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© 2010 Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporaneanelle province di Biella e VercelliVarallo, via D’Adda, 6

Sito web: http://www.storia900bivc.itE-mail: [email protected]

Vietata la riproduzione anche parziale non autorizzata

Il volume è stato pubblicato con il contributo della

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“Tra i costruttoridello stato democratico”Vercellesi, biellesi e valsesiani all’Assemblea costituente

Atti dei convegni

Vercelli, Piccolo Studio, 15 marzo 2008Biella, Museo del Territorio, 29 marzo 2008Varallo, Palazzo D’Adda, 10 maggio 2008

a cura di Enrico Pagano

Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporaneanelle province di Biella e Vercelli “Cino Moscatelli”

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In copertina: Comizio del presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi a Vercelli© Archivio fotografico Luciano Giachetti - Fotocronisti Baita (Vercelli). Riproduzione vietata.

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L’Istituto ha celebrato la ricorrenza del sessantesimo anniversario dell’entrata in vi-gore della Costituzione italiana con varie iniziative, tra cui l’organizzazione di tre con-vegni svoltisi tra la metà di marzo e la prima decade di maggio del 2008 a Vercelli, Biellae Varallo e dedicati alle figure dei deputati vercellesi, biellesi e valsesiani eletti all’As-semblea costituente, le cui esperienze sono state raccontate con l’obiettivo di ricostrui-re il clima politico del tempo, a forte caratterizzazione unitaria sulle questioni fondamen-tali, espressa anche dall’alleanza di governo fra i principali partiti, che si interruppe senzache venisse meno l’intenzione di dotare il Paese di un testo costituzionale condiviso.

Una serie di occasioni per ripercorrere le tappe della formazione umana e politicadei protagonisti di un’esperienza istituzionale in cui fu progettata e resa attuabile unademocrazia che invertì la rotta anche esistenziale degli abitanti del Paese, avviandolidalla dimensione secolare di “sudditi” prevista dallo Statuto albertino al cammino versola libertà della cittadinanza nella consapevolezza dei diritti e dei doveri sanciti dal testocostituzionale, prospettiva su cui ha insistito Bruno Ziglioli nelle relazioni introduttive aiconvegni di Vercelli e Biella. Il cambiamento in atto fra il 1945 e il 1948, che oggi con-sideriamo come processo genetico della democrazia, come sottolinea Marco Neirettinell’introduzione ai lavori del convegno di Varallo, riguardò oltre ai profili istituzionali ecostituzionali, il sistema politico, con il passaggio dal partito unico alle forme democra-tiche basate sui partiti di massa, e il sistema di governo, con la graduale rottura dellospirito ciellenistico e l’affermarsi della conflittualità fra partiti di riferimento moderatoe cattolico e partiti della sinistra. In questo contesto le elezioni per l’Assemblea costi-tuente furono il primo momento di misurazione del gradimento della popolazione versola novità della partecipazione democratica e dell’orientamento politico generale dell’elet-torato italiano, più di quanto avevano potuto essere le elezioni amministrative svoltesitra marzo e aprile del 1946, prima storica occasione di esercizio del suffragio universalenel nostro Paese, che, in varia misura, permisero il ricambio della classe dirigente loca-le rispetto al passato remoto del periodo liberale e a quello prossimo del regime fascista.

I risultati delle elezioni politiche del 2 giugno 1946 sono noti. Prima ancora di riesa-minarne in sintesi le caratteristiche, è da sottolineare il dato dell’affluenza alle urne, raf-forzata indubbiamente dalla concomitanza del voto per il referendum istituzionale, co-munque indicativa di una diffusa volontà di esprimersi con gli strumenti democratici,che fu pari all’89,08 per cento degli aventi diritto, valore che sale al 91,12 per centonella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli. Per quanto riguarda gli esiti elettorali, latendenza evidente a livello nazionale fu la polarizzazione del voto verso i partiti di mas-sa, che complessivamente ebbero il 74,87 per cento dei consensi, ancor più accentuataa livello della circoscrizione Torino-Novara-Vercelli, dove la somma dei voti dei treprincipali partiti si attestò all’86,72 per cento, e a livello della provincia di Vercelli, al-l’epoca comprensiva del Biellese, in cui la somma dei risultati percentuali di Dc, Psiup

Prefazione

La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore delpopolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dalParlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodosul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà.

Luigi Sturzo

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e Pci raggiunse quota 90,20. La concentrazione del voto nell’ambito del collegio eletto-rale interprovinciale ebbe come conseguenza l’attribuzione ai tre partiti di 24 seggi su25, di cui 9 alla Dc, 9 al Psiup e 6 al Pci; l’unico seggio attribuito ai partiti minori andòall’Udn. Fra gli eletti del territorio locale Cino Moscatelli (Pci) riportò un notevole con-senso in termini di voti di preferenza, 45.282, terzo risultato in assoluto sul territorioregionale e secondo del collegio dietro soltanto a Giovanni Roveda (Pci), che fu il pri-mo sindaco di Torino dopo la Liberazione; Francesco Leone (Pci) ebbe 36.275 prefe-renze, Virgilio Luisetti (Psiup) 27.509, Ernesto Carpano Maglioli (Psiup) 27.207, Er-menegildo Bertola (Dc) 26.543, Giuseppe Pella (Dc) 25.632, Vittorio Flecchia (Pci)13.423 e Francesco Moranino (Pci) 11.009. Furono inoltre eletti nel collegio uniconazionale Giulio Pastore (Dc) e Pietro Secchia (Pci).

L’appuntamento elettorale del 2 giugno ’46 aveva decisamente gratificato la provin-cia di Vercelli in termini di rappresentanza, con particolare riferimento all’area biellese,che poteva contare su sei deputati; per la natura delle funzioni dell’assemblea, essi espri-mevano più la partecipazione del territorio alla costruzione dei fondamenti dello Stato,contribuendo a indirizzare il testo costituzionale verso un’ampia articolazione ammini-strativa decentrata che in prospettiva avrebbe avvantaggiato la dimensione locale, chenon la tutela immediata di interessi particolaristici, benché non sia stata irrilevante l’azionedei deputati espressa in forma di interrogazioni su questioni territoriali specifiche.

La dimensione quantitativa della rappresentanza politica locale stimola inevitabilmenteuna riflessione comparativa con l’attualità, in cui si delinea un processo di significativoaffievolimento della presenza delle periferie provinciali nei luoghi decisionali istituzionalidella politica; pur con tutte le distinzioni necessarie a proposito della diversa legislazioneelettorale, che attualmente consente scelte non necessariamente vincolate al territorio,e considerato anche che nel frattempo sono state attivate province e regioni, per cui sisono consolidati i livelli intermedi della rappresentatività territoriale e sono cambiati puregli equilibri demografici, con una più forte concentrazione di popolazione negli ambitiurbani, che ha determinato nuovi criteri di distribuzione della rappresentanza, spiccal’obiettiva circostanza che all’epoca della Costituente il territorio era rappresentato da10 deputati sui 556 presenti in Assemblea, l’1,79 per cento dell’insieme, mentre oggi lostesso territorio esprime 6 parlamentari, di cui 4 deputati e 2 senatori, sui 915 eletti nel-la XVI legislatura, rappresentanza pari allo 0,65 per cento. Permane invece come ele-mento di continuità l’assenza di rappresentanti femminili, caratteristica che appare oggicome il sintomo più rilevante dell’incompiutezza del cammino della democrazia e costi-tuisce l’espressione più marcata dell’arretratezza delle culture politiche nel territorio locale.

Sul piano delle storie politiche personali il gruppo di deputati locali eletti all’Assem-blea costituente rappresenta una selezione ottimale delle risorse umane presenti nei partitiriorganizzatisi dopo la guerra. Nessuno tra i deputati locali fu chiamato a far parte dellaCommissione dei settantacinque, incaricata di istruire la proposta del testo costituzio-nale, né della sottocommissione di diciotto membri che provvide alla stesura materialedi detta proposta, ma ben tre di loro ricoprirono l’incarico di sottosegretario di Statonel terzo governo De Gasperi: Ernesto Carpano Maglioli all’Interno, Cino Moscatellialla presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’assistenza ai reduci e ai partigia-ni, Francesco Moranino alla Difesa, con delega all’esercito. Per i due deputati comuni-sti, come rilevato nelle relazioni a loro dedicate, la nomina era stata caldeggiata da Pie-tro Secchia superando alcune perplessità di Togliatti riferite alle possibili obiezioni di

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De Gasperi; sul piano politico l’attribuzione a due ex comandanti partigiani di incarichicosì delicati, per quanto breve sia stata la loro durata, costituì il momento di massimasaldatura dell’esperienza resistenziale nella sua versione popolare con uno dei profiliistituzionali più elevati, cioè la partecipazione al governo.

A conferma della buona qualità degli esponenti della classe politica locale vi è la cir-costanza che tutti proseguirono il loro impegno parlamentare, alla Camera dei deputatio in Senato, oltre l’esperienza dell’Assemblea costituente, in una o più legislature, co-niugando in genere l’attività politica centrale con quella amministrativa locale. Contri-buì a favorire tale sviluppo delle carriere politiche la relativamente giovane età mediadegli eletti. Al momento dell’ingresso nel mondo politico istituzionale i più anziani eranoCarpano Maglioli, 59 anni, Virgilio Luisetti, 57 anni, Vittorio Flecchia, 56 anni; il piùgiovane era Moranino, 26 anni; Bertola, 37 anni, Moscatelli, 38 anni, Secchia, 43 anni,Pastore, 44 anni, e Pella, 44 anni, dovevano ancora entrare nella stagione della pienamaturità politica; discorso a parte per Leone, la cui data di nascita è incerta fra 1899 e1900, come si legge nel saggio di Francesco Rigazio a lui dedicato, che tuttavia avevamaturato nella lotta allo squadrismo fascista prima, nell’impegno della guerra civile spa-gnola e nella Resistenza poi un’esperienza da veterano. Ragioni anagrafiche delimitaronol’impegno di Luisetti e Carpano Maglioli alla prima legislatura; le note vicende processualiimpedirono a Moranino di esercitare con continuità il proprio mandato; Flecchia, Leonee Moscatelli seguirono la parabola politica di Secchia, finendo progressivamente ai marginidella vita politica e istituzionale centrale, non solo per la necessità del ricambio genera-zionale interna al partito; Bertola ebbe alterne fortune nelle tornate elettorali degli annicinquanta e sessanta, ricoprendo l’incarico di sottosegretario di Stato per il Tesoro nelsecondo governo Leone (1968); i più longevi sul piano politico e più gratificati da inca-richi di governo furono Pastore, più volte investito di responsabilità ministeriali, e Pella,che fu capo del governo sia pure per una breve stagione, dal 17 agosto 1953 al 12 gen-naio 1954, e più volte ministro nei dicasteri economico-finanziari e agli Affari esteri.

Caratteristica comune a tutti gli eletti locali all’Assemblea costituente è l’origine socialedal mondo contadino, operaio o della piccola borghesia e l’assenza, o la scarsissimarilevanza, di tradizioni politiche familiari: sono quasi tutti rappresentanti di una classedirigente che si forgia nelle esperienze del periodo liberale e dell’antifascismo, subendoin qualche caso la persecuzione del regime, e che consolida la propria formazione nel-l’attività di collaborazione con la Resistenza e con i Cln, oscillando tra la propensioneall’azione, caratteristica di Moscatelli e Moranino e anche di Leone, la propensione al-l’organizzazione partitica, propagandistica, sindacale e movimentista, tipica a diversilivelli e in diversi ambiti di Secchia, Flecchia, Bertola, Pastore e Carpano Maglioli, larilevante carriera politica e giornalistica di Luisetti nel periodo prefascista, la compe-tenza in materia amministrativa ed economica di Pella.

Questo volume raccoglie le relazioni sviluppate nei convegni che costituiscono tresegmenti di uno stesso percorso, pensato per sottolineare quale sia stato il contributodel nostro territorio alla nascita della democrazia, che non si è esaurito semplicementenella partecipazione dei deputati locali all’esame e all’approvazione della Costituzione:ognuno di loro singolarmente e nello stesso tempo tutti collettivamente portavano ideal-mente nell’aula dove è risorto il nostro Paese le cittadine e i cittadini biellesi, vercellesie valsesiani che li avevano votati.

Enrico Pagano, direttore dell’Istituto

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Vercellesi all’Assemblea costituente

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Parlare dell’Assemblea costituente significa, in larga misura, parlare del frutto dellasua opera, cioè della Costituzione della Repubblica. I valori, i significati, gli equilibriche stanno alla base di quell’esperienza, infatti, sono tutti perfettamente intelligibili neltesto della nostra legge fondamentale. Il modo migliore per capire cos’è stata la Costi-tuente sarebbe perciò quello di leggere la Costituzione: magari attraverso una letturaguidata, corredata dal necessario commento storico, istituzionale e politico. Per capiremeglio di cosa stiamo parlando, ci conviene però partire da alcune premesse storiche e- prima ancora - da una piccola precisazione linguistica.

Come è evidente, il termine “costituente” è il participio presente del verbo “costitui-re”. Nel suo significato politico e istituzionale, il termine nasce con la Rivoluzione fran-cese e si sviluppa secondo il seguente assioma: in presenza di “poteri costituiti” si devesupporre una forza che li costituisca. Nell’Ancien régime questa forza era dio, dal qua-le, secondo il principio di legittimità, discendeva direttamente il potere del sovrano. Conla Rivoluzione i principi del diritto divino vengono spazzati via e il “potere costituente”non può che essere esercitato dal nuovo soggetto titolare della sovranità: il popolo1.

Declinato in questo modo, il tema della Costituente in Italia era già al centro delleattenzioni e delle rivendicazioni di quelle forze risorgimentali di stampo mazziniano, de-mocratico e federalista che si battevano affinché la costruzione del nuovo stato unita-rio avvenisse su basi effettivamente democratiche e popolari. Così, per esempio, non èun caso che nell’esperienza della Repubblica romana del 1849 venisse immediatamenteconvocata una Assemblea costituente2. Le cose, come è noto, andarono in un altromodo: lo Statuto albertino, concesso da Carlo Alberto nelle convulse giornate del mar-zo 1848, fu semplicemente esteso a tutti i territori di cui si sarebbe andato a comporreil nuovo Regno d’Italia.

Carlo Alberto, come si legge nel preambolo dello Statuto, era sovrano «per la graziadi Dio», anche se, dopo l’Unità, alla formula di rito si aggiunse «e per la volontà dellaNazione». Lo Statuto albertino, quindi, era una costituzione “concessa”: il potere costi-tuente che la scrisse e la inserì nell’ordinamento era quello di un sovrano per grazia didio. Ed era una costituzione “flessibile”: enunciava cioè una serie di principi abbastanzavaghi e generali, tanto da poter essere plasmati e sviluppati in profondità dalla legisla-zione ordinaria e dalla prassi3.

L’esempio di maggiore rilevanza storica è quello dell’articolo 5 dello Statuto, che

L’Assemblea costituente: alcune considerazioni storico-istituzionali

1 PAOLO POMBENI, La Costituente. Un problema storico-politico, Bologna, Il Mulino, 1995,pp. 8-9.

2 Idem, p. 11 e ss.3 Sullo Statuto albertino e sulle altre costituzioni del biennio 1848-49 si vedano CARLO

GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia. 1848-1994, Roma-Bari, Laterza, 2002 (1a ed. 1974),pp. 19-41, e PAOLO COLOMBO, Con lealtà di re e con affetto di padre. Torino, 4 marzo 1848:la concessione dello Statuto albertino, Bologna, Il Mulino, 2003.

Bruno Ziglioli

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recitava in apertura: «Al Re solo appartiene il potere esecutivo». In altre parole, venivadisegnato un assetto dei poteri dello Stato nel quale l’esecutivo avrebbe dovuto confi-gurarsi come un “governo della Corona”, slegato dalla necessità di procurarsi la fiduciadi una maggioranza parlamentare. Immediatamente, però, la prassi si orientò verso laformazione di governi parlamentari, perennemente impegnati nella costruzione e nelmantenimento di una maggioranza di sostegno nella Camera elettiva4. Non mancaronotuttavia sbandamenti e tentativi (o tentazioni) di tornare alla lettera dello Statuto (“Tor-niamo allo Statuto” fu appunto il titolo del celebre articolo di Sidney Sonnino scritto nel1897).

Insomma, lo Statuto è una costituzione che si è adattata - di più: si è modellata - confacilità ai diversi indirizzi politici e istituzionali che si sono susseguiti lungo i cento annidella sua vigenza: al liberalismo elitario della destra storica come al trasformismo dellasinistra; alla “democrazia autoritaria” di Francesco Crispi e alle velleità prussiane di Um-berto I come al sistema giolittiano. Ma la dimostrazione dell’estrema flessibilità delloStatuto ci è data soprattutto dall’esperienza fascista: il fascismo, con il silenzio-assen-so di una Corona che si faceva vanto del suo legame storico con quella costituzione5,riuscì a operare uno smantellamento sostanziale dello Statuto, senza che ne fosse in-taccata la sua continuità e la sua validità formale.

Formalmente, la legalità statutaria fu garantita attraverso il ricorso a elezioni-farsa,con il “listone unico” - da accettare o da respingere in blocco - previsto dalla riformaelettorale del 1928. Nello stesso anno un organismo di partito, il Gran consiglio del fa-scismo, venne trasformato con legge ordinaria in organo costituzionale dello Stato. Nel1939 l’assetto e la composizione della Camera dei deputati, sempre attraverso leggeordinaria, furono completamente stravolti: i membri della nuova Camera dei fasci e dellecorporazioni (questa la nuova denominazione dell’organo) non sarebbero più stati elet-tivi, ma nominati tra i membri di una serie di altri organismi del regime. Tutto ciò, comeè noto, fu accompagnato da una sistematica e istituzionalizzata violazione dei diritti edelle libertà individuali e politiche, fino all’inserimento nell’ordinamento giuridico delleleggi di discriminazione razziale.

Dopo la caduta del regime, a seguito della riunione del Gran consiglio del 25 luglio1943, la Corona immaginò di poter gestire direttamente e dall’alto la transizione, sem-plicemente tornando - nell’immediato - alla lettera dello Statuto (il già citato articolo 5)e - in prospettiva - all’assetto istituzionale prefascista. Il primo governo Badoglio erainfatti un “governo della Corona”, composto da alti burocrati, magistrati e militari con-siderati molto vicini agli ambienti di corte. Tra i suoi primi atti emanò una serie di di-sposizioni severissime per il mantenimento dell’ordine pubblico, le quali - per esempio- prevedevano il divieto di manifestazione e l’uso della forza per disperdere gli assem-

4 P. COLOMBO, op. cit., pp. 49-81; LUIGI MUSELLA, Il trasformismo, Bologna, Il Mulino,2003, p. 13 e ss.

5 Sul legame tra monarchia e costituzione si veda P. COLOMBO, Una Corona per una na-zione: considerazioni sul ruolo della monarchia costituzionale nella costruzione dell’iden-tità italiana, in MARINA TESORO (a cura di), Monarchia, tradizione, identità nazionale. Ger-mania, Giappone e Italia tra Ottocento e Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 2004, pp.21-35.

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bramenti di più di tre persone. Il 2 agosto il governo emanò una serie di decreti con iquali, tra l’altro, si dichiarava chiusa la XXX legislatura, si scioglievano la Camera deifasci e delle corporazioni e il Gran consiglio del fascismo, e si annunciava lo svolgi-mento di elezioni generali per la Camera dei deputati entro quattro mesi dalla fine dellaguerra.

Il tentativo della monarchia di gestire in prima persona la nuova situazione fallì, perdue ragioni: innanzitutto perché i partiti antifascisti, dei quali si credette inizialmente dipoter fare a meno, riemersero e si riorganizzarono con grande rapidità. In secondo luogola tragedia dell’8 settembre, con la fuga del sovrano e del governo a Brindisi, e conl’esercito lasciato allo sbando senza ordini, tolse definitivamente ogni credibilità ai ver-tici delle istituzioni. Decisamente, l’idea di un automatico ritorno al prefascismo nonera più sostenibile.

D’altra parte i partiti antifascisti, riuniti nel Comitato di liberazione nazionale, si pre-sentavano divisi riguardo all’atteggiamento da tenere nei confronti della monarchia. Tuttierano consapevoli del livello di compromissione della Corona col fascismo, e delle pe-santi responsabilità nello sbandamento dell’8 settembre; ma, mentre azionisti, socialistie comunisti chiedevano la fine della monarchia tout court, liberali e democristiani pun-tavano piuttosto a una successione dinastica che salvasse l’istituto monarchico qualeelemento di continuità col vecchio Stato6.

La svolta si ebbe con il ritorno in Italia del leader del Partito comunista, PalmiroTogliatti, il quale inaspettatamente propose di “congelare” la questione istituzionale finoal termine del conflitto. La nuova posizione dei comunisti permise il raggiungimento diun accordo tra le forze antifasciste, e tra queste e la Corona7: si tratta del cosiddettoPatto di Salerno, poi tradotto in termini giuridici con il decreto del 25 luglio 1944 n.151, emanato dopo la liberazione di Roma e l’assunzione della luogotenenza generaledel Regno da parte del principe Umberto.

L’articolo 1 di questo decreto, noto come “costituzione provvisoria”, recitava: «Dopola liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popoloItaliano, che a tal fine eleggerà a suffragio universale, diretto e segreto, una Assembleacostituente per deliberare la nuova Costituzione». Oltre a un definitivo e totale ricono-scimento della sovranità popolare quale fonte del potere costituente, questo decreto af-fidava perciò la scelta della forma istituzionale dello Stato (monarchia o repubblica) alvoto dell’Assemblea.

Un altro passaggio della transizione costituzionale è segnato dal decreto luogote-nenziale del 10 marzo 1946 n. 74, con il quale si adottava, per l’elezione della Costi-tuente, un sistema elettorale proporzionale che - già sperimentato per due legislaturedopo la prima guerra mondiale - modificava il concetto di rappresentanza tipico dell’etàliberale, sostituendo al rapporto diretto tra elettore ed eletto, proprio del collegio unino-minale, una relazione mediata dall’attività e dal ruolo dei partiti8; con lo stesso decreto,

6 SIMONA COLARIZI, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1998(1a ed. 1994), pp. 34-35.

7 Ibidem.8 MARIA SERENA PIRETTI, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Roma-Bari, La-

terza, 1995, pp. 329-330.

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inoltre, veniva esteso alle donne l’elettorato passivo (quello attivo era stato loro attribuitocon un decreto del 1 febbraio 1945)9.

Il decreto del 16 marzo 1946 n. 98 - noto come “seconda costituzione provvisoria”- disegnò meglio i compiti, le funzioni e i limiti dell’Assemblea costituente. Innanzituttoaffidò la scelta sull’assetto istituzionale dello Stato non più all’Assemblea, ma a un re-ferendum popolare da svolgersi contestualmente all’elezione della Costituente. Era unpunto sul quale aveva particolarmente insistito De Gasperi, secondo il quale il pronun-ciamento diretto da parte dei cittadini avrebbe scongiurato i prevedibili tentativi di dele-gittimazione della scelta, basati su presunti tradimenti della volontà del popolo10. Inol-tre, il ricorso al referendum evitava alla Dc di doversi schierare apertamente come parti-to a favore della repubblica: una fetta non trascurabile del suo potenziale elettorato - DeGasperi lo sapeva bene - propendeva infatti per la monarchia11.

In secondo luogo, il decreto del 16 marzo confinava il potere di legislazione ordina-ria della Costituente alla “materia costituzionale” e all’approvazione delle leggi elettoralie di ratifica dei trattati internazionali. Il potere di legislazione ordinaria veniva mantenu-to in capo al governo, in modo da non “distrarre” l’Assemblea dal suo compito princi-pale (cioè la redazione del testo costituzionale)12.

Durante la campagna elettorale per il voto del 2 giugno 1946, i comportamenti collet-tivi si polarizzarono soprattutto intorno alla scelta tra monarchia e repubblica, mentrenel dibattito pubblico e politico i contrasti tra i partiti del Cln si facevano sempre piùevidenti. Poche settimane prima, tra marzo e aprile, si erano svolte in tutta Italia le primeelezioni amministrative del dopoguerra, le quali avevano posto fine all’esperienza deigoverni ciellenisti nei comuni: questo fatto era stato presentato dalla Dc come un passoulteriore verso la normalizzazione del paese. Per la Dc il nuovo avversario da contrastare- una volta sconfitto il fascismo - era il comunismo: e mentre il Pci cercava di equipa-rare anticomunismo e fascismo per sottrarsi alla polemica dei suoi avversari, la Dccontrapponeva la tesi che si potesse essere nel contempo anticomunisti e antifascisti13.

I risultati delle elezioni del 2 giugno 1946 sono noti: la Dc ottenne il 35,2 per cento

9 Sull’attribuzione dell’elettorato attivo e passivo alle donne si veda CECILIA DAU NO-VELLI, Introduzione, in MARIA TERESA ANTONIA MORELLI (a cura di), Le donne della Costi-tuente, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. XIII-XX.

10 P. POMBENI, op. cit., p. 77.11 AURELIO LEPRE, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna,

Il Mulino, 2004 (1a ed. 1993), p. 71.12 Sui vari passaggi della transizione costituzionale si veda PAOLO CARETTI, Forme di

governo e diritti di libertà nel periodo costituzionale provvisorio, in ENZO CHELI (a curadi), La fondazione della Repubblica. Dalla Costituzione provvisoria all’Assemblea costi-tuente, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 31 e ss.; C. GHISALBERTI, op. cit., p. 389 e ss.

13 STEFANO CAVAZZA, Comunicazione di massa e simbologia politica nelle campagneelettorali del secondo dopoguerra, in PIER LUIGI BALLINI - MAURIZIO RIDOLFI (a cura di), Sto-ria delle campagne elettorali in Italia, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 193-204; EMI-LIO GENTILE, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2006,pp. 363-364. Un’ampia raccolta di documenti relativi alla campagna elettorale per il 2 giugno1946, corredata in appendice dalle tabelle sulla geografia del voto, si trova in MAURIZIO RI-DOLFI - NICOLA TRANFAGLIA (a cura di), 1946. La nascita della Repubblica, Roma-Bari, Later-za, 1996.

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dei voti e la maggioranza relativa, il Partito socialista il 20,7 per cento, il Pci il 18,9 percento. Sui tre grandi partiti di massa si concentrarono perciò i tre quarti dei voti degliitaliani. Il Partito d’azione, che tanto aveva dato alla lotta di liberazione, ottenne un quasiirrisorio 1,8 per cento, tre volte meno dell’Uomo qualunque (5,3 per cento). I repubbli-cani ebbero il 4,4 per cento dei voti, mentre i liberali - uniti in lista con la Democraziadel lavoro di Bonomi - ottennero il 6,8 per cento. Infine, i monarchici si limitarono al2,8 per cento, un risultato esiguo se paragonato ai quasi undici milioni di voti espressiper la monarchia nel referendum istituzionale (contro i quasi tredici milioni di voti afavore della repubblica). La distribuzione geografica del voto evidenziò la presenza diun’Italia della sinistra e di un’Italia del centrodestra, secondo una linea di divisione coin-cidente all’incirca con quella che separava l’Italia repubblicana dall’Italia monarchica:i confini meridionali della Toscana, dell’Umbria e delle Marche14.

Le tensioni della campagna elettorale furono sintomatiche della divisione politica indue blocchi contrapposti, che si sarebbe misurata in tutta la sua forza con le elezionipolitiche del 1948. Tuttavia l’Assemblea costituente rimase relativamente al riparo dallepolemiche ideologiche che si facevano via via crescenti, così come dalle ripercussionidella fine della coalizione tripartita e dell’estromissione di comunisti e socialisti dall’ese-cutivo, nel maggio 1947. In altre parole, l’attività della Costituente ereditò e proseguì lapolitica di unità nazionale delle forze antifasciste anche oltre la loro collaborazione go-vernativa.

La stesura materiale del nuovo testo costituzionale fu affidata a una apposita com-missione (chiamata comunemente Commissione dei settantacinque, dal numero dei suoimembri), composta dai principali leader e dirigenti dei partiti e da insigni giuristi quali,per esempio, Costantino Mortati e Piero Calamandrei. Al suo interno, la Commissioneesprimeva un Comitato di redazione ancora più ristretto, di diciotto membri. I testi e gliarticolati elaborati dal Comitato di redazione e dalla Commissione dei settantacinquefurono quindi sottoposti all’assemblea plenaria, che con il suo voto fornì la necessarialegittimazione popolare.

Quanto agli altri compiti dell’Assemblea, una interpretazione estensiva della catego-ria di “materia costituzionale” permise alla Costituente di svolgere un’azione di indiriz-zo dell’attività legislativa del governo ben al di là delle limitate funzioni attribuite dalla“seconda costituzione provvisoria”. D’altra parte, è ben difficile immaginare di confi-nare il ruolo di una assemblea rappresentativa eletta a suffragio universale a sempliciattività di controllo15.

Nel corso dei lavori non mancarono di manifestarsi alcuni ostacoli difficili da supe-rare. Per esempio, il problema relativo alla costituzionalizzazione dei Patti lateranensi:l’articolo 7 della Costituzione fu approvato il 24 marzo 1947, con il voto favorevole delPci e con quello contrario dei socialisti e dei partiti laici, impegnati su questo punto inuna dura opposizione. Il Pci scelse di votare a favore per legittimarsi come forza “re-

14 M. S. PIRETTI, op. cit., pp. 342-344; P. L. BALLINI, Il referendum del 2 giugno 1946, in M.RIDOLFI (a cura di), Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le tradizioni,le istituzioni e le simbologie repubblicane, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 222-229.

15 Sul tema si veda CATERINA FIUMANÒ - ROBERTO ROMBOLI, L’Assemblea costituente e l’at-tività di legislazione ordinaria, in E. CHELI (a cura di), op. cit., p. 381 e ss.

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sponsabile” anche agli occhi dell’elettorato cattolico, e per propiziare - secondo unaprospettiva tipicamente togliattiana - il proseguimento della collaborazione tra i grandipartiti popolari di massa16: in realtà di lì a due mesi le sinistre sarebbero state estromes-se dal governo.

Un altro scoglio fu quello relativo all’ordinamento regionale dello Stato. Inizialmen-te le sinistre si dichiararono contrarie a un avanzato modello regionale, e difesero unaconcezione unitaria e centralista dell’ordinamento statale, temendo che - attraverso leregioni - si potessero “svuotare” o indebolire le grandi riforme sociali da realizzare. Unavolta allontanate dal governo, le sinistre operarono un capovolgimento della loro posi-zione originaria: le regioni cominciarono a essere considerate come un possibile con-tropotere a garanzia delle opposizioni. Lo stesso percorso, in senso ovviamente inver-so, fu seguito dalla Dc e dai suoi alleati. In questo modo, gli aspetti più innovativi egarantisti della Costituzione repubblicana rimasero “congelati” per timore di una loroutilizzazione strumentale da parte delle sinistre: per esempio, la Corte costituzionale fucreata solo alla fine del 1955, e le regioni a statuto ordinario nel 1970 (ma la maggiorparte dei poteri vennero loro trasferiti dallo Stato soltanto nel 1977)17.

La Costituzione della Repubblica italiana fu approvata dall’Assemblea costituente il22 dicembre 1947 e promulgata cinque giorni dopo. Già allora qualcuno le riservò giu-dizi molto duri e sprezzanti, che riecheggiano ancora oggi nei discorsi di alcuni uominipolitici. Nel febbraio del 1947, il giurista liberale Giovanni Astuti suffragò l’adagio se-condo il quale il progetto della Commissione dei settantacinque sarebbe stato «scrittometà in latino e metà in russo», in quanto «generiche affermazioni di principio sulladignità della persona umana e sulla famiglia» sarebbero state pagate dalla Dc «col con-senso alle formule più demagogiche e pericolose nel campo economico-sociale»18. Piùrecentemente, un importante studioso ha definito quel testo una “Costituzione impos-sibile”, una bandiera da sventolare per propagandare valori e non un mezzo per garan-tire diritti individuali19.

Certo, la nostra Carta costituzionale è stata il frutto di un compromesso. Si potreb-be rispondere con le parole di Lelio Basso, che nella seduta della Costituente del 6 marzo1946 disse: «Se [con il termine “compromesso”] si vuol dire che il progetto di Costitu-zione è il frutto di uno sforzo di diversi partiti per trovare una espressione concordeche rappresenti l’espressione della grande maggioranza degli italiani, questo non è undifetto»20.

In altre parole, si trattò di un compromesso alto ed equilibrato, tra valori e ideologieforti che creavano contrapposizioni forti, e che richiedevano mediazioni a loro voltaalte ed equilibrate, in modo da creare un corpo il più possibile condiviso di valori e di

16 RENZO MARTINELLI, Storia del Partito comunista italiano. Il “Partito nuovo” dallaLiberazione al 18 aprile, Torino, Einaudi, 1995, pp. 263-274.

17 PIERO AIMO, Stato e poteri locali in Italia 1848-1995, Roma, Carocci, 1998 (1a ed. Roma,La Nuova Italia Scientifica, 1997), p. 130.

18 Cit. in P. POMBENI, op. cit., p. 90.19 Il riferimento è al saggio di GIORGIO REBUFFA, La Costituzione impossibile. Cultura

politica e sistema parlamentare in Italia, Bologna, Il Mulino, 1995.20 Assemblea costituente. Atti. LII. Seduta pomeridiana di giovedì 6 marzo 1947.

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principi sui quali fondare un nuovo sentimento di appartenenza degli italiani, dopo ildisastro civile, economico ed etico del fascismo e della guerra.

E oggi, in presenza di contrapposizioni forti generate da valori e ideologie deboli,quel compromesso dimostra la sua efficacia, continuando a garantire l’equilibrio tra ipoteri dello Stato e il corretto svolgimento della vita democratica, a fronte dei semprepiù frequenti episodi di analfabetismo istituzionale e costituzionale anche ai più alti livelli.

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Breve nota sull’entrata dei cattolici in politica

In premessa uno sguardo sintetico all’evoluzione del movimento cattolico dai primianni del Novecento al Partito popolare, alla Democrazia cristiana.

Il movimento cattolico fu un insieme di associazioni che, dopo un lungo periodo dipreparazione, attorno al 1906 Pio X riconobbe in tre istituzioni fondamentali che sioccupavano una di problemi economici e di economia sociale; l’altra, la cosiddetta Unioneelettorale, di problemi legati al voto dei cattolici; la terza, l’Unione popolare, della for-mazione del dibattito liberale nell’ambito del movimento cattolico. Queste tre unioni sisaldarono a loro volta in un’altra forma associativa di cui fu segretario Luigi Sturzo.

Sturzo, nato a Caltagirone nel 1876, era un sacerdote che, con l’intenzione di di-ventare professore universitario, studiò filosofia a Roma, dove, incaricato dal cardinalevicario di benedire le case nella Pasqua di fine secolo, conobbe la degradata realtà delleperiferie, sicché decise di impegnarsi sul terreno sociale e politico e di lasciare da partela filosofia.

Nel 1904 avviò la sua militanza politica come prosindaco di Caltagirone e consiglie-re provinciale della Provincia di Catania fino al 1920, impegnandosi anche sui temi delregionalismo e delle autonomie locali, oltreché nelle problematiche della persona e dellafamiglia.

Nell’autunno del 1918 fondò il Partito popolare italiano, che vide impegnati nonsoltanto gli associati delle vecchie organizzazioni cattoliche, ma anche il sindacato bianco,che avrebbe contato fino a un milione e mezzo di iscritti.

Tra le caratteristiche del Ppi, importante fu la laicità, come indipendenza dall’in-fluenza politica dei vescovi, resa possibile dal ristretto collegio uninominale e dalla leg-ge elettorale maggioritaria. Da qui l’istanza “popolare” di ottenere - insieme al Partitosocialista - un sistema elettorale pluriprovinciale su base regionale con l’espressionedel voto di preferenza, che garantisse la rappresentanza delle masse popolari nel caden-te stato liberale.

Altro tratto della laicità dei “popolari” si esprimeva, nello statuto del partito, in ununico riferimento ai valori e agli ideali cattolici, affermando che gli iscritti e gli elettorigodevano di piena libertà in base alla propria coscienza e alla propria coerenza con lostatuto e il regolamento del partito.

E questo è un tratto importante da rimarcare, perché il percorso della successivaDemocrazia cristiana sarà piuttosto diverso.

Infatti, la parte nuova dei cattolici militanti in politica, si formò - sotto il regime fa-scista - essenzialmente nel movimento degli studenti, dei laureati cattolici e degli uomi-ni di Azione cattolica, negli anni trenta, dopo i Patti lateranensi tra Stato e Chiesa, chevincoleranno la Democrazia cristiana agli ambienti ecclesiastici, molto più di quanto vifosse indirettamente legato sui valori il Partito popolare, che pure contava tra iscritti edirigenti molti preti.

Ermenegildo Bertola

Marco Neiretti

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L’originalità di un’esperienza

A quale delle due linee si rifaceva nella politica Ermenegildo Bertola? A nessuna delledue, come ebbe a dichiararmi esplicitamente in un incontro-intervista, avvenuto nellostudio della sua abitazione il 13 luglio 1991.

In questa differenza, rispetto ai curricula di quasi tutta la classe dirigente democra-tico-cristiana, consiste la singolarità dell’esperienza politica del cattolico praticante Er-menegildo Bertola, che pure aveva conosciuto alcuni popolari vercellesi, senza succes-so e senza storia. Pochi altri li incontrò nel periodo della clandestinità. In quell’incon-tro, aggiunse di avere avuto scarne notizie sul partito sturziano e sulle sue attività locali,osservando che «la quasi totalità dei comuni vercellesi era retta da amministrazioni so-cialiste, ed erano pochi quelli amministrati da liberali o indipendenti».

Gli studi e l’insegnamento

Prima di interessarsi di politica, il giovane Bertola studiò a Vercelli sino alla maturità;poi, dopo un periodo dedicato soltanto all’insegnamento negli istituti cittadini, s’iscris-se alla Facoltà di Magistero dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il suointeresse si concentrò sulle materie filosofiche, tanto che, conseguita la laurea, ebbeaccesso alla libera docenza in Storia della filosofia medioevale cristiana ed ebraica: di-sciplina che insegnò in corsi universitari, e nella quale produsse ricerche e studi di rilievo1.

In quegli anni, in alcune università italiane la presenza di giovani cattolici “impegna-ti” era particolarmente viva, basti ricordare La Pira a Firenze, Andreotti a Roma, Moroa Bari, e, soprattutto, Fanfani alla Cattolica. I futuri dirigenti della nuova Democraziacristiana provenivano quasi tutti dall’Azione cattolica, nei cui ambienti - diciamo di “deboleclandestinità” - si poteva parlare di politica liberamente, senza subire i controlli e lepersecuzioni cui invece era soggetta la sinistra.

Ora, se pure Ermenegildo Bertola entrò in conoscenza degli uomini nuovi di ambientecattolico, prossimi a diventare classe dirigente politica nazionale, resta da domandarsicome entrò in contatto con la clandestinità vera e propria. Ebbene, ciò non avvenne néa Milano né in altri ambienti cattolici, bensì nell’ambiente della sinistra vercellese.

1 Tra le pubblicazioni di Bertola si annoverano: La filosofia ebraica, Milano, Bocca, 1947(citato in NICOLA ABBAGNANO, Storia della filosofia, vol. I, parte III, Nota bibliografica alcap. XI: La filosofia guidaica, Torino, Utet, 1974); Saggi e studi di filosofia medioevale,Padova, Cedam, 1951; Salomon ibn Gebirol (Avicebron). Vita, opere e pensiero, Padova,Cedam, 1953 (citato in N. ABBAGNANO, op. cit.); La dottrina psicologica in Isacco di Stella,in “Rivista di filosofia neoscolastica”, 1953 (citato in N. ABBAGNANO, op. cit., vol. I, parte II,Nota bibliografica al cap. VIII: Il misticismo); Il pensiero ebraico: studi e ricerche, Padova,Cedam, 1972; La teoria della pace in Avicenna, in “Studi tomistici”, n. 1, 1972; La dottrinapsicologica di Al Farabi: il “Trattato sulla natura dell’anima”, in “Annuario di Filoso-fia”, n. 55, 1987; Incarnazione cristiana e incarnazione indiana, in “Archivio di filosofia”,n. 67, 1999. Altre citazioni bibliografiche in: GIOVANNI REALE - DARIO ANTISERI, Il pensierooccidentale dalle origini ad oggi, Brescia, Editrice La Scuola, 1983.

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Il contatto con la clandestinità vercellese

Nell’ultimo incontro che ho avuto con lui nel 1998, mi ha raccontato come il con-tatto fosse avvenuto nell’estate del 1941. Tra i pochi amici con i quali parlare libera-mente, Gildo contava il libraio Giovannacci di Vercelli. Ebbene, in un pomeriggio festi-vo, alla fine di una passeggiata conversatoria per le strade del centro cittadino, Giovan-nacci gli disse che lo avrebbe portato in un posto interessante. I passi dei due volseroa dissimulate stradine sino a un’osteria, ove era in corso una riunione di socialisti edanarchici alla quale, mercé Giovannacci, anche Gildo venne ammesso. Così, il profes-sor Ermenegildo Bertola - studioso del suggestivo pensiero medioevale, ma sempre coni piedi bene per terra e vivace osservatore del mondo circostante - entrò in contattocon molti che preparavano la Resistenza vercellese: persone nuove per lui, ma anchevolti conosciuti, che ora assumevano un profilo specifico nell’ambiente vercellese.

A seguito di altri incontri, volti all’aggiornamento e all’approfondimento di quantoaccadeva, Ermenegildo Bertola assunse una ben precisa connotazione nel movimentoantifascista, sino a raggiungere tra la fine del 1943 e il 1944 la responsabilità di rappre-sentare la Democrazia cristiana nel Comitato di liberazione nazionale provinciale, cheavrebbe pure presieduto.

Subito dopo l’8 settembre 1943, ancora fuori dalle appartenenze politiche, Bertola -sotto il nome di “dottor Terzi” - si era già fatto promotore, con un gruppo di amicipersonali, di una commissione per l’espatrio clandestino dei prigionieri di guerra anglo-americani, che, eludendo la sorveglianza dei repubblichini, li aveva instradati verso laSvizzera. Il lavoro di quel gruppo fu interrotto per l’imprudenza di un prigioniero allea-to che, giunto in Svizzera, aveva fatto pervenire al dottor Terzi il suo ringraziamento2.

La militanza nella Resistenza

A questo proposito si presenta un’altra domanda: come entra direttamente Bertolanella pratica della clandestinità democristiana piemontese?

Lo racconta lui stesso nell’intervista già citata, ricordando che nel periodo bado-gliano lo sturziano monsignor Roveda ebbe a invitarlo a una riunione di vecchi popolaria Torino, in via Barbaroux, sotto la presidenza di Gustavo Colonnetti3. Nel corso dellariunione ogni rappresentante provinciale comunicò quanto si stava muovendo in cam-po cattolico-politico. Tacitianamente, Roveda e Bertola dichiararono: «A Vercelli nonabbiamo nulla», e fu a quel punto che il monsignore propose Bertola come rappresen-tante vercellese.

Ed ecco ancora la rievocazione diretta di Bertola: «Innanzitutto, ricordo che deci-

2 MARCO NEIRETTI, Ermenegildo Bertola, in CATERINA SIMIAND (a cura di), I deputati pie-montesi all’Assemblea Costituente, Milano, Angeli, 1999, pp. 53-55. Dal colloquio di finegiugno 1998.

3 Gustavo Colonnetti (Torino, 8 novembre 1886 - 20 marzo 1968). Docente universitario discienza delle costruzioni. Consigliere nazionale e membro della direzione centrale del Partitopopolare italiano (1919-1920). Antifascista. Esule in Svizzera durante la Rsi. Consigliere na-zionale della Democrazia cristiana fin dalla fondazione, membro della Consulta nazionalee deputato alla Costituente. Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche fino al 1956.

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demmo di costituire il nostro Comitato di liberazione quando vi fu a Vercelli la primariunione del Comitato di liberazione militare regionale piemontese, alla quale partecipai:la Democrazia cristiana vi era rappresentata da Valdo Fusi4. Sull’avvenimento ebbi astendere una testimonianza storica, in particolare sulla partecipazione di Fusi. Poi, co-stituito il Cln, svolgemmo in pieno la nostra attività, coadiuvando alla lotta clandestinae promuovendo i Cln comunali in vista della Liberazione». In quel ruolo, ormai inseritonell’organizzazione clandestina della Democrazia cristiana piemontese, Bertola divenneamico di Achille Marazza, avvocato di Borgomanero con studio a Milano, autorevoleesponente democratico-cristiano nel Comitato di liberazione Alta Italia (Clnai).

Non passò molto tempo che Bertola, già sospetto di attività sovversiva, fu raggiun-to, l’uno dopo l’altro, da tre mandati di cattura. I primi due andarono a segno e Bertolavenne incarcerato, subendo anche punizioni fisiche, con l’imputazione di cospirazione5.

Le incarcerazioni avvennero per iniziativa del battaglione “Tagliamento”. A caricodel comandante del “Tagliamento”, Bertola avrebbe deposto a liberazione avvenuta cometestimone di accusa. Il secondo arresto ebbe luogo per mano della Guardia nazionalerepubblicana: nella circostanza non subì maltrattamenti, finché, dopo una quindicina digiorni, fu trasferito all’Albergo Bel Giardino, sede di un comando repubblichino ove,sempre sotto l’accusa di cospirazione, fu sottoposto a tortura. Stavolta, l’accusa fu diappartenere al Cln. Ciò nonostante, Bertola fu rimesso in libertà.

Per quale ragione? Ecco di nuovo la risposta diretta: «Seppi che il comandante delpresidio repubblichino aveva trattato la mia liberazione e quella di altri in scambio dellapromessa di avere, a suo tempo, salva la vita. Per noi cattolici, non interessati alla ven-detta, appariva una richiesta plausibile: a liberazione avvenuta, per evitare che lo am-mazzassero, quel comandante fu trasferito alla “Chatillon”, ma, nonostante la cauteladi chi doveva vigilare, una notte entrò nel rifugio una squadra, di cui non si è mai co-nosciuta l’identità, che lo prelevò e lo uccise».

La terza volta che i fascisti si presentarono per arrestarlo, Gildo fuggì da una portasecondaria della casa in cui abitava. In bicicletta, si diresse verso il Monferrato, doveun amico partigiano avrebbe potuto aiutarlo. Lungo la strada per Trino incrociò l’avvo-cato Giuseppe Brusasca6 di Casale, che gli trovò una sistemazione nell’Astigiano. Dalle

4 Valdo Fusi (Pavia, 9 maggio 1911 - Torino, 2 luglio 1975). Avvocato. Membro del Co-mando militare regionale del Cln piemontese, fu arrestato e processato dal Tribunale specia-le. Riuscì a fuggire e militò nella divisione “Piave”. Gravemente ferito in un rastrellamento,riportò una mutilazione permanente. È autore del racconto-saggio Fiori rossi al Martinetto,Milano, Mursia, 1968.

5 È assai probabile che l’arresto sia da collegare all’attività, per quanto breve, della com-missione clandestina per l’espatrio dei prigionieri alleati.

6 Giuseppe Brusasca (Cantavenna di Gabiano, Alessandria, 30 agosto 1900 - Milano, 1giugno 1994). Figlio di Giovanni, deputato Ppi, a soli 20 anni diventò segretario della sezionedel partito di Casale. Avvocato. Tra i fondatori della divisione autonoma “Patria”, fu (dopoMarazza) vicepresidente del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia e partecipò alle primefallite trattative per la resa di Mussolini. Fu segretario provinciale della Dc di Alessandria,presidente della Provincia, consultore nazionale, deputato della Dc dalla Costituente fino al1968, quindi senatore fino al 1972. Impegnato in politica estera fu sottosegretario al Ministerodegli Esteri, prima con Nenni e poi con Sforza, fino al 1951. Ricoprì anche l’interim del Mini-stero dell’Africa italiana. Dal 1955 al 1957 fu sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

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campagne astigiane Bertola raggiungeva periodicamente Torino per partecipare a in-contri con gli esponenti democratico-cristiani della Resistenza, tra i quali GioachinoQuarello, ex popolare, che sarebbe stato il vicesindaco della liberazione a Torino. Nondimenticava certo il Vercellese, ma evitava di frequentare la città dove era conosciuto.Partecipava sempre alle riunioni del Cln, di cui - come si è detto - era presidente.

Alla vigilia della Liberazione, Ermenegildo Bertola si trovava a Torino, ove partecipòalla cacciata dei nazifascisti e all’occupazione del municipio di Torino. Nella circostan-za, ebbe l’orgoglio di esporre di persona al balcone del Palazzo di Città la bandiera na-zionale e di avvertire il vicesindaco Gioachino Quarello, affinché prendesse ufficialmentepossesso della sede municipale.

All’Assemblea costituente, in parlamento, nel partito

Tornato a Vercelli, Bertola intensificò i rapporti con gli uomini della Democraziacristiana e organizzò le sezioni del partito in ogni comune del Vercellese e della Valsesia.Per la sua attività e il suo prestigio il Congresso provinciale lo scelse come candidatodella Democrazia cristiana alla Costituente nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli.La campagna elettorale lo vide nei saloni parrocchiali e nelle piazze, ad esporre con laconsueta eloquenza piana e raziocinante il programma democristiano: idee chiare e di-stinte, tanto sui principi generali a mo’ della scarna eloquenza degasperiana, quanto nellospecifico dei problemi dell’economia locale e della scuola. La circoscrizione elettorale,articolata su quasi mille comuni, vedeva schierate personalità subalpine di primo piano:Giulio Pastore, Giuseppe Pella, Oscar Luigi Scalfaro, insieme al gruppo della vecchiaguardia sturziana di Torino, tra cui Gustavo Colonnetti, Albino Stella, Gioachino Quarel-lo, Giuseppe Rapelli. Il 2 giugno 1946 Bertola salì alla Costituente con 26.943 voti prefe-renziali. Lungo l’anno e mezzo che portò alla Costituzione, il deputato vercellese interven-ne diciannove volte in assemblea plenaria: segnatamente, sul disegno di legge costituzio-nale dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige e sul disegno di legge ordinaria a ti-tolo “Riordino dei corpi consultivi del Ministero della Pubblica Istruzione”; inoltre pre-sentò qualificate interrogazioni con richiesta scritta, specie in materia di pubblica istru-zione, di economia agraria, sui servizi pubblici in Piemonte e in provincia di Vercelli.

A Roma, in quei mesi, Bertola per un certo periodo alloggiò nello stesso apparte-mentino con Scalfaro. Una volta, fu invitato da Amintore Fanfani, che aveva conosciu-to alla Cattolica, a partecipare alle riunioni di quella corrente che poi avrebbe assunto ilnome di “Iniziativa democratica”; ma dopo alcuni incontri, nonostante talune sugge-stioni culturali, decise di non aderirvi e di rimanere fedele alla posizione di De Gasperi.Del resto, era tale il suo stile sobrio e incisivo, che sul piano pratico non lasciava spazioa incertezze e a travagli intellettuali.

Nel 1948 fu confermato parlamentare, mentre la sua candidatura alla Camera nelleelezioni del 1953 e al Senato nelle elezioni del 1958 e del 1963 non ebbe esito positivo.Il 19 maggio 1968 rientrò in parlamento come senatore del collegio di Vercelli; in quellalegislatura fu chiamato come sottosegretario al Ministero del Tesoro nel secondo go-verno di Giovanni Leone. Rieletto al Senato nel 1972, fece parte della VII commissione(Istruzione pubblica e Belle Arti, Ricerca scientifica, Spettacoli e Sport). Lasciata l’at-tività parlamentare, Bertola tornò agli studi e alla ricerca filosofica, continuando a par-tecipare alla vita politica locale, per quanto senza specifici incarichi.

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L’attività politica locale lo vide principalmente impegnato come segretario provin-ciale del partito, di cui dettò la linea anche attraverso il settimanale “La Libertà”. Il gior-nale, in più di un’occasione, si contrappose a quello della curia, “L’Eusebiano”, che,sotto l’influenza dell’arcivescovo Francesco Imberti, era schierato a destra. Con Im-berti, Bertola ebbe episodici, e freddi, incontri. L’arcivescovo, assai attento alla politi-ca, spingeva per l’alleanza organica tra Dc e Pli, che Bertola non condivideva. A dirige-re “La Libertà”, Bertola invitò Cesare Massa, del gruppo dirigente centrale della gio-ventù di Azione cattolica. Cesare Massa entrò così - a dire di Bertola - nella vita politicavercellese, sino a diventare segretario provinciale della Dc. Come è noto, Cesare Mas-sa, avrebbe interrotto successivamente l’attività politica per dedicarsi totalmente allamissione ecclesiastica.

Ermenegildo Bertola nella più tarda età continuò la ricerca filosofica e partecipò allavita della Dc vercellese sino alla costituzione del Partito popolare. Fu consigliere scien-tifico dell’Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Vercelli “Cino Moscatelli”dal 1974 al 1980 e, fino al 1995, restò attivo come presidente dell’Istituto di Studi filo-sofici “E. Castelli”. Morì a Vercelli il 25 giugno del 2000.

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Questa contributo intende ripercorrere sinteticamente la vicenda politica e soprat-tutto umana di Francesco Leone, una vicenda scandita dai momenti più significatividella storia del secolo scorso: la grande guerra e le tensioni sociali del primo dopoguer-ra, l’evento epocale della Rivoluzione d’ottobre (evento questo decisivo per la sua av-ventura di “rivoluzionario professionale”), l’avvento del fascismo, il secondo conflittomondiale e, infine, la nascita della Repubblica.

Cercherò di evidenziare il contesto in cui essa si svolse, trascurando le questioniideologiche, anche perché penso che non lo coinvolgessero più di tanto e che le dele-gasse volentieri ai teorici e ai vertici del partito, partito al quale rimase sempre, senzaincertezze, devoto, nonostante il carattere, definito un po’ da tutti oltre che burbero,polemico e ribelle. Leone era infatti - è stato detto da un suo biografo - un uomo d’azio-ne, e le discussioni e le polemiche che lo vedevano coinvolto - aveva, tra l’altro, la «pennamolto facile», come ricorderà in un’intervista rilasciata a Cesare Bermani - erano quin-di piuttosto legate ai comportamenti da tenere, alle cose da fare, all’azione concreta,sempre nel solco delle direttive decise dal partito.

Questo anche se era dotato di vivace intelligenza e di vasti, seppure non adeguatamentecoltivati, interessi culturali. Per rendersene conto, basta scorrere l’inventario della suabiblioteca (o di quel che è ne è rimasto!), oggi depositata all’Archivio di Stato di Vercellie costituita da circa millesettecento volumi e opuscoli, tra i quali, accanto alle pubblica-zioni di partito, si può trovare un po’ di tutto, dai testi di letteratura, verosimilmenteomaggio di compagni, ai fascicoli di storia dell’arte, acquistati in edicola1.

Studente a Vercelli e Biella

Francesco Leone nasce in Brasile, nello stato di San Paolo, ufficialmente il 13 mar-zo del 1900, da Antonio e Caterina Molino, braccianti originari di Asigliano Vercellese.La data è quella costantemente riportata in tutti i documenti, sulla base della trascrizio-

La vicenda umana e politica di Francesco Leone*

* In questo saggio, per scelta dell’autore, le note sono organizzate cumulativamente allafine di ciascun paragrafo (ndr).

1 Il testo proposto è sostanzialmente quello della relazione presentata il 15 marzo 2008, inoccasione del convegno sui costituenti vercellesi. Per un’analisi più approfondita del perso-naggio, rimando alla voce da me scritta in CATERINA SIMIAND (a cura di), I deputati piemonte-si all’Assemblea costituente, Milano, Angeli, 1999, ripubblicata con l’apparato “Fonti e biblio-grafia” più completo, in “l’impegno”, a. XIX, n. 3, dicembre 1999, con il titolo Una biografiadi Francesco Leone, alla quale rinvio per l’elencazione dei documenti utilizzati, in aggiuntaa quelli indicati in calce ai diversi paragrafi: di particolare interesse risultano i corposi fascicoliaperti su di lui dai ministeri dell’Interno (Casellario politico centrale) e di Grazia e Giustizia (Isti-tuti di prevenzione e pena, detenuti politici) e dalla Questura di Vercelli (Fondo sovversivi),i primi due depositati all’Archivio centrale dello Stato, l’altro all’Archivio di Stato di Vercelli.

Francesco Rigazio

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ne consolare, a partire dal 1911, anno in cui, a Vercelli, sostiene l’“esame di maturità”- come allora si diceva - per iscriversi alla locale regia Scuola tecnica. Questo anche se,considerando le costanti dichiarazioni dello stesso Leone, l’anno effettivo di nascita varetrodatato al 1899, come del resto attestato dai primi documenti scolastici, quelli delleelementari di Asigliano, verosimilmente redatti in base alle dichiarazioni dei genitori o acertificati da essi prodotti, come potrebbero essere quello originale o quello di battesi-mo: lo Stato e soprattutto l’anno di nascita avranno, come si vedrà, una grande impor-tanza nella sua vita.

Quanto alla località, essa è riportata, sempre nei documenti, in modo vario e impre-ciso. Quella più ricorrente è Sant’Anna di Vargen (in realtà Vargem) Grande, toponimo,questo, piuttosto diffuso: si tratta, con ogni probabilità, di uno dei due centri che por-tano quel nome, situati sull’altopiano, a 100-150 chilometri a nord-nord est della cittàdi San Paolo, in una zona ancora oggi caratterizzata da una economia di piantagione(caffè, canna, cotone, tabacco ecc. e anche cereali) e costellata, nella seconda metàdell’Ottocento, da insediamenti urbani in formazione, verso i quali si dirigevano nume-rosi gli emigranti italiani, soprattutto all’epoca della crisi agraria.

Se si considera che Maria, una delle due sorelle, risulta nata nella stessa località nel1892 (tra l’altro, sempre il 13 marzo), non si è forse lontani dal vero se si colloca ladata di emigrazione della famiglia verso la fine degli anni ottanta, anni per i quali le cro-nache del tempo parlano di inverni terribili e mancanza di lavoro, e le corrispondenzedal circondario riferiscono di partenze di centinaia di famiglie dalle campagne, battutedagli agenti di emigrazione, «incaricati di reclutare lavoratori e mandarli specialmentein Brasile».

La famiglia torna al paese non molto tempo dopo la nascita di Francesco, come sem-brerebbe attestare anche il certificato di vaccinazione, che reca la data del 23 aprile1901.

Nell’anno scolastico 1909-1910, Francesco frequenta la terza elementare: gli allievisono sessantanove; il maestro Chiocchetti dà una valutazione negativa sul suo compor-tamento, ma lo ritiene «furbo e intelligente». L’anno dopo, in quarta, l’insegnante è ungiovane sacerdote, Serafino Ferraris, che non esprime giudizi sugli allievi, ma annota leragioni delle assenze, segnalando quelle per motivi di lavoro: gli iscritti stavolta sonoquarantatré, i frequentanti a fine anno trentasei; quasi tutti vengono promossi a giugno,con dispensa d’esame; due, Francesco e Mario Bodo, figlio di un mediatore, anche luidella classe 1900, sono gli unici ad andare a Vercelli a sostenere l’“esame di maturità”.

Promosso in prima sessione, si iscrive, come si è detto, alla Scuola tecnica. L’im-patto non è dei migliori: rimandato in diverse materie (calligrafia, francese, italiano ematematica), viene respinto agli esami di riparazione. Ripete l’anno e, nel luglio del 1915,consegue la licenza tecnica. Può così iscriversi all’Istituto professionale di Biella, nellasezione meccanica-elettrotecnica.

