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www.arcipelagomilano.org numero 44 anno VI 17 dicembre 2014 edizione stampabile

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numero 44 anno VI – 17 dicembre 2014

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n.41 VI 26 novembre 2014 2

IL MESSAGGIO DI FINE ANNO DI PISAPIA: PER SOGNARE ANCORA Luca Beltrami Gadola

Il messaggio del Presidente Giorgio Napolitano del prossimo 31 dicem-bre non sarà usuale: è il suo ultimo, la sua ultima esternazione prima di lasciarci. Lo attendiamo con ansia e ne abbiamo bisogno perché come ha già fatto negli anni scorsi, ci rac-conterà del passato recente e ci da-rà speranza per il futuro, accompa-gnata da saggi ammonimenti. Im-magino che ci stia già pensando, anche se la fine d’anno non è così vicina. A noi milanesi piacerebbe forse an-che ascoltare un messaggio di fine anno del nostro sindaco, certo non trasmesso a reti unificate, magari in streaming, magari un video sul sito del Comune annunciato dalla stam-pa cittadina. Vorremmo un “suo” racconto dell’anno che si chiude e il suo racconto volto al futuro. Chi ri-percorre il passato, inconsciamente mettendo in luce alcune cose e la-sciandone in ombra altre, in qualche modo descrive se stesso a chi lo ascolta e lascia intravedere il rac-conto del futuro. L’anno che si chiude credo sia stato uno dei più difficili dopo la lugubre parentesi degli anni di piombo che ancora ricordiamo mentre ora fortu-natamente la memoria va a una quasi normalità. La crisi economica ha costretto l’amministrazione a fare scelte difficili sulla pelle dei cittadini, appesantita dal lascito morattiano di una situazione finanziaria grave-mente compromessa. Sul versante

della corruzione, già in febbraio do-po sette mesi di istruttoria, l’«Ufficio di supporto della sezione specializ-zata del comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sulle grandi opere Expo Milano 2015» sente puzza di bruciato sul contratto Mal-tauro-Expo2015: in maggio gli arre-sti eccellenti e il seguito che tutti conoscono. Expo con i suoi ritardi finisce con l’essere una sorta di basso continuo che accompagna tutte le vicende milanesi durante lo sfortunato 2014. Sempre maggio 2014, il Consiglio Comunale approva il PGT che ri-sente pesantemente dell’imposta-zione data da Masseroli, assessore della giunta precedente, che ne fu l’estensore ma la cui approvazione venne sospesa nel novembre 2011. Ne nasce un PGT che a molti non piace, io tra quelli. Si parla già di uno nuovo. Intanto il Seveso ci re-gala 4 esondazioni - giugno, luglio, agosto e novembre – che se si ripe-teranno negli stessi periodi l’anno prossimo avremo un’Expo bagnata. Si riapre l’annosa questione dei provvedimenti da prendere. Opinioni diverse, forse una scelta miope. L’anno si chiude con la vicenda M4 e di questi giorni l’ennesimo scan-daletto legato al Pio albergo Trivul-zio. Finito l’elenco e lasciando a Walter Marossi su queste stesse pagine di raccontarci la politica, mi accorgo di avere elencato tutte cose che rappresentano la gestione di

code velenose del passato. Niente di “suo” per questa giunta? Si, alcu-ne cose anche importanti. La mano ferma sull’Area C, che molti conte-stavano, l’assegnazione per attività sociali di immobili di proprietà pub-blica o provenienti da confische di beni mafiosi, il coraggio di sganciare il patrimonio residenziale pubblico dalla gestione Aler (con qualche ri-schio), la capacità di accoglienza per i profughi in transito verso il Nord Europa, la revoca di alcune concessioni in materia di parcheggi sotterranei ancora da realizzare, e per finire, l’inserimento della nostra città tra quelle che nel panorama internazionale affrontano i problemi del terzo millennio. Questa sommaria carrellata è per ricordare il passato recente. E il fu-turo? Questo racconto lo vorremmo dal sindaco Pisapia. Vorremmo che ci parlasse di tante cose: come chiudere quel che resta delle code morattiane, come pensa di gestire la Città Metropolitana, e in che ruolo, come rispondere a chi gli rimprove-ra di aver tanto parlato ma poco praticato il sentiero della partecipa-zione, come pensa di lottare contro la mafia oltre a compiacersi dei ri-sultati di polizia e magistratura, quali sono gli ultimi passi che vuol far fare alla città per prepararla a Expo2015. Senza farla lunga, chi meglio di lui conosce i problemi della città? Ce ne parli, ci racconti il suo 2015.

MILANO: L'ANNO VECCHIO È FINITO ORMAI MA QUALCOSA ANCORA QUI NON VA Walter Marossi

Il 2014 è iniziato nel segno della continuità politico/amministrativa con gli ultimi anni: il sindaco prote-sta contro il governo per i tagli (14 Gennaio “mi rifiuto di aumentare ancora le tasse o di metterne di nuove. Abbiamo già fatto tutto il possibile, ora tocca al governo”), si annunciano grandi novità per risol-vere il problema di Malpensa, si in-formano i cittadini della fine dei la-vori in Stazione Centrale, si tromba Boeri (alla Triennale), si litiga sull'E-xpo e sull'Aler con la Regione. Feb-braio e Marzo proseguono senza grandi novità: si discute di come salvare Malpensa, si protesta contro i tagli di Roma, si tromba Boeri (co-me capolista alle europee), si litiga sull'Expo e i suoi canali etc. Ad Aprile un primo segnale dello stato d'animo del PD renziano, il

segretario Bussolati, manifesta la sua insoddisfazione sulle nomine cioè le poltrone, di Palazzo Marino: “Accettiamo la scelta del sindaco con rammarico, avevamo chiesto un indirizzo politico all'insegna del rin-novamento, invece passa la con-servazione dell'esistente”. Accusato di conservatorismo il sindaco ri-sponde con la pacatezza di Luca Brasi: “Pensavo che l'epoca dei diktat dei partiti fosse finita. Sono fiero di aver sempre scelto in piena autonomia. Ho deciso nel merito, in base alla professionalità e ai risulta-ti, non alle richieste dei partiti. Mi chiedo come mai il segretario del PD non si sia "rammaricato" per le altre nomine effettuate”. In pratica Pisapia comunica alla sua coalizione che dei partiti se ne stra-fotte e che il segretario del PD nelle

vicende amministrative non conta una sverza. Il PD incassa il ceffone ma a Maggio ottiene alle europee il miglior risultato di sempre e può le-gittimamente rialzare la cresta: Boe-ri (un filo incazzato) dichiara “Ades-so è ora che questo PD maggiorita-rio, innovatore e aperto cominci a contare di più anche a Milano: ne abbiamo un gran bisogno” ma è Al-fieri, la vera eminenza grigia del si-stema a essere esplicito: ”Con Giu-liano lavoriamo bene, al momento opportuno ragioneremo insieme sul futuro”, come dire prima o poi fac-

ciamo i conti; anche se quello che interessa al segretario regionale è il dopo Maroni, cui senza tante ambi-guità mostra di ambire. Luglio è il mese più difficile per la maggioranza di palazzo Marino. L'esondazione del Seveso mette a

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dura prova tutta la politica di buona amministrazione ed efficienza della giunta che fin qui ha goduto di buo-na popolarità e insinua il dubbio nell'opinione pubblica che, oltre che senza soldi, Pisapia sia anche a secco di “carattere”. A introdurre una nota ilare è tale Gallera che per il centro destra dichiara: ”La ricon-quista di Milano è nella mia agen-da”. Nel frattempo ovviamente si parla della sistemazione del caso Sea Malpensa, dei troppi tagli di Roma, della sistemazione definitiva della stazione Centrale etc. Agosto politicamente parlando è il mese più importante dell'anno. Il sindaco dichiara “ci vuole un cen-trosinistra unito, che oggi non c'è. La sinistra deve stare con Renzi” come dire bye bye Sel et similia, occorre dar vita a qualcos'altro per-ché il PD locale è inadeguato. “Non intendo fondare un nuovo partito ma essere un ponte”. Immediatamente si iscrivono all'albo dei costruttori del ponte assessori entusiasti, diri-genti di svariati partiti minori, tutto quello che resta del vendolismo e qualche PD eccentrico. Dissente solo Ambrosoli (“non faccio parte di questo esperimento “neoarancione”, il civismo non ha connotazioni clas-siche di destra o sinistra”) che in pratica annuncia il suo l'addio alla politica che conta. Tocca all'imper-turbabile Alfieri rispondere con qualche acrobazia: “Pisapia è già percepito come sindaco del PD, lo vedrei bene con noi.” Come dire “giò i man dal nichel”, ma è palese che il partito maggioritario è preso in contropiede e che del ponte farebbe volentieri a meno anzi lo userebbe come fu usato per Calvi. Nel frattempo ovviamente si litiga con la regione sull'Expo e sull'Aler (Maroni da del casciaball a Pisapia), si argomenta di come salvaguarda-re Malpensa, si annunciano grandi trasformazioni in stazione Centrale, si protesta per i tagli di Roma. Il primo effetto del rilancio del sin-daco si vede a Settembre quando alle elezioni per il consiglio metropo-litano (organismo allora ignoto ai più oggi dimenticato da tutti) il PD vince alla grande ma non stravince e so-pratutto la scelta degli uomini non è proprio nel solco delle indicazioni del gruppo dirigente federale. Pisa-pia ribadisce che resterà a Milano (anche se non si hanno notizie di campagne acquisto da Roma). A rallegrare la gauche ci pensa come sempre il centro destra che mentre dichiara che occorre salvare Mal-pensa riesce a far fare a Lupi il peggior decreto che la Sea potesse aspettarsi, continua a lacerarsi sulla

necessità di un rimpasto in regione mentre chiude sedi, giornali e licen-zia dipendenti. Manca solo il cartello “in liquidazione”. A Ottobre il Comune rilancia sui di-ritti civili (nozze gay), sulle necessità dell'accoglienza ai profughi e ov-viamente protesta con Roma e con la Regione per i tagli anche se or-mai la litania è stata sentita così tante volte e a giustificazione di così tante cose che la giunta sembra un comitato di piagnoni. Protagonista assoluto del mese è però il centrodestra o meglio Salvini: si inserisce nella lenta agonia del berlusconismo buttando a mare o-gni velleità secessionista rilanciando la difesa della Patria contro l'inva-sione di rom, mussulmani e culatto-ni. Sostenuto da Casa Pound, Le Pen, e Putin si propone di sfidare non più Pisapia, derubricato a pro-blema locale, ma Berlusconi prima e Renzi poi. Milano torna sul palco-scenico nazionale, sia pure con un guitto, dopo una lunga assenza. Nel frattempo si discute di Sea Malpen-sa (Gamberale da del pover'uomo al sindaco) si litiga sull'Expo e l'Aler, si annuncia la prossima conclusione dei lavori in Stazione Centrale. A Novembre il PD per bocca dell'ex sindaco di Lodi (ma il virgolettato viene duramente smentito) ci ripro-va a condizionare Pisapia: “Il tempo stringe, il sindaco deve dirci che co-sa intende fare. Non possiamo arri-vare impreparati alla scadenza del 2016”, ottenendo una risposta con sputazza: “Non mi faccio certo det-tare l’agenda dalla segreteria nazio-nale del PD”.

Memori del maresciallo Ney e del suo “lo riporterò in una gabbia” la falange assessorile PD si schiera: Pierfrancesco Majorino: “Con il sin-daco il PD a Milano è correttissimo, ma ai nostri romani dico che non sarà il gioco delle correnti a dirci che cosa fare; abbiamo un candida-to fortissimo e si chiama Pisapia”. Pierfrancesco Maran: “Il PD ha già detto più e più volte che sta con Pi-sapia”, confortati anche dai colleghi più radicali: “Sono certa che Giulia-no guiderà Milano anche dopo il 2016”, Cristina Tajani. A fare il “pompiere”, per la verità con l'entusiasmo di Armonica in C'e-ra una volta il west, arriva Alfieri: “Pisapia è il nostro candidato. Se lui ci sarà, noi saremo con lui... Per capirci: se fallisce Pisapia non è che il PD vince. I nostri destini sono in-trecciati“. L'uscita dei nomi dei po-tenziali candidati alternativi determi-na comunque il momento nel 2014 di maggior allegria politica nel cen-trodestra .

