dimensione normale di relazione se ne percepisce la differenza
e la fatica si amplifica.
“Appartenenza è avere gli altri dentro sé”, come Gaber ci suggerisce, vuol dire poter
riempire i vuoti momenti di solitudine nei quali siamo trascinati quotidianamente nelle
relazioni di solo “contatto” e non di “conoscenza”. Una grande sfida .
Qualcuno era Comunista di Giorgio Gaber
(…) Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano
anche gli altri.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo.
Perché sentiva la necessità di una morale diversa.
Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di
cambiare le cose, di cambiare la vita.
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Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come più di
sé stesso.
Era come due persone in una.
Da una parte la personale fatica quotidiana e dall'altra il senso di appartenenza a una
razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di
volare, come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora, ci si sente come in due. Da una parte l'uomo inserito che attraversa
ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall'altra il
gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in un corpo solo.
https://www.youtube.com/watch?v=emoFu3iejiQ
Questa canzone di Gaber ha sempre suscitato in me una grandissima emozione. Ho
sempre associato a questa canzone la sensazione di poter essere elemento propulsore di
cambiamento sia per me sia per gli altri.
In queste frasi ho sentito tante volte la spinta adolescenziale che mi ha fatto uscire dalla
mia solitudine infantile. La spinta evolutiva e riformista alla quale ho creduto e continuo a
credere, sia della mia vita sia della vita pubblica.
Sentire che questo è possibile e realizzabile rappresenta la possibilità di trasformazione di
qualsiasi microcosmo; a partire dalla relazione personale, al mondo lavorativo, sino alla
possibilità di definire nuove regole per una nuova modalità di vita sociale che si può
associare alla parte “elevata” della politica.
La conclusione pessimistica di Gaber è ahimè ancora oggi molto attuale e il pericolo di
involuzione conservatrice e di “rattrappimento” rappresenta il maggior pericolo per ogni
Riforma degna di questo nome.
Sta a noi non ascoltare le istanze di conservazione, di mantenimento del proprio status,
ma evolvere verso un nuovo modo di vita.
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Sta a noi non perdere la speranza di poter cambiare qualcosa di quello che non ci piace,
anche se ci dovremo confrontare sempre con le nostre istanze conservative e meno
disponibili al cambiamento.
Saper essere il motore del cambiamento, a partire dal proprio cambiamento, rappresenta
la possibilità, a mio parere, di uscire dal proprio guscio, dalla propria solitudine.
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Conclusioni
Ho iniziato a pensare a questa tesi in un momento di grande solitudine.
Come sempre avviene forse le cose non succedono per caso.
Sono felice di aver terminato questo lavoro, almeno per ora.
Credo che aver scritto quello che qui sto terminando mi abbia permesso di aumentare il
mio livello di consapevolezza rispetto a tanti eventi della mia vita passati e presenti.
La mia percezione di solitudine forse si è un po’ attenuata nelle sue componenti negative e
ha iniziato a prendere qualche colore di maggior positività.
Penso che il mio percorso sarà ancora lungo in questo diverso percepire la solitudine; sarà
ancora molto lungo ma sento che è iniziato un cammino irreversibile in una direzione
definita.
Ne ho bisogno! Ammetterlo per me è il primo passo in questa direzione.
Sento oggi di poter rendere evidenti, elaborandoli, alcuni passaggi che hanno contribuito
nel mio passato a rendere la solitudine un fantasma ancora vivo. Oggi, sento che mi
permetterà di alleggerire un po’ la mia vita e la mia relazione con gli altri.
Ringrazio chi mi è stato vicino in questo periodo, ringrazio i miei compagni di viaggio che
volta per volta si sono affiancati a me o che mi hanno dato la loro disponibilità della loro
presenza.
Ringrazio tutti i compagni di questa scuola che hanno contribuito con le loro risposte a
rendere possibile l’analisi che ho proposto dei diversi rapporti con la solitudine che i vari
enneatipi hanno.
Ringrazio Alessandra e Riccardo per avermi permesso questa nuova esperienza di tutor
che contribuisce ad aumentare il mio diverso sentire la solitudine.
Sento di essere in un contenitore protetto e di potermi affidare.
Il percorso per riuscire a farlo completamente rappresenta per me un chiaro obiettivo che
intendo perseguire.
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Appendice
Un inquadramento statistico
Fonte: I.stat Aspetti della vita quotidiana – Famiglie – Persone sole – anno 2016
L’analisi statistica sulle persone che vivono da sole non è necessariamente
rappresentativa della modalità con la quale questo campione percepisce la solitudine.
A mio parere vi è sicuramente una forte correlazione, anche se non è provabile
statisticamente; a questo proposito ho ritenuto interessante effettuare un inquadramento
statistico del fenomeno “single” che ritengo possa rappresentare con una buona
approssimazione il tema della solitudine.
Aspetti della vita quotidiana - Famiglie Numero di componenti
Tempo e frequenza2011 29,4 27,5 20,4 17,1 4,3 1,3 1002012 30,1 27,4 20,2 16,5 4,5 1,3 1002013 30,1 27,3 20,2 16,7 4,3 1,3 1002014 30,6 27,1 20 16,9 4,1 1,3 1002015 31,3 27 20,2 16 4,3 1,2 100
Dati estratti il07 ott 2016, 15h01 UTC (GMT), da I.Stat
6 e pi· totale
Misura per 100 famiglie con le stesse caratteristicheTipo dato famiglie - media biennale
Numero di componenti della famiglia
1 2 3 4 5
La presenza di nuclei famigliari composti da una sola persona è in notevole aumento.