Pur considerando che, sul piano delle capacità, era sicuramente più dotato della mediadei coetanei, resta da chiarire come, a quei tempi, il figlio di un bracciante, o di un piccolocontadino (categoria che spesso se la passava anche peggio), con figli a carico, tornatoal paese dall’America senza avervi fatto all’evidenza fortuna, abbia potuto frequentarela scuola secondaria, per di più lontano da casa e con la possibilità di togliersi anchequalche piccola soddisfazione: lo studente Francesco aveva infatti il suo bravo bigliettoda visita e nelle foto di gruppo appare vestito con una certa eleganza. Si può pensare

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all’aiuto di qualche famigliare in discrete condizioni economiche, così come non si puòescludere l’interessamento di qualche esponente del Partito socialista di Vercelli, comepossono lasciar presumere l’affettuoso annuncio del conseguimento del diploma pub-blicato ne “La Risaia” e la risentita amarezza con la quale il maestro Gionino polemizze-rà con lui in occasione del dibattito precedente il Congresso di Livorno.

Gli anni di Biella sono fondamentali per la sua militanza politica e le future scelte divita. Nel novembre del 1916, quando ha 17 anni, partecipa alla ricostituzione del localeComitato giovanile socialista di propaganda: nell’occasione, dalle pagine del “CorriereBiellese”, si rivolge ai giovani, invitandoli ad aderirvi e militarvi con coerenza, con ap-pelli sottoscritti “Leo”; in dicembre partecipa attivamente al Convegno dei giovani so-cialisti biellesi.

Negli interventi sull’organo di partito, si rivela polemista caustico e brillante. Si veda,per esempio, come, prendendo spunto dalla chiamata alle armi delle classi 1898 e 1899,ironizzi sullo sconforto che si sta diffondendo tra quegli stessi giovani che avevanoprecedentemente partecipato con entusiasmo alle manifestazioni interventiste: «La chia-mata alle armi delle classi 1898-99 ha gettato la disperazione nei cuori ardenti di patriot-tismo di tanti studenti. Fra coloro che nelle radiose, memorabili giornate di maggio sispolmonavano al grido di: W. La guerra! Abbasso i panciafichisti! et similia, fra coloroche quasi ogni giorno organizzavano chiassose dimostrazioni patriottiche e innalzava-no tanti osanna alla patria, alla guerra, tale notizia è giunta inaspettata.

Ed ora si vedono, prima dell’entrata alla scuola, a gruppi, con un giornale tra le mani,commentare con aria afflitta, compunta, la notizia che li riguarda.

In nessuno è più l’entusiasmo, lo strombazzato patriottismo: è bastato un semplicedecreto a far tanto effetto.

Eppure essi della colta, patriottica gente d’Italia, dovrebbero gioirne».L’anno successivo, il 1 luglio, nel corso di un perquisizione alla Camera del lavoro,

viene arrestato con altri giovani socialisti, trovati in possesso di manifestini di intona-zione rivoluzionaria, con l’accusa di voler perseguire la mutazione violenta della Costi-tuzione. Per reclamare la loro liberazione, il 4 luglio, calano a Biella più di mille operaiedella valle Mosso; il giorno dopo, lo sciopero diventa generale e gli industriali attuano laserrata; il 9 riaprono le fabbriche e gli imputati vengono rimessi in libertà. È il suo pri-mo arresto: sul retro della fotografia che lo ritrae con i compagni di carcere, annota: «1luglio 1917. Giorni indimenticabili della mia vita».

Nell’aprile del 1918 si diploma nella sessione straordinaria di esami per la classe 1900e parte subito per il servizio militare, che presta dal 20 aprile al 1 marzo dell’anno suc-cessivo, aggregato al 33o reggimento Fanteria di stanza a Cuneo. “La Risaia” del 27aprile annuncia il conseguimento del diploma da parte dello «studioso compagno» conun affettuoso trafiletto: «Presso la Sezione Meccanica-Elettrotecnica della Scuola Pro-fessionale di Biella sostenne testé con esito brillantissimo l’esame di licenza il nostrogiovane amico Leone Francesco.

Allo studioso compagno, ora chiamato alle armi, auguriamo di gran cuore uno splen-dido avvenire come ben si meritano le sue doti.

Noi ci congratuliamo con lui e col suo buon papà, il compagno Antonio Leone, cheha ben ragione di essere lieto, se anche questo giorno di gioia è amareggiato da undoloroso distacco».

Durante il servizio militare, evita di essere inviato al fronte o nelle retrovie, “arrangian-

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dosi” (come non avrà difficoltà ad ammettere nel corso di una successiva polemica) eottenendo di frequentare il corso per motoristi d’aviazione all’Istituto Feltrinelli di Mi-lano2.

Giovane socialista a Vercelli

Una volta congedato (il 1 marzo 1919), Francesco rientra a Vercelli e torna ben pre-sto alla militanza attiva. L’occasione gli viene offerta dallo sciopero generale indetto inluglio, in difesa delle rivoluzioni russa e ungherese. Nei pressi della stazione - ricordanelle sue memorie Paolo Robotti, in una ricostruzione della vicenda, che, alla luce dellecronache del tempo, appare un po’ approssimativa e alquanto enfatizzata -, davanti aquasi diecimila manifestanti, perlopiù contadini, parlano, tra gli altri, il riformista Lo-renzo Somaglino (che sarà poi sindaco di Vercelli) e, in senso rivoluzionario, lo stessoRobotti (membro del Gruppo torinese de “L’Ordine Nuovo”, da poco trasferito a Ver-celli per aprirvi una succursale dell’Istituto medico legale per gli infortuni sul lavoro);al termine del comizio, si forma un grande corteo non autorizzato, che - stando sempreai ricordi del futuro cognato di Togliatti - si scontra con i cavalleggeri, in corso Vinza-glio, nei pressi della Camera del lavoro: «Proprio mentre infuriava la mischia, un giova-

2 Nostra corrispondenza dal Circondario. Crescentino, San Germano, Costanzana, in“Il Lavoro. Giornale delle Società operaie e cooperative vercellesi”, 20-21 ottobre 1888 (a SanGermano, i braccianti non trovavano «più lavoro nemmeno alla ben misera mercede di 12soldi» al giorno, meno di un chilo e mezzo di pane); Archivio di Stato di Vercelli (d’ora in poiASV), Direzione Didattica di Asigliano, mazzo 67; ASV, Regia Scuola Tecnica di Vercelli,Registro generale dei voti trimestrali e degli esami (a Vercelli, Francesco viveva presso unafamiglia, il primo anno in via San Cristoforo, poi all’“Isola”; anche a Biella, era, ovviamente,a pensione. Il padre si trasferì successivamente a Vercelli, dove, nel 1931, campava facendoil venditore ambulante di sapone e frutta); Un giovane ai giovani di Biella, di “Alfa, studente”,in “Corriere Biellese”, 24 novembre 1916; Cronaca Rossa. Ai giovani [di Biella], di “Leo”,in “Corriere Biellese”, 28 novembre 1916 e 19 gennaio 1917 (in questi mesi, Leone partecipaanche al dibattito e alle manifestazioni studentesche per la riqualificazione della Scuola profes-sionale biellese); Il riuscitissimo Convegno giovan. socialista Biellese, in “Corriere Biellese”,12 dicembre 1916; La chiamata alle armi delle classi 1898-99 e Gli studenti e l’ultima chia-mata alle armi, in “Corriere Biellese”, 9 e 13 febbraio 1917, sottoscritti rispettivamente “Leo”e “Leo, studente”; Archivio di Stato di Biella (d’ora in poi ASB), Fascicoli penali, mazzo 735,Peletto G. e altri (al fascicolo, oltre ad alcune fotografie, sono allegate copie del manifestino,stampato alla macchia, che non è, come altrove riferito, né quello di Zimmerwald, né quello diKienthal; la vicenda giudiziaria si concluderà il 29 agosto dell’anno successivo, quando laprocura presso la Corte d’Appello di Torino ordinerà l’archiviazione degli atti per insufficienzadi prove); R. Scuola Professionale di Biella. Alunni licenziati nella sessione straordinariadi Esami per la classe 1900 che ebbe luogo dal 2 all’11 aprile 1918, in “Gazzetta di Biella”,20-21 aprile 1918; Distretto militare di Vercelli, Ufficio Matricola, matricola n. 3436; Uomini ecose. Una volta per sempre, di “Don Biagio Bolscevico”, in “La Risaia”, 1 gennaio 1921 («Sosolo di essere stato militare e di essermi arrangiato [...] Ho fatto la guerra alla scuola... Fel-trinelli di Milano e me ne vanto!»); Archives Nationales, Police Nationale, MF7/14747, Car-teggio tra la Direzione generale della Sicurezza nazionale del Ministero dell’Interno e il pre-fetto di Polizia di Parigi, nota biografica al dicembre 1939, dove si dice che Leone (“Marini”,“Re Leone”) «ha prestato il servizio militare in Italia nell’aviazione»: ringrazio Roberto Grem-mo per avermi consentito di consultare il piccolo fascicolo contenente il carteggio.

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ne, molto combattivo, si avvicinò a me e disse: “Bravo! Sono d’accordo con lei perquanto ha detto sulla Rivoluzione”. “Se è d’accordo venga con noi nella gioventù so-cialista”. “Ci sono già stato quando ero a Biella, ma mi hanno stufato troppi discorsi.Mi chiamo Francesco Leone”. “Andiamo”, gli risposi. Alla Camera del lavoro ci accor-dammo che si sarebbe iscritto alla Fgsi e avrebbe lavorato al mio fianco. [...]

Francesco Leone mantenne la promessa e si mise al lavoro con slancio ed entusia-smo. Formammo un comitato circondariale della gioventù e tutte le domeniche, e so-vente anche nelle sere della settimana, andavamo a tenere comizi in qualche paese vici-no facendo propaganda socialista ed opera di proselitismo».

Nel successivo agosto, Leone partecipa al Congresso circondariale socialista, schie-randosi con gli “elezionisti”, poiché - sostiene - «gli astensionisti ci chiamano con loroa fare un salto nel buio»: si tratta di una posizione ribadita anche in seguito (maturataevidentemente a contatto con l’“ordinovista” Robotti), posizione piuttosto atipica, poi-ché i giovani, come noto, subivano nella stragrande maggioranza il fascino di AmadeoBordiga, futuro fondatore e primo segretario del Pcd’I, decisamente contrario a parte-cipare alle elezioni, perché ritenute strumento borghese.

Il 1920 è un anno decisivo per le sue scelte di vita.Lavora come disegnatore alla fabbrica di bottoni “Aclastite-Segre”; la sua conce-

zione della vita è antitetica a quella dell’austero Robotti: in febbraio, per esempio, par-tecipa alla “Serata rossa a favore dei bambini viennesi”, declamando una poesia delmaestro Fietti e interpretando con successo un brano del “Cyrano di Bergerac”. Sem-pre in febbraio, prende parte al Congresso provinciale giovanile, nel quale Gramscirelaziona sui consigli di fabbrica, un tema portato avanti con grande determinazione daRobotti in seno alla sezione socialista vercellese.

In primavera partecipa attivamente alla direzione di quello che risulterà il più lungosciopero delle risaie vercellesi, lo “sciopero dei cinquanta giorni”, durante il quale, uni-tamente a Robotti, mantiene i contatti con le organizzazioni economiche e politichetorinesi, impegnate nel cosiddetto sciopero delle lancette. Anche alla luce di questa espe-rienza, la successiva vicenda dell’occupazione delle fabbriche matura in lui la convin-zione che sono presenti nelle masse energie veramente «rivoluzionarie» e che il «gran-de urto» decisivo è imminente ed è pertanto «utopistico» pensare alla rivoluzione con lasola «arma del voto», l’arma dei riformisti.

In ottobre ottiene il suo primo incarico politico: sostituisce infatti Robotti, chiamatoalle armi, alla guida dei giovani socialisti vercellesi.

Sempre in ottobre, prende parte al Congresso straordinario della Gioventù sociali-sta piemontese (dove conosce il segretario nazionale della Fgsi Luigi Polano, uno deipromotori della frazione comunista). Accantonate preoccupazioni che considera di in-dole sentimentale, si convince definitivamente della necessità di combattere con ognimezzo il riformismo e i vecchi compagni, come il tipografo Lorenzo Somaglino e ilbracciante Francesco Costa, di Olcenengo, che pure tanto avevano dato per il “benedella causa”, riformismo che - afferma - «si è messo fuori del metodo e [della] conce-zione socialista in questo periodo profondamente dinamico della storia». Come Robot-ti, però, «si sente preoccupato ed incerto di fronte all’eventualità di una scissione esulla ripercussione che essa avrebbe nelle masse contadine [che hanno nei riformisti illoro punto di riferimento, per le loro necessità più importanti, se non vitali, come quellesindacali]. Egli [...] crede che l’eliminazione dal Partito degli esponenti riformisti sia

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bastevole a mantenere il Partito forte e coeso in una precisa azione comunista [anchese], qualunque siano i risultati ultimi di questa lotta di tendenze, i giovani vercellesi sa-ranno sempre con i comunisti, siano essi costituiti in Partito, o in Frazione»3.

L’adesione al Pcd’I e i primi scontri con i fascisti

In quest’ottica, in vista del Congresso nazionale, Leone, che, avendo compiuto ivent’anni, è passato tra gli adulti, nel precongresso di Vercelli presenta con l’avvocatoPedrotti (massimalista), un ordine del giorno che recepisce le posizioni espresse dallacosiddetta circolare Marabini-Graziadei, la quale puntava ad evitare la rottura fra le duefrazioni comuniste: quella dei “comunisti unitari” di Serrati e Baratono, aderente conriserve alle tesi della Terza Internazionale, e quella dei “puri” (i principali esponenti dellaquale erano Bordiga, Fortichiari e Terracini, in rappresentanza, rispettivamente, degliastensionisti, degli operaisti di Milano e del Gruppo de “L’Ordine Nuovo” di Torino,che avrà un ruolo meno rilevante nel Congresso).

Nella sezione di Vercelli, l’ordine del giorno Leone-Pedrotti, sul quale confluisconoi “comunisti puri”, prevale nettamente su quello degli “unitari”, appoggiato anche dairiformisti. Il risultato viene però ribaltato dalla sottosezione dei Cappuccini, che, schie-randosi pressoché compatta con la “mozione Serrati”, dà a quest’ultima una leggeraprevalenza nel risultato complessivo.

Leone va a Livorno come delegato, ma non partecipa alla votazione: «Mi sono aste-nuto dal voto - spiegherà - perché convinto che la circolare Marabini-Graziadei, men-tre rappresentava, nell’intenzione di tutti gli aderenti, la decisa volontà di giungere adogni costo all’unità [...] di tutti i comunisti sinceri, in realtà apparve come un tentativodi sbloccamento degli unitari per ottenere la maggioranza dei comunisti puri.

3 PAOLO ROBOTTI, Scelto dalla vita, Roma, Napoleone, 1980, pp. 66-68: nel suo intervento,Robotti aveva affermato che la «rivoluzione non si fa[ceva] con i canti e con gli inni, macome l’avevano fatta i bolscevichi in Russia e i lavoratori d’Ungheria»; Sciopero GeneraleInternazionale. 20-21 luglio e L’imponente riuscita dello sciopero generale, in “La Risaia”,19 e 26 luglio 1919 (la pur dettagliata cronaca del giornale socialista ridimensiona alquanto laversione di Robotti: accenna, infatti, a «un po’ di agitazione», quasi subito rientrata, in se-guito al ritiro dei cavalleggeri); Il Congresso dei Socialisti del Vercellese, in “La Risaia”, 23agosto 1919; Il Congresso provinciale giovanile socialista di domenica scorsa e La seratamusicale “Pro bimbi di Vienna”, in “La Risaia”, 28 febbraio 1920 (Leone viene descrittocome un simpatico giovane «dalle spiccate attitudini artistiche [protagonista di] un saggiodi dizione corretta ed espressiva»); La vittoria dei contadini e Lo sciopero generale, in “LaRisaia”, 21 aprile 1920 (lo sciopero si chiude prima di quello “delle lancette”, con l’assensodei dirigenti di quest’ultimo, coi quali erano andati a conferire Robotti e Leone: questo par-ticolare mi è stato confermato da Battista Santhià, in una testimonianza rilasciata a Torino nel1974); NOI, Quello che si dovrà fare, in “La Risaia”, 30 marzo 1920 (nell’articolo, redatto si-curamente da Robotti, si avanza l’ipotesi di occupare le terre e di costituire i consigli di casci-na, ipotesi rivelatasi impraticabile, anche perché i lavoratori di risaia erano soprattutto avven-tizi stagionali); Un saluto ai giovani socialisti, in “La Risaia”, 9 ottobre 1920; FRANCESCOLEONE, Verso il Congresso di Firenze, in “La Risaia”, 20 novembre 1920; FOX [F. LEONE],Polemiche in famiglia, in “La Risaia”, 1 gennaio 1921; FGSI, COMITATO REGIONALE PIEMONTESEDI PROPAGANDA, Resoconto del Congresso regionale piemontese. Torino, [24-25 ottobre]1920, Torino, S. An. Tipografica Alleanza, 1920, p. 13.

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Perché si manifestarono dissensi fra gli stessi firmatari di essa [...]Perché, più che aderire ad una circolare, avevo sposato una causa: la causa dell’unità

comunista, la quale non ha avuto il suo trionfo per colpa di pochi dirigenti dell’una edell’altra sponda.

Dopo queste constatazioni io non mi sentivo più in diritto di vincolare, col mio voto,i compagni rappresentati a questo o a quel partito. Scelgano essi stessi la loro via.

[Nel giustificare il suo comportamento, aggiungerà ancora che] soltanto l’incoscientetestardaggine, il delittuoso orgoglio di pochi, l’atteggiamento troppo rigido, unilateralee poco tattico dei rappresentanti della III Internazionale [hanno] provocato la scissionea sinistra piuttosto che a destra come era nell’intenzione della stragrande maggioranzadei congressisti».

Ai primi di febbraio del 1921, all’atto di entrare nella Federazione giovanile comuni-sta, redige per l’ultima volta ne “La Risaia” la rubrica “Uomini e cose”, congedandosidefinitivamente dai vecchi compagni; un congedo che conclude un’aspra polemica conalcuni esponenti del partito, che aveva fatto grande affidamento su di lui, lo aveva aiu-tato e molto valorizzato.

Leone inizia quindi un’intensa attività organizzativa e politica nel nuovo partito, che,nel Vercellese, allora in provincia di Novara, si andava costituendo attorno all’organiz-zazione giovanile; ricopre incarichi a livello provinciale, sia tra i giovani che tra gli adul-ti, e, nel marzo del 1922, prende parte, in qualità di delegato, ai lavori del II Congressonazionale giovanile. Collabora assiduamente a “Il Bolscevico” - l’organo della Federa-zione comunista di Novara -, alimentando una violenta polemica antisocialista, cometitolare di una rubrica settimanale (“Et ab hoc et ab hac”) e con una fitta serie di corri-spondenze, per le quali utilizza, come di consueto, diversi pseudonimi, tra i quali “L’occhiodi Mosca nella ditta Aclastite”, la ditta nella quale lavora.

Si distingue subito come uno dei più attivi protagonisti degli scontri con i fascisti.Ritenuto «molto pericoloso», è attentamente vigilato. Licenziato dal proprietario del-l’“Aclastite”, a cui non va giù che sia «tutti i giorni sul giornale», trova lavoro nelleoperazioni di censimento e successivamente nell’ufficio tecnico dell’Ospedale di Vercelli.

Nel gennaio del 1922 viene arrestato e incarcerato per un mese, perché ritenutocoinvolto in una sparatoria contro il direttissimo Trieste-Bordeaux avvenuta nei pressidi Vercelli, nell’ambito dell’agitazione “Pro Sacco e Vanzetti”, sparatoria rivelatasi poidi matrice anarchica.

In questa fase, Leone agisce d’intesa con gli anarchici del gruppo “La Folgore”,costituito nella seconda metà del 1919, in seguito alla venuta a Vercelli di Luigi Galleani,tornato in famiglia per qualche tempo, dopo essere stato espulso dagli Stati Uniti. Sitrattava di poco più di una decina di militanti, piuttosto decisi, di cui avrebbe conserva-to un ottimo ricordo e tra i quali c’erano Mario Serassi (classe 1899) e Giuseppe Rigola(classe 1904), che sarebbe morto durante la Resistenza, in val di Lanzo.

Sempre nel 1922, la sera dell’11 luglio, con questo gruppo di anarchici e un altro incui figuravano ex combattenti (e con la preventiva esclusione dei socialisti), a nomedella componente comunista, partecipa alla costituzione della sezione vercellese degliArditi del popolo. La riunione si svolge al ridotto del Civico; gli intervenuti (stando allecorrispondenze apparse ne “L’Ordine Nuovo” e in “Umanità Nova”) sono circa duecento:gli anarchici sono rappresentati da Claudio Corona (classe 1901, ultimo anno di Ragio-neria, che successivamente emigrerà in Messico, per fare ritorno a Vercelli nel 1965);

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i reduci dal geometra Aurelio Malinverni (classe 1900, volontario appena diciassettennee successivamente passato al fascismo, già suo compagno di classe all’ultimo annodelle Tecniche). Leone è entusiasta. Ma, ai primi di agosto, in ottemperanza alle deci-sioni del partito, chiuderà questa esperienza, per dare vita, con scarso successo, alleSquadre d’azione comuniste.

Dovendo scontare otto mesi e venti giorni di detenzione, che gli erano stati inflittiper pubblica istigazione a mutare la costituzione dello Stato, durante il comizio del Pri-mo maggio dell’anno precedente, in novembre viene colpito da mandato di cattura eiscritto nel “Bollettino delle ricerche”. In ottobre era peraltro già emigrato clandestina-mente, anche perché coinvolto in altre vicende legate alla sua attività sovversiva, diri-gendosi alla volta della capitale francese.

Avendo potuto fruire di provvedimenti di clemenza, agli inizi del 1923 rientra in Ita-lia munito di regolare passaporto e riprende a svolgere l’attività politica; a fine maggio,però, nel corso di una perquisizione domiciliare effettuata in sua assenza, viene seque-strato un elenco, da cui risulta essere il fiduciario del partito per la provincia di Novara.

Costretto a riparare nuovamente in Francia, è inviato in Unione Sovietica, dove ri-siede per quasi un anno e mezzo, tra il 1924 e il 1925, frequentando per circa novemesi il corso per commissari di reggimento all’Accademia militare Tolmaceva di Le-ningrado. Secondo informazioni in possesso della questura (che ha un confidente infil-trato nel movimento giovanile vercellese), prima di questo nuovo espatrio, era il re-sponsabile dell’organizzazione militare comunista per il Piemonte.

Nella seconda metà del 1925 viene fatto rientrare temporaneamente in Italia: ricoprel’incarico di segretario interregionale per la Lombardia e l’Emilia-Romagna e collaboraalla preparazione del III Congresso del partito, che si svolge a Lione nel gennaio del-l’anno successivo. Nel 1926, risiede nuovamente a Parigi4.

4 Gioventù ribelle è la tua ora, supplemento al “Corriere Biellese” del 3 settembre 1920(Leone - “De Vercelli-Ranat”, “Leo” - ribadisce le sue critiche all’astensionismo e proclamala sua fede nel «Comunismo di stato», e nella «ferma disciplina», dichiarandosi soprattuttocontrario agli anarchici antiorganizzatori e all’«azione diretta»; nel numero unico compaionoanche articoli di Robotti, sotto l’abituale pseudonimo di “L. Sobar”); La discussione sullevarie tendenze a Vercelli e nel Circondario, in “La Risaia”, 18 dicembre 1920; Dopo il Con-gresso di Livorno. Una dichiarazione del compagno Leone, in “La Risaia”, 29 gennaio 1921;MEDIUS [ALESSANDRO GIONINO], Risposta unica al compagno Fox, in “La Risaia”, 8 gennaio1921 («Che proprio “Fox” debba lagnarsi del trattamento dei vecchi compagni è il colmo deicolmi; proprio lui che fu da essi varato e lanciato nella grossa politica, da essi ha ricevuto de-licatissimi incarichi di fiducia, essi gli concedono a palestra del suo vivace ed esuberante in-gegno quasi un intero settimanale»); FRANCESCO RIGAZIO, Alle origini del movimento comu-nista nella Bassa Vercellese, in ADOLFO MIGNEMI (a cura di), Figure e centri dell’antifascismoin terra novarese. Atti della giornata di studio. Novara 10 ottobre 1987, Fontaneto d’Ago-gna, Comune-Comitato Cacciana; Novara, Istituto storico della Resistenza “Piero Fornara”,1992; CESARE BERMANI (a cura di), “I fascisti in cento contro uno”. Colloquio con France-sco Leone, in “l’impegno”, a. XX, n. 1, aprile 2000 (nell’intervista, dichiara di non ricordarsibene se si era astenuto o meno a Livorno); F. RIGAZIO, Documenti anarchici, socialisti e co-munisti. Inventario, in “Archivi e Storia”, n. 2, 1989; Et ab hoc et ab hac, di “Bicciolano Stra-fottente”, in “Il Bolscevico”, 14 luglio 1921 (commenta con entusiasmo la nascita degli Arditidel popolo a Vercelli); F. RIGAZIO, Gli Arditi del popolo a Vercelli (luglio-agosto 1921), in“Archivi e Storia”, n. 15-16, 2000.

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La condanna del Tribunale speciale e l’emigrazione in Brasile

Leone era nel frattempo ricercato quale responsabile dell’uccisione di un fascista,avvenuta nel corso dei fatti di Novara del 18 luglio 1922; ma, nel maggio del 1927,essendo stato revocato il mandato di cattura per insufficienza di prove, rientra dallaFrancia per continuare a operare nell’organizzazione illegale del partito.

Il 28 luglio viene arrestato a Milano mentre ritira alcuni pacchi di copie de “Lo Statooperaio” stampato a Parigi e con in tasca le bozze di un suo articolo di fondo per “L’Unità”clandestina. Viene sottoposto a un pesante interrogatorio. Accusato di insurrezione controi poteri dello Stato, dopo quasi quindici mesi trascorsi a San Vittore e a Regina Coeli, il26 ottobre 1928 è condannato dal Tribunale speciale a sette anni e sette mesi di reclu-sione e a tre anni di libertà vigilata.

Sconta la pena in diversi stabilimenti. Il 27 maggio 1933 viene dimesso per amnistiada quello di Civitavecchia e va ad abitare a Vercelli, dalla sorella Maria. È sottoposto a«continua vigilanza».

Non riesce a trovare lavoro. L’unico che cerca di dargli una mano è il vecchio com-pagno della “gioventù socialista”, Serafino Somaschini, che ha appena aperto un nego-zio di tessuti e seterie in via Lanza. Somaschini, già da lui affrontato in passato conmetodi settari e violenti - come ricorderà nel colloquio con Cesare Bermani - lo assumecome commesso, aiuto contabile e viaggiatore sulle piazze di Santhià, Trino, Casale,Ivrea e Biella. Anche se giustificata con il «proposito di dare nuova anima e nuova co-scienza patriottica a un giovane italiano già graziato dalla generosità veggente del Duce»,è evidente che la cosa non sta in piedi, se non altro per le mansioni di viaggiatore che glisono state affidate, le quali renderebbero praticamente impossibile l’azione di sorve-glianza a cui i carabinieri lo devono sottoporre. Viene licenziato.

Nonostante non dia «luogo a rilievi con la sua condotta politica e morale», mantienele sue idee di «fervente comunista [ed è pertanto sempre] compreso nell’elenco dellepersone da fermare in determinate circostanze». Continua a essere disoccupato. Qual-che mese dopo, si rivolge, anche stavolta senza risultati, alla zia Antonia Chiocchetti,vedova Leone, e alla cugina Marta, entrambe residenti a Torino e impiegate alle edizionisalesiane.

Considerando che in Italia non è sicuro - scriverà in seguito alla sorella - e rischia diessere arrestato da un momento all’altro, che è senza lavoro e non può pensare di farsimantenere «eternamente» da lei, verso la fine di febbraio dell’anno successivo - siamonel 1934 - decide di recarsi a Genova, al Consolato generale brasiliano. Ha con sé ilcertificato originale di nascita e tre fotografie. Il console - ricorderà a Bermani - è untipo «abbastanza comprensivo» e non fa troppe domande: «Mezz’ora dopo avevo ilpassaporto brasiliano, del quale mi sono servito per tagliare la corda. Un giorno ho fat-to portar le valigie a Torino; poi un compagno al mattino presto in bicicletta m’ha ac-compagnato fino alla stazione di Santhià. Ho preso le valigie; ho preso il treno da Tori-no, sono andato a Genova e con il passaporto brasiliano mi sono imbarcato». È il 28marzo; ha acquistato il biglietto con i soldi ereditati dal padre.

Il successivo 10 aprile sbarca a Santos, dopo un viaggio che definisce «magnifico»sul piroscafo “Augustus”. Lo stesso giorno invia un telegramma all’altra sorella Marta,sposata Ramazzotti, che risiede a Palmeira, annunciandole il suo arrivo, e spedisce duelettere a Vercelli, una alla sorella Maria e l’altra «All’Ill.mo Sig. Questore di Vercelli»,

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notificandogli che il suo espatrio non è stato clandestino, ma bensì regolare e pregan-dolo di prenderne atto.

Una volta in Brasile, si sposta a Rio, lavora in un cantiere e continua il suo impegnopolitico, entrando nel Partito comunista brasiliano. Nel novembre del 1935 partecipa altentativo insurrezionale guidato da Prestes e ispirato dal Comintern, un tentativo prati-camente abortito sul nascere, controllato, se non addirittura pilotato, dal governo deldittatore Vargas, che attua una spietata repressione.

All’Istituto Gramsci di Roma è conservata una sua lettera da Rio, datata 3 dicembre1935, che accenna a una precedente sua relazione sull’intera vicenda. Essa ne testimoniaun ruolo più importante di quello che - per una certa modestia o per la riservatezzalegata alla mentalità di rivoluzionario professionale - emerge dalla citata intervista aBermani: Leone, come del resto è anche logico, data la formazione all’Accademia Tolma-ceva, risulta essere l’uomo (o uno degli uomini) del Comintern all’interno del Partitocomunista brasiliano.

Al termine della lettera, vista la situazione, la perdita del posto di lavoro e la concretapossibilità di essere arrestato, chiede di essere fatto espatriare e inviato in Unione Sovie-tica5.

La guerra civile spagnola e la Resistenza in Francia e in Italia

Viene invece mandato in Francia e destinato all’organizzazione del Soccorso rossointernazionale.

Nell’agosto del 1936 sottoscrive l’appello del Partito comunista italiano per la ri-conciliazione tra fascisti e antifascisti, echi del quale si possono cogliere in un suomessaggio inviato a fine anno, alle ore 23.45 del 29 dicembre, «a tutti gli italiani fascistie non fascisti», dalla stazione radiofonica di Barcellona, dove si trovava durante un perio-do di convalescenza.

In agosto era infatti stato tra i primi ad accorrere in Spagna, contribuendo a costi-tuire la centuria che aveva voluto intitolata a Gastone Sozzi, l’antifascista morto incarcere, che era stato suo compagno alla scuola di Leningrado. In Spagna, Leone hamodo di confermare le sue doti di coraggioso combattente: il 23 novembre, mentre guidaun assalto nel quadro delle operazioni di difesa della capitale, viene gravemente ferito ericoverato in un ospedale della città catalana.

Nonostante il prestigio acquisito, secondo Gianni Isola, il ferimento costituisce l’oc-casione per allontanarlo dal fronte: è evidente, sempre secondo questo autore, che ilsuo carattere «impulsivo e insofferente dei torti subiti» lo avrebbe, infatti, prima o poiportato a scontrarsi con i membri dell’apparato del partito provenienti dall’Unione So-vietica.

Dopo un lungo periodo di convalescenza, trascorso in parte in Unione Sovietica -

5 C. BERMANI (a cura di), art. cit. (rievocando l’episodio di Novara del 1922, Leone fa il no-me di quello che ritiene essere stato l’autore del tragico evento, al quale aveva assistito dipersona); ASV, Questura di Vercelli, “Sovversivi”, fasc. “Francesco Leone”, Carteggi, Ver-celli, 8 giugno, 7 luglio e 23 agosto 1933, 23 gennaio 1934; Fondazione Istituto Gramsci diRoma, Archivio Partito comunista, “F. Leone (1935)”, fasc. “Anni 1930”, Lettera datata Riode Janeiro, 3 dicembre 1935.

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un suo articolo, corredato da una sua fotografia, relativo a un episodio della guerra civilespagnola, compare sull’“Isvestia” del 20 marzo 1937 - è nuovamente destinato a Parigi.

Scoppiata la seconda guerra mondiale, nel dicembre 1939 viene arrestato e internatoal “Roland Garros”: l’arresto è eseguito in seguito a una lettera anonima del precedente14 ottobre, nella quale si denuncia che «i comunisti italiani Sereni Vittorio, JacoponiVasco, Leone Francesco, ecc si riuniscono in alcuni caffè presso la Place de la Nationcon un altro stalinista Di Vittorio e parlano contro la Francia». Viene quindi internatoper due anni nel campo di Vernet d’Ariège, nella regione pirenaica, e successivamentetrasferito in Provenza, in quello di Les Milles, dal quale evade nel dicembre del 1941,riprendendo l’attività nell’organizzazione del partito ed entrando in contatto con la Re-sistenza francese.

Nel 1943 è nuovamente arrestato e incarcerato a Tolone, e quindi rinchiuso nel campodi Nizza; dopo aver subito pesanti interrogatori da parte dell’Ovra, verso la metà di ago-sto, viene trasferito a Breil, nelle Alpi Marittime, in attesa di essere giudicato da queltribunale militare, dato che è iscritto per l’arresto nella “Rubrica di frontiera”.

Rilasciato dopo l’8 settembre, Leone svolge un ruolo di primo piano nella Resisten-za, sia nell’organizzazione delle brigate d’assalto “Garibaldi” che nei comandi militariunificati dell’Italia settentrionale, sempre come rappresentante del Partito comunista.

Nell’inverno del 1943 ottiene l’incarico di responsabile dell’attività militare del par-tito in Piemonte; nella primavera dell’anno successivo viene inviato in Toscana con lacarica di membro del triumvirato insurrezionale e di comandante militare delle brigategaribaldine della regione, dove è alla testa dell’insurrezione di Firenze, con un gruppo digaribaldini già penetrati in città in piena occupazione tedesca. Sempre nella primaveradel 1944 fa parte della delegazione che, a nome del Partito comunista e delle brigate“Garibaldi” (di cui era ispettore generale), conduce le trattative per coordinare l’azionetra partigiani italiani e jugoslavi6.

Consultore, costituente e parlamentare. Gli ultimi anni

Dopo la Liberazione, Leone viene inviato a Roma, come vice responsabile dell’atti-vità di stampa e propaganda del Partito comunista e lancia la proposta della “Giornatadell’Unità”, maturata sulla base della sua esperienza francese. In agosto, torna a Ver-celli, per organizzare la locale federazione, di cui è il primo segretario.

6 PAOLO SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. I fronti popolari, Stalin, la guer-ra, Torino, Einaudi, vol. III, 1978, p. 66 (nel cosiddetto Appello ai fratelli in camicia nera, ilPartito comunista, anche alla luce dei risultati ottenuti dal fascismo, privilegia i temi della“lotta di classe” e della “democratizzazione” del regime); voce biografica a cura di GIANNIISOLA, in FRANCO ANDREUCCI - TOMMASO DETTI (a cura di), Il movimento operaio italiano. Di-zionario biografico. 1853-1943, Roma, Editori Riuniti, vol. III, 1977; Mini Facelli ricordaLeone. Da Radio Barcellona parlava “il capitano”. Seguitissima a Vercelli la sua trasmis-sione, in “L’amico del popolo”, 22 giugno 1984; Archives Nationales, Police Nationale, MF7/14747, Carteggio tra la Direzione generale della Sicurezza nazionale del Ministero dell’Internoe il prefetto di Polizia di Parigi (nella nota biografica allegata al fascicolo, si riferisce che:«Durante i suoi soggiorni a Mosca [del 1937-38] Leone avrebbe seguito dei corsi specialimilitari e sarebbe uno degli specialisti militari comunisti da impiegare nelle eventuali guerrecivili»).

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È anche membro del Comitato centrale del partito dal 1946 al 1960. Nel V Congres-so (29 dicembre 1945 - 6 gennaio 1946), ritenendo unitaria la base socialista, prendeposizione a favore del partito unico della classe operaia e dei lavoratori, idea di cui ri-mane sempre convinto, anche quando cominciano a delinearsi i connotati di una socie-tà più articolata e si hanno, anche a Vercelli, le prime prove di centrosinistra.

Dall’aprile 1945 al maggio 1946 fa parte della Consulta, su designazione del partito,e, il successivo 2 giugno, viene eletto all’Assemblea costituente, dove non svolge unruolo di particolare rilievo. Come si è detto, era infatti più portato all’azione e i suoicontributi personali si limitano a due interrogazioni: una relativa alla concessione di unasessione straordinaria di esami riservata a partigiani, reduci ed ex detenuti politici; l’al-tra alla posizione dei militari reduci ed ex internati in Germania colpiti da tubercolosi.

Nella prima legislatura repubblicana viene nominato senatore di diritto, come costi-tuente condannato dal Tribunale speciale che aveva scontato più di cinque anni di car-cere per attività antifascista.

Sensibile ai problemi delle campagne, anche perché proveniva da una zona caratte-rizzata da forti tensioni sociali nell’agricoltura, ha, in quel campo, incarichi di partito alivello regionale: in questa veste, fonda e dirige dal 1949 al 1952 “Il Contadino piemon-tese”, un periodico destinato ai piccoli produttori agricoli, delle cui istanze si fa porta-tore in parlamento e anche nelle conferenze nazionali del partito.

Nelle elezioni per il Senato del 1953 viene sconfitto dal candidato democristiano, ilcelebre avvocato Caron; nella terza legislatura repubblicana, è, invece, eletto alla Ca-mera, nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli, con un altissimo numero di prefe-renze.

Nel 1963, in vista delle elezioni del 28 aprile, i giornali locali annunciano che, nel-l’ambito del rinnovamento dei quadri operato dal Pci, il leader dei comunisti vercellesi,l’onorevole Francesco Leone, esce dalla scena parlamentare.

Nell’accomiatarsi dai suoi elettori, Leone riassume la sua vicenda politica del dopo-guerra e precisa di averlo fatto «non per elencare dei titoli di merito, ma per sottolinearequanto [egli dovesse al] partito ed alla stima che [essi gli avevano] espresso coi [loro]voti»; motiva quindi la decisione di non ripresentarsi col proposito di favorire il riequi-librio tra la rappresentanza parlamentare biellese e vercellese e, soprattutto, di consen-tire la valorizzazione di forze nuove, più adeguate a rispondere alle situazioni nuove cheerano venute maturando, anche se, qualche mese prima, nell’anticipare la decisione,aveva puntigliosamente affermato che il rinnovamento del partito, di cui tanto si parla-va, era tutt’altro che una questione anagrafica: «Le tesi condannano seccamente [...]quel rinnovamento inteso sotto l’aspetto anagrafico. Il Partito si rinnova elevando lasua capacità di comprendere ed applicare la linea politica tracciata dai nostri congressi,elevando la sua preparazione ideologica e politica, la sua capacità di unire, di fondere lateoria con la pratica, la sua capacità d’essere fermo e duttile, saggio e audace, elevandola capacità di comprendere i suoi compiti immediati e storici e di saperli assolvere nellasituazione, nelle circostanze, nella realtà in cui è chiamato a lavorare per trasformarlanella lotta, all’avanguardia delle classi lavoratrici e popolari, di tutte le forze democra-tiche, antimonopoliste, per la pace, per il socialismo».

In realtà, gli sta capitando quel che era successo cinque anni prima al biellese Flecchia,anche lui costituente, e a molti della vecchia guardia rivoluzionaria, come Silvio Orto-na, che erano venuti a trovarsi, col tempo, un po’ ai margini del partito.

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Mastica certamente anche amaro e non è difficile immaginare che riflettesse sulleoccasioni perdute per una certa “imprudenza” e una certa “indolenza”, con le quali siera talvolta comportato, lui che, nel 1924 era stato cinque minuti in piedi, sotto la neve,quando le sirene annunciavano che Lenin stava morendo e tutta la Russia si era fermata(«uno spettacolo formidabile!»), aveva frequentato la “Tolmaceva”, preso parte al ten-tativo rivoluzionario di Prestes, combattuto in Spagna e resistito a duri interrogatori.

Nel 1970, dopo ventiquattro anni, chiude anche la sua esperienza nel Consiglio co-munale di Vercelli, dove era stato costantemente eletto con grande numero di preferen-ze. Rimane membro del Consiglio federale del partito, al quale tanto doveva, come ave-va detto, accomiatandosi dai suoi elettori nel 1963, e al quale non aveva mai lesinatogenerosi contributi.

Continua a coltivare quella passione per il giornalismo che lo aveva contraddistinto,fin dai tempi giovanili del “Corriere Biellese”, de “La Risaia” e de “Il Bolscevico” e suc-cessivamente in Brasile e nei giornali dell’emigrazione in Francia.

In quel periodo scrive ne “L’amico del popolo”, il periodico della Federazione pro-vinciale, che aveva fondato nel 1945, scegliendo un titolo che evocava il Ranza e Ma-rat, in tempi in cui la realizzazione delle giovanili aspirazioni sembrava a portata di mano.Non è più il “Don Biagio Bolscevico” de “La Risaia” o il “Bicciolano Strafottente” de “IlBolscevico” e i suoi corsivi, sottoscritti, meno impegnativamente, “Asianotu” (dal nomedel paese d’origine della famiglia), sono più moderati rispetto a quelli della giovinezza,ma come quelli caustici e brillanti.

Leone si spegne a Vercelli il 23 maggio 1984; Gian Carlo Pajetta tiene l’orazione fu-nebre e, tra i numerosi messaggi di cordoglio, non mancano quelli delle organizzazionipartigiane toscane e del Partito socialista unificato della Catalogna7.

Concludendo, vorrei osservare come l’approccio biografico alla storia, che oggisembra godere di un certo favore, consenta di evidenziare le differenze, anche notevo-li, tra personaggi - nel caso di questo convegno, Bertola e Leone - che (sia pure conuno sfasamento temporale di una decina d’anni, dovuto a ragioni anagrafiche) si trova-rono immersi nelle stesse vicende. Mi viene allora in mente Émile Chartier, l’“Alain” di“Esprit”, citato da Pietro Secchia nei suoi “Quaderni”, il quale «non amava la storiadegli storici [perché] la vera storia, diceva, è apprendere nelle cronache, nelle lettere,nei memoriali».

7 Francesco Leone nei ricordi di Mini Facelli. Cestino della merenda, falce messoria evestito da tagliariso..., in “L’amico del popolo”, 29 giugno 1984; Il dibattito al VII Congres-so dei comunisti italiani, in “L’amico del popolo”, 30 novembre 1962 (Leone aveva annun-ciato che «[considerava] chiusa, con questa legislatura, la sua attività parlamentare e [la-sciava] ben volentieri il posto a qualche altro compagno meritevole di iniziare la sua primaesperienza in questo campo»); I partiti designano i candidati alle elezioni politiche del 28aprile. L’on. Leone si allontana dalla scena politica, in “La Sesia”, 19 febbraio 1963 (allaCamera sono presentati il giovane Irmo Sassone, Gioacchino Ghisio e Nando Schellino; alSenato viene rieletto Domenico Marchisio, ma alla Camera, il Pci non riesce a confermare ilseggio “vercellese” di Leone); Perché non mi sono candidato. Lettera agli elettori del-l’On. Francesco Leone, in “L’amico del popolo”, 22 febbraio 1963; “L’amico del popolo”, 25maggio e 1 giugno 1984 (numeri dedicati al ricordo e ai funerali, che si svolgono il 26 maggio).

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La storia è, infatti, anche il prodotto di decisioni e di comportamenti legati all’in-treccio di diversità di caratteri, di emotività, di sentimenti, di esperienze di vita familiaree non, in altre parole, prendendo a prestito il titolo di un celebre romanzo, è anche ilprodotto del “fattore umano” - si pensi al ruolo esercitato dalla religione nell’attuale mo-mento storico - da elementi, cioè, che sfuggono (o possono sfuggire) alle “griglie scien-tifiche” della storiografia.

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Biellesi all’Assemblea costituente

L’intervento introduttivo di carattere generale sull’Assemblea costituente è stato tenuto aBiella da Bruno Ziglioli, già relatore sullo stesso tema nel convegno di Vercelli. Nelle pagineche seguono sono pertanto riportati solo i saggi sui costituenti biellesi di Marco Neiretti,Gustavo Buratti e Federico Caneparo, mentre per l’introduzione si rimanda a p. 11.

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Giuseppe Pella nacque a Valdengo il 18 aprile 1902 da genitori coltivatori diretti. Dopole scuole elementari, frequentate nella scuola di don Felice Perazio (1866-1959), parro-co di Cerreto Castello, passò a Biella alle scuole medie e al biennio di ragioneria all’Isti-tuto “Eugenio Bona”, trasferendosi successivamente a Torino all’Istituto “G. Sommeil-ler”, dove si diplomò con lode in ragioneria1.

L’impegno nel movimento cattolico

Gli anni di Torino furono assai fecondi per il giovane Pella, che - «popolare dellaprima ora»2 - nel 1919 fondò il Circolo cattolico studentesco “Giuseppe Toniolo”. ATorino operava in quegli anni come segretario provinciale del Ppi don Alessandro Can-tono (1874-1959), nativo di Ronco Biellese, comune limitrofo a Valdengo. AlessandroCantono, figura primaria, con Murri e Sturzo, della prima Democrazia cristiana, fusociologo e scrittore di chiara fama. Commemorando Cantono, nel ventennale dellamorte, Giuseppe Pella avrebbe ricordato quel periodo come centrale della sua forma-zione politica, che si avviò nell’ala sociale del popolarismo subalpino: la “sinistra” gui-data da Attilio Piccioni e da Giuseppe Rapelli. “Pensiero popolare” era il giornale-testi-monianza di quel gruppo, che tra i collaboratori contava Giuseppe Cappi, di Cremona3,e (anche finanziariamente) i biellesi Pier Giorgio Frassati ed il suo collega di studi al Po-litecnico, l’amico Enrico Delpiano4. L’indirizzo di “Pensiero popolare” era decisamenteantifascista: per la politica agraria la sinistra torinese seguiva Guido Miglioli; in materiasindacale e di politica industriale puntava a superare il corporativismo cattolico sotto laspinta di Giuseppe Rapelli. In quel gruppo, lo studente d’economia Giuseppe Pella offrivail suo apporto secondo una linea aperta alle ragioni del sistema economico e pure alle ri-vendicazioni popolari della Torino degli anni venti, la città industriale ancora appesan-

Giuseppe Pella

1 Giuseppe Pella non si diplomò - come erroneamente è stato scritto - all’Istituto per ragio-nieri “E. Bona” di Biella, ove invece insegnò per sette anni.

2 Lo riportò nel 1972 nella scheda di documentazione che accompagnava la ripresenta-zione della candidatura al Senato della Repubblica.

3 Giuseppe Cappi (Cremona, 1883 - Roma, 1963), collaboratore di Miglioli, in rapporto coni fratelli Ludovico e Giovanni Battista Montini, con padre Bevilacqua e padre Pini. Fuconsigliere nazionale della sinistra Ppi e membro della Direzione nazionale nel 1924. Costi-tuente e poi parlamentare della Dc, di cui fu segretario nazionale, fu poi giudice costituziona-le, e infine presidente dell’Alta Corte.

4 Enrico Delpiano (Biella, 1900 - Torino, 1974), laureato in ingegneria al Politecnico di To-rino, allievo di Gustavo Colonnetti e di Modesto Panetti (fu ministro delle Poste e Telecomu-nicazioni nel governo Pella), lavorò all’Italgas (società con forte partecipazione azionaria diAlfredo Frassati, poi assorbita dall’Eni) sino a diventarne il vicepresidente. Dal 1950 al 1965fu segretario amministrativo della Dc piemontese. Negli anni venti fece parte, con Rapelli,della delegazione torinese che andò a studiare per alcuni mesi in Russia il regime sovietico.

Marco Neiretti

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tita dai costi del dopoguerra, scossa dall’occupazione delle fabbriche, travagliata daiconflitti di classe, “agitata” dai “cervelli forti” della sinistra. Nella “ricerca della terzavia”, Pella avrebbe sviluppato per decenni un dinamico confronto con il giovane GiuseppeRapelli, il quale - assertore del sindacato cristiano - avrebbe continuato ad affiancarlotra il 1949 ed il 1964, quando Pella fu ministro economico-finanziario, presidente delConsiglio, uomo di punta contro il centrosinistra, secondo la politica del centrismo5.

Nella Torino degli anni venti, dopo il diploma al “Sommeiller” e nel corso degli studiall’Istituto universitario, Giuseppe Pella coltivò “relazioni di ambiente”, destinate a du-rare nel tempo e, spesso, a trasformarsi in rapporti di alta fiducia. È il caso di ModestoPanetti (1875-1957), docente con Gustavo Colonnetti al Politecnico, assessore ai ser-vizi tecnici del Comune di Torino negli anni venti, poi deputato democristiano alla Co-stituente e senatore della prima legislatura, che Pella avrebbe voluto ministro delle Po-ste e Telecomunicazioni nel suo governo (1953). E come non ricordare l’amicizia deglianni trenta con Silvio Golzio (Torino, 1909-1994), specialista di statistica, presidentedel Cir6, attivissimo nella Fuci (Federazione degli universitari cattolici) ai tempi di donGiovanni Battista Montini (papa Paolo VI), Giorgio La Pira, Sergio Paronetto, GuidoGonella. Silvio Golzio, figura eminente anche nell’ambiente cattolico, sarebbe stato pre-sente al Concilio Vaticano II quale “uditore laico”7.

Con quel patrimonio di idee e di azione, Pella svolse già allora attività politica anchenel Biellese, intervenendo ai maggiori convegni zonali e diocesani, ora a titolo personaleora in rappresentanza del circolo cattolico valdenghese “Fides et robur”. Per il giovanePella era fondamentale formare i giovani dirigenti del movimento cattolico: ad esempio,sul finire del 1921 organizzò, nei locali delle scuole serali di Valdengo, un corso di “Eco-nomia sociale”, inaugurato dalla relazione “La questione sociale in rapporto alle diversescuole economiche”, e sviluppato dalle lezioni di Alessandro Cantono e Federico Mar-concini (docente all’Università di Torino). Nello stesso anno, al Convegno delle asso-ciazioni cattoliche in Vigliano, Pella si rivelò «oratore geniale e ascoltatissimo», comericonobbe il giornale “Il Biellese”. Sempre nel 1921, il diciannovenne propagandista delPpi, tenne comizi elettorali in molti centri del Biellese, nell’amichevole sodalizio con ilcoetaneo Bruno Blotto Baldo, che sarebbe stato sindaco di Biella dal 1951 al 1960.

La libera professione e l’insegnamento

Gli anni venti furono per il giovane Pella decisivi anche per l’apprendistato - tantoprofessionale che di insegnamento - avviato ancora nel pieno degli studi universitari alLanificio Lanzone di Andorno. Il 31 marzo 1924 Pella si laureò in Scienze economiche

5 Giuseppe Rapelli (Castelnuovo Don Bosco, Asti, 16 giugno 1905 - Roma, 16 giugno 1977).Dal 1924 particolarmente intense furono le intese con i comunisti (nei gruppi facenti capo al“Lavoratore” e ai “Comitati operai e contadini”). Nel 1926 compì un viaggio in Urss con unadelegazione di studio del “Lavoratore”. Si veda BARTOLO GARIGLIO, ad vocem Giuseppe Rapel-li, in FRANCESCO TRANIELLO - GIORGIO CAMPANINI (a cura di), Dizionario storico del movimen-to cattolico in Italia. 1860-1980. I protagonisti, Casale Monferrato, Marietti, vol. II, 1982.

6 Comitato per la ricostruzione industriale del secondo dopoguerra.7 CLAUDIO BERMOND, ad vocem Silvio Golzio, in F. TRANIELLO - G. CAMPANINI (a cura di),

Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento 1980-1995, Genova, Marietti, 1997.

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e sociali al Regio Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Torino.Assolto l’obbligo del servizio militare, da cui venne congedato come caporale del Ge-nio, scelse la duplice strada della libera professione e dell’insegnamento. Fin dal lugliodel 1924 si era iscritto al sindacato interprovinciale dei dottori commercialisti di Tori-no; intraprese la pratica professionale a Biella presso lo Studio Cantone, attivo in vialeRegina Margherita (l’attuale viale Matteotti). Successivamente si associò allo studio deldott. Virginio Bernero8.

Il percorso dell’insegnamento, che aveva iniziato, già da universitario, alla Scuolacommerciale “Giulio Cesare Rama” di Andorno, lo proseguì quale professore ordinariodi Ragioneria industriale e Tecnica commerciale all’Istituto per ragionieri “Eugenio Bona”di Biella, dove insegnò dal 1925 al 15 ottobre del 1930. Come nella professione, si im-pegnò a fondo nello studio e nella ricerca: collaborò a riviste specializzate e frequentògli ambienti dell’università, dedicando una cura tutta particolare alle pubblicazioni scien-tifiche. Sono di quel periodo gli studi su “Lavorazione per terzi e tassa scambi”, “Ilriporto sui titoli (di Borsa e fuori-Borsa)” pubblicato in una collana della Utet, cui sa-rebbe seguito nel 1938, nella rivista milanese “Realtà”, il saggio “Cicli economici e pre-visioni di crisi”. Sempre negli anni trenta Giuseppe Pella collaborò, da assistente volon-tario, alla cattedra di Tecnica mercantile e bancaria dell’Università di Torino e svolsedocenza di Costi industriali nell’ambito del Corso superiore per dirigenti di azienda ne-gli anni 1930-31 e 1934-35, collega di cattedra di Luciano Jona, Vittorio Valletta, GinoOlivetti, Domenico Peretti-Griva.

Dalle conferenze laniere all’amministrazione comunale di Biella

In campo strettamente professionale il giovane commercialista continuò a farsi unnome. Seguì e intervenne nelle crisi della Banca commerciale biellese e della banca cat-tolica Credito Biellese. A soli 25 anni, nel 1927, fu relatore al Congresso laniero italianosul tema: “Lo studio dei costi di produzione nell’industria laniera italiana”. Nella qualitàdi delegato italiano partecipò alle conferenze internazionali laniere di Amsterdam (1932),Budapest (1933), Roma (1934), Berlino (1935), Varsavia (1936), Parigi (1937). E purenel contesto delle competenze professionali può situarsi l’esperienza di consultore co-munale di Biella (corrispondente all’odierno assessore) di Giuseppe Pella che, dopo unpaio d’anni di attività (1933-34), venne invitato a dimettersi in ossequio alla legge cheprecludeva determinate cariche pubbliche ai celibi. Caduta la preclusione gli sarebbestato offerto dal podestà Serralunga l’incarico di vicepodestà, che svolse dal 17 luglio1935 al 24 marzo 1937, curando il risanamento del bilancio, dissestato da lunghi anni dicommissari prefettizi. Nel marzo del 1937 avrebbe presentato le «dimissioni volontarieper esigenze professionali». Del resto Pella non era mai stato un entusiasta del regimefascista, cui si era sottoposto soltanto nel 1932, per poter venire ammesso al concorsoper la formazione del ruolo di revisore dei conti prima e di amministratore giudiziariopoi. Al più, si era sentito in dovere di svolgere un qualche specialistico servizio ammi-nistrativo alla sua città, allo stesso modo in cui, dieci anni dopo, avrebbe affiancato conla sua autorità e competenza il Cln locale nel reperimento e nell’amministrazione dei

8 Allo studio Bernero-Pella si sarebbe aggiunto negli anni quaranta Renzo Barazzotto.

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fondi per la lotta di liberazione, collaborando con amici dell’Azione cattolica impegnatiattivamente nella Resistenza, tra i quali Alessandro Trompetto del Cln militare e GuidoMartignone di quello cittadino.

Il 25 luglio 1943 e l’avvio della Democrazia cristiana

Il 25 luglio del 1943, con l’arresto di Mussolini e il ritorno della libertà, si visse inItalia, per quarantacinque giorni, un periodo di febbrile illusione, durante il quale i partitidella clandestinità apparvero alla luce del sole, impegnandosi a trovare iscritti e dirigentie ad elaborare programmi.

In campo cattolico si formò a Biella un gruppo dalle provenienze “popolari” e dallapiù recente esperienza nell’Azione cattolica, in particolare dal Movimento laureati cat-tolici e dalla Fuci di Giovanni Battista Montini e di Igino Righetti (1904-1939). A Biellail collegamento era tenuto, in via primaria e per l’aspetto politico, dall’architetto Ales-sandro Trompetto, fratello del canonico Mario. Alessandro Trompetto frequentava datempo gli ambienti dell’intellettualità cattolica milanese e, sempre teso agli studi ed al-l’aggiornamento, aveva frequentato nel febbraio del 1943 la Facoltà di Architettura diValle Giulia a Roma. In quella circostanza aveva incontrato Giovanni Gronchi, già se-gretario generale della Cil (il sindacato bianco che negli anni venti aveva contato oltreun milione e mezzo d’iscritti), il quale era in relazione con i gruppi milanesi, fiorentini,romani della “clandestinità bianca”.

Nel marzo del ’43, con i primi “scioperi resistenziali”, Trompetto si era messo incontatto con il sindaco socialista della Biella degli anni venti, Virgilio Luisetti, con i co-munisti Pasquale Finotto e Domenico Bricarello e con il direttore de “Il Biellese”, Germa-no Caselli. Così, nei giorni che intercorsero tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, Trompet-to ritessé le fila tra i cattolici biellesi, per promuoverne una presenza politica attiva nellasocietà. L’incontro decisivo avvenne la mattina di domenica 29 agosto 1943 nella casadella parrocchia di San Paolo di Biella, sotto l’ala di don Irmo Buratti, già dirigente delPartito popolare di Sturzo. A quella «prima adunanza della Commissione democratico-cristiana di Studi Politici - Sottocommissione di Biella», come verbalizzò lo stesso Trom-petto, intervennero una quarantina di persone. Presiedette l’incontro il professor GustavoColonnetti, che villeggiava a Pollone. Colonnetti era stato tra i fondatori del Ppi e mem-bro della direzione centrale (sarebbe stato consultore nazionale e costituente per la Dc).

Tra coloro che presero la parola si distinsero don Alessandro Cantono, GiuseppePella, Germano Caselli, Renato Botto, ultimo segretario del Ppi biellese e della Cil biel-lese. La discussione si svolse sui “toni alti” del programma politico, e poi sui nomi daproporre al comitato cittadino di Biella per ricoprire le cariche amministrative nel Co-mune e negli enti della Città di Biella abbandonate dai fascisti. Dal quaderno di Alessan-dro Trompetto - che poi si arricchisce di notizie sulla riunione che, nel pomeriggio, sisarebbe svolta tra i rappresentanti dei rinati partiti costituzionali sotto l’egida di un im-provvisato Fronte nazionale (dal quale però mancavano i comunisti) - Giuseppe Pellaemerge come personalità di rilievo, come uomo di prestigio capace di interpretare au-torevolmente le attese, le opinioni e la rappresentanza dei cattolici biellesi nel nuovo tempopolitico e civile. Fin dalla riunione di San Paolo, Pella enunciò i principi sui quali, treanni dopo, avrebbe costruito la sua azione di ministro della ripresa economica. A Co-lonnetti, che illustrò le linee programmatiche degasperiane e della scuola sociale cristia-

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na, e a Germano Caselli, che insisté sulla strategia dei rialzi salariali, Pella «precisa chealti salari sono un’utopia e sostiene la sua tesi che qualora la produzione sia rimunera-tiva all’imprenditore, il salario potrebbe aumentare ma di una percentuale bassa», e poi,verbalizzò ancora Trompetto, «Pella non vede come si potrà praticamente organizzarela partecipazione degli operai agli utili ed al capitale dell’azienda». Quest’ultima battuta,se appare riferita in primis alla concezione organicistica della socialità cattolica (taleera stata preconizzata dalle encicliche leoniane, tale sviluppata dalla scuola sociale delToniolo), sarebbe tornata della massima attualità di lì a qualche mese, quando - sullabase della famosa “Carta di Verona” - Mussolini avrebbe proposto un’economia rivolu-zionaria e corporativa con un nuovo modello sindacale e con la nazionalizzazione delleimprese, momento terminale della fallimentare economia autarchica del secondo de-cennio del regime. Del resto, il Pella consulente del commercio e dell’industria lanierabiellese e italiana si era sempre dichiarato contrario ad ogni chiusura autarchica versoil mondo, donde venivano le materie prime del sistema tessile e in cui, sovrana ed odia-ta dal duce e dal regime, regnava la britannica sterlina9.