Il povero Bussolati probabilmente all'oscuro della vicenda è costretto a prendersela con Repubblica, con Majorino e a prospettare futuri capi-delegazioni in giunta (gli interessati pensando a Boeri fanno scongiuri), riesce però anche a rilanciare e a intestarsi la decisione della nuova metrò, litigando con D'Alfonso il re-sponsabile dei granatieri della vieille garde (che venivano anche chiamati les grognards) di Pisapia che battu-to accende con la Balzani ceri votivi in attesa del Tar. Nel frattempo si discute di come salvare Malpensa, della nuova Sta-zione Centrale, si litiga sull'Aler e l'Expo ed esonda il Seveso. Tempi difficili per la maggioranza se non ci fosse il centro destra a rimet-terla di buon umore, con Albertini che taglia i ponti di un possibile ac-cordo per le elezioni comunali con la Lega, candida Lupi e contempo-raneamente lo dichiara (Lupi il mini-stro di Renzi e di Alitalia) vicinissimo a Berlusconi. Neanche il Niccolai dei tempi migliori faceva simili auto-gol. Tra i berluscones serpeggia e-splicitamente il timore del futuro e sorge Agorà, una associazione di professionisti della politica che parla di rinnovamento e di rifondazione; in pratica si apprestano le scialuppe di salvataggio. Non corrisponderebbe invece al ve-ro la notizia di un attacco di ulcera a Pisapia in occasione del premio al Bosco Verticale di Boeri. Arrivando a Dicembre possiamo fa-cilmente immaginare come inizierà il 2015. Il PD anche se lacerato dal conflitto Renzi versus conservatori interni e da quello tra renziani di primo o se-condo letto resterà l'unico partito su piazza ma ancora senza una strate-gia definita per le elezioni comunali e regionali e senza una leadership locale forte. Gli equilibri interni più che da congressi e primarie verran-no stabiliti dalla nuova legge eletto-rale che consentirà di distinguere d'acchito tra sopravvissuti e agoniz-zanti. Con la primavera comincerà la cac-cia al segretario e si auspicherà un rimpasto di giunta che non arriverà. Le provincie non milanesi comince-ranno a litigare sul candidato a go-vernatore. Pisapia lascerà liberi i suoi di orga-nizzarsi sia all'interno del PD sia nel neoarancionismo civico, godendo dell'appoggio incondizionato dei renziani di secondo letto e di tutti i non PD che del resto alternative non hanno. Privo di competitor in-terni e privo di competitor nel centro destra rinvierà le decisioni fidando

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in un successo dell'Expo. Tuttavia l'evolversi dello scontro tra renziani e non nel PD e nel paese potrebbe non consentirgli di galleggiare. É capitato più volte che il sindaco di Milano anche se popolare, soccom-besse per dinamiche nazionali (Greppi, Bucalossi, Tognoli). Salvini e la Lega, se riusciranno a seppellire il dissenso di Maroni e degli altri amministratori, prosegui-ranno una battaglia solitaria neo

conservatrice e fascistoide sprez-zando le richieste di accordo che perveranno dal berlusconismo che a sua volta si sfalderà progressiva-mente in un arcipelago di gruppi e famiglie in attesa dell'unico avveni-mento rifondativo che conta per lo-ro: l'addio a Berlusconi. Insomma sono i migliori alleati del sindaco. Tutta la politica milanese, tonificata dal caso Buzzi/Alemanno, affronta

l'anno ritenendosi più forte e in van-taggio rispetto ai “romani”. Ovviamente si discuterà di come salvare Malpensa, si protesterà per i tagli di Roma si litigherà sull'Aler e sul dopo Expo, ma finalmente si i-naugurerà la nuova piazza della stazione Centrale e il suo primato: tempi di realizzazione superiori a quelli del Colosseo, della Tour Eiffel e dell'Empire State Bulding messi insieme.

DICEMBRE 2014. GIUNTA MILANESE, INNOVARE PER NON MORIRE Giuseppe Ucciero

Cosa resterà di questo 2014? Ce lo chiediamo come in una famosa canzone di molti anni fa. Molte cose si potrebbero dire sulla nostra con-dizione milanese, ma due ci sem-brano quelle prevalenti di segno. Lo spappolamento della politica e l'ap-pannamento dell'amministrazione di Giuliano Pisapia. Partiamo dalla seconda. Cominciato l'anno senza troppe nuvole all'oriz-zonte, il cielo si è fatto via via sem-pre più cupo, opprimente, denso di minacce, quasi angoscioso. Ci vuo-le davvero tanta forza e tanta con-vinzione per reggere la congiuntura, certo, ma da sole non bastano. Oc-corre la lucidità di un disegno politi-co, che, ammettiamolo, sta rivelan-do qualche limite di troppo: scarsa attenzione alle periferie e ridotta partecipazione alle scelte. Ne parliamo con franchezza, ben conoscendo i meriti, se si vuole an-che straordinari, che comunque vanno riconosciuti a Giuliano Pisa-paia e alla sua squadra. Non c'è dubbio che questa amministrazione abbia riportato all'onor del mondo il buon nome di Milano, reintroducen-do una cifra etica che ormai si pen-sava persa dopo vent'anni di bosso-berlusconismo. Ma non basta, non basta essere onesti e trasparenti, non basta ap-puntarsene meriti (a partire dal PGT) e coccarde, prima di tutto per-ché la memoria è labile e poi perché qualsiasi cittadino avrebbe buon di-ritto ad affermare che onestà e tra-sparenza del politico non sono fini ma modalità per raggiungere fini. E questi lasciano sempre più a desi-derare. Certo le "bombe d'acqua", certo le strette finanziarie, certo i Rom, ma alla fine non si riesce a scrollarsi di dosso la sensazione un po' sgrade-vole che almeno nella prima parte del suo mandato, Pisapia abbia concentrato azione e comunicazio-ne su contenuti e bisogni comples-

sivamente poco attenti alla condi-zione delle periferie, queste sì vere bombe politico sociali. Un eccellente Presidente di Zona come Gabriele Rabaiotti ha lanciato qualche tempo fa un accorato grido di dolore, segnalando una condizio-ne di sofferenza ormai non più so-stenibile. Su questo punto essenzia-le, l'azione amministrativa e politica di Pisapia non è apprezzata dai cit-tadini e inevitabilmente tocca subire l'agitarsi disordinato ma politicamen-te produttivo della Lega e della nuo-va destra populista. In realtà, tra periferie e nuova archi-tettura della rappresentanza e della partecipazione democratica vi è uno stretto nesso, e forse non è casuale che la lentezza con cui finora si è generata innovazione nelle forme e nei poteri effettivi delle Zone, con-corra alla perdita di contatto con le periferie. Certo anche qui, contano le difficol-tà dello scenario, i nodi e le con-traddizioni di una governance dell'a-rea metropolitana che induce a ri-mandare le scelte, ma, alla fin della tenzone, al cittadino residua l'amaro in bocca, il toccar con mano la con-traddizione patente tra scenari par-tecipativi annunciati e perdurante assenza dei canali concreti in cui poter concorrere a decisioni. Niente referendum di zona e cittadi-ni, niente allargamento dei poteri delle zone, niente innovazione di governance delle municipalizzate. Il cahier de doleance del cittadino

democratico comincia ad essere lungo ... . Questa difficoltà dell'inno-vazione politica sembra avere via via disseccato le stesse fonti del consenso a Pisapia, laddove i Co-mitati non hanno potuto, e non po-tevano, essere altro che forme di volontariato militante e non di parte-cipazione allargata. La carenza di nuove forme della politica si è intrecciata con la crisi della rappresentanza partitica, tanto

più rovinosa a destra, ma prevalen-te ormai anche a sinistra. Si ha un bel dire dei grandi risultati del PD renziano alle europee, ma senza entrare nel merito delle scelte che li hanno tradotti in fatti di governo, re-sta sul terreno una disaffezione tan-to estesa quanto sempre meno re-cuperabile. Tra società e rappresen-tanza partitica il solco cresce, e bi-sogna pur dire che non tutto va messo in conto alla politica. Vi è anche a Milano, anche se me-no che in altre parti d'Italia, il riaffio-rare dell'individualismo, fiume carsi-co plurisecolare, della prevalenza del "particulare" giucciardiniano, tanto più forte oggi certo per effetto della caduta di visioni politiche unifi-canti. Ma neppure si può riportare ogni domanda di autonomia e di non delega alle rappresentazioni del becero individualismo e del qualun-quismo antipolitico che così ben lo esprime. Serve ben distinguere. Resta però che scarsa partecipa-zione e crescente atomismo sociale si intrecciano e sostengono a vicen-da, ciascuno generando le premes-se dell'altro, e producendo infine spappolamento della politica, ridotta a grida da sotto e da sopra, a mar-keting politico e rabbia senza sboc-co. Servirebbero dei corpi intermedi funzionanti, capaci di connettere l'individuo alle istituzioni, nuovi isti-tuti e antiche rappresentanze. Certo qualcuno come Don Abbondio potrebbe anche dire: "la visione dell'interesse generale, uno, se non ce l'ha, mica se la può dare", ma, e qui finisce il paragone, la politica come rappresentazione del bene comune, è fatta, più che di coraggio, di una lucida comprensione dei meccanismi sociali che ci legano tutti, gli uni agli altri, e dell'importan-za dei luoghi della dialettica, della partecipazione, delle decisioni col-lettive. Il vecchio linguaggio della Politica asseconda lo spappolamento della

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Politica, con il rischio di coinvolgere anche la nostra amministrazione, di cui si può ben dire che non ha finora demeritato, ma della quale si può

ben prevedere che, senza un bel colpo di barra, si troverà sempre più in difficoltà.

È stato un mediocre 2014, ma non vorremmo che si avverasse il detto "quando si tocca il fondo, comincia-te a scavare".

CITTÀ METROPOLITANA. COSA C’È DOPO LO STATUTO Fabio Arrigoni

In settimana dovrebbe arrivare all’approvazione lo Statuto della Cit-tà Metropolitana. Il testo – fin troppo articolato – detta i principi cui s’ispira l’ente, le competenze degli organi, i rapporti con i Comuni e le aree omogenee (ossia – semplifi-cando- l’insieme di più Comuni) e con le Zone di Milano, gli strumenti di partecipazione popolare, l’orga-nizzazione, le norme transitorie in attesa dell’elezione diretta di Sinda-co/a e Consiglio metropolitano. Ov-viamente, il testo potrà piacere ad alcuni ed essere criticato da altri. Come tutti i testi statutari (ossia de-stinati a essere l’impronta di un en-te) anche questo è evidentemente migliorabile; e lo sarà anche dopo l’approvazione. Quel che oggi conta è, però, che sia varato nei tempi che la legge prefissava. Da troppi anni si parlava di Città metropolitana, la-sciando poi la “cosa” nel cassetto a prendere la polvere. La discussione sul testo - si direbbe - è stata più soffusa che diffusa. V’è però da notare che il cittadino è por-tato a conoscere e riconoscere un ente pubblico quando ha a che fare con esso. La sfida che la Città me-tropolitana ha davanti è quella, ap-punto, di iniziare a operare. E dive-nire “cosa” dei cittadini milanesi, in-

tesi come i cittadini della Milano grande, non limitata ai confini del comune capoluogo. È evidente che la gestione di una serie di servizi e beni, in particolare i trasporti, la programmazione urba-nistica di area vasta, con le strutture di comunicazione, il coordinamento dello sviluppo economico, con la ricerca in primo piano, hanno una migliore opportunità se progettati insieme, su un territorio largo. Nell’architettura dello Statuto, ciò funziona se avvengono due “ces-sioni di poteri”: quella della Regione, che si dovrebbe dedicare di più alla legislazione e di meno (molto di meno) alla gestione; quella dei Co-muni che riconoscono che alcuni servizi possono essere meglio fun-zionanti se progettati sul territorio vasto. Evidente la preoccupazione che, senza adeguati “contrappesi”, il Comune di Milano si possa travesti-re da Città metropolitana, facendo un po’ come Packman nell’omonimo giochino (il quale, a essere capaci, mangia un po’ tutti, salvo rischiare d’essere mangiato). Di qui la necessità che il comune di Milano faccia un passo in più nella cessione di poteri: non solo verso la Città Metropolitana ma, pure facen-

do divenire le Zone Municipi, con relativi poteri (quali quelli dei Muni-cipi di Roma Capitale) e autonomia. Ma la ragione di trasformare le Zone in Municipi non risiede solo in quel “contro bilanciamento” (o nel fatto che ciò costituisca una delle condi-zioni per l’elezione diretta del/della Sindaco metropolitano (e relativo consiglio). I Municipi stanno nel programma del Sindaco Pisapia e (a prescindere, se si vuole, o) a maggior ragione per la Città metropolitana sono un atto dovuto per modernizzare una amministrazione di Milano città troppo centralizzata, così da sentire troppo poco i cittadini e le problema-tiche insorgenti (e sentire non è solo udire, ma l’insieme dei sensi). C’è l’impegno a che nello Statuto del Comune di Milano ci siano i Mu-nicipi: sia pur con qualche ritardo, siamo vicini a un testo da discutere in Consiglio comunale. Insieme, po-tranno esserci degli aggiustamenti dei confini zonali, per fare correzioni opportune di alcune storture (non per rifare tutto, il che significherebbe bloccare e perdere altro tempo). Meglio quindi lasciare da parte i “se” e i “ma”: il disegno nuovo può con-tribuire a riattivare una amministra-zione oggi troppo spesso inadatta.

ARCHITETTI IN CRISI: UN FUTURO DA PROFESSIONISTII 2.0? Giuseppe Longhi

Il Consiglio Nazionale degli Archi-tetti, per voce del suo Presidente, illustrando i risultati della quarta in-dagine sullo stato della professione promossa dallo stesso Consiglio in collaborazione con il Cresme, si aggrega al lamento internazionale per la caduta del mercato profes-sionale (“siamo alla soglia della po-vertà” dichiara il Presidente), di

conseguenza invoca “un grande progetto governativo d'investimento in idee e denaro sulle città per in-tervenire sugli 8 milioni di edifici che si avviano a fine vita; per risparmia-re 25 miliardi di euro all'anno di e-nergia; per mettere le case e le città in sicurezza da sismi e inondazioni; per realizzare spazi pubblici che ridiano il senso delle comunità, ri-creando le condizioni affinché fiori-

scano idee, innovazione e impre-sa". Infine, promette una riorganiz-zazione in rete dei professionisti, in cambio, ancora una volta, di un'a-gevolazione fiscale, in questo caso per coloro che si aggregano. Una situazione analizzata anche dall'Economist (“Dietro il glamour, la professione di architetto in Euro-pa sta attraversando un rapido cambiamento”, 16 ottobre 2014), il quale sottolinea come la caduta del settore in Europa sia strutturale, infatti essa è maggiore della caduta del PIL e deve fare i conti con una contrazione futura del settore delle costruzioni. Il declino della professione di archi-tetto ha ragioni profonde: l'affollarsi di professionisti che offrono servizi simili, come ingegneri e geometri; la

crisi del business principale - pro-gettare nuovi edifici “su misura” - dovuta a metodi di costruzione au-tomatizzati, standardizzati e meno costosi, che riducono la richiesta dei servizi di progettazione su misu-ra. Come ricorda Rem Koolhaas: “attualmente assembliamo elementi che sono stati progettati da altri, prodotti di massa in serie, offerti in cataloghi su internet, accessibili a chiunque e messi insieme da lavoro sempre più indifferenziato”; la diffi-coltà e la resistenza nell'affrontare i processi innovativi imposti dalle Convenzioni internazionali sull'am-biente, che richiedono meno input dagli architetti e nuove capacità per soddisfare requisiti ecologici sem-pre più sofisticati.

