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1 [ VISIONI 153 ] Roma 5 febbraio 2019 Blog. https://incontridicinema.wordpress.com m@il [email protected] “The walk” Lo spazio libero della vertigine Titolo originale: The Walk Regia: Robert Zemeckis Sceneggiatura: Robert Zemeckis, Christopher Browne Fotografia: Dariusz Wolski Scenografia: Naomi Shohan Montaggio: Jeremiah O'Driscoll Costumi: Suttirat Anne Larlarb Interpreti: Joseph Gordon-Levitt, Ben Kingsley, Charlotte Le Bon, Ben Schwartz, James Badge Dale, Steve Valentine, Mark Camacho, Sergio Di Zio, Clément Sibony, Kwasi Songui, Melantha Blackthorne, Benedict Samuel, Jason Blicker, Larry Day, Karl Graboshas, Daniel Harroch, Guillaume Baillargeon, Émilie Leclerc, Mark Trafford, Inka Malovic, Lucas Ramacière, Martin Lefebvre, Philippe Bertrand, Laurence Deschênes, Patricia Tulasne, Jean-Robert Bourdage, Sylvie Lemay, Sasha Dominique, Soleyman Pierini, Musiche: Alan Silvestri Origine: USA Anno: 2015 Durata: 123 minuti

m il visioni … 153.pdf2 Sinossi Era il 7 agosto 1974 quando l'allora giovane Philippe Petit poté a realizzare il suo sogno: riuscire a camminare sospeso a oltre 415 metri, su

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[ VISIONI 153 ]

Roma

5 febbraio 2019

Blog. https://incontridicinema.wordpress.com

m@il [email protected]

“The walk”

Lo spazio libero della vertigine

Titolo originale: The Walk Regia: Robert Zemeckis Sceneggiatura: Robert Zemeckis, Christopher Browne Fotografia: Dariusz Wolski Scenografia: Naomi Shohan Montaggio: Jeremiah O'Driscoll Costumi: Suttirat Anne Larlarb Interpreti: Joseph Gordon-Levitt, Ben Kingsley, Charlotte Le Bon, Ben Schwartz, James Badge Dale, Steve Valentine, Mark Camacho, Sergio Di Zio, Clément Sibony, Kwasi Songui, Melantha Blackthorne, Benedict Samuel, Jason Blicker, Larry Day, Karl Graboshas, Daniel Harroch, Guillaume Baillargeon, Émilie Leclerc, Mark Trafford, Inka Malovic, Lucas Ramacière, Martin Lefebvre, Philippe Bertrand, Laurence Deschênes, Patricia Tulasne, Jean-Robert Bourdage, Sylvie Lemay, Sasha Dominique, Soleyman Pierini, Musiche: Alan Silvestri Origine: USA Anno: 2015 Durata: 123 minuti

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Sinossi

Era il 7 agosto 1974 quando l'allora giovane Philippe Petit poté a realizzare il suo sogno: riuscire a

camminare sospeso a oltre 415 metri, su un cavo metallico spesso solamente tre centimetri, e solcare l'enorme

porzione di cielo che separava le due Torri gemelle, che erano appena state erette.

Questo – folle – desiderio non era

semplicemente una sfida verso se stesso,

ma la sua fantasiosa rappresentazione del

sogno americano. Anche se fu clandestina

e violò la legge, la titanica impresa gli fece

ottenere la cittadinanza americana, con

relativa fama e successo (a perfect

rapresentacion of American Dream!).

Una storia di oltre quarant'anni fa ma che ancora

emoziona, sia per l'impossibile sfida vinta, e sia

l'adolescenziale caparbietà di Petit. La sua

fantasmagorica impresa fu già ricordata

cinematograficamente con il documentario Man

on Wire – Un uomo tra le torri di James

Marsh, oltre che nel cortometraggio High Wire

di Sandi Sissel, del 1984, e adesso The Walk

torna a "rievocare" quella sospesa camminata.

Anche se Man on Wire era un documentario, con

qualche scena fiction girata ad hoc, la pellicola

utilizzava la struttura del Caper-Movie, proprio

perché si addiceva alla pazza realizzazione di

quell'impresa, e questa formula viene riutilizzata

anche per The Walk, che è invece cinema al 100%.