Lo sfascio dell’8 settembre 1943 rimise, dieci giorni dopo quelle riunioni, tutte lecarte in gioco. E fu guerra molteplice e feroce, e fu la clandestinità. Il cattolicesimobiellese non si sottrasse all’emergenza. L’istituzione-Chiesa intervenne a tutela dellepopolazioni e della giustizia con la ieratica figura del vero e proprio defensor civitatis,il vescovo Carlo Rossi in prima persona: al suo fianco, l’esempio e la guida di don An-tonio Ferraris. Clero e cattolici furono tutt’uno con la popolazione e in collaborazionecon la Resistenza; salvo il deplorevole episodio, non del tutto ancora chiarito, di donVernetti, che invitò alla tregua mediante una radio collaborazionista.

Alessandro Trompetto continuò la sua missione di punta nel movimento: partecipòalla fondazione dei Cln biellese e di molti comuni in cui la Dc ebbe attivi rappresentanti.Egli fu in quel biennio di fuoco anche esponente del Cln militare, come una “primulabianca” dei cattolici biellesi. Si era autobattezzato Giovacchino Micca fu Pietro e fuSogno Clotilde, vedovo, muratore, con nascita nel luogo di Andorno Micca, patria diPietro Micca: così attestava la carta d’identità rilasciata dal commissario prefettizio delComune di Modigliana, in provincia di Grosseto, ben al di sotto della Linea gotica (peril vero esiste un Comune di Modigliana, ma situato in provincia di Forlì). Nell’ufficio diTrompetto, a Palazzo Ronco, si svolse la maggior parte delle riunioni del Cln biellese, ein quello stesso palazzo di via Mazzini, ove abitava Pella, ebbero luogo gli incontri quo-tidiani tra i due. Trompetto faceva parte inoltre (come attesta la documentazione uffi-ciale del Cln biellese del 29 maggio 1945) della Commissione economica del Cln, laquale doveva provvedere a raccogliere e poi a ripartire i contributi finanziari a sostegnodei partigiani e della lotta armata. In quelle circostanze Giuseppe Pella coadiuvò il Cln,e così in un memoriale ne dice lo stesso Trompetto: «Verso il Novembre [1944] Giu-seppe Pella ci fu di valido aiuto per stabilire una tassazione proporzionale ad ogni citta-dino di censo elevato per il bisogno dei partigiani», ed ancora: «Somme notevoli attra-verso il Comitato affluirono così in montagna inviate da noi settimanalmente»10.

9 Cfr. ISRSC BI-VC, fondo Alessandro Trompetto, b. 55.10 Purtroppo, in un cd dedicato a Pella in occasione del centenario della nascita (1902),

egli viene erroneamente detto “tesoriere del Cln”, il che è falso e non proviene dalla miaconsulenza storiografica.

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Frattanto, Trompetto e Pella ampliavano la rete dei collaboratori, pensando all’indo-mani di Biella. Oltre agli antichi amici, oltre ai sodali dell’Azione cattolica, impegnaronoBruno Blotto Baldo11, già popolare degli anni venti e coetaneo d’entrambi, ragioniere eindustriale in Biella, e un dirigente dei Cotonifici Poma, Pietro Sidro. Nei Cotonifici Pomaagiva il nucleo forte del sindacalismo bianco, con Nino Rapa, Francesco Colombo, Leo-nardo Forgnone, che era stato allievo di Pella alla scuola commerciale di Andorno. For-gnone, oggi sulla soglia dei 100 anni, avrebbe partecipato alle trattative e alla firma dellostorico Patto della montagna tra marzo e aprile 1945. Forze nuove si erano, infine, ag-gregate al movimento democratico-cristiano ed avrebbero costituito il gruppo dirigentecentrale nel biennio 1946-1948: come Silvio Mello Grand, allora Fratello delle Scuolecristiane, poi segretario particolare di Pella e deputato della Dc biellese nel 1958; Se-condino Bertola, della gioventù Dc e poi consigliere provinciale del collegio di Cavaglià;Lidia Lanza, presidente della Gioventù femminile di Azione cattolica e massima rappre-sentante per più di quarant’anni dell’impegno cattolico e democristiano al Comune diBiella, leader della corrente fanfaniana nella Dc biellese.

La Liberazione e le prime elezioni amministrative

E giunse finalmente il giorno della Liberazione. Quella sera, la notte, il giorno seguentefurono di grande festa, come ricorda anche don Antonio Ferraris in un articolo ne “IlBiellese” in occasione del 25 aprile 1975. A Biella s’insediò in municipio la “Giunta delCln”, guidata dal sindaco Virgilio Luisetti, il socialista della continuità tra il pre e il postfascismo, affiancato dagli assessori Domenico Bricarello e Pietro Sidro, democratico-cristiano. L’amministrazione provvisoria durò in carica un anno ed operò bene nell’emer-genza, come Pella sottolineerà all’indomani delle amministrative del ’46.

Il vero leader della Dc biellese - anzi, del Biellese - fu, dal 1945 al 1981, GiuseppePella. Il “grande gentiluomo” - così hanno descritto Pella i maggiori giornalisti italiani,così lo hanno conosciuto i biellesi in prima persona - era davvero un “uomo tutto d’unpezzo”. E non è retorica aggiungere che Giuseppe Pella nacque povero e non morì ricco.

Nella sua vita pubblica dimostrò sempre un alto senso dello Stato, della sacralitàdella “cosa pubblica”. Bruno Blotto Baldo raccontava che all’atto della nomina a sotto-segretario alle Finanze, Pella - per scrupolo morale e dovere civico - si dimise da oltrenovanta consigli di amministrazione, comitati esecutivi, consulenze aziendali. Tanto era“trasparente” l’uomo, che fu tra i pochissimi a querelare con ampia facoltà di proval’organo comunista “l’Unità” del 31 maggio 1953, che l’aveva elencato tra i parlamen-tari con incarichi di amministratore di società private; “Il Tempo” del 6 giugno davanotizia della querela e l’Ansa (Agenzia giornalistica nazionale) diffondeva una nota delMinistero del Tesoro con cui si precisava che «l’on. Pella - figura unanimemente notaper la sua onestà e probità - non appena chiamato a responsabilità di governo, e cioènell’ottobre 1946, lasciò immediatamente gli incarichi ricoperti».

Così, nel 1946 Giuseppe Pella rappresentava l’uomo nuovo per la maggioranza dei

11 Bruno Blotto Baldo aveva giurato il falso dinanzi al Tribunale speciale per la difesadello Stato per difendere un autorevole comunista dipendente della sua ditta.

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biellesi, l’ideale testimone di un moderato progressismo, capace di fare i conti con larealtà del momento guardando al futuro. L’autorevole giornale tedesco “Die Weltwo-che” avrebbe scritto, il 18 dicembre 1953, quando Pella era presidente del Consiglio,sotto il titolo “Giuseppe Pella ha fortuna”: «Egli, proviene, al pari di Pinay e di Laniel12,da una massa grigia ed ignota, al di sopra della quale si è elevato [...] per merito del suovalore e della sua cultura personale». La «massa grigia» del “Die Welt” era la nuova,nuovissima Italia, che all’indomani del fascismo, dell’emergenza e dello strazio delleguerre, voleva ad ogni costo darsi una propria normalità, con molta democrazia, il de-centramento, le autonomie locali. Riforme poi (e purtroppo) differite in tempi lunghi.

Dalla Dc biellese al Comune di Biella

Il proprio percorso pubblico Giuseppe Pella lo avviò tra l’inverno e la primavera del1946 come capolista dello scudo crociato alle elezioni comunali di Biella. Alle spalle avevala militanza giovanile nel Partito popolare di Sturzo, la frequentazione costante dell’Azionecattolica, la stima del vescovo Carlo Rossi, che lo appoggiava anche presso l’episcopatosubalpino. Un curriculum di tutto rispetto per l’elettorato cattolico e per larghe fasce dibiellesi. Si trattava dunque di una carriera che partiva dal basso, che si avviava appog-giata anche dal giornale “Il Biellese” - principe dei media di allora - per quanto senzaenfasi e a dosi calibrate.

Fin dagli anni venti Pella aveva collaborato a “Il Biellese”: rilevanti furono i suoi ar-ticoli del 1926 su “Imposta complementare e tassa di famiglia” (24 agosto 1926), ed idue sulla “Situazione finanziaria” dell’ottobre successivo. Dal 1946 al 1970 Pella sa-rebbe stato presente sul bisettimanale cattolico con una trentina di articoli. Ma alle pri-me mosse, Pella non ricorse a “Il Biellese” bensì - e con lo pseudonimo di “Max” - alsettimanale della Democrazia cristiana “Vita Biellese”, diretto dal sindacalista France-sco Colombo, ma dovuto quasi tutto alla penna di Silvio Mello Grand. Il settimanale, inedicola ogni martedì dal settembre 1945 al dicembre 1946 (poi sarebbe comparso comesupplemento de “Il Biellese” ogni due-tre mesi sino al 1948), si richiamava nel titolo algiornale dei democratico-cristiani di inizio Novecento di don Delfino Guelpa e don Ales-sandro Cantono. Ora, in “Vita Biellese” Pella-Max trattava della politica economica, del-l’industria laniera, dell’economia biellese; ed Alessandro Trompetto - a volte ancora conil nome di “Micca” - sviscerava le tematiche del territorio, a cominciare dalle grandiinfrastrutture di cui occorreva il Biellese per uscire dall’isolamento, sino alla diatribasulle nuove province, sulla Provincia di Biella, sulle autonomie comunali, sul ripristinodell’autonomia di Miagliano e Tavigliano, dal fascismo aggregati ad Andorno; mentre lacorrente sindacale cristiana (Csc)13, capeggiata da Francesco Colombo, portava avan-ti le rivendicazioni operaie.

12 Antoine Pinay (1893-1969), deputato radicale e poi indipendente all’Assemblea nazio-nale francese, fu presidente del Consiglio e ministro delle Finanze nel 1952. Joseph Laniel(1889-1975), deputato all’Assemblea nazionale fin dal 1932 come indipendente, succedette aPinay come presidente del Consiglio dal giugno 1952 al giugno 1953.

13 Nella Cgil unitaria la corrente cristiana (detta anche democratico-cristiana) contavanon più del 14-15% degli iscritti.

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La lista che Giuseppe Pella, contestualmente al programma, presentò il 24 marzo1946 ad un superaffollato Teatro Sociale era composta da una misurata rappresentanzadelle categorie sociali e dei rioni cittadini: il nucleo forte era costituito dal ceto medioimpiegatizio (comprensivo dei tecnici di fabbrica), in tutto 14 candidati su 40; seguiva-no 6 artigiani, 5 liberi professionisti, 4 operai, 4 commercianti, 2 contadini, 2 pubblicidipendenti, un industriale, un impresario, un dirigente d’azienda. Il programma dellaDc di Biella s’ispirava alle dieci proposizioni del programma nazionale, calato con fortespecializzazione nella realtà locale. Infatti il titolo dichiarava: “Per l’avvenire di Biella edel Biellese”. Dopo un’affermazione di principio sull’autonomia locale, il programmaaffermava la «funzione regionale di Biella», proponeva un moderno modello di finanzalocale (con prestiti fiduciari, tipo gli attuali “Boc”), indicava le iniziative concrete per laricostruzione e il rilancio edilizio, per la riattivazione di trasporti e comunicazioni e, in-sieme agli interventi di settore (agricoltura e artigianato, istruzione, istituti di assistenzae beneficenza) indicava la strada da seguire per venire incontro alle esigenze dei rioni edei “comuni associati”. A Giuseppe Pella seguì, nell’esposizione delle linee program-matiche della Dc, Lidia Lanza, con un intervento sul compito delle donne al Comune:un tema scottante, visto che per la prima volta nella storia nazionale le donne andavanoal voto. Un voto che si concluse in Biella con la vittoria della Dc, che, su 26.042 votivalidi, ne totalizzò 8.599 (e 13 consiglieri: Pella ebbe 3.212 voti di preferenza), seguitadai socialisti con 8.448 voti e 13 consiglieri, dai comunisti con 6.841 voti e 11 consi-glieri, e dai liberali con 2.052 voti e 3 consiglieri.

All’inizio di maggio s’insediò il nuovo Consiglio comunale. Giuseppe Pella - scrisseroi giornali - «tessé l’elogio della passata amministrazione [...] e in particolare del sindacoLuisetti», che egli ripropose. Luisetti ottenne 36 voti su 39 presenti. La giunta fu com-posta dal democristiano Pietro Sidro, vicesindaco, e dagli assessori Francesco Cane-paro (Dc), Pasquale Finotto e Mario Coda (sarebbe stato sindaco dopo Luisetti) delPci, Remo Lanza e Odetto Ramella Germanin socialisti. Supplenti furono nominati ildemocristiano Antonio Perona e il comunista Nello Poma.

Per quanto intensa nelle sedute di avvio, l’attività comunale di Giuseppe Pella sarebbestata molto breve. Nuove sfide incalzavano; già il calendario istituzionale annotava: «2Giugno 1946, referendum monarchia-repubblica, ed elezioni dell’Assemblea costituente».

La battaglia per la Costituente

Ci sono momenti nella storia in cui la vita si fa densa, i giorni e le settimane acqui-stano una “massa maggiore”. Ebbene, tale fu la fase politica che corse tra il marzo e ilgiugno del 1946: in quei novanta giorni nacque la “nuova Italia”. Cattolici e marxisti,con i rispettivi partiti, entrarono in massa nelle istituzioni democratiche, con la leadershipdi Alcide De Gasperi (Trento, 1881-1954), di Palmiro Togliatti (Genova, 1893 - Yalta,1964), di Pietro Nenni (Faenza, Ravenna, 1891 - Roma, 1980).

Indro Montanelli avrebbe ricordato De Gasperi come grande politico in quanto «menoitaliano di tutti»; meglio sarebbe però ricordarlo come il grande italiano più europeo ditutti. De Gasperi parlò a Biella due volte nel corso della sua vita. La prima nel 1925,ospite dell’aventiniano deputato popolare e sindaco di Chiavazza, on. Vittorio Buratti; laseconda, per le elezioni del ’48, in amicizia ed appoggio a Giuseppe Pella, che avevascelto come collaboratore primario per l’economia della ricostruzione.

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Quei mesi erano ancora travagliati dalla mancanza del pane quotidiano (i panettierireclamavano contro il razionamento delle farine), del riscaldamento (la legna ormai scar-seggiava a causa del disboscamento e il carbone arrivava irregolarmente e a piccoliquantitativi), dei disoccupati, delle vedove e degli orfani di guerra, dei mutilati e degliinvalidi (di guerra e civili). Tra quelle rovine, ovunque disseminate dal nazifascismo,Giuseppe Pella “alzò la mira” sul periglioso terreno dell’economia e toccò il cuore delproblema, che si chiamava a chiare lettere “inflazione e debito pubblico”, il fronte aper-to sulla cui linea la nazione o si rialzava o affogava.

Pella - studioso della crisi economica del primo dopoguerra con particolare riferimentoal caso tedesco - aveva chiara la prospettiva nel caso non si fosse intervenuti con ener-gia a salvare la capacità di acquisto della moneta e della base degli investimenti che, conle merci e i servizi, producevano occupazione. I temi connessi erano ben identificati, acominciare dal debito pubblico, di cui trattò a fondo nel settimanale democristiano “Vi-ta Biellese” tra aprile e maggio 1946, nel pieno della battaglia per la Costituente. Quegliarticoli furono ripresi da “Il Popolo Nuovo”, quotidiano della Democrazia cristianapiemontese, per rimbalzare dalla testata torinese all’Ansa e ad alcuni quotidiani nazio-nali.

L’analisi del tecnico e le proposte del politico culminarono nell’articolo (in “Vita Bielle-se” del 7 maggio 1946) con il quale Pella tracciava la sua “linea del fronte” per i cinqueanni a venire. «Prima dell’impostazione di un efficace programma di riassetto tributario,inesorabile apparirebbe all’orizzonte lo spettro dell’inflazione», ammoniva, rivolto sia adestra che a sinistra, dal momento che da entrambe le parti si pensava che il rimediodella riforma tributaria, in periodo di crisi galoppante, potesse risolvere i problemi dellacongiuntura. Per Pella invece la priorità della lotta era «l’inflazione [...] con tutte le tragicheconseguenze di ordine politico, economico e sociale». La storia gli avrebbe dato ragione,con la ricostruzione accelerata, il “miracolo economico” sul finire degli anni cinquanta,l’emblematico conferimento alla “liretta” italiana dell’Oscar della stabilità, del valore edel cambio.

I problemi sul tappeto non erano tuttavia solo quelli economici. C’erano armi na-scoste, che non venivano consegnate alle autorità, mentre sopravvivevano isole rivolu-zionarie di entrambi gli estremismi; già si delineava la contrapposizione tra il mondolibero e il totalitarismo sovietico e delle rispettive aree di influenza. Il tema prevalentedella cattolicità, della fede religiosa, era in quei mesi quello della pace. Dalle colonne di“Vita Biellese” lo celebrò con suggestiva levità “La riconquista ovvero la sera del villag-gio”, una poesia di Giulia Poma, che scandiva: Non più le sirene allarmanti/ ma giuo-chi, urla/ di bimbi, mentre serpeggia/ sorniona, ma senza burla,/ la Pace. Perché nonfosse una parola vana, o, peggio, il passepartout di nuovi imperialismi, di nuove ditta-ture, Pella la compose nel trinomio libertà-sicurezza-pace. Giuseppe Pella, fin dalla cam-pagna elettorale per la Costituente, puntò sull’alleanza organica del mondo libero, sulpatto di ferro dell’Occidente tra piccole e grandi, vecchie e nuove, democrazie, che poisarebbe diventato il Patto atlantico, la Nato.

In quel clima venne messa a punto la lista dei ventotto candidati della Dc per la Co-stituente. I biellesi erano Giuseppe Pella, commercialista, e Lidia Lanza, “lavoratricedell’abbigliamento”. Lidia Lanza era una delle tre donne democristiane della circoscrizio-ne Torino-Novara-Vercelli, con le torinesi Anna Rosa Gallesio, giornalista, e Maria Guerra,operaia.

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Monarchia o repubblica? Verso l’Assemblea costituente

Il traguardo del 2 giugno riguardava non solo le elezioni dell’Assemblea costituente,ma anche il referendum monarchia-repubblica.

Sul referendum i democratico-cristiani erano all’80 per cento a favore della repub-blica, ma si trattava pur sempre di una scelta di partito, sicché lo scudo crociato - chepuntava a un forte rassemblement democratico - si trovava nei rapporti con l’elettoratomoderato in più d’una difficoltà; perciò, anche nel Biellese, per quanto spirasse “ariarepubblicana”, la Dc non volle spingersi con la propaganda più di tanto in quella direzio-ne, sicché, dando per acquisita la scelta repubblicana, lasciò anche un po’ di spazio allatendenza monarchica, interpretata in Piemonte da Silvio Geuna (Chieri, Torino, 1909 -Torino, 1998), un vivace giornalista torinese - già comandante partigiano, scampatoper il rotto della cuffia alla fucilazione nazifascista del Martinetto, condannato all’erga-stolo - che percorse il Biellese in lungo e in largo e riuscì, anche come portatore delverbo monarchico, a farsi eleggere alla Costituente.

La campagna elettorale per la Costituente si rivelò per Giuseppe Pella tutt’altro chefacile, così seminata com’era di mine propagandistiche. Da destra, “Eco dell’Industria”,portavoce dei liberali, gli rimproverava di aver portato i socialcomunisti a Palazzo Oro-pa con l’avallo del biancofiore, mentre dall’altra i comunisti risfoderavano la questionedell’ex vicepodestà di Biella. Quanto alla collaborazione di Palazzo Oropa, la Dc pun-tualizzava che la partecipazione alla giunta Luisetti rispondeva al proposito di servire lacittà e, nello stesso tempo, alla volontà di controllare e ridurre lo strapotere delle sini-stre nell’amministrazione locale. Infatti, l’articolo che spiegava questa posizione in “VitaBiellese” del 14 maggio 1946, concludeva: «Se la nostra collaborazione contribuirà moltoa svestire l’amministrazione locale del colore politico, e se ci riuscisse in pieno a van-taggio di Biella, sarebbe quella davvero la vittoria democristiana».

Quanto agli attacchi personali al Pella ex vicepodestà, la Dc rispose con un manife-sto che accennava a particolari aspetti amministrativi della clandestinità, periodo in cuiPella aveva prestato una certa collaborazione con il Cln nella raccolta di finanziamenti.Egli fu accusato di essere il promotore del manifesto, ma non era così. Con il solitobon ton, buttando acqua sul fuoco, Pella prese posizione il 30 maggio 1946 dalla tribu-na del Teatro Sociale, dichiarando: «Fra le opposte tesi, di chi troppo mi vorrebbe attri-buire e di chi tutto mi vorrebbe negare, desidero precisare quale fu il modesto contri-buto a favore dei bisogni delle formazioni partigiane nel Biellese e altrove: 1) volentieridiedi la mia consulenza per l’elaborazione del piano organico di richiesta di aiuti finan-ziari, resasi necessaria per porre termine alle iniziative individuali; 2) nei privati e con-fidenziali contatti con numerose ditte ho svolto opportuna opera di persuasione perchéle richieste trovassero accoglienza: questa forma di collaborazione, ignorata dai più,perché ravvolta nel riserbo d’ufficio, ha raggiunto un elevato grado di efficacia; 3) nonmi son fatto tramite di alcun versamento, salvo la rimessa della somma d’un amico chenon poteva provvedere direttamente. Non potrei accettare altre versioni che ampliasse-ro la portata del mio intervento o tendessero ad annullarla»14. Pella riconfermò con una

14 “Vita Biellese”, 31 maggio 1946.

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lettera al Cln provinciale biellese di essere stato tenuto all’oscuro del bellicoso manife-sto degli amici di partito. A sua volta, il Cln - a firma dei partiti socialista, comunista,liberale, democristiano, azionista - gli indirizzava il 31 maggio un comunicato in cui sidichiarava: «Questo Cln è lieto di prendere atto della cortese Sua lettera in data odierna,e del contenuto di essa che corrisponde ad obbiettiva valutazione. Esprime l’unanimeconvinzione dell’essere stato Lei completamente estraneo sia al tenore che alla diffu-sione del manifesto in questione».

La campagna elettorale venne ancora movimentata dall’anticlericalismo, soprattut-to di marca azionista e socialista. Gli ultimi mortaretti nei «luoghi forti dei bianchi» cul-minarono nella gazzarra di Lessona, attizzata dal professore socialista Giulio Carletto incontraddittorio con il democristiano ingegner Ferraris. Ma un altro clamoroso contrad-dittorio già si era tenuto a Biella tra la trentenna sartina Lidia Lanza e Umberto Calosso,direttore del quotidiano socialista torinese “Sempre avanti!”. Stando ai giornali, LidiaLanza aveva avuto la meglio, e in modo brillante, nel dibattito.

E il 2 giugno nel Biellese fu “repubblica” al 67 per cento dei voti. Alla Costituente isocialisti raccolsero nel Biellese il 31 per cento dei voti, i democristiani il 29,8, i comunistiil 25,2, i liberali il 7, l’Uomo qualunque il 3,7 per cento. Gli altri si divisero il restante3,3 per cento. Nella gara, Giuseppe Pella andò ben oltre la capacità elettorale del Biel-lese, conquistando il quinto posto nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli con 25.632voti preferenziali. Con Pella, vennero eletti il comunista Francesco Moranino ed i so-cialisti Ernesto Carpano e Virgilio Luisetti. Un risultato di rappresentanza biellese ripe-tuto soltanto nel 1948. Tra i quattro, Giuseppe Pella sarebbe stato il secondo presidentedel Consiglio biellese (dopo l’ottocentesco Alfonso La Marmora) e il ministro di piùlunga carriera della storia biellese dal 1848 ad oggi.

A Roma: dalla Costituente al governo

Pochi giorni dopo il 2 giugno 1946, Giuseppe Pella raggiunse Roma. Erano ancoragiorni di tensione, per il passaggio all’istituzione repubblicana che segnava qualche dif-ficoltà nei rapporti tra il presidente provvisorio, Alcide De Gasperi, ed il “re di maggio”,Umberto II di Savoia. Gli italiani intanto dimostravano entusiasmo per il tempo nuovo,che si annunciava ricco di speranze. La solidarietà ciellenista ed antifascista era bensolida, tanto più che il Paese aveva riconquistato finalmente la piena sovranità. Qualchegiorno ancora e la Costituente avrebbe eletto il capo provvisorio dello Stato: Enrico DeNicola, uomo dell’ancien régime e d’ispirazione monarchica, giurista di fama e al disopra delle parti.

Nella capitale Pella prese alloggio in una modesta pensione e si dedicò subito all’at-tività parlamentare con gli amici di partito, soprattutto con coloro che aveva conosciu-to nel Partito popolare a Torino negli anni venti: Attilio Piccioni, fiorentino, vicesegre-tario nazionale della Dc; Giuseppe Cappi, cremonese, che succederà a De Gasperi comesegretario del partito; Giuseppe Rapelli, torinese, leader della corrente sindacale cristia-na; Pier Carlo Restagno, parlamentare e poi sindaco di Pompei; Giovanni Bovetti, de-putato di Ivrea.

Alle prime battute parlamentari, Giuseppe Pella si distinse per il ragionar pacato edocumentato nelle materie economiche. I tempi erano duri: l’inflazione galoppante bru-ciava le poche conquiste salariali, distruggeva il risparmio, comprimeva il reddito fisso.

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A ogni problema Pella propose una soluzione precisa, coerente con il disegno di aziona-re in modo adeguato la leva fiscale, di governare il sistema monetario, di ridurre il de-ficit del bilancio statale, secondo una politica economica inquadrata nel bilancio delloStato. La visione di Giuseppe Pella non era meramente teorica, ma neppure limitata-mente pragmatica; si trattava dell’applicazione pratica di una cultura dell’economia in-ternazionale e nazionale che egli aveva maturato nella ventennale esperienza di espertodelle conferenze internazionali laniere e di consulente del sistema industriale e commercia-le biellese, oltre che nel mai interrotto studio delle dottrine e delle scienze economiche.Ebbene, per l’elevata professionalità applicata ai problemi generali del momento, Pellafu nominato segretario della Commissione finanze e tesoro della Costituente, in cui fecematurare le sue idee per il risanamento economico, che aveva esposto - suscitando ilsorpreso interesse di molti - il 19 settembre 1946, con il suo primo intervento in aula anome del gruppo democristiano. In tale circostanza, si era dichiarato favorevole all’ap-plicazione di un’imposta patrimoniale straordinaria e di prelievi fiscali sui profitti di guer-ra, ed aveva enunciato i capisaldi della politica economica della ricostruzione.

Dopo alcune settimane, De Gasperi designò Giuseppe Pella sottosegretario alle Fi-nanze, il Ministero retto dal comunista Mauro Scoccimarro. Successivamente, Pella fusottosegretario al Tesoro con Luigi Einaudi, e poi ministro delle Finanze dal giugno 1947al maggio 1948, nel governo presieduto da De Gasperi, col sostegno di Dc, Pli, Uomoqualunque e di alcuni monarchici. In questi passaggi ministeriali Pella non forzò mai lamano; egli era presente con la sua competenza, pronto ad assumere gli incarichi neimomenti difficili. È il caso appunto della nomina a vice di Scoccimarro quando, il 20ottobre 1946, Salvatore Scoca, promosso avvocato generale dello Stato, passò la mano;e Pella, tre giorni dopo (il tempo di abbandonare tutti gli incarichi che ricopriva comeamministratore e consulente di circa novanta aziende) gli subentrò e organizzò conefficienza biellese il Ministero. Stessa situazione nel giugno 1947, alla nomina a mini-stro delle Finanze: Pella lo divenne in seconda battuta nei tempi di formazione del go-verno, quando si ristrutturarono i ministeri economici all’indomani del superministroEinaudi, e De Gasperi volle per l’incarico un uomo dal polso fermo ma dai modi e dallestrategie aperte al dialogo; e quell’uomo era Giuseppe Pella.

Cinque anni dopo, ne “L’Eco di Biella” dell’agosto 1953, in occasione dell’investi-tura di Pella a presidente del Consiglio, Germano Caselli avrebbe commentato: «Pella ènuovo [...] il suo linguaggio ha superato di colpo 70 anni di retorica parlamentare perrifarsi alla tradizione dei padri [...] del Parlamento subalpino».

Impegnato nell’attività di governo, Pella non poté svolgere un ruolo di primo pianoall’Assemblea costituente, ove i suoi oltre duecento interventi furono dettati dall’attivitàdi governo, per esporne i provvedimenti e per rispondere ad interrogazioni ed interpel-lanze. Il parlamentare biellese tuttavia si adoprò presso i membri della seconda sottocom-missione dei settantacinque, allo scopo di introdurre nel testo costituzionale il principiosecondo cui - cfr. art. 81 della Costituzione - «(Comma 3) Con la legge di approvazio-ne del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. (Comma 4) Ognialtra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte».

Negli anni dell’emergenza, quando l’economia di guerra continuava a proiettare l’om-bra gelida e lunga delle devastazioni, della disoccupazione, dell’inflazione, della svalutazio-ne, del disordine pubblico, della minaccia rivoluzionaria, dei sospetti per eventuali “proto-colli coperti” delle intese di Yalta tra le grandi potenze, Giuseppe Pella sviluppò con Luigi

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Einaudi il disegno che avrebbe portato al “miracolo economico italiano”. Il suo nomesarebbe rimasto legato alla “frontiera” della ricostruzione e del perseguimento della stabi-lità monetaria. La strada non fu facile, percorsa anche tra continui conflitti sociali: bastaricordare lo slogan lanciato dopo l’uccisione di scioperanti avvenuta a Modena in unamanifestazione di piazza, che scandiva «Pella li fa (i disoccupati), e Scelba li ammazza».

Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri

Attuata la ricostruzione e all’indomani della sconfitta elettorale del 1953, che misein crisi il centrismo quadripartito, Giuseppe Pella divenne presidente del Consiglio di ungoverno monocolore democristiano; un governo di emergenza, anche definito governotecnico. Quel governo ottenne, non concordata e senza condizioni, l’astensione dei mo-narchici, forti dei voti strappati alla Dc alle elezioni del giugno 1953. Il “governo tecni-co” dovette però affrontare subito il nodo politico della cosiddetta crisi di Trieste, perbloccare le pretese di espansione territoriale del presidente jugoslavo Josip Broz Tito.Con fermezza, Pella costrinse gli alleati occidentali (Usa, Francia, Gran Bretagna) adonorare le intese del 1948 per la restituzione del Territorio libero di Trieste all’Italia. Indicembre, per una controversia nella sostituzione del ministro dell’Agricoltura nel cor-so della quale egli sostenne il principio dell’autonomia del presidente del Consiglio nellascelta dei ministri, Pella passò la mano.

Dopo un fallito tentativo di Fanfani, Mario Scelba compose un governo centrista,che avrebbe festeggiato, senza merito, il ritorno di Trieste all’Italia. Quello di seminareperché gli altri raccogliessero fu anche destino del Pella anticipatore e lavoratore: sa-rebbe stato così per l’Europa, allorché i Patti di Roma, che avrebbero avviato il Merca-to europeo comune, sarebbero stati sottoscritti dal liberale Gaetano Martino, ministroda pochi mesi; sarebbe stato così quando la lira avrebbe ottenuto l’Oscar delle moneteper la stabilità del suo potere di acquisto e di scambio e sarebbe esploso il miracoloeconomico che avrebbe portato al centrosinistra; sarebbe stato ancora così per le ri-forme fiscali dei primi anni settanta, da Pella avviate nel suo ultimo incarico ministerialealle Finanze nei primi due governi Andreotti.

Degli anni cinquanta e di Pella ministro della ricostruzione sono da ricordare, oltrei notevoli risultati, la sua determinatezza non solo nella lotta contro l’inflazione, ma anchecontro le ingerenze americane nella politica economica italiana: è nota agli specialisti la“questione del rapporto Hoffmann” con cui gli Usa volevano imporre i tempi e i modidell’impiego dei loro aiuti (il Piano Marshall) in funzione del loro commercio estero pri-ma che della rinascita italiana. Un altro braccio di ferro ebbe a compierlo quando, scop-piata la guerra di Corea (1950-1953), si oppose decisamente all’aumento delle spesemilitari italiane che avrebbero squilibrato la sua impostazione di bilancio in una delicatafase della ricostruzione. Egualmente è giusto riconoscere a Pella la costante fedeltà aduna linea di anticomunismo dottrinario e politico da cui non demorderà nel corso dellasua lunga attività politica, senza peraltro nulla concedere a fruste forme plateali e pro-pagandistiche. La sua era un’alternativa di libertà, prima ancora che economica, politi-ca, senza pregiudizi per il confronto civile che la stessa democrazia parlamentare pre-supponeva.

Questa linea di autonomia dai condizionamenti si ritrova ancora nella politica esteradi cui fu protagonista, oltre che nei mesi del suo breve governo, anche quale ministro

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degli Esteri nei governi Zoli (1957-1958) e Segni II (1959-1960), una linea poi definita“neoatlantismo”, che rivendicava ai singoli paesi l’autonomia di elaborare proprie “po-litiche regionali” nell’ambito dell’alleanza occidentale. Su quel terreno possono consi-derarsi: a) i rapporti intessuti con la Turchia (1953) e con l’Iran (1957), ai quali l’Eni diMattei riconobbe il 75 per cento dei proventi della vendita del greggio, sfidando le co-siddette sette sorelle, ossia le oligopolistiche società che allora dominavano il mercatomondiale; b) l’elaborazione del cosiddetto Piano per gli aiuti economici all’area medio-rientale; c) il viaggio in Russia nel febbraio del 1960 con il presidente Giovanni Gron-chi, nell’intento di avviare per parte italiana i primi passi della distensione.

Ancora nel 1960-62, ministro del Bilancio con Amintore Fanfani, presidente di ungoverno centrista, Giuseppe Pella lasciò significative impronte di originalità: aprì il di-scorso sulle procedure di attuazione dei programmi economici, inaugurò le “consulta-zioni triangolari” (governo, sindacati, industriali), presentò un progetto di legge per di-sciplinare il finanziamento dei partiti.

Poi, non condividendo la linea del centrosinistra, in quanto convinto della possibileprosecuzione del centrismo pur con talune innovazioni, Pella non accettò più incarichidi governo e si dedicò intensamente all’attività di partito, fondò e diresse il settimanalepolitico “Domani” e si impegnò a fondo nel rappresentare le istanze del Piemonte.

A Torino, dopo aver presieduto le celebrazioni del primo centenario dell’Unità d’Ita-lia, fondò “Piemonte-Italia”, un organismo di studi di programmazione economico-territoriale, inteso a promuovere le iniziative subalpine presso i poteri centrali dello Sta-to; riunì periodicamente il “Gruppo dei parlamentari piemontesi”; seguì a Biella la crisitessile, avviando studi e incontri, che sarebbero culminati nella “legge tessile” del 1970;promosse l’istituzione della Città degli Studi; e, ancora, a Roma presiedette la “Famijapiemunteisa”.

Lo studioso della contabilità nazionale

Pella in quegli anni fu costantemente attivo sul piano culturale, dell’economia, dellamilitanza cattolica. Professore di Contabilità nazionale nelle università di Palermo, Par-ma, Torino, Roma, contribuì allo sviluppo della disciplina come presidente dell’Iscona(Istituto per la Contabilità nazionale), che aveva fondato nella seconda metà degli annicinquanta allo scopo di promuovere, stimolare, sviluppare studi e ricerche «intorno alladefinizione e misurazione del reddito nazionale, inteso nei suoi tre fondamentali mo-menti della produzione, della distribuzione e impiego delle risorse»15. Pella resse la pre-sidenza dell’Iscona dalla fine del 1957 al 1981. A quel filone di studi aveva già ispiratol’attività di governo fin dal 1949, fino alla presentazione al parlamento il 30 gennaio1951 della Relazione generale sulla situazione economica del Paese, nella qualità di mi-nistro economico. Infine, è degli anni settanta l’assunzione della presidenza dell’Ania(Associazione nazionale imprese assicuratrici) e di altri incarichi economici anche diportata internazionale.

15 GAETANO ESPOSITO - LAURA ESPOSITO, Nascita e sviluppo della contabilità nazionalein Italia, in G. ESPOSITO (a cura di), Contabilità nazionale, finanza pubblica e attività dicontrollo, Roma, Iscona, 2007.

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Nel 1968 Pella era passato dalla Camera dei deputati (ove rappresentava fin dal 1946la circoscrizione Torino-Novara-Vercelli, sempre eletto al primo posto) al collegio se-natoriale di Mondovì, in successione a Giovanni Battista Bertone. Il suo trentennale im-pegno parlamentare si concluse nel 1976. in seguito a brevissima malattia, GiuseppePella morì a Roma il 31 maggio 1981. Dopo i solenni funerali celebrati nel Duomo diBiella, la sua salma fu tumulata a Valdengo nella cappella di famiglia.

Altre fonti bibliografiche:MARCO NEIRETTI, Giuseppe Pella, in FRANCESCO TRANIELLO - GIORGIO CAMPANINI (a cura di),Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento 1980-1995, Genova, Mariet-ti, 1997.MARCO NEIRETTI, Giuseppe Pella. Dal Partito popolare all’Assemblea costituente, Biella,Sandro Maria Rosso, 1986.MARCO NEIRETTI (a cura di), Giuseppe Pella. Attualità del pensiero economico e politico,Atti del Convegno di studi nel centenario della nascita, Biella, Sandro Maria Rosso, 2004.Con relazioni di Francesco Traniello, Francesco Malgeri, Alberto Cova, Piero Barucci, Dio-mede Ivone.GABRIELLA FANELLO MARCUCCI, Giuseppe Pella, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.

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Ernesto Carpano Maglioli nacque a Biella il 16 febbraio 1887 da Antonio e GiacintaBorello. Il padre era originario della frazione Carpano di Bioglio ed era titolare di unacelebre drogheria situata in via Umberto (ora via Italia); insegna tuttora esistente, an-che se trasferita e non più da tempo di proprietà della famiglia Carpano.

Iscrittosi a Giurisprudenza a Roma, si laureò colà e iniziò l’attività forense in unostudio di Torino specializzato in diritto civile; presto tuttavia si dedicò al diritto penale,più consono alla sua sensibilità e al suo temperamento. Nel 1920 si iscrisse al Psi. Nel1922 aderì alla corrente socialista moderata guidata da Turati e uscì con essa dal parti-to rimasto ai massimalisti, facendo parte del nuovo Partito socialista unitario, insiemead altri socialisti biellesi, tra i quali i deputati Rinaldo Rigola e Umberto Savio, VirgilioLuisetti, già direttore del “Corriere Biellese”, organo della locale federazione, Remo Lanzae Federico Grosso, con i quali fonderà il nuovo settimanale del Psu “Il Biellese socialista”,che durò otto mesi. In quel periodo le organizzazioni socialiste biellesi erano sconvoltedalle violenze e private delle sedi; la Casa del popolo venne illegalmente occupata daifascisti e purtroppo non ritornò più alle organizzazioni politiche progressiste, neppuredopo la caduta del fascismo: in quei locali in via Mazzini si insediò invece l’omonimasala cinematografica.

Dal novembre 1922 la sezione di Biella del Psu fu ospitata nello studio legale Carpa-no-Savio. Chiuso “Il Biellese socialista”, il 4 dicembre 1924 i socialisti unitari biellesinon si arresero, ed uscirono con un nuovo settimanale, “Il lavoro”, diretto da Rigola. Ilperiodico ebbe vita stentata tra censure e sequestri ordinati dalla sottoprefettura; i re-dattori rispondevano con edizioni emendate, riportando citazioni celebri, esaltanti la li-bertà, di Mazzini, De Amicis e di altri, tutti intoccabili anche per il regime, che andavaimponendosi soffocando ogni dibattito e la libera stampa.

Il giornale fascista locale, “Il Popolo Biellese”, cercò di infangare i leader socialistichiamandoli «succhiatori del proletariato» e squadracce nere danneggiarono lo studiolegale Carpano-Savio. Nell’ottobre 1925 il giornale uscì con un fondo critico in occa-sione del primo anniversario della marcia su Roma. Quella voce libera non era ormaipiù tollerabile e “Il lavoro” fu definitivamente soppresso. In quegli anni Carpano presiede-va l’amministrazione dell’Ospedale di Biella e, come supplemento de “Il lavoro”, pub-blicava un foglio, “L’Ospedale”, che pure cessò le pubblicazioni quando fu costretto alasciare la presidenza del nosocomio. Nel 1924 si coniugò con Dina Antonelli, da cuinon ebbe discendenza.

Virgilio Luisetti era di due anni più giovane di Carpano, essendo nato il 2 dicembre1889 a Campiglia Cervo, dove il padre era vetturale, cioè conducente di carrozza; eraun valët1 di nascita, ma anche di elezione. Infatti fu per tutta la vita molto legato senti-mentalmente all’alta valle Cervo, dove si recava di frequente per incontrare amici e com-pagni e partecipare a riunioni politiche e conviviali.

Ernesto Carpano Maglioli e Virgilio Luisetti

1 Il termine dialettale valët sta ad indicare l’abitante dell’alta valle Cervo (ndr).

Gustavo Buratti

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A differenza di Carpano, il giovane Virgilio ebbe una formazione cristiana, pur rima-nendo fieramente laico; nei suoi discorsi politici si sarebbero sempre riscontrati, in ef-fetti, accenti di fraternità evangelica. Giovanissimo, si dedicò alla politica: a 13 anni fufermato dalla polizia a Borriana in quanto venditore non autorizzato del periodico con-tadino socialista “Il seme”, e fu per questo ammonito dalla procura. Attivo nei circoligiovanili socialisti, nel 1904 prese parte al Congresso circondariale socialista tenutosi aCossato e nel giugno 1905 fu militante impegnato nella campagna elettorale manda-mentale e comunale; l’anno successivo divenne dirigente della Federazione giovanilesocialista che aveva contribuito a fondare. Tipografo, a differenza di Carpano, fu auto-didatta, ma ciò non gli impedì di essere un prezioso collaboratore del “Corriere Bielle-se” e di aver successo nei pubblici comizi.

Come Carpano, militò nella corrente di “destra”, moderata, all’interno del partito.Nel 1912, quando al Congresso nazionale di Reggio Emilia prevalse la corrente rivolu-zionaria di Mussolini, egli era un esponente della minoranza guidata da Rinaldo Rigola.Il nuovo direttore del “Corriere Biellese”, Riccardo Momigliano, lasciò una nota signi-ficativa riguardante il suo giovane collaboratore: «Difficilmente, nel lavoro non faciledei nostri giornali proletari, mi sono incontrato con un collaboratore dalla vena fluida elimpida quale era Luisetti. Tante volte lo osservavo quando, senza sentirsi disturbatodai rumori e dalle voci della tipografia, lasciava scorrere la penna sulle cartelle che siammucchiavano sul tavolo, e non aveva mai quelle incertezze e quei pentimenti checolgono sempre coloro che scrivono, tanto più quelli che, come Luisetti, hanno fre-quentato per breve tempo le scuole e si sono formati da sé [...] Era sempre la volente-rosa riserva del lavoro di redazione. Quando all’ultimo momento mancava il materialeper il giornale, egli senza farsi pregare si metteva al tavolo e sviluppava note polemiche,spunti di cronaca, e faceva tutto di getto, talvolta addirittura improvvisando al compo-sitoio, senza prima aver dato forma sulla carta alle idee».

Nelle elezioni politiche del 1913 Luisetti fu l’outsider che stupì tutti per il successoriportato. Nel mandamento di Cavaglià riuscì a battere, come candidato al consiglioprovinciale, l’avvocato Barbisio, direttore de “Il Risveglio-L’Eco dell’Industria”, e fucosì il più giovane consigliere. Nelle stesse elezioni riuscì pure eletto nella minoranza alconsiglio comunale di Biella. Nel 1920 portò il Partito socialista alla vittoria nel Comunedi Biella e a soli 31 anni fu eletto sindaco. Ma soltanto due anni dopo l’intero consigliocomunale fu costretto a dimettersi in seguito alle pressioni ed intimidazioni fasciste; ecosì pure il suo programma di riforme a favore delle classi meno abbienti, impostatosoprattutto sulla costruzione di case popolari, ebbe soltanto una parziale attuazione.Come abbiamo già detto, nel 1922, in seguito all’espulsione della corrente moderata dalpartito, Luisetti, come Carpano, seguì Turati nella costituzione del Partito socialistaunitario. Poco prima della marcia su Roma, Luisetti fu direttore del nuovo “Il Biellesesocialista”, che dovette chiudere dopo ventotto numeri. In seguito all’assassinio di Gia-como Matteotti, fu uno dei promotori del convegno clandestino tenutosi a Chiavazza.Come già detto, un nuovo periodico, “Il lavoro”, rimpiazzò il giornale soppresso; uscìsino al 1925, quando tutta la stampa libera dovette cessare.

Durante il fascismo, Carpano e Luisetti si mantennero ben saldi nei loro ideali eparteciparono costantemente all’attività clandestina socialista, unitamente ad AlfonsoOgliaro, Innocente Porrone, Renato Martorelli ed altri. Fin dal 1927 Carpano aveva sta-bilito rapporti con la concentrazione antifascista di Parigi, partecipando anche a qual-

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che riunione. Soltanto quattro avvocati (Umberto Luigi Ronco, Alessandro Jona, Ales-sandro Verdoia e, appunto, Carpano) non si iscrissero al Pnf. Anche Luisetti mantene-va frequenti contatti con il fuoruscitismo politico; grazie al suo lavoro di tipografo, facevaanche frequenti viaggi d’affari all’estero, mantenendo i collegamenti tra gli oppositoridel Biellese, del Vercellese e del Torinese.

Nel 1942 si costituì a Biella il Fronte nazionale della Libertà tra i vari partiti antifasci-sti; Carpano e Luisetti furono tra i vari promotori. Il 25 luglio 1943, con la caduta diMussolini e la proclamata fine del regime fascista, Luisetti, ultimo primo cittadino libe-ramente eletto prima del fascismo, fu acclamato sindaco. Dopo l’8 settembre e la na-scita della Repubblica sociale italiana, strumento dei nazisti, Carpano divenne latitante eLuisetti, con il sorgere dei primi Cln, fu il rappresentante socialista in seno al localecomitato e l’animatore del lavoro di riorganizzazione del Partito socialista. Nel 1944divenne segretario della Federazione regionale del Psi. Nella primavera di quell’annoriuscì a sfuggire all’arresto ordinato dai tedeschi in seguito alla rappresaglia per l’ucci-sione a Biella di un ufficiale delle Ss. Da allora si rifugiò in incognito a Torino, conti-nuando a dedicarsi alla riorganizzazione clandestina del partito. Condivise il rifugio to-rinese con Luigi Carmagnola, cambiò identità anagrafica e fu noto nella Resistenza conil nome di battaglia di “Felice”. Rischiò ancora di essere arrestato quando la polizia entrònella sua tipografia a Torino, dove clandestinamente si stampava l’“Avanti!”, e se lacavò d’astuzia, ingannando il commissario che lo interrogava. Fin dal marzo 1944 ela-borò la prima circolare d’intesa tra socialisti e comunisti in vista dell’insurrezione ge-nerale prevista a Torino; del ristretto gruppo esecutivo socialista, con Luisetti c’eranoFilippo Acciarini, Filippo Amedeo, Pier Luigi e Mario Passoni, Renato Martorelli, Al-fonso Ogliaro, Domenico Chiaramello, Luigi Chignoli, Luigi Carmagnola.

Carpano, prima di darsi alla latitanza, nei quarantacinque giorni tra il 25 luglio e l’8settembre, fu richiamato a presiedere l’amministrazione dell’Ospedale di Biella. Quan-do il Comando provinciale militare repubblicano di Vercelli rivolse a tutti gli ufficiali incongedo l’invito a prestare giuramento alla Rsi a pena di severe rappresaglie, Carpano,quale capitano in congedo, chiese indicazioni alla Federazione socialista che, in data 20marzo 1944, a firma Virgilio Luisetti e Federico Grosso, quali membri del Comitatoesecutivo, gli rispose di eseguire quella formalità per non abbandonare la località diresidenza e la professione, in quanto utili ai compagni. Nella campagna elettorale del1946 alcuni espulsi dal Psi tentarono di denigrare Carpano rinfacciandogli di aver giu-rato alla Rsi, ma il “Corriere Biellese” replicò indignato, pubblicando la documentazioneche discolpava completamente l’esponente socialista.

Dopo la Liberazione, quale riconoscimento dei suoi meriti, Carpano venne designa-to dal Cln regionale ad assumere la presidenza della Provincia di Vercelli, ma chiese diessere esonerato per dedicarsi interamente alla riorganizzazione del Psi. Nel 1945 ac-compagnò l’onorevole Dino Rondani, bandiera del socialismo biellese, tornato dall’esi-lio, per un giro di conferenze nella terra che l’aveva eletto deputato nel periodo prefa-scista; insieme a Virgilio Luisetti era stato uno dei suoi antichi allievi.

Dopo il 25 aprile, anche Luisetti poté finalmente tornare alla sua famiglia; il Cln loreinsediò alla carica di sindaco di Biella. Luisetti mantenne l’incarico di condirettore del’“Avanti!” piemontese, con Umberto Grosso, ma tornò pure ad occuparsi del rinatosuo vecchio giornale, il “Corriere Biellese”. Le elezioni amministrative del maggio 1946lo riconfermarono con amplissimo suffragio nella carica di sindaco; Carpano fu eletto

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consigliere comunale e si occupò in primo luogo della crisi delle abitazioni, battendosiaffinché gli imprenditori provvedessero a fornirne di adeguate ai propri lavoratori.

La Costituente

Nel giugno 1946 Carpano e Luisetti furono candidati alla Costituente ed eletti, con-fortati da ampio suffragio: Luisetti con 27.509 voti preferenziali e Carpano, a ruota,con 27.207.

Aveva destato scalpore la difesa, cui Carpano era stato designato d’ufficio, in alcu-ne cause all’Assise straordinaria a carico di ex fascisti; in particolare, ottenne l’assolu-zione dell’industriale Ernesto Porrino, imputato di collaborazionismo, anche grazie allatestimonianza a suo favore di partigiani. Questa sua attività professionale, autorizzatadal partito, gli procurò ancora una volta ingenerosi attacchi.

Nei lavori della Costituente i due parlamentari biellesi svolsero compiti differenti: lacompetenza giuridica di Carpano lo vide particolarmente impegnato nella discussionedegli articoli riguardanti il parlamento, il capo dello Stato, il governo e la magistratura;lamentava i poteri limitati che ai sensi del Rdl 16 marzo 1946 erano attribuiti all’Assem-blea, e si batté per limitare i poteri dell’esecutivo, rafforzando invece quelli del parla-mento, opponendosi ad ogni accenno di concessione a tesi presidenzialiste.

Il 19 febbraio 1947 lasciò l’incarico di componente della giunta per le elezioni perassumere quello di sottosegretario all’Interno (nomina del 6 febbraio 1947).

Luisetti invece fu meno impegnato di Carpano nella elaborazione del testo costitu-zionale, intervenendo soltanto su questioni amministrative più vicine alla sua esperienzain quel campo.

Al ritorno dal suo viaggio negli Stati Uniti nel gennaio 1947, De Gasperi dimissionòla compagine ministeriale; Carpano fu nominato sottosegretario all’Interno, ma nel mag-gio successivo si aggravò la crisi governativa; del quarto governo De Gasperi, centri-sta, non fecero più parte né comunisti né socialisti e Carpano cessò la sua funzione disottosegretario. Si era aggravata nel frattempo la crisi socialista del dopoguerra: un au-tentico dramma per Luisetti e Carpano, entrambi di tradizione moderata, nel solco del-l’eredità turatiana, eppur sensibili all’unità di azione con i comunisti, forgiata durantegli anni della clandestinità antifascista e della Resistenza.

Nel XXIV Congresso (Firenze, aprile 1946) si delinearono le correnti interne; Lui-setti si schierò con la minoranza di “Critica sociale”, saragattiana. Al XXV Congresso(Roma, gennaio 1947) si scontrarono le tre correnti facenti capo a Nenni, “Iniziativasocialista” (Saragat) e “Sinistra”. Carpano non si risparmiò nel tentare di scongiurare ledivisioni e nel difendere in buona fede l’unità d’azione con il Pci. “Iniziativa socialista”uscì dal partito fondando il Psli, ma Carpano e Luisetti rimasero nel vecchio Psiup.Luisetti fu promotore con Ignazio Silone della rivista “Europa socialista” e firmò, conIvan Matteo Lombardo e Luigi Carmagnola, una lettera alla segreteria di Lelio Basso,frontista, per rivendicare l’autonomia dello Psiup, cosa che causò il suo deferimento aiprobiviri e le dimissioni da tutte le cariche in seno al partito, compresa la direzione del“Corriere Biellese” e l’incarico di sindaco di Biella.

Carpano e Luisetti furono comunque ancora candidati alle elezioni del 18 aprile 1948,e furono entrambi eletti: il primo alla Camera e il secondo al Senato. La campagna elet-torale fu funestata dalle violente contrapposizioni con i socialdemocratici e molto ama-

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ra per Luisetti che, con il suo maestro di sempre, Rinaldo Rigola, ed altri compagni dicorrente, come l’amico Luigi Carmagnola, si era dimesso, costituendo i gruppi di “Unitàsocialista”, poi confluiti nel Psli.

La mancata vittoria del Fronte popolare accrebbe la crisi nel Psi dal quale si allonta-narono ad uno ad uno i compagni che avevano rappresentato la corrente turatiana di“Critica sociale”; Felice Grosso già nel 1947 e poi quelli che seguirono le antiche ban-diere del socialismo biellese, Rinaldo Rigola e l’anziano Dino Rondani. La corrispon-denza personale di Carpano (in particolare con l’amico e compagno Umberto Zaninet-ti) documenta il disorientamento della base e il suo impegno a chiarire, incoraggiare,esortare i compagni che mal sopportavano le scissioni, ma pure il patto d’unione con ilPci. Era inoltre affaticato e malato, tanto da non poter prendere parte ai lavori dellaCamera sino all’ottobre.

Nel Congresso del Psi biellese del 24-25 aprile 1949, che precedette il XXVIII Con-gresso nazionale a Firenze, Luisetti fece la sua ultima battaglia autonomista nel partito,come esponente della corrente “Per il Socialismo”, contraria al mantenimento del pattod’azione con i comunisti. In Carpano prevalse invece la preoccupazione di salvare, neldisastro elettorale, l’unità dei lavoratori, e con Mombello guidò invece la corrente favo-revole al patto con il Pci. Luisetti risultò perdente.

Nel novembre, anche Luisetti ritenne incomprensibile la sua permanenza nel vec-chio partito e aderì al Psu di Romita, unitamente ai biellesi Franco Novaretti, OttavioCapra ed altri. Si chiudeva quindi dolorosamente un sodalizio, quello tra Carpano e Lui-setti, nato sin dai tempi della loro giovinezza e della strenua resistenza al fascismo.

Carpano riprese il suo posto alla Camera per condurre ancora numerose battaglie:ripetute furono le polemiche contro il ministro dell’Interno Scelba e i suoi interventisull’ordine pubblico. Il 9 marzo 1949 prese la parola sulla modifica della legge di Pub-blica sicurezza, contro gli emendamenti Scelba tendenti ad aumentare i poteri di con-trollo della polizia circa le attività dei partiti e delle organizzazioni; ottenne che il disegnodi legge fosse rinviato alla commissione. Stigmatizzò l’operato del governo, che pone-va praticamente sullo stesso piano l’occupazione dei contadini senza pane dei latifondie l’azione di difesa contro il neofascismo, protestando contro il divieto, in palese viola-zione della Costituzione, di tenere comizi e cortei.

Nella seduta della Camera del 20 giugno 1951 Carpano fu relatore di minoranza nelladiscussione in aula sul disegno di legge sulla difesa civile, che definì «difesa incivile»,in quanto «costituiva una lesione delle libertà singole e collettive, e consentiva qualsiasiarbitrio attraverso la discrezionalità del potere esecutivo». Fu strenuo arbitro difensoredel proporzionalismo e fu quindi contrario al Dl del 7 gennaio 1946 che introduceva ilsistema di apparentamento e il premio di maggioranza, con la conseguenza di falsare lerappresentanze elette, rendendole artificiose, in spregio alla volontà degli elettori. Ildecreto non venne approvato.

Nel 1952 si fece tesa la polemica sulla nuova legge elettorale proposta dalla maggio-ranza centrista per le elezioni politiche. Carpano fu in prima linea nella violenta campa-gna contro la “legge truffa”; il gruppo socialista gli affidò la presentazione dell’ordinedel giorno nel dibattito svoltosi il 20 dicembre 1952, in cui concluse l’intervento affer-mando: «Noi vogliamo un’onesta consultazione elettorale; uomini liberi, vogliamo libe-re elezioni». Il 18 gennaio 1953, nella dichiarazione di voto contro la “legge rubaseggi”,dava sfogo alla polemica che accomunava tutta la sinistra: «Con questa legge si ingan-

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na la democrazia e si risolve una vera truffa, fate un gioco sleale con il quale sperate dicontinuare a spadroneggiare il Paese».

Luisetti affaticato e malato, da laico coerente qual era, convinto che la sfera religio-sa dovesse essere separata da quella pubblica, non volle presenziare a Biella alla ceri-monia in onore della Madonna d’Oropa. Fu questa l’occasione per il consiglio comu-nale di accettare le sue dimissioni da sindaco, in un primo tempo respinte. Alle elezioniamministrative del 1951 il Comune di Biella fu conquistato dai moderati: si insediavacosì una giunta democristiana-liberale; Luisetti fu rieletto ma prese posto nei banchidella minoranza. Da anni sofferente per una grave malattia cardiaca, costretto a lunghiperiodi di inattività anche nei lavori parlamentari, morì a Biella il 30 gennaio 1952. AllaCamera, l’onorevole Carpano tenne una commossa commemorazione dell’antico com-pagno, ormai schierato diversamente.