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Tutto questo significa una trasfor-mazione radicale della professione di architetto, che vede esaurirsi, come sottolinea Hermann Herzber-ger, la sua dimensione romantica (“non saremo più sepolti accanto al principe” ricorda), per assumere una dimensione “industriosa”, che organizza processi progettuali completamente automatizzati (dal BIM al LEED's), con tecnologie so-fisticaste, dai droni per i rilievi, alla 3D printer per la realizzazione di componenti degli edifici, al robot Arduino per l'automatizzazione dei processi. Oggi questa trasforma-zione viene vissuta in modo schizo-frenico “svolazzando tra architettura come arte e costruzione come strumento di modernizzazione” (Rem Koolhaas, flyer di Elements of Architecture, Biennale di Venezia 2014) . Una schizofrenia che aumenta nell'attuale epoca digitale, con la difficoltà di gestire data base sem-pre più complessi, con l'esasperan-te ricerca di livelli di confort e di si-curezza sempre più elevati e con l'esigenza di reinterpretare oggetti che sono stati passivi per migliaia di anni, in oggetti biologici e interattivi, capaci di raccogliere e inviare in-formazioni. Delle prospettive della dimensione digitale dell'architettura si fa carico Carlo Ratti attraverso una scrittura collettiva sintetizzata nel piccolo volume “Architettura open source”

(Einaudi, 2014). Ratti sottolinea il persistere di un “rapporto feudale

committente - architetto – utente”, dove accademici e professionisti sono 'disconnessi' dalle esigenze concrete degli utenti. Per usare una definizione riduttiva, l'architetto funziona ancora secon-do il modello autoriale del Copy-right, mentre la progettazione, i media e la cultura si muovono ver-so il Creative Common.

E questo è il punto: la visione del progetto come atto creativo indivi-duale (o meglio top-down, con il progettista dominatore assoluto), che vede l'articolazione del proces-so progettuale come una sequenza di diritti proprietari, o copyright, è oggi affiancata da un'altra che riva-luta l'opera creativa come opera corale, non negando il concetto di autore. Il progettista non è più il so-lo, definitivo, inviolabile proprietario della sua opera, ma piuttosto il pri-mo ramo di un albero da cui nasco-no nuovi rami grazie a ogni collabo-ratore aggiunto (questo in sintonia con il modello virtuoso di sviluppo proposto dagli scenari Shell, se-condo il quale la governance segue la metafora della banda jazz, nella quale il capo della banda da inizio a una suonata, a cui contribuisce una molteplicità di soggetti). Rinasce, secondo Paola Antonelli, il progetto come cultura dello speri-mentare, provare, riprovare, adatta-re e contemporaneamente condivi-dere. Flessibilità, evoluzione, adat-tamento si coniugano con il ricono-scimento dell'autorialità. Passare dalla logica della “proprietà assolu-

ta“ del progetto a quella della con-divisione non è semplice, occorre avere capacità organizzative evolu-te. Occorre inoltre avere una visio-ne delle regole che governano una molteplicità di discipline, e questo non è semplice né immediato. Oc-corre passare rapidamente dal fai da te, al fai con gli altri, attraverso la creazione di piattaforme collabo-rative che esplodono il valore (an-che economico) della condivisione: il progetto diventa così “smart” in quanto frutto della condivisione e strumento esso stesso per condivi-dere. È questa la trasformazione che si attende dagli ordini professionali, da 'club' in declino a industriosi or-ganismi il cui ruolo è creare le nuo-ve aggregazioni di servizi e le eco-nomie di scala indispensabili alle aggregazioni di professionisti per operare creativamente sul mercato: ordini professionali e interprofes-sionali nuovi organismi tesi a gesti-re i big data e a fornire i nuovi sup-

porti tecnologici per la produzione del progetto, al fine di supportare la creatività individuale con strutture collettive destinate ad abbassare il costo di produzione del progetto, contenere i tempi di realizzazione, aumentare il valore aggiunto. Solo questa nuova organizzazione degli ordini professionali, finalizzata all'aumento di capacità degli ade-renti può legittimare l'aspirazione a rigenerare edifici e città, nel nostro paese e altrove.

“SENTINELLI DI MILANO” CON ALLEGRIA CONTRO L’OMOFOBIA Silvia Cutaia

Nel 1979 la Rai mandò in onda “Processo per stupro”: un gruppo di quattro “bravi padri di famiglia” ave-va segregato e stuprato una ragaz-za di diciotto anni che ebbe il co-raggio di denunciarli. La Casa delle donne aiutò la ragazza a costituirsi parte civile e a farla difendere dall’avvocatessa Tina Lagostena Bassi. Il processo fu uno shock per l’Italia intera: la ragazza da accusatrice, divenne accusata. Di cosa? Di non essere una brava ragazza, cioè di essere di “facili costumi”; di essersi messa in piazza e di essersi ulte-riormente disonorata; di far passare un guaio a uomini per bene. Uno degli avvocati degli imputati disse: “…. Cosa avete voluto? La parità dei diritti? Avete cominciato a scimmiottare l’uomo … . Vi siete messe voi in questa situazione. Se fosse rimasta a casa, non le sareb-

be successo niente …. . Lei è una sventurata, una vittima dei nostri tempi”. Riguardare oggi quel docu-mentario dà la sensazione di fare un tuffo in un Medioevo barbarico. Sabato scorso, all’Arco della Pace, più di duecento persone hanno os-servato un minuto di silenzio per Andrea, quindicenne romano che si è tolto la vita. Anche lui uno sventu-rato, vittima dei nostri tempi? Pro-babilmente sì, visto che era un ra-gazzo dichiaratamente omosessua-le, vittima di discriminazione in quanto gay. In Italia abbiamo una legge contro le discriminazioni, è la legge Mancino del 1993. Tra i motivi di discriminazione non è contempla-ta l’omofobia. Il disegno di legge dell’onorevole Scalfarotto vuole e-stendere al reato di omofobia la legge Mancino. A Milano, il sindaco Pisapia e la sua giunta si stanno impegnando per

contrastare le discriminazioni che di fatto rendono la vita degli omoses-suali meno facile di quella degli ete-rosessuali: nel 2012 è stata istituita una delibera per il riconoscimento delle Unioni civili. In base al Rego-lamento “Il Comune si impegna a tutelare le unioni civili, al fine di su-perare situazioni di discriminazione e favorirne l’integrazione nel conte-sto sociale, culturale ed economico del territorio”.

Dall’ottobre 2014, il sindaco di Mila-no ha trascritto matrimoni di coppie omosessuali sposatesi fuori dall’Ita-lia in base al principio che la legge prevede la trascrizione dei matrimo-ni di cittadini italiani contratti all’estero e che la non registrazione comporterebbe quindi un atto di-scriminatorio. L’intento è certamente di rendere la vita più semplice a queste coppie, ma anche di dare un forte segnale politico.

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Alcuni cittadini urlano, anzi prote-stano in silenzio, contro la proposta di legge Scalfarotto e contro le ini-ziative di Pisapia e di altri sindaci: ritengono che si vieterebbe loro di poter affermare il concetto di fami-glia naturale, quella cioè costituita da un uomo e una donna procreanti. Si dicono apartitici, ma i partiti e le forze di destra stanno cavalcando e appoggiando le loro manifestazioni. Quasi tutti si dichiarano cristiani, cattolici per lo più. Sabato 13 dicembre, il minuto di si-lenzio in ricordo di Andrea e di tutte le vittime di omofobia, si è svolto durante un’allegra manifestazione dei “Sentinelli di Milano” un gruppo di persone, tra cui diversi gay, pre-occupate del clima di intolleranza e di rifiuto aprioristico del riconosci-mento non solo delle unioni omo-

sessuali, ma degli omosessuali in sé. Persone che hanno portato una sedia all’Arco della Pace, che si son sedute a giocare a carte, a cantare, a fare origami, sferruzzare a maglia, chiacchierando e ridendo delle altrui fobie … . Che significato hanno questi gesti spiccioli e quotidiani nella battaglia contro l’omofobia? Hanno il senso di dimostrare che la vita va avanti, che le persone esistono, omosessuali o etero, e che, malgrado tutte le bat-taglie di retroguardia degli intolle-ranti, le famiglie omosessuali esi-stono e che hanno come le altre gioie e pene. Voi protestate e igno-rateci: noi ci siamo e continuiamo a vivere le nostre vite! Questo il senso della pacifica manifestazione di sa-bato.

Perché questa non è solo una bat-taglia degli omosessuali, ma di tutti? Forse vale la pena di porci una do-manda ancora prima di discutere di diritti / omosessuali / coppie di fatto: qual è il paradigma di civiltà, di u-manità cui facciamo riferimento? Che mondo sogniamo? La vita è per noi un cammino il cui senso si trova nel percorrerlo? In un’intervista ad Antonio Spadaro del 2013, Papa Bergoglio afferma-va: Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e si-curo, allora non trova niente. Ma

forse, chi vuole solo mettere paletti di giusto / ingiusto, bene / male, normale / anormale, salvo / dannato non cerca niente. Poco male: noi ci siamo e continue-remo a vivere le nostre vite!

STADI E FIERE: SCHIZOFRENIA MILANESE? Paolo Viola

È sorprendente la paciosità con cui la stampa ha accolto la notizia che il Milan vorrebbe fare uno stadio nel sito della ex Fiera - e cioè fra viale Scarampo e le vie Serra e Gattame-lata - per 42.000 spettatori (avete capito bene, quarantaduemila, più di tutti gli abitanti di Bassano del Grappa), e che il Comune e la Fiera proprietaria dell’area avrebbero già manifestato il loro accordo o parere positivo. Dico sorprendente perché la proposta è stata presentata alla Fiera di Milano dalla presidente del-la società sportiva Barbara Berlu-sconi in un momento in cui è ancora aperto il bando internazionale che chiede di presentare, appunto, “ma-nifestazioni d’interesse” per l’utilizzo – ovviamente oneroso – degli stessi immobili. Per chi non fosse ben al corrente di questa vicenda si tratta del primo dei tre padiglioni “gemelli” fatti co-struire dalla Fiera di Milano – guar-da un po’ – proprio alla vigilia del suo trasferimento a Rho e della in-fausta cessione della sua storica area a quella City Life di cui abbia-mo già detto, non solo noi, tutto ciò che si poteva dire. Ovviamente i tre padiglioni rimasero a lungo presso-ché inutilizzati e si è cercato, e si sta cercando, il modo di utilizzarli al meglio. Così è accaduto che quello più a sud, prossimo alla nuova City Life, sia stato adattato alla bell’e meglio, con il suo ormai celebre pennacchio, a Centro Congressi; quello intermedio, fra via Faravelli e viale Teodorico, viene usato ancora dalla Fiera per qualche esposizione troppo piccola per andare a Rho.

Il padiglione più esterno rispetto alla città, quello che affaccia sulla nuova smisurata piazza Valle dominato dall’altrettanto celebre timpano, è rimasto vuoto e inutilizzato e giu-stamente la Fiera ha lanciato un bando - che scade il 15 gennaio - per cercare un operatore economico interessato a prendersene cura e a svolgervi qualsivoglia attività purché all’interno di severi paletti (dunque attività non inquinanti, di interesse pubblico, congruenti con il carattere del sito, non confliggenti con attività già in essere al suo intorno, e via di seguito). “Gli obiettivi di detta ridefi-nizione funzionale sono quelli di realizzare – mediante l'inserimento di funzioni compatibili e di interesse generale collegate sia alle nuove esigenze della Fiera che agli inter-venti adiacenti e ai bisogni della cit-tà – il completamento urbanistico e funzionale del comparto urbano in oggetto affidando al citato Polo Ur-bano un nuovo ruolo di apertura verso la città e di congiunzione delle aree adiacenti oggetto del P.I.I. Por-tello e del P.I.I.City Life”. Mentre dobbiamo supporre – e spe-rare, per il bene della Fiera e della città – che vi siano molti operatori, professionisti e imprenditori, seria-mente impegnati a studiare progetti, a redigere studi di fattibilità, a predi-sporre business plan per presentare alla Fiera proposte accattivanti e vincenti, con un mese di anticipo sulla scadenza entra a gamba tesa la signora Berlusconi forte del suo magnifico nome e dell’attaccamento dei milanesi alla squadra da lei “posseduta”, ignorando completa-

mente le regole del gioco e anzi calpestandole e avendone parlato – si suppone – ai giornali forse anche prima che ai diretti interessati per essere sicura di sbaragliare e sco-raggiare qualsiasi competitor. Sen-

za rendersi conto che uno stadio in quel luogo sarebbe uno sfascio ur-banistico di dimensioni colossali, un gesto blasfemo dal punto di vista della civiltà urbana, una iniziativa che come sempre viene presentata come “dono” alla città e non come sfruttamento di quella straordinaria risorsa, pagata dai cittadini, rappre-sentata dalla stazione della nuova linea 4 della metropolitana che fra breve si aprirà proprio all’incrocio Scarampo -Teodorico! Ora immaginiamo che delizia uno stadio in quel punto nevralgico della città, adiacente alla recentissima e coraggiosa operazione di riqualifi-cazione della adiacente area ex Alfa Romeo (i cui risultati abbiamo commentato pochi giorni fa, ma di cui non possiamo negare che co-munque ha prodotto un significativo risanamento urbano), con il risultato di creare un deserto, durante i giorni e le notti della settimana, e l’ira d’iddio scatenato alla domenica. Avevamo plaudito all’allontana-mento della Fiera, adesso dovrem-mo ritrovarci uno stadio! Il 14 ottobre, presentando il bando, il Presidente di Fondazione Fiera Milano Benito Benedini ha detto “Oggi abbiamo ufficialmente dato il via all’opera di completamento della riqualificazione del Polo Urbano di Fiera Milano, già avviata nel 2004 con la cessione a City Life di due

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terzi del terreno occupato dalla Fie-ra e con la realizzazione del più grande e moderno centro congressi d’Europa, il MiCo, Milano Congres-si. I padiglioni del Portello, progettati dall’architetto Bellini negli anni ’90, con il loro “timpano” simboleggiano il biglietto da visita della nostra città per chi proviene da Nord Ovest; è anche per questo che vogliamo da-re a Milano una struttura che ospiti sia funzioni compatibili con l’attività fieristico - congressuale, sia servizi di interesse pubblico, che contribui-scano al miglioramento del patrimo-nio storico e urbano della città di Milano. Ovviamente la struttura ri-marrà di proprietà di Fondazione Fiera Milano”.