In soli cinque anni i nuclei composti da una sola persona sono cresciuti di quasi due punti
percentuali, raggiungendo quasi un terzo del totale delle famiglie italiane.
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Aspetti della vita quotidiana - Famiglie Single persons and marital status
Tempo e frequenza2011 53,7 29,4 16,8 28,5 15,4 56,1 38,9 21,2 402012 53 30,2 16,8 28,1 15 56,9 38,4 21,2 40,42013 52,5 30 17,5 27,4 14,6 58 37,7 20,9 41,42014 52,7 29,7 17,6 28,5 15,9 55,6 38,5 21,6 39,92015 53,1 29,7 17,2 28 15,6 56,4 38,5 21,5 40
Dati estratti il09 ott 2016, 08h50 UTC (GMT), da Anziani.Stat
nubile separata, divorziata
vedova nubile/celibe separata/separato,
vedova/vedovo
Misura per 100 persone sole con le stesse caratteristiche
Tipo datopersone sole per sesso e stato civile - media biennale
maschi femmine maschi e femminecelibe separato,
divorziatovedovo
Resta stabile la composizione tra celibi/nubili e separati rispetto ai vedovi/e.
Il 60 % appartiene alla prima categoria, composta dal 38,5 % di celibi/nubili e dal 21,5% di
separati/e.
Il restante 40% rappresenta pertanto la categoria dei vedovi/e, categoria molto
caratterizzata dalla presenza di donne, in base alla maggior sopravvivenza che
caratterizza il sesso femminile.
Molto interessante a questo proposito è analizzare la componente maschile dove la
presenza di single è fortemente caratterizzata da celibi (53% del totale) e da separati
(quasi il 30%) mentre la componenti di vedovi è pari solo al 17%.
La componente femminile è invece caratterizzata soprattutto da vedove (oltre il 56%),
mentre il restante 44% è suddiviso tra 28% di nubili e 16% di separate.
Aspetti della vita quotidiana - Famiglie Persone sole
TerritorioItalia 36 36,1 27,9 15,7 22,7 61,6 24,2 28,3 47,4 Nord 33,3 38,1 28,6 15,8 22,2 62 23 28,8 48,2 Nord-ovest 33,3 38,3 28,4 16,3 19,7 64,1 23,3 27,4 49,3 Nord-est 33,3 37,9 28,8 15,2 25,8 59,1 22,7 30,8 46,5 Centro 36,5 37,7 25,7 19,3 24,1 56,6 26,4 29,7 43,9 Mezzogiorno 40 31,6 28,4 12,6 22,5 64,9 24,5 26,5 49 Sud 36,9 31 32,1 12,4 22 65,6 22,8 25,8 51,5 Isole 45,3 32,6 22,1 12,9 23,5 63,6 27,8 27,7 44,5 centro area metropolitana 37,6 35,6 26,9 18,9 24,1 56,9 26,4 28,7 45 periferia area metropolitana 39,8 33,7 26,6 11,6 24 64,4 24,4 28,4 47,2 fino a 2.000 ab. 33,2 35 31,8 9,6 13,8 76,6 20,7 23,8 55,5 2.001 - 10.000 ab. 36,4 33,7 30 13,2 21,2 65,5 23,6 26,8 49,5 10.001 - 50.000 ab. 34,8 39,1 26 16,4 22,4 61,1 23,9 29,2 46,8 50.001 ab. e più 34,1 37,8 28,1 17,9 25,1 57 24,1 30 45,9
Dati estratti il07 ott 2016, 14h57 UTC (GMT), da I.Stat
45-64 anni 65 anni e più45-64 anni 65 anni e più meno di 45 anni
45-64 anni 65 anni e più meno di 45 anni
MisuraTempo e frequenza 2015
Tipo dato maschi femmine maschi e femminemeno di 45
anni
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Interessante anche la suddivisione delle persone sole per sesso, età e residenza.
Si conferma quanto visto nella tabella 2, ovvero la prevalenza di giovani (<45 anni) e
meno giovani (45-64 anni) maschi nella categoria dei “soli” (72% equi distribuito), mentre
solo il restante 28% è rappresentato da maschi oltre i 65 anni.
La componente femminile dei “soli” è invece caratterizzata per quasi il 60% da donne con
età >65 anni, mentre la componente 45-64 anni rappresenta un quarto del totale.
Non vi sono elementi di forte differenziazione in questo universo quando si analizzano
invece le variabili geografiche: la suddivisione per età non risulta fortemente differenziata
tra Nord, Centro, Sud, Isole e nemmeno per aree urbane, tra area centro/periferico
metropolitana e in comuni con abitanti compresi tra i < 2.000 e i >50.000 abitanti.
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Bibliografia Grossi Guido, Pensieri riflessi, Vitanuova 2007 Grossi Guido, Briciole per ritrovare la strada, 2013
Johnson Stephen, Stili caratteriali, Edizioni Crisalide 2004
Marchino Luciano, Mizrahil Monique, Counseling, una nuova prospettiva, Mimesis 2007
Naranjo Claudio, Esperienze di trasformazione con l’Enneagramma, 2015
Palmer Helen, L’Enneagramma, Astrolabio 1996
Piccinino Giorgio, Amore Limpido, Erickson Psicologia 2010
Piccinino Giorgio, Nati per amare, Mimesis 2016
Russell, D , Peplau, L. A.. & Ferguson, M. L. (1978). Developing a measure of loneliness.
Journal of Personality Assessment, 42, 290-294.
Yalom Irvin, Il dono della terapia, Neri Pozza 2014
Yalom Irvin, Creature di un giorno, Neri Pozza 2015
Yalom Irvin, Guarire d’Amore, Raffaello Cortina 2015
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