Alle elezioni del 7 giugno 1953 Carpano fu candidato al Senato nel collegio di Biella:la sua fu soltanto una candidatura di bandiera, in un collegio difficile, e pertanto nonvenne rieletto. Ancora consigliere comunale di Biella, ridusse l’attività politica, ma con-tinuò assiduamente la collaborazione con il “Corriere Biellese” con la rubrica “Note daRoma”. Il suo ultimo intervento (9 giugno 1955) fu per sostenere la Provincia di Biella.Poco dopo morì (17 agosto 1955). Un suo antico avversario politico, l’avvocato Ca-millo Ronco, liberale, ne ricordava la straordinaria umanità, come quando, nel 1945,aveva preso la difesa di colleghi fascisti convocati alla Corte d’assise straordinaria, innome del principio secondo cui «la società umana non si salva con sterili rancori, masoltanto con l’equilibrio e la bontà», e ne aveva richiesto l’assoluzione, «perché noncostituisce colpa il professare una dottrina diversa dalla nostra».

Carpano e Luisetti furono accomunati nella lotta per la democrazia e per il riscattodelle classi popolari e, pure se alla fine il loro cammino li condusse a scelte diverse,vissero entrambi il dramma della crisi del socialismo: nell’uno, Carpano, prevalse la fe-deltà al vecchio partito e l’esigenza di salvarne l’unità, e la solidarietà con le forze so-ciali che avevano guidato la resistenza al fascismo; nell’altro, Luisetti, fu invece preva-lente la preoccupazione di affermare l’autonomia del socialismo, evitando ogni commi-stione con i comunisti rimasti nell’orbita sovietica.

Entrambi rimangono pregnanti testimonianze del socialismo più genuino, avversoad ogni tentazione presidenzialista od anche soltanto personalistica, contrario ad ogniiniziativa che costituisca lesione per i principi della democrazia radicale, della laicità delloStato e che implichi lo stravolgimento della volontà degli elettori e contrario quindi aleggi elettorali che comportino il sacrificio delle minoranze e l’aumento del potere dellemaggioranze.

Una nobile eredità rimasta purtroppo giacente, che il rampante socialismo craxianonon seppe, purtroppo, onorare.

Per maggiori notizie biografiche e bibliografiche si rimanda alle voci Ernesto Carpano Ma-glioli (di Gustavo Buratti) e Virgilio Luisetti (di Caterina Simiand), in MARCO NEIRETTI (acura di), All’alba della Repubblica Italiana, Biella, Fondazione cassa di Risparmio, 2006.

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Può sembrare sorprendente, ma questo saggio più che riguardare la figura dei padricostituenti comunisti biellesi e il loro apporto ai lavori per la redazione della Carta costi-tuzionale, dovrebbe avere come oggetto l’analisi del perché queste tre figure non svol-sero alcuna attività di rilievo nel periodo costituente. Anzi, con l’esclusione dell’attività,peraltro marginale, svolta da Vittorio Flecchia, nessuno degli altri due dirigenti comuni-sti prese mai la parola nel periodo dell’Assemblea costituente. A confermare questo com-portamento sono gli stessi atti dell’Assemblea.

L’attenzione dovrebbe dunque spostarsi attorno all’analisi dei motivi che portaronoad una presenza così limitata di questi dirigenti nei lavori della Costituente. Quale giu-dizio circa la Costituente? Quale valore affidato alla Carta? Anche in questo caso la ri-costruzione si presenta difficile: è dunque sicuramente utile spostare il campo di inda-gine dall’analisi dell’attività svolta all’interno dell’Assemblea a quanto detto e scritto daquesti dirigenti nel loro quotidiano lavoro politico e sindacale. Tuttavia, almeno per ciòche riguarda Moranino e Flecchia, le fonti a disposizione sono assai scarse, per nondire praticamente inesistenti. Difficile da ricostruire, ma fattibile almeno in parte, è lariflessione svolta da Secchia nel corso degli anni attorno al problema della Costituzionee della sua realizzazione: se l’archivio personale, conservato alla Fondazione Giangia-como Feltrinelli, non è attualmente ancora aperto alla consultazione pubblica, sono sta-ti però pubblicati alcuni documenti d’archivio utili alla ricostruzione del suo pensiero1.Allo stesso modo e, in maniera egualmente utile, lo stesso Secchia, nel corso degli anni,in particolare successivamente alla sua estromissione da ruoli dirigenziali di caratterenazionale (1953-1956), ha pubblicato in più opere ampia parte dei suoi discorsi parla-mentari e degli interventi svolti nel corso della sua attività politica2.

Di qui nasce la necessità di abbandonare alcuni degli obiettivi iniziali per soffermar-si, in particolare per ciò che riguarda Moranino e Flecchia, sulla ricostruzione del loropercorso biografico; per quanto riguarda Pietro Secchia, al di là della biografia politica,sarà invece possibile evidenziare le linee fondamentali del giudizio da lui maturato nelcorso del tempo riguardo al tema della Costituzione e della sua applicazione.

Prima di passare a riassumere brevemente la vita dei tre dirigenti comunisti biellesiè però utile istituire un confronto tra le loro figure; ciò contribuirà alla comprensionedelle ragioni della loro elezione e chiarirà, almeno parzialmente, come mai diedero unapporto così marginale ai lavori dell’Assemblea.

Flecchia, Secchia e Moranino appartenevano, sostanzialmente, a due differenti ge-nerazioni di militanti. I prime due, nati rispettivamente nel 1890 e nel 1903, erano rivo-

Vittorio Flecchia, Francesco Moranino, Pietro Secchia

1 ENZO COLLOTTI (a cura di), Archivio Pietro Secchia. 1945-1973, Milano, Feltrinelli, 1979.2 PIETRO SECCHIA, Le armi del fascismo (1921-1971), Milano, Feltrinelli, 1971; ID, La Re-

sistenza accusa (1945-1973), Milano, Mazzotta, 1973; ID, Lotta antifascista e giovani ge-nerazioni, Milano, La Pietra, 1973.

Federico Caneparo

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luzionari di professione: entrambi parteciparono attivamente ai più importanti avveni-menti che scandirono la storia del Pcd’I nei suoi primi vent’anni di vita3: l’attività anti-fascista precedente la marcia su Roma; la lotta clandestina; l’emigrazione e la reclusio-ne e, all’indomani della caduta del fascismo, l’organizzazione della resistenza armata.Moranino, invece, classe 1920, apparteneva alla generazione dei militanti che aderironoal movimento comunista negli anni della guerra. La sua formazione antifascista avven-ne, sostanzialmente, sul campo di battaglia, nello scontro armato con le forze nazifa-sciste e nell’organizzazione delle bande partigiane.

Nessuno di loro aveva una preparazione giuridica e teorico-politica tale da poter par-tecipare attivamente ai lavori dell’Assemblea costituente: Secchia e Flecchia si forma-rono alla scuola politica della Terza Internazionale; probabilmente, come riferisce Roa-sio, altro dirigente comunista di origine biellese, Flecchia stesso frequentò la scuola quadridi Leningrado. La formazione culturale di Moranino fu invece essenzialmente da auto-didatta; nondimeno, ben presto le si affiancò quella acquisita come comandante parti-giano prima e commissario politico poi nelle zone del Biellese orientale.

All’indomani del conflitto, i tre dirigenti biellesi assursero a figure “eroiche” delmovimento comunista nazionale: “Valbruna”, il nome di battaglia di Flecchia, rappre-sentava la generazione fondatrice del partito, quella che era stata in prima linea controil fascismo nel corso degli anni venti, che aveva collaborato fianco a fianco con Gram-sci nella costruzione del Partito comunista dopo la parentesi bordighiana; Moranino“Gemisto”, invece, fin dall’inizio delle operazioni partigiane manifestò le sue qualità po-litico-organizzative: riuscì a costruire un movimento antifascista capace di coniugarealla lotta armata le rivendicazioni operaie. Il risultato fu che attorno a lui si creò un pro-fondo sentimento di ammirazione popolare. Secchia, infine, riassumeva su di sé le ca-ratteristiche degli altri due: fondatore del Partito comunista, dirigente di primo piano nelperiodo della clandestinità, prigioniero del nemico nel corso degli anni trenta e organiz-zatore della lotta clandestina nel corso degli anni quaranta.

Probabilmente fu proprio il prestigio conquistato presso le masse operaie nel corsodella militanza politica, unito agli incarichi affidati loro all’indomani dell’insurrezione, acontribuire alla loro inclusione nelle liste per l’elezione all’Assemblea costituente. Inparticolare, Flecchia e Secchia incarnavano la politica coerentemente antifascista pro-mossa dal Pci fin dalla sua costituzione e rappresentavano la saldatura tra il partitobolscevico e clandestino e il “partito nuovo” attivo nella nascente Italia repubblicana.

Ma veniamo ad illustrare brevemente la biografia politica dei tre padri costituentibiellesi, cominciando da Vittorio Flecchia4.

3 PAOLO SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, Torino,Einaudi, 1967; ID, Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, Tori-no, Einaudi, 1969; ID, Storia del Partito comunista italiano. I fronti popolari, Stalin, laguerra, Torino, Einaudi, 1970; ID, Storia del Partito comunista italiano. La fine del fascismo.Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Torino, Einaudi, 1973; ID, Storia del Partito comu-nista italiano. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Torino, Einaudi, 1975.

4 Cfr. lemma Flecchia Vittorio, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Mi-lano, La Pietra, vol. II, 1971, p. 369; Flecchia Vittorio, in FRANCO ANDREUCCI - TOMMASO DETTI(a cura di), Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico. 1853-1943, Roma, Edito-ri Riuniti, vol. II, 1976, pp. 366-367; FRANCESCO RIGAZIO, Vittorio Flecchia, in CATERINA SI-MIAND (a cura di), I deputati piemontesi alla Costituente, Milano, Angeli, 1999, pp. 167-173.

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Vittorio Flecchia

Nel 1908, quando aveva già 18 anni e si era trasferito da qualche anno a Torino perlavorare come operaio decoratore, una nota della Regia Questura raccomandava allapolizia di tenere d’occhio Vittorio Flecchia in quanto «professava apertamente idee so-cialiste rivoluzionarie antimilitariste e frequentava la compagnia degli anarchici».

Questa sarebbe stata solamente la prima delle molte attenzioni che lo stato liberale e,successivamente, quello fascista avrebbero riservato a Flecchia nel corso della sua mi-litanza politica. Una militanza che lo avrebbe visto protagonista di tutta la vicenda poli-tica del movimento operaio italiano e internazionale della prima metà del secolo scorso.

Vittorio Flecchia nacque a Magnano il 18 aprile del 1890. Come la maggior parte deicompaesani, ed in generale come la maggior parte delle famiglie popolari biellesi dellafine del XIX secolo, il padre alternava il lavoro nei campi con l’emigrazione stagionaleper integrare i redditi provenienti dal lavoro agricolo. Così, all’età di 12 anni, nel 1902,Flecchia si trasferì a Torino, dove apprese la professione di operaio decoratore. Questaqualifica lo avrebbe accompagnato per tutto il periodo della sua militanza politica,sottolineando la sua volontà di presentarsi pubblicamente come “figlio della classe ope-raia”; sarebbe apparso così finanche nelle brevi biografie elettorali redatte per i candi-dati all’Assemblea costituente.

È proprio in quel periodo, probabilmente, che avvenne la sua socializzazione politi-ca. Inizialmente aderì al Gruppo socialista rivoluzionario, che si riuniva attorno alla pub-blicazione della rivista “Guerra sociale”. Solo l’anno successivo aderì all’organizzazio-ne giovanile del Partito socialista italiano, per la quale avrebbe poi svolto un’intensa attivitàdi propaganda antimilitarista. Dopo la parentesi del servizio militare, Flecchia emigrò inSvizzera in cerca di lavoro. Qui continuò la sua attività politica assumendo anche inca-richi sindacali. Ben presto catturò l’attenzione delle autorità svizzere che, nel marzo del1919, lo arrestarono ed espulsero dalla Confederazione.

Tornò in Italia nella fase culminante di quello che è ricordato dagli storici come il“biennio rosso”. In un paese attraversato da profonde e drammatiche tensioni econo-miche e sociali, Flecchia si mise immediatamente al lavoro: aderì alla Federazione na-zionale operai edili e venne inviato a Vicenza per costituire la locale federazione. Le dotidi organizzatore che avrebbe dimostrato nel lavoro di ricostruzione del sindacato sa-rebbero state uno degli elementi caratterizzanti la sua futura militanza politica. Succes-sivamente diventò segretario cittadino e provinciale della Camera del lavoro di Vicenza.Quello fu il periodo in cui, anche in ambito politico, maturarono alcune scelte fonda-mentali: dopo aver abbandonato definitivamente la prospettiva anarchica ed essere en-trato a far parte a pieno titolo del Partito socialista, nel 1921, con la scissione di Livor-no, aderì al nascente Partito comunista d’Italia: da quel momento in poi diventò un “ri-voluzionario di professione” a tutti gli effetti.

Un anno più tardi, nel 1922, in occasione del Congresso di Roma, fu eletto nel Co-mitato centrale del partito. Dopo la crisi del 1923-1924 e l’abbandono della posizionebordighista, Flecchia aderì al nuovo gruppo dirigente che si andava costituendo attor-no a Gramsci e Togliatti. La sua militanza assunse una dimensione internazionale quan-do, nel febbraio del 1925, venne inviato a Mosca come relatore sulla situazione orga-nizzativa del partito nell’ambito dei lavori dell’Internazionale comunista.

In quella stessa veste Flecchia partecipò al III Congresso del Pcd’I, nel gennaio del

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19265. Ritornato a Mosca, prese parte a uno degli ultimi contrasti pubblici che avven-nero all’interno dell’Internazionale comunista e che vide coinvolto Amadeo Bordiga,fondatore del Pcd’I e suo dirigente principale fino al 1922, e Stalin. Bordiga pronunciòuna appassionata denuncia della subordinazione dell’Internazionale nei confronti del-l’Urss ed espresse forti perplessità sulla sorte dell’Unione Sovietica in assenza dell’av-vento della rivoluzione socialista in Europa, suscitando la risposta indispettita di Stalin(«Questa domanda non mi è mai stata rivolta. Non avrei mai creduto che un comunistapotesse rivolgermela. Dio vi perdoni di averlo fatto»)6.

La stretta autoritaria fascista era imminente e Flecchia fu richiamato in Italia perricoprire l’incarico di segretario interregionale per il Veneto e per consolidare la struttu-ra clandestina del partito ormai quasi completamente votato all’attività illegale. Nono-stante le precauzioni del lavoro cospirativo, il dirigente biellese fu arrestato a Milano nelgennaio del 1926, poche settimane dopo l’instaurazione della dittatura e la cattura ditutti gli altri componenti il gruppo dirigente del Partito comunista d’Italia. La sorte chelo attendeva era simile a quella dei suoi compagni: nel 1928 venne condannato dal Tri-bunale speciale per la difesa dello Stato a più di quindici anni di reclusione, che scontònelle carceri di Sassari, Lecce e Civitavecchia. Nel carcere laziale, luogo di concentra-zione di numerosi detenuti antifascisti, partecipò attivamente a quella che venne ricor-data come “l’università del carcere”, esperienza che per molti giovani militanti rappre-sentò il primo momento di studio e riflessione dopo l’impegno politico profuso neglianni dell’avvento del fascismo.

Flecchia ritornò in libertà nel 1934. Tornato al paese natale, nell’ottobre dello stessoanno riuscì ad espatriare e raggiunse Mosca, dove assunse il ruolo di rappresentanteitaliano all’Internazionale dei sindacati russi. Dopo aver vissuto in Unione Sovietica nelperiodo dei processi staliniani, nel 1936 si trasferì a Marsiglia ed entrò a far parte dellasegreteria della Confederazione generale del lavoro. Contemporaneamente, in qualità diresponsabile dei collegamenti con il Partito comunista in Italia, curò il reclutamento dimilitanti per il lavoro clandestino nel paese e di volontari da inviare in Spagna per com-battere nelle brigate internazionali a fianco della Repubblica. La sua assidua attività po-litica attirò l’attenzione delle autorità francesi che, all’indomani dello scoppio della guerra,nel 1940, lo incarcerarono nel campo di Vernet, dove confluirono numerosi militanticomunisti e i reduci della guerra civile spagnola. Consegnato alle autorità italiane nelnovembre del 1940, venne inviato al confino nella colonia penale delle Tremiti, doverimase fino alla caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943.

Flecchia aveva ormai più di cinquant’anni, molti dei quali trascorsi all’estero, al con-fino e in carcere. Nonostante ciò, appena liberato si rigettò a capofitto nell’attività po-litica, riprese i contatti con il centro del partito e partecipò attivamente all’organizzazionedel movimento partigiano nel Biellese, nell’Ossola e nella Valsesia divenendone, nelnovembre dello stesso anno, ispettore politico-militare; contemporaneamente promos-se la ricostituzione del Partito comunista nel Novarese, una della zone più “rosse” del-l’Italia del primo dopoguerra.

5 P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, cit., pp. 511-512.6 DANIELE CHIARA (a cura di), Gramsci a Roma. Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926,

Torino, Einaudi, 1999, pp. 168.

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L’esperienza organizzativa di Flecchia, nel periodo della guerra partigiana, venne uti-lizzata in diversi contesti e ambiti. Dopo gli scioperi del marzo 1944 fu trasferito allaFederazione comunista di Torino e all’indomani dell’insurrezione entrò a far parte dellasegreteria della Camera del lavoro. Nondimeno la guerra di liberazione segnò uno spar-tiacque nella militanza politica di Flecchia: per i dirigenti che avevano aderito al movi-mento comunista fin dalla sua costituzione, l’impegno nella Resistenza rappresentaval’epilogo di un conflitto che non si era aperto nel 1943, bensì venti anni prima, all’indo-mani della marcia su Roma. Dopo la prova della clandestinità, dopo l’esperienza sovie-tica, avevano la possibilità di chiudere definitivamente i conti con il fascismo sconfig-gendolo militarmente. All’indomani della Liberazione e del ritorno alla democrazia, questidirigenti acquisirono un vasto prestigio presso le masse popolari: rappresentavano iltrait d’union tra il partito sorto sull’onda dell’Ottobre russo e della prospettiva immedia-tamente rivoluzionaria e il partito che, vittorioso dopo due anni di guerra civile (1943-1945), si apprestava a contribuire in maniera determinante alla ricostruzione in sensodemocratico dello stato italiano; rappresentavano quella memoria storica vivente chegarantiva la continuità tra i militanti della fondazione del partito e quelli che avevanoaderito al movimento nel corso della lotta partigiana7.

Probabilmente, proprio queste furono le motivazioni che spinsero i dirigenti dellelocali federazioni, in accordo con la direzione nazionale, alla candidatura di Flecchiaall’Assemblea costituente nel collegio elettorale di Torino-Novara-Vercelli, dove venneeletto con più di tredicimila preferenze. Uomo d’azione con notevoli competenze nel-l’ambito dell’organizzazione politica, Flecchia, come del resto buona parte dei deputaticomunisti alla Costituente, non aveva la preparazione giuridica necessaria per incideredirettamente sui lavori dell’Assemblea dove, difatti, non ricoprì un ruolo specifico. Tut-tavia, grazie alla sua biografia politica, venne nominato senatore di diritto nel primo par-lamento repubblicano.

In qualità di senatore svolse attività fino al 1958 quando, conclusa la sua esperienzaparlamentare, tornò a Magnano, suo paese natio. Ormai la sua carriera politica nazio-nale poteva ritenersi conclusa. E del resto la sua non era una posizione solitaria, perchéormai un po’ tutta la vecchia guardia rivoluzionaria era stata messa ai margini dell’atti-vità politica del partito per favorire il “rinnovamento” e la formazione di un nuovo gruppodirigente. Flecchia morì all’età di settant’anni, il 19 aprile 1960.

Francesco Moranino8

Nato a Tollegno nel 1920, Moranino, nel 1940, giovanissimo, si iscrisse all’alloraPartito comunista d’Italia. L’anno successivo fu arrestato e condannato dal Tribunalespeciale per la difesa dello Stato a dodici anni di reclusione, che scontò nel carcere di

7 MARCELLO FLORES - NICOLA GALLERANO, Sul Pci. Un’interpretazione storica, Bologna,Il Mulino, 1992, pp. 43-105.

8 Cfr. lemma Francesco Moranino, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza,cit., vol. IV, 1984, p. 824; Francesco Moranino, in ENZO COLLOTTI - RENATO SANDRI - FREDIANOSESSI (a cura di), Dizionario della Resistenza. Luoghi, formazioni protagonisti, Torino, Ei-naudi, vol. II, 2001, p. 592; ADRIANO BALLONE, Francesco Moranino, in C. SIMIAND (a cura di),op. cit., pp. 344-351.

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Civitavecchia e di Castelfranco Emilia. La reclusione si concluse il 25 luglio 1943 conla caduta del fascismo.

Ritornato nel Biellese, all’indomani dell’8 settembre 1943, fu tra i primi animatoridella Resistenza biellese: comandante del distaccamento garibaldino “Pisacane”, poi della50a brigata “Garibaldi”, successivamente fu nominato commissario politico della XIIdivisione Garibaldi “Nedo”. Nelle vallate del Biellese orientale, la figura e l’azione di Mo-ranino “Gemisto” furono tali da garantirgli grande prestigio e consenso. Il comandantee la sua brigata partigiana furono il nodo attorno al quale si svilupparono, nell’estate-autunno del 1944, sia la breve esperienza della zona libera della Valsessera e Valstrona,che la mobilitazione operaia nelle fabbriche.

All’indomani della Liberazione entrò a far parte del gruppo dirigente della Federa-zione del Pci di Biella e della Valsesia. Inserito nella lista dei candidati per le elezionidell’Assemblea costituente, fu eletto con circa undicimila preferenze: era il più giovanedeputato (25 anni) dell’Assemblea. Moranino era sicuramente uno degli esponenti dipunta del “vento del Nord”, ovvero era espressione di quella generazione che, formata-si politicamente nel corso della guerra e della Resistenza, aspirava a ricoprire incarichidi primo piano nella ricostruzione democratica dell’Italia. Questa fu una delle motiva-zioni che indussero Secchia a fare il suo nome per l’incarico di sottosegretario alla Difesadell’ultimo governo di unità nazionale guidato da Alcide De Gasperi. «Il 3 febbraio ilgoverno è costituito. Riesco a far includere nella lista di sottosegretari Moscatelli, sot-tosegretario alla presidenza del Consiglio e Moranino alla Difesa. È un rospo da trangu-giare per De Gasperi. Naturalmente devo insistere, perché di fronte alla resistenza diDe Gasperi Togliatti era orientato a cedere e mi diceva: “Ma perché vuoi proprio insi-stere su quei due, ci sono altri partigiani che si possono includere nella formazionegovernativa”. Rispondevo che aveva un grande significato se nel governo includevamodei partigiani combattenti e tra quelli che più si erano distinti nelle operazioni della lottainsurrezionale al Nord. E poi proprio perché De Gasperi non li vuole, li dobbiamo vo-lere noi. E la cosa passò»9.

In qualità di sottosegretario, Moranino si sarebbe occupato della sistemazione deipartigiani smobilitati e della riorganizzazione delle forze armate. Rieletto alla Camera deideputati nel 1948, nel 1951 fu nominato segretario della Federazione mondiale della gio-ventù. Sempre nello stesso anno fu accusato di aver ordinato l’omicidio, all’epoca dellaguerra di liberazione, di cinque persone sospettate di essere spie e delle mogli di due diqueste.

Malgrado a suo favore si mobilitassero esponenti della sinistra, sindacati, organiz-zazioni partigiane, uomini di cultura e finanche esponenti del Partito liberale, la Cameraapprovò l’autorizzazione a procedere ed il suo arresto.

Per sottrarsi alla carcerazione, da lui ritenuta ingiustificata in quanto quei fatti sa-rebbero dovuti essere derubricati ad atti di guerra, si rifugiò in Cecoslovacchia, dovelavorò per l’emittente radiofonica Radio Praga. Ritornò in Italia nel 1953, dopo esserestato nuovamente eletto alla Camera dei deputati; tuttavia, due anni più tardi, essendoapprovata una nuova autorizzazione a procedere per la stessa imputazione, emigrò nuo-

9 P. SECCHIA, Promemoria autobiografico, in E. COLLOTTI (a cura di), op. cit., p. 204.

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vamente in Cecoslovacchia. Il 22 aprile 1956, il processo svoltosi a Firenze si conclusecon la condanna all’ergastolo di Moranino. La sentenza di condanna fu confermata anchedalla Corte d’assise d’appello. Nel 1958, a seguito della sollevazione di alcuni rilievi sullosvolgimento delle indagini e del processo, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchicommutò la pena in dieci anni di reclusione (cosa che avrebbe permesso a Moranino dirientrare in Italia). Il deputato biellese tornò in Italia solo alcuni anni più tardi, dopo cheil presidente Saragat gli concesse la grazia in occasione del ventennale della Resistenza(1965) con l’obiettivo di chiudere definitivamente una stagione apertasi all’indomanidella fine della guerra10. Nel 1968 fu eletto senatore nel collegio di Vercelli. Morì, stron-cato da un infarto, nel 1971.

Il nome di Moranino nel secondo dopoguerra è indissolubilmente legato alle vicendegiudiziarie a cui fu sottoposto nel periodo compreso tra il 1948 e il 1957. Il deputatocomunista fu accusato di essere il mandante di un omicidio plurimo avvenuto in unperiodo compreso tra il novembre del 1944 e il gennaio del 1945. Una delle vittime,Emanuele Strassera, era un agente del governo italiano (e contemporaneamente agentedell’Ufficio dei Servizi strategici statunitensi), residente allora nel Sud liberato, sbarca-to sulla costa ligure da un sommergibile Usa all’inizio dell’estate 1944 ed inviato nelNord Italia dagli angloamericani con il compito di coordinare la lotta partigiana e riferi-re della situazione presente. A questo scopo aveva arruolato quattro partigiani. Strasse-ra aveva il compito di consegnare un rapporto agli agenti alleati operanti in Svizzera. Almomento di portare in Svizzera le informazioni, aveva chiesto aiuto alle formazioni parti-giane vicine al confine per essere scortato in Svizzera.

Sospettando fossero delle spie, i cinque componenti della missione vennero uccisi il26 novembre 1944 presso la località di Portula. Le vittime furono: Emanuele Strassera,capo missione, Gennaro Santucci, Ezio Campasso, Mario Francesconi e Giovanni Sci-mone. Successivamente, il 9 gennaio 1945, vennero uccise le spose di due dei partigia-ni, Maria Santucci e Maria Francesconi.

La “vicenda Moranino”, come detto più sopra, travalicò ben presto la dimensionelocale per assurgere a vero e proprio caso nazionale. A dare risonanza al caso furonouna serie di fattori: il fatto che il deputato comunista fosse stato una figura “popolare”del movimento di liberazione; che avesse ricoperto incarichi nell’ultimo governo di unitànazionale; che, per sottrarsi alla carcerazione, che riteneva ingiustificata, si fosse rifu-giato in Cecoslovacchia.

10 Nell’intervenire al Senato per rispondere ad alcune interrogazioni svolte in merito allaconcessione della grazia a Francesco Moranino il ministro di Grazia e Giustizia Reale avreb-be ricordato come il provvedimento fosse stato ideato dal presidente della Repubblica conl’obiettivo di chiudere definitivamente la stagione dell’uso politico e giudiziario della Resi-stenza. In questo senso si esprimeva il ministro Reale quando affermava che il ventennaledella Liberazione era «l’occasione che, suggerendo di cancellare ogni residua conseguenzanel campo criminale del difficile periodo al cui centro sta l’evento glorioso e felice della Libe-razione, ha giustificato una particolare generosità rispetto ai delitti - anche se gravissimi eanche se politici soltanto in senso assai lato - compiuti nel periodo già considerato a suotempo nel provvedimento generale di indulto, da coloro che a quell’evento parteciparono,contribuendovi o perfino avversandolo», intervento del ministro Reale nella seduta del Se-nato del 15 giugno 1965, in Atti Parlamentari. Senato 1965, Roma, Senato, 1965.

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Anche da queste prime considerazioni emerge come la ricostruzione della vicendaMoranino nel periodo repubblicano sia piuttosto articolata. Di fronte a tale complessitàl’obiettivo che ci si pone in questa relazione è abbastanza limitato: contestualizzare sto-ricamente il processo Moranino ovvero collocare le vicende giudiziarie del deputatocomunista all’interno del più generale clima politico-culturale dei primi due decenni divita della Repubblica italiana. Questa scelta ha portato alla decisione di non occuparsidirettamente della ricostruzione dell’episodio avvenuto nella guerra di liberazione ma,come detto, di prestare attenzione all’uso politico-culturale che se ne fece nel corso delsecondo dopoguerra.

A partire da ciò è possibile articolare l’analisi della vicenda Moranino su tre diversipiani di lettura. Per essere più precisi, nel processo al deputato biellese si intrecciano:una dimensione strettamente giudiziaria, che è necessario però collocare all’interno dellapiù vasta vicenda dei processi promossi contro partigiani accusati di aver commessoreati comuni nel periodo della guerra di liberazione; una strategia politico-culturale pro-mossa dai gruppi dirigenti conservatori italiani che, agli occhi dell’opposizione sociali-sta e comunista mirava, attraverso la celebrazione dei processi contro i partigiani, amodificare l’interpretazione ufficiale della Resistenza e, così facendo, a delegittimare ilPartito comunista e quello socialista; infine, e più in generale, il processo a Moraninoera espressione del durissimo scontro politico-sociale che contraddistinse tutta la pri-ma legislatura repubblicana e che vide contrapposte un’opposizione allarmata di fronteai provvedimenti adottati dal governo ed interpretati come manifestazione di un proget-to politico conservatore e autoritario, e un governo che, preoccupato dalla possibileesistenza di una struttura militare illegale comunista della quale, secondo le fonti dellaPrefettura di Vercelli, Moranino era responsabile locale, non esitava a interpretare il ruolodi protettore della neonata democrazia italiana anche attraverso l’adozione di politicherepressive nella gestione dell’ordine pubblico e delle manifestazioni politiche.

I processi ai militanti delle formazioni partigiane si moltiplicarono solamente a par-tire dal 1948, ovvero a più di tre anni dalla conclusione del conflitto e dopo che, nel1946, venne promulgata l’amnistia da parte dell’allora guardasigilli Togliatti. Questa svol-ta politico-giudiziaria si sviluppò in concomitanza con la sconfitta del fronte delle sini-stre alle elezioni dell’aprile 1948 e con i moti popolari scatenatisi dopo l’attentato a To-gliatti nel luglio successivo. Se non è possibile affermare l’esistenza di un nesso direttotra l’avvio delle indagini e una precisa volontà politica del governo e, in particolare delsuo ministro dell’Interno Scelba, è però molto probabile che il clima da “democraziaassediata dal pericolo rosso” che avvolgeva la società italiana di quegli anni abbia in-fluenzato anche le decisioni della magistratura11. I processi nei confronti dei partigianiinfatti si svilupparono in particolare nel periodo del centrismo democristiano, ovvero

11 Per quanto riguarda la campagna antipartigiana e, in particolare, sui processi contro ipartigiani svoltisi nel periodo del centrismo democristiano cfr. LUCA ALESSANDRINI - ANGELAMARIA POLITI, Nuove fonti sui processi contro i partigiani 1948-1953. Contesto politico eorganizzazione della difesa, in “Italia contemporanea”, n. 178, 1990, pp. 304-327; A. M. PO-LITI, Una fonte sui processi contro i partigiani: gli archivi degli avvocati difensori, in “Ri-vista di storia contemporanea”, n. 2, 1990, pp. 41-62.

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tra il 1948 e il 1953: vennero arrestati 1.697 partigiani; 884 di questi furono condannatia complessivi 5.806 anni di reclusione. «Nel corso dei processi spesso vengono menoanche le garanzie elementari che lo Stato democratico offre agli accusati, difatti diversiimputati sono stati minacciati e percossi nel corso degli interrogatori con l’intento diindurli a confermare gli indizi degli inquirenti. La persecuzione partigiana si fonda su unuso distorto e strumentale della macchina giudiziaria: i pubblici ministeri costruisconoipotesi di reato fingendo di ignorare le cause reali di molte esecuzioni, estrapolandoledal loro contesto storico. L’esecuzione del nemico diviene così in questa rilettura unsemplice omicidio comune, dove l’accaduto è privato delle precedenti sequenze di azionie risposte, e il passato fascista delle vittime viene depurato. Le azioni di guerra partigia-na sono trasformate alla stregua di omicidi in tempo di pace, arrivando così a legittima-re l’ordine della Rsi, nel momento in cui vengono perseguite azioni commesse primadella liberazione»12.

In molti casi gli accusati furono incarcerati preventivamente fino a quando i casivennero archiviati in quanto svoltisi durante il periodo bellico o perché commessi nelcorso di azioni di guerra e quindi non perseguibili. Come riportato nella citazione, nonsarebbe mancato, nel corso degli interrogatori, il ricorso alle percosse o a metodi inti-midatori. Per quella parte politica, in particolare comunisti e socialisti, che legava indis-solubilmente il movimento di liberazione alla nascita della Repubblica e individuava nelnuovo assetto istituzionale lo strumento per realizzare gli ideali di giustizia sociale cheerano stati il cardine della Resistenza, la serie dei processi intentati nei confronti deipartigiani rappresentava il rovesciamento degli ideali della Costituzione e la messa indiscussione della legittimità della Carta stessa.

L’importanza di questa campagna e del significato eminentemente politico che que-sta ricoprì fu infatti ribadita con forza dal senatore Pietro Secchia prima ancora che ilcaso Moranino approdasse in parlamento. Nel discorso dal titolo significativo, “La Re-sistenza accusa”, pronunciato al Senato il 28 ottobre 1949, il vicesegretario del Pci ri-chiedeva al governo un provvedimento per bloccare la celebrazione dei processi aipartigiani «per azioni di guerra compiute prima dell’aprile 1945 e nei primi mesi dellaliberazione fino al 31 luglio [...] chiediamo che la si finisca di arrestare i partigiani perpretesi delitti avvenuti nel corso della guerra di liberazione; chiediamo venga applicatonella lettera e nello spirito il decreto luogotenenziale del 12 aprile 1945 che tra l’altrodice: “Sono considerati azioni di guerra e pertanto non punibili a termini delle leggi comunigli atti di sabotaggio, le requisizioni ed ogni altra azione compiuta dai patrioti per lanecessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo di occupazione nemica”;chiediamo che si ponga termine a questa vergogna alla quale da due anni assistiamo,quella cioè di mettere sotto processo partigiani per azioni di guerra, per operazioni com-piute per necessità di lotta contro tedeschi e fascisti. [...] mai nella storia d’Italia si èassistito ad un procedimento così scandaloso che a distanza di cinque anni da una guerradi popolo si mettono sotto processo coloro che hanno combattuto per la libertà control’invasore e contro i traditori, su denuncia delle famiglie delle spie, dei fascisti repubbli-

12 MIRCO DONDI, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano,Roma, Editori Riuniti, 1999, pp. 180-181.

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chini, su denuncia di coloro che stavano dalla parte del nemico e che nella miglioredelle ipotesi non possono che essere mossi da spirito di vendetta»13.

Il processo a Moranino va collocato all’interno di questo clima politico, all’internodella serie di inchieste istruite nei confronti dei partigiani. Per l’incarico parlamentareda lui ricoperto, il processo a Moranino fu uno dei casi più emblematici di quel periodo.Ne è conferma il fatto che, allorquando la Camera dei deputati discusse l’autorizzazio-ne a procedere nei suoi confronti, molti deputati del gruppo di opposizione fecero iro-nicamente rilevare come in poche altre occasioni l’aula fosse stata così affollata14.

Rispetto ad altre indagini avviate solamente tre anni dopo la conclusione della guer-ra, quella sulla vicenda della missione Strassera iniziava nei mesi successivi alla Libera-zione. Infatti, già nel mese di marzo del 1946, gli Alleati avevano richiesto informazioniai carabinieri di Biella su tale vicenda, senza però arrivare a nulla. Solo alcune settimanepiù tardi alcuni articoli pubblicati nel giornale “La verità. Settimanale liberale biellese”,accusando Moranino di essere il mandante dell’uccisione dei membri della missioneStrassera, avrebbero svelato all’opinione pubblica l’episodio accaduto nell’inverno del1944. Nondimeno bisognò aspettare più di due anni, ovvero fino alla fine di ottobre del1948, dopo la sconfitta elettorale e il ridimensionamento del Pci, perché la Procura diVercelli, dopo la denuncia dei familiari delle vittime, avviasse un’indagine nei confrontidi Moranino e degli esecutori dell’omicidio con l’accusa di aver agito anche a scopo dirapina, dunque con un movente comune piuttosto che politico. Alcuni mesi dopo, se-guendo una prassi usata anche in altri processi svoltisi nei confronti di partigiani, leforze dell’ordine avrebbero arrestato preventivamente i garibaldini accusati di esseregli esecutori degli omicidi. Questi sarebbero successivamente stati scarcerati e l’inda-gine nei loro confronti sarebbe stata archiviata. Il vero obiettivo dell’indagine rimaneval’onorevole Moranino che, in quanto deputato, godeva dell’immunità parlamentare. Il21 settembre 1950 la giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputaticoncesse l’autorizzazione a procedere nei confronti di Moranino, così come autorizzòil suo arresto. Tuttavia l’autorizzazione fu inizialmente negata dalla Camera dei deputa-ti, che solo l’anno successivo si espresse favorevolmente. Il 27 gennaio 1955, in se-

13 P. SECCHIA, La Resistenza accusa, discorso pronunciato al Senato della Repubblica il28 ottobre 1949, in ID, La Resistenza accusa 1945-1973, cit. Questa opera raccoglie nume-rosi interventi svolti da Secchia su questo tema. Ne possiamo ricordare alcuni come: La con-danna di Gemisto-Franco Moranino, in “Vie Nuove”, 4 maggio 1957; Partigiano ascolta!,in “Vie Nuove”, 25 aprile 1947; Sulle orme del fascismo. La liberazione di Borghese, in “VieNuove”, 27 febbraio 1949. Su questo tema cfr. anche LUIGI LONGO, Si libera Borghese, si in-carcerano i partigiani, si tradisce la Resistenza, discorso pronunciato alla Camera dei de-putati il 25 febbraio 1949, in ID, Chi ha tradito la Resistenza, Roma, Editori Riuniti, 1975.

14 Autorizzazione a procedere nei confronti dell’onorevole Francesco Moranino, sedutadella Camera dei deputati del 29 novembre 1950, in Atti Parlamentari. 1950, Roma, Cameradei deputati, 1950, pp. 24.072-24.085; Autorizzazione a procedere nei confronti dell’onorevo-le Francesco Moranino, seduta della Camera dei deputati del 14 dicembre 1951, in Atti Par-lamentari. 1951, Roma, Camera dei deputati, pp. 34.147-34.185; Autorizzazione a procederenei confronti dell’onorevole Francesco Moranino, seduta della Camera dei deputati del 27gennaio 1955, in Atti Parlamentari. 1955, Roma, Camera dei deputati, 1955, pp. 16.461-16.495.

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guito alla rinnovata elezione a deputato di Moranino, il parlamento concesse nuovamentel’autorizzazione a procedere nei suoi confronti per reati di omicidi continuati e doppia-mente aggravati. Il processo, celebratosi l’anno successivo, avrebbe visto, come giàdetto, la condanna di Moranino all’ergastolo.

Il periodo compreso tra il 1947 e il 1953 segnò la crisi della narrazione egemonicaantifascista15. La rottura dell’alleanza antifascista determinò la costruzione di memoriediverse. Non si trattò esclusivamente di ridefinire il modo attraverso il quale i soggettipolitici e le istituzioni si sarebbero rapportati al movimento resistenziale. La costruzionedi una nuova narrazione antifascista infatti si legava strettamente al discorso sulla legit-timazione politica del nuovo stato repubblicano e sul rapporto tra questo e le forze po-litiche che avevano partecipato alla guerra di liberazione. Agli occhi delle sinistre la sva-lutazione della Resistenza, attuata ricorrendo ai processi contro i partigiani, investiva lalegittimazione stessa della Repubblica: il crollo o il ridimensionamento del ruolo delmovimento di liberazione avrebbe nuovamente legittimato le forze politiche conserva-trici esponendo il nuovo Stato alla possibilità di derive autoritarie e antidemocratiche.Per questo gli esponenti socialisti e comunisti nelle ricorrenze pubbliche richiamavanocostantemente alla vigilanza per la difesa delle istituzioni democratiche, della libertà edel progresso sociale16.

Sempre per questo motivo le sinistre insistevano nell’accusare la Democrazia cri-stiana, con la svolta politica centrista e la rottura dell’unità antifascista, di aver blocca-to il rinnovamento democratico dello Stato e di aver affidato le sue leve nelle mani diuna burocrazia statale collusa con il passato regime fascista ed incapace di autorifor-marsi in senso democratico17. Si comprende quindi per quale motivo il processo a Mo-ranino assumesse una tale rilevanza “politica”: una sua condanna, agli occhi dei so-cialisti e dei comunisti, avrebbe rappresentato la messa in discussione di tutta la Resi-stenza e della sua legittimità come guerra di liberazione ed epopea fondativa della Re-pubblica.

Negli interventi svolti dai deputati dell’opposizione nelle sedute della Camera deideputati dedicate alla discussione sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Mo-ranino, al di là del pathos dettato dall’avvenimento politico, emerge con chiarezza come,per i socialisti e i comunisti18, il caso del deputato biellese fosse emblematico di unprocesso iniziato negli anni immediatamente precedenti. È lo stesso relatore di minoranza,il deputato Ferrandi, a lasciar intuire come il procedimento contro Moranino si collo-

15 FILIPPO RICCARDI, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico ita-liano dal 1945 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005.

16 Uniti contro il fascismo, in “Avanti!”, 25 aprile 1948; ARRIGO BOLDRINI, Il 25 aprile, in“l’Unità”, 25 aprile 1949; RICCARDO LOMBARDI, 25 aprile, in “Avanti!”, 24 aprile 1949; Batta-glia aperta e a fondo, in “Avanti!”, 1 febbraio 1948.

17 Cfr. di seguito la parte della relazione dedicata all’analisi elaborata da Pietro Secchia suicaratteri del neonato stato democratico italiano.

18 È utile constatare come nel corso delle discussioni svoltesi alla Camera dei deputatiintervenissero importanti dirigenti del movimento comunista e socialista; in particolare quegliesponenti che avevano ricoperto ruoli di primo piano nella guerra di liberazione. Nondimeno,a parte Secchia, non prese la parola nessuno dei leader storici del movimento comunista.

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casse all’interno di un più ampio disegno politico che mirava a delegittimare il ruolofondativo della Resistenza: «Se voi concederete questa autorizzazione a procedere, tut-to quello che è avvenuto dal 25 luglio 1943 in poi, tutto - dico - potrà essere portato algiudizio di un tribunale o di una corte d’assise, perché non c’è morto non c’è spia fu-cilata, non c’è traditore giustiziato che non possa far invocare qualcosa che giustifichil’inizio di una azione penale. È vero, purtroppo, che tutto questo è stato fatto e si fa;ma voi sapete come sono finiti nella stragrande maggioranza i processi fabbricati perfatti di guerra, farisaicamente denunciati e definiti come delitti comuni. [...] gli erroritragici, la somma di errori che sono stati fatalmente commessi durante la Resistenzanei confronti di incolpevoli, non possono essere rievocati per mettere in moto la mac-china della giustizia penale, perché voi in quel momento, negando la comprensionedell’errore, neghereste la legittimità stessa della guerra partigiana e aprireste la via adogni più mostruosa conseguenza»19.

L’onorevole Boldrini, invece, intervenendo nel corso del dibattito, riprendeva il di-scorso di Ferrandi per sottolineare come la delegittimazione della Resistenza fosse unadelle caratteristiche dell’iniziativa politica promossa dagli apparati dello Stato e dalle for-ze politiche moderate a partire dalla fine della guerra: «[...] la campagna di svalorizza-zione che da tempo viene condotta dai gruppi antinazionali e antirisorgimentali controla Resistenza [...] è stata condotta con ogni mezzo fin dal 1945, per gettare fango sullagloriosa epopea partigiana. [...] quando ufficialmente le associazioni partigiane feceropresente la gravità della situazione (che si sintetizza in arresti partigiani, in non applica-zione delle leggi promulgate in difesa della Resistenza, in rinascita del fascismo), datutti i settori politici si elevarono voci autorevoli per dire che era l’ora di finirla e chebisognava riconoscere la Resistenza per quella che era stata. [...] a questo punto, ono-revoli colleghi della maggioranza, mi potreste dire che anche voi siete d’accordo neldifendere la Resistenza. Il fatto è, però, che la richiesta a procedere contro l’onorevoleMoranino non è un caso isolato, ma si unisce ad una serie di altre denunce contro ipartigiani, presentate dai fascisti e dalle famiglie dei fascisti, e ad una campagna che haripreso la sua azione in grande stile»20.

Infine intervenne Fausto Gullo, dirigente nazionale del Pci, il quale, riprendendo esviluppando quanto già affermato dagli altri membri del gruppo parlamentare, sottoli-neò come la delegittimazione della Resistenza avrebbe minato alle fondamenta tutto ilprogetto repubblicano: «Qui è vittima di una persecuzione politica qualche cosa di moltopiù grande del collega Moranino: è vittima di una persecuzione politica la stessa tradi-zione della Resistenza e della guerra di liberazione! [...] Si è ricordato il decreto del 12aprile 1945, e anche quel decreto si è voluto considerare come un provvedimento diordinaria amministrazione. Non si è ricordato lo spirito di quel decreto, si dice che occorreconsiderare come azione di guerra la lotta partigiana (e dico partigiana, qui, per usareun aggettivo che compendia e riassume tutte le varie azioni in difesa del territorio della

19 Intervento dell’onorevole Ferrandi nella seduta della Camera dei deputati del 14 no-vembre 1951, in Atti Parlamentari. 1951, Roma, Camera dei deputati, 1951, p. 34.153.

20 Intervento dell’onorevole Boldrini nella seduta della Camera dei deputati del 14 no-vembre 1951, in idem, p. 34.168.

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patria), nel momento in cui quel decreto dà questa definizione della lotta partigiana, essola equipara senz’altro alla guerra guerreggiata da un esercito regolare. [...]

Così è la Resistenza, onorevole Scalfaro e onorevoli colleghi! Vi sono fatti storicigrandiosi, che stanno alla base stessa della vita, di più, alla base stessa della ragione divita di una nazione. Ebbene, questi fatti non possono essere sottoposti ad una criticadisintegratrice, soprattutto ad una critica di carattere giudiziario. [...] guai a voi se scuo-tiamo il fondamento ideale della nuova Repubblica democratica! E purtroppo sono moltele ragioni per le quali noi ci sentiamo autorizzati a pensare che si voglia appunto scuo-tere questo fondamento ideale. E siamo qui a difendere la grande idealità, che sta allabase della Repubblica democratica. [...] sentiamo che se queste grandi ragioni storichedovessero essere tradite, allora sarebbe l’ora della fine per la Repubblica democraticaitaliana. Noi vogliamo che la Repubblica democratica italiana esista e si consolidi, e chein essa il popolo nostro trovi la via del suo progresso e del suo avvenire»21.

La ricostruzione, seppur schematica, delle conseguenze politiche che avrebbe ge-nerato la completa delegittimazione storica della Resistenza conduce all’ultimo nodolegato alla vicenda del processo a Moranino: si tratta di considerazioni strettamentepolitiche e che non hanno riscontro immediato con le vicende giudiziarie del deputatocomunista. Tuttavia collocano appieno il caso Moranino all’interno del clima politico diquel periodo. Come accennato più sopra, il periodo compreso tra il 1947 e il 1953 rap-presentò la fase più acuta dello scontro politico e sociale tra le forze politiche centristee quelle socialcomuniste. In questa fase erano le stesse forze di governo a promuovereuna politica conservatrice e repressiva nei confronti di ogni movimento politico e so-ciale di opposizione. Per il governo democristiano la necessità di adottare provvedi-menti per proteggere la democrazia era funzionale alla prevenzione di eventuali deriveinsurrezionali o rivoluzionarie da parte delle forze di sinistra. A corroborare questa tesiintervenivano anche le segnalazioni provenienti da diverse prefetture che insistevanosull’esistenza nel Pci di un apparato militare clandestino formato da ex partigiani e prontoad intervenire nel caso di tentativo di colpo di stato o per organizzare il moto rivoluzio-nario22. Le note informative che arrivavano dalla Prefettura di Vercelli individuavanonella figura di Francesco Moranino il responsabile biellese dell’organizzazione parami-litare23 del Pci. All’inizio del 1950, infatti, il Sifar redasse un rapporto nel quale rico-

21 Intervento dell’onorevole Gullo nella seduta della Camera dei deputati del 14 novem-bre 1951, in idem, p. 34.177.

22 Sulla presunta organizzazione paramilitare del Pci e sullo scontro interno tra tendenzalegalitaria e tendenza insurrezionale cfr. PIETRO DI LORETO, Togliatti e la doppiezza. Il Pci trademocrazia e insurrezione (1944-1949), Bologna, Il Mulino, 1992.

23 Cfr. anche le riflessioni svolte da Cesare Bermani in merito alla presunta esistenza diuna organizzazione paramilitare del Pci nel Vercellese e, più in generale sul rapporto tra par-tigiani-Partito comunista-organizzazioni paramilitari. Bermani sostiene che la scelta partigianadi continuare ad avere una struttura militare clandestina fosse stata assunta autonomamen-te rispetto al Pci o, quantomeno, non incontrasse il favore della maggioranza dei dirigenticomunisti. «Nel clima turbolento del dopoguerra tutti quanti i partiti mantennero a lungoforme più o meno robuste di organizzazione armata. E così fecero anche i garibaldini di Mosca-telli. [...] era una decisione tutta partigiana, quella di Cino e Ciro, non del Pci, o quantomeno

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struiva la struttura organizzativa dell’apparato paramilitare comunista. Moranino, as-sieme ad altri ex dirigenti del movimento partigiano, veniva indicato quale responsabileper la provincia di Vercelli di una struttura militare clandestina. Questa sarebbe stata ingrado di organizzare nuclei di difesa armata in ogni località della provincia24. Due annipiù tardi, nel 1952, in una segnalazione anonima consegnata alla Prefettura di Vercelli erecante una serie di informazioni relative alla struttura di una “Organizzazione clande-stina del Pci in Piemonte”, Moranino sarebbe invece stato indicato come il vero orga-nizzatore della struttura militare eversiva regionale25. Agli occhi delle forze dell’ordine,Moranino identificava non solo il comandante partigiano senza scrupoli che non avevaesitato a uccidere altri partigiani per conservare l’egemonia delle formazioni militaricomuniste sul Biellese orientale, bensì anche un pericolo sovversivo che continuava atramare per il sovvertimento dell’ordine costituito e l’avvento della rivoluzione anche intempo di pace.

Il caso Moranino, messo sotto questa triplice lente, viene così a rivestire un signi-ficato paradigmatico: non si tratta esclusivamente di un avvenimento giudiziario, ma diun episodio che riunisce in sé tutte le tensioni della prima fase della storia della Repub-blica italiana, appunto quella in cui fu più acuto lo scontro tra forze di sinistra e forzecentriste. Astrarre l’elemento giudiziario dal contesto, tener conto solamente di questo,rischia di non far comprendere appieno il significato storico del processo a Moraninoe il ruolo esemplare che svolse nello scontro politico di quegli anni.

D’altronde sono gli stessi protagonisti di quell’epoca a ricordare indirettamente, nel1965, in occasione della grazia concessa dal presidente della Repubblica ad alcuni expartigiani ed ex fascisti, tra i quali anche Moranino, come il caso del deputato biellese

non di tutto il Pci. Giorgio Amendola del resto ha ricordato che, negli anni successivi allaLiberazione, il Pci “era una forza ribollente e non politicamente disciplinata, anche attrattadal miraggio della rivoluzione armata, fiduciosa nell’aiuto sovietico [...]. La linea del centrodel partito veniva accettata, ma con grandi riserve con quella doppiezza di cui tanto si è par-lato, che non era atteggiamento di Togliatti o di pochi dirigenti, ma una posizione largamentediffusa nella base e nei quadri del partito. Sì, bisognava utilizzare le possibilità legali, conqui-stare comuni e seggi in parlamento, ma per occupare posizioni che sarebbero servite quandol’ora X sarebbe finalmente scoccata. [...] La conservazione di depositi d’armi, gli atti di vio-lenza effettuati come strascichi della guerra partigiana, i diffusi atteggiamenti di intimidazio-ne non furono tutte invenzioni della propaganda democristiana”.

[...] La posizione del Pci può essere così sintetizzata: se la gente per conto proprio e spon-taneamente vuole accantonare le armi sono faccende sue, inclusi i rischi che corre e nonsono problemi di nessuna organizzazione di massa. E i depositi di armi, che gruppi di parti-giani non solo comunisti avevano costituito, non debbono avere niente a che vedere diret-tamente con l’azione politica e il comportamento politico ufficiale né del Partito comunistané delle varie organizzazioni di massa sorte attorno a lui. E addirittura la mappa di dove fos-sero le armi nessuno voleva averla nel Pci, perché non c’era bisogno di averla, dal momentoche, secondo la concezione della guerra di popolo, è il popolo che deve avere le armi e quan-do serviranno salteranno fuori», in CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia. L’esperienza deigaribaldini della Valsesia, Borgosesia, Isrsc Bi-Vc, vol. III, 1996, pp. 313-314; 322.

24 ROBERTO GREMMO, Il processo Moranino. Tragedie e segreti della Resistenza biellese,Biella, Storia Ribelle, 2005, pp. 229-240.

25 Idem, pp. 233-234.

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travalicasse la dimensione giudiziaria assumendo connotati eminentemente politici26.Come concludere? Il modo migliore sembra quello di riportare le parole dette dal-

l’onorevole Riccardo Lombardi nell’intervento svolto in occasione del dibattito parla-mentare occorso nel settembre del 1956. In quell’occasione Lombardi espresse in modochiaro e definitivo le motivazioni per le quali si dovesse ritenere l’omicidio delle cinquepersone sospettate di essere spie e delle due mogli, per quanto violento e probabilmenteanche frutto di un errore di valutazione, un atto di guerra e quindi non perseguibile dallagiustizia ordinaria: «In sostanza, che cosa si domanda per concedere o meno l’autoriz-zazione a procedere in giudizio contro il collega Moranino? Si domanda di accertare sele azioni che egli ha commesso sono state o non dipendenti da fatti di guerra, perché sele sue azioni sono state in qualche modo determinate da fatti di guerra è evidente chevengono completamente coperte da amnistia.

E si domanda alla Camera, con una finzione che a me pare rasenti l’ipocrisia, didare fiducia ai giudici. Onorevoli colleghi, tutta la fiducia ai giudici, ma nessuna fiduciaa giudici che sono nell’impossibilità, qualunque sia il loro valore, la loro onestà, e la lorobuona volontà, di apprezzare, a distanza di tempo, il clima e le condizioni in cui si sonosvolte quelle azioni, e che pertanto non sono più in grado di stabilire, né attraversodocumenti né attraverso indizi, se quei fatti furono o no connessi con lo stato di guerra.

Trattandosi di esecuzioni contro spie o presunte spie fatte attraverso un giudiziosommario, nel corso di una azione durante la quale la formazione di cui l’onorevoleMoranino era responsabile era minacciata alla distanza non di mesi o anni, ma di ore,essendosi alla vigilia del giorno in cui le avanguardie delle truppe di rastrellamento sta-vano per invadere la zona nella quale operava la formazione dell’onorevole Moranino;trovandosi l’onorevole Moranino di fronte alla necessità di decidere subito per potersalvare i suoi uomini e reagire alle insidie che lo circondavano da tutte le parti; trovan-dosi l’onorevole Moranino di fronte ad elementi sospetti, dei quali ebbe ad accertare

26 Ci si riferisce ad una interrogazione presentata da onorevoli del gruppo parlamentaredel Movimento sociale italiano nella quale si chiedevano chiarimenti sulla validità dell’istitutodella grazia e sulla perseguibilità di Moranino per i reati antinazionali da lui commessi nelperiodo del suo soggiorno a Praga: «Con riferimento alla notizia della concessione della gra-zia all’ex deputato Moranino, condannato per una serie di delitti comuni di particolare effe-ratezza, commessi contro persone di sua parte e loro familiari, senza considerare i fatti distrage dell’ospedale psichiatrico di Vercelli, coperti con il compiacente velo degli atti di guerra,e sfuggito ai ferri della giustizia punitiva con passaporto di servizio, verso ospitali cortine,per conoscere a parte la procedura motu proprio di esclusiva competenza del Presidente del-la Repubblica, a norma dell’articolo 87 comma 11 della Costituzione, se siano state osservate,per la forma, garanzia di sostanza, le norme previste dallo articolo 595 del Codice di proce-dura penale ed una prassi cinquantennale; inoltre se la grazia deve intendersi estendibileanche all’attività antinazionale del Moranino all’estero, che integra un grave reato previstoe punito dall’articolo 269 del Codice penale nell’ipotesi continuata ed aggravata per la suaattività antitaliana da Radio Praga; se un procedimento penale sia in corso di istruzione o seritenga che la grazia crei un’aureola di immunità anche per azioni criminose successive». In-terrogazione presentata dagli onorevoli Gray, Nencioni, Basile, Cremisini, Crollalanza, Fer-retti, Fiorentino, Franza, Grimaldi, Latanza, Lessona, Maggio, Pace, Picardo, Pinna, Ponte eTurchi nella seduta del Senato del 15 giugno 1965, in Atti Parlamentari. 1965, Roma, Sena-to, 1965, pp. 16.191-16.192.

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indizi abbastanza probanti, come è possibile oggi, ai giudici, anche animati dal maggio-re disinteresse, dalla migliore buona fede giudicare? E in base a che cosa possono giu-dicare? Forse in base ai verbali del tribunale? Ma, onorevoli colleghi, quale tribunale diguerra, e quale tribunale di guerra partigiana può oggi esibire i suoi archivi?»27.

Pietro Secchia28

Pietro Secchia è sicuramente il più autorevole tra i tre dirigenti biellesi comunistieletti all’Assemblea costituente.

Nacque a Occhieppo Superiore il 19 dicembre 1903 da famiglia operaia. Fin da gio-vane, nel 1919, aderì alla Federazione giovanile del Partito socialista, cominciando cosìuna lunga militanza politica che terminò solamente con la morte il 7 luglio 1973. Neglianni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale, Secchia parteci-pò alle più importanti lotte promosse dal movimento operaio: organizzò scioperi in va-rie fabbriche del Biellese e nel 1920 aderì, unico impiegato della fabbrica nella qualelavorava, all’occupazione delle fabbriche da parte delle maestranze e collaborò ad or-ganizzare la produzione. Per questo motivo venne licenziato e fu costretto ad emigraretemporaneamente in Francia. Due anni più tardi fu licenziato una seconda volta perchéaveva partecipato allo sciopero legalitario, ultimo movimento di piazza promosso dalleorganizzazioni operaie contro il fascismo. Contemporaneamente aderì al Partito comu-nista d’Italia, divenendo dirigente nazionale dell’organizzazione giovanile. Naturalmen-te, l’attivismo di Secchia catturò fin dall’inizio l’attenzione delle forze dell’ordine. In-fatti il giovane biellese subì un primo arresto nel febbraio del 1923 per detenzione abu-siva di munizioni per pistola. Da quel momento, e per i successivi tre anni, trascorse lasua esistenza alternando all’attività di partito il carcere. Venne infatti arrestato nuova-mente nel maggio del 1925 per aver distribuito volantini contro il governo fascista; allafine dello stesso anno fu nuovamente fermato con l’accusa di reato a mezzo stampa(diffusione di propaganda antimilitarista). Fu rilasciato solo dieci mesi più tardi. Desti-nato al confino nel novembre del 1926, riuscì a scappare dandosi alla latitanza.