“Questa parte della città può diven-tare un nuovo centro di Milano – aggiunse il vicesindaco con delega all’Urbanistica Ada Lucia De Cesa-ris – un polo sempre più vivo e vis-suto all’insegna della modernità, della qualità, della fruibilità pubblica dei suoi spazi. In quest’ottica, la va-lorizzazione dei padiglioni della Fie-ra è elemento essenziale per com-pletare la trasformazione dell’area, individuando nuove funzioni, anche di interesse pubblico – sport, tempo libero, svago, cultura, servizi – ade-guate alle esigenze di una città che si rinnova sotto la regia del Comu-ne”. Non è la trovata di Barbara Berlu-sconi a scandalizzare più di tanto,

faccia il suo mestiere come meglio crede; è il silenzio imbarazzato e imbarazzante della Fiera e del Co-mune che - almeno nelle prime qua-rantotto ore dall’eclatante annuncio - non hanno fatto sentire la loro vo-ce. Qualcuno aveva veramente e-spresso un consenso? e a che tito-lo? Se fosse vero, siate gentili, dite-lo ad alta voce, con nome e cogno-me. Per una volta dobbiamo ringraziare Roberto Maroni che non ha perso un minuto nel dire che la Regione è contraria, che ha titolo per esserlo, e che dunque facciano tutti atten-zione ai passi falsi. Ma per favore, nessun dorma!

REGOLAMENTO EDILIZIO, DALLA BOZZA ALL'ADOZIONE Gianni Zenoni

Il 2014 è stato un anno denso come non mai di avvenimenti riguardanti il rinnovo e la entrata in vigore delle discipline urbanistiche del Comune di Milano, con grande impegno della Amministrazione che si è trovata anche a integrare i nuovi provvedi-menti del Governo come il decreto Sbocca Italia e quello della Regione sul Consumo di Suolo in un PGT appena entrato in funzione, con già tante difficoltà di interpretazione e sul quale si pensa già di rimetterci mano. Iniziata anche la revisione del Piano Urbano della Mobilità sul progredire del quale c'è carenza di informazioni, e finalmente portato a termine il nuovo Regolamento Edili-zio entrato in vigore il 26 novembre. Ho seguito il complesso iter di quest'ultimo dalla bozza del 2013 al testo adottato e poi approvato dal Consiglio Comunale, ma anche par-tecipato, a decine di Convegni sull'argomento e contemporanea-mente alle riunioni di lavoro per preparare le osservazioni da parte della Commissione Interprofessio-nale del Collegio Ingegneri e Archi-tetti e di ARCHXMI. Personalmente ho condiviso queste osservazioni collegiali presentate su specifici articoli del Regolamento utilizzando un complesso modulo di 7 pagine per una consegna entro il 7 agosto. Procedura, questa delle osserva-zioni puntuali, che ha reso però dif-ficile valutazione complessiva di un Regolamento Edilizio del tutto ano-malo per forma e contenuti ma che mi permette di esprimere un parere definitivo, con una più profonda co-noscenza dell'argomento, dopo quanto già anticipato nell'articolo

pubblicato un anno fa su Arcipela-goMilano. Premetto che un concetto larga-mente condiviso nei convegni e nei tavoli da lavoro è stato che il Rego-lamento travalica i contenuti previsti dagli articoli 28-29 dalla legge Ur-banistica Regionale n°12. Nel senso che i contenuti previsti ci sono, ma sono state introdotte specifiche normative relative a discipline non previste, e tra le altre: ripetizione di prescrizioni già esistenti e meglio espresse in altri ordinamenti, ulterio-ri precisazioni sulle zone grigie delle normative del PGT nella illusoria convinzione di renderle più chiare, trasformazioni in normativa tecnica di desideri politici sospetti di parti-gianeria o addirittura di non costitu-zionalità, creazione di nuove norma-tive su argomenti spettanti a Enti Amministrativi Superiori, forte au-mento di costi degli oneri per il cambio di destinazione (che sarà sempre più diffuso per la acquisita tendenza a ridurre il consumo di suolo lavorando sull'esistente) e tra-sformando quasi tutti gli interventi edilizi in atti convenzionati allun-gando così i tempi per l'attuazione di qualsiasi programma edilizio. Dal punto di vista formale è rimasto il disordine compositivo laddove non si raggruppano sotto un solo Artico-lo o Capo o Titolo o Parte le pre-scrizioni che interessano un unico argomento rendendone così difficol-tosa la consultazione, e lasciando sempre nel dubbio di aver dimenti-cato qualcosa. Ci troviamo davanti alla stessa accidentata prosa dei documenti allegati al PGT che sem-brano scritti da più mani senza al-cun coordinamento tra di loro.

Mi permetto però di ricordare alcune delle prescrizioni particolarmente fuori tema o antistoriche: è spiace-vole accettare imposizioni sulle co-struzioni private in cattive condizioni (per ragioni quasi sempre non lega-te alla volontà della proprietà ma a situazione ereditarie o urbanistiche arruffate) da chi è in possesso da anni del “Marchiondi”, tenuto in condizioni di degrado nonostante sia oggetto di vincolo architettonico e progettato da un grande architetto milanese del dopoguerra. Come è antistorico cercare di tratte-nere in città con incentivi le attività artigianali e industriali ormai in fuga dalla città per problemi di accesso e inquinamento e che vanno a collo-carsi nelle zone industriali esterne alle tangenziali con facilità di acces-si e parcheggio. Sono spiacevoli le indagini per conoscere se chi pre-senta un nuovo progetto è proprie-tario di immobili in “disuso”, rifiutan-do così il permesso di costruire il nuovo se non si ripristina prima il vecchio, facendo strame di diritto alla privacy e di libertà di operare. Infelice poi la possibilità di realizza-re seminterrati abitabili, i famosi “bassi” alla napoletana, esempio di inciviltà dell'abitare, esattamente l'opposto della qualità edilizia richie-sta più volte in tanti articoli di questo stesso regolamento. E poi a propo-sito dei “bassi” cosa ci ha insegnato il Seveso, oltre fare gli accessi alla MM5 sopraelevati? (che io conosca, l'unico accesso a una linea di tra-sporto sotterranea dove per acce-derci bisogna salire). Continua a essere praticata la concessione di deroghe ai Regolamenti Edilizi per gli edifici pubblici, tradizionale e-

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spressione del potere. Queste inevi-tabili deroghe non dovrebbero inte-ressare tutto il Regolamento, ma almeno far rispettare la distanza dei 10 metri tra gli edifici e la regola dei 60 gradi. Questi sono due importanti parametri che devono garantire a tutti i cittadini il diritto dignitoso di affaccio e insolazione degli alloggi. Insopportabile poi l'uso di titoli ma-gniloquenti come “progettazione u-niversale,”che in questo caso si rife-risce a una raccomandazione dell'ONU che non è altro che la ver-sione Comunale dopo quella Statale e Regionale sulla normativa per i meno atti. Oppure di attendere “l'al-goritmo” predisposto dai tecnici co-munali sul rapporto tra abitanti e superficie locale rifiuti peraltro già definito due righe sopra in 0,18 mq/abitante. Ma anche una preten-ziosa incursione in campo “ornitolo-gico”, quando si prevede la fornitura da parte del Comune di nidi di pipi-strelli.

E potrei continuare a oltranza ma dopo aver collaborato in tutte le sedi per migliorare il documento non me la sento di presentare Osservazioni personali, che attraverso la proce-dura prevista non riuscirei a espri-mere compiutamente. Ma per mani-festare la mia delusione vorrei finire questi miei pensieri con le stesse parole usate nel precedente articolo “prime osservazioni sulla bozza” dell'anno scorso. “La formulazione di Leggi e Rego-lamenti devono avere un'Etica Civi-le, che non deve dare all'operatore l'impressione di essere considerato un semplice suddito. Ricordo, per-ché sembra che molti non lo abbia-no ancora capito, che l'Imprenditoria in questi tempi di crisi economica è l'unica componente della società che può far nascere posti di lavoro e quindi far riprendere i consumi sul mercato, ma per fare questo ha bi-sogno di procedure comprensibili, semplificate, veloci e poco costose,

e non mi sembra che questo nuovo Regolamento Edilizio si sia posto seriamente il problema.” E l'eco dei media conferma la ragionevolezza di queste mie considerazioni. L'articolo di Rizzo sul Corriere della sera del 5 settembre ribadisce que-sti miei timori sulla degenerazione della formulazione dei Regolamenti Edilizi, anche se la versione “stata-le” mi sembra altrettanto improponi-bile. Ma cito per concludere il libro di Stella e Rizzo “Se muore il Sud”, che dal titolo sembra non c'entri nul-la coi Regolamenti Edilizi, ma che diventa pertinente quando parla di leggi e regolamenti che impedisco-no di operare, riportando una consi-derazione di Ludovico Muratori, stu-dioso della vita amministrativa del 1700: Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare.

MILANO E L’ARCHITETTURA MODERNA. MEMORIA STORICA E IMPASSE CULTURALE Mario Ricci

Il rinnovamento architettonico di Mi-lano suscita dibattiti e prese di po-

sizione anche su ArcipelagoMilano e ogni volta, quando si parla del pa-trimonio edilizio di Milano anzi del patrimonio edilizio tout-court soprat-tutto da parte di architetti e tecnici dell’edilizia, ci si imbatte in feroci critiche verso gli organi istituzionali preposti alla tutela degli edifici, sia che si tratti delle soprintendenze, sia che si tratti delle commissioni del paesaggio, colpevoli, secondo molti, di non garantire la modifica-zione e la libera rigenerazione della sostanza edilizia, oltre che di rallen-tare in complessi iter burocratici le procedure. D’altra parte si assiste allo spettaco-lo delle indignazioni quando un pez-zo di architettura, o una parte di un caratterizzato tessuto edilizio, cado-no in mano a professionisti e tecnici insensibili alla storia urbana e alla storia dell’architettura, e si vorrebbe estendere quelle capacità di veto caratteristiche degli organi preposti alla tutela, che invece, soprattutto riguardo alle soprintendenze, sono avviate verso un lento ma inesorabi-le smantellamento. Inoltre l’osmosi tra liberisti e conser-vatori riguardo queste tematiche è paurosa, e tale da rendere parados-sale un posizionamento dialettico alla ricerca di qualsivoglia proposta

operativa o normativa. Nonostante la complessità di questi argomenti, e la profonda burocratizzazione di procedure che dovrebbero invece essere snelle e flessibili, mi pare che al fondo del dibattito vi sia un tratto culturalmente distintivo della contemporaneità che viviamo: sem-bra quasi che il singolo soggetto quando agisce nella sfera pubblica e per il bene comune aderisca a tut-ta una serie e gerarchia di valori e principi, valori e principi che trovia-mo rovesciati di senso quando lo stesso soggetto agisce nella sfera privata e per il suo tornaconto indi-viduale. Non si tratta dunque di schieramenti che si confrontano, ma di una pro-fonda ambiguità culturale, che nes-suna norma, nessun ufficio, nessu-na lotta di quartiere potranno infran-gere. Bisogna poi ricordare che l’edilizia storica nel nostro paese è un’edilizia fatta per durare, e sareb-be assurdo estendere una tutela a quegli edifici che hanno meno di un secolo di vita: dunque il problema è squisitamente culturale soprattutto se parliamo di edifici privati non sto-rici, in cui è la sensibilità e la co-scienza civica, anzi l’acume, mi vie-ne da dire, del proprietario e dell’operatore, che fanno la diffe-renza tra uno scempio o un buon

intervento di modificazione del pa-trimonio edilizio esistente. Lo spazio pubblico è invece tutt’altro argomento, ma anche su questo gravano inesorabili le stesse ambi-guità culturali e la stessa inadegua-tezza, disattenzione o ignoranza, e solo in questo senso è possibile un confronto tra quanto avviene nel paesaggio metropolitano e riguardo alla definizione dei criteri per la sua modificazione. Proprio Ignazio Gar-della parlava della forma architetto-nica come di un continuo processo conoscitivo pieno di difficoltà, e di-ceva ai suoi studenti che il “filo ta-gliente di una spada ha sempre die-tro di se lo spessore della lama”: un’eccezionale metafora che coniu-ga forma a contenuto, conoscenza ad esperienza, ma anche individua-lità a collettività. Giuseppe Terragni prima, Ignazio Gardella e Vittoriano Viganò poi - ognuno sorretto da una convinzione poetica molto diversa l’uno dall’altro ma da un’identica coscienza civile - sono stati tra gli architetti più rap-presentativi dell’architettura italiana del Novecento non solo a Milano, e i loro nomi e opere sono ben storiciz-zate e ricorrono nei testi di storia dell’architettura. Speriamo che il problema non risieda proprio in questo.