Dopotutto The Walk rappresenta due tipologie di

funambolismi spettacolari, che sempre

ammaliano lo sguardo degli spettatori. Il circo e i

suoi spettacoli, alla fine, sono la preistoria del

cinematografo. A conti fatti il circo di cosa era

composto? Di una grande pista su cui si

alternavano diversi generi circensi (come sugli

schermi dei cinema) e di una platea rapita, come

nelle sale odierne. Philippe Petit era il grande

attore, e il cavo d'acciaio il suo palco, e il suo

spettacolo potrebbe essere definito un action con

forti picchi di tensione. The Walk, come già fece

nel suo documentario James Marsh, si concentra

maggiormente non sui tesissimi quarantacinque

minuti dell'impresa, ma su tutta la meticolosa

preparazione dell'impresa, oltre che a un veloce e

simpatico riepilogo della vita parigina di Petit.

Come già scritto, The Walk è una rievocazione,

proprio perché prende totalmente la strada della

finzione, portando il racconto sui toni pastello di

una fiaba. La sceneggiatura di Robert Zemeckis

e Christopher Brown fa leva proprio su una

rievocazione che potrebbe ricominciare con il

classico "C'era una volta un ragazzo che…". E

questa scelta narrativa esplode, sullo schermo,

attraverso l'aspetto visivo, in cui tutto, dalla

fotografia al montaggio, passando per

l'interpretazione, è spinto verso il puro

parossismo favolistico. Una scelta stilistica che

rimembra a volte la fiaba cinematografica Hugo

Cabret, a cui il rimando cinefilo può essere anche

la presenza di Ben Kingsley, che nella pellicola

di Martin Scorsese interpretava l'anziano

funambolo George Melies, e qui interpreta il

vecchio – funambolico – Papa Rudy. Poc'anzi, si

era parlato di Caper-Movie (traducibile come film

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del colpo grosso) e The Walk è una perfetta

variazione iper colorata di questo sotto genere. È

lo stesso Petit che chiama la minuziosa

preparazione definendola "Il colpo". Nello

svolgimento sembra veramente di assistere a

un’attenta e pericolosa preparazione di una

rapina a un caveau. Quello che bisogna espugnare

non sono soldi o lingotti, ma sono i luccicanti attici

del World Trade Center; un "inestimabile tesoro"

che corrisponde a un'eterna glorificazione e

ricchezza (interiore), e tutto questo "furto" è

raccontato con toni da commedia. L'improvvisata

banda (di ladri) è un manipolo scalcinato di figure

raccattate sulla strada da Petit, e i commenti

evocativi dello stesso Petit penzolano in una

dimensione impalpabile (lui ci parla sospeso

nell'aria, con un fondale puramente finto). Ma,

inoltre, tutta questa minuziosa preparazione può

anche essere vista come una fuga da un carcere di

massima sicurezza. L'impresa di Petit è una fuga

gravitazionale; un andare oltre il mondo

palpabile. La sospensione supina in cui si adagia

Petit è la rappresentazione massima di questa

fuga dal mondo logico e maledettamente

gravitazionale. Eppure… The Walk, è anche (o

forse?) un omaggio alle Twin Towers.

Probabilmente nel cinema post 11 settembre,

questo è, al momento l'omaggio più sentito, più

viscerale. La rievocazione dell'impresa di Petit è

anche la commemorazione delle due torri,

dapprima considerate brutte costruzioni edilizie

(sembrano due immensi schedari) e poi

apprezzati, anche a livello artistico. Il fade away

finale, dopo le emozionanti ultime battute di Petit

(mi avevano concesso un free pass per i tetti del

World Trade Center per sempre) è una

cinematografica chiusura di sentimentale addio.

Si può, probabilmente, criticare The Walk sotto

certi aspetti narrativi, eppure si guarda, per tutta

la sua durata, con perigliosa attenzione e tensione.

The Walk, aiutato da un 3D che espande

visivamente quei momenti, è un ritorno a quel

cinema emozionale circense che avvince.

Presumibilmente solamente per quei 123 minuti,

eppure in quel lasso – sostanzioso – di tempo si

rimane rapiti, come fanciulli, da quel

funambolismo, cinematografico e favolistico, di

quella folle impresa artistica.