Iniziò il periodo della clandestinità. Negli primi anni dopo l’instaurazione della ditta-tura fascista la sua attività, anziché affievolirsi, si intensificò: girò per l’Italia, contattòi militanti, curò la stampa clandestina di partito. Fu l’anima della resistenza antifascistain Italia. Il ruolo assunto nell’organizzazione dell’apparato clandestino gli consentì, benpresto, di essere cooptato all’interno degli organismi dirigenti nazionali del Pcd’I. Ilperiodo che seguì fu una delle stagioni più intense dell’attività politica di Secchia. Alter-nò il suo lavoro in Italia con le missioni all’estero; partecipò attivamente alle riunionidell’Internazionale comunista; fu tra i più convinti sostenitori della “svolta” del 1930,

27 Intervento di Riccardo Lombardi nella seduta del Senato del 27 gennaio 1955, in AttiParlamentari. 1955, Roma, Senato, 1955, p. 16.472.

28 Cfr. lemma Pietro Secchia in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, cit.,vol. V, 1987, pp. 454-464; Pietro Secchia, in E. COLLOTTI - R. SANDRI - F. SESSI (a cura di), op.cit., pp. 641-642; A. BALLONE, Pietro Secchia, in C. SIMIAND (a cura di), op. cit., pp. 537-552;Pietro Secchia, in F. ANDREUCCI - T. DETTI (a cura di), op. cit., vol. IV, 1978, pp. 597-604.

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cioè del ritorno al lavoro politico del partito in Italia. A causa dei continui arresti di di-rigenti, divenne il responsabile del Centro interno del partito. In questa veste tentò diformare le “squadre di difesa antifascista” e i “giovani arditi antifascisti” con l’obiettivodi organizzare la lotta militare contro il fascismo. Similmente a quanto accadde agli altridirigenti comunisti rientrati in Italia, anche per Secchia la cattura da parte della poliziafascista era questione di mesi. Infatti, il 3 aprile 1931 venne arrestato a Torino: nonaveva ancora compiuto 28 anni ma nella sua già lunga militanza politica aveva parteci-pato ad avvenimenti fondamentali nella storia del movimento comunista italiano. Da quelmomento e fino al luglio del 1943 Secchia fu costretto ad una relativa inattività. Il Tri-bunale speciale per la difesa dello Stato lo condannò a diciassette anni e nove mesi direclusione, la maggior parte dei quali li trascorse nel carcere di Civitavecchia e al con-fino. Si è detto che la sua inattività politica era relativa: infatti, anche nel periodo di re-clusione, partecipò a numerose discussioni e dibattiti, così come promosse, assiemead altri dirigenti comunisti, cicli di lezioni teoriche sul marxismo e la storia della Rivo-luzione russa. Per la sua irriducibilità le stesse autorità di polizia lo indicarono come“elemento pericolosissimo”.

Liberato nell’agosto del 1943, dopo la caduta del fascismo riprese immediatamentei collegamenti con il Pci e a Roma partecipò all’organizzazione della resistenza armatadella città. Dopo la caduta della capitale si trasferì al Nord dove, assieme ad altri diri-genti comunisti, promosse l’organizzazione dei primi nuclei partigiani. Finalmente, dopopiù di quindici anni, poté mettere in pratica ciò che andava sostenendo fin dalla II Con-ferenza di organizzazione del Pci. Nel ruolo di commissario generale delle brigate “Ga-ribaldi” e assieme a coloro che avevano fatto parte delle brigate internazionali in Spagna(Longo, Roasio), Secchia cercò, riuscendoci, di coniugare l’azione militare con quelladi massa, la resistenza armata con quella di popolo. Nei venti mesi di lotta clandestinalavorò costantemente per ampliare il movimento garibaldino e, contemporaneamente,per rafforzare, sviluppare e ramificare il Partito comunista e gli organismi di massa adesso collegati. A questo obiettivo subordinò anche le discussioni che si svolgevano al-l’interno del gruppo dirigente attorno alla svolta di Salerno: Secchia, come del resto ladirezione del Nord Italia, non metteva in discussione l’applicazione della linea unitariaproposta da Togliatti, anche se la interpretava nell’ottica della continuità con la politicada loro svolta fin dall’inizio della guerra di liberazione. Fu in quel periodo che Secchiainiziò a riflettere sul tema della costruzione di uno Stato pienamente democratico e sulrapporto che questo avrebbe dovuto avere con il movimento democratico e operaio,enucleando alcuni dei nodi tematici che poi avrebbero attraversato, sottotraccia, tuttala sua successiva attività politica29.

Dopo la Liberazione, Secchia fu chiamato a Roma a ricoprire incarichi di primo pia-no all’interno del partito. Nel gennaio 1945 venne nominato responsabile nazionale del-l’organizzazione. In questo ruolo Secchia lavorò alla costruzione e al radicamento ca-

29 Sull’attività svolta da Secchia nel corso della guerra di liberazione e, in generale, sul-l’enucleazione delle linee che avrebbe dovuto avere il futuro assetto democratico dell’Italiacfr. P. SECCHIA, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione. 1943-1945. Ricordi,documenti inediti e testimonianze, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 389-613.

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pillare del partito nuovo nel tessuto sociale italiano. Di più, per la sua posizione, per lacapacità di controllare e condizionare, attraverso la gestione della struttura del partito,l’applicazione della linea politica nazionale, Secchia, almeno fino alla metà degli annicinquanta, fu uno tra i dirigenti più influenti all’interno del partito. Pur confermando lalinea nazionale proposta da Togliatti, ne dava una interpretazione più movimentista, in-sistendo sulla necessità che il Pci, per difendere le conquiste operaie ottenute negli annisuccessivi alla fine della guerra e per promuovere il rinnovamento democratico del paese,adottasse un metodo d’azione capace di coniugare efficacemente l’iniziativa parlamen-tare con una costante iniziativa di mobilitazione popolare. Si trattava di una lettura di-vergente della strategia del Pci. Lo stesso Secchia ne era consapevole quando, nei suoidiari, riportava un episodio accaduto nel corso della campagna condotta contro l’ap-provazione della riforma elettorale del 1953. «La legge truffa ci metteva alle corde, do-vevamo batterci. Andai da Togliatti e gli dissi: “Bisogna fare qualcosa, far ritirare le si-nistre dal Senato”. “Già - disse lui - e poi che facciamo, la rivoluzione?”. “No - gridaiio - non facciamo la rivoluzione. Ma se ascoltiamo te non facciamo mai niente”»30.

Il contrasto politico si risolse solo un anno più tardi, quando un collaboratore diSecchia scappò portando con sé ingenti somme di denaro. A causa di ciò il dirigentebiellese fu allontanato dalla segreteria e, successivamente, dalla stessa direzione. L’estro-missione di Secchia da incarichi nazionali coincise però con l’apertura di una nuovafase della sua biografia politica: dopo una breve parentesi come segretario regionale delPci in Lombardia e come responsabile dell’attività editoriale del partito, si dedicò all’at-tività di storico del Partito comunista e della Resistenza. Contemporaneamente conti-nuò con assiduità l’attività come senatore. La morte di Togliatti e la nomina di Longo anuovo segretario del Pci riabilitarono in parte la figura di Secchia, che venne incaricatodi compiere numerose missioni di partito all’estero.

Al ritorno da uno di questi viaggi, nel gennaio del 1972, cominciò a manifestare iprimi sintomi del male che, di lì a pochi mesi, lo avrebbe portato alla morte. Morì aRoma il 7 luglio 1973.

Per quanto riguarda Pietro Secchia è possibile ricostruire, o quantomeno delinearequelli che sono i giudizi e le riflessioni da lui svolti in merito al ruolo dell’Assembleacostituente e della Costituzione nel processo di edificazione dello stato democratico post-bellico.

Giova preliminarmente ripetere che anche Secchia, nonostante ricoprisse incarichidi primo piano all’interno dell’organizzazione nazionale del Pci, non partecipò attiva-mente ai lavori dell’Assemblea costituente, essendo costantemente impegnato nell’operadi riorganizzazione e costruzione del “partito nuovo”. L’impasse cui si trova di frontechi voglia ricostruire le riflessioni svolte da Secchia su questo argomento è però risol-vibile se si allarga lo spettro dell’indagine ad altri documenti e se si ampia cronologica-mente il campo di ricerca fino ad abbracciare l’attività da lui svolta nel corso di tutto ilperiodo repubblicano: ci si accorge allora che il tema della Costituzione permeava, sot-totraccia, molti degli interventi politici svolti da Secchia in quegli anni. Certo, questonon significa che questa venisse posta al centro della sua riflessione sin dalla fine della

30 P. SECCHIA, Promemoria autobiografico, cit., p. 237.

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guerra. Ne è riprova quello che lui stesso disse a proposito del ruolo svolto appena no-minato responsabile dell’organizzazione del partito, alla fine di giugno del 1945: «Finegiugno 1945: sono incluso nella segreteria di partito e designato come responsabile dellasezione nazionale di organizzazione, mi impegno in pieno nel lavoro organizzativo delpartito. Forse, tutto dedito al lavoro di ricostruzione e di sviluppo del partito, trascuroo non do sufficiente attenzione all’attività politica, specialmente l’attività di governo.Allora vi era una certa divisione, alcuni compagni si occupavano quasi esclusivamentedell’attività di governo, altri dell’attività di partito. Fu questa divisione troppo netta,unitamente al senso di amarezza che provavo per come le cose erano andate, che for-se, sia pure senza accorgermi, mi fecero rivolgere l’attenzione esclusivamente al par-tito lasciando che altri facesse ciò che voleva sul piano dell’attività governativa, tantoper quella strada non si sarebbe concluso nulla di buono. Ma ritengo che qui ci sia statoun errore, ritenere di poter in qualche modo correggere le debolezze di governo e l’azionesul piano parlamentare, intervenendo in altro modo, facendo pesare il peso dell’azionedel partito e delle masse»31.

Si ritornerà sulle ultime considerazioni condotte da Secchia nella citazione. Quelloche è utile sottolineare, è che nelle riflessioni svolte dal nostro sul ruolo della Costitu-zione negli anni della Repubblica, incidevano profondamente sia le vicende della suabiografia politica che l’evolversi della situazione nazionale: la carica di responsabile del-l’organizzazione del Pci, il ruolo di vicesegretario del partito, la sua estromissione dalgruppo dirigente e la successiva riduzione della possibilità di intervenire nella vita pub-blica, l’attività di senatore e storico del movimento operaio si intrecciavano con le vi-cende del periodo della ricostruzione postbellica, a cui seguì quello della fase più duradella “guerra fredda”, del risveglio dei movimenti di massa a partire dal luglio 1960 edel pericolo di colpo di stato che avrebbe attraversato tutto il decennio successivo.

Schematicamente possiamo suddividere la riflessione di Secchia in tre fasi fonda-mentali: il periodo della clandestinità (1943-1945); la fase della Costituente e degli anniimmediatamente successivi (1945-1953); quella dell’emarginazione politica. In quest’ulti-ma fase l’attività di Secchia fu profondamente legata agli avvenimenti nazionali, tantoche è possibile articolare maggiormente la sua riflessione e individuare un periodo, aper-tosi con i fatti del luglio 1960, che fu caratterizzato dal suo impegno parlamentare nelpromuovere progetti di legge per la realizzazione della Costituzione, e un’altra fase cherisentì dell’esplodere della protesta operaia e studentesca della fine degli anni sessanta.

Nel periodo della clandestinità e della lotta di liberazione Secchia ricoprì incarichi diprimo piano, a fianco di Luigi Longo, nell’organizzazione del Partito comunista e delmovimento partigiano nell’Italia occupata. Coinvolto nell’organizzazione quotidiana delleiniziative politico-militari, non affrontò puntualmente e approfonditamente il tema dellaricostruzione dello stato democratico; tuttavia i dibattiti che si svilupparono a partiredall’inizio del 1944 attorno al ruolo dei Cln, alla svolta di Salerno e alla formula della“democrazia progressiva” forniscono utili indicazioni circa le aspettative che i dirigentidel Nord nutrivano nei confronti del futuro assetto istituzionale dell’Italia. Il successodegli scioperi del marzo 1944 e dell’iniziativa del Pci spinsero i dirigenti del Nord a ri-

31 Idem, pp. 192-193.

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valutare il ruolo dei Cln come istituti di autogoverno popolare, strutture di potere di un“ordine nuovo” che avrebbero dovuto contrapporsi alle vecchie forme dello stato ita-liano, con prefetti, governatori o podestà32. I comitati di liberazione nazionale sarebbe-ro dovuti diventare strumenti di rappresentanza diretta ed espressione della volontà dellemasse popolari in tutte le realtà sociali del Paese. L’idea era quella di costruire una de-mocrazia organizzata che si articolasse a livello territoriale in Cln che coordinassero edirigessero l’attività e la vita collettiva della società italiana. In quanto espressione dellemasse popolari, questa democrazia organizzata avrebbe avuto nella classe operaia il sog-getto motore e detentore del potere. Insomma, i dirigenti del Nord delineavano le formedi una democrazia organizzata in grado di gestire ed esplicare efficacemente l’egemo-nia politica e sociale della classe operaia così come si era andata definendo nei primimesi della lotta di liberazione33. Era lo stesso Secchia a insistere, ancora all’inizio del1945, sul fondamentale ruolo politico ricoperto dai comitati di liberazione nazionale. ICln, in particolare con l’ingresso dei rappresentanti dei comitati di agitazione, dei comi-tati di difesa dei contadini, dei gruppi di difesa della donna e del Fronte della gioventù,avrebbero costituito il nucleo originario di un regime democratico che fosse direttaespressione della volontà popolare. Un regime caratterizzato dalla larga partecipazionedelle masse34.

«Il Comitato di liberazione nazionale che è stato sinora solo una coalizione di partiti,deve estendere la sua base unitaria, riunire in un solo fronte tutti gli italiani disposti alottare contro gli oppressori, collegarsi con tutti gli organismi di massa e diventare l’or-gano rappresentativo di tutte le forze nazionali organizzate ed attive nella lotta contro itedeschi e i fascisti [...] è nel corso della lotta stessa che si creeranno le nuove formedella vita democratica di domani e cioè di una democrazia progressiva, aperta a tutte leconquiste»35.

L’anticipazione del futuro regime democratico avrebbe dovuto costruirsi nei terri-tori che le forze partigiane nel corso della loro attività militare andavano liberando. Sec-chia, riferendosi all’attività del movimento di liberazione jugoslavo, individuava nellaformazione di zone libere36 dalle autorità fasciste la prima fase del progetto di costru-

32 GUIDO QUAZZA, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Fel-trinelli, 1975, p. 425 e ss.

33 FRANCO SBARBERI, I comunisti italiani e lo stato. 1929-1956, Milano, Feltrinelli, 1980.34 P. SECCHIA, Nascita di una nuova democrazia, in “La nostra lotta”, n. 9, maggio 1944,

pp. 7-8, in ID, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione, cit., pp. 425-426.35 ID, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione. 1943-1945, cit., pp. 425-426.36 Secchia sottolineava l’importanza politica della costruzione di zone libere; zone all’inter-

no delle quali sarebbe stato possibile per i Cln esercitare con esclusiva sovranità i suoi po-teri. Nondimeno l’autore riconosceva i limiti dell’esperienza delle zone libere: «Purtroppo ifatti dimostrarono che, data la situazione generale, i rapporti di forza esistenti e la mancanza,anzi il rifiuto di un aiuto adeguato da parte degli alleati [...] non fu possibile tenere a lungo iterritori liberati. Si arrivò, nella seconda metà del 1944 ad avere diverse importanti zone liberee numerose unità di manovra abbastanza forti sia per il numero degli effettivi che per capa-cità combattive. Complessivamente le zone libere furono una quindicina. In Piemonte: le zonedelle valli di Lanzo, Maira e Varaita, delle Langhe, dell’Astigiano e dell’Alto Monferrato, del-la Valdossola, della Valsesia, una parte del Biellese e della Valle d’Aosta; in Liguria: la val

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zione di un governo democratico basato sulle masse popolari37. Per avere un’idea dellecaratteristiche che, secondo Secchia, avrebbe potuto assumere la nuova democraziaitaliana, è utile riproporre un estratto tratto da un lettera inviata al Comando della I di-visione “Garibaldi” della Valsesia il 10 luglio 1944: «Creare gli organismi di potere po-polare: appena liberato un paese, un villaggio, una città, appena cacciati i nazifascistibisogna creare delle giunte popolari, bisogna creare degli organismi di potere popolareche siano emanazione diretta delle masse in lotta e delle loro organizzazioni. Queste giuntepopolari devono essere composte da rappresentanti delle unità partigiane, da delegatidei comitati contadini, dei comitati di agitazione di fabbrica, del Fronte della gioventù,dei gruppi di difesa delle donne, dei migliori elementi antifascisti di partito e senza par-tito. Quello che importa è che gli organismi di potere popolare siano emanazione direttadel popolo e siano composti da elementi di provata fede antifascista e che abbiano datoprova di combattività e di attaccamento agli interessi delle larghe masse popolari. Ele-menti decisi a lottare per la libertà, la democrazia ed il progresso del nostro paese. Gliorganismi di potere popolare devono essere composti da uomini che siano effettiva-mente alla testa della lotta di liberazione nazionale, che siano espressione della partemigliore e più combattiva del popolo italiano, che riscuotano la fiducia delle larghe masse.Gli organismi di potere popolare devono subito prendere nelle loro mani l’amministra-zione del paese, del villaggio, della vallata e se riusciremo a liberare la provincia, dellaprovincia. [...] noi constatiamo con piacere che voi siete già su questa linea e che neipaesi da voi liberati avete provveduto a fare sorgere amministrazioni comunali, a gesti-

Trebbia, la Borbera, la valle del Taro, la zona ligure occidentale comprendente il territorio trail monte Coppo, il col di Nava, e Bagnasco; in Lombardia: l’Oltrepò Pavese; in Emilia: le zonedell’alta valle del Ceno in provincia di Parma; la Repubblica di Montefiorino in provincia diModena; la zona libera della Carnia in Friuli; l’altopiano del Cansiglio ed alcune altre nelVeneto ed in Toscana», in idem, pp. 510-511.

37 In una lettera inviata al comando della I divisione d’assalto “Garibaldi” Zona Valsesia,il 10 luglio 1944, Secchia illustrava quale significato politico-militare ricoprisse la lotta per laformazione delle zone libere. Zone che, tuttavia, per diventare vere e proprie anticipazionidel futuro stato democratico avrebbero dovuto avere una estensione ben più ampia di quellefino ad allora liberate: «Occupazione di grandi zone: altro compito che il nostro partito si pro-pone in questo momento è quello di agire secondo un piano preciso che comporti la libera-zione attraverso la lotta partigiana di territori abbastanza vasti nei quali il potere sarà eserci-tato da organismi popolari, giunte popolari [...] questo significa che non basta cacciare i te-deschi ed i fascisti da un villaggio o da una vallata, ma è necessario collegare tra di loro edestendere i territori liberati; è necessario procedere con un piano che permetta di liberare am-pi territori che comprendano una o più province nelle quali vi dovrà essere un potere centraleche amministri e diriga tutta la zona. Noi dovremmo riuscire a creare nell’Italia occupata daitedeschi alcune zone abbastanza ampie e completamente nelle mani dei partigiani e nellequali l’autorità sarà esercitata esclusivamente dal potere popolare. Per dare un’idea dell’am-piezza che dovrebbero avere queste zone facciamo alcuni esempi: noi dovremo tendere neinostri piani a liberare una zona dalla alta valle Po sino a Savona ed Imperia. Un’altra zona po-trebbe essere quella tra Genova-Spezia-Parma e Piacenza. Una terza zona potrebbe essere unterritorio che comprendesse la valle d’Aosta, la valle di Susa e la Valsesia», Pietro Secchia alComando della I divisione d’assalto “Garibaldi” Zona Valsesia, il 10 luglio 1944, in P. SEC-CHIA, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione. 1943-1945, cit., p. 524.

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re fabbriche, a far funzionare l’apparato giudiziario, le mense per i disoccupati ed i bi-sognosi, a creare amministrazioni popolari delle mense aziendali»38.

Al di là del problema relativo al rapporto tra la ricezione che i dirigenti del Nord die-dero della formula togliattiana della “democrazia progressiva” e i conseguenti problemicirca la possibile esistenza di due linee politiche all’interno del Partito comunista (nodosul quale in questi decenni è stata pubblicata una corposa letteratura storiografica e cheesula dall’oggetto di questa relazione39), è interessante sottolineare quelle che sono leaspettative che Secchia sembrava nutrire circa l’assetto del futuro stato democratico.Aspettative e temi che percorsero tutta l’attività politica del dirigente comunista nel periodopostbellico.

Il nuovo stato democratico si sarebbe dovuto fondare sul completo sradicamentodel fascismo. L’eliminazione di ogni possibile “rigurgito” fascista era vincolata, secon-do Secchia, all’adozione di adeguate riforme in campo industriale e agricolo, così comenel campo degli apparati dello Stato. Come si vede, il problema del fascismo e della suaeliminazione non era legato solamente alla scomparsa del fenomeno politico, bensì al-l’eliminazione delle sue condizioni economiche e sociali. È altresì evidente, in questainterpretazione del fascismo, l’influenza della Terza Internazionale e della sua letturadel fascismo come fenomeno internazionale strettamente legato alle sorti del capitali-smo. Le aspettative nutrite da Secchia, e con lui da una parte dei dirigenti comunisti,circa l’adozione di misure di riforma strutturale per eliminare il pericolo fascista sareb-bero rimaste, nel dopoguerra, disilluse ed inattuate. Nondimeno il carattere antifascistanel senso più lato del termine rimase uno dei cardini della riflessione svolta da Secchiacirca l’attuazione della Costituzione.

L’assetto istituzionale della “nuova” Italia si sarebbe dovuto fondare esclusivamen-te sulla sovranità popolare: come disse nel maggio del 1946 in un articolo pubblicato invista dell’elezione dell’Assemblea costituente, «ciò che importa è che non debba esi-stere nel nuovo Stato italiano nessun potere, nessun autorità che non tragga la sua ori-gine dalla volontà del popolo»40. Cosa si debba intendere con il concetto di popolo èabbastanza complesso; probabilmente Secchia lo intendeva come comprensivo, sottola direzione egemonica della classe operaia, di intellettuali, tecnici, contadini, ceti medi,ovvero di tutte le categorie produttive che non erano collegate con la grande borghesiacapitalista. Tuttavia, come accennato prima, la sottolineatura della centralità del popolopermise a Secchia, pur nella accettazione complessiva della politica proposta da To-gliatti, di insistere sul carattere centrale della politica di classe nella costruzione dell’as-setto sociale postbellico. Nondimeno la costruzione di una democrazia “popolare” or-ganizzata sollevava numerosi nodi problematici: come il popolo avrebbe espresso la suavolontà? Attraverso quali istituti si sarebbe articolata la democrazia? Quale rapporto

38 Idem, pp. 524-525.39 Di seguito ricordiamo solo alcuni dei più significativi contributi storiografici e biogra-

fici comparsi nel corso del tempo attorno a questo problema: P. SPRIANO, Storia del partitocomunista. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, cit.; G. QUAZZA, op. cit.; G. AMENDO-LA, Lettere da Milano: ricordi e documenti. 1939-1945, Roma, Editori Riuniti, 1973; P. SEC-CHIA, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione. 1943-1945, cit., pp. 389-503.

40 P. SECCHIA, Libertà e repubblica, in “Vie Nuove”, 26 maggio 1946, in E. COLLOTTI (acura di), op. cit., p. 198.

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sarebbe intercorso tra i diritti individuali e quelli che si esercitano collettivamente? E tral’operaio, la classe e le istanze che li rappresentano? Secchia non affrontò in modo ar-ticolato e approfondito questi temi: la sua riflessione seguì quella del gruppo dirigentedel Nord Italia; nel periodo della clandestinità, la direzione popolare si sarebbe dovutasviluppare, sottolineava Secchia, attraverso la diffusione capillare dei comitati periferi-ci e degli organismi di massa; nella fase postbellica, dopo il venir meno di ogni possibilericostruzione ciellenistica delle strutture dello Stato, l’esercizio della sovranità popolaresarebbe invece avvenuto riconoscendo la centralità del potere legislativo rispetto a quelloesecutivo e a quello giudiziario. Questo tema, che percorse sottotraccia tutta la riflessionesvolta da Secchia, sarebbe riemerso come elemento centrale della sua attività politica apartire dagli anni sessanta, quando si sarebbe battuto per promuovere una riforma insenso democratico di alcuni apparati dello Stato.

L’ipotesi di trasformazione in senso ciellenistico dello stato italiano tramontò benprima della conclusione del conflitto. Con l’insurrezione e il ritorno alla vita democra-tica, tutta l’attenzione dei dirigenti del Pci si concentrò attorno ai problemi relativi allacostruzione del “partito nuovo”, al referendum monarchia/repubblica e all’elezione del-l’Assemblea costituente. Secchia, impegnato nell’attività organizzativa, non intervennese non raramente nel dibattito attorno al ruolo e ai compiti della Costituente. Nondime-no, se si sposta l’attenzione dal tema specifico della Costituente a quello dell’analisi deirapporti di forza nella società italiana e della realizzazione della formula della “democra-zia progressiva” svolta dal dirigente biellese, si possono trarre altre considerazioni cir-ca il ruolo e la funzione da lui affidata alla Costituzione nel futuro assetto dello statodemocratico. Vale la pena riprodurre quanto affermato da Secchia nella famosa “Rela-zione sulla situazione italiana” presentata a Mosca nel dicembre del 1947: «La situazio-ne nella quale ci muoviamo in Italia è determinata da due elementi fondamentali: la lottaacutissima di classe che si svolge nel nostro paese e la lotta internazionale che si svolgetra le forze della libertà e del socialismo e le forze reazionarie imperialiste. [...] ci trovia-mo, a nostro modo di vedere, in un momento molto delicato e direi anche decisivo dellavita e della storia del nostro paese. Personalmente penso che si tratta di decidere oggise impegnarci in battaglie decisive o meno. Il seguire oggi una strada piuttosto che un’altrapuò avere conseguenze decisive per lo sviluppo della democrazia in Italia nei prossimianni. Possiamo tornare al governo? Oggi non ne vedo la possibilità [...] propongo io dicambiare la nostra prospettiva o di lavorare con le due prospettive? No, io non propon-go di cambiare l’obiettivo di lotta per un regime di democrazia progressiva, di lottareper portare avanti la democrazia. Ma come noi portiamo avanti la democrazia in unasituazione quale si è creata nel nostro paese? [...] possiamo fidarci soltanto sullo svi-luppo e sulle progressive vittorie elettorali? [...] il pericolo dal quale dobbiamo guardar-ci è quello di cedere oggi una posizione, domani un’altra e trovarci poi nella condizionedi non poter più avere l’iniziativa. [...] noi dobbiamo orientarci verso lotte più ampie,più dure, più decise»41.

Al di là delle considerazioni circa il significato del riferimento a lotte più decise, quelloche affiora qui è la constatazione svolta dal deputato comunista circa il fatto che l’ini-

41 Relazione sulla situazione italiana presentata a Mosca nel dicembre del 1947, in E.COLLOTTI (a cura di), op. cit., pp. 625-626.

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ziativa operaia avesse assunto caratteristiche difensive rispetto alle conquiste ottenutenell’immediato dopoguerra. Di fronte al rovesciamento dei rapporti di forza tra classeoperaia e borghesia, Secchia si domandava quali strategie si sarebbero potute adottareper promuovere una politica di classe in grado di difendere le conquiste “democratiche”.La risposta che dava era tutta centrata attorno all’utilizzo del partito e delle organizza-zioni di massa nella lotta politica, nella politicizzazione delle lotte sociali e nel rovescia-mento nella società di quelle politiche. Anche l’iniziativa dei comunisti all’Assembleacostituente doveva dunque essere supportata dall’azione extraparlamentare. Questo èquanto traspare dall’intervento svolto da Secchia nella riunione della direzione naziona-le del 20-22 giugno 194642. Per il dirigente comunista era necessario «far sorgere inogni officina, in ogni quartiere, in ogni villaggio, delle leghe repubblicane o dei comitatidi difesa della Repubblica per una Costituente repubblicana». Ritorna qui il richiamoall’importanza di articolare la lotta attraverso istanze organizzative in grado di raccoglieree dirigere la volontà delle masse popolari. Così come per i Cln nel periodo della clande-stinità, i comitati di difesa della Repubblica avrebbero avuto il compito di esprimerel’influenza diretta e unitaria del popolo nei confronti del lavoro svolto dalla Costituente.

«L’opera dei deputati democratici e repubblicani alla Costituente, l’opera del nostropartito e delle forze sinceramente democratiche deve poggiarsi sulla volontà e sulleaspirazioni liberamente espresse dalle larghe masse lavoratrici, attraverso ai comitati diunità repubblicana, attraverso alle leghe repubblicane»43.

Comunque, ben presto, al tema del condizionamento di classe dei lavori dell’As-semblea costituente si sostituì quello della difesa dei diritti sanciti dalla Costituzione. Ilperiodo compreso tra la seconda metà degli anni quaranta e le elezioni politiche del 1953rappresenta la fase più acuta della “guerra fredda”. Agli occhi dei dirigenti comunistil’atmosfera politica e sociale italiana sembrava poter preludere da un momento all’altroad una svolta autoritaria. Ad alimentare la tensione interveniva anche la gestione repres-siva dell’ordine pubblico attuata dal governo democristiano. Effettivamente, nel corsodegli anni cinquanta, i morti nelle mobilitazioni di piazza furono numerosi.

Il 9 gennaio 1950, nel corso di una manifestazione operaia davanti alle Fonderie Riunitedi Modena, la polizia sparò sulla folla e tra i dimostranti uccidendo sei persone. Nel1947 furono uccisi quattordici lavoratori; sedici nel 1948 e quindici nel 1949. Nel 1950ne furono uccisi altri diciassette. I feriti occorsi durante gli scontri di piazza sviluppa-tisi in quegli anni furono 3.126; i fermati 92.169. I quattro quinti dei caduti, feriti e ar-restati erano comunisti. Di fronte ad una situazione così compromessa l’attività politicadi Secchia e dei dirigenti comunisti si concentrò inevitabilmente attorno alla difesa deidiritti garantiti dalla Costituzione. Ciò che è interessante è che Secchia, nel recuperareil dettato costituzionale in funzione difensiva, attribuì grande significato alla tutela e alladifesa dei diritti civili e politici che definiscono il sistema politico liberaldemocratico44.

42 Verbale della seduta della direzione nazionale del Pci 20-22 giugno 1946, in RENZO MAR-TINELLI - MARIA LUISA RIGHI (a cura di), La politica del Partito comunista italiano nel perio-do costituente. I verbali della direzione tra il V e il VI Congresso 1946-1948, Roma, EditoriRiuniti, 1992.

43 Ibidem.44 P. SECCHIA, La nostra lotta per la libertà, la pace e la costituzione, discorso pronunciato

al Senato della Repubblica il 13 marzo 1953, in ID, La Resistenza accusa, cit., pp. 155-198.

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Sembrava passare in secondo piano, di fronte alla necessità che fossero garantite lepossibilità ai soggetti politici all’opposizione di poter manifestare liberamente ed espri-mere il proprio dissenso rispetto all’operato del governo, la rivendicazione della realiz-zazione dei diritti sociali. Si tratta, come detto, di un vero e proprio recupero della di-mensione garantista della Carta costituzionale.

La difesa dei diritti costituzionali riguardava tutti gli ambiti della società, a partire dailuoghi di lavoro all’interno dei quali la ristrutturazione produttiva era passata attraversoun ridimensionamento dell’influenza delle organizzazioni operaie e l’espulsione di unsignificativo numero di militanti comunisti. L’importanza della fabbrica dunque rimandavainevitabilmente ai primi articoli della Costituzione. Non esiste discorso pronunciato daSecchia in quel periodo nel quale non affermasse con forza la centralità del primo com-ma dell’articolo 1 della Carta: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro».

Il lavoro è il veicolo attraverso il quale il cittadino realizza se stesso, lo strumentocon cui conquista e afferma la sua dignità La centralità ad esso assegnata nella Costi-tuzione esigeva, per poter essere concretamente realizzata, il pieno esercizio collettivodei diritti politici, civili, sindacali sanciti dalla Carta. Di qui le continue accuse rivolte algoverno democristiano di violare i diritti fondamentali del movimento operaio negandoil diritto di riunione, di manifestazione, di sciopero. Una politica, questa, che Secchianon esitò a definire anticostituzionale, fuori dalla legalità democratica.

Le strategie attraverso le quali promuovere la difesa dei diritti e delle garanzie costi-tuzionali passava, naturalmente, secondo Secchia, attraverso l’organizzazione di vastimovimenti di massa. Ancora una volta era attorno all’incapacità del partito di legarelotta di massa e difesa della Costituzione che si appuntavano le maggiori critiche. «[...]da tempo la Costituzione ha cessato di avere valore nelle fabbriche [...] il potere nellasoluzione dei problemi di lavoro è notevolmente ridotto nelle fabbriche e fuori dallefabbriche [...] il problema è ancora e sempre quello di riuscire a convincere, a persua-dere che le forze per operare con successo, per dare scacco all’attacco clerico-reazio-nario, esistono: esistono le forze per salvare e fare avanzare la democrazia (lo scivola-mento sul piano inclinato verso il fascismo non è affatto inevitabile)»45.

La citazione più sopra rimanda ad un intervento svolto da Secchia al Comitato centralenella riunione del 15-17 ottobre 1958. Erano passati quattro anni dai fatti che avevanosegnato il suo declino politico, due dalla sua estromissione dalla direzione nazionale delpartito. L’emarginazione politica e l’estromissione dai posti dirigenziali modificarono ilsuo impegno all’interno del partito. Dopo una breve ed inconcludente parentesi comeresponsabile della stampa comunista, Secchia investì tutte le sue energie nell’attività disenatore e nel lavoro di ricostruzione dell’azione svolta dal Pci nel periodo della clande-stinità e della lotta di liberazione. In questa duplice veste Secchia non smise di rifletteresul ruolo della Costituzione e sulle strategie da adottare per giungere alla sua completarealizzazione. Di più, come senatore, si fece promotore di una serie di iniziative chescandirono una nuova fase della sua riflessione sulla costruzione dello stato democratico.

L’avvenimento che segnò il recupero in chiave propositiva dell’iniziativa di Secchia

45 Intervento al Comitato centrale, ottobre 1958. Il testo dell’intervento è riportato nelQuaderno n. 4: 1957, 1958 (e storia memoriale), in E. COLLOTTI (a cura di), op. cit., p. 432.

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fu il movimento popolare che si sviluppò a Genova e si diffuse in tutta Italia nel lugliodel 1960. L’esplodere quasi spontaneo della protesta popolare, l’ampia componente gio-vanile che partecipò al movimento e il suo riallacciarsi alle tematiche dell’antifascismoe della Resistenza aprirono, di fatto, una nuova fase della mobilitazione collettiva dopola crisi e il silenzio della seconda metà degli anni cinquanta. Quasi subito, al “movimen-to antifascista” si affiancò e sovrappose la ripresa delle lotte operaie e della conflittua-lità sociale che caratterizzò i primi anni sessanta. Ciò che più colpì in primo luogo idirigenti comunisti non fu solamente l’ampiezza del movimento, bensì i suoi protago-nisti. In un appunto redatto nel pieno della crisi del luglio 1960, Secchia sottolineava lanovità del protagonismo giovanile e il suo orientarsi in senso antifascista. «I giovanipartecipano in massa alle manifestazioni antifasciste. Si tratta di un fenomeno nuovo edi grande importanza»46. Cosa dovevano fare le organizzazioni operaie, e il Partito co-munista, per concretizzare in conquiste politiche la protesta popolare? Secchia, nuova-mente, constatava come tutto il movimento comunista fosse rimasto impreparato difronte all’esplosione della protesta popolare, bloccato nella riproposizione di una stra-tegia politica immobilista, legata alla dimensione istituzionale ed incapace di portare tuttal’organizzazione sul piano della “lotta di strada”. «La situazione creatasi improvvisa-mente nel paese nel mese di luglio trovò impreparati i partiti di sinistra. Non si può dopoun orientamento diverso che dura da anni portare di colpo il partito e le masse ad unalotta di strada e per obiettivi più avanzati. Le parole d’ordine: scioglimento del Msi, at-tuazione della Costituzione, finiranno di essere soltanto delle parole agitatorie senza al-cune possibilità di tradurle in qualche risultato positivo entro breve scadenza»47.

Esula dall’ambito di questa relazione chiarire se Secchia vedesse nelle agitazioni delluglio 1960 l’apertura di una nuova fase offensiva del movimento popolare e operaio ese riconoscesse in questi movimenti un processo di rovesciamento dei rapporti di forzatra i diversi soggetti sociali. Nondimeno, il fulcro della sua attività parlamentare nel decen-nio successivo ruotò attivamente attorno ai temi dell’antifascismo e della riforma degliapparati dello Stato. Non di trattava più, come nel decennio precedente, di rifarsi aldettato costituzionale in senso difensivo, ovvero per riaffermare il riconoscimento e ilrispetto dei diritti civili e politici del movimento operaio. Adesso Secchia, e con lui altriesponenti del movimento comunista, insistevano sulla necessità di passare ad una fasepropositiva, ovvero alla lotta per promuovere una serie di riforme tali da poter portarealla realizzazione della Costituzione e alla trasformazione in senso democratico dello statoitaliano.

Per il dirigente comunista il limite della Costituzione rimaneva nella sua natura dicompromesso48 tra forze politiche e concezioni dello Stato differenti49. Questa latente

46 Quaderno n. 3: 1957, 1958, 1959, 1960, 1961, in E. COLLOTTI (a cura di), op. cit., p. 376.47 Idem, p. 377.48 P. SECCHIA, La Costituzione e i rapporti tra i cittadini e lo stato, discorso tenuto il 4

ottobre 1962 sulla discussione sul bilancio dell’Interno, Roma, 1962. Estratto dal volume IIdell’opera Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea costituente, Roma, Vallecchi,1969.

49 ID, Come si difende la Repubblica, conferenza tenuta al Circolo Che Guevara di Triesteil 4 giugno 1971, in ID, Lotta antifascista e giovani generazioni, cit., pp. 105-116.

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«contraddittorietà», continuava Secchia, risultava evidente se si scorreva il testo costi-tuzionale: la prima parte aveva carattere programmatico, ovvero promuoveva la possi-bilità di attuare riforme di struttura in campo economico e sociale sancendo il carattereuniversale dei diritti civili, politici e sociali con l’aspirazione a realizzare una condizionedi uguaglianza non solo civile di tutti i cittadini. La seconda, invece, prospettava un’or-ganizzazione conservatrice dello Stato, antiquata ed in ritardo rispetto allo sviluppo eco-nomico, scientifico e culturale della società italiana. Nonostante il cambiamento di re-gime dovuto alla crisi del fascismo e alla caduta della monarchia, sottolineava Secchia,gli apparati dello Stato erano rimasti sostanzialmente immutati nella loro struttura orga-nizzativa e nel loro ordinamento giuridico.

Di qui l’esigenza di promuovere un programma politico di riforme solidamente an-tifascista e democratico per rafforzare la fragile struttura della Repubblica italiana. Ilcarattere antifascista del programma rimandava, almeno in parte, al periodo della clan-destinità, e insisteva sulla necessità di sradicare il pericolo fascista mettendo fuori leg-ge qualsiasi riproposizione del fascismo come fenomeno politico ed organizzativo. Inquesto senso Secchia appoggiò il disegno di legge per lo scioglimento del Movimentosociale italiano presentato da Parri nel 196050 e, alcuni anni più tardi, nel 1973, si sareb-be fatto promotore, assieme ai senatori Cossutta, Modica, Germano, Maffioletti, Venan-zi, Sabatini e Pirastu, di un disegno di legge per promuovere lo scioglimento «delle squadrefasciste e delle organizzazioni paramilitari fasciste»51. La realizzazione della Costituzio-ne, infatti, passava attraverso il riconoscimento del suo carattere pienamente antifasci-sta, e Secchia, in tutti i suoi interventi non smetteva di “battere il ferro” su questo tema.«Non si può dimenticare che quei principi della nostra Costituzione hanno fondamentogiuridico per tutti i cittadini, per tutte le associazioni, per tutti i movimenti e partiti, fattaeccezione per la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.Quest’eccezione è stabilita in modo preciso dalla norma XII delle disposizioni transito-rie e finali della Costituzione»52.

Ma la democrazia italiana sarebbe stata compiutamente antifascista solo se le forzedemocratiche, oltre a procedere allo scioglimento di qualsiasi organizzazione politicache si ricollegasse all’esperienza della dittatura, avessero promosso una politica rifor-matrice nei confronti dello Stato, della società e dell’economia. Riemergeva nuovamente,negli scritti di Secchia, la lettura di matrice internazionale e terzinternazionalista checollegava la trasformazione in senso democratico della società con la rottura e il supe-

50 ID, Sciogliere il Msi attuare la Costituzione, in ID, Lotta antifascista e giovani gene-razioni, cit., pp. 62-73.

51 ID, Per lo scioglimento delle squadre fasciste e delle organizzazioni paramilitarifasciste, intervento del 20 febbraio 1973 al Senato per illustrare l’ordine del giorno presenta-to da Secchia, Cossutta, Modica, Germano, Maffioletti, Venanzi, Sabatini e Pirastu, in ID,Lotta antifascista e giovani generazioni, cit., pp. 37-43. L’ordine del giorno, votato a scru-tinio segreto, ebbe 125 voti favorevoli e 156 voti contrari.

52 ID, Sciogliere il Msi attuare la Costituzione, cit., p. 66. Si tratta della relazione di mino-ranza presentata al Senato il 10 maggio 1961 dai senatori Secchia e Sansone, in appoggio aldisegno di legge proposto dal senatore Parri per lo scioglimento del Msi. Cfr. anche ID, Nonmollare nella lotta contro il fascismo, pp. 87-104, discorso tenuto al Senato il 30 novembre1961 per la presentazione del progetto di legge Parri per lo scioglimento del Msi.

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ramento del modo di produzione capitalista. Quello che colpisce tuttavia, al di là dellariproposizione di vecchi schemi interpretativi, è il fatto che l’attenzione di Secchia siconcentrasse sull’aspetto istituzionale rispetto a quello economico e sociale. La politicadi democratizzazione e realizzazione della Costituzione doveva passare attraverso la ri-forma degli apparati dello Stato, in particolare di quelli delle forze dell’ordine e delleforze armate; contemporaneamente dovevano essere modificati anche gli ordinamentigiuridici civili e penali, abolendo quelli promulgati nel periodo della dittatura fascista.Dunque, era necessario adottare una diversa disciplina dell’uso delle armi da fuoco daparte delle forze di polizia; promuovere un rinnovamento del corpo di polizia e di quellodelle forze armate rafforzando la coscienza democratica dei loro aderenti; adottare undiverso regolamento di disciplina delle forze armate e modificare il Testo unico sullaPubblica sicurezza, redatto nel 193153. Detto ciò, è bene aggiungere che l’attività svoltada Secchia su questi temi nel corso degli anni sessanta, sebbene fosse costante e assor-bisse buona parte del suo impegno politico, non produsse una riflessione approfonditae articolata attorno al tema delle istituzioni pubbliche e della loro democratizzazione: loStato era identificato quasi esclusivamente con i suoi apparati repressivi e coercitivi,organizzazioni legate direttamente al potere esecutivo, ovvero al governo, o peggio anco-ra, autonomi rispetto a qualsiasi potere di controllo, corpi separati all’interno dello Sta-to stesso.

Come collegare la democratizzazione degli apparati repressivi dello Stato con il piùgenerale tema della realizzazione della Costituzione? Ovvero quali provvedimenti adot-tare per realizzare pienamente il carattere democratico della Repubblica? L’unica solu-zione possibile era quella di subordinare tutti gli apparati dello Stato al controllo del par-lamento, l’organo che rappresentava ed esprimeva la volontà del popolo.

Più volte, nei suoi interventi, Secchia sottolineò la necessità che venisse ribaltato ilrapporto tra Stato e cittadini a favore di questi ultimi, con l’obiettivo che il dettato delprimo articolo della Costituzione fosse effettivamente rispettato, ovvero che la sovranitàappartenesse effettivamente al popolo. Nella difesa della sovranità popolare arrivò finan-che a recuperare un diritto schiettamente liberale, come quello di resistenza, per sanci-re la legittimità dei componenti delle forze armate, e più in generale della popolazione, diribellarsi di fronte ad una autorità statale che rompesse la legalità repubblicana54.

Naturalmente non si trattava di una novità, se non per il fatto che Secchia, nell’af-fermare la centralità del ruolo del parlamento come luogo dell’espressione della volontàpopolare, sembrava porre sullo sfondo il ruolo e la funzione di altre istanze rappresen-tative. Sottolineo sembrava, perché a me pare che nell’ultima fase della sua attività po-litica assistiamo ad un recupero del ruolo degli organismi di massa come strumento perl’espressione della volontà del movimento popolare.

L’ultima fase dell’attività politica di Secchia si apre con l’esplodere del movimentostudentesco del 1968 e della conflittualità operaia. Similmente a quanto avvenne per gli

53 ID, La Costituzione e i rapporti tra i cittadini e lo stato, cit.54 ID, Stato e polizia, in ID, Colpo di stato e legge di Pubblica sicurezza, Milano, Feltri-

nelli, 1967. I due testi di Pietro Secchia pubblicati in questo volume, Stato e polizia e Leggieccezionali, sono discorsi pronunciati in Senato rispettivamente il 22 maggio 1967 e il 16giugno 1967.

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avvenimenti del luglio 1960, il dirigente comunista sottolineò la carica potenzialmenteinnovatrice del movimento sessantottino. Nell’occupazione degli atenei, nel diffondersicapillare di nuovi organismi di massa, nella mobilitazione continua che contraddistinsequegli anni, Secchia indicò il movimento più impetuoso degli ultimi cinquant’anni: mo-vimento di generazione e di classe che i comunisti avrebbero dovuto dirigere «sulla basedella loro esperienza».

Quello che qui interessa è come Secchia intrecciò le sue riflessioni sul valore dellaCostituzione con il Sessantotto. Il dirigente comunista individuava nelle giovani ge-nerazioni lo spirito della Resistenza e, aprendosi ad una previsione ottimista, sottolinea-va come sarebbero state loro a promuovere la completa trasformazione in senso pro-gressivo e socialista dello Stato e della società italiana. Per Secchia il movimento giova-nile, che fece la sua prima apparizione nei moti del luglio 1960, ma esplose nel 1968,era il sintomo di una rinnovata iniziativa delle forze democratiche e progressive verso lacompleta realizzazione della Carta costituzionale; i giovani erano la “nuova resistenza”,che si collegava a quella partigiana e si sostanziava in una alleanza tra la gioventù ope-raia e quella studentesca55.

All’interno di una posizione così delineata rimanevano aperti numerosi nodi: qualerapporto doveva esistere tra il Pci e il movimento studentesco? In che modo gli orga-nismi di democrazia diretta sorti dopo il Sessantotto si collegavano a quelli tradizionalidel movimento operaio? In che modo il movimento studentesco poteva promuovere lacompleta realizzazione del dettato costituzionale? Sono tutti quesiti che abbisognano diun approfondimento maggiore rispetto a quello svolto per la realizzazione di questa re-lazione. Nondimeno, in questa fase, sotto la spinta delle esigenze del movimento, e neltentativo di trovare un punto di contatto con questo, assistiamo, nella attività politica diSecchia, ad una enfatizzazione dei limiti dello stato centrale contemporaneamente adun recupero del valore degli istituti della democrazia diretta e decentrata, degli organi-smi di massa quali strumenti per l’effettiva espressione della volontà popolare.

Il nodo centrale della sua riflessione rimaneva ancora quello di individuare gli istitutie le strategie politiche utili a garantire la concreta espressione della volontà popolareall’interno delle istituzioni statali. Il parlamento, il cui ruolo centrale era messo in scac-co dalle trasformazioni sociali ed economiche che avevano attraversato l’Italia nei de-cenni precedenti, doveva essere affiancato da nuove istanze di democrazia a livello pe-riferico e locale, in grado di rappresentare con maggior efficienza la volontà popolarein tutte le sue articolazioni sociali e generazionali. Secchia, probabilmente, non pensavasolamente alla costituzione dell’ente Regione o degli enti locali, bensì anche ai comitatidi base che si diffondevano in molte realtà lavorative, ad esempio nelle scuole, negliuffici pubblici, ecc.

«Non si può accettare che la sovranità appartenga soltanto a quella parte di cittadinirappresentata dai partiti che siedono in Parlamento. Intanto perché molti cittadini attivisocialmente nella produzione, nelle fabbriche, nelle campagne, negli uffici e nelle uni-versità non hanno, perché giovani, il diritto di voto, non appartengono spesso ad alcunpartito anche se fanno parte di associazioni economiche, culturali, sindacali o politiche:

55 ID, Come si difende la Repubblica, cit.

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e in secondo luogo perché il Parlamento non è più il centro del potere. Centri ben piùpotenti sono sorti al di fuori del Parlamento: i grandi monopoli si sovrappongono alParlamento e allo Stato. È quindi non soltanto inevitabile, ma necessario che si realiz-zino - per contrapporsi efficacemente ai primi, assieme al Parlamento - le Regioni, gliEnti locali con la necessaria autonomia e una molteplicità di centri autonomi, dai sinda-cati alle associazioni democratiche, con partecipazione popolare ad ogni grado dellestrutture sociali»56.

Dunque, la realizzazione della Costituzione sarebbe passata attraverso la sua com-pleta applicazione ed il recupero di istanze di democrazia diretta, utili per innervare lostato repubblicano dello spirito democratico del movimento popolare sorto all’indoma-ni del 1968.

Come concludere, come riassumere quanto fin qui illustrato? Forse la cosa più utileè ricorrere alle parole dello stesso Secchia, a quanto da lui detto nel 1967 in occasionedella discussione sulla modifica del Testo unico di Pubblica sicurezza: «Nella Repubbli-ca democratica italiana, la forza prima, la forza motrice che a tutto dovrebbe dare im-pulso, è rappresentata dalla volontà e dalla sovranità popolare. Così dovrebbe essere,ma lo so, lo sappiamo tutti, noi e voi, che così non è; questa stessa discussione lo staa dimostrare, se ve ne fosse bisogno. Sappiamo bene che le cose vanno diversamenteperché la nostra Costituzione democratica, di tipo nuovo, è sorta sulle vecchie struttu-re economiche e politiche della società italiana; sono queste strutture che impedisconoe che limitano notevolmente la sovranità popolare e il libero esplicarsi della volontà delpopolo. Esiste cioè una aperta contraddizione tra la Costituzione scritta che stabilisce ericonosce la sovranità popolare e lo Stato italiano così come è rimasto strutturato. Diqui le nostre continue lotte per attuare le riforme di struttura poiché, sino a quandorimangono in piedi le vecchie strutture, il popolo non potrà mai esercitare effettiva-mente la sua sovranità, le libertà saranno sempre in pericolo e noi staremo sempre sot-to la minaccia di possibili colpi di stato o tentativi reazionari»57.

56 ID, L’ondata repressiva contro la Costituzione e le libertà democratiche, discorsosvolto al Senato il 27 gennaio 1970, [sl, sn], 1970.

57 ID, Leggi eccezionali, in ID, Colpo di stato e legge di Pubblica sicurezza, cit., p. 35.

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Valsesiani all’Assemblea costituente

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La storia costituzionale del nostro paese si era aperta nel 1848 con la concessioneda parte del re di uno statuto ispirato ai principi liberali delle libertà civili, politiche, re-ligiose, del governo parlamentare, della monarchia costituzionale, della separazione deipoteri. Lo Statuto albertino aveva «un carattere flessibile, cioè modificabile con leggeordinaria [...] con una profonda capacità di adeguarsi alle trasformazioni politiche e diseguire l’evoluzione delle circostanze che ne caratteriz[zavano]la vita»1. Un quadro co-stituzionale “debole”, che permise al fascismo - sia pure con pesanti forzature - di in-trodurre una legislazione che stravolse i principi dello stato liberale e produsse quellaforma di stato assolutista e autoritario che dominò per vent’anni la vita italiana2.

Per circa settant’anni di regime liberale operò, per l’elezione della Camera dei deputati,il sistema maggioritario, basato sul collegio uninominale, finché - dopo l’introduzionedel suffragio universale maschile - socialisti e popolari riuscirono, all’indomani dellaprima guerra mondiale, a far introdurre il sistema proporzionale3. Invece il Senato con-tinuò ad essere di nomina regia. Nel 1923 fu approvata una legge elettorale «che nonlimitò il suffragio, ma ne falsò l’espressione [...] stabilendo che una lista potesse riuscirevincente, pur riportando soltanto il suffragio del 25% dei votanti”4. Nel 1925 fu ripristina-to il sistema maggioritario con il collegio uninominale, per mettere in sicurezza il fasci-smo dalla formazione di una grande coalizione dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti5.

L’Assemblea costituente

1 CARLO GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia. 1848-1948, Roma-Bari, Laterza, 1981,p. 35.

2 «La costituzione della dittatura italiana ci offre un esempio perfetto di quello che unostato a partito unico è obbligato ad essere. Il partito fascista è il solo partito di cui sia con-sentita l’esistenza. Tutti gli altri sono illegali». Così Gaetano Salvemini, che prosegue: «Ilfascismo non è un’organizzazione privata ma un istituto pubblico riconosciuto dalla legge.Lo statuto è pubblicato mediante regio decreto e il suo testo ha valore di legge. L’emblemadel partito fascista fa parte dello stemma nazionale, e cinge lo stemma dinastico», in GAETANOSALVEMINI, Le origini del fascismo in Italia, Milano, Feltrinelli, 1975.

3 Della rappresentanza proporzionale «se ne fece banditore il partito popolare che inau-gurò appunto in Italia, nella misura concessa agli italiani, una rivoluzione di carattere prote-stante sia per la sua etica cristiano-liberale, sia per lo spirito laico e cavouriano con cui con-sidera il clericalismo (Sturzo e Donati)», in PIERO GOBETTI, La rivoluzione liberale, Torino,Einaudi, 1983 (nuova edizione a cura di Ersilia Alessandrone Perona), p. 141.

4 FRANCESCO LUIGI FERRARI, Il regime fascista italiano, Roma, Edizioni di Storia e Lettera-tura, 1983, pp. 112-113, (1a ed. Le Régime fasciste italien, Paris, Spes, 1928).

5 Nello sforzo di salvare una qualche apparenza di libertà, in quella circostanza (e dopolungo dibattito alla Camera) venne riconosciuto il diritto elettorale alle donne, ma per le soleelezioni amministrative, a condizione che fossero in possesso di certi requisiti di istruzionee cultura. La legge fu posta in ridicolo dall’opinione pubblica, al punto che meno del 10%delle donne aventi il diritto il voto provvide a chiedere l’iscrizione nelle liste elettorali. Cfr.idem, p. 113.

Marco Neiretti

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Negli anni che seguirono, il regime “fascistizzò” tutte le istituzioni e le associazioni.Lo sport e il tempo libero erano inquadrati nell’Opera fascista del dopolavoro, gli studentiuniversitari unificati nel Guf, i bambini nei “balilla”, poi nei servizi premilitari, le ragazzenelle “giovani italiane”. A stento, e non senza crisi, scontri, scioglimenti (1931-32), li-mitazioni, soltanto l’Azione cattolica riuscì a sottrarsi alla fascistizzazione integrale, invirtù delle norme dei Patti lateranensi e della conciliazione del 1929 e a mantenersi inquell’atmosfera di afascismo e di fievole clandestinità che consentì la nascita e la cre-scita della generazione post popolare, che si sarebbe ritrovata nel 1946 alla Costituente.

Ecco: all’indomani del disastro della seconda mondiale e della nazifascista Repub-blica sociale italiana, in pieno disfacimento materiale e morale, l’Italia riconquistò le li-bertà fondamentali e la quasi totale integrità territoriale, sotto la guida dei vecchi partitirinnovati, dei valori che la Resistenza aveva germogliato. Al monolitico delle “massenazionalizzate”, seguì la primavera del pluralismo riconquistato. Le diverse forme partiti-che e di organizzazione della società civile si espansero con impeto e vitalità.

Ma, tra lo sbarco americano in Italia (1943), la caduta del fascismo e l’imprigiona-mento di Mussolini, le peregrinazioni del cosiddetto residuo istituzionale e governativodel Regno del Sud, l’insurrezione dell’aprile 1943 e la Liberazione, che cosa era avve-nuto sul terreno costituzionale? Per comprenderlo, sia pure approssimativamente, è utilericorrere ad alcune specifiche notizie.

Come si arrivò alla Repubblica

Le forze programmaticamente impegnate per l’istituzione repubblicana in Italia fu-rono i partiti socialista, comunista, i mazziniani (repubblicani) e il Partito d’azione. Adessi si aggiunsero buona parte degli ex popolari e dei nuovi democratico-cristiani, so-prattutto del Centro-Nord6.

Non minore importanza dei movimenti politici ebbero anche altri fattori, quali ladisaffezione di influenti intellettuali meridionali, nonché spezzoni del fascismo. E nep-

6 Luigi Sturzo, ancora invitato a rimanere in esilio perché si temeva che, come convintorepubblicano, avrebbe potuto influenzare i cattolici nella scelta istituzionale, il 17 aprile 1946,inviò una lunga lettera a De Gasperi esortando la Dc a prendere posizione. Ciò avvenne all’in-terno del partito nel Congresso di Roma (24-28 aprile 1946). Su 836.812 voti, 503.085 (60%)andarono alla repubblica, 146.061 alla monarchia (17%), mentre i neutrali furono 187.666 (23%).Le difficoltà per la scelta repubblicana venivano soprattutto dall’ambiente cattolico. L’11aprile Mario Scelba aveva scritto a Sturzo, che «[De Gasperi] Deve essere anche sottopostoa pressioni vigorose dagli esponenti altolocati del clero. Quasi tutti i vescovi sono per la mo-narchia». Cfr. PIETRO SCOPPOLA, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino,1977, pp. 235-237. Gli ambienti cattolici d’ispirazione monarchica si presero tuttavia la rivincitaalle elezioni per la Costituente. Scelba scrisse a Sturzo il 1 luglio 1946: «Ciò che è apparsaintollerabile è stata l’azione diretta e in vasta scala per la monarchia e per i candidati monarchiciinclusi nelle liste della Dc. Ordini precisi e perentori; esclusioni altrettanto precise e perento-rie. E si sono viste cose che rimarranno memorabili. Uomini di nessun valore, solo perchémonarchici, saltati in primo piano; e uomini di primo piano combattuti, calunniati, caduti», inidem, p. 241. La corrispondenza tra Scelba e Sturzo era frequente e confidenziale, perchéScelba era stato segretario particolare del fondatore del Ppi.

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pure si può trascurare il disimpegno dalla monarchia dell’Uomo qualunque, il movi-mento molto diffuso nel Sud che avrebbe raccolto oltre un milione e duecentomila votialle elezioni della Costituente: infatti, nel Congresso nazionale della primavera del ’46, iqualunquisti avevano accantonato la questione monarchia-repubblica nel nome della pacesociale, lasciando libertà di voto agli aderenti.

Nel popolo non impegnato nei partiti, il grande e sentimentale spartiacque tra il pas-sato monarchico e il futuro repubblicano era costituito dalla fallimentare conclusionedel fascismo e dalla tragedia della guerra, imputate in gran parte a un re che aveva tra-dito lo Statuto privando il Paese della libertà e che si era piegato all’alleanza con la Ger-mania nazista.

Tra queste posizioni viene a situarsi anche la passività, l’agnosticismo, di coloroche dal punto di vista istituzionale si dichiaravano, ed erano, monarchici, ma che sulterreno pratico avrebbero accettato lealmente, come poi fecero, l’istituzione repubbli-cana, come Benedetto Croce, Enrico De Nicola, Luigi Einaudi. De Nicola ed Einaudifurono addirittura i due primi presidenti della Repubblica.