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LA M4 E LO STATUTO: CONTRADDIZIONI METROPOLITANE Giuseppe Natale*

La bozza di statuto preparata dalla commissione del Consiglio metropo-litano è la fotocopia di quella scritta dal PIM (Centro Studi per la Pro-grammazione Intercomunale Mila-nese), in collaborazione con le Uni-versità Statale, Cattolica e Bocconi: l’intera sacra accademia, si fa per dire, al servizio del Comune di Mila-no, il grande committente. Per que-sto compito, solo il PIM ha ricevuto un contributo di 110.000 euro stan-ziato con delibera di Giunta il 16 no-vembre 2012, nonostante l’ente ab-bia in dotazione i fondi per espletare il compito istituzionale di fare ricer-che e studi per conto di 88 comuni, compreso quello di Milano che ero-ga annualmente 325.000 euro! Non siamo riusciti a sapere se anche le università abbiano ricevuto contribu-ti specifici. Uno statuto che ci costa davvero tanto! Mi permetto di ricordare ai lettori (l’ha già fatto Ugo Targetti su questo giornale) che un Comitato per la Cit-tà / Cittadinanza Metropolitana – costituito da studiosi ed esperti e da cittadini impegnati e confluito nel Forum Civico Metropolitano - aveva già nel 2005 proposto uno statuto semplice ed essenziale ancora oggi complessivamente valido, messo gratuitamente a disposizione delle amministrazioni locali. Ma l’ascolto (parola abusata dai politici) e la par-tecipazione (spesso flatus voci di comizianti) rimangono sulla carta dei programmi elettorali, non si tra-ducono in prassi collaborativa. Chi prende il potere non solo se lo tiene stretto e lo gestisce in modo autore-ferenziale, quando non lo esercita con metodi privatistici e corruttivi, ma s’indispettisce se la cittadinanza attiva insiste e critica e propone. Quando aumenta la distanza tra cit-tadini e istituzioni, il terreno diventa molto fertile per la corruzione e la criminalità organizzata, per l’ascesa al comando di individui senza quali-tà tranne quella di spartirsi la torta del bene pubblico e comune. Emblematica rimane comunque una delle funzioni fondamentali della cit-

tà metropolitana: la mobilità e la pianificazione delle infrastrutture e delle linee di trasporto. Secondo noi, occorre introdurre nello statuto metropolitano il diritto alla mobilità, in coerenza con le disposizioni eu-ropee in materia. Letta in questa ottica, la conferma del progetto della M4 da parte del sindaco e della giunta di Milano è in palese con-traddizione con le esigenze di ri-pensare la città in termini metropoli-tani. Significa ancora una volta con-tinuare a guardare l’ombelico di Mi-lano perdendo di vista l’intero e complesso organismo della vasta area urbana e interurbana. Sui costi della linea blu si è scritto tanto. Si è capito che non è per niente garantita la sostenibilità eco-nomica e ambientale. Due miliardi che sicuramente lieviteranno verso l’alto e un comune che s’impegna a pagare per mutui e interessi tra 100 / 80 milioni per ciascun dei prossimi 20 – 22 anni, diventati 30 perché i miliardi sono aumentati a 3 e 461 milioni secondo i dati emersi in Commissione Trasporti del Consi-glio comunale. Sarebbe auspicabile maggiore re-sponsabilità e lungimiranza politica e amministrativa per il grave peso evidentemente inso-stenibile che si mette sulle spalle del Comune e quindi dei cittadini milanesi. Invece, ancora una volta prevale la logica della grande opera che porta maggiori vantaggi al capi-tale privato, bancario e finanziario, e dilapida le finanze pubbliche, se-condo il modello devastante del pro-ject financing. Un’opera, prevista per l’Expo, ma che dovrebbe essere realizzata forse nel 2022, a distanza di 15 anni dalla sua iniziale idea progettuale! Un’altra linea metropoli-tana che attraversa ancora il centro storico, riconferma il sistema mono e radio-centrico della città, trascura come sempre le zone periferiche, sconvolge e distrugge quel poco verde a disposizione nell’eccessivo addensato urbano centrale. Insiste-re è diabolico. Mentre si avvia l’iter

istitutivo di un nuovo ente di gover-no di area vasta, si rimane dentro la tinozza dei confini amministrativi di Milano. Proviamo a riflettere su possibili progetti alternativi utili necessari e urgenti dentro una visione policen-trica della Milano dei 20 comuni e della conurbazione metropolitana. Ci si accorgerebbe che è meglio abbandonare la M4, anche per non ripetere gli errori e gli inconvenienti dispendiosi e insostenibili sul piano ambientale della neonata linea 5. Il criterio principale da adottare è quello di creare un sistema di tra-sporto pubblico sotterraneo e di su-perficie che abbandoni definitiva-mente il modello a raggiera di colle-gamento con l’unico centro, e co-struisca le reti policentriche che si prolunghino verso i centri urbani dell’area metropolitana nelle dire-zioni nord-sud / est-ovest. Si avanzano alcune proposte sen-sate e di grande utilità: della linea 4 realizzare solo il tratto Lina-te/Piazzale Dateo per collegare l’aeroporto al passante ferroviario; l’altro collegamento importante po-trebbe essere Linate / M2 Gobba; prolungare la M3 da San Donato verso Peschiera, Pantigliate, Calep-pio, Paullo (già sulla carta dal 2000!), come chiedono con un ap-pello Legambiente, i comuni inte-ressati e la cittadinanza attiva; com-pletare fino Gobba il collegamento del trasporto pubblico sulla fascia nord/ovest e nord/est tramite la me-trotranvia, ferma a Precotto ma pre-vista da decenni nei piani delle ope-re pubbliche. Da leggere solo come esempi, queste proposte sono da inserire in un piano strategico razio-nale e lungimirante che la Città Me-tropolitana dovrebbe adottare e at-tuare. Si informino i cittadini e si rispettino le leggi vigenti e le carte europee che stabiliscono solennemente i di-ritti di informazione e di partecipa-zione al processo decisionale. *Forum Civico Metropolitano

MILANO: UN ANIMA DIVISA IN DUE? Giulia Mattace Raso

Se ne è discusso a lungo, se ne è venuti a capo solo in parte, tra po-lemiche, dimenticanze e omissioni: il confronto a distanza tra il cardina-le Scola e il sindaco Pisapia sembra solo l’ultimo epilogo di un discorso pubblico che si interroga sul proprio

biglietto da visita, poco prima di of-frirlo al mondo in arrivo con Expo. Anima, brand, identità (Milano): l’identità è ciò che rende definibile e riconoscibile e insieme consapevo-lezza della propria personalità. L’anima rappresenta l’essenza di

questa personalità, è il soffio che renda viva la materia. L’idea che una città ha di se stessa. La frammentarietà è forse l’unico portato condiviso di queste riflessio-ni comuni e racconta la difficoltà di ridurre a uno le tante eccellenze e

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peculiarità che fanno attraente Mila-no (e questa è logica da brand management). Ma è anche una frammentarietà più profonda, gene-rata da “laceranti particolarismi, figli di una visione atomistica ed egoisti-ca della felicità”, che “annullano gli spazi del dialogo, della correspon-sabilità, della solidarietà” (Razzante Il Giorno 9 dic 2014).

L’anima persa di Milano è forse quel tratto unificante che faceva sì che “diversi eppure tutti insieme” si a-vesse una visione comune del bene della città, per “muoversi verso un futuro migliore per tutti”, un sogno del domani possibile (Colaprico La Repubblica 10 dic 2014). È sempre più evidente la necessità di tessere un filo che continuamente ci tenga dentro un racconto condivi-so, una sorta di linea vita di comuni-tà. Un racconto collettivo, affabula-zione fondativa, se non profetica, che sia capace di tenere insieme i temi della convivenza e dello svi-luppo, temi cardine per Milano. In una città “dissolta in tribù che non comunicano tra loro, indurita, incat-

tivita, i ricchi sempre più ricchi, i po-veri sempre più poveri, la classe media sempre più incerta e insicura. E i poveri che hanno perso non solo l’orgoglio (di classe si diceva una volta) ma la solidarietà di ceto” (Barbacetto Il Fatto Quotidiano 11 dic 2014) la povertà si è affacciata senza chiedere il permesso sulla scena cittadina. È uscita dai contesti marginali, si è manifestata negli scontri di piazza, nelle periferie dei quartieri popolari, in Stazione cen-trale tra i profughi siriani, in piazza Risorgimento in fila per un pasto caldo all’Opera San Francesco. Non è più solo un fatto di esclusione nel-le periferie, sacche di marginalità si creano anche in altre zone della cit-tà, là dove ci sono fabbriche e stabili abbandonati, esito anche dei 12.000 sfratti (di privati) in esecuzione per morosità. E spesse volte i nuovi poveri sono anche gli ultimi arrivati, ecco che il tema della accoglienza diventa il punto di contatto con l’altro cardine della città, quello dello sviluppo. Crescita e sviluppo sempre più de-

clinati in ottica internazionale, per vocazione o destino imminente: E-xpo nell’immediato futuro, e nel più recente passato Milano “capitale” per il semestre europeo, ospite di Asem il vertice Europa – Asia, membro del C40 Cities-Climate Leadership Group il network sindaci impegnati nella lotta ai cambiamenti climatici, o vincitrice fra le 35 città di tutto il mondo invitate a far parte del network di 100 Resilient Cities, il progetto promosso dalla Rockfeller Foundation. Una città che esce dai propri confini e si confronta con il mondo intero con la consapevolezza di non do-verne costruire all’interno delle pro-prie mura con nuovi distinguo ed esclusioni, perché “più si lasciano aumentare i confini dentro la città, più l’anima fa naufragio” (Colaprico), per essere una volta di più “terra di mezzo, punto di relazione e ricom-posizione tra ciò che sembrava de-stinato a separarsi” (Magatti Corrie-re della Sera 6 dic 2014) recupe-

rando la propria identità più profon-da.

EXPO 2015: FOOD IMMERSION, CIBO AL MUSEO Rita Bramante

Le sale del Museo di Storia Naturale di Milano saranno animate fino al prossimo giugno da una mostra che offre uno sguardo inedito al cibo e alla neurogastronomia: un viaggio dal seme alla tavola di alto profilo scientifico, ma anche capace di in-trattenere e divertire un pubblico di tutte le età, con laboratori, reazioni chimiche, immagini al microscopio, video didattici e incontri con esperti, exhibit interattivi, eventi di showco-oking, degustazioni e semplici truc-chi da utilizzare in cucina. “Food. Cibo: dai semi al piatto” pro-

pone un itinerario scientifico divul-gativo che accende i riflettori sul tema chiave dell’Esposizione Uni-versale ormai alle porte, partendo proprio dai semi che arrivano in mo-stra dalle più importanti banche dei semi italiane, per testimoniare che cos'è realmente la biodiversità, quali sono i cambiamenti in corso e quali azioni sono state messe in campo per preservarla, quali contaminazio-ni culinarie hanno caratterizzato i secoli passati e quali fanno parte dell’attuale processo di globalizza-zione. Un appello in difesa della biodiversi-tà, per rendere i cittadini ancor più

consapevoli del fatto che perdere varietà di semi e piante impoverisce l’intera umanità e che pertanto i cit-tadini devono sentirsi impegnati a difendere questa ricchezza della Terra, prima che sia troppo tardi. In poco più di cento anni infatti, dall’inizio del Novecento, l’umanità ha perso il 70% di biodiversità ali-mentare vegetale e animale. E per-dere un prodotto significa perdere la storia, la comunità e il senso di ap-partenenza che si celano dietro a tale prodotto, elementi costitutivi della sovranità alimentare. La sovranità alimentare è un diritto, il diritto che ogni popolo ha di pian-tare, mangiare, coltivare secondo i propri desideri e necessità, al fine di sfruttare la ricchezza e la forza che la Terra ha donato all’umanità dal principio della storia. E come ogni diritto umano va difeso. Il percorso espositivo non presenta soltanto il ciclo vitale del seme e il ruolo delle varietà negli scambi commerciali e nelle tradizioni ali-mentari dei popoli, ma anche le tra-sformazioni chimiche che interessa-no gli alimenti, le tecniche di con-servazione e di preparazione dei cibi e il piacere multisensoriale che

si prova mangiando. Il cibo come eccellenza secolare del made in I-taly guardato al microscopio alla ri-

cerca di dettagli spesso sconosciuti al grande pubblico; i nostri piatti di tutti i giorni sezionati, scomposti, a caccia di gusti, sapori e ingredienti più disparati. Un itinerario in quattro sezioni: Tutto nasce dai semi; Il vi-aggio e l’evoluzione degli alimenti; La scienza in cucina e l’arte di man-giar bene; I sensi. Non solo gusto. A breve, accanto a questa mostra prodotta dal Comune di Milano - Cultura, Codice. Idee per la cultura, 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE, aprirà i battenti anche una nuova esposizione permanente all’interno del Museo della Scienza e della Tecnica, intitolata “Scienza e tecno-logia dell’alimentazione”, dedicata al contributo di scienza e tecnologia nella produzione, trasformazione e consumo di cibo e alla relazione tra alimentazione, stile di vita e salute. A tale proposito il Museo ha avviato un sondaggio presso il grande pub-blico sul tema del cibo nel futuro: per partecipare clicca qui. .

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MUSICA questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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Auguri Con questo numero la rubrica va in vacanza fino al 7 gennaio e viene voglia di tirar le somme della prima parte della stagione musicale mila-nese. Mi sembra doveroso, prima di tutto, esprimere un senso di grande am-mirazione per tutte le istituzioni mu-sicali, dalle “massime” alle “minime” che, nonostante la crisi spaventosa che morde tutti (e le attività culturali prima di tutti), nonostante i tremendi tagli ai finanziamenti pubblici e alle sponsorizzazioni private, mentre chiudono aziende, negozi, librerie (ma come mai non chiudono i bar e i ristoranti, che anzi sembrano proli-ferare?), mentre - dicevo - tutti tira-no i remi in barca quando non tirano le cuoia, le nostre istituzioni musicali riescono a stare in piedi, a dare continuità alla programmazione, a invitare gli artisti di sempre, senza cedimenti e senza manifestare se-gni evidenti del malessere di cui si-curamente soffrono . Mentre dalle colonne del Corriere si

raccomanda di “salvare” l’Orchestra Verdi (e ci mancherebbe altro che non fosse “salvata”), e mentre il bi-lancio del Teatro alla Scala assomi-glia sempre di più a un terno da vin-cere al lotto anno dopo anno, tutti i programmi di musica della prossima stagione, a partire proprio dalla Sca-la e dalla Verdi, sono di ottima quali-tà e vanno incontro all’Expo con grande baldanza e generosità. Se si osservano i programmi delle Serate Musicali o della Società del Quartet-to (il cui presidente Magnocavallo a Sant’Ambrogio ha anche avuto l’onore dell’Ambrogino d’Oro), si ve-drà che non segnano passi indietro rispetto agli anni precedenti, anzi. Mormone – il patron della Società dei Concerti – riesce persino a ri-proporre il festival di Cernobbio do-po la sospensione degli ultimi anni; sarà l’Expo a riaccendere le spe-ranze? Sicuramente l’Expo fa la sua parte e noi dobbiamo augurarci di tutto cuo-