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Analisi

A distanza di quarantuno anni dall'avvenimento, Robert Zemeckis celebra la storica e incredibile impresa di Philippe Petit che la mattina del 7 agosto del 1974, all'età di venticinque anni, passeggiò da un capo all'altro delle Twin Towers in equilibrio su un cavo d'acciaio. È l'occasione per ripercorrere, col sostegno di un 3D tutt'altro che accessorio, le principali tappe biografiche del funambolo francese dai difficili inizi fino alla maturazione e alla messa in atto della leggendaria traversata, in un biopic molto tradizionale nell'assetto narrativo, ma possente nella carica spettacolare.

Il genere, gli intenti e la scrittura, dunque,

distinguono "The Walk" da un precedente di peso

come "Man on Wire" e ne certificano la ragion

d'essere. Se infatti il bel documentario di James

Marsh, uscito nel 2008, si focalizzava quasi

esclusivamente sul "capolavoro" di Petit e, dalla

raccolta di voci, documenti e aneddoti sulla

preparazione del coup, riusciva a carpirne e

comunicarne le istanze espressive e l'enorme

impatto sull'immaginario collettivo, in questo

caso l'obiettivo non è la testimonianza, bensì la

rappresentazione di quell'evento in tutta la sua

eccezionalità, soprattutto in relazione al percorso

creativo ed esistenziale di Petit. Da qui la scelta di

coprire un arco temporale più vasto e di affidare

le redini del racconto al diretto interessato che

parla al pubblico dalla torcia della Statua della

Libertà (del resto, per "The Walk" come per "Man

on Wire", a costituire la principale fonte di

informazioni e suggestioni è proprio l'euforica

autobiografia del funambolo, "Toccare le

nuvole"). Eppure è proprio negli (estesi) capitoli

preparatori e, più in generale, nelle soluzioni di

messa in scena del racconto autobiografico che il

film incorre nelle sue pecche più gravi. Di fatti, a

partire dalla debole e cartolinesca apertura

d'ambientazione francese, con una

sovrabbondanza di espedienti formali (lo sfumare

del bianco e nero nel colore, i goffi passaggi di

lingua) troppo ingenui e basilari per destare

qualche risposta emozionale, non convincono né il

ritratto di Petit né i suoi legami con i personaggi

che lo contornano. L'indole candida e sognatrice,

unita alla caparbietà e alla lucida follia di

Philippe, il totale rifiuto delle convenzioni sociali,

l'inevitabile strappo con la famiglia, il tempestoso

apprendistato al fianco di Papa Rudy, e poi il

sodalizio col fotografo Jean-Louis e

la storia d'amore con Annie vengono

passati in rassegna senza lasciare

mai davvero il segno e sembrano

sempre soggiacere a una retorica

tanto fumosa quanto semplicistica.

Anche i tentativi di spiegare, a più

riprese, i motivi di un gesto così folle

e glorioso, ricondotto prima

all'animo sovversivo e anarchico

dell'acrobata, poi all'impetuoso

desiderio di originalità dell'artista,

oppure all'irrisolto conflitto tra

desiderio di vita e istinto di morte

dell'uomo, suonano vuoti e

approssimativi. Al contrario, rischiano di

banalizzare quel richiamo irresistibile e istintivo,

tanto profondo quanto razionalmente

incomprensibile e inesplicabile, che spinge Petit a

proseguire nei suoi intenti, a dispetto di ogni

logica considerazione o circostanza avversa.

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Quando però lo scenario cambia e le due svettanti

torri del World Trade Center (ricostruite con

stupefacente precisione in CGI) diventano

finalmente il teatro dell'azione, "The Walk"

decolla. Fin dal primo sopralluogo di Philippe sul

"luogo del delitto", quando incredulo e sgomento

tocca le fredde membrature d'acciaio

della Torre Sud, seguendone la sagoma

senza riuscire a scorgere la cima, oppure

quando, raggiunto l'ultimo piano,

saggia l'ebbrezza di quel vuoto,

reggendosi con un piede su una putrella

sospesa sul bordo del grattacielo, il film

trova il giusto registro. Pompati dal

ritmo incalzante dell'heist-movie (senza

alcuna rapina, come notato da molti),

seguono i ferventi preparativi con

annessa sequela di intoppi tutti risolti da

altrettante (e quasi inverosimili)

congiunture favorevoli dettate dal Caso.