Per comprendere ciò che accadde tra l’8 settembre 1943 e il 2 giugno 1946 occorrescendere in alcuni particolari, tenendo sott’occhio la questione istituzionale intrecciatacon i problemi della “nuova legislazione”, che da una parte doveva abrogare le normeliberticide del ventennio fascista e dall’altra colmare il vuoto con provvedimenti impo-stati - se così si può dire - nella prospettiva del nuovo Stato che i partiti del Cln inten-devano creare.

Tra “questione istituzionale” e “nuova legiferazione”

La questione istituzionale si era formalmente posta fin dal 25 luglio 1943, giornodell’arresto di Benito Mussolini e della fine del ventennale accordo tra fascismo e mo-narchia, giorno in cui Vittorio Emanuele III era fuggito a Pescara, per peregrinare poia Brindisi, e, infine, a Salerno, ove i partiti dell’antifascismo e del Cln - sotto l’ala deglialleati anglo-franco-americani e con una parte del mutilato esercito italiano - si avviava-no a riconquistare l’Italia all’unità ed alla democrazia.

Come erano vissuti gli avvenimenti ben lo rappresentano le parole scritte da Bene-detto Croce nel “Giornale di Napoli” il 13 ottobre 1944, in polemica con Luigi Salvato-relli, sulle responsabilità della Corona nella storia d’Italia e sulle relative conseguenze.«Ciò che egli dice della responsabilità di Vittorio Emanuele III nel triste e vergognosoperiodo chiuso della nostra vita nazionale, è già stato gridato da noi, qui in Napoli [...]noi nel dire e nell’esortare e nel premere perché il re lasciasse il potere come alla fineottenemmo, facevamo politica e non già scrivevamo storia». Erano le tinte fosche deldramma italiano, vissuto e interpretato in quei giorni da quel prestigioso protagonistadella cultura nazionale del Novecento, che culminavano nell’esecrazione finale dell’epi-gone della tragedia, dell’imbelle (oh, ironia dell’appellativo di “re soldato”!) VittorioEmanuele III. Esclamava Croce: «Forse anche nella nostra indignazione per l’accadutoc’era, almeno in alcuni di noi, il senso doloroso dell’offesa che si era recata da un re deiSavoia a questa veneranda casa sovrana, la più antica d’Europa, che noverava novesecoli di vita, ricchi di nobili e severe memorie». Riecheggiava quel grido il compro-messo Croce-De Nicola, accettato poi da Vittorio Emanuele III il 20 febbraio 1944,con la delega dei poteri del sovrano al luogotenente, il figlio Umberto. Un passaggio di

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estrema delicatezza, che (a parere di molti), se fosse stato percorso dal vecchio re neimodi proposti, avrebbe forse potuto salvare in extremis la monarchia sabauda.

Ora, le forze politiche - di cui si è vista l’ispirazione - erano variegate nel loro muo-versi, tanto che vale la pena rilevarne i passaggi, per meglio configurare gli approdifinali dell’innovazione istituzionale sulla strada del referendum.

Ebbene, si abbia a mente la posizione dell’Italia giolittiana, quella della continuità,interpretata da Croce-De Nicola, volta a mantenere in vita l’istituzione monarchica me-diante l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, abdicazione che non vi fu, dal momentoche il re si ritirò semplicemente a vita privata, lasciando al principe ereditario l’oneredella luogotenenza, istituto costituzionalmente indefinito, attraverso il quale - tuttavia -si giunse per gradi al governo del Regno del Sud e, in certo senso, anche alla progres-sione della riforma costituzionale.

Poi la posizione intransigente, e già richiamata, di repubblicani, azionisti, socialisti,che volevano il passaggio immediato al sistema repubblicano. Ed ancora, l’attendismodei democratico-cristiani, condizionati dall’opinione della segreteria di Stato vaticana,favorevole alla monarchia ed ostile a De Gasperi.

Infine, fondamentale tra gli avvenimenti di quei mesi, si colloca la cosiddetta svoltadi Salerno da parte di Togliatti e dei comunisti, che stabilivano una tregua sulla questio-ne istituzionale. Il fatto nuovo si accompagnava al riconoscimento del governo del reda parte dell’Urss nel marzo 1944 e allo sbarco a Salerno, il 27 marzo del 1944 (dopodiciotto anni di assenza dall’Italia) di Palmiro Togliatti. Togliatti dichiarava: «Vogliamoun governo di carattere transitorio, ma forte e autorevole per l’adesione dei grandi par-titi di massa» e, poi, per la questione istituzionale, proponeva «un’assemblea nazionalecostituente eletta a suffragio universale diretto e segreto subito dopo la fine della guerra»7 .

Ed ancora, non si può non aggiungere che i giornali erano in buona parte sostenitoridel cambiamento istituzionale e che risentivano della pressione delle classi dirigenti e,insieme, dei due-tre milioni di italiani tesserati dei partiti ciellenisti, sui quali aveva agitoda tempo quella specie di riflesso condizionato che Giuseppe Antonio Borgese, fin dal-l’esilio, nel 1937 aveva così descritto: «Quando la monarchia fu definitivamente coin-volta nel fascismo, tutti gli italiani antifascisti diventarono repubblicani».

Ciò che, però, contenne le spinte massimaliste degli azionisti e di Pietro Nenni, cheinsistevano per l’immediato cambiamento istituzionale, fu il moderato procedere di Al-cide De Gasperi, trentino irredentista di patria italiana ma anche di ferme convinzionirepubblicane ed europeiste. Ebbene, De Gasperi comprese che, dopo il regime fascistae la guerra, i destini della nazione non potevano affidarsi - come voleva Togliatti - al-l’elitarismo di un collegio di “padri coscritti”, che scegliessero la forma istituzionale,sicché insistette nell’affermare la priorità del ricorso diretto al “popolo sovrano”. Nellostesso tempo, De Gasperi - ora da ministro nei governi Bonomi e Parri ora da presidentedel Consiglio - accompagnava il cammino verso la decisione istituzionale appoggiandola progressiva trasformazione costituzionale, che, superando le secche dell’ormai ina-deguato Statuto albertino, già volgesse al nuovo patto istituzionale. In questo senso si

7 GIUSEPPE MAMMARELLA, L’Italia dalla caduta del fascismo ad oggi, Bologna, Il Muli-no, 1978, p. 75.

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spiega la contemporaneità dell’urna del 2 giugno 1946: scheda repubblica-monarchia/scheda deputati della Costituente.

Ora, per quanto con soli accenni, appare utile qualche richiamo ai documenti della“marcia verso la nuova costituzione”, l’altra pagina di storia della fondazione della Re-pubblica.

La “costituzione provvisoria”

Quella che gli storici del diritto chiamano prima “costituzione provvisoria” presecorpo dal decreto legge luogotenenziale del 25 giugno 1944, n. 151; la “seconda costitu-zione provvisoria” nacque dal decreto legge luogotenenziale del 16 marzo 1946, n. 98.

Si tratta di passaggi che comportarono già di per sé delle importanti modifiche isti-tuzionali, per quanto influenzate dalla contingenza e dal travaglio della politica pratica.La “prima costituzione provvisoria”, nota anche come il “più significativo atto della svoltadi Salerno”, rappresenta il taglio netto con l’anteriorità del regime liberale, che il re avevacercato di ripristinare con il regio decreto legge del 2 agosto 1943, n. 705, con cui - aseguito dello scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni - si metteva finealla XXX legislatura del regno, disponendo che entro quattro mesi dalla fine dello statodi guerra si sarebbe eletta una nuova Camera dei deputati. La “prima costituzione prov-visoria” storna il disegno restauratore, cambia le carte in tavola e stabilisce che, a guer-ra conclusa, si provvederà alla scelta istituzionale con l’elezione di un’Assemblea co-stituente, provvista del mandato di «deliberare la nuova costituzione dello Stato». Unaltro cambiamento di scenari avvenne tuttavia, ad avanzate modificazioni belliche, conil decreto legge luogotenenziale del marzo 1946, allorché il governo - il 10 marzo - decisedi sottrarre alla Costituente il potere di deliberare sulla forma istituzionale «rimettendolodirettamente al popolo mediante un referendum da effettuarsi contemporaneamenteall’elezione dei deputati per la Costituente», di modo che «l’Assemblea costituente sisarebbe trovata di fronte a una soluzione precostituita della questione istituzionale, po-tendo così dedicarsi esclusivamente alla redazione della nuova costituzione».

Inutile aggiungere che, di conseguenza, si doveva affrontare il problema massimodella formazione della rappresentanza mediante un idoneo sistema elettorale, individua-to da quasi tutti nel sistema proporzionale, cui era connessa - ed ormai storicamenteacquisita - la concessione del voto alle donne, già fatta approvare dalla Camera dei de-putati ad iniziativa del Partito popolare italiano nel dicembre del 1921, ma mai attuata.Con il regime democratico, e in vista della nuova costituzione, il sistema proporzionaleera ritenuto indispensabile per dare legittimità alle nuove istituzioni.

Con queste premesse si giunse alla convocazione dei comizi elettorali del 2 giugno1946. A un mese dalle urne, il pervicace Vittorio Emanuele III si decise ad abdicare,strumentalmente ed all’ultimo momento, nell’ormai disperata illusione di salvare lamonarchia. Umberto, il successore, regnò pertanto un solo mese, il maggio della cam-pagna elettorale. E il 2 giugno 1946 il popolo italiano nella sua maggioranza voltò paginae fu repubblica. La scelta repubblicana ottenne 12.717.923 voti, pari al 54,3 per centodei voti validi, contro i 10.719.284 suffragi ottenuti dalla monarchia.

Umberto II, il “re di maggio”, dovette prendere atto - non senza una certa tensionecon il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi - che la svolta repubblicana c’era stataed era legittima. In attesa dell’elezione del presidente della Repubblica da parte dell’As-

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semblea costituente, De Gasperi assumeva le funzioni di capo provvisorio dello Stato.Il 28 giugno 1946 venne eletto dall’Assemblea costituente capo provvisorio dello StatoEnrico De Nicola.

Due anni dopo, a Costituzione emanata, il presidente Luigi Einaudi, ricordando - nelsuo messaggio dopo il giuramento - l’istituzione della Repubblica commentava: «Il tra-passo avvenuto il 2 giugno dall’una all’altra forma istituzionale dello Stato fu non solomeraviglioso per la maniera legale, pacifica del suo avveramento, ma anche perché fornìal mondo la prova che il nostro paese era ormai maturo per la democrazia; che se èqualcosa è discussione, è lotta, anche viva, anche tenace fra opinioni diverse ed oppo-ste; ed è, alla fine, vittoria di una opinione, chiaritasi dominante, sulle altre». E quindiconcludeva affermando che il processo formativo della Repubblica si completava conla Costituzione, che - osservava - «afferma due principi solenni: conservare della strut-tura presente ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana control’onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano icasi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza».

Il regime democratico

In quella fase storica, tra il 1945 e il 1948, avrebbero pertanto preso forma defini-tiva: 1) un nuovo profilo istituzionale e costituzionale dello Stato, con il passaggio dallamonarchia alla repubblica e dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana; 2) unnuovo sistema politico, con il passaggio dalla dittatura del partito unico di modello fa-scista alla democrazia basata sui partiti di massa; 3) un nuovo equilibrio di governo,con il passaggio dall’alleanza tra i partiti antifascisti al conflitto tra i partiti di centro e ipartiti della sinistra; 4) un sistema economico diverso nei suoi tratti essenziali rispettoa quello dell’epoca fascista, di cui tuttavia sopravvivevano alcune strutture.

Il cammino fu rapido. Ristabilite l’unità, la libertà, la legalità in tutta Italia, nel marzodel 1946 il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi firmò il decreto legislativo perl’indizione, il giorno 2 giugno 1946, del referendum istituzionale e l’elezione dell’As-semblea costituente.

Nei tre mesi di preparazione al voto ebbero corso due importanti avvenimenti: il pas-saggio del governo locale dal pentapartito paritario dei Cln (Dc, Pci, Psi, Pli, Partitod’azione) alle amministrazioni comunali liberamente elette; la celebrazione dei congres-si dei partiti, che ratificarono le scelte precedentemente compiute e lanciarono i pro-grammi per l’Assemblea costituente.

I programmi dei partiti

La Democrazia cristiana eleggeva come idea-forza la libertà, definita come «la ca-pacità di obbedire alla ragione e di praticare la virtù»; libertà che, sul piano socialenon era vista come collegata a uno specifico contenuto, ma come «autodeterminazionedella persona garantita dallo Stato»8. Dunque, la centralità assoluta era (è) la persona.Nella presentazione del pensiero cattolico, secondo cui i diritti naturali preesistono allo

8 GUIDO GONELLA, Il programma della Democrazia cristiana, Roma, Seli, 1946.

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Stato e i rapporti interpersonali si svolgono come momento autonomo dallo Stato, siaffermava che lo Stato è di diritto in quanto riconosce questi rapporti giuridici ed offread essi la sua sanzione9. Il criterio dell’organizzazione statale, asserito dalla Dc, era quindidecisamente garantista, sulla base di un modello avanzato di “costituzione-program-ma”. In materia istituzionale, la Dc - al suo interno in maggioranza repubblicana - adot-tò le stesse conclusioni cui sarebbero pervenuti i liberali: non impegnò i suoi elettori apro dell’una o dell’altra forma istituzionale. D’altra parte la scuola sociale cristiana, incui il partito affondava le radici, non privilegiava alcuna formula, purché la personafosse centrale e la libertà, con acconci meccanismi democratici, fosse garantita. Oltre-tutto, la “non scelta ideologica” faceva alla pari col realismo politico: i democristianierano ben convinti che si sarebbero affermati come prima forza parlamentare, propriocome era avvenuto due mesi prima nelle elezioni amministrative, sicché buona politicasconsigliava prese di posizione che potessero alienare il voto moderato allo scudo cro-ciato.

Il Pci si collocava come forza nazionale atta a far superare i limiti del Risorgimento:i suoi strumenti ideologici si ponevano tra le analisi gramsciane e la teoria delle alleanzee della “democrazia progressiva”, con riferimento sul piano internazionale all’UnioneSovietica. Il Pci cercava la strada per un patto costituzionale tra la sinistra e la Democraziacristiana. Palmiro Togliatti, in un discorso all’Assemblea costituente nel marzo del ’47,avrebbe infatti dichiarato come punto di arrivo una costituzione in cui si affermasseroi nuovi diritti del lavoro, i nuovi diritti sociali, secondo una «nuova concezione del mondoeconomico, non individualistica, né atomistica ma fondata sul principio della solidarietàe del prevalere delle forze del lavoro: è il caso della nuova concezione e dei limiti deldiritto di proprietà». Ed avrebbe aggiunto: «Se questa confluenza di due diverse conce-zioni [della Dc e del Pci] su un terreno ad esse comune volete qualificarla come un“compromesso” fate pure. Per me si tratta invece di qualcosa di molto più nobile edelevato, della ricerca di quella unità che è necessaria per fare la Costituzione»10.

Il Psiup, partito maggioritario della sinistra, era travagliato dalla ricerca di un defini-tivo, comune programma, conteso come sempre tra le storiche due anime, la massi-malista e la riformista: l’anima della fusione con i comunisti e l’anima autonomista, equesta - a sua volta - scissa tra l’indirizzo dell’umanesimo marxista di Giuseppe Sara-gat e la neutralità nella scelta tra fusione ed autonomia di Pietro Nenni.

Il Partito d’azione era dilaniato da molti contrasti. Composto da un elevato numerodi intellettuali, discettava e si scontrava sulle opposte tesi della netta impostazione so-cialista e della laboriosa, per certi versi indefinibile, sintesi liberal-socialista.

Il Partito liberale, egemonizzato dai prestigiosi leader del prefascismo e intento adassorbire gruppi minori capeggiati da Bonomi e da Nitti, restava fermo nella propriaidea di liberalismo come metodo e non come concreto sostenitore di interessi politici.Contro il suggerimento dell’agnosticismo istituzionale di Benedetto Croce, si procla-mava monarchico, lasciando però a ogni aderente la libertà di scelta.

9 GIANNI BAGET BOZZO, Il partito cristiano al potere. La Dc di De Gasperi e di Dossetti.1945-1954, Firenze, Vallecchi, vol. I, 1974.

10 Discorso di Palmiro Togliatti all’Assemblea costituente, 11 marzo 1947. Cfr. GIORGIOBOCCA, Palmiro Togliatti, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 448.

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Lo scarto emotivo, i contrasti, le stesse contestazioni - che comunque ebbero unqualche strascico nei mesi successivi - furono assorbite dall’impegno della Costituen-te. L’opinione pubblica si concentrò su quanto avveniva nell’aula, sia nell’iter della cartacostituzionale che nel dibattito dei problemi scottanti del “primum vivere” e dei provve-dimenti adottati.

L’Assemblea costituente fu composta da nove formazioni politiche, che, sia purecon delle variazioni non di rilievo, si sarebbero mantenute nella medesima forma sullascena politica fino al 1994. La Democrazia cristiana, il 2 giugno 1946, si rivelò forzaleader con il 35,2 per cento dei voti, seguita dai socialisti con il 20,7, e dai comunisticon il 18,9; gli altri sei partiti registrarono adesioni singolarmente inferiori al 7 per cen-to dei suffragi.

Verso la Carta costituzionale

In poco più di sei mesi la Commissione dei settantacinque mise a punto il progettodi Carta costituzionale, la cui redazione definitiva venne affidata alla cerchia ristretta didiciotto colleghi di consumata esperienza nelle scienze e nel linguaggio giuridico. L’As-semblea discusse criticamente il testo, apportando integrazioni, modifiche, puntualiz-zazioni; sicché, il 22 dicembre del 1947, il progetto divenne la Costituzione della Re-pubblica italiana, con l’approvazione di 453 voti favorevoli, contro 62 contrari. Pro-mulgata il 27 dicembre dal capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, la Costitu-zione entrò in vigore il primo gennaio del 1948.

Ma torniamo a vedere nei particolari la strada che condusse al testo. Il 24 di giugnosi insediò l’Assemblea costituente sotto la presidenza del comunista Umberto Terraci-ni. I 556 costituenti appartenevano: 207 alla Democrazia cristiana, 115 al Partito socia-lista italiano di unità proletaria, 104 al Partito comunista, 41 all’Unione democraticanazionale, 30 al Fronte dell’Uomo qualunque, 23 al Partito repubblicano italiano, 16 alBlocco nazionale della libertà, 13 ad altre liste, 7 al Partito d’azione. Fissati alcuni criteriprocedurali e organizzativi, si demandò ad una commissione, detta “dei settantacinque”(dal numero dei componenti) la discussione e la redazione del testo costituzionale, ri-servando all’aula la successiva analisi e definizione, sino all’approvazione. All’aula, ol-tre alla funzione costituente, erano attribuiti il potere di eleggere il capo provvisorio delloStato, il controllo politico sul governo, la legislazione ordinaria «nelle materie che nonsi potesse o non si giudicasse opportuno lasciare alla potestà legislativa del governo»11.

La Commissione dei settantacinque si suddivise a sua volta in tre sottocommissioni:diritti e doveri dei cittadini; organizzazione costituzionale dello Stato; lineamenti econo-mici e sociali. Le sottocommissioni avviarono l’attività il 26 luglio 1946. Un comitatoristretto - detto Commissione dei diciotto - coordinò i lavori delle tre sottocommissioni.

I lavori della Costituente, previsti nell’arco di otto mesi, furono poi prorogati a di-ciotto, data la complessità delle materie trattate.

Fondamentale fu il lavoro della I sottocommissione, presieduta da Umberto Tupini,democristiano, ed ex popolare. In essa furono molto attivi Giuseppe Dossetti, GiorgioLa Pira, Aldo Moro, democristiani, e i due maggiori esponenti della sinistra, Palmiro

11 ALESSANDRO PIZZORUSSO, Lezioni di diritto costituzionale, Roma, Il foro italiano, 1981,p. 82.

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Togliatti (Pci) e Lelio Basso (Psiup). In particolare, sui più complessi nodi politici e didottrina, il dibattito venne caratterizzato da Dossetti e Togliatti.

Tra i problemi affrontati e portati a soluzione è utile richiamare la vexata quaestiodel riconoscimento nella Costituzione italiana dei Trattati del Laterano, che portaronoalla costituzione dello Stato della Città del Vaticano e alla conciliazione tra la chiesa cat-tolica e lo stato italiano, sottoscritti l’11 febbraio 1929 dal cardinale segretario di StatoGasparri e dal capo del governo, Benito Mussolini.

La scelta di parte comunista di votare a favore dell’articolo 7 sarà motivata dallanecessità di evitare scontri con il vasto mondo cattolico, ma pure dalle considerazionidi diritto internazionale relative alla bilateralità dei patti. Giocarono a sostegno del votoanche la considerazione che con l’articolo 7 si sarebbe avuto l’implicito riconoscimen-to della Costituzione italiana da parte della chiesa cattolica, oltre ad evitare che il mondocattolico ricorresse ad un referendum confermativo della Carta costituzionale.

Egualmente difficile per parte democristiana fu la discussione sull’indissolubilità delmatrimonio, soprattutto per le forti pressioni vaticane. I dossettiani erano disposti adare battaglia su tale principio, mentre - ricorda “La Civiltà Cattolica” - «il gruppo deidegasperiani preferiva invece non spingere troppo su tale materia, che essi considera-vano, a motivo del suo contenuto confessionale, difficilmente negoziabile»12. E ciò staa documentare come da entrambe le parti il cammino verso l’intesa fosse difficoltoso.

Un’altra questione da definire era quella della repubblica come “istituzione definiti-va”, poiché alcuni giuristi sollevavano fondate obiezioni. Alla fine del confronto preval-se la tesi di Togliatti, di stabilire come definitiva la forma repubblicana, tesi sostenutaanche da Moro e Dossetti.

Un altro problema dibattuto a fondo, anche a causa di uno stato di fatto di cui oc-correva tener conto, era quello delle autonomie. La situazione si presentava complessa,poiché fin dal 7 settembre del ’45 la Valle d’Aosta aveva ricevuto un ordinamento prov-visorio, che di fatto ne riconosceva l’autonomia. A sua volta, la Sicilia già disponeva difondamentali attribuzioni nella materia. La Sardegna istituiva una consulta proprio a quelfine; Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia restavano ferme alle discussioni sia in-terne che internazionali. Antiregionalisti erano soprattutto i socialisti: per Basso l’istitu-to regionale era una regressione, per Nenni si sarebbe trattato di una specie di federa-lismo regionale. Per quanto negativa, l’opposizione comunista appariva più sfumata13.

12 GIOVANNI SALE, I cattolici alla Costituente, in “La Civiltà Cattolica”, a. CLVIII, n. 3.777,novembre 2007, p. 225. In nota (n. 27) si aggiunge che l’on. Corsanego, relatore democristia-no sui problemi della famiglia nella I sottocommissione, aveva chiesto il parere della segre-teria di Stato vaticana sulla formula: «Lo Stato (o la legge) garantisce la stabilità della fami-glia secondo la tradizione morale giuridica del popolo italiano». Ovviamente il parere fu nega-tivo, specie per le due parole “morale” e “giuridica”.

13 Nella Conferenza di organizzazione del Pci a Firenze, nel gennaio 1947, Togliatti avrebbedetto: «Sappiamo benissimo che lo spezzettamento del paese per molti non è altro che unespediente a mezzo del quale si vorrebbe porre una barriera alla penetrazione in Italia di qua-lunquismo, di democrazia avanzata che proviene dalle regioni più progredite. Per cui, ad e-sempio, quando vi sarà da fare una riforma agraria, essa dovrebbe essere limitata alle regioniemiliana e lombarda e non dovrebbe estendersi proprio laddove è più necessaria, in quelleregioni agrarie arretrate del Mezzogiorno e delle isole che dovrebbero restare, grazie all’isola-mento, sotto il controllo delle vecchie cricche legate a una struttura di arretratezza reazionaria».

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Convinti regionalisti erano i costituenti democristiani, stimolati dal gruppo degli expopolari, che si rifacevano addirittura al Congresso di Venezia del Partito popolare del1920, e alla successiva rielaborazione sturziana della proposta regionalista.

Una costituzione viva, una “costituzione-programma”

Pur non essendo consentito in questa sede toccare molti altri temi di interesse gene-rale, qualche stimolo è stato comunque offerto riguardo al cammino per arrivare allaCostituente, e poi alla Costituzione; che, a nostro avviso, è più appropriato definire comeuna grande “intesa” per costruire, anziché - come spesso si dice - semplicemente un“compromesso”.

La Carta costituzionale introdusse fondamentali obiettivi di carattere sociale da «porrecome traguardi normativi al legislatore»14. Emergeva dal suo dettato una concezionedel rapporto tra Stato e società ben diversa da quella del liberalismo risorgimentale, e,pure, si ponevano in essa sicure garanzie contro tralignamenti verso forme autoritarie,diversamente da com’era potuto accadere nel passato.

Per cogliere il forte rinnovamento introdotto nel sistema dalla Costituzione repub-blicana, basta sottolineare come la Carta fondativa riconosca l’attività propulsiva delloStato nei confronti della società e della sua azione per il progresso delle classi inferiori:gli esempi sono numerosi. Basti ricordare la definizione introduttiva di «Repubblica fon-data sul lavoro», con le «conseguenti affermazioni sul diritto al lavoro, da realizzarsicon l’intervento economico dello Stato e con una pianificazione vista come il prezzoper realizzare un’eguaglianza non soltanto giuridica e civile tra le diverse classi»15, nonché«le molteplici disposizioni relative ai rapporti economico-sociali», e, ancora, la «rivolu-zione costituzionale» nella struttura e negli organi dello Stato, sino alle autonomie loca-li. Inoltre, la Costituzione repubblicana si presentava come una “costituzione program-ma”16 di uno Stato nuovo in corso di costruzione; ben al di là di quelle “a struttura in-definita”.

I mesi della Costituente furono un tempo eccezionale nella storia nazionale. Infattiquell’Assemblea è ritenuta da eminenti giuristi organo straordinario sotto un triplice ri-guardo: «Anzitutto per la straordinarietà della funzione fondamentale: la deliberazionecioè di un nuovo testo costituzionale; inoltre per la composizione quale organo unica-merale (a differenza del sistema bicamerale, ordinario nella storia politica italiana) e,infine, per la temporalità del mandato, non essendo destinata a rivivere un’assembleadel genere nemmeno per eventuali revisioni del testo adottato»17.

Di recente, e con lo strumento referendario, il popolo italiano a grande maggioranzaha bloccato i tentativi avventuristici di modificare alcuni articoli vitali della Costituzionerepubblicana, perché ha compreso che in questa delicata materia non sono consentitefantasiose fughe in avanti, che potrebbero rivelarsi deleterie per i fondamenti e la vitadella Repubblica e della democrazia.

14 C. GHISALBERTI, op. cit., p. 417.15 Ibidem.16 A. PIZZORUSSO, op. cit.17 FERRUCCIO PERGOLESI, Lineamenti della Costituzione italiana, Roma, 5 Lune, 1956.

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I giornalisti sono, normalmente, testimoni degli avvenimenti: la mia età e la mia pro-fessione, di conseguenza, non fanno di me il più qualificato a gettare lo sguardo su unarco di tempo che abbraccia sette decenni del Novecento. Giulio Pastore nasce nel 1902e, come è noto, muore nell’ottobre del 1969. L’opportunità di poter indagare sulla suafigura nondimeno mi è grata.

Pastore è giornalista quando esserlo significa testimoniare un’idea, una posizioneculturale, convinzioni profonde; quando il rapporto tra esercizio dell’attività pubblicisticasu giornali e quotidiani e impegno su altri terreni, quello associativo, quello politico, èintimo. La vita politica italiana non era sicuramente all’epoca molto sviluppata, si affaccia-vano i soggetti popolari di massa, in quel periodo a cavallo della prima guerra mondiale,a partire da quello cattolico. Il giornalismo è quindi la palestra attraverso la quale avvienela sua formazione. Il Pastore che entra all’Assemblea costituente nel 1946 è profonda-mente diverso da quello che, negli anni venti, aveva unito l’attività giornalistica a quelladi propagandista dell’Azione cattolica e di organizzatore sindacale. Una personalità moltopiù complessa: attraverso la sua figura - come attraverso quella di altri protagonisti delNovecento - è possibile in realtà intravedere le tante storie che hanno intersecato il se-colo sul piano politico, delle idee e sul piano sociale. Nel suo caso, potremmo ricordareil tormentato percorso del movimento cattolico italiano prima, durante e dopo il fascismo.Non senza contraddizioni, anzi. Su quelle storie potremmo in qualche modo vedere ri-flessa, come in uno specchio, la stessa vicenda del sindacalismo moderno. Pastore, sefosse qui oggi, sarebbe assai sorpreso di vedere come le idee per le quali si è trovato acombattere in quegli anni in assoluta minoranza, e che hanno portato anche alla rotturadell’unità sindacale così faticosamente raggiunta nel 1944 con il Patto di Roma, sianodivenute in larga misura patrimonio comune delle organizzazioni sindacali esistenti.

Pastore è testimone, vittima, attore, nel processo di nascita, affermazione e trasfor-mazione della Democrazia cristiana in forza definitivamente moderata e “centrale” dellavita politica del Paese. L’abbandono di Dossetti, dopo un rinnovato tentativo nel 1950,è rappresentativo del significato che aveva avuto il 18 aprile 1948: era mutato il quadrodella lotta politica nel nostro Paese. Infine, Pastore, nella fase conclusiva della sua vita,è il protagonista indiscusso della costruzione di una politica di sviluppo dei territori piùpoveri del Paese, il Mezzogiorno e le altre aree “depresse”. Ne parla in modo esemplareMario Romani (uno fra gli ispiratori a lui più vicini e professore di Storia economicaall’Università cattolica), quasi come di una fase non necessaria nella vita del leader cat-tolico. Quanto egli aveva già realizzato, scrive Romani, gli avrebbe consentito di «porsidietro le spalle un successo che sarebbe bastato a riempire degnissimamente una vita»ed invece ricomincia «un durissimo lavoro di applicazione di principi a lui cari», quellidi una «concezione pluralistica della vita sociale e politica»1.

Giulio Pastore al tempo della Costituente

1 MARIO ROMANI, Introduzione, in GIULIO PASTORE, I lavoratori nello Stato, Firenze, Val-lecchi, 1963.

Gianfranco Astori

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Per Pastore, inoltrarsi su un terreno come quello dell’attivazione di una politica disviluppo territoriale utile alla ripresa del nostro Paese, corrisponde all’urgenza di unaulteriore tappa nell’applicazione delle sue idee, la continuazione del disegno dei “lavora-tori nello Stato”. Prima della sua azione, questa politica non era mai stata gestita comedisegno complessivo. È la grande fase della riscoperta di due Italie, in cui la matricecattolica rivisita la riflessione culturale prevalentemente laica di Guido Dorso e di altrisul Mezzogiorno, e riflette, con Sturzo, sulla sfida che ne deriva alla stessa questionedemocratica, proponendosi di affrontarla “liberandola” con le azioni della politica, glistrumenti di governo e attraverso istituzioni che vengono create appositamente.

È il Giulio Pastore sostenitore della causa repubblicana quello che viene eletto al-l’Assemblea costituente. Pastore, nel periodo dal 25 luglio 1943 (la caduta di Mussolinie del regime fascista) al 2 giugno 1946, ha assunto responsabilità crescenti nel movi-mento cattolico sulla base di un coerente antifascismo che non verrà mai meno. L’espe-rienza vissuta nell’ambito della lotta al fascismo rappresenta per lui un crinale non su-perabile. È quel crinale che lo porta alle dimissioni dal governo Tambroni, l’8 aprile1960, con una lettera al presidente del Consiglio, assolutamente eloquente. Pastore sidimette dal governo e scrive: «Risolvo così il mio duplice caso di coscienza: innanzitut-to quello del tutto personale derivante dalla meditata convinzione che, professandosi ilMovimento sociale italiano come una naturale continuazione del fascismo, non mi èpossibile mantenere il mandato che trae il suo sostegno dai voti di quella parte; in se-condo luogo perché non ritengo in alcun modo positivo per il Paese il perpetuarsi diincoerenti comportamenti quando si partecipa a posti di responsabilità nella guida poli-tica del Paese». Non ci sono mezze misure nella personalità di Pastore, lo vediamo suquesto terreno, lo vedremo su un altro terreno, quello dei rapporti all’interno della Cgilche lo porteranno a un gesto così clamoroso come la rottura dell’unità nel momento incui riterrà che l’utilizzo politico dello strumento sindacale venga a prevalere sugli aspettidi organizzazione del movimento dei lavoratori.

Pastore, il 25 luglio 1943, dopo la caduta di Mussolini, riprende subito l’attività sin-dacale. Il trionfo fascista lo aveva visto lasciare nel 1926 la sua funzione a cavallo tragiornalismo e sindacato - la Cil, Confederazione “bianca” - che aveva esercitato accan-to a Grandi, a Monza, in una scuola di grande significato culturale e politico oltre chesindacale.

Il leader cattolico partecipa all’attività clandestina che si sviluppa e che, naturalmente,dopo l’8 settembre 1943 e l’occupazione nazista dell’Italia, in particolare di Roma,presenta rischi. Il 29 aprile del ’44 viene arrestato in un agguato della polizia, mentre sista recando ad una delle riunioni clandestine e viene tradotto al carcere romano di Re-gina Coeli. Accade subito dopo le Fosse Ardeatine, quando il carcere di via della Lun-gara è la “riserva” alla quale attingono le rappresaglie scatenate dai nazifascisti.

A Regina Coeli non si perde d’animo e, da giornalista, dà vita a un foglio all’internodel carcere. Un foglio manoscritto, un foglio di carta, di cui è conservata traccia al-l’Archivio di Stato a Roma. Pastore, ironicamente, lo chiama “Radio Buiolo”2. Quelladel bugliolo non è esattamente la parte migliore dell’esperienza carceraria e, assumen-

2 A distanza di tanti anni, “Radio Bugliolo” è oggi il titolo di uno spettacolo teatrale diSalvatore Ferraro che denuncia le condizioni delle carceri italiane.

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dola a ironico pretesto, Pastore riporta una serie di scritti a cavallo tra l’umoristico e ilsarcastico. Questo foglio viene fatto circolare tra gli altri detenuti del braccio “politici”di Regina Coeli e rappresenta un momento di collegamento.

Arrivano poi a Roma gli americani e ciò comporta lo svuotamento del braccio pri-gionieri politici di Regina Coeli: Pastore riprende subito il suo posto nel movimentoantifascista.

Due persone sono importanti nell’esperienza di Pastore, anche se da esse si diffe-renzierà: Giovanni Gronchi e Achille Grandi, due protagonisti nella storia del Paese (Gio-vanni Gronchi sarà poi presidente della Repubblica) e due grandi dirigenti sindacali diispirazione cattolica, che il futuro ministro conosceva sin dai tempi dell’Unione del la-voro di Varallo. Erano coloro che stavano negoziando con Buozzi e Di Vittorio il Pattodi Roma sull’unità sindacale, che poi il 3 giugno del 1944 sarebbe stato siglato3.

Il movimento cattolico si presenta ricco di contraddizioni all’appuntamento: per Pa-store non è una novità (vedremo poi le esperienze degli anni venti) e ritiene suo compi-to contribuire a far crescere una sensibilità che superi un atteggiamento strumentalepresente nel mondo cattolico. Il matrimonio tra democrazia e mondo cattolico passaattraverso la cruna di un ago molto sottile: la soluzione della questione religiosa, neisuoi aspetti materiali come quelli dei Patti lateranensi, e nell’aspetto, apparentementepiù banale, del venir meno di quell’anticlericalismo che, soprattutto a cavallo della pri-ma guerra mondiale, si era manifestato attraverso una massoneria onnipresente (e onni-potente in molte realtà), che si esprimeva fondamentalmente mediante il ceto politico diimpronta liberale. Anticlericalismo presente però anche nell’ambito del Partito sociali-sta e in qualche modo nella sinistra. Sulla questione dell’unità sindacale fa premio, nelmondo cattolico, il tema della libertà religiosa. Da parte cattolica la preoccupazione pre-valente non riguarda ancora la capacità di organizzazione, di mobilitazione, di impegnoe di tradizione sociale delle forze di sinistra, e del Partito comunista in particolare che,durante il fascismo, aveva tenuto viva una serie di riferimenti. La scelta che il mondocattolico fa è a netto favore dell’unità sindacale, immaginando che questo sia lo strumen-to attraverso il quale la pace, dal punto di vista della libertà religiosa e dell’accoglimentodelle fedi, venga maggiormente garantita proprio a mezzo del coinvolgimento di unacomponente sociale così ampia e rilevante come quella del movimento dei lavoratori.

Alcune cose, dal punto di vista dell’aneddotica, possono sembrare curiose per chisi è formato in una fase successiva e, di conseguenza, solo con difficoltà può sintoniz-zare i propri codici culturali con quegli anni.

Che fa il mondo cattolico di fronte a questa scelta? Si organizza e cerca contempo-raneamente alleati. Le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli) nascono nel 1944.Pio XII le approva fondamentalmente per uno scopo: fare entrare il movimento catto-lico dei lavoratori dentro l’unità sindacale, agendo al tempo stesso in termini formativi

3 Vi è discussione sulla data, si dice che in verità il patto sia stato siglato dopo, ma sivuole sottolineare che già in clandestinità - perché la liberazione di Roma da parte degli ame-ricani avviene appunto il 4 giugno - vi era stata la capacità delle grandi forze politiche e sin-dacali di intendersi e di pervenire a questo risultato significativo. Cfr. VINCENZO SABA, Il “Pattodi Roma”. Dichiarazione sulla realizzazione dell’unità sindacale 3 giugno 1944. Il movi-mento sociale cattolico alla ricerca della terza via, Roma, Edizioni Lavoro, 1994.

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sui lavoratori di impronta cattolica perché non tradiscano la loro identità e la loro testi-monianza di carattere religioso. Ma non solo: alla salita al potere del fascismo, un vul-nus era stato arrecato sul terreno del rapporto tra mondo cattolico e lavoratori organiz-zati. Siamo nel 1926 e la legge Rocco sopprime il diritto di sciopero e di organizzazionesindacale: l’avvicinamento progressivo tra Vaticano e fascismo porta l’Azione cattolicaa consigliare ai propri aderenti di aderire al sindacato fascista. Conferma che, a preva-lere su ogni altra cosa, è la soluzione della “questione romana”. Sarà la stessa Azionecattolica a caldeggiare nel 1929 il voto favorevole al plebiscito indetto dal fascismo,poco dopo la firma dei Patti lateranensi.

Caduto il fascismo, appare necessario ricostruire un ponte tra un movimento che siera caratterizzato nella direzione ricordata e la condizione dei lavoratori. Ad Achille Grandiviene attribuita la battuta, riferita alle autorità ecclesiastiche, a proposito dell’unità sin-dacale: «Essi l’hanno voluta coi fascisti, l’abbiano anche coi comunisti»4.

Per definire il clima di quei giorni riferiamo un episodio che, letto con le lenti dellepolemiche successive, appare significativo. Pio XII riceve in udienza generale i dirigentiaclisti, dando un viatico verso l’unità sindacale e nel giornale della Cgil, “Lavoratori”,leggiamo questo titolo: “Ieri un papa sindacalista ha ricevuto centinaia di lavoratori”.

Va sottolineato che le visioni dei protagonisti del sindacato in quegli anni già tendonoa differenziarsi. Pastore è insofferente nei confronti di una attività sindacale che vedepiegata a scopi politici e propone una visione nuova. Secondo la tradizione di altri paesieuropei, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania e anche nella stessa Austria, i sinda-cati sono molto legati alla sinistra politica. Pastore, invece, si propone di realizzare unsindacato destinato a presidiare e tutelare i diritti dei lavoratori nel campo economico ela cui cultura sindacale si sarebbe potuta trasformare in patto politico (un sindacatoche poi tratta come soggetto fino agli anni novanta; un sindacato che negozia con ilgoverno su questioni salariali, ma crea politiche a partire ad esempio dalla condizionegenerale dei salari). E lo fa proprio sulla base dell’esperienza che la Cgil si trova a vive-re in quel momento. Un’esperienza legata non tanto al confronto con gli imprenditori,il padronato, l’industria, ma soprattutto con l’interlocutore pubblico, il governo, perevitare che il rapporto tra aumento del costo della vita, salari e prezzi impedisca allanascente democrazia di svilupparsi e di crescere.

Troviamo traccia di questo in un carteggio che De Gasperi intrattiene con GiulioPastore.

A Varallo, così come in Valsesia e in tutto il Vercellese e il Novarese, Pastore, neldopoguerra, viene percepito come un leader di forte radicamento locale. In verità Pa-store è anzitutto un leader nazionale. La sua leadership politica non si costruisce a par-tire da un territorio, bensì nasce all’interno di un movimento, di un ideale, e si confron-ta in un rapporto con leadership di prima grandezza. Nel 1944 i suoi interlocutori abi-tuali sono Achille Grandi, Giuseppe Spataro5, Alcide De Gasperi che, proprio quell’an-no, gli invia una lettera manoscritta molto bella6, in cui sostanzialmente gli dice: «Caro

4 Cfr. GIANCARLO VIGORELLI, Gronchi, battaglie d’oggi e di ieri, Firenze, Vallecchi, 1956.5 La personalità alla quale faceva capo, a Roma, una vera e propria rete per la ricostituzione

della presenza dei cattolici democratici in politica.6 L’originale manoscritto è riprodotto nel citato volume di scritti di Giulio Pastore I lavo-

ratori nello Stato.

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Giulio, io so che sei preoccupato sulla scelta che stiamo facendo, il patto di unità sin-dacale con le forze della sinistra, ma la ragione fondamentale - troviamo conferma diquanto anticipato poco fa - è l’aver ottenuto dalle altre parti contraenti il Patto di Romauna solenne dichiarazione di rispetto e tolleranza religiosa. È l’elemento fondante di unanuova convivenza». Torna quella tematica che aveva aiutato ad uscire dalla contrappo-sizione di tipo religioso. Se questo è un argomento che aveva lacerato il movimentopopolare prima del fascismo e a cavallo del successo del fascismo, impedendo soluzio-ni di collaborazione non a livello locale, che c’erano state, ma più ampie, ora apparelasciato alle spalle. Molta acqua è passata sotto i ponti.

Dunque, Pastore è considerato un interlocutore autorevole, le sue capacità organiz-zative e di pensiero sono note7.

Tra le persone con cui si confronta, in quella era di nascente democrazia, spiccaGiuseppe Dossetti, che tanta parte ha avuto nella storia del nostro Paese, nella redazio-ne della Costituzione in particolare. Pur venendo da esperienze molto diverse - “profes-sorino” Giuseppe Dossetti, autodidatta Giulio Pastore - entrano in sintonia nella Demo-crazia cristiana. Tanto che, su insistenza di Dossetti, e contemporaneamente al venirmeno di una stretta intesa con Grandi, Pastore fa alcune scelte nella sua vita rinnovatadopo la liberazione dell’Italia. Lascia le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani, la-scia l’impegno nella corrente cristiana del sindacato e diventa segretario organizzativodella Democrazia cristiana. In questa qualità gestisce il congresso del partito che deci-de il voto a favore della repubblica nel referendum istituzionale (con un consenso pariall’80 per cento dell’assise), gestisce le elezioni amministrative, il referendum istituzio-nale stesso, in cui Pastore intravede la rottura dell’equilibrio non solo politico ma eco-nomico-sociale preesistente e, infine, l’elezione della Costituente. Con successo, per-ché la Democrazia cristiana in quell’occasione diventa la prima forza politica per con-sensi elettorali.

Pastore inizia il suo lavoro, viene eletto alla Costituente, con Dossetti partecipa algruppo di “Civitas Humana”, dove appunto Dossetti, Lazzati, ma anche personaggi comeLa Pira e Fanfani, contribuiscono a definire una posizione che oggi potremmo chiama-re di una sinistra a un tempo sociale e a un tempo pienamente cattolica nell’ambito dellaDemocrazia cristiana. E comincia il conflitto con la linea degasperiana e con chi gesti-sce il partito: un grande vecchio, notabile di alta dignità, Attilio Piccioni, ultimo espo-nente all’epoca della chiusura del Partito popolare a tenere aperta la vicenda del catto-licesimo democratico nel Paese e che aveva assunto la guida della Democrazia cristia-na. Il Consiglio nazionale Dc del dicembre 1946 vede l’uscita dalla direzione centraledel partito di questi giovani che avevano contribuito al decollo della presenza politicanella Costituente.

La diversa sensibilità sui temi sindacali porta Pastore in conflitto con Achille Gran-di, un personaggio di grande rilievo, ormai gravemente ammalato (morirà nel settem-

7 È lui l’incaricato di dare alle stampe il 27 luglio 1943, due giorni dopo la caduta del fasci-smo, lo schema di programma della Democrazia cristiana. Ed è lui stesso a dare il titolo al-l’opuscolo che sarà poi universalmente conosciuto come Idee ricostruttive della Democra-zia Cristiana, a firma di Demofilo, come si evince da una lettera dello stesso Pastore a Giu-seppe Spataro. Cfr. GABRIELLA FANELLO MARCUCCI, Alle origini della Democrazia cristiana.1929-1944, Brescia, Editrice Morcelliana, 1982.

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bre del 1946), che non lo considera l’erede della propria testimonianza. Teniamo contoche Grandi è uno dei dirigenti che “salvano” Pastore nel momento del contrasto coifascisti valsesiani, col trasferimento da Varallo - siamo nel 1924 - a Monza8.

Emergono visioni diverse del ruolo e della collocazione del sindacato da parte di Grandie di Pastore9, che viene curiosamente accusato di essere la longa manus di De Gasperinell’ambito del sindacato, nella corrente sindacale cristiana. Tutto questo mentre Pa-store, in conflitto con la linea degasperiana, si è appena dimesso dagli incarichi di par-tito. Grandi indica Giuseppe Rapelli (torinese, figura molto significativa del movimentosociale di impronta cattolica, membro nel 1926 con lo stesso Grandi e Gronchi del triu-mvirato che guidava la Cil prima dello scioglimento) e Renato Cappugi (un toscano vicinoall’ala gronchiana, che sarà poi dirigente anche lui del sindacato) come suoi successorinell’ambito della Cgil. Pastore è fuori dalle Acli, è fuori dalla Cgil, è fuori dall’attivitàdella Democrazia cristiana, è, ovviamente, un costituente.

Tuttavia, molto spesso è la vita che si incarica di scegliere e non sono gli uominiesclusivi arbitri del proprio destino. Morto Achille Grandi, Rapelli diventa segretariogenerale della Cgil, ma si ammala a sua volta e non è più in condizione di rappresentarela corrente cristiana nell’ambito del sindacato. Tocca a Pastore diventare responsabile- siamo a maggio del 1947 - della corrente sindacale cristiana su indicazione del Cis(Comitato d’intesa sindacale, che comprendeva l’Azione cattolica, la Democrazia cri-stiana, l’Icas, la Coldiretti, la Confcooperative, le Acli)10.

Le spiegazioni sono tante e non è questa la sede per illustrare le ragioni che portanoin particolare la Dc a scegliere la figura di Pastore, preferendola al gronchiano Cappugi.

In quel contesto il leader valsesiano si trova ad essere un personaggio che occupauno spazio crescente nella Costituente e non solo.

La nuova stagione nella vita delle istituzioni e nella vita economico-sociale apertasicon la Liberazione, si accompagna, in parallelo, alla crescita impetuosa dei partiti dimassa, alla crescita del ruolo delle organizzazioni sindacali che nella lotta per la salva-guardia delle condizioni dei lavoratori hanno evidentemente la loro radice.

Sono sfide per le quali, non solo i cattolici, come osservato in precedenza, ma i vec-chi dirigenti sindacali tutti non sono culturalmente attrezzati. Tanto è vero che se noiabbiamo un elemento di contraddizione nella nostra Costituzione è in materia di libertàsindacali tra la costituzione materiale del vissuto di questi decenni e la norma formale

8 Per testimoniare i sentimenti di Pastore nei confronti di Grandi si veda l’articolo comme-morativo scritto in “Civitas” (aprile 1947, n. 1): «Quando altri cedevano alle lusinghe (il rife-rimento è al fascismo, nda), egli resisteva rincuorando sé e gli amici; e chi scrive ha ricordiincancellabili dei frequenti incontri a Milano, dove discutendo degli avvenimenti si cercavainsieme di scoprire i motivi che consentissero di alimentare la comune speranza». Nel 1934Grandi aveva rifiutato la nomina a senatore del Regno propostagli, a nome di Mussolini, dalprefetto di Milano in vista di una pacificazione nazionale strumentale all’acquisizione di unvasto consenso alla guerra etiopica. Cfr. GIOVANNI DI CAPUA, Achille Grandi e la laicità dellapolitica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004.

9 Per una significativa ricostruzione della vicenda si veda V. SABA, Giulio Pastore sinda-calista, Roma, Edizioni Lavoro, 1989.

10 Cfr. CARLO FELICE CASULA, Rapelli e le Acli, in AA. VV., Giuseppe Rapelli, un’idea cri-stiana del sindacato, Roma, Studium, 1999.

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dell’articolo 39, scritta interpretando una concezione di tipo corporativo ancora pre-sente in larga parte del movimento sindacale. Non a caso si era ipotizzata addirittural’adesione obbligatoria dei lavoratori e il controllo formale da parte dello Stato sull’atti-vità delle organizzazioni sindacali stesse.

L’articolo 39, tuttora vigente, della Costituzione (e mai applicato fra i tanti che han-no trovato difficoltà di applicazione), non darà poi sbocco alla legge sul registro obbli-gatorio delle organizzazioni sindacali, improntate a democraticità per quanto riguarda illoro ordinamento interno. Così come la problematica dell’efficacia dei contratti di la-voro trova nella Costituzione una definizione la cui applicazione nel corso degli anni siamplierà via via. Siamo in una fase di profonda trasformazione e non bastano le “at-trezzature” lasciate in eredità dal ventennio fascista11.

Che ruolo gioca Pastore nell’Assemblea costituente? Che ci faceva? Non era certoun giurista!

Il clima in cui l’Assemblea costituente si riunisce per la prima volta, il 25 giugno1946, è ad un tempo di trepida attesa e di acuta preoccupazione, a partire dall’irrisoltaquestione del trattato di pace. Manca, anzitutto, un gruppo di deputati che non è statopossibile eleggere, quelli di Bolzano, di Trieste e della Venezia Giulia: primo triste retag-gio del regime fascista. Tutta la retorica della prima guerra mondiale era stata giocatafondamentalmente sul raggiungimento dell’unità d’Italia: si riunisce ora per prima voltal’Italia liberata e la prima cosa che si registra è che manca un pezzo di quell’Italia cheera stata annessa al resto del paese con gravi sacrifici nel 1915-1918.

Poi, la Costituente è un’assemblea deliberante un po’ dimezzata, perché il poterelegislativo, con decreto luogotenenziale, è delegato al governo. Viene in mente l’Unioneeuropea oggi ed il ruolo del parlamento europeo. È il governo che fa le leggi (in base adun decreto del luogotenente) e l’Assemblea costituente si limita a due o tre compiti:innanzitutto ad approvare la Costituzione, che è la ragione principale per la quale tuttoè stato messo in piedi; oltre a questo provvede ad un aspetto non banale, quale la rati-fica del trattato di pace, certo non poca cosa per un Paese che usciva devastato da unaserie di guerre volute dal fascismo. L’Assemblea costituente si impadronisce, in verità,di un ruolo un po’ più ampio attraverso le commissioni a cui il governo deve sottoporrein via preventiva l’attività legislativa che propone. Infine, l’Assemblea è il luogo cheregistra le volontà politiche del Paese, tanto è vero che si trova a votare la fiducia algoverno, come un vero e proprio parlamento, in particolare al secondo, al terzo e alquarto governo De Gasperi, il quale costituisce il momento della rottura tra le forze delCln e del passaggio all’opposizione del Partito comunista e del Partito socialista. Oltrea queste funzioni, l’Assemblea costituente si esprime attraverso tradizionali strumentiche oggi definiremmo di sindacato ispettivo. Non sono quindi anni di routine, anche selo snodo politico determinante, una volta approvata la Costituzione, sarà il 18 aprile 1948,ma la rottura nella collaborazione con il Partito comunista e il Partito socialista già pre-figura inevitabilmente un clima politico pesante nel pieno del lavoro di redazione dellaprima Costituzione democratica italiana.

È veramente un miracolo la capacità delle forze politiche del dopo Resistenza di saper

11 Cfr. GIUSEPPE FEDERICO MANCINI, Libertà sindacale e contratto collettivo erga omnes,Milano, Giuffrè, 1963.

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distinguere il terreno dello scontro più politico e immediato di tipo elettorale sui proble-mi che la comunità affronta in quel momento, dalla scrittura delle regole che inveceviene largamente salvaguardata. Ma sono anche gli anni del trattato di pace, gli annidella scelta di partecipare al Piano Marshall, lo strumento attraverso cui i paesi cosid-detti liberi, a partire dagli Stati Uniti d’America, si propongono, secondo le letture chene sono state date, di contribuire alla ricostruzione economica dei paesi devastati dallaguerra e insieme di procedere all’integrazione, nell’ambito del mercato americano edinternazionale, di economie che affacciandosi all’indomani della seconda guerra mon-diale sono sicuramente in ginocchio, con tutti i problemi della smobilitazione degli eser-citi (dei prigionieri di guerra) e delle riconversioni dell’industria bellica. Qui soccorre lagrande capacità di George C. Marshall, segretario di Stato Usa, di intuire che la solu-zione dei due problemi può rappresentare un successo internazionale.

La Costituente raccoglie giuristi, ma, soprattutto, personalità dell’antifascismo.La Consulta nazionale, che l’aveva immediatamente preceduta, comprendeva colo-

ro che al fascismo si erano opposti nell’Aventino e nell’antifascismo militante. La Co-stituente mette insieme, in questa fase di transizione, figure del vecchio antifascismo efigure emergenti nella lotta democratica.

Pastore viene chiamato a far parte della terza commissione per gli esami dei disegnidi legge e in questa qualità interviene in una serie di riunioni discutendo fondamental-mente le problematiche relative al movimento dei lavoratori, le condizioni alimentari, iltema della previdenza, in particolare l’Inps, che era stata istituita durante il fascismo edera stata commissariata alla caduta del regime ed i cui organi vanno ricostituiti, l’assi-curazione contro la malattia della tubercolosi. Va affrontata la riforma della previdenzaper estendere l’assicurazione contro la tubercolosi ai piccoli coltivatori diretti, così comeva migliorato il trattamento degli infortuni sul lavoro. Vi è, infine, il problema del rico-noscimento degli istituti di patronato ed assistenza sociale, che sono gli strumenti chevengono messi in campo dal movimento sindacale in quel momento per tutelare mag-giormente i lavoratori.

Ma al di là di questi interventi relativamente modesti, pronunciati il 7 maggio, l’8maggio e il 18 luglio 1947, l’attività ispettiva di Pastore si concentra in particolare sullaValsesia. La sua prima preoccupazione è quella dell’imposta sui redditi agrari dei terreni(10 dicembre 1946). Vaste zone montane della Valsesia - scrive Pastore - subisconouna palese ingiustizia per l’interpretazione che concede l’esenzione ai terreni la cui sedecomunale è situata sotto i 700 metri sul livello del mare. In montagna - scrive Pastore- ci sono terreni che si trovano sopra i 700 metri ma la cui sede comunale è al di sotto...Sembra il dibattito sulle comunità montane di questi anni duemila!

Il ministro delle Finanze, il comunista Scoccimarro, assicura che un provvedimen-to legislativo sarà preso per risolvere il problema e avverrà infatti di lì a poco nell’am-bito delle manovre di bilancio.

Ancora, lo stesso 10 dicembre 1946, Pastore richiama l’attenzione sullo stato diassoluto abbandono e sul totale isolamento dei comuni di montagna situati nelle vallateMastallone e Sermenza per la soppressione dei servizi automobilistici festivi. Leggiamoqueste righe che ci restituiscono il clima dell’epoca, le difficoltà dell’ambiente e le con-dizioni di vita in quel momento prevalenti: «Le popolazioni locali - scrive Pastore - sonoindignate per il fatto che quando si tratta di servire i forestieri e i ricchi che in estatefrequentano le vallate per puro diletto il servizio festivo è concesso. Quando si tratta

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invece di assicurare un minimo di comodo alle derelitte popolazioni montane allora su-bentrano rigide applicazioni di criteri restrittivi». Il ministro dei Trasporti, Ferrari, ri-sponde a Pastore, in una situazione di assoluta carenza di benzina: anche solo per auto-rizzare una corsa da Varallo ad Alagna occorre il bollo della sottoprefettura e dei cara-binieri, perché il carburante viene fornito materialmente in quel momento. Il ministrodei Trasporti sottolinea l’intento promozionale delle autolinee stagionali estive a sup-porto della crisi economica e assicura che non appena la situazione del carburante mi-gliorerà si potrà deliberare per quali autolinee sia consentito riprendere il servizio festivo.

Il 19 maggio ed il 27 maggio 1947 Pastore sollecita due volte il ministro dell’Agri-coltura Segni (unitamente all’altro costituente Dc vercellese, Ermenegildo Bertola),affinché intervenga contro il mercato clandestino dei fertilizzanti azotati che affliggonola coltivazione dei cereali da pane, da riso e da altre colture (sostanzialmente c’era l’am-masso obbligatorio), con grave danno per la produzione dei grassi e della carne. Siamoin tempi di tessera per i beni alimentari e a ciascuno vengono assegnati, in funzione delnucleo familiare, un certo numero di grammi di grassi, di farina e quant’altro; siamoancora in piena emergenza. Successivamente, Pastore, nel settembre 1947, sollecita ilministro della Giustizia Grassi a ricostituire il Tribunale di Varallo «ingiustamente sop-presso dai fascisti»; la risposta non è incoraggiante e la questione viene rinviata allarevisione della pianta degli uffici giudiziari; sarà poi la pretura ad essere conservata12.

Il costituente Pastore interviene anche presso il ministro del Lavoro, Fanfani, a fa-vore dei titolari di rendita vitalizia per infortunio. Pastore vive una situazione personalemolto aspra. La sua famiglia era stata vulnerata dagli infortuni sul lavoro dal momentoche suo padre ne era stato colpito, quindi possiamo cogliere il motivo per cui, una voltagiunto in parlamento, una delle sue prime iniziative assuma proprio questa questionecome elemento di spicco. E chiede che venga concesso ai titolari un assegno tempora-neo di carovita, perché evidentemente costoro non sono beneficiari dei pochi aumentisalariali. Poi chiede al ministro dei Lavori pubblici il pagamento delle spettanze alle im-prese di costruzioni che vantano crediti presso l’Anas, perché queste imprese non pa-gano i salari ai dipendenti come conseguenza; si rivolge al ministro della Difesa per ri-chiedere il condono ai militari degli anticipi ricevuti durante il periodo di prigionia o diconcentramento (in Italia venivano dati anticipi che consentissero alle famiglie, mentrei nostri militari erano nei campi di concentramento, di poter campare).

Pastore mostra questa inusitata attività a favore della vallata che pure non rappre-senta in parlamento. Eletto anche nel collegio elettorale 1 (Torino-Novara-Vercelli), perla Democrazia cristiana, conquistando il secondo posto subito dopo Oscar Luigi Scal-faro e prima di Bertola e Pella, Pastore opta per il collegio unico nazionale, la lista chea livello nazionale recupera i resti non assegnati nei rispettivi collegi. Il primo dei noneletti in Piemonte, Giuseppe Rapelli appunto, sollecita il subentro.