re che le speranze riposte nel gran-de evento - non solo nei numeri ma anche nella qualità del turismo che riuscirà ad attrarre - non vadano de-luse. I visitatori dell’Esposizione U-niversale che visiteranno Milano e non solo, troveranno l’energia, la voglia e il tempo per andare ad a-scoltare concerti ed opere liriche? Con la sola eccezione della Scala - che è portatrice di un vero e proprio mito - qualche dubbio lo avrei. Un’altra parte importante, nella te-nuta della programmazione musica-le, c’è ragione di temere l’abbiano avuta e l’abbiano tuttora gli artisti, quei musicisti - spesso anche cele-bri e richiesti un po’ dappertutto - che per necessità o per generosità accettano di essere compensati con cachet molto ridotti rispetto agli anni passati. Nei loro confronti dovrem-mo provare sentimenti di sincera gratitudine perché il loro è un gesto non solo di rispetto per la musica, di cui si sentono servitori, ma anche solidarietà nei confronti del pubbli-co. Alla radice di questa buona salute (almeno apparente) della musica c’è soprattutto il pubblico milanese che, anche se un poco assottigliato, nella gran parte non diserta le sale e continua a frequentare concerti e opere sacrificando piuttosto altri consumi. La sensazione che la musica classi-ca sia diventata più che mai una parte importante della città, dalla quale non si può prescindere, trova fondamento in fatti non nuovi ma sempre più consolidati come gli ap-puntamenti che ormai si ripetono a ogni stagione: il concerto natalizio in Duomo (gratuito), come quello che proprio domenica scorsa è stato of-ferto dalla Veneranda Fabbrica in-sieme al Comune e a uno sponsor privato, il cui programma prevedeva il concerto in la minore per violino e orchestra (Uto Ughi solista e diretto-re) e le Quattro Stagioni vivaldiane; i concerti alla Scala e non solo, orga-

nizzati per raccogliere fondi da tante Associazioni e Istituzioni culturali, benefiche, caritatevoli alle quali spesso i musicisti offrono prestazio-ni a titolo gratuito; il sempre maggior numero di concerti tenuti da orche-stre non residenti a Milano, che so-vente vengono da paesi lontani e che una volta si avventuravano as-sai più raramente per lunghe e co-stose tournée; lo spazio che, con

annunci e recensioni, la musica classica ha riconquistato su quoti-diani e magazine dopo un lungo pe-riodo di eclissi; i riti ormai consolida-ti dell’Oratorio di Natale di Bach nei giorni che precedono il 25 dicembre e la Nona Sinfonia di Beethoven nei giorni di Capodanno e così via coin-volgendo la città in modo oserei dire strutturale. La maggior parte dei programmi, nell’anno che viene, non prevedrà la pausa estiva e salderà questa sta-gione a quella successiva per tene-re viva l’offerta di musica durante tutto il semestre dell’Expo; questo non renderà felici, forse, i professori delle nostre orchestre, ma porterà lavoro ai musicisti e arricchirà l’estate di coloro che non abbando-nano Milano ai primi caldi. Con ten-denze però dai risvolti qua e là fa-stidiosi, come quella di rendere più “popolari” i programmi musicali, di contaminare i generi in modo spes-so sguaiato, allo scopo di assicurar-si un pubblico più ampio di quello abituale. Non so con quanto suc-cesso. Può essere un’operazione lungimirante, se gestita con cura e parsimonia, ma comporta anche il rischio di una decadenza del gusto e di una perdita di identità della “grande musica” e del rigore neces-sario per conservarne i valori. Dunque tante buone notizie con qualche preoccupazione per i mesi a venire. Una ragione in più per scambiarci gli auguri per il prossimo anno.

ARTE questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi

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L’arte di costruire relazioni: Céline Condorelli all’Hangar Bicocca

Se un pomeriggio d’inverno un viaggiatore avesse voglia di scoprire Milano attraverso uno dei luoghi simbolo della storia industriale e ar-tistica della città, potrebbe recarsi all’Hangar Bicocca. Una delle mo-stre recentemente inaugurate nello spazio è la personale di Céline Condorelli, un’artista che vive e la-vora fra Londra e Milano. L’esposizione ha un titolo che non passa inosservato: bau bau. L’espressione, che ludicamente ri-chiama al verso di un cane, è anche un omaggio al significato della paro-la in lingua tedesca, costruzione, e all’esperienza della scuola del Bau-haus. Effettivamente, superate le difficoltà iniziali di approccio all’apparente incomunicabilità dell’arte contempo-ranea, il percorso espositivo si rivela ricco di spunti sul tema della costru-zione e dell’amicizia, sviluppati at-traverso sculture, installazioni, video e scritti. L’artista ha una formazione relativa all’architettura e alla cultura visuale,

e ha riflettuto a lungo sulle “strutture di sostegno”, ovvero su ciò che supporta, sostiene, appoggia e cor-regge, sia in senso strutturale che relazionale. L’amicizia diventa per l’artista una dimensione di lavoro e una forma d’azione. I suoi pensieri sull’amicizia sono condensati nel libro The company she keeps, offerto ai visi-tatori su una scrivania: chiunque può accomodarsi e leggerlo, e chi vuole può anche salire sul tavolo per osservare dall’alto la visuale all’esterno, attraverso l’unica fine-stra dell’ambiente espositivo, aperta appositamente dalla Condorelli in occasione della mostra. Un altro tema forte è infatti il dialogo con gli spazi dell’Hangar. La mostra è stata pensata in relazione alle precedenti esposizioni (il pannello di legno all’ingresso è lo stesso della mostra precedente di Gusmão e Paiva, e Céline vi ha posto una ven-tola che produce un vento che so-spinge lo spettatore attraverso la scoperta delle opere; i video in onda

su una piramide di televisori ricor-dano la babelica torre di Cildo Mei-reles) così come l’installazione Ne-rofumo è stata appositamente pro-dotta attraverso la collaborazione con lo stabilimento Pirelli di Settimo Torinese. Musica che fa da sottofondo nell’ingresso e nei bagni, installa-zioni che diventano sedute su cui i visitatori possono accomodarsi e colloquiare, tende dorate mosse dal vento: bau bau è una mostra irripe-tibile in qualsiasi altro luogo, in gra-do di seminare silenziosi spunti di riflessione negli interessati, curiosità negli scettici, stupore negli appas-sionati. Giulia Grassini Céline Condorelli, bau bau Han-

gar Bicocca via Chiese 2, Milano 11 dicembre 2014 - 10 maggio 2015 – da giovedì a domenica 11:00 – 23:00 Ingresso gratuito

La luna è ospite al museo di via S. Vittore

Dalla Galleria dedicata a Leonardo alla luna il passo è breve se si è all’interno del Museo della Scienza e della Tecnologia, anzi è brevissi-mo da quando alla fine di ottobre è stata inaugurata l’Area Spazio dedi-cata all’esplorazione astronomica. In un percorso che comincia con gli strumenti che dall’epoca di Galileo in poi sono stati utili a osservare, studiare e misurare gli oggetti cele-sti, la nuova sezione del museo rac-conta quattro secoli di ricerca astro-nomica dagli albori della scienza moderna ai giorni nostri. Due le sezioni dell’esposizione: Os-servare lo Spazio e Andare nello Spazio; la prima presenta i conge-gni e gli apparecchi che hanno ac-compagnato e cambiato l’osserva-zione dello spazio dalla Terra, tra essi i due globi celesti e i due terre-stri di Coronelli e Moroncelli del XVII secolo, il modello di legno dell’Osservatorio Astronomico di Brera, il settore equatoriale di Sis-son del 1774, usato per i primi studi

di Urano e per la scoperta dell’aste-roide Esperia, prima scoperta scien-tifica dell’Italia unita ad opera di Giovanni Virginio Schiaparelli. Nella seconda sezione il visitatore entra in contatto con le tecnologie che permettono di esplorare lo spa-zio e migliorare la conoscenza del cosmo e della Terra: si entra in una riproduzione parziale di Stazione Spaziale Internazionale con la cupo-la e una ricca selezione di contenuti, tra gli altri sugli schermi sono ripro-dotte immagini (reali e ricostruite) che ritraggono l’Italia vista dallo spazio. Sono qui esposti l’impo-nente Z9 - uno dei tre stadi del lan-ciatore Vega, il satellite San Marco per lo studio dell’atmosfera, il satelli-te Sirio per le telecomunicazioni e alcuni straordinari oggetti legati alle missioni lunari, tra cui la rarissima tuta Krechet che avrebbe dovuto essere indossata dai cosmonauti russi nel progetto poi abbandonato di sbarco sulla Luna.

A lasciare senza fiato anche il visita-tore meno coinvolto è però il picco-lissimo frammento di suolo lunare esposto in una piccola palla traspa-rente. Nel 1973, come segno di fra-tellanza e collaborazione da parte degli Stati Uniti, il presidente Ri-chard Nixon dona al Governo Italia-no e poi al Museo il frammento di basalto portato sulla Terra dagli a-stronauti dell’Apollo 17. Proveniva dall’area chiamata 'Taurus Littrow Valley', raccolto dal comandante Eugene Cernan al termine della missione (7-19 dicembre 1972). Se anche non si è appassionati a-stronomi, o profondi conoscitori del-le vicende del cielo è certo che quel piccolo pezzetto di luna non lascia indifferenti ma, anzi, il poterla vede-re così da vicino innesca un’emo-zione indescrivibile. Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci Da martedì a venerdì 9.30-17

| sabato e festivi 9.30-18.30 Biglietti d’ingresso 10,00/7,50/4,50 €

Nel Blu di Klein e Fontana al Museo del Novecento

Uno straordinario racconto di un dopoguerra animato da artisti, colle-zionisti, intellettuali e mercanti è lo scenario che si immagina faccia da sfondo alla relazione di amicizia tra Yves Klein e Lucio Fontana raccon-

tata nella mostra in corso al Museo del Novecento e che immergono chi vi è coinvolto con stimoli visivi e suggestioni intellettuali. Due città, Milano e Parigi, e due ar-tisti, distanti per età anagrafica, pro-

venienza, formazione e stile ma con in comune la ricerca artistica che si articola verso nuove dimensioni spaziali e concettuali. Ripercorrendo il tradizionale allestimento cronolo-gico del Museo ci si accosta pro-

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gressivamente al rapporto tra i due: più questo si fa intenso e più au-menta la densità di opere che si in-contrano dei due artisti. L’apice del sodalizio si raggiunge quando si spalanca la vetrata sopra piazza del Duomo con la Struttura al neon di Lucio Fontana sul soffitto e la diste-sa blu di Pigment Pur di Klein. Un dialogo straordinario all’interno del quale il visitatore non può che sen-tirsi coinvolto ed estasiato ammira-tore. Cinque sono gli anni cui la mostra è dedicata: dal 1957, anno in cui Yves Klein espone per la prima volta a Milano alla Galleria Apollinaire una serie di monocromi blu, al 1962, an-no della morte dello stesso Klein.

L’inaugurazione della mostra in Bre-ra è l’occasione in cui i due artisti si incontrano per la prima volta e Fon-tana è tra i primi acquirenti di un monocromo dell’artista francese, diventando poi uno dei suoi più im-portanti collezionisti in Italia. Nell’esposizione sono documentati cinque anni di lettere, incontri, viag-gi e condivisione di due artisti che hanno segnato profondamente, o-gnuno a modo proprio, la storia dell’arte novecentesca. L’affinità in-tellettuale e artistica emerge laddo-ve le aperture spaziali di Fontana (fisiche e concettuali) trovano corri-spondenza nel procedere di Klein dal monocromo al vuoto. Entrambi perseguono uno spazio immateriale,

cosmico o spirituale, che forse ap-partiene a un’altra realtà. Una mostra da non perdere “Yves Klein Lucio Fontana, Milano Parigi 1957-1962”, che per la ricerca stori-co-artistica e le scelte curatoriali non appaga solo la fame conosciti-va del visitatore, ma soprattutto fa sì che venga immerso in un mondo blu splendente che offre un profondo godimento emozionale. Klein Fontana. Milano Parigi 1957-1962 Museo del Novecento

piazza Duomo fino al 15 marzo 2015 lunedì 14.30 – 19.30 martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 19.30 giovedì e sabato 9.30 – 22.30 Biglietti :10/8/5 euro

Tra Leonardo e Milano prosegue felicemente il sodalizio

Se in una pigra domenica sera e-merge nel milanese un’incontenibile voglia di visitare una mostra, quali sono le proposte della città? Intorno alle 19.30 non molte in realtà: Pa-lazzo Reale così come i grandi mu-sei del centro sono già in procinto di chiudere. Una però attira l’atten-zione, sarà per la posizione così centrale o forse proprio per il fatto che è ancora aperta. Quella dedicata al genio di Leonar-do Da Vinci, affacciata sulla Galleria Vittorio Emanuele, è una mostra in continua espansione che periodi-camente si arricchisce di nuovi ele-menti frutto delle ricerche dal Centro Studi Leonardo3, ideatore e orga-nizzatore della mostra nonché gruppo attento di studiosi. Se Leo-nardo produsse durante la sua vita un’infinità di disegni e schizzi, L3 si pone come obiettivo quello di stu-diare a fondo la produzione del ge-nio tostano e renderla fruibile a tutte le tipologie di pubblico con linguaggi comprensibile e divulgativi offrendo

un momento ludico di intrattenimen-to educativo, adatto sia per bambini che per adulti. Quasi 500 mq ricchi di modelli tridi-mensionali e pannelli multimediali che permettono realmente di scopri-re le molteplici sfaccettature del pensiero e dell’operato leonardesco: macchine volanti o articolati stru-menti musicali possono essere smontate e rimontate; riproduzioni del Codice Atlantico e di altri mano-scritti sono tutte da sfogliare, in-grandire e leggere; ci sono giochi di ruolo a schermo nei quali i visitatori vestono i panni dello stesso Da Vin-ci. La produzione artistica non è di-menticata, anzi: un’intera sala è de-dicata ai più famosi capolavori dell’artista con un grande pannello e due touchscreen dedicati al restauro digitale dell’Ultima cena, alla Gio-conda e a due autoritratti dell’au-tore. Inaugurata nel marzo 2013, proro-gata prima fino a febbraio 2014 e ancora fino al 31 ottobre 2015, la

mostra ha superato le 250 mila visi-te imponendosi come centro attratti-vo per turisti e cittadini. Un buon ri-sultato, ma forse basso consideran-do l’alta qualità della mostra e la posizione decisamente strategica. Il successo di pubblico sarebbe stato migliore (forse) con un maggiore rilievo dato dalla stampa e dei social network, e da un costo del biglietto più calmierato. Ma c’è ancora tem-po, e l’occasione giusta è alle porte: non perdiamola e anzi, dimostriamo che anche a Milano ci sono centri di ricerca capaci di produrre mostre interessanti senza necessariamente creare allestimenti costosi ed espor-re opere o modelli originali. Leonardo3 - Il Mondo di Leonardo