Poi ecco la fatidica sequenza della passeggiata nel

cielo: Philippe percorre per ben otto volte la

distanza tra le due torri, sospeso a 412 metri dal

suolo, si siede e si sdraia sul cavo sottilissimo,

salutando il pubblico incredulo con un inchino e

facendosi beffa degli impotenti agenti di polizia

appostati alle due estremità del rettifilo. In quella

mezz'ora mozzafiato è risolta l'equazione tra

tecnica e spettacolo che non soltanto costituisce il

principale se non unico valore della pellicola, ma

rappresenta l'essenza stessa del cinema di

Zemeckis (e probabilmente pure un ideale punto di

contatto col magico virtuosismo di Petit). Tramite

la piena padronanza delle tecniche, il cinema

dovrebbe non limitarsi a rievocare o interpretare

le dinamiche di un evento così irripetibile, ma

tentare di restituirne il più fedelmente possibile le

qualità emozionali ed esperienziali, fino a

renderlo paradossalmente ripetibile sullo

schermo. Tuttavia, se da un lato questo totale

azzeramento della distanza tra pubblico e

funambolo, col suo sapiente dispiego di mezzi,

riesce a scuotere i sensi con efficacia inaudita e ad

aggiungere un punto di vista "impossibile"

sull'episodio, al contempo sembra sottrarre

qualcosa alla materia narrata. Durante la

performance di Petit, a prevalere è il terrore, la

vertigine che fa tremare i polsi e sudare freddo e

non più quella miracolosa, sublime parvenza di

semplicità, libertà e leggerezza sprigionata dalle

immagini scattate dal vivo nel 1974. La

magniloquenza dello spettacolo pare insomma

saturare, oscurandola, l'intima e poetica bellezza

del gesto.

In aggiunta, di pari passo alla celebrazione

dell'impresa di Petit, Zemeckis ancora una volta

chiude con un vero e proprio encomio dell'identità

americana, in tutte le sue sfaccettature. Accanto

alla massima esaltazione del verticalismo e della

scala gigante di New York, è impossibile non

intravedere nel Francese una paradigmatica

incarnazione del sogno americano, come

impossibile sarebbe non cogliere il pathos e il

valore memoriale della dissolvenza finale che

gradualmente adombra il profilo delle Torri

Gemelle, già pronte a trasformarsi da

palcoscenico del trionfo a protagoniste della

propria stessa devastazione.

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Critica

Fare cinema è (anche) una questione di traiettorie e, dove possibile, in quei rari casi di cineasti consapevoli, anche di sfide. Il cinema è, da sempre, orizzontale, anzi negli ultimi decenni sempre più orizzontale, dal momento in cui gli schermi 16:9 hanno sostituito un po’ alla volta i vecchi 4:3. Il grattacielo, invece, è la cosa verticale più grande che sia mai stata inventata dall’uomo. E nel 1974, la cosa più grande era in finale di costruzione al World Trade Center. Le due “Torri gemelle”, alte 415 metri, costituivano all’epoca la sfida più grande che l’uomo avesse mai sperimentato contro la forza di gravità, i due grattacieli più alti di sempre. Da un lato, dunque, abbiamo questa visione verticale, di due “monoliti” kubrickiani, che incredibilmente segnano con la precisione della durata vita umana, il “tempo della modernità” (4 aprile 1973/11 settembre 2001). Dall’altra abbiamo il segno che unisce due punti nello spazio, una linea retta (che ricorre nel film) orizzontale, il luogo preferenziale del funambolo, l’artista della fune.

Orizzontale, verticale.