Che ci faceva Pastore al quinto posto nella lista del collegio unico nazionale, dietroi dirigenti più significativi del partito della Democrazia cristiana? La lista del Pci era guidatada Togliatti, quella del Psiup da Nenni e via via da tutti i personaggi di maggior rilievo.

12 Le commissioni della Costituente si occuperanno della Valsesia - prima commissione,il 30 settembre 1947 - anche per l’esame della ricostituzione dei comuni di Civiasco e Voccasoppressi durante il fascismo a proposito dei quali il governo (proponente Scelba) avrebbedeliberato il 3 settembre dello stesso anno la relativa proposta.

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Semplicemente Pastore si era conquistato un posto di rilievo fra le personalità alle qualisi voleva garantire l’elezione grazie alla sua attività di segretario organizzativo della Dc,ma aveva superato brillantemente il confronto elettorale diretto.

Pastore parla anche in aula. Accanto a queste tematiche più locali, i suoi interventiriguardano due aspetti non banali che, da un lato, ci danno il senso della sua profondaattenzione alla condizione sociale complessiva e, dall’altro lato, anche della sua grandeattenzione a quanto sta maturando sul terreno delle forze sociali ed economiche. Il pri-mo intervento è sulla tematica dell’emigrazione, a cui risponderà il sottosegretario alLavoro Togni, l’11 marzo 1947. Gli argomenti ci restituiscono uno spaccato utile a leg-gere e interpretare vicende attuali. Pastore chiede al governo perché si opponga a chel’emigrazione in Francia avvenga in via normale mediante richieste o contratti indivi-duali ed insista nel dare assoluta precedenza al sistema dell’emigrazione collettiva, no-nostante i gravi inconvenienti a cui aveva già dato luogo. Pastore nota che sono migliaiale richieste di emigrazione giacenti nel Ministero - basta immaginare cos’era l’Italia inquel periodo, tra le distruzioni operate e la smobilitazione che gradualmente immettevasul mercato del lavoro centinaia di migliaia di persone relativamente giovani che torna-vano dalla guerra, senza una ripresa economica che fosse minimamente iniziata. Dal-l’intervento di Pastore ci viene restituita l’immagine di un Paese allo stremo, dove re-gna la disoccupazione e che vede nell’emigrazione una valvola di sfogo. La risposta diTogni è altrettanto significativa e importante: «Domande di emigrazione ce ne sono an-cora circa duemila in corso di istruttoria» e le province dalle quali si emigra nel 1947,in base a quei dati, sono: Udine, 1.451, Belluno, 131, Vicenza, 296, Varese, 340.

Pastore non si accontenta di questa indicazione di Togni e replica che rimangonooltre ventimila richieste italiane di emigrazione inevase, ma soprattutto attira l’attenzio-ne sul fatto che l’emigrazione di massa determina il danno dei lavoratori e cita il modocon cui i lavoratori sono trattati nei cosiddetti campi di triage francesi dove - affermaPastore - per mancanza di contratti individuali gli operai sono trattenuti senza libertà dimovimento con gendarmi all’uscita dei campi, quindi non campi di raccolta ma di con-centramento, quasi di prigionia. Il fascismo - prosegue - si è assunto un falso meritoquando, irreggimentati i nostri emigrati verso l’estero, ha creduto di realizzare unamaggiore difesa dei nostri lavoratori. Ora è strano che il regime democratico inaugurila sua politica migratoria battendo la stessa strada che ha battuto il fascismo.

Il governo, di lì a pochi mesi, opterà per la strada dei contratti individuali in modoche chiunque, arrivando, abbia una casa, un posto di lavoro, uno stipendio contrattatoe non ci siano luoghi dove attendere che qualcuno venga a reclamare manodopera abasso costo per l’economia francese.

Pastore è protagonista, con Gronchi, Storchi e Fanfani, della battaglia per l’intro-duzione, nel titolo III della Costituzione (quello dedicato ai rapporti economici), di unprincipio caro alla tradizione del sindacalismo di impronta cattolica, la partecipazionedei lavoratori alla gestione delle imprese13. Con il concorso del Partito comunista italia-

13 Interessante il collegamento con il pensiero espresso prima del fascismo dalla Cil, laConfederazione “bianca’’ dei lavoratori. Cfr. l’articolo critico La scatola vuota, dedicato allaproposta governativa di istituire una commissione nazionale e di stabilimento di lavoratoriper il controllo nelle imprese, alla quale si contrapponeva l’idea della «partecipazione effetti-va agli utili, alla gestione e alla proprietà delle aziende», in “Il Monte Rosa”, 5 febbraio 1921.

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no (prenderà la parola Di Vittorio, segretario generale della Cgil, per annunciare il votofavorevole all’emendamento firmato dai quattro esponenti della Democrazia cristiana,precisando che attribuiva «al concetto di collaborazione il significato di partecipazioneattiva dei lavoratori alla gestione dell’azienda, e quindi allo sviluppo dell’azienda stessanell’interesse dei lavoratori e del Paese»), l’Assemblea costituente approverà il testodell’attuale art. 46 della Costituzione: «Ai fini della elevazione economica e sociale dellavoro, ed in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il dirit-to dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delleaziende». L’intento è quello di rafforzare nella nuova Carta costituzionale il concetto di“preminenza del lavoro”, in stretto collegamento con il dettato dell’art. 1.

Sarà lo stesso Gronchi ad illustrare, a nome anche degli altri firmatari, il senso pro-fondo della proposta: «La nostra posizione rispetto ai problemi del lavoro è sintetizzatanella frase che noi siamo risoluti a non mantenere nel vuoto sostanziale delle afferma-zioni oratorie, ma a riempire di un contenuto di progressive riforme sociali. Intendodire: “la preminenza del lavoro”. Questo, nella sua attuale posizione, è uno strumentodella produzione, più che un suo collaboratore. Da una tale inferiorità noi vogliamo ele-varlo». «Il nostro emendamento - prosegue il futuro presidente della Repubblica - con-tiene due concetti. Il primo si rifà esplicitamente alle esigenze della produzione. Noinon siamo di quelli che sul tavolo anatomico della teoria distinguono e separano il pro-cesso della produzione in due fasi nettamente distinte e quasi per sé stanti: la primaproduttiva e la seconda distributiva. [...] Noi siamo però convinti che l’imperativo ca-tegorico sia [...] quello di produrre di più affinché vi siano più utili, più frutti da distri-buire [...] È per questo che noi, finalizzando lo scopo di questo articolo, abbiamo postoin primo luogo la nostra mira di elevare economicamente e socialmente il lavoro; ma viabbiamo associato anche il concetto dell’armonia con le esigenze della produzione. Ilsecondo concetto che abbiamo voluto affermare è quello della collaborazione [...];debbono essere salvi taluni principi senza dei quali non vi è ordinata e perciò fecondaattività produttiva; primo fra tutti quello che potrebbe essere nella unità di comandodelle aziende produttive»14. Un dibattito di grande interesse (vi prenderà parte anche unesponente politico liberale destinato ad essere il primo presidente della Repubblica, LuigiEinaudi) per un’altra norma costituzionale non particolarmente fortunata, tanto che néconsigli di gestione né compartecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa sono espe-rienze entrate nella legislazione del lavoro italiana.

Di segno squisitamente politico l’intervento di Pastore nella seduta del 21 giugno1947 dell’Assemblea costituente dedicata alla discussione della fiducia al quarto gover-no De Gasperi. A maggio si è rotto l’equilibrio del terzo governo guidato dallo statistatrentino che vede la presenza ancora di tutti i partiti del Cln e si arriva alla creazione diun governo senza la partecipazione del Partito comunista e di quello socialista.

Pastore risponde, da componente della segreteria della Cgil, al comunista GiuseppeDi Vittorio, segretario responsabile della stessa Confederazione generale del lavoro, in-tervenuto il giorno prima. Accanto a una serie di osservazioni che riguardavano le espe-rienze proprie del movimento sindacale, Di Vittorio aveva criticato duramente il gover-no per la situazione politica che si era venuta a creare: «Questo governo - sono le pa-

14Atti dell’Assemblea costituente, seduta del 14 maggio 1947.

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role del leader sindacale pugliese -, per la sua composizione e per gli scopi effettivi chesi propone di realizzare, non può reggersi che con l’appoggio totale delle destre; cioècon quelle forze parlamentari che sono più rappresentative delle oligarchie economicheprivilegiate e reazionarie, i cui interessi non contrastano soltanto con gli interessi deilavoratori, ma anche con gli interessi generali della Nazione [...] È chiaro che, con questogoverno, si vuole far pagare ai lavoratori e si vogliono proteggere i ricchi».

Nella sua qualità di responsabile della corrente sindacale cristiana, Pastore contestaa Di Vittorio l’uso fatto del nome della Cgil e precisa che l’organizzazione sindacale nondeve essere coinvolta nella questione della fiducia al governo e annuncia, al contrario diDi Vittorio (che esprimerà voto negativo), il suo voto favorevole al gabinetto De Ga-speri. Pastore si dice convinto che «la maggioranza degli uomini che lo compongonoispireranno la loro azione all’indirizzo sociale» della Democrazia cristiana. «Il che - con-tinua - mi garantisce fin d’ora che sarà intrapresa una immediata ed energica azionecontro gli speculatori e che saranno prontamente adottati tutti i provvedimenti atti adassicurare alle classi lavoratrici, in primo luogo i pensionati e i disoccupati, un più altotenore di vita».

Il contrasto emerso in sede di discussione della fiducia al quarto governo De Ga-speri riflette, in realtà, un clima di disagio già ampiamente manifestatosi al Congressodi Firenze della Cgil ancora unitaria (1-7 giugno 1947). Oggetto del contendere lo “scio-pero politico”, vale a dire non legato a specifiche rivendicazioni salariali: nella approva-zione dell’art. 9 dello statuto del sindacato si registra l’esplicita riserva della correntesindacale cristiana. Una mediazione dell’esponente socialista Fernando Santi aveva pre-visto un quorum dei tre quarti dei componenti degli organismi dirigenti per prese diposizione su temi politico-sociali. Pastore ribadisce che considera la materia presa inconsiderazione dall’art. 9 «non soltanto estranea ai problemi sindacali, ma implicita-mente ispirata a motivi ideologici e politici, cioè a dire a motivi destinati, anche involon-tariamente, a dividere i lavoratori». È un tema che tornerà nella storia, non solo sinda-cale, d’Italia con il venir meno dell’unità di organizzazione sindacale nel 194815.

Pastore manca ormai dalla Valsesia dal 1926. Passata la fanciullezza ad Aranco diBorgosesia, vi frequenta le elementari. Nel settembre del 1914 viene assunto, a dodicianni, alla Manifattura Lane come attaccafili. Licenziato nel 1917, viene riassunto nel1919, per poi dimettersi definitivamente nel 1920, assunto questa volta come propa-gandista di plaga dell’Azione cattolica. Nel frattempo aveva costituito il circolo giova-nile Giosuè Borsi nel 1918 a Borgosesia, in un clima di antagonismo fra cattolici, socia-listi da un lato e massoni dall’altro. L’episodio di Crevacuore nel 1919, dove viene so-stanzialmente impedito ai cattolici di poter effettuare una processione, rimane moltoimpresso nella memoria del giovane cattolico, che in quel momento partecipa di un’espe-rienza molto vivace, quella del mondo cattolico novarese, dove una serie di opinioni siconfrontano: quella di impronta sociale e quella più tradizionale di notabilato cattolico,ma con una osmosi tra ciò che è la vita dell’Azione cattolica, ciò che è la vita dei sin-dacati, e quindi della Cil, e la nascita del Partito popolare italiano.

15 «Siamo arrivati alla constatazione che la subordinazione dell’azione sindacale alle lo-giche della lotta politica, imposta duramente e senza mediazione dalla maggioranza comuni-sta, contrasta con un’elementare esperienza di libertà», dal discorso di Pastore alla Cameradei deputati, 25 ottobre 1948.

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Pastore diventa nel 1921 commissario di Borgosesia dell’Unione del lavoro (quindidell’organo sindacale della Confederazione italiana del lavoro) e partecipa all’esperien-za della creazione dell’Avanguardia, detta anche “cravatta bianca”: si avvertiva la ne-cessità da parte dei movimenti di dotarsi di giovani che potessero garantire l’ordinedurante le manifestazioni e la possibilità di svolgerle pacificamente. Pastore in partico-lare partecipa alla squadra Pio XI Alta Valsesia, che esce in occasione di alcune proces-sioni per garantire, rispetto ai massoni che vogliono impedirlo, la possibilità di portareil Santissimo in processione16. Viene poi nominato anche segretario dell’Unione del la-voro di Varallo: Pastore si trasferisce nella cittadina valsesiana nel 1922, proprio perrispondere all’impegno che gli viene affidato in quel momento, ossia quello di redattorede “Il Monte Rosa”, il giornale cattolico locale che veniva non solo redatto ma stampa-to in loco e quindi aveva bisogno di una presenza assidua. Vi resterà per due anni finoal suo trasferimento a Monza nel Natale del 1924, avendo avuto modo nel frattempo diincontrare sua moglie, che gli darà due figli.

Pastore è orgogliosamente autodidatta, non certo per scelta, ma perché le condizio-ni dell’epoca gli avevano impedito di sviluppare la sua naturale inclinazione agli studi.Per dirigere “Il Monte Rosa” il suo titolo di studio di licenza elementare non è esatta-mente il massimo. Con orgoglio decide di presentarsi all’esame di ammissione alla quartaginnasio, obbligato dalla nuova legge sulla stampa che i fascisti avevano rapidamentepromulgato e che definiva le caratteristiche dei responsabili degli organi di informazio-ne. Supera alcune materie, non ne supera altre e poi non si presenterà all’esame di ripa-razione e allora ecco che dal “Corriere Valsesiano”, legato agli ambienti massonici ediretto dal fascista Oscar Zanfa, si annota: «A dirigere il Monte Rosa non c’è un gior-nalista ma un giornalaio»17.

Nel frattempo la pressione del movimento fascista, nonostante il tentativo di pacifi-cazione del luglio 1923 dopo le violenze contro “Il Monte Rosa”, diventa sempre piùdura.

Nel mondo cattolico novarese si afferma, non senza contrasti, la linea “pattizia” conil nuovo potere fascista e a farne le spese è anche Pastore che, con Carlo Torelli, pre-sidente della plaga aronese della Gioventù cattolica, viene messo sotto accusa per ave-re appoggiato nelle elezioni del 1924 (quelle del sistema maggioritario introdotto dallalegge Acerbo), il Partito popolare18: Giulio Pastore si dimetterà da presidente della plagaAlta Sesia e e da membro della presidenza federale.

16 A conferma di questo suo impegno lo troviamo, nel 1923, delegato nella presidenzadiocesana della Gioventù italiana di Azione cattolica al «segretariato dei Gruppi Eucaristici,dei Santi Esercizi e dell’Avanguardia». Cfr “Il Monte Rosa”, 29 dicembre 1923.

17 Cfr. ANDREA CIAMPANI, La buona battaglia. Giulio Pastore e i cattolici sociali nellacrisi dell’Italia liberale, Milano, Angeli, 1990.

18 «Gli accordi ebbero delle gravi ripercussioni sulle coscienze più politicamente avver-tite, soprattutto di Giulio Pastore e di Carlo Torelli, l’uno propagandista di plaga, presidentedi plaga e membro della federazione, l’altro presidente della plaga aronese. Per le elezioni del1924 i due esponenti ripresero la propaganda per il Partito popolare. I casi furono portatidavanti alla Federazione giovanile diocesana. Luigi Cappa, presidente, aveva ribadito di nonmettere i giovani cattolici a disposizione di nessun partito per la propaganda. [....] Torelli,frattanto, continuava a fare propaganda, in modo diretto o indiretto per il Partito popolare,

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Pastore si trasferisce, su richiesta degli amici di Monza con cui aveva già collabo-rato e che rappresentavano un punto di riferimento importante nell’esperienza del mo-vimento cattolico italiano del Nord, al giornale “Il Cittadino”. Tra di loro Achille Grandi,che a sua volta, a conferma della centralità di Monza, quando era stato cacciato dalvescovo di Como perché nel 1913 si era schierato contro il patto Gentiloni, vi avevatrovato asilo.

Pastore dirige per due anni “Il Cittadino”, ma alla fine del 1926 arriva il decreto disequestro del giornale da parte del prefetto e la chiusura. Condizione per poter riaprire,quella di cambiare direttore. Pastore si trova disoccupato, Grandi anche, perché con-temporaneamente la Confederazione italiana del lavoro viene chiusa. Lasciata Monza,Pastore trascorre alcuni anni lavorando a Novara come fattorino per una banca19 finoal 1935, quando il suo compagno della Gioventù italiana di Azione cattolica, Luigi Ged-da, diventato presidente nazionale dell’associazione, lo chiama a Roma come collabo-ratore. Sono gli anni della preparazione, della lunga vigilia, quella che vede molte perso-ne esuli20, talvolta nella propria stessa patria (quando non rinchiuse nella Biblioteca va-ticana), per preparare la vita democratica della nuova Italia. Le parole d’ordine dellagioventù italiana antifascista di impronta cattolica in quegli anni sono “resistere e pre-gare” e studiare per prepararsi ad una nuova vita.

In Pastore, identità cristiana, esperienze di fede vissute attraverso la Gioventù italia-na di Azione cattolica e le Acli, attività sindacale, attività pubblicistica, attività politicavanno di pari passo: questi diversi momenti non sono scindibili nella sua personalità.Egli è stato portatore e testimone di una vocazione totalizzante di cui oggi probabilmen-te abbiamo smarrito l’impronta, la proiezione di quel “magma” che, dal “non expedit”(il divieto papale di partecipazione alla vita politica e sociale nell’Italia dei Savoia), do-veva portare il movimento cattolico ad essere protagonista di una inimitabile stagione diconsolidamento della democrazia.

Il mondo cattolico che si presenta all’indomani della Liberazione è ben lontano dalcostituire un monolite. La Chiesa si interroga su quale sia il percorso migliore per una

così Pastore in Valsesia. [...] Durante l’adunanza dell’8 giugno 1924 fu approvato il seguenteordine del giorno proposto da Luigi Gedda e da Giuseppe Silvestri: “Per esigenze locali e permaggiore prosperità del movimento si delibera di non permettere che i presidenti dei circoli,i presidenti di plaga, i membri della presidenza federale ed i propagandisti facciano propa-ganda pubblica e ufficiale politica”. [...] Per questo veto Giulio Pastore, con una lettera dell’8giugno 1924 a Luigi Cappa, immediatamente rassegnò “con dispiacere” le dimissioni da pre-sidente della plaga Alta Sesia e da membro della presidenza federale», in PIER GIORGIO LON-GO, L’antifascismo cattolico valsesiano, in PATRIZIA DONGILLI (a cura di), Aspetti della sto-ria della provincia di Vercelli tra le due guerre mondiali, Borgosesia, Isrsc Vc, 1993.

19 In un’intervista rilasciata a Franco Amadini ne “L’Avvenire d’Italia” (11 gennaio 1962),Pastore spiegherà: «fattorino ambulante e proprio tra la città ed il mio paese, dove avevolottato. La mortificazione non poteva essere maggiore».

20 Achille Grandi durante il fascismo farà il tipografo, tornando alla sua antica occupazio-ne. Giovanni Gronchi, invece, lascerà la sua Toscana e si ritirerà in alta Lombardia, a fare ilrappresentante di prodotti industriali. Secondo quanto riferisce Maurizio Serio (in Il mitodella democrazia sociale. Giovanni Gronchi e la cultura politica dei cattolici italiani1902-1955, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009), Gronchi non subisce sanzioni più severegrazie ad un decreto di Mussolini che le risparmiava ai decorati di guerra, come nel suo caso.

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testimonianza dei cattolici nella vita sociale e politica, se quello della tendenziale unità oquello della presenza nelle diverse organizzazioni sociali e partitiche.

A testimoniare la complessità di quel passaggio, basti pensare che le Acli, al mo-mento della loro nascita nell’agosto 1944, registrano all’interno del loro direttivo trecomponenti principali, accanto all’Azione cattolica, tre partiti: Democrazia cristiana,Sinistra cristiana (poi sciolta nel dicembre del 1945) e Partito cristiano sociale, che sidissolverà all’indomani dell’insuccesso registrato il 18 aprile 1948.

Di questa complessità Pastore si fa carico, traguardandola oltre la dimensione del-l’identità confessionale e traducendola in nuove esperienze, come con la realizzazionedi una novità assoluta sul piano dell’organizzazione sindacale: la Cisl.

Per Pastore, i luoghi della formazione nel contrasto e nel confronto, subito dopo glianni giovanili, sono lontani dalla Valsesia: potremmo indicare Monza e poi Roma.

Nel dopoguerra è Pastore ad eleggere la Valsesia a primo luogo dei suoi affetti, as-sumendosi anche l’onere della costruzione di quell’intelaiatura, il Consiglio di valle21,che sarà protagonista della stagione della rinascita valsesiana.

Un ritorno il suo, ormai uomo maturo e dirigente affermato, a quella Valsesia chepure non lo aveva molto amato, tanto da costringerlo ad andarsene vent’anni prima, nel1924.

21 Sarà un’assemblea tenutasi a Varallo il 19 agosto 1946, dunque a poche settimane dal-l’insediamento dell’Assemblea costituente, a dare il via a questa esperienza.

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Al momento della Liberazione Cino Moscatelli era considerato, negli ambienti parti-giani e non solo, una leggenda vivente, uno dei massimi eroi della Resistenza italiana1.Aveva 37 anni (era nato a Novara il 3 febbraio 1908) e un curriculum di antifascista ditutto rispetto. A 12 anni aveva partecipato al movimento di occupazione delle fabbri-che. A 14 si era impegnato nella difesa delle sedi delle istituzioni proletarie di Novaradalla violenza delle squadracce fasciste. Nel 1925 si era iscritto alla gioventù comunistae due anni dopo era espatriato in Svizzera dove, nei pressi di Basilea, aveva frequentatouna scuola di partito diretta da Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Ruggero Grieco. Si eraquindi spostato prima a Berlino, poi a Mosca, dove aveva proseguito gli studi politici ecompletato la sua formazione ideologica. Nel gennaio del 1930 si era trasferito a Parigi,per lavorare al centro estero del Partito comunista2.

Quando il partito aveva deciso di ricostruire un “centro interno” - cioè una strutturaclandestina di militanti sul territorio italiano - Moscatelli era stato inviato in Italia con unpassaporto falso, nel giugno 1930, con l’incarico di dirigere la Federazione giovanilecomunista in Emilia-Romagna. L’8 novembre 1930 Cino era stato arrestato e, deferitoal Tribunale speciale, era stato condannato nell’aprile del 1931 a sedici anni e sei mesidi reclusione. Era stato assegnato prima al carcere di Volterra, poi a quello di Civitavec-chia, e infine a quello di Alessandria.

A seguito della cosiddetta amnistia del decennale la pena gli era stata ridotta a setteanni, di cui due poi condonati. Ha scritto Enzo Barbano: «I corsi di marxismo [...] ebberoun’importanza relativa nella sua formazione. [...]. Determinante fu invece per la suamaturazione politica la condanna del Tribunale speciale del 1931 e gli anni di detenzioneche ad essa seguirono [...]. L’uomo che esce dal carcere nel 1935 è un rivoluzionarioagguerrito ed addestrato. Non più un ragazzo di periferia temerario e incolto, ma unavversario ben più sottile e temibile per il regime al potere»3.

Vincenzo “Cino” Moscatelli

1 Sulla nascita e sul consolidamento del mito di Moscatelli si veda FILIPPO COLOMBARA, Ilfascino del leggendario. Moscatelli e Beltrami: miti resistenti, in “l’impegno”, a. XXVI, n.1, giugno 2006, pp. 33-47; STEFANO SALA, Morte di un mito. La fine del “romanticismo parti-giano” nella Resistenza novarese, in “l’impegno”, a. XXX, n. 1, giugno 2010, pp. 25-39.

2 Le notizie biografiche su Cino Moscatelli, dove non diversamente indicato, sono trattedalla voce Moscatelli Vincenzo (Cino), redatta da Stefano Caretti, in FRANCO ANDREUCCI -TOMMASO DETTI (a cura di), Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma,Editori Riuniti, vol. III, 1977, pp. 596-599; da ENZO BARBANO, Storia di un rivoluzionario, in“Corriere Valsesiano”, 6 novembre 1981 (entrambi questi articoli sono anche pubblicati nelvolume Ricordo di Cino Moscatelli, Borgosesia, Isr Vc, 1982, pp. 1-16); dalla voce MoscatelliVincenzo, redatta da Francesco Omodeo Zorini, in Enciclopedia dell’antifascismo e dellaResistenza, Milano, La Pietra, vol. III, 1976, pp. 832-833; infine dalla voce Moscatelli Vincenzo,redatta da Mario Giovana, in ENZO COLLOTTI - RENATO SANDRI - FREDIANO SESSI (a cura di), Di-zionario della Resistenza. Luoghi, formazioni, protagonisti, Torino, Einaudi, vol. II, 2001,p. 595.

3 E. BARBANO, art. cit.

Bruno Ziglioli

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Si era stabilito in Valsesia, dove era rimasto sotto continua vigilanza da parte degliorgani di polizia. Nel 1937 aveva scontato altri sei mesi di carcere a Vercelli, con l’ac-cusa di aver scritto «morte al duce» sui muri della cartiera di Serravalle. Il 26 luglio1943, quando era stata annunciata la deposizione di Mussolini, aveva organizzato unamanifestazione a Borgosesia ed era ritornato a dirigere il movimento antifascista in valle.Dopo l’8 settembre era stato tra i promotori - in rappresentanza del Pci - del Comitatovalsesiano di Resistenza, il futuro Cln di zona Valsesia. Il 29 ottobre il Comando germa-nico di Vercelli ne aveva ordinato l’arresto, ma Cino era stato subito liberato dai suoicompagni, dopo un attacco alla caserma nella quale era stato trattenuto.

Con un primo gruppo di ribelli si era rifugiato sul monte Briasco, dando avvio alleprime azioni di guerriglia e organizzando - insieme a Eraldo Gastone “Ciro” - i priminuclei partigiani della Valsesia. Comincia qui la storia del partigiano “Cino”, destinato adiventare una figura leggendaria della Resistenza. Le bande poste sotto il suo comandoerano cresciute progressivamente di numero e di organico, ed erano sfuggite ai duris-simi rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti. Dopo la primavera del 1944 e l’esaltanteesperienza della zona libera della Valsesia, si era costituito il raggruppamento delle divi-sioni garibaldine della Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano, del quale Cino era stato il com-missario politico e Ciro il comandante militare. Nell’aprile del 1945 le dodici brigategaribaldine poste sotto il comando di Moscatelli, inquadrate in quattro divisioni, rag-gruppavano complessivamente circa tremila uomini.

Le formazioni di Moscatelli avevano partecipato alla liberazione di Novara e poi sierano dirette su Milano, dove erano giunte il 28 aprile. “Il Monte Rosa è sceso a Mila-no”: questo è il titolo evocativo che Moscatelli, insieme a Pietro Secchia, diede al suoracconto di quei giorni4.

Subito dopo la Liberazione, Moscatelli assunse l’incarico di sindaco di Novara, suindicazione del Cln. Il Partito comunista italiano, seguendo la nuova linea politica elabo-rata da Togliatti nell’aprile 1944, stava cercando di legittimarsi agli occhi degli italianicome partito nuovo, nazionale, di massa. Questa ricerca di legittimazione venne perse-guita valorizzando l’esperienza antifascista e resistenziale come elemento fondativo (orifondativo) del partito. Il mito della Resistenza fu assunto come caposaldo dell’identitàdel partito e come paradigma a cui attenersi nella creazione del nuovo stato italiano5.

Per questo il partito aveva bisogno di uomini come Moscatelli a livello nazionale,non poteva confinarli nell’ambito locale. I capi della Resistenza dovevano diventare inuovi quadri dirigenti del Pci, in considerazione del prestigio e del consenso di cui go-devano presso la classe operaia. Nell’autunno del 1945, Moscatelli venne chiamato aRoma, per rappresentare il partito all’interno della Consulta nazionale, l’organo com-posto da circa quattrocento membri in cui erano rappresentati tutti i partiti antifascistie che - in attesa dell’elezione dell’Assemblea costituente - svolgeva funzioni consultivee di controllo sull’attività di governo.

Inoltre Moscatelli venne chiamato dalla direzione del Pci a presiedere la commissio-

4 PIETRO SECCHIA - CINO MOSCATELLI, Il Monte Rosa è sceso a Milano. La Resistenza nelBiellese, nella Valsesia, nella Valdossola, Torino, Einaudi, 1958.

5 EMILIO GENTILE, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, La-terza, 2006, pp. 355-363.

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ne per l’assistenza ai reduci partigiani. Dati gli impegni romani, nel novembre 1945Moscatelli lasciò la carica di sindaco di Novara a Ermanno Lazzarino6, senza però ri-nunciare a candidarsi - insieme a Ciro - alla carica di consigliere comunale nelle elezioniamministrative della primavera del 19467. Per le stesse ragioni, Moscatelli venne can-didato alle elezioni per l’Assemblea costituente previste per il 2 giugno dello stesso anno.

Il collegio elettorale - che rimarrà geograficamente inalterato fino alle elezioni del1992 - era estremamente ampio: comprendeva infatti le province di Torino, Novara eVercelli. Questa estensione territoriale consentì a Moscatelli di capitalizzare preferenzein un bacino molto ampio, che includeva le zone partigiane delle sue formazioni (la Val-sesia e la Valdossola), la città nella quale era nato e della quale era stato sindaco, e anchele zone industriali del Torinese e del Canavese, dove non aveva combattuto, ma dovecerto era arrivato il suo mito. Sembra evidente, scorrendo i risultati delle elezioni am-ministrative del marzo 1946, che il bacino elettorale della Valsesia di per sé non sarebbestato sufficiente a eleggerlo.

Non per questo Moscatelli rinunciò a fare campagna elettorale nella “sua” valle. Peresempio, alla fine di maggio 1945 parlò a Varallo e a Borgosesia, accompagnato da Camil-la Ravera e - non a caso - dal filosofo torinese Felice Balbo, uno dei più eminenti cat-tolici comunisti8. Non a caso, si è detto, perché uno dei maggiori problemi nel radica-mento del Pci in Valsesia, così come nelle valli alpine in generale, era quello evidenziatodal settimanale cattolico “La Gazzetta della Valsesia”, il quale - commentando le elezioniamministrative di qualche settimana prima - scrisse: «Il bolscevismo è una pianta eso-tica che non può vivere in queste nostre terre, e Moscatelli si è illuso di poterla innesta-re sull’albero secolare della civiltà cristiana nostra»9.

Nel commentare il comizio di Moscatelli, Ravera e Balbo, lo stesso settimanale esordìin modo caustico: «Questo ebbe un carattere diverso dai soliti comizi comunisti: piùserio. I battimani furono infatti molto più modesti». Più avanti, in realtà, il giornalistalasciava trasparire un sentimento di rispetto: «La Ravera, che nella pacatezza della vocee nella mestizia del volto, sembrava portare il peso incrollabile di 13 anni fra carcere econfino, ricordò del programma comunista i punti che maggiormente possono attirareil consenso del popolo. Il Balbo dimostrò una validità propagandistica notevole. Que-sto, in sintesi, il contenuto delle sue parole: il Pci non è al soldo di Mosca, il Pci non èrinunciatario circa le province della Venezia Giulia, il Pci non è antireligioso, ma acco-glie e rispetta tutti i culti: un esempio, egli, cattolico praticante, poté militare attivamen-te nel Pci, senza rinunciare a nessuna delle sue convinzioni religiose»10. Un comiziotenuto da Pietro Secchia a Varallo nell’immediata vigilia del voto non godette della stes-sa “benevolenza” da parte del settimanale cattolico, che infatti titolò: “Sproloqui so-cialcomunisti al Civico di Varallo”11.

Moscatelli venne eletto all’Assemblea costituente con un numero di preferenze si-

6 Il nuovo sindaco di Novara, in “La Stella Alpina”, 18 novembre 1945.7 Presentiamo oggi i nostri candidati, in “La Stella Alpina”, 10 marzo 1946.8 Comizi elettorali, in “Corriere Valsesiano”, 24 maggio 1946.9 Insegnamenti della Valsesia, in “La Gazzetta della Valsesia”, 27 aprile 1946.

10 Comizi elettorali, in “La Gazzetta della Valsesia”, 25 maggio 1946.11 Sproloqui socialcomunisti al Civico di Varallo, in “La Gazzetta della Valsesia”, 1 giu-

gno 1946.

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gnificativamente elevato, 45.28212, a conferma del fatto che Cino era molto più di unpromettente dirigente e di un candidato a base locale: personificava un mito.

Nella Costituente, Moscatelli fu assegnato alla prima commissione per l’esame deidisegni di legge, una delle commissioni istituite per vagliare le iniziative legislative che ilgoverno intendeva adottare. Non facendo parte della Commissione dei settantacinque,non svolse un ruolo di particolare rilievo nei lavori dell’Assemblea e - come la maggiorparte dei suoi colleghi - prese la parola molto raramente: intervenne quattro volte, bre-vemente e su questioni tutto sommato marginali. Tuttavia, uno di questi interventi ri-chiamò l’attenzione della stampa nazionale, innescando molte polemiche. Per capire dicosa si tratta, occorre fare una premessa.

Nell’agosto del 1946 ad Asti era scoppiata una rivolta partigiana. Il 22 di quel mese,una trentina di ex partigiani agenti della polizia ausiliaria, agli ordini del capitano Lava-gnino, avevano abbandonato la loro caserma ed erano “tornati in montagna” - o, me-glio, in collina - nel territorio del comune di Santo Stefano Belbo. A loro si erano unitialtri quattrocento garibaldini armati, ed era stato creato un comando generale di parti-giani rivoluzionari13. Questi uomini esprimevano un malcontento che serpeggiava tra icombattenti delle formazioni garibaldine: molti di loro, inglobati nelle forze di polizia, neerano stati presto allontanati. Anche per chi era rientrato in fabbrica la vita non era fa-cile: il passato partigiano e la militanza comunista non costituivano un buon viatico agliocchi dei capireparto e delle dirigenze aziendali. Molti, inoltre, provavano una profondainsofferenza verso l’amnistia di Togliatti e verso la declinazione in senso parlamentaredell’obiettivo della “democrazia progressiva”. Alcuni avevano cominciato a pensare diaver combattuto per niente e si erano affidati alla speranza di suscitare una insurrezionearmata.

Si trattava di un sentimento piuttosto diffuso, che la dirigenza del Partito comunistanon poteva affatto ignorare. Lo dimostra l’avventata solidarietà che “l’Unità” del 24agosto aveva espresso ai rivoltosi di Asti: «È inutile voler limitare la portata di questogesto a un atteggiamento inconsiderato e arbitrario di un gruppo isolato. A quel gestohanno ieri idealmente sottoscritto milioni di lavoratori, migliaia di partigiani»14. E infattila rivolta si era estesa: alcuni gruppi di partigiani dell’Oltrepò pavese avevano seguitol’esempio dei loro compagni di Asti ed erano tornati anch’essi in montagna15.

Nei giorni immediatamente successivi, però, questo slancio e questo entusiasmo sierano smorzati e il partito - preoccupato per le ripercussioni che questa vicenda potevaavere - si era impegnato in un’opera di mediazione, nella quale era stato coinvolto inprima persona Moscatelli. Una rappresentanza di partigiani piemontesi si era recata aRoma a colloquio col ministro Nenni, mentre una delegazione di dirigenti comunisti eraandata a Santo Stefano Belbo, a parlare con i “ribelli”16. Alla fine la rivolta era rientrata,dopo la concessione della garanzia che nessun provvedimento punitivo sarebbe stato

12 La Costituente, in “Corriere Valsesiano”, 20 giugno 1946.13 MIRIAM MAFAI, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia,

Milano, Rizzoli, 1984, p. 46.14 Cit. in ibidem.15 I partigiani ritornano alle montagne, in “La Provincia Pavese”, 28 agosto 1946.16 M. MAFAI, op. cit., p. 47.

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preso nei confronti di Lavagnino. I partigiani erano tornati in città, ad Asti. Ad acco-glierli c’era proprio Moscatelli, che in quella occasione aveva detto: «Noi non tornere-mo in montagna, resteremo in città, dove si suda e si guadagna il pane. Vadano loro inmontagna, i fascisti! Forse impareranno ad amare la Patria!»17. La rivolta di Asti avevaavuto comunque una vasta eco in tutto il paese ed era stata ampiamente utilizzata dalleforze anticomuniste per puntare il dito contro la scarsa propensione democratica delPci e contro le sue pulsioni insurrezionali e rivoluzionarie.

A settembre la questione venne sollevata anche in sede costituente, durante una di-scussione in assemblea plenaria. Il celebre comandante partigiano cattolico piemonteseSilvio Geuna espresse tutta la sua condanna per la vicenda di Asti e per il comporta-mento tenuto dalle sinistre, mentre l’aula rumoreggiava e Moscatelli e Pajetta interrom-pevano più volte l’oratore. «Stupisce - dichiarò Geuna - che proprio da uomini di queibanchi della sinistra di cui tutti noi, anche se avversari politici, dobbiamo lealmenteammirare la fedeltà e la ferrea disciplina al proprio movimento, si levi un inno in difesadella indisciplina più sfrontata. Ed io, commilitone di lotta, sia pure sotto altri colori, delpartigiano onorevole Moscatelli, deploro vivamente che egli, deputato al parlamentoitaliano di un partito che ha i suoi uomini al governo, si sia recato ad Asti ad accoglierefestosamente il ritorno del funzionario ribelle al proprio governo»18.

A Geuna rispose subito lo stesso Cino, a sua volta contestato e interrotto: «È statofatto il mio nome, deplorandosi che io, come partigiano, sia andato ad Asti a fare operadi chiarificazione e pacificazione (interruzioni) [...] Perché sono andato ad Asti? Per-ché ero stato richiesto dagli stessi partigiani di Asti, perché mandato dal consiglio na-zionale dell’Anpi, perché mandato dall’onorevole Nenni. Il fatto che migliaia e migliaiadi cittadini di Asti hanno salutato entusiasticamente i partigiani che rientravano dallemontagne, indica che non solo i partigiani hanno solidarizzato con coloro i quali, con illoro gesto di protesta, hanno voluto dimostrare al governo che con la pazienza dei par-tigiani non si scherza (applausi a sinistra - rumori)»19.

Il confronto con Geuna, e quest’ultima frase soprattutto, rinfocolarono la polemicasui giornali nazionali, stavolta concentrandosi specificamente su Moscatelli. Il “PopoloNuovo” del 27 settembre, ripreso a livello locale da “La Gazzetta della Valsesia”, scris-se: «Non è la reazione in agguato che ha distrutto l’epopea partigiana, sono proprioloro, i partigiani suicidi [...] che hanno pugnalato il nostro buon nome. [...]. Nessunoha mai fatto tanto male alla causa partigiana come l’on. Moscatelli: [con le sue parole]ha offeso tutti i partigiani d’Italia, tutta la Resistenza»20.

Inaspettatamente, in Valsesia le difese di Moscatelli furono prese da un altro giornaleche non gli era certo politicamente amico. In un corsivo del “Corriere Valsesiano” dell’11ottobre si legge infatti: «Da un po’ di tempo a questa parte giornali di tutte le tendenzee di tutte le qualità attaccano a fondo l’on. Moscatelli, dicendogliene di cotte e di crude[...]. Non entriamo nel merito a tali accuse e a tali appunti, per quanto francamente, il

17 I partigiani in agitazione, in “Corriere Valsesiano”, 30 agosto 1946.18 Assemblea costituente. Atti. XXII. Seduta di martedì 24 settembre 1946.19 Ibidem.20 Generale Moscatelli! Risuscita le tue legioni!, in “La Gazzetta della Valsesia”, 5 otto-

bre 1946.

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metodo prescelto non ci persuada». Che cosa non persuada il giornale è specificatopoco più sotto: «[...] che, attaccando Moscatelli come comunista, qualcuno cerchi diattaccarlo come partigiano. Anche qui si potrà dire che Moscatelli ha fatto poco o hafatto molto, che ha fatto bene o ha fatto male, che si è comportato saggiamente o im-prudentemente. Ma conviene distinguere. Si combatta Moscatelli quale esponente co-munista, se non si è della sua idea (e noi non siamo della sua idea), ma lo si lasci starequale comandante partigiano. Su questo punto, per impancarsi a maestro, bisogna es-sere stati quantomeno al suo posto, bisogna aver fatto qualcosa più di lui. E qualcosa,se non andiamo errati, è pur riuscito a fare se i combattenti della Valsesia sono staticitati in tutta Italia. Sarebbero riusciti gli altri a fare altrettanto? O di più? O di meglio?»21.

Questo è senza dubbio l’episodio dell’attività di Moscatelli all’Assemblea costituen-te che ebbe la maggiore “esposizione mediatica”, come si dice oggi. Moscatelli presen-tò anche alcune interrogazioni al governo su alcuni temi molto specifici e circoscritti: laliquidazione degli assegni spettanti ai militari della marina sbandati dopo l’8 settembre194322; il divieto di circolazione degli automezzi nei giorni festivi nelle Marche (cheavrebbe impedito lo svolgimento di un raduno di partigiani programmato a Macerata)23, lapaventata espulsione dal territorio della Repubblica di un cittadino spagnolo, rappre-sentante della gioventù socialista spagnola in Italia24.

A prima vista, colpisce l’assenza di interrogazioni o di interventi relativi ai territori dielezione: Novara, l’Ossola, la Valsesia. Anche scorrendo i giornali locali, per parecchiotempo - almeno fino all’aprile del 1947 - non si segnala uno specifico interessamentoterritoriale di Moscatelli nell’espletamento del suo mandato. E qui salta agli occhi unagrande differenza tra l’approccio al mandato proprio di Moscatelli e quello, per esem-pio, di Giulio Pastore.

Pastore, sin dall’esperienza nella Consulta nazionale25, e poi nella Costituente, inter-pretò subito il suo ufficio come un mandato parlamentare tradizionale. È evidente ilrecupero dall’esperienza liberale della figura del politico nazionale con un forte radica-mento sul territorio di elezione. Come in epoca liberale, c’era in Pastore uno scambie-vole rapporto, una continua dialettica tra interessi locali e centrali, che si risolveva sot-to il segno della mediazione e dello scambio reciproco tra i due livelli26. Il collegio diprovenienza era una risorsa politica preziosa, gli interessi locali andavano seguiti conattenzione. Naturalmente in un contesto nuovo rispetto a quello dell’Italia liberale, nonpiù elitario ma di massa: gli interessi da rappresentare non erano più, o non solo, quellidei notabili locali, ma anche quelli più minuti.

21 Il partigiano Moscatelli, in “Corriere Valsesiano”, 11 ottobre 1946.22 Assemblea costituente. Atti. Allegato alla XXX seduta del 6 febbraio 1947. Risposte

scritte ad interrogazioni.23 Ibidem.24 Assemblea costituente. Atti. Allegato delle risposte pervenute dopo la chiusura dei la-

vori dell’Assemblea costituente. Risposte scritte ad interrogazioni.25 L’interessamento del Consultore Nazionale Giulio Pastore per i problemi della Valse-

sia, in “La Gazzetta della Valsesia”, 18 maggio 1946.26 SALVATORE ADORNO - CARLOTTA SORBA, Introduzione, in ID (a cura di), Municipalità e

borghesie padane tra Ottocento e Novecento. Alcuni casi di studio, Milano, Angeli, 1991,pp. 8-9.

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Per esempio, e per fare un rapido elenco: nel gennaio 1946 Pastore, nella Consultanazionale, rivolse una interrogazione al ministro degli Interni chiedendo quali provvedi-menti intendesse adottare per la ricostituzione degli ex comuni accorpati a Varallo dalfascismo27. Nell’agosto 1946 a Varallo si svolse un convegno sui problemi della valle,promosso da Pastore, al quale parteciparono sindaci e parroci valsesiani28: in quella se-de si decise di dare vita al Consiglio della valle, che nacque il mese successivo e fupresieduto dallo stesso Pastore29. Nello stesso agosto ebbe luogo il primo convegnodell’Unione valsesiana agricoltori: Pastore vi accompagnò il ministro dell’AgricolturaAntonio Segni30. A dicembre il ministro della Pubblica Istruzione, accompagnato da Pa-store e da Ermenegildo Bertola, visitò gli istituti scolastici di Varallo e Borgosesia31. Nellostesso mese Pastore depositò due interrogazioni parlamentari, l’una per chiedere alministro delle Finanze provvedimenti tributari a favore delle zone montane della Valse-sia, l’altra per invitare il ministro dei Trasporti a ripristinare tempestivamente i servizi ditrasporto pubblico nella Valsesia, in Valmastallone e in Valsermenza32. Nel marzo del 1947Pastore scrisse una lettera al ministro di Grazia e Giustizia, con la quale chiese che fossericostituito il Tribunale di Varallo33; su questo stesso tema l’esponente politico varallesesvolse una interrogazione in Assemblea costituente, nel settembre dello stesso anno34.E via discorrendo.

Il partito democratico cristiano, d’altronde, aveva capito meglio e prima degli altripartiti quali fossero le domande politiche e gli atteggiamenti radicati nelle montagne enelle campagne: il desiderio di stabilità, il bisogno di rifarsi alle tradizioni e al territorio,il richiamo alla continuità tra passato e presente35, gli echi di tipo neocorporativo36. Invalle (da Varallo in su) la Dc andò così a occupare lo spazio che prima era stato occu-pato dai liberali, e in parte anche dai socialisti, diventando il punto di riferimento politi-co per larghi strati della popolazione. Quasi tutti i membri dei Cln comunali dell’altavalle che si definivano “apolitici” finirono per aderirvi. Il risultato fu che, dopo le ele-zioni amministrative del 31 marzo 1946, in tutta l’alta valle (Varallo compresa) si inse-diarono giunte comunali dominate dal partito cattolico37.

27 Per l’autonomia degli ex Comuni, in “La Gazzetta della Valsesia”, 2 marzo 1946.28 Il grande convegno di Varallo per l’esame dei problemi valsesiani, in “La Gazzetta

della Valsesia”, 10 agosto 1946.29 È nato il Consiglio della Valle, in “Corriere Valsesiano”, 20 settembre 1946.30 Il I Convegno dell’Unione Valsesiana Agricoltori, in “La Gazzetta della Valsesia”, 24

agosto 1946.31 Il Ministro della Pubblica Istruzione ha visitato gli istituti scolastici cittadini, in

“Corriere Valsesiano”, 8 dicembre 1946.32 Assemblea costituente. Atti. Allegato alla XXV seduta del 10 dicembre 1946. Risposte

scritte ad interrogazioni.33 Per il ripristino del Tribunale a Varallo, in “Corriere Valsesiano”, 14 marzo 1947.34 Assemblea costituente. Atti. Allegato alla CCXII seduta del 9 settembre 1947. Risposte

scritte ad interrogazioni.35 AURELIO LEPRE, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna,

Il Mulino, 2004 (1a ed. 1993), pp. 27-28.36 PIERO AIMO, Stato e poteri locali in Italia 1848-1995, Roma, Carocci, 1998 (1a ed. La

Nuova Italia Scientifica, 1997), p. 129.37 BRUNO ZIGLIOLI, Ipotesi per una sconfitta. Il fallimento dell’esperienza dei Cln valse-

siani, in “l’impegno”, a. XXIV, n. 2, dicembre 2004, pp. 104-106.

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Su un terreno di questo tipo Moscatelli e i comunisti non si potevano trovare a loroagio. Cino era cresciuto avendo come modello il partito leninista. La cultura comunista- tendenzialmente monoclassista e perciò speculare a quella interclassista cattolica -metteva al centro della propria riflessione e della propria azione il partito, strumento eavanguardia della classe operaia. Per Moscatelli il mandato costituente significava pri-ma di tutto lavorare per il Pci: i contatti con il territorio andavano tenuti non personal-mente, ma attraverso l’organizzazione del partito.

Si può immaginare con quanta fatica i dirigenti addestrati nelle scuole di partito diMosca e forgiati nella lotta partigiana, come Moscatelli, o Secchia, potessero adeguarsialla strategia togliattiana del partito nuovo38, che doveva essere potenzialmente capacedi raccogliere i voti delle classi medie e dei ceti intellettuali39. Ha argutamente notatoEnzo Barbano: «[Moscatelli] fu sempre accusato di aver politicizzato la Resistenza inValsesia, nel senso che avrebbe cercato di inquadrarla nella strategia comunista. [...].Penso che l’obiezione però abbia fatto il suo tempo. Mi sembra invece di dover conclu-dere che Moscatelli [...] non abbia curato particolarmente l’opera di proselitismo poli-tico in Valsesia. Se lo fece [...] fu ben lungi dal riuscirvi. La sua attività politica succes-siva lo vide, vicino a Secchia, battersi soprattutto per l’unità e la disciplina del suo par-tito»40. In effetti, almeno fino alla primavera del 1947, Moscatelli in Valsesia partecipòsoprattutto alle iniziative di partito, all’inaugurazione di sezioni o di bandiere, o alle com-memorazioni partigiane41. Poi si verificò un cambiamento.

Il Pci, in quel periodo, stava compiendo una riflessione sui risultati elettorali del 2giugno 1946 - giudicati insoddisfacenti - anche in vista delle prime elezioni politichedell’epoca repubblicana. A chi, come Secchia, riteneva che i risultati, soprattutto al Nord,fossero stati deludenti perché alla guerra di liberazione non avevano fatto seguito risultaticoncreti, creando malcontento nei partigiani, Togliatti rispose che durante la guerra cisi era posti «obbiettivi molto avanzati, che non potevano diventare dopo la liberazioneobbiettivi di tutto il popolo». Per esempio, nei centri industriali non si era capito che «lostrato avanzato degli operai è circondato da una massa di operai a fisionomia moderata,da un ceto medio legato alla produzione e al commercio, da professionisti e intellettuali»42.

Nel progetto togliattiano si trattava di consolidare la struttura del partito di massa,bisognava conquistare la gente, non solo gli operai, ma anche i ceti medi, gli intellettua-li, le donne, i contadini43. Il mondo garibaldino ottenne comunque una soddisfazione:

38 ALDO AGOSTI, Togliatti, Torino, Utet, 1996, pp. 312-313.39 RENZO MARTINELLI, Storia del Partito comunista italiano. Il “Partito nuovo” dalla

Liberazione al 18 aprile, Torino, Einaudi, 1995, p. 22; ALBERTINA VITTORIA, Storia del Pci1921-1991, Roma, Carocci, 2006, pp. 59-65; ROBERTO CHIARINI, Le origini dell’Italia repub-blicana (1943-1948), in GIOVANNI SABBATUCCI - VITTORIO VIDOTTO (a cura di), Storia d’Italia.La Repubblica, Roma-Bari, Laterza, vol. V, 1997, pp. 74-75.

40 E. BARBANO, art. cit.41 La cerimonia di Borgosesia per l’apoteosi degli eroi della Patria, in “Corriere Valse-

siano”, 27 dicembre 1946.42 M. MAFAI, op. cit., p. 45; R. MARTINELLI, op. cit., pp. 98-100; A. AGOSTI, op. cit., pp. 321-322.43 R. MARTINELLI, op. cit., pp. 101-102; DONALD SASSOON, La concezione del partito in

Togliatti, in A. AGOSTI (a cura di), Togliatti e la fondazione dello Stato democratico, Mila-no, Angeli, 1986, pp. 75-82.

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l’inserimento di Francesco Moranino e dello stesso Moscatelli nel terzo governo DeGasperi, il primo come sottosegretario alla Difesa, il secondo come sottosegretario allapresidenza del Consiglio con delega all’assistenza ai reduci e ai partigiani.

L’esperienza di governo di Moscatelli fu molto breve. Nel maggio 1947 si formò ilnuovo governo De Gasperi (il quarto), che pose fine all’esperienza dei governi di unitànazionale e al patto tripartito. Le sinistre ne furono escluse: i comunisti non entraronopiù a far parte di un esecutivo con ministri propri per tutto il tempo della cosiddettaPrima Repubblica. In ogni modo, la nuova linea togliattiana non venne sconfessata: oc-correva conquistarsi i consensi sul territorio, palmo a palmo, voto per voto44. Mosca-telli, da questo momento, si fece interprete di questa impostazione del partito sul terri-torio valsesiano e cominciò anch’egli a diventare un “deputato territoriale” in senso pie-no.

Così, nel maggio del 1947 Cino prese parte ai lavori del convegno sul turismo val-sesiano, organizzato dal Consiglio della valle. Prese la parola, dichiarando la sua precisavolontà di occuparsi direttamente dei problemi valsesiani. Fece rilevare di non esserestato invitato ai precedenti convegni e di non essere quindi in condizione di conoscerea fondo tutti i problemi già discussi e tutte le iniziative già prese, ma assicurò, da quelmomento in avanti, la sua attiva partecipazione e il suo costante interessamento. Di-chiarò infine che, non appena rientrato a Roma, avrebbe immediatamente chiesto udienzaal ministro dei Lavori pubblici per sottoporgli il problema della ricostruzione degli al-berghi e del riassetto stradale della zona45.

Passarono poche settimane e Cino indirizzò una lettera pubblica al presidente dellaPro Valsesia (una delle associazioni che componevano il Consiglio della valle) Ezio Grassi,nella quale diede conto di un suo incontro, insieme a Pastore e a Bertola, con il ministrodella Pubblica Istruzione sul problema della sistemazione giuridica del Collegio D’Ad-da. Nella stessa lettera segnalò anche il suo interessamento presso il ministro dei Lavoripubblici, annunciando di aver ottenuto nel complesso uno stanziamento straordinariodi venticinque milioni di lire per il riattamento e la ricostruzione di edifici scolastici e distrade a Varallo, a Borgosesia, a Rimella, a Fobello e a Rimasco46.

Il lavoro di rappresentanza degli interessi locali svolto da Moscatelli diventò semprepiù intenso: a giugno inviò una lettera all’assemblea dell’associazione dei proprietari dicasa valsesiani, nella quale sostenne che «le parti contrapposte [proprietari e locatori]hanno entrambe ragione da vendere» e che il problema della casa «non può essere ri-solto in modo unilaterale» ma solo tramite «una energica politica di ricostruzione edili-zia adeguatamente appoggiata dallo Stato»47.

In agosto prese parte all’inaugurazione della mostra dell’arte, dell’artigianato e del-

44 Togliatti disse che il partito avrebbe dovuto saper «organizzare la propria attività intutte le direzioni, cioè nella direzione di tutti gli strati sociali che esso vuol dirigere e in-fluenzare. Il problema è veramente nuovo, e nella storia del movimento operaio e anche nellastoria del bolscevismo, prima della conquista del potere, una soluzione bella e fatta non latroviamo. Dobbiamo elaborarla noi attraverso la nostra esperienza, e studiando le esperien-ze degli altri partiti». Cit. in R. MARTINELLI, op. cit., pp. 171-172. I corsivi sono miei.

45 Per il maggior sviluppo del turismo in Valsesia, in “Corriere Valsesiano”, 2 maggio 1947.46 Altri 25 milioni per la Valsesia, in “Corriere Valsesiano”, 23 maggio 1947.47 L’assemblea dei proprietari di casa, in “Corriere Valsesiano”, 13 giugno 1947.

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l’industria valsesiana, che si svolse a Borgosesia48. A settembre partecipò alla nuovariunione dell’assemblea del Consiglio della valle, dove venne discusso e adottato un nuovostatuto, che prevedeva un grande ampliamento dei soggetti e degli organismi chiamatia farne parte49. In ottobre, un’altra riunione di questo Consiglio ospitò il ministro delleFinanze Pella: Pastore e Moscatelli presero la parola, auspicando che il governo met-tesse in atto le provvidenze necessarie alle zone montane, le quali - disse Cino - «spet-tano di diritto [alla Valsesia], anche per l’importante ruolo assunto nella guerra di Libe-razione»50. In novembre, sempre insieme a Pastore, Moscatelli si fece portavoce del-l’istanza per la costruzione della strada lungo la sponda destra del Sesia51. Infine, nellostesso mese, entrò a far parte della giunta direttiva del Consiglio della valle, diventando-ne vicepresidente insieme al presidente riconfermato Pastore52.

Insomma, da quel momento Cino dedicò grande impegno alla politica locale e allarappresentanza delle istanze della valle, e tale attenzione avrebbe caratterizzato tutta lasua carriera politica successiva. Moscatelli non fu candidato alle elezioni politiche del1948: entrò al Senato come membro di diritto, in base alla terza disposizione transitoriadella nuova Costituzione repubblicana, che prevedeva questa possibilità per coloro i qualiavessero scontato almeno cinque anni di carcere in seguito a condanna del Tribunalespeciale fascista. Nel 1953 e nel 1958 venne invece candidato, ed eletto, alla Cameradei deputati. Al termine della terza legislatura, a causa di problemi di salute derivantidalla sua carcerazione in epoca fascista, lasciò la vita parlamentare, ma non si ritirò avita privata: tra l’altro, diventò in seguito consigliere comunale e capogruppo del Pci aBorgosesia, carica che ricoprì fino al 1975.

Fu sempre un attento osservatore dei movimenti e dei cambiamenti giovanili. Le sueantenne politicamente sensibili seppero captare immediatamente le potenzialità del movi-mento studentesco in Valsesia, alla fine degli anni sessanta. La sua abitazione borgosesia-na si trasformò in un luogo di riunione e di discussione con i giovani contestatori: fuuna vera scuola di politica che contribuì, tra l’altro, al rapido recupero verso il Pci diuna parte consistente di quel movimento in valle. Furono queste nuove leve di militanticomunisti e socialisti, non più la “vecchia guardia” partigiana e operaia, il perno dellenuove amministrazioni di sinistra che si insediarono in Valsesia alla metà degli anni set-tanta53.

48 Mostra Valsesiana industriale-artigiana-artistica. L’inaugurazione, in “Corriere Val-sesiano”, 8 agosto 1947.

49 Consiglio della Valle. Il nuovo statuto, in “Corriere Valsesiano”, 5 settembre 1947; IlConsiglio della Valle approva il nuovo statuto, in “Corriere Valsesiano”, 26 settembre 1947.

50 Consiglio della Valle. L’Assemblea di popolo è stata presenziata dal ministro Pella,in “Corriere Valsesiano”, 17 ottobre 1947.

51 Per la difesa degli interessi dei comuni della destra del Sesia, in “Corriere Valsesia-no”, 14 novembre 1947; La pratica per la strada della destra del Sesia trasmessa al capodel Governo, in “Corriere Valsesiano”, 21 novembre 1947.

52 Il Consiglio della Valle ha varato il programma dell’Estate Valsesiana 1948. La nuovagiunta direttiva, in “Corriere Valsesiano”, 28 novembre 1947.

53 ALESSANDRO ORSI, Il nostro Sessantotto. 1968-1973. I movimenti giovanili studenteschie operai in Valsesia e Valsessera, Varallo, Isrsc Bi-Vc, 2008 (1a ed. 1990), pp. 31-38; GIANLUI-GI TESTA, Moscatelli, uomo politico valsesiano, in Ricordo di Cino Moscatelli, cit., pp. 17-32. Sul fascino che la figura di Moscatelli ha esercitato sulla generazione del Sessantotto v.anche F. COLOMBARA, art. cit., p. 60.

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Moscatelli morì a Borgosesia il 31 ottobre 1981. Ai suoi funerali partecipò, insiemea moltissimi esponenti del mondo politico e ai più alti dirigenti del Pci, il presidente dellaRepubblica Sandro Pertini, che agli inizi di quello stesso mese si era recato privatamen-te al suo capezzale.