1 marzo 2013 - 31 ottobre 2015 Piazza della Scala, Ingresso Galle-ria Vittorio Emanuele II Aperta tutti i giorni, dalle 10:00 alle 23:00 com-presi festivi Biglietti: 12/10/9 euro

Il “re delle Alpi” conquista anche Palazzo della Ragione

Quella al Palazzo della Ragione non è solo una mostra di fotografia sui grandi spazi, come riporta il titolo, è un’ode alle avventure e alle monta-gne di Walter Bonatti. 97 gli scatti presentati in quella che si sta impo-nendo sempre di più come una se-de espositiva di valore della città di Milano. Ma alle grandi fotografie del mondo, alle riproduzioni audio e video si af-fiancano alcuni degli oggetti che hanno da sempre accompagnato Bonatti: gli scarponi di cuoio oramai consunti, la Ferrania Condoretta, una piccola macchina fotografica che usò sul Petit Dru, e la macchina

per scrivere: una Serio, modello E-verest-K2, che gli venne regalata dalla stessa azienda produttrice perché raccontasse la vera storia di ciò che successe sul K2 nel 1954. È forse grazie a quel dono che Bo-natti prese ad affiancare all’alpi-nismo e all’esplorazione delle vette anche la narrazione. Acuto e attento osservatore del mondo, Bonatti at-traverso i suoi reportage darà voce a realtà lontane appassionando i lettori delle più grandi riviste italiane, prima tra tutte Epoca. Un uomo decisamente in controten-denza rispetto al contesto nel quale viveva: nell’Italia post-bellica del

boom economico Bonatti sceglie l’allontanamento dalla realtà per an-dare a scoprire mondi nuovi e ine-splorati. Mai lo sfiora il pensiero di rimanere, anzi torna sempre a casa per raccontare il suo vissuto: da ciascun viaggio porta con sé rac-conti, riflessioni e tante, tantissime immagini per far sognare chi non riesce a partire con lui. Le immagini in mostra raccontano dei grandi viaggi, della sua capacità di errare solo e della sua grande ammirazione per la potenza della natura. Emerge anche una certa consapevolezza di sé: durante i suoi viaggi Bonatti escogita una serie di

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tecniche con fili e radiocomandi che gli consentono di essere non solo parte delle proprie fotografie, ma romantico protagonista, quasi ultimo e affascinante esploratore del mon-do. Una mostra che coinvolge il visitato-re mescolando avventura, fotografia

e giornalismo, giungendo a delinea-re il profilo di un grande uomo che ha contribuito a fare la storia del Novecento. Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi Palazzo della Ragione

Milano - Orari Tutti i giorni: 9.30 - 20.30 // Giovedì e sabato: 9.30 - 22.30 La biglietteria chiude un’ora prima dell’orario di chiusura Lunedì chiuso Ingresso 10 euro

Marc Chagall porta la leggerezza a Palazzo Reale

Non si può essere a Milano nell’autunno 2014 e non aver visita-to la grande retrospettiva dedicata a Marc Chagall, tale è stato il battage pubblicitario che ha tappezzato l’intera città. Non solo, ma Chagall è anche uno di quegli artisti che ri-mangono nei ricordi anni dopo la fine degli studi, che sembra facile capire e apprezzare e per i quali si è più predisposti a mettersi in fila per andarne a vedere una grande mo-stra. Su questa scia è stato pensato il percorso che ha condotto all’ideazione della mostra, che prende proprio le mosse dalla do-manda “Chi è stato Marc Chagall? E cosa rappresenta oggi?” L’esposizione, a Palazzo Reale fino al 1 febbraio, accompagna il visita-tore in una graduale avvicinamento all’artista; attraverso 15 sale e 220 opere si scopre l’artista affiancando l’esperienza artistica alla sua cresci-ta anagrafica. Uomo attento e pro-fondamente sensibile al mondo che lo circonda, Chagall, è figlio ed ere-de di tre culture con le quali si è confrontato e che nel suo lavoro ri-tornano spesso: la tradizione ebrai-ca dalla quale eredita figure ricor-renti, come l’ebreo errante, e imma-gini cariche di simbologie; quella russa, sua terra natia dei bianchi

paesaggi e delle chiese con le cu-pole a cipolla, e quella francese del-le avanguardie artistiche, incontrata più volte durante i suoi soggiorni. Queste eredità si manifestano in maniera eterogenea e armonica in uno stile che rimarrà nella storia per essere solo suo: colori pieni di for-ma e sostanza, animali e uomini coprotagonisti in una sinergia magi-ca, l’atmosfera quasi onirica e l’amore assoluto che ritorna in ogni coppia raffigurata, quello tra Marc e Bella Chagall e che intride di felicità e leggerezza ogni altro oggetto raf-figurato intorno a loro. Persino il se-condo conflitto mondiale e poi la morte dell’amata Belle paiono non appesantire il suo lavoro, quanto invece lo conducono a una maggio-re profondità e pregnanza di signifi-cato. L’immediato godimento della mo-stra, che potrebbe essere ostacola-ta dalla lunghezza e dal corpus così importante di opere, è dato anche dalla capacità didattica della audio-guida e dei pannelli di mediare tra il pensiero e il valore pittorico dell’ar-tista e l’occhio poco allenato del vi-sitatore. I supporti presenti in mo-stra contestualizzano in maniera chiara il periodo e i lavori del pittore, offrendo tal volta una descrizione,

tal volta un approfondimento nelle voci della curatrice Claudia Zevi o dell’erede dell’artista, Meret Meyer. La mostra racconta anche la polie-dricità dell’artista: attraverso i co-stumi, i decori e le grandi scenogra-fie che l’artista ha realizzato per il Teatro Ebraico Kamerny di Mosca emerge lo Chagall sostenitore entu-siasta e attivo protagonista in ambi-to culturale della Rivoluzione d’ot-tobre; nelle illustrazioni per le Favo-le di La Fontaine e nelle incisioni per Ma vie (la sua autobiografia) si incontra un altro Chagall ancora, che non teme in nessun modo il mettersi alla prova con qualcosa di nuovo e diverso. Uomo e artista che si fondono in una personalità quasi magica che al termine della percorso espositivo non si può non apprezzare e che sancisce, ancora una volta, il ruolo dell’artista nella storia dell’arte mo-derna. Marc Chagall. Una retrospettiva 1908 - 1985 - fino al 1 febbraio 2015

Palazzo Reale, piazza del Duomo Milano - Lunedì: 14.30-19.30 Mar-tedì, mercoledì, venerdì e domeni-ca: 9.30-19.30 Giovedì e sabato: 9.30-22.30

Giovanni Segantini tra colore e simbolo

Una retrospettiva come Milano non ne vedeva da tempo: 18 sale ricche di ricerca, dipinti e testi che ripercor-rono la vita e il lavoro del maggiore divisionista italiano, Giovanni Se-gantini. Si tratta di un ritorno ideale quello di Segantini a Milano, il capo-luogo lombardo rappresentò infatti il polo di riferimento intellettuale e ar-tistico per l’artista; era la Milano del-la rivoluzione divisionista che stava lentamente dimenticando lo spirito scapigliata per cogliere la sfida sim-bolista. Al fianco del Segantini ma-turo delle valli e delle montagne svizzere si riscopre anche un giova-ne Segantini che a Milano compie il proprio apprendistato e ritrae i Na-vigli sotto la neve o delle giovani donne che passeggiano in via San Marco.

La mostra è un racconto complesso sul mondo di Giovanni Segantini che accompagna il visitatore in un graduale avvicinamento all’artista, che lo invita ad avvicinarsi attraver-so i quadri, alle emozioni, ai pensieri e alle riflessioni che alle opere sono vincolati. I grandi spazi, gli animali, le monta-gne sono elementi non di comple-mento e non casuali in Segantini ma anzi, acquisiscono un valore mistico e quasi panteistico che permea l’intero lavoro, frutto del forte lega-me tra l’artista e la natura. Questa ultima, madre spirituale per l’artista (e orfano di quella biologica), è spesso resa (co)protagonista delle opere al punto che giocando sui tito-li e sulla compresenza tra uomo e animali si arrivi interrogarsi su quale sia il vero protagonista. L’uso dei

colori, che si scopre con il tempo, sempre più potente grazie alla giu-stapposizione dei colori comple-mentari e uno dei momenti culmine si raggiunge nell’azzurro senza e-guali del cielo di Mezzogiorno sulle alpi (1891). La mostra può essere percorsa e goduta in diverse maniere: in ordine cronologico seguendo l’evoluzione artistica e personale dell’artista ac-compagnati dallo scandire degli ac-cadimenti della vita dell’artista, op-pure seguendo le sette sezioni te-matiche in cui l’esposizione è suddi-visa: Gli esordi, Il ritratto, Il vero ri-pensato, Natura e vita dei campi, Natura e Simbolo attraverso i pan-nelli chiari e lineari che accompa-gnano ciascun gruppo di sale; o an-cora, lasciandosi trasportare dal-l’uso magistrale della tavolozza dei

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colori, che ha reso Segantini il mag-giore esponente del divisionismo italiano. È una delle poche occasio-ni dove le scelte curatoriali e allesti-tive consentono al visitatore di unire la vita e il lavoro dell’artista creando un percorso omogeneo dal quale emerge la complessità del carattere dell’artista, composto, come tutti gli uomini, da vari ruoli: figlio, padre, uomo, artista. Qualsiasi modalità si sia scelta per la fruizione della mo-stra se ne uscirà con appagata la necessità di bellezza e colore, ma più vivida quella di percorrere le

montagna e le valli tanto amate dall’artista. Una nota positiva: i toni alle pareti che vengono giustapposti uno dopo l'altro, stanza dopo stanza, creando come una rappresentazione visiva al sedimentarsi delle conoscenze dell’artista. Una nota negativa: nessuna segna-lazione all’ingresso della mostra sul numero di sale e il tempo previsto di visita, l’orario di chiusura sono le 19.30 ma dalle 19 i custodi provve-dono incessantemente a fare pre-sente la questione facendo uscire il pubblico dalle sale alcuni minuti

prima dello scoccare della mezza. Alla stessa ora chiude anche il boo-kshop, non una scelta vincente lad-dove quest’ultimo rappresenta noto-riamente una delle maggiori fonti di entrata per mostre e musei. Segantini fino al 18 gennaio 2015

Palazzo Reale (Piazza Duomo, 12 - 20121 Milano) Biglietti (con audio-guida in omaggio) €12/10/6 Orari Lunedì: 14.30-19.30 Martedì, Mer-coledì, Venerdì e Domenica: 9.30-19.30 Giovedì e Sabato: 9.30-22.30

LIBRI questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero

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Charles King

Il miraggio della libertà Storia del caucaso

Einaudi 2014 pp. 320, euro 32

L'opera di Charles King, che inse-gna International Affairs and Go-vernment alla George Town University a Washington, è il più no-to e prolifico storico di lingua inglese ad occuparsi negli ultimi anni del "fronte sud" dell'Europa Orientale. La sua "Storia del Mar Nero", pub-blicata in Italia da Donzelli nel 2005,ha avuto un largo successo, come pure il più recente "Odessa", Einaudi 2013, che ha ottenuto il Na-tional Jewish Book Award nello stesso anno. Il "Miraggio della libertà" (ovvero il "Il fantasma della libertà", come si legge meno ottimisticamente nel titolo originale) è la prima storia ge-nerale del Caucaso moderno dall'e-spansione zarista alla nascita dei nuovi stati indipendenti, Georgia, Azerbaigian, Armenia, dopo il col-lasso dell'Unione Sovietica, nel 1991. Il quadro che lo storico di Washin-gton ci offre è illuminante. Tutte le secolari componenti, etniche, lingui-stiche, religiose, economiche, ven-gono passate in rassegna con pro-fondità e ricchezza di dettagli ac-compagnando il lettore lungo le strade che si snodano in una delle aree, da sempre, più turbolente del mondo. Del resto, si domanda King, una ter-ra quasi impercorribile sul piano o-rografico e abitata da veri e propri rebus etnici, come poteva sottrarsi, ieri alla pressione di tre imperi euro-asiatici, quello russo, quello ottoma-no, quello persiano e oggi al "gran-de gioco" delle due superpotenze?