Sono le traiettorie dello sguardo a colpire in questa esperienza visiva che non può non essere vista in 3D (in mancanza di Imax, in Italia dobbiamo accontentarci). Perché è lo spazio, il vuoto, l’aria, il luogo preferenziale dove il corpo di Petit, ha deciso di vivere. Perché è lì, solo lì sopra che trova il suo senso di vivere. E perché il cinema è soprattutto una questione di “punti di vista” (dal basso, dall’alto, in soggettiva…). Ma, come gli grida con forza il suo maestro, “non c’è spettacolo senza pubblico”. Ed ecco che il suo show deve realizzarsi di giorno, quando tutti possono vederlo esibirsi. Ma, anche, non c’è spettacolo (cinematografico?) senza troupe, senza un’equipe affiatata e organizzata che lo realizzi. Fin troppo facile intravedere nella complessità dell’operazione “camminare su una fune tra una torre e l’altra del World Trade Center”, la complessità del fare cinema. Fare cinema è sempre una questione di equilibrio, soprattutto emozionale. E Robert Zemeckis, consapevole e beffardo, parte proprio da lì. Cosa ci spinge ad affrontare i rischi, per inseguire i nostri sogni? Quale parte di noi, inevitabilmente collocata nel centro nevralgico della giovinezza, ostinatamente si impone a tutto e a tutti pur di affermare la nostra volontà di essere “liberi e indipendenti”? Ecco, The Walk è un magnifico film sulla libertà, ma non solo per la questione del “sovvertire le regole sociali”, ma proprio per questo inseguire un proprio gioco/sogno, che non si sa mai esattamente qual è, ma che continua ad ossessionarci fino a che non lo abbiamo realizzato. Non è un caso che Zemeckis collochi il proprio personaggio narratore sulla Statua della libertà, e che questo ragazzo, oggi uomo (Philippe Petit) venga dalla Francia (proprio come la Statua, del resto). Perché è da lì che viene l’illuminismo, “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve

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imputare a se stesso” come diceva Kant, e l’America, dalla sua fondazione, è la “terra della libertà” per antonomasia, anche se spesso più per dichiarazione d’intenti che nelle pratiche sociali. Ma questa libertà, questo “stato di grazia”, si riesce a provare, a volte, solo per pochi magici istanti, quelli che ci rendono incredibilmente consapevoli di quanto sia necessaria, proprio come l’aria, la condizione di essere libero. E per esserlo realmente spesso bisogna scontrarsi con lo status-quo del “mondo reale”, fatto da uomini pigri che hanno smesso da tempo di sognare per esercitare il loro arbitrio sugli altri, poiché ormai incapaci di esercitarlo su se stessi.

“Dovevo solo restare sul filo”, dice Philippe Petit/Joseph Gordon-Lewitt, ad un certo punto della sua incredibile esibizione. Poliziotti da una parte, Torre Sud, poliziotti dall’altra, Torre Nord. La libertà è nell’aria (ma fate attenzione agli uccelli ….)

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Riflessioni

"The walk" ha fatto centro riuscendo ad essere più forte dei limiti oggettivi imposti dal genere, nonché dei limiti sorti in fase di scrittura a causa del format narrativo adottato. I limiti oggettivi sono quelli insiti in una pellicola che racconta un fatto realmente accaduto, di risonanza mondiale e quindi, si presume, noto a molti dei potenziali spettatori (pur se in Italia, all'epoca, non ebbe in fondo un grossissimo rilievo mediatico). Nel caso specifico, l'evento, per certi versi addirittura epico, è l'incredibile camminata del funambolo francese Philippe Petit su di un cavo teso fra le sommità delle due Twin Towers di New York, nell'agosto del 1974. Riguardo invece ai limiti "autogenerati" da chi ha creato il film, la vicenda è qui evocata in prima persona proprio da Petit (interpretato da Joseph Gordon-Levitt), per cui non è difficile intuirne il finale...: il giovane artista scavezzacollo non solo sopravvive a una tale folle camminata, ma addirittura si permette di andare avanti e indietro più volte sul filo, prima di toccare il terrazzo di una delle due torri.