In conclusione, è il caso di ricordare che si deve all’impegno di Cino la creazionedell’Istituto per la storia della Resistenza che porta il suo nome. Conserva un profondosignificato memoriale il fatto che l’Istituto abbia preso sede non nel capoluogo di pro-vincia, come accade per quasi tutti gli istituti della rete dell’Istituto nazionale per la sto-ria del movimento di liberazione in Italia, ma in Valsesia, dove lui, insieme ai suoi parti-giani, aveva combattuto.

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Appendice

a cura di Enrico Pagano

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Nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli si presentarono dieci liste: la Democra-zia cristiana (Dc), il Partito socialista (Psiup), il Partito comunista (Pci), l’Unione de-mocratica nazionale (Udn), il Fronte dell’uomo qualunque (Uq), il Partito repubblicano(Pri), il Blocco nazionale della libertà (Bnl), il Partito d’Azione (Pda), il Partito dei con-tadini d’Italia (Pdc), la Concentrazione democratica repubblicana (Cdr). Per effetto delvoto raggiunsero i quozienti per l’elezione dei 25 deputati assegnati alla circoscrizione,quattro liste: la Dc e il Psiup si aggiudicarono 9 seggi, il Pci 6, l’Udn 1; gli altri voticonfluirono nel conteggio dei resti su base nazionale. Nell’ambito della circoscrizionegli elettori della provincia di Vercelli, considerata nei suoi confini originari, costituivanoil 17,7 dell’insieme, percentuale che sale al 18,19 se calcolata sui votanti, in conse-guenza dell’affluenza alle urne più elevata di due punti e mezzo (93,62 per cento contro91,12 per cento).

Aldilà delle risultanze elettorali, ampiamente prevedibili e previste, il dato più ecla-tante del primo appuntamento con il voto politico fu l’altissima affluenza. Concorseroa determinarla in queste dimensioni due motivazioni contrastanti: l’obbligatorietà del voto,stabilita dalla legge elettorale, e lo spirito collettivo che individuò nell’espressione deldiritto di voto, finalmente a suffragio universale anche femminile1, l’opportunità di ren-dere concreta la partecipazione alla ricostruzione del Paese dopo l’esperienza bellica.Individuare quale sia stata la motivazione prevalente è un esercizio il cui svolgimentolascerà sempre divise le opinioni, tuttavia non ci si può esimere da alcune considerazio-ni obiettive. La legge elettorale per lo svolgimento delle elezioni per l’Assemblea costi-tuente, impostata sul sistema proporzionale, fu introdotta con il decreto legislativo luo-gotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946, al termine di una concitata fase dibattimentale inseno alla commissione preposta nominata dalla Consulta nazionale, nell’ambito dellaConsulta stessa e del governo su vari temi, tra cui la questione del voto obbligatorioche occupò a lungo i lavori dei vari organi prima di trovare una formulazione che co-stituì un modello di compromesso ragionevole.

A favore dell’obbligatorietà del voto si espressero partiti e movimenti di centro e didestra, quali la Dc, i liberali e, sebbene non rappresentati nella Consulta, i qualunquisti2,

Il voto per l’Assemblea costituente nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia

1 Contrariamente a quanto capita talvolta di leggere, la prima occasione in cui fu eserci-tato il voto a suffragio universale maschile e femminile furono le elezioni amministrative chesi svolsero nella primavera del ’46; le elezioni politiche e il referendum del 2 giugno ’46 ave-vano dunque già avuto una prova generale durante la quale si registrò comunque un’altis-sima affluenza alle urne.

2 L’assenza di rappresentanti del movimento fondato da Giannini è dovuta al fatto chedella Consulta fecero parte i rappresentanti dei partiti che avevano costituito i Cln, oltre adesponenti di sindacati, associazioni di reduci, rappresentanti del mondo culturale, delle libe-re professioni, delle aziende ed ex parlamentari antifascisti. La Consulta fu attiva dal 25 set-tembre 1945 e fu sciolta con le elezioni del 2 giugno 1946, pur essendosi riunita per l’ultimaseduta plenaria il 9 marzo 1946.

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sostenendo la necessità di combattere l’astensionismo che storicamente aveva caratte-rizzato le consultazioni elettorali prefasciste per garantire la più ampia partecipazione eavvalorare di conseguenza l’esito della consultazione rafforzandone il significato de-mocratico. A sinistra socialisti, comunisti e azionisti consideravano il libero eserciziodel diritto di voto come un’occasione per conoscere la reale situazione dello spiritonazionale e rifiutavano l’applicazione di criteri meccanici coercitivi come strumento perla costruzione della democrazia, individuando come rimedio di medio-lunga scadenzaall’astensionismo storico l’impegno per l’educazione della coscienza politica delle massepopolari e sostenendo l’ineluttabilità di sottoporsi al rischio di un’affluenza non moltoalta all’inizio del processo democratico.

Una lettura strumentale delle diverse posizioni porta ad individuare come elementodiscriminante della discussione l’universalmente riconosciuta superiore capacità di mo-bilitazione popolare che avevano i partiti della sinistra: l’obbligo di andare a votare ap-pariva un rimedio ad una situazione di partenza che vedeva potenzialmente in svantag-gio i partiti di opinione o che, come la Dc, si rivolgevano ad un elettorato più indistintosul piano socioeconomico e meno mobilitabile rispetto a quello delle sinistre, che per leragioni opposte avversavano l’obbligatorietà. Nel dibattito alcuni esponenti del Pci ten-tarono di introdurre altre innovazioni, senza esito, come l’ampliamento del diritto attivodi voto ai diciottenni, provvedimento che avrebbe consentito di votare a gran parte delmondo partigiano delle classi 1925 e 1926, e l’abbassamento del diritto passivo da 25a 21 anni3; altro argomento caldo fu la discussione delle sanzioni nei confronti dei mi-nistri di culto che avessero fatto propaganda politica.

La legge elettorale per l’Assemblea costituente fu il risultato di un serrato confrontoin cui emersero in tutta evidenza tattiche e strategie di convenienza di parte, in un climatuttavia di apertura alla conciliazione e alla ricerca della soluzione equilibrata. È da in-tendersi in questo senso la scelta sulle sanzioni da applicare a chi non avrebbe adem-piuto all’obbligo del voto, che si ridussero ad un livello solo morale, nel senso che perchi non si recò alle urne senza giustificato motivo le conseguenze furono l’inclusionein un elenco esposto per un mese presso gli albi pretori comunali e la menzione percinque anni sul certificato di buona condotta della formula “non ha votato per l’elezio-ne dell’Assemblea costituente”. Molto meno rispetto all’esclusione dalla partecipazioneai concorsi pubblici profilatasi in un primo tempo come sanzione punitiva proposta dailiberali.

Come valutare allora lo straordinario dato relativo all’affluenza, che nella nostraprovincia risultò superiore di più di cinque punti percentuali rispetto al dato nazionale,attestato all’89,08 per cento? Gli elettori che si recarono alle urne in massa furono ani-mati da libero spirito democratico o desideravano molto più semplicemente evitare lagogna dell’albo pretorio? Difficile trovare una risposta esaustiva di tutte le possibili di-stinzioni, però è importante evidenziare che chi si recò alle urne lo fece esprimendo,oltre alla scelta obbligata della partecipazione, anche la scelta libera del voto ad una delle

3 Le proposte di anticipare a 18 anni l’età per l’esercizio del diritto di voto e il limite d’etàper l’eleggibilità furono avanzate dai consultori Spallone e Pajetta, ma non furono in realtàmai dibattute, poiché gli stessi presentatori preferirono ritirarle di fronte all’obiezione che ladiscussione avrebbe ritardato irreparabilmente l’approvazione della legge elettorale causandoil rinvio della consultazione.

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liste in lizza: la percentuale delle schede bianche sui votanti fu del 2,13 a fronte del 2,10della circoscrizione e del 2,57 nazionale; il computo relativo dei voti non validi, schedebianche comprese, sale al 4,96 per cento, inferiore sia al livello circoscrizionale del 5,16per cento, sia al livello nazionale del 7,93 per cento. Insomma, chi andò a votare nonassolse soltanto ad un dovere, ma esercitò consapevolmente il proprio diritto di elettore.

L’analisi più particolare dell’affluenza territoriale consente di verificare che nell’in-sieme dei 163 comuni della provincia il dato più basso si registrò a Sabbia, dove andòa votare il 70,72 per cento dell’elettorato; altri cinque comuni, di cui quattro collocatiterritorialmente in alta Valsesia, fecero registrare un’affluenza inferiore all’80 per cento;in altri 30 comuni l’affluenza si attestò fra l’80 e il 90 per cento; la gran parte dell’insie-me, 113 comuni, presenta percentuali di affluenza tra il 90 e il 97 per cento; 10 comunisono oltre il 97 per cento e 3 addirittura oltre il 98 per cento (Collobiano, Crova e Mottade’ Conti, comune primatista di affluenza con la stratosferica percentuale del 98,78:solo 15 dei 1.229 iscritti alle liste elettorali restò a casa).

L’incrocio dei dati relativi all’affluenza e ai voti non validi evidenzia un rapporto in-versamente proporzionale: la presenza di voti non validi tende ad essere più significati-va nei comuni a minore affluenza, affievolendosi nei comuni a più alta partecipazione alvoto. Raggruppando gli insiemi infatti osserviamo che, laddove l’astensionismo si col-loca fra il 21 e il 30 per cento dell’elettorato, la media delle schede bianche o nulle siattesta al 12,38 per cento; nella fascia successiva di astensionismo, fra l’11 e il 20 percento, i voti non validi diminuiscono all’8,38 per cento; nella fascia compresa fra il 10e il 3 per cento di astensionismo l’incidenza scende al 4,72 per cento e sotto il 3 percento di astensionismo arriva al 3,54 per cento. I dati sembrano indicare che gli elettorisi recarono alle urne con le idee piuttosto chiare sulle liste cui attribuire i consensi e,nonostante la desuetudine all’esercizio del diritto di voto, fu relativamente bassa l’inci-denza degli errori, considerando che coloro che votarono scheda bianca, ammesso cheavessero optato in questo senso per incertezza politica, a livello provinciale furono sol-tanto il 43 per cento dell’insieme che non espresse voti validi, che a sua volta costitui-sce il 2,13 per cento del corpo elettorale. Ovunque si votò in massa, con qualche dif-ferenze nelle percentuali di affluenza ma in un quadro che consente di giudicare asso-lutamente rappresentativo l’esito della consultazione; al di sotto del 90 per cento di af-fluenza si collocano soltanto i dati relativi all’insieme dei comuni il cui corpo elettoraleè inferiore a 500 cittadini (89,61 per cento) e ai comuni dell’alta Valsesia (87,27 percento), mentre il primato di affluenza riguarda l’area delle Grange (95,66 per cento) ein generale i comuni della pianura (95,59 per cento). In conclusione, i timori di alcuneforze politiche che alla vigilia paventavano un forte astensionismo si rivelarono infon-dati, così come gli auspici di altre forze politiche, che giudicavano necessario il liberoafflusso alle urne per avere il quadro esatto del livello di educazione politica del popolo,furono superati dalla manifestazione di fermo orientamento elettorale che privilegiòdecisamente i partiti di massa, cui in ambito provinciale andarono consensi complessi-vamente superiori al 90 per cento.

L’analisi sugli insiemi territoriali4 conferma il dato con sfumate differenze: nel Biel-

4 Per condurre l’analisi sono stati individuati alcuni sottoinsiemi, comprendenti i comuniesistenti nel 1946 con la denominazione dell’epoca, che di seguito riportiamo.

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lese la somma dei consensi dei tre principali partiti raggiunse il 91,16 per cento, nelVercellese si attestò all’89,85 per cento e in Valsesia all’87,28 per cento. La tendenza èampiamente confermata dalla suddivisione per zone altimetriche: nei comuni di monta-gna Dc, Psiup e Pci si accaparrarono il 90,1 per cento dei voti, in quelli di collina l’89,38per cento, in quelli di pianura il 90,91 per cento. Anche la suddivisione per dimensionedei comuni conferma il dato: le somme di voti relativamente inferiori si registrarono neicomuni fino a 500 elettori (87,05 per cento) e nei capoluoghi (87,75 per cento); neicentri a popolazione elettorale superiore a 5.000 si colloca la somma percentuale più

Biellese: Ailoche, Andorno Micca, Benna, Biella, Bioglio, Borriana, Brusnengo, Callabia-na, Camandona, Camburzano, Campiglia Cervo, Candelo, Caprile, Casapinta, Castelletto Cer-vo, Cavaglià, Cerreto Castello, Cerrione, Coggiola, Cossato, Crevacuore, Crosa, Curino, Do-nato, Dorzano, Gaglianico, Gifflenga, Graglia, Guardabosone, Lessona, Magnano, Massaz-za, Masserano, Mezzana Mortigliengo, Mongrando, Mosso Santa Maria, Mottalciata, Muzza-no, Netro, Occhieppo Inferiore, Occhieppo Superiore, Pettinengo, Piatto, Piedicavallo, Pisto-lesa, Pollone, Ponderano, Portula, Postua, Pralungo, Pray, Quaregna, Quittengo, Ronco Biel-lese, Roppolo, Rosazza, Sala Biellese, Salussola, Sandigliano, San Paolo Cervo, Selve Marco-ne, Soprana, Sordevolo, Sostegno, Strona, Ternengo, Tollegno, Torrazzo, Trivero, Valdengo,Vallanzengo, Valle Mosso, Valle San Nicolao, Veglio, Verrone, Vigliano Biellese, VillanovaBiellese, Viverone, Zimone, Zubiena, Zumaglia.

Vercellese: Albano Vercellese, Alice Castello, Arborio, Asigliano Vercellese, Balocco, Bian-zè, Borgo D’Ale, Borgovercelli, Buronzo, Caresana, Caresanablot, Carisio, Casanova Elvo,Cascine San Giacomo (oggi San Giacomo Vercellese), Cigliano, Collobiano, Costanzana,Crescentino, Crova, Desana, Fontanetto Po, Formigliana, Gattinara, Ghislarengo, Greggio,Lamporo, Lenta, Lignana, Livorno Ferraris, Lozzolo, Moncrivello, Motta de’ Conti, Olcenen-go, Oldenico, Palazzolo Vercellese, Pertengo, Pezzana, Prarolo, Quinto Vercellese, Rive, Roa-sio, Ronsecco, Rovasenda, Salasco, Sali Vercellese, Saluggia, San Germano Vercellese, San-thià, Stroppiana, Tricerro, Trino, Tronzano Vercellese, Vercelli, Villarboit, Villata.

Valsesia: Alagna, Balmuccia, Boccioleto, Borgosesia, Breia, Campertogno, Carcoforo,Cellio, Cervatto, Cravagliana, Fobello, Mollia, Pila, Piode, Quarona, Rassa, Rima San Giusep-pe, Rimasco, Rimella, Riva Valdobbia, Rossa, Sabbia, Scopa, Scopello, Serravalle Sesia, Val-duggia, Varallo.

Montagna (suddivisioni riferite al censimento Istat 2001, come per le successive voci“collina” e “pianura”): Ailoche, Alagna, Andorno Micca, Balmuccia, Boccioleto, Borgose-sia, Breia, Callabiana, Camandona, Campertogno, Campiglia Cervo, Caprile, Carcoforo, Cellio,Cervatto, Coggiola, Cravagliana, Crevacuore, Donato, Fobello, Graglia, Guardabosone, Mollia,Mosso (Mosso Santa Maria + Pistolesa), Muzzano, Netro, Occhieppo Superiore, Piatto, Pie-dicavallo, Pila, Piode, Pollone, Portula, Postua, Pralungo, Pray, Quarona, Quittengo, Rassa,Rima San Giuseppe, Rimasco, Rimella, Riva Valdobbia, Rosazza, Rossa, Sabbia, San PaoloCervo, Scopa, Scopello, Sordevolo, Tollegno, Trivero, Valduggia, Valle Mosso, Varallo, Veglio.

Collina: Alice Castello, Biella, Bioglio, Borgo D’Ale, Brusnengo, Camburzano, Casapinta,Castelletto Cervo, Cavaglià, Cerreto Castello, Cerrione, Cossato, Crosa, Curino, Dorzano,Gattinara, Lessona, Lozzolo, Magnano, Masserano, Mezzana Mortigliengo, Mongrando,Mottalciata, Occhieppo Inferiore, Pettinengo, Quaregna, Roasio, Ronco Biellese, Roppolo,Sala Biellese, Selve Marcone, Serravalle Sesia, Soprana, Sostegno, Strona, Ternengo, Torraz-zo, Valdengo, Vallanzengo, Valle San Nicolao, Vigliano Biellese, Viverone, Zimone, Zubiena,Zumaglia.

Pianura: Albano Vercellese, Arborio, Asigliano Vercellese, Balocco, Benna, Bianzè, Borgo-vercelli, Borriana, Buronzo, Candelo, Caresana, Caresanablot, Carisio, Casanova Elvo, CascineSan Giacomo, Cigliano, Collobiano, Costanzana, Crescentino, Crova, Desana, FontanettoPo, Formigliana, Gaglianico, Ghislarengo, Gifflenga, Greggio, Lamporo, Lenta, Lignana, Li-

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alta (91,95 per cento). Infine, nei comuni dove la vocazione socioeconomica risultavapiù omogenea, le somme percentuali dei partiti di massa superarono abbondantementela media provinciale, raggiungendo il 92,16 per cento nei comuni a vocazione agricola,il 93,67 per cento in quelli a vocazione industriale.

La destra proponeva tre liste diversamente articolate e schierate riguardo alla sceltareferendaria. Il Blocco nazionale della libertà era una coalizione elettorale di orientamentomonarchico e di ispirazione conservatrice formata dai gruppi denominati Concentra-zione nazionale democratica liberale e Centro democratico, oltre che dal Partito demo-

vorno Ferraris, Massazza, Moncrivello, Motta de’ Conti, Olcenengo, Oldenico, PalazzoloVercellese, Pertengo, Pezzana, Ponderano, Prarolo, Quinto Vercellese, Rive, Ronsecco, Ro-vasenda, San Germano Vercellese, Salasco, Sali Vercellese, Saluggia, Salussola, Sandiglia-no, Santhià, Stroppiana, Tricerro, Trino, Tronzano Vercellese, Vercelli, Verrone, VillanovaBiellese, Villarboit, Villata.

Comuni fino a 500 elettori: Ailoche, Alagna, Balmuccia, Boccioleto, Breia, Callabiana,Campertogno, Caprile, Carcoforo, Caresanablot, Cerreto Castello, Cervatto, Collobiano, Crosa,Dorzano, Fobello, Formigliana, Gifflenga, Guardabosone, Massazza, Mollia, Oldenico, Piatto,Pila, Piode, Pistolesa, Postua, Quaregna, Rassa, Rima San Giuseppe, Rimasco, Rimella, RivaValdobbia, Rosazza, Rossa, San Paolo Cervo, Sabbia, Salasco, Sali Vercellese, Scopa, Sco-pello, Selve Marcone, Ternengo, Torrazzo, Vallanzengo, Verrone, Villanova Biellese, Zimone.

Comuni da 501 a 1.000 elettori: Albano Vercellese, Balocco, Benna, Borriana, Camandona,Camburzano, Campiglia Cervo, Casanova Elvo, Casapinta, Cascine San Giacomo, CastellettoCervo, Cravagliana, Crova, Curino, Donato, Ghislarengo, Greggio, Lamporo, Lenta, Lozzolo,Magnano, Muzzano, Pertengo, Piedicavallo, Prarolo, Quinto Vercellese, Quittengo, Rive, Rop-polo, Rovasenda, Sala Biellese, Soprana, Sostegno, Valdengo, Veglio, Villarboit, Zumaglia.

Comuni da 1.001 a 2.000 elettori: Alice Castello, Arborio, Bioglio, Borgovercelli, Brusnen-go, Buronzo, Caresana, Carisio, Cellio, Cerrione, Costanzana, Crevacuore, Desana, Fonta-netto Po, Gaglianico, Graglia, Lessona, Lignana, Mezzana Mortigliengo, Moncrivello, Mos-so Santa Maria, Motta de’ Conti, Mottalciata, Netro, Occhieppo Superiore, Olcenengo, Pa-lazzolo Vercellese, Pettinengo, Pezzana, Pollone, Ponderano, Portula, Quarona, Ronco Biel-lese, Ronsecco, Salussola, Sandigliano, Sordevolo, Strona, Stroppiana, Tricerro, Valduggia,Valle San Nicolao, Villata, Viverone, Zubiena.

Comuni da 2.001 a 5.000 elettori: Asigliano Vercellese, Bianzè, Borgo D’Ale, Candelo,Cavaglià, Cigliano, Coggiola, Crescentino, Gattinara, Livorno Ferraris, Masserano, Mongran-do, Occhieppo Inferiore, Pralungo, Pray, Roasio, San Germano Vercellese, Saluggia, Serra-valle Sesia, Tollegno, Tronzano Vercellese, Valle Mosso, Vigliano Biellese.

Comuni oltre i 5.000 elettori: Andorno Micca, Borgosesia, Cossato, Santhià, Trino, Trivero,Varallo.

Capoluoghi: Biella, Vercelli.Comuni con percentuale di addetti all’agricoltura superiore al 70% (censimento 1951):

Albano Vercellese, Alice Castello, Arborio, Asigliano Vercellese, Balocco, Bianzè, BorgoD’Ale, Carcoforo, Caresana, Caresanablot, Carisio, Casanova Elvo, Cascine San Giacomo,Collobiano, Costanzana, Crova, Desana, Dorzano, Fontanetto Po, Formigliana, Gifflenga,Greggio, Lamporo, Lignana, Magnano, Moncrivello, Motta de’ Conti, Olcenengo, Oldenico,Palazzolo Vercellese, Pertengo, Pezzana, Prarolo, Quinto Vercellese, Rassa, Rima San Giu-seppe, Rimasco, Riva Valdobbia, Rive, Ronsecco, Rovasenda, Salasco, Sali Vercellese, Strop-piana, Tricerro, Villanova Biellese, Villarboit, Villata, Zimone.

Comuni con percentuale di addetti all’industria superiore al 70% (censimento 1951):Andorno Micca, Borgosesia, Callabiana, Camandona, Candelo, Casapinta, Coggiola, Cos-sato, Crevacuore, Crosa, Gaglianico, Guardabosone, Lessona, Mezzana Mortigliengo, Mon-grando, Mosso Santa Maria, Occhieppo Inferiore, Occhieppo Superiore, Pettinengo, Piatto,

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cratico italiano, ed appoggiata dall’Unione monarchica; ad esso faceva riferimento unpersonale politico legato alla dinastia sabauda da vincoli di tradizione nobiliare e milita-re. Il Fronte dell’uomo qualunque era una formazione politica intorno a cui si eranoaggregati molti ex fascisti, sebbene la proposta qualunquista fosse agli antipodi dell’ideadi Stato incarnata dal regime mussoliniano, che aspirava a raccogliere consensi soprat-tutto fra chi era scontento degli esiti del conflitto, chi si opponeva al sistema dei partitie chi temeva provvedimenti di epurazione. Infine l’Unione democratica nazionale era ilrisultato dell’accordo elettorale del Partito liberale e di Democrazia del lavoro, più altrigruppi minori, ma soprattutto veniva identificata come la coalizione dei quattro “grandi”della politica prefascista italiana: Benedetto Croce, presidente del Partito liberale, Iva-noe Bonomi, leader del gruppo Democrazia del lavoro di ispirazione democratico-pro-gressista, Francesco Saverio Nitti a capo dell’Unione nittiana per la ricostruzione e VittorioEmanuele Orlando, divisi in linea di principio sulla questione istituzionale (liberali e nittia-ni erano favorevoli alla monarchia, i demolaburisti si erano espressi per la repubblica),ma rappresentativi di interessi e valori conservatori, a difesa della libertà contro i tota-litarismi di destra e di sinistra e contrari all’ingerenza della Chiesa nella vita pubblica.

Pistolesa, Ponderano, Portula, Pralungo, Pray, Quarona, Quittengo, Ronco Biellese, San PaoloCervo, Selve Marcone, Serravalle Sesia, Soprana, Strona, Ternengo, Tollegno, Trivero, Val-lanzengo, Valle Mosso, Valle San Nicolao, Veglio, Vigliano Biellese, Zumaglia.

Regioni altimetriche (censimento 1936):Altopiano biellese: Benna, Borriana, Candelo, Gaglianico, Massazza, Ponderano, Sandi-

gliano, Verrone.Baraggia vercellese: Albano Vercellese, Arborio, Balocco, Buronzo, Carisio, Casanova

Elvo, Cascine San Giacomo, Collobiano, Formigliana, Ghislarengo, Gifflenga, Greggio, Len-ta, Oldenico, Rovasenda, Villanova Biellese, Villarboit.

Collina morenica: Alice Castello, Borgo D’Ale, Cavaglià, Cerrione, Cigliano, Dorzano,Magnano, Moncrivello, Roppolo, Salussola, Viverone, Zimone, Zubiena.

Collina prealpina: Brusnengo, Castelletto Cervo, Curino, Gattinara, Lozzolo, Masserano,Mottalciata, Roasio, Sostegno.

Grange: Asigliano Vercellese, Bianzè, Borgovercelli, Caresana, Caresanablot, Costanza-na, Crescentino, Crova, Desana, Fontanetto Po, Lamporo, Lignana, Livorno Ferraris, Mottade’ Conti, Olcenengo, Palazzolo Vercellese, Pertengo, Pezzana, Prarolo, Quinto Vercellese,Rive, Ronsecco, San Germano Vercellese, Salasco, Sali Vercellese, Saluggia, Santhià, Strop-piana, Tricerro, Trino, Tronzano Vercellese, Villata.

Prealpi biellesi: Casapinta, Cerreto Castello, Cossato, Crosa, Lessona, Mezzana Morti-gliengo, Piatto, Quaregna, Strona, Valdengo, Vigliano Biellese.

Valle Cervo: Andorno Micca, Campiglia Cervo, Piedicavallo, Pralungo, Quittengo, Ron-co Biellese, Rosazza, San Paolo Cervo, Ternengo, Tollegno, Zumaglia.

Valle Elvo: Camburzano, Donato, Graglia, Mongrando, Muzzano, Netro, Occhieppo Infe-riore, Occhieppo Superiore, Pollone, Sala Biellese, Sordevolo, Torrazzo.

Valle Mosso: Bioglio, Callabiana, Camandona, Mosso Santa Maria, Pettinengo, Pistole-sa, Selve Marcone, Vallanzengo, Valle Mosso, Valle San Nicolao, Veglio.

Valsesia superiore: Alagna, Balmuccia, Boccioleto, Campertogno, Carcoforo, Cervatto,Cravagliana, Fobello, Mollia, Pila, Piode, Rassa, Rima San Giuseppe, Rimasco, Rimella, RivaValdobbia, Rossa, Sabbia, Scopa, Scopello, Varallo.

Valsesia inferiore: Borgosesia, Breia, Cellio, Quarona, Serravalle Sesia, Valduggia.Valsessera: Ailoche, Caprile, Coggiola, Crevacuore, Guardabosone, Portula, Postua, Pray,

Soprana, Trivero.

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Al centro, con un programma di mediazione e conciliazione ispirato a valori religiosie guidato da un leader riconosciuto per equilibrio, statura morale ed intellettuale comeAlcide De Gasperi, la Democrazia cristiana si ergeva come antagonista del comunismocui contrapponeva il solidarismo spiritualista cristiano, con ambizioni di leadership nel-la ricostruzione nazionale; a proposito della questione referendaria il partito aveva scel-to la repubblica, ma in conseguenza di un referendum interno a bassa partecipazione:l’elettorato democristiano non iscritto al partito propendeva in maggioranza per la con-servazione e la monarchia.

Oltre ai due partiti di massa, il Psiup e il Pci, si collocavano a sinistra il Partito d’azione,la Concentrazione democratica repubblicana, il Partito repubblicano. Quest’ultimo sipresentava come l’erede della tradizione mazziniana, con un forte radicamento nei ter-ritori già appartenuti allo Stato pontificio e in Toscana, ma con uno scarso appeal inPiemonte. Gli azionisti si dividevano invece in due tronconi, effetto dello scontro insa-nabile avvenuto in seno al congresso del partito nel febbraio 1946 fra la tendenza socia-lista, guidata da Emilio Lussu, e quella radical-democratica, guidata da Ugo La Malfa,che alla fine abbandonò il partito dando vita alla Cdr, con l’appoggio di Ferruccio Parri;per entrambe le liste il risultato elettorale fu scarso.

Il Psiup, pur senza rompere il patto d’unità d’azione con il Pci, si presentava conuna forte rivendicazione di autonomia e con prospettive di ritagliarsi un ruolo di media-zione nel dialogo fra democristiani e comunisti, candidando il proprio leader Pietro Nenniad assumere la responsabilità del potere, in altre parole a diventare presidente del Con-siglio. Il Partito comunista accentuò le tendenze moderate nel proprio programma, ope-razione che veniva giudicata dagli avversari come prodotto di un’astuzia tattica contin-gente; tuttavia osservatori non di parte come Enrico Mattei riconoscevano che l’obiet-tivo immediato del partito non era «la repubblica comunista o socialista, ma la repubbli-ca democratica»5 .

L’insieme delle liste fu completato dal Partito dei contadini d’Italia, una formazioneattiva già in epoca prefascista con la finalità propagandistica di «dare ai Rurali una co-scienza politica ed agli Italiani una coscienza rurale»; riorganizzatosi nel dopoguerradopo lo scioglimento del 1926, si presentava con forte connotazione regionale e di in-dipendenza dagli schieramenti politici, posizioni che diedero origine a rivalità e incom-prensioni con i partiti di massa: il Pci rimproverava al Pdc di impedire l’unificazione delmondo operaio e contadino in una lotta comune, la Dc vedeva in esso un ostacolo alproprio radicamento elettorale nelle campagne.

L’elettorato che scelse liste al di fuori di quelle dei partiti di massa fu quantitativa-mente molto ridotto e concentrato sulle altre formazioni di destra, soprattutto sull’Udn,che raccolse risultati superiori alla media nazionale in Valsesia (7,56 per cento), risul-tando il primo partito ad Alagna con il 48,09 per cento dei consensi, e nei comuni conpopolazione elettorale inferiore a 500 (7,86 per cento). Ebbe un discreto successo elet-torale se confrontato con gli esiti nazionali anche il Partito dei contadini, che nel Vercel-lese ottenne il 2,34 per cento dei suffragi rispetto allo 0,45 per cento nazionale, conrisultati percentualmente molto significativi, oltre l’11 per cento, a Ghislarengo, Rop-

5 ENRICO MATTEI, Calcolo delle probabilità alla vigilia della grande giornata, in “Gaz-zetta d’Italia”, 1 giugno 1946.

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polo, Cavaglià, Alice Castello e Moncrivello, centri in gran parte raccolti nella collinamorenica, dove complessivamente alla lista di Scotti toccò il 6,58 per cento dei con-sensi. Minore impatto politico ebbero invece i qualunquisti di Giannini, che superaronola media nazionale soltanto a Rosazza, Piatto, Campiglia Cervo e Piedicavallo, doveottennero la percentuale del 16,05 e furono il terzo partito dietro Dc e Psiup: un suc-cesso molto localizzato e comunque non di dimensioni tali da alterare il risultato mode-sto nell’area della valle Cervo, dove riportarono l’1,99 per cento dei voti. Il Blocconazionale della libertà ottenne risultati inferiori alla media nazionale in tutti i comuni, adeccezione di Caprile, Alice Castello, Caresanablot, Rimasco e Roppolo, dove i risultatisi contennero nella fascia fra il 2,95 e il 4,43 per cento. Il Pda ebbe risultati superiorialla media nazionale, con oscillazioni peraltro molto contenute, in 32 comuni distribuitinon uniformemente sul territorio: il risultato più significativo e decisamente differen-ziato fu riportato a Riva Valdobbia con il 9,13 per cento. L’ala scissionista che si espressenella Cdr conquistò un risultato superiore alla media nazionale in 70 comuni, in 21 deiquali soltanto riuscì a superare la soglia dell’1 per cento; la formazione di Parri e LaMalfa ottenne il risultato più favorevole a Piode, con il 2,61 per cento. Sorte ancora piùnegativa per il Pri, che superò la barriera dell’1 per cento in 9 comuni e raggiunse ilrisultato più favorevole a San Paolo Cervo con l’1,57 per cento.

L’elettorato liquidò piuttosto bruscamente i partiti minori, riconoscendosi in misurarelativamente apprezzabile soltanto nella tradizione liberale; la scelta si restrinse ai par-titi che rappresentavano la tradizione cattolica o socialista e quella di segno comunista,rafforzata dalla recente esperienza resistenziale politicamente egemonizzata nel territo-rio provinciale: i partiti di massa.

L’analisi dei risultati della Dc, primo partito in provincia con percentuale di voti in-feriore di 2,04 punti rispetto al resto della circoscrizione e di 3,69 punti rispetto al datonazionale, rivela un andamento piuttosto omogeneo, con scarti ridotti fra i risultati dellamontagna, della collina e della pianura, benché soltanto in quest’ultima regione man-tenga il primato di voti e con leggero margine sul Pci. Analizzando il dato per dimensio-ni dei comuni si conferma la regolarità del voto democristiano che non scende mai al disotto della soglia del 29 per cento; soltanto nei comuni ad alto tasso di elettori impiegatinell’industria il risultato democristiano cala al 25,15 per cento. Un esame più particola-re delle varie aree territoriali rivela invece un andamento più contraddittorio: la Dc con-quista il primato di voti nel Vercellese e in Valsesia, ma è largamente al di sotto del datoprovinciale nei comuni dell’altopiano biellese, nelle valli Cervo, Mosso e Sessera e nellePrealpi biellesi, riportando complessivamente nell’area una percentuali di voti inferioredi più del 4 per cento rispetto al risultato provinciale e classificandosi al terzo postodistanziata di quasi 8 punti dal Psiup e di 1,5 punti dal Pci. La Dc è il partito di maggio-ranza relativa nella Baraggia vercellese, nella collina morenica, nella collina prealpina e,con il massimo risultato, in alta Valsesia, unico territorio dove si registra, sommando ivoti democristiani e liberali, una maggioranza assoluta di centrodestra pari a quasi il 60per cento dei suffragi. La Dc conquista la maggioranza assoluta in 12 comuni, rag-giungendo il massimo risultato a Cervatto con il 70,33 per cento, e quella relativa in 49comuni; il risultato più scarso lo riporta a Sala Biellese con il 5,63 per cento.

Più altalenante il risultato dei due partiti principali della sinistra. Entrambi a livelloprovinciale superano il dato nazionale di più di 9 punti percentuali; il Psiup è il partito dimaggioranza relativa nel Biellese, dove il Pci si classifica secondo; nel Vercellese e in

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Valsesia l’andamento è inversamente proporzionale: il Psiup supera nei consensi di cir-ca 17 punti il Pci in Valsesia, ma a sua volta cede più di 8 punti nel Vercellese. I socialistisono il primo partito nei comuni di montagna e collina, mentre in pianura riducononotevolmente i loro consensi, ottenendo un risultato inferiore di più di 9 punti rispettoai comuni collinari e più di 11 rispetto ai comuni di montagna. Rispetto alla lista comu-nista, i socialisti radicano maggiormente i loro consensi nei comuni il cui corpo eletto-rale è inferiore a 500 elettori: in questo caso i consensi al Psiup sono quasi doppi rispet-to a quelli al Pci. Con il crescere delle dimensioni del corpo elettorale le differenze siattenuano e nei comuni con un elettorato superiore a 5.000 persone il trend si inverte,fino a marcare una differenza di quasi 6 punti percentuali a vantaggio del Pci nei capo-luoghi. Analizzando il risultato elettorale del Psiup nei comuni a marcata vocazione so-cioeconomica, si riscontra un significativo divario fra i dati dei comuni ad alto tasso diaddetti all’agricoltura, in cui i socialisti raccolgono il consenso relativamente più basso,pari al 24,71 per cento, e quello dei comuni ad alto tasso di addetti all’industria, dove lapercentuale si attesta al 35,66 per cento. Il Psiup è il partito di maggioranza relativanell’altopiano biellese, nelle valli Elvo, Mosso e Sessera, nei comuni territorialmente in-feriori della Valsesia. In nove subaree della provincia il Psiup è il primo partito della si-nistra, superato nei consensi dal Pci soltanto nelle Grange, in valle Cervo e nelle Prealpibiellesi. Il Psiup conquista la maggioranza assoluta in 13 comuni, raggiungendo il mas-simo risultato a Donato con il 58,64 per cento e quella relativa in 48 comuni; il risultatopiù scarso lo riporta a Carcoforo con l’1,45 per cento.

Il Pci ottiene in provincia un risultato decisamente superiore, nell’ordine di quasi il10 per cento, rispetto al dato nazionale; i consensi sono molto alti nel Vercellese, doverisulta il primo partito della sinistra, e nel Biellese, inferiori alla media nazionale in Valse-sia. Il Pci conquista la maggioranza assoluta in 8 comuni, raggiungendo il massimorisultato a Sali Vercellese con il 66,18 per cento e quella relativa in 32 comuni; il risul-tato più scarso lo riporta a Rassa con lo 0,60 per cento. La tendenza elettorale è cre-scente nel passaggio dalla fascia montana alla collinare e alla pianura con progressioneinversa rispetto al voto socialista. Analogo trend si riscontra nel passaggio dai comunia minor dimensione elettorale ai centri più popolosi, anche se nei capoluoghi il partito èleggermente più debole rispetto ai comuni con più di 5.000 elettori. La suddivisione pervocazione economica rivela la tendenza all’affermazione sia nei comuni ad alto tasso diaddetti all’industria, sia in quelli ad alto tasso di addetti all’agricoltura. Analizzando ilrisultato nelle varie subaree, si evidenziano l’assoluta debolezza del Pci in alta Valsesiae le difficoltà nel territorio collinare morenico; nelle Grange, in valle Cervo e nelle Prealpibiellesi il Pci si afferma come partito di maggioranza relativa.

Analizzati nel particolare, i risultati elettorali prefigurano le dinamiche che porteran-no in breve al ribaltamento delle posizioni di forza interne alla sinistra: il voto al Psiuprisulta forte nelle aree meno dinamiche dal punto di vista socioeconomico, il Pci si pro-pone come forza capace di intercettare consensi nelle zone a più veloce evoluzione.

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Gianfranco Astori (1948) ha presentato la relazione su Giulio Pastore al convegno diVarallo. Giornalista professionista dal 1980, è attualmente direttore responsabile del-l’agenzia di stampa quotidiana nazionale Asca. Deputato al parlamento per la Democra-zia cristiana nella IX, X e XI legislatura repubblicana, nei governi Goria, De Mita, An-dreotti VI ed Andreotti VII ha ricoperto l’incarico di sottosegretario di Stato al Ministe-ro dei Beni culturali ed ambientali. A livello locale è stato eletto, fra l’altro, sindaco diRassa (1970), ultimo presidente del Consiglio di Valle-Valsesia e primo presidente delComprensorio di Borgosesia, mentre nel 1975 e nel 1980 ha rappresentato il collegioVarallo-Alta Valsesia nel Consiglio dell’amministrazione provinciale di Vercelli, della qualeè stato anche assessore. Ha presieduto il Comitato organizzatore per la medaglia d’oroal valor militare alla Valsesia per attività partigiana (1971-1972).

Gustavo Buratti Zanchi (1932-2009) ha presentato la relazione su Ernesto CarpanoMaglioli e Virgilio Luisetti al convegno di Biella. Pubblicista, ha svolto attività politicanel Psi fino al 1984 e successivamente nei Verdi. Autore di saggi e libri giuridici, storicie letterari, con particolare attenzione alla storia delle eresie, alla cultura e alle lingue delleAlpi. È stato tra i fondatori dell’Associazione internazionale per la difesa delle lingue edelle culture minacciate, coordinatore del Centro studi dolciniani e fiduciario dell’Ope-ra nomadi per il Biellese, nonché dirigente dell’Istituto e, più recentemente, membrodel comitato scientifico. Ha curato la voce “Ernesto Carpano Maglioli” nel volume, acura di Caterina Simiand, “I deputati piemontesi all’Assemblea costituente” (Torino,Consiglio regionale del Piemonte; Milano, Franco Angeli, 1999).

Federico Caneparo (1975) ha presentato la relazione su Pietro Secchia, Vittorio Flec-chia e Francesco Moranino al convegno di Biella. Insegnante di scuola superiore. Col-laboratore dell’Istituto e autore di numerosi saggi comparsi ne “l’impegno”, ha svoltoattività di ricerca alla Fondazione Isec di Sesto San Giovanni, per la quale ha curato lapubblicazione di scritti scelti del dirigente comunista Arturo Colombi “Per un partito dicombattimento (Milano, Franco Angeli, 2004).

Marco Neiretti (1937) ha presentato le relazioni su Ermenegildo Bertola al convegno diVercelli, Giuseppe Pella al convegno di Biella e la relazione introduttiva al convegno diVarallo. Consigliere scientifico e, in passato, dirigente dell’Istituto, ha ricoperto nume-rosi incarichi amministrativi, politici e sindacali; ha insegnato Storia economica allaScuola di amministrazione aziendale di Biella, dipendente dalla Facoltà di Economia eCommercio dell’Università di Torino. Ha collaborato a numerose riviste, anche a livellonazionale, e ha pubblicato significativi saggi di storia locale relativi ai secoli XVIII, XIXe XX. In particolare, ha curato le voci “Ermenegildo Bertola” e “Giuseppe Pella” nelvolume, a cura di Caterina Simiand, “I deputati piemontesi all’Assemblea costituente”(Torino, Consiglio regionale del Piemonte; Milano, Franco Angeli, 1999).

I relatori

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Francesco Rigazio (1938) ha presentato la relazione su Francesco Leone al convegnodi Vercelli. Dopo essersi laureato con una tesi sull’occupazione italiana del Dodecane-so, ha insegnato Geografia economica negli istituti tecnici e svolto attività di ricerca,occupandosi in particolare di storia del movimento operaio biellese e vercellese. Ha anchefatto parte del direttivo dell’Istituto dal 2004 al 2006. Nel 1985 e nel 1993 ha curatodue mostre sul movimento operaio vercellese dal 1882 al 1922. Ha curato inoltre levoci “Francesco Leone” e “Vittorio Flecchia” nel volume, a cura di Caterina Simiand,“I deputati piemontesi all’Assemblea costituente” (Torino, Consiglio regionale del Pie-monte; Milano, Franco Angeli, 1999). Più recentemente, ha pubblicato in “Archivi eStoria” diversi contributi, tra cui quelli sull’emigrazione politica biellese nell’UnioneSovietica degli anni trenta, sulla catena migratoria da Cigliano a Tucumán e sull’attivitàdegli anarchici biellesi a Paterson, New Jersey. Attualmente si sta occupando della Societàdi mutuo soccorso di Santhià e dell’emigrazione piemontese in Argentina.

Bruno Ziglioli (1973) ha presentato le relazioni introduttive ai convegni di Vercelli e Biellae la relazione su Cino Moscatelli al convegno di Varallo. Dottore di ricerca in Storiacontemporanea e collaboratore dell’Istituto, è assegnista al Dipartimento di Studi poli-tici e sociali dell’Università di Pavia. Si occupa di storia dell’antifascismo, dell’Italiarepubblicana e di élites politiche nell’Ottocento. Ha pubblicato il libro “La mina vagan-te. Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale” (Milano, Franco Angeli, 2010).

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Abbagnano, Nicola 20Acciarini, Filippo 59Adorno, Salvatore 126Agosti, Aldo 128Aimo, Piero 16, 127Alessandrini, Luca 70Alessandrone Perona, Ersilia 95Amadini, Franco 118Amedeo, Filippo 59Amendola, Giorgio 76, 84Andreotti, Giulio 20Andreucci, Franco 35, 64, 78, 121Antiseri, Dario 20Antonelli, Dina 57Astuti, Giovanni 16

Baget Bozzo, Gianni 101Balbo, Felice 123Ballini, Pier Luigi 14, 15Ballone, Adriano 67, 78Baratono, Adelchi 30Barazzotto, Renzo 43Barbano, Enzo 121, 121, 128, 128Barbisio, Dante 58Barucci, Piero 55Basile, Michele 77Basso, Lelio 16, 60, 103Bermani, Cesare 25, 32, 33, 34, 34, 75, 76Bermond, Claudio 42Bernero, Virginio 43Bertola, Ermenegildo 6, 7, 20, 20, 21-24, 37,

113, 127, 129Bertola, Secondino 46Bertone, Giovanni Battista 55Bevilacqua, padre Giulio 41Blotto Baldo, Bruno 42, 46, 46Bocca, Giorgio 101Bodo, Mario 26Boldrini, Arrigo 73, 74, 74Bonomi, Ivanoe 15, 101, 140Bordiga, Amadeo 29, 30, 66Borello, Giacinta 57Borgese, Giuseppe Antonio 98Botto, Renato 44Bovetti, Giovanni 51Bricarello, Domenico 44, 46Broz, Josip “Tito” 53Brusasca, Giovanni 22Brusasca, Giuseppe 22, 22Buozzi, Bruno 107Buratti, Gustavo 62

Indice dei nomi

Buratti, Irmo 44Buratti, Vittorio 48

Calamandrei, Piero 15Calosso, Umberto 51Campanini, Giorgio 42, 55Campasso, Ezio 69Caneparo, Francesco 48Cantono, Alessandro 41, 42, 44, 47Cappa, Luigi 117, 118Cappi, Giuseppe 41, 41, 51Cappugi, Renato 110Capra, Ottavio 61Caretti, Paolo 14Caretti, Stefano 121Carletto, Giulio 51Carmagnola, Luigi 59-61Caron, Luigi 36Carpano Maglioli, Antonio 57Carpano Maglioli, Ernesto 6, 7, 51, 57-62Carpano Maglioli, famiglia 57Caselli, Germano 44, 45, 52Casula, Carlo Felice 110Cavazza, Stefano 14Cheli, Enzo 14, 15Chiara, Daniele 66Chiaramello, Domenico 59Chiarini, Roberto 128Chignoli, Luigi 59Chiocchetti, Antonia 33Chiocchetti, Eusebio 26Ciampani, Andrea 116“Cino” v. Moscatelli, Vincenzo“Ciro” v. Gastone, EraldoCoda, Mario 48Colarizi, Simona 13Collotti, Enzo 63, 67, 68, 78, 84, 85, 87, 88,

121Colombara, Filippo 121, 130Colombo, Francesco 46, 47Colombo, Paolo 11, 12Colonnetti, Gustavo 21, 21, 23, 41, 42, 44Corona, Claudio 31Corsanego, Camillo 103Cossutta, Armando 89, 89Costa, Francesco 29Cova, Alberto 55Cremisini, Antonio 77Crispi, Francesco 12Croce, Benedetto 97, 98, 101, 140Crollalanza, Araldo 77

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Dau Novelli, Cecilia 14De Amicis, Edmondo 57De Gasperi, Alcide 6, 14, 23, 48, 51, 52, 60, 68,

96, 98-100, 108, 110, 141Delpiano, Enrico 41, 41De Nicola, Enrico 51, 97, 98, 100, 102Detti, Tommaso 35, 64, 78, 121Di Capua, Giovanni 110Di Loreto, Pietro 75Di Vittorio, Giuseppe 35, 107, 115, 116Donati, Giuseppe 95Dondi, Mirco 71Dongilli, Patrizia 118Dorso, Guido 106Dossetti, Giuseppe 102, 103, 105, 109Dzugasvili, Josif Vissarionovic “Stalin” 66

Einaudi, Luigi 52, 53, 97, 100, 115Esposito, Gaetano 54Esposito, Laura 54

Fanello Marcucci, Gabriella 55, 109Fanfani, Amintore 20, 23, 53, 54, 109, 113, 114Ferrandi, Giuseppe 73, 74, 74Ferrari, Francesco Luigi 95Ferrari, Giacomo 113Ferraris, Antonio 45, 46Ferraris, ingegnere 51Ferraris, Serafino 26Ferraro, Salvatore 106Ferretti, Lando 77Fietti, Angelo 29Finotto, Pasquale 44, 48Fiorentino, Gaetano 77Fiumanò, Caterina 15Flecchia, Vittorio 6, 7, 36, 63-67Flores, Marcello 67Forgnone, Leonardo 46Fortichiari, Bruno 30Francesconi, Maria 69Francesconi, Mario 69Franza, Enea 77Frassati, Alfredo 41Frassati, Pier Giorgio 41Fusi, Valdo 22, 22

Galleani, Luigi 31Gallerano, Nicola 67Gallesio, Anna Rosa 49Gariglio, Bartolo 42Gasparri, Pietro 103Gastone, Eraldo “Ciro” 75, 122, 123Gedda, Luigi 118, 118Gentile, Emilio 14, 122

Germano, Pietro 89, 89Geuna, Silvio 50, 125Ghisalberti, Carlo 11, 14, 95, 104Ghisio, Gioacchino 37Giannini, Guglielmo 135, 142Gionino, Alessandro 27, 32Giovana, Mario 121Giovannacci, Giovanni 21Gobetti, Piero 95Golzio, Silvio 42Gonella, Guido 42, 100Gramsci, Antonio 29, 64, 65Grandi, Achille 106-110, 110, 118, 118Grassi, Ezio 129Grassi, Giuseppe 113Gray, Ezio Maria 77Gremmo, Roberto 28, 76Grieco, Ruggero 121Grimaldi, Luigi 77Gronchi, Giovanni 44, 54, 69, 107, 110, 114,

115, 118Grosso, Federico 57, 59Grosso, Felice 61Grosso, Umberto 59Guelpa, Delfino 47Guerra, Maria 49Gullo, Fausto 74, 75

Imberti, Francesco 24Isola, Gianni 34, 35Ivone, Diomede 55

Jacoponi, Vasco 35Jona, Alessandro 59Jona, Luciano 43

La Malfa, Ugo 141, 142La Marmora, Alfonso 51Laniel, Joseph 47, 47Lanza, Lidia 46, 48, 49, 51Lanza, Remo 48, 57La Pira, Giorgio 20, 42, 102, 109Latanza, Domenico 77Lavagnino, Carlo 124, 125Lazzarino, Ermanno 123Lazzati, Giuseppe 109“Lenin” v. Ulianov, Vladimir IlicLeone, Antonio 25, 27Leone, Francesco 6, 7, 25-28, 28, 29, 30, 30,

31, 32, 32, 33, 34, 34, 35, 35, 36, 37, 37Leone, Giovanni 23Leone, Maria 26, 33Leone, Marta, sorella di Francesco 33Leone, Marta, cugina di Francesco 33

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Lepre, Aurelio 14, 127Lessona, Alessandro 77Lombardi, Riccardo 73, 77, 78Lombardo, Ivan Matteo 60Longo, Luigi 72, 79-81, 121Longo, Pier Giorgio 118Luisetti, Virgilio 6, 7, 44, 46, 48, 51, 57-62Lussu, Emilio 141

Mafai, Miriam 124, 128Maffioletti, Roberto 89, 89Maggio, Giuseppe 77Malgeri, Francesco 55Malinverni, Aurelio 32Mammarella, Giuseppe 98Mancini, Giuseppe Federico 111Marat, Jean-Paul 37Marazza, Achille 22, 22Marchisio, Domenico 37Marconcini, Federico 42Marshall, George C. 112Martignone, Guido 44Martinelli, Renzo 16, 86, 128, 129Martino, Gaetano 53Martorelli, Renato 58, 59Massa, Cesare 24Mattei, Enrico 54, 141, 141Matteotti, Giacomo 58, 95Mazzini, Giuseppe 57Mello Grand, Silvio 46, 47Menotti Serrati, Giacinto 30Micca, Pietro 45Miglioli, Guido 41, 41Mignemi, Adolfo 32Modica, Enzo 89, 89Molino, Caterina 25Mombello, Oreste 61Momigliano, Riccardo 58Montanelli, Indro 48Montini, Giovanni Battista (Paolo VI) 41, 42, 44Montini, Ludovico 41Moranino, Francesco “Gemisto” 6, 7, 51, 63,

64, 67-69, 69, 70, 72, 72, 73-77, 129Morelli, Maria Teresa Antonia 14Moro, Aldo 20, 102, 103Mortati, Costantino 15Moscatelli, Vincenzo “Cino” 6, 7, 68, 75, 121,

121, 122, 122, 123-126, 128-130, 130, 131Murri, Romolo 41Musella, Luigi 12Mussolini, Benito 23, 44, 45, 58, 59, 96, 97,

103, 106, 110, 118, 122

Neiretti, Marco 5, 21, 55, 62

Nencioni, Gastone 77Nenni, Pietro 22, 48, 60, 98, 101, 103, 113,

124, 125, 141Nitti, Francesco Saverio 101, 140Novaretti, Franco 61

Ogliaro, Alfonso 58, 59Olivetti, Gino 43Omodeo Zorini, Francesco 121Orlando, Vittorio Emanuele 140Orsi, Alessandro 130Ortona, Silvio 36

Pace, Nicola Tommaso 77Pacelli, Eugenio (Pio XII) 107, 108Pajetta, Gian Carlo 37, 125, 136Panetti, Modesto 41, 42Paolo VI v. Montini, Giovanni BattistaParonetto, Sergio 42Parri, Ferruccio 89, 89, 141, 142Passoni, Mario 59Passoni, Pier Luigi 59Pastore, Giulio 6, 7, 23, 105, 105, 106-108,

108, 109, 109, 110, 110, 111-116, 116, 117,117, 118, 118, 119, 126, 127, 129, 130

Pedrotti, avvocato 30Pella, Giuseppe 6, 7, 23, 41, 41, 42-45, 45, 46-

55, 113, 130Perazio, Felice 41Peretti-Griva, Domenico 43Pergolesi, Ferruccio 104Perona, Antonio 48Pertini, Sandro 131Picardo, Luigi 77Piccioni, Attilio 41, 51, 109Pinay, Antoine 47, 47Pini, padre Giandomenico 41Pinna, Gavino 77Pio X v. Sarto, Giuseppe MelchiorrePio XII v. Pacelli, EugenioPirastu, Ignazio 89, 89Piretti, Maria Serena 13, 15Pizzorusso, Alessandro 102, 104Polano, Luigi 29Politi, Angela Maria 70Poma, Anello “Nello” 48Poma, Giulia 49Pombeni, Paolo 11, 14, 16Ponte, Salvatore 77Porrino, Ernesto 60Porrone, Innocente 58Prestes, Luis Carlos 34, 37

Quarello, Gioachino 23

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Quazza, Guido 82, 84

Ramella Germanin, Odetto 48Ranza, Giovanni Antonio 37Rapa, Nino 46Rapelli, Giuseppe 23, 41, 41, 42, 51, 110, 113Ravera, Camilla 123Reale, Giovanni 20Reale, Oronzo 69Rebuffa, Giorgio 16Restagno, Pier Carlo 51Riccardi, Filippo 73Ridolfi, Maurizio 14, 15Rigazio, Francesco 7, 32, 64Righetti, Igino 44Righi, Maria Luisa 86Rigola, Giuseppe 31Rigola, Rinaldo 57, 58, 61Roasio, Antonio 64, 79Robotti, Paolo 28, 29, 30, 32Romani, Mario 105, 105Romboli, Roberto 15Romita, Giuseppe 61Ronco, Camillo 62Ronco, Umberto Luigi 59Rondani, Dino 59, 61Rossi, Carlo 45, 47Roveda, Giovanni 6Roveda, mons. Ferdinando 21

Saba, Vincenzo 107, 110Sabatini, Armando 89, 89Sabbatucci, Giovanni 128Sala, Stefano 121Sale, Giovanni 103Salvatorelli, Luigi 97Salvemini, Gaetano 95Sandri, Renato 67, 78, 121Sansone, Luigi Renato 89Santhià, Battista 30Santi, Fernando 115Santucci, Gennaro 69Santucci, Maria 69Saragat, Giuseppe 60, 69, 101Sarto, Giuseppe Melchiorre (Pio X) 19Sassone, Irmo 37Sassoon, Donald 128Savio, Umberto 57Savoia, Carlo Alberto 11Savoia, famiglia 97, 118Savoia, Umberto I 12Savoia, Umberto II 13, 51, 97, 99Savoia, Vittorio Emanuele III 97-99Sbarberi, Franco 82

Scalfaro, Oscar Luigi 23, 75, 113Scelba, Mario 53, 61, 70, 96, 113Schellino, Nando 37Scimone, Giovanni 69Scoca, Salvatore 52Scoccimarro, Mauro 52, 112Scoppola, Pietro 96Scotti, Alessandro 142Secchia, Pietro 6, 37, 63, 63, 64, 68, 68, 71,

72, 73, 78, 79, 79, 80, 80, 81, 82, 82, 83,83, 84, 84, 85, 86, 86, 87, 88, 88, 89, 89,90, 90, 91, 92, 122, 122, 123, 128

Segni, Antonio 113, 127Serassi, Mario 31Sereni, Vittorio 35Serio, Maurizio 118Serralunga, Giuseppe 43Sessi, Frediano 67, 78, 121Sforza, Carlo 22Sidro, Pietro 46, 48Silone, Ignazio 60Silvestri, Giuseppe 118Simiand, Caterina 21, 25, 62, 64, 67, 78Somaglino, Lorenzo 28, 29Somaschini, Serafino 33Sonnino, Sidney 12Sorba, Carlotta 126Sozzi, Gastone 34Spallone, Giulio 136Spataro, Giuseppe 108, 109Spriano, Paolo 35, 64, 66, 84“Stalin” v. Dzugasvili, Josif VissarionovicStella, Albino 23Storchi, Ferdinando 114Strassera, Emanuele 69Sturzo, Luigi 19, 41, 44, 47, 95, 96, 106

Terracini, Umberto 30, 102Tesoro, Marina 12Testa, Gianluigi 130“Tito” v. Broz, JosipTogliatti, Palmiro 6, 13, 28, 48, 65, 68, 70, 76,

79, 80, 84, 98, 101, 101, 103, 103, 113,121, 122, 124, 128, 129

Togni, Giuseppe 114Toniolo, Giuseppe 45Torelli, Carlo 117, 117Tranfaglia, Nicola 14Traniello, Francesco 42, 55Trompetto, Alessandro 44-47Trompetto, Mario 44Tupini, Umberto 102Turati, Filippo 57, 58Turchi, Francesco 77

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Ulianov, Vladimir Ilic “Lenin” 37

Valletta, Vittorio 43Vargas, Getulio D. 34Venanzi, Mario 89, 89Verdoia, Alessandro 59Vernetti, Giuseppe 45

Vidotto, Vittorio 128Vigorelli, Giancarlo 108Vittoria, Albertina 128

Zanfa, Oscar 116Zaninetti, Umberto 61Ziglioli, Bruno 5, 127

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Indice

Prefazione p. 5

Vercellesi all’Assemblea costituente

Bruno ZiglioliL’Assemblea costituente: alcune considerazioni storico-istituzionali ” 11

Marco NeirettiErmenegildo Bertola ” 19

Francesco RigazioLa vicenda umana e politica di Francesco Leone ” 25

Biellesi all’Assemblea costituente

Marco NeirettiGiuseppe Pella ” 41

Gustavo BurattiErnesto Carpano Maglioli e Virgilio Luisetti ” 57

Federico CaneparoVittorio Flecchia, Francesco Moranino, Pietro Secchia ” 63

Valsesiani all’Assemblea costituente

Marco NeirettiL’Assemblea costituente ” 95

Gianfranco AstoriGiulio Pastore al tempo della Costituente ” 105

Bruno ZiglioliVincenzo “Cino” Moscatelli ” 121

Appendice

Il voto per l’Assemblea costituente nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia ” 135

Tabelle dei risultati elettorali ” 145

I relatori ” 167

Indice dei nomi ” 169

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