E non è un caso che il tema domi-nante degli ultimi duecento anni, nella regione, sia stata la lotta per la libertà, per l'indipendenza e per la identità politica e culturale. Libertà sempre negata in specie dal domi-natore zarista e poi sovietico, che ha condotto una secolare e spietata guerra contro le popolazione autoc-tone, senza peraltro mai riuscire nell'intento di soggiogarle comple-tamente, o in alternativa, di eliminar-le con il genocidio o la deportazione Quando con il collasso del 1991 l'URRS ha cessato di esistere, l'ap-prodo alla libertà delle tre repubbli-che caucasiche ha messo a nudo la vastità dei problemi economici e po-litici ereditati da un Ottocento confu-so e sanguinoso, fatto di lotte tribali e religiose di lettura indecifrabile. Come indecifrabili apparvero agli occidentali gli innumerevoli linguag-gi parlati nell'area, linguaggi artico-lati in almeno 40 alfabeti, uno dei quali l'Ubikh detiene probabilmente il record mondiale delle consonanti (almeno un'ottantina) per non parla-re del Balkaro, del Karacai, del Calmucco, del Min-grelio, del Sua-no, del Lazo, dell'Abcaso, dell'Os-seno, dell'Inguscio, del Ceceno, del Llavaro, del Dargua, del Lesgho e di tanti altri. In questo coloratissimo mosaico ha fatto irruzione nell'ultimo ventennio la grande politica internazionale, le cui vicende offrono a King l'occasio-ne per ricostruire nei particolari, spesso ignorati dalla pubblica opi-nione, la complessa partita a tre, Stati Uniti, Unione Europea e Rus-

sia post Sovietica, che ancora oggi si gioca, senza esclusione di colpi, tra quelle montagne maestose e quelle valli impervie, che per oltre 1000 kilometri fanno da barriera tra le steppe dell'Asia e gli altipiani ana-tolico e iranico. Apparentemente l'Europa partiva in vantaggio: i nuovi stati indipendenti esprimevano un forte radicamento europeo. L'Armenia, prima nazione cristiana. L'Azerbaigian, prima re-pubblica mussulmana. La Georgia, un'antichissima struttura monarchi-ca, che aveva ispirato nientemeno la conformazione politica dell'Impero bizantino. Tuttavia, almeno dai primi anni del terzo millennio, sono stati gli USA e non l'Europa a condurre il gioco tra il Mar Nero e il Mar Caspio e non è un caso che le tre giovani repubbli-che rientrino da molti anni nel nove-ro dei paesi maggiori beneficiari "pro capite" degli aiuti allo sviluppo, stanziati dagli Stati Uniti a livello mondiale. All'inadeguatezza del sostegno fi-nanziario, l'Europa avrebbe potuto opporre i valori derivanti da una più intensa contiguità politica e cultura-le. Ma a questo punto, osserva King, è intervenuto il tradizionale elemento frenante che caratterizza la politica di Bruxelles. Politica che non nasce da un progetto ottimisti-co, ambizioso e lungimirante ma che è stata ed è figlia insicura dell'ansia del ritorno di un funesto passato. Solo il superamento di un simile sta-to d'animo consentirà all'Europa,

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conclude King, di aprire una volta per tutte le porte del Caucaso. Paolo Bonaccorsi

SIPARIO questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi

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Intervista a Generazione Disagio: dopodiché stasera mi butto Chi siete? Perché vi chiamate Generazione Disagio e di cosa parla il vostro spettacolo? Siamo

un gruppo di lavoratori dello spetta-colo, di artisti, di attori, di amici, di compagni di avventure e di scoppia-ti che hanno deciso di riunirsi per dare vita a un progetto artistico pro-prio che condividiamo al 100 per cento. Al momento coinvolti in questa stu-penda follia utopica siamo: Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi, Ales-sandro Bruni Ocana, Luca Mammo-li, Riccardo Pippa e si sono recen-temente uniti Andrea Panigatti e Davide Lorenzo Palla. Questi sono gli attori e il regista nonché co-autori. A bordo della nostra folle na-ve ci sono poi molte altre persone che collaborano alle scene, alla gra-fica dei disegni, alla tecnica e voglio nominarli: Duccio Mantellasi, Feder-cio Visconti, Niccolò Masini. Generazione Disagio è un nascente collettivo artistico che nasce appun-to dal disagio esistenziale di una generazione di mezzo che non è rappresentata e che è sempre trop-po giovane per essere presa sul se-rio ma ormai troppo matura per es-sere un semplice figlio a carico che si concede il lusso di essere un mantenuto che ancora non sa cosa vuole fare. Siamo gli eterni giovani, sempre in secondo piano ma oramai adulti e preparati, che hanno studiato per fare arte ma finora non hanno anco-ra tirato fuori quello che più gli sta a cuore. È una sorta di collettivo di riscatto, dopo anni passati a studia-re e a essere gli interpreti e la forza di progetti altrui, abbiamo scelto di intraprendere un percorso artistico nostro, che parli a tutti dei nostri bi-sogni, delle nostre aspirazioni e che sappia ridere delle nostre contraddi-zioni, che sappia ironizzare sulla nostra condizione di generazione di mezzo, in costante stato di precaria-to economico, emotivo e sentimen-tale. Il nostro spettacolo parla di una pa-radossale filosofia, il disagio-pensiero, che predica l'accettazione passiva della condizione di disagio: se i tuoi problemi smetti di conside-rali problemi e azzeri le speranze di migliorare la tua vita non resterai mai deluso. Se non hai aspettative,

non sarai mai deluso. Nello spetta-colo facciamo una partita a un gioco dell'oca al contrario: vince chi perde. Con l'aiuto del pubblico 3 personag-gi e un cinico presentatore cercano di rovinare del tutto la loro vita, sperperandola nella superficialità e arrivando per primi alla casella fina-le, quella del suicidio. Più sfighe ti capitano, più avanzi, ma ci sono prove collettive, prove individuali e imprevisti che ti fanno avanzare e indietreggiare nel gioco. “Generazione Disagio: Dopodiché stasera mi butto” è un inno alla non-

curanza, alla viltà, all'inettitudine e alla passività in chiave ironica e ci-nica, con un linguaggio diretto, graf-fiante e provocante. Si ride forte e amaro della condizione degli eterni giovani di oggi, tra i 18 e i 50 anni, perché ormai si resta giovani molto a lungo, chi sta al potere non molla il posto fino alla fine. Alla fine non si sa se è un inno alla risata o alla rivolta per scardinare questa società in cui si può vivere soltanto da disagiati emarginati. Come è nata l'idea e come l'avete sviluppata? L'idea è nata da un

mio bisogno (Enrico) e da successi-vi incontri con i ragazzi che ho scel-to di coinvolgere fin da subito. Sia-mo partiti dall'insoddisfazione e dal-la voglia di confrontarci con il nostro quotidiano e il desiderio di amore, di un mondo migliore e della ricerca del nostro posto nel mondo. Abbiamo deciso di giocare a inter-rogarci sui temi alti, ponendoci nella condizione di chi cammina su un filo di lama di rasoio, in bilico tra il mol-lare tutto e il lottare fino allo stremo, tra la vita e la morte, sia in senso figurato che in senso reale. Abbiamo scritto ognuno pezzi di te-sto su varie tematiche che ci stava-no a cuore: amore, lavoro, sessuali-tà, spiritualità e poi li abbiamo lavo-rati con un meccanismo di parados-si, li abbiamo rimaneggiati e ognuno ha aggiustato i pezzi altrui. A un certo punto abbiamo tratto un testo dal nostro lavoro, anche con l'aiuto di una drammaturga (Alessandra Scotti), poi abbiamo sentito il biso-gno di un occhio esterno e abbiamo coinvolto il nostro amico e collega Riccardo Pippa, che ci ha aiutati a dare una forma al lavoro, fornendo un contributo eccezionale dal punto

di vista stilistico: abbiamo deciso di mettere in scena il meccanismo di lavoro stesso. Quello che era il mo-do di affrontare il processo creativo è diventato stile della rappresenta-zione. Siccome stavamo giocando su temi profondi in maniera profonda ma ironica e cinica, abbiamo reso que-sto il nostro stile di spettacolo ed è nato “dopodiché stasera mi butto”, uno spettacolo grottesco e straluna-to, un gioco macabro ma diverten-tissimo, che alterna pezzi di cabaret e teatro improvvisazione a monolo-ghi drammatici e pezzi di coreogra-fia trash. È diventato un gioco dal vivo, uno spettacolo-convention in cui il pubblico fa la differenza e cambia un po' ogni sera. La cosa ha funzionato e ha attratto curiosità, consensi e collaborazioni. Abbiamo vinto il premio giovani real-tà del teatro, la menzione speciale al Festival Scintille di Asti e al Festi-val In-transito a Genova e siamo stati record di presenze al Torino Fringe Festival, fino all'attuale colla-borazione produttiva con Proxima Res, compagnia teatrale milanese che ha chiesto di diventare il nostro co-produttore. Adesso debutteremo ufficialmente al teatro Elfo Puccini di Milano dal 26 dicembre 2014 al 4 Gennaio 2015, per poi dirigerci al Teatro della Tosse di Genova e in una successiva prima tourneè. Tutti lavorate anche con grosse produzioni: qual è la differenza nel modo di lavorare? Qui sei mol-

to più esposto in prima persona e nessuno ti tutela. Nelle produzioni ci sono lavori a monte che hanno fatto altri: una produzione, un piano di regia, una distribuzione e una scelta di linguaggi. Quando lavori in pro-prio non puoi dedicarti solo a essere interprete di un lavoro, ma devi sce-gliere, provare e difendere ogni par-te del processo artistico, dalla scrit-tura alla recitazione alla promozione e la grafica. Nessuno ti aiuta o tutela, però è tut-to più tuo e sei più consapevole di ogni singolo traguardo. In una pro-duzione puoi non condividere dei passaggi o delle scelte, sei un di-pendente e sei più artigiano se vo-gliamo, quando fai le tue cose sei un artista a tutto tondo e se non sei convinto è difficile andare avanti,

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anche perché nessuno ti paga o in-coraggia. Spesso molte energie vengono as-sorbite da altro, non strettamente necessario al mestiere di attore e questo può affaticare e deludere a tratti, ma alla fine sei molto più ap-pagato, è come mangiare l'insalata coltivata nel proprio orto. La diffe-renza principale a livello economico è che senza una produzione spesso devi fare altri lavori per pagarti la possibilità di fare forse, un giorno, il tuo spettacolo. Contemporaneamente sulle grande produzioni devi trovare il modo di far vivere parole altrui, quando sei tu a scrivere e creare devi cercare le pa-role per far vivere il tuo modo di sentire il mondo e non puoi prescin-dere dal pubblico a cui ti rivolgi, perché non hai nessun nome o titolo che già accredita come interessante o degno di attenzione quello che hai da dire. Come attore servono entrambe le esperienze credo, da una parte affi-ni tecnica e capacità analitica, dall'altra metti in gioco il tuo mondo interiore e ti costringi a capirti, a sa-perti esprimere e ad ascoltare cosa arriva al pubblico dal tuo lavoro. Le due cose si compensano e ti miglio-rano come artista. Com'è secondo voi la scena tea-trale milanese odierna? È ambiva-

lente, è strana, ma è anche ancora aperta alla novità, forse è la più vi-va, pur avendo grandi limiti e con-traddizioni. Da una parte è una sce-na chiusa, come quasi tutto il teatro,

autoreferenziale, volta più a giustifi-care sé stessa o vivere dei fasti del passato che non a creare arte e cercare di parlare ai suoi cittadini veri e reali. Sempre più si parla solo fra teatran-ti, si fanno spettacoli sul teatro e per il teatro, ignorando completamente una città che è composta da lavora-tori che si alzano alle 5 e alla sera portarli a teatro è un miracolo se non un miraggio, perché giustamen-te sono stanchi e a certi prezzi non esci di casa se non ti viene garantito almeno un concerto rock. Dall'altra parte per fortuna presenta ancora realtà in grado di cogliere una forza e un entusiasmo nuovi e sanno farsi accoglienti e propositive nei confronti di spettacoli e compa-gnie emergenti. È una scena vasta e con molti strati: si va dai teatri-museo agli spettacoli nei bar, e il pubblico se si sa parlargli non man-ca. Credo sia una città che ha anco-ra voglia e bisogno di socialità e teatro e sappia ancora riconoscere un buono spettacolo e premiare chi sa fare teatro, se gliene viene con-cessa l'occasione. Credo però sia troppo competitiva e settoriale, spesso si sceglie lo spet-tacolo da vedere o mettere in cartel-lone in base al teatro invece che al gusto per l'opera rappresentata. Come vorreste che fosse il teatro in Italia fra 20 anni? Popolare, dif-

fuso, difeso, ringiovanito e contem-poraneo. Lo vorrei pubblico e pieno di pubblico perché pieno di spetta-coli belli e coinvolgenti, vorrei vede-

re spettacoli da cui il pubblico esce consigliandolo agli amici e non sba-digliando, lo vorrei senza biglietti omaggi ma con un prezzo basso per tutti, lo vorrei emozionante e che lasci a bocca aperta, vorrei tor-nare a sentire delle storie e a vede-re il pubblico piangere e ridere. Lo vorrei che scuota le coscienze e spinga all'indignazione o agli ab-bracci, lo vorrei come luogo abituale delle serate degli studenti e dei la-voratori, anche solo per bere una birra e parlare di società e politica. Un teatro senza pubblico non è de-gno di stare aperto e una società che rinuncia al teatro e alla rifles-sione pubblica e condivisa è una società morta, pronta per l'annien-tamento e la dittatura. Il teatro deve tutelare la memoria, tramandare va-lori e domande e esperienza del passato ma anche produrre imma-ginario, mondi migliori e utopici e capacità di ridere delle atrocità. Solo così ci si salverà da futuri nuovi ba-ratri di medioevi che appaiono non troppo lontani. Se si rende la socialità e la cultura una cosa noiosa, settoriale o inarri-vabile si diventa complici di diffusio-ne di barbarie e ignoranza. Di qui a 20 anni ci piacerebbe pensarci in-vece felici, aperti, acculturati, gau-denti e ridanciani. Magari anche innamorati. Il nostro urlo di disagio in fondo è una richie-sta di affetto, siamo dei romanticoni. Emanuele Aldrovandi

CINEMA questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi

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Boyhood

di Richard Linklater [USA, 2014, 163'] con: Patricia Arquette, Ellar Coltrane, Ethan Hawke, Lorelei Linklater,

Boyhood è un film speciale, è stato girato in 12 anni (dal 2002) con lo stesso cast di attori che durante la realizzazione dell’opera sono invec-chiati. Racconta la vita di Mason e della sua famiglia. La pellicola si a-pre con il piccolo Mason a 6 anni che sdraiato su un prato guarda il cielo. Vive con la madre Olivia e la sorella Samantha in una cittadina del Texas. I suoi sono divorziati. È il piccolo Mason che ci narra la storia. Attraverso i suoi occhi assi-stiamo a traslochi, a cambiamenti di scuole e amici. Conosciamo il padre un po’ infantile, ma premuroso, la sua nuova compagna e un nuovo fratellino. Incontriamo i due nuovi

mariti della madre, con cui gli tocca vivere, che si riveleranno alcolizzati e violenti. Ma soprattutto vediamo Mason passare dall’infanzia all’adolescenza, siamo testimoni dei suoi cambiamenti fisici, incontriamo la prima fidanzata, assistiamo alla prima sbronza, lo seguiamo fino al suo ingresso al college