IL PATHOS PRE - IMPRESA

Ma il fascino, l'impatto emozionale, la forza di coinvolgimento di simili imprese quasi bastano, da soli, ad assicurare il felice esito di una trasposizione in formato celluloide. Quando già si sa come va a finire, cosa fanno un buon regista, un eccellente sceneggiatore e tutto il team creativo? Riescono comunque a modellare una trama "energica", dando il più largo spazio possibile agli elementi della vicenda meno esplorati dalla cronaca giornalistica, se non misconosciuti, e caricando di pathos la parte nota, anche tratteggiandola nei minimi dettagli. Zemeckis e compagnia centrano in pieno il bersaglio, in tal senso: mirabile è soprattutto la ricostruzione di tutta la fase preparatoria della "traversata impossibile". L'analisi maniacale, quasi ingegneristica, della struttura delle torri, i materiali da utilizzare, i parametri di sicurezza da rispettare, le misurazioni che devono essere precise al millimetro, le astuzie da adoperare per mettere a punto il tutto senza farsi scoprire dai vigilanti in servizio nel World Trade Center. Ne viene fuori il quadro di un apparato organizzativo profondamente professionalizzato, ancorché messo in piedi da giovani ribelli, sognanti, estrosi (Petit e i suoi "complici"). Il messaggio è preciso: la voglia di strafare fine a se stessa, la genialità non adeguatamente canalizzata, non portano da nessuna parte, se non sono sostenute da una base di raziocinio, da una seria e meticolosa cura dei particolari. In fondo, è lo stesso discorso, amplificato all'ennesima potenza (perché qui di mezzo c'è addirittura la vita, la sopravvivenza) applicabile a sportivi particolarmente talentuosi, ma che quel talento non sono in grado di gestirlo con il dovuto equilibrio, finendo col fornire un rendimento nettamente inferiore alle potenzialità.

MAGIA NARRATIVA

Poi, la lunga narrazione della camminata, che occupa in pratica l'intero secondo tempo di "The walk". Impreziosita da strepitosi effetti speciali e dall'abilità ginnica di Gordon-Levitt, la ricostruzione per il grande schermo risulta oltremodo efficace, mozzafiato. Una sfida ai confini della realtà che, lo ripetiamo, non aveva bisogno di thrilling né di incertezza per risultare coinvolgente, ma se la tensione rimane intatta fino in fondo è anche merito di una magia narrativa che non tutti i cineasti sono in grado di generare: sappiamo benissimo che Petit non cadrà mai,

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nemmeno quando ha un attimo di incertezza e l'equilibrio sembra vacillare, nemmeno quando viene sfiorato da un uccello, eppure restiamo col cuore in gola, ansiosi di sapere cosa accadrà pochi secondi dopo.

TUTTI PROTAGONISTI.

E IL WTC...

C'è un'ottima caratterizzazione dei personaggi, cosa tutt'altro che scontata per un film monopolizzato dalla personalità del protagonista assoluto. Petit recita da mattatore ma non deborda, riesce a non mettere in ombra i vari comprimari, i compagni di avventura i cui ruoli nella vicenda vengono adeguatamente valorizzati, tratteggiati con essenziale completezza: alla fine, di ciascuno di essi abbiam saputo tutto ciò che era necessario sapere; e anche quello di Ben Kingsley, burbero "maestro d'arte" del giovin funambolo, è tutt'altro che un cameo: un vecchio saggio al quale bastano poche apparizioni per incidere profondamente nel tessuto del racconto.

Certo, ad accentuare il potenziale emotivo contribuisce anche la ricostruzione virtuale delle due torri, tornate a nuova vita grazie alle moderne tecnologie filmiche: un convitato di pietra, il WTC, sul quale nella pellicola si evita di ricamare troppo, per non cadere nel retorico. Ma le Twin sono una presenza pressoché costante, occupano silenziosamente la scena quasi più dello spericolato equilibrista.

PETIT UN EROE?

Ovvio, poi, che in opere come queste l'esaltazione acritica dell'impresa narrata sia la trappola in cui anche i registi più scafati tendono a cadere. Del resto, non è compito del cinema, di fronte a certi eventi eccezionali, tranciare giudizi e sindacare sull'opportunità di lanciarsi in tali prodezze. Lo spettatore forse non riuscirà mai a considerare Philippe Petit un eroe, un genio. Certo è uno che ha realizzato un suo sogno e che ha dimostrato come, spesso, gli uomini possano mettere a segno conquiste sulla carta impossibili. Ma sfidare la sorte e spingersi continuamente al limite, e anche oltre, non è un merito, neanche quando lo si fa sorretti da solida preparazione, come in questo caso. Petit non può essere un esempio a cui guardare. I veri eroi sono quelli delle sfide quotidiane, delle battaglie contro gli ostacoli della normalità. "The walk" resta un tributo ottimamente confezionato, che dona un'aura da epopea al fatto e universalizza un'impresa altrimenti destinata a restare patrimonio condiviso di un pubblico di nicchia, quello formato da chi di certe alzate di ingegno sente parlare dalla tv (che le riporta come notizie "bizzarre") per poi dimenticarsene.

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Robert Zemeckis

Chicago 18 dicembre 1956

Regista e sceneggiatore norvegese.

Zemeckis nasce a Chicago (Illinois) in una famiglia cattolica di origini lituane da parte di padre; la

madre è italoamericana, originaria di Arquata del Tronto in provincia di Ascoli Piceno.

Inizia a girare i suoi primi corti da adolescente, durante il liceo. Field of Honor, uno di questi, ottiene lo

Student Academy Award come "miglior film studentesco", lanciando la carriera del giovane cineasta.

Dopo il liceo si diploma alla University of Southern California School of Cinematic Arts, uno dei più

importanti istituti di cinematografia degli USA.

La collaborazione con Spielberg

Dopo aver finito gli studi, viene scoperto e lanciato da Steven Spielberg, insieme allo scrittore Bob Gale, suo amico e fedele collaboratore (insieme al musicista Alan Silvestri), che aveva conosciuto durante una visita agli studi della Universal Pictures. Spielberg gli affida, come primo lavoro, la regia di 1964 - Allarme a N.Y. arrivano i Beatles! (1978). Successivamente, Zemeckis, sempre insieme a Gale, firma la sceneggiatura di 1941: Allarme a Hollywood (1979), diretto dallo stesso Spielberg, con Dan Aykroyd e John Belushi per poi dirigere, sempre prodotto dal regista di Cincinnati, La fantastica sfida con Kurt Russell.

Il successo

Il successo arriva pochi anni dopo, nel 1984, con il film All'inseguimento della pietra verde, dove Zemeckis ha a disposizione due star di alto livello come Michael Douglas e Kathleen Turner affiancati da Danny DeVito. L'anno successivo Zemeckis dà vita alla saga di Ritorno al futuro, con protagonisti Michael J. Fox e Christopher Lloyd. Il film gli vale la nomination all'Oscar per la "miglior sceneggiatura originale". Nonostante il grande successo, però, bisogna attendere quattro anni per veder continuare le gesta di Marty McFly e del Dr. Emmet Brown: nel 1989 e 1990 gira in successione i due sequel Ritorno al futuro - Parte II e Ritorno al futuro - Parte III, che si rivelano due grandi successi al pari del primo film della trilogia.

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Nel 1988 si rende protagonista di una pietra miliare della storia del cinema, rivoluzionando il mondo dell'animazione con Chi ha incastrato Roger

Rabbit (vincitore di 3 premi oscar), che propone un inedito crossover tra attori in carne ed ossa, tra i quali spicca Bob Hoskins, e cartoni animati. Nel 1992 appare sul grande schermo un altro dei suoi brillanti lavori premiato ancora con l'Oscar, La morte

ti fa bella, ricco di effetti speciali e con un cast sbalorditivo (Meryl Streep, Goldie Hawn, Bruce Willis e Isabella Rossellini). Con Forrest Gump arriva l'ambita statuetta dell'Academy per la "miglior regia", mentre il protagonista Tom Hanks, più volte diretto dal regista, ottiene quella come "miglior attore protagonista". Qualche anno dopo torna alla fantascienza con Contact del 1997 che vede come protagonista Jodie Foster. In tanti dei suoi film, Zemeckis collabora con il famoso compositore statunitense Alan Silvestri (famosissime la colonna sonora di Forrest Gump e quella di Ritorno al futuro).

Gli ultimi lavori e la Performance Capture

In Cast Away (2000) torna ancora a lavorare con Tom Hanks, girando nel medesimo periodo anche Le verità nascoste con Harrison Ford e Michelle Pfeiffer (esperienza, quella di dirigere due film contemporaneamente, ripetuta anche ai tempi di Ritorno al futuro - Parte II e Ritorno al futuro - Parte III). Dopo questi lungometraggi non tornerà dietro la macchina da presa per quattro anni, fino al 2004, quando dirige lo sperimentale Polar Express. Questo film viene girato con una particolare tecnica di rielaborazione digitale detta Performance Capture: tramite dei sensori elettronici posti sul corpo dell'attore vengono "catturate" dal computer le movenze e le espressioni di quest'ultimo. L'immagine dell'attore in un secondo momento viene digitalizzata e plasmata a piacimento arrivando ad un effetto straordinariamente realistico, per quanto posticcio. Grazie proprio a questa speciale tecnica, nel film Tom Hanks avrà la possibilità di ricoprire ben tre ruoli cambiando sempre aspetto grazie alla digitalizzazione ma mantenendo le sue movenze e le caratteristiche delle sue interpretazioni. La Performance Capture, inoltre, permette alla macchina da presa di muoversi più agilmente sul set (che, come per gli attori, viene digitalizzato e creato in un secondo momento; le scene vengono difatti girate in studio), potendo permettere a Zemeckis di girare lunghi piano-sequenza virtuosistici e inquadrature altrimenti impossibili (in questo senso è emblematica la scena del biglietto che vola via dal treno). Nel 2007 Zemeckis torna al cinema e alla Performance Capture con La leggenda di Beowulf, rivisitazione cupa e a tratti pulp del più lungo, e forse più antico poema in lingua inglese. Rispetto al suo predecessore, con La leggenda di Beowulf si ha un'evoluzione della tecnica della Performance Capture: le immagini risultano ancora più realistiche e, grazie a dei nuovi sensori applicabili sugli occhi, gli sguardi risultano più espressivi e parzialmente meno vitrei rispetto alle più comuni elaborazioni digitali. Anche in questo film la fantasia di Zemeckis e la nuova tecnica creano un mix ottimamente orchestrato: i personaggi invecchiano visibilmente grazie al digitale senza l'ausilio di

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lunghe ore in sala trucco e dispendi ulteriori dal punto di vista produttivo, inoltre l'attore che interpreta il ruolo di Beowulf, Ray Winstone, viene completamente trasformato e dotato di un fisico statuario che nella realtà non possiede assolutamente (venne infatti scelto da Zemeckis solo ed unicamente per il timbro vocale estremamente grave e fermo). Lo stesso anno la Disney annuncia di aver affidato a Zemeckis una rivisitazione cinematografica del Canto di Natale di Charles Dickens (terza rielaborazione offerta dalla Disney del classico di Dickens dopo Canto di Natale di Topolino del 1983 e Festa in casa Muppet del 1992). A Christmas Carol vede la luce del proiettore nel dicembre del 2009 e anche qui il regista non rinuncia alla Performance Capture, ideale per rappresentare i folli voli di Ebenezer Scrooge (interpretato da Jim Carrey) sopra la Londra vittoriana durante la notte di Natale. La tecnica si affina ulteriormente e permette una trasformazione radicale della fisionomia di Carrey rendendolo notevolmente più anziano e praticamente irriconoscibile nei panni del vecchio usuraio. Carrey interpreta, oltre al ruolo del protagonista, anche quello dei tre fantasmi del Natale (Passato, Presente e Futuro). A tratti cupo e generalmente fedele al racconto originale, A Christmas Carol ottiene un buon successo al botteghino grazie alle possibilità della narrazione e della messa in scena capace di interessare sia gli adulti che i bambini. A giugno 2011 Zemeckis torna alla regia di un film live action (a undici anni da Cast Away): Flight, con Denzel Washington e John Goodman. Uscito nelle sale americane il 2 novembre 2012, e in quelle italiane il 24 gennaio 2013, il film riscuote un discreto successo di critica e pubblico.

FILMOGRAFIA

• The Lift (1971, cortometraggio) • A Field of Honor (1973, cortometraggio) • 1964 - Allarme a N.Y. arrivano i Beatles! (I

Wanna Hold Your Hand, 1978) • La fantastica sfida (1980) • All'inseguimento della pietra

Verde (1984)

• Ritorno al futuro (1985) • Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

• Ritorno al futuro - Parte II (1989)

• Ritorno al futuro - Parte III (1990) • Incubi (Two-Fisted Tales, 1991) - film TV,

segmento Yellow, co-regia insieme a Richard Donner e Tom Holland

• La morte ti fa bella (1992)

• Forrest Gump (1994)

• Contact (1997) • The 20th Century: The Pursuit of

Happiness (1999, documentario TV) • Le verità nascoste (2000) • Cast Away (2000) • Polar Express (2004)

• La leggenda di Beowulf (2007)

• A Christmas Carol (2009)

• Flight (2012) • The Walk (2015) • Allied - Un'ombra nascosta (2016) • Benvenuti a Marwen (Welcome to Marwen)

(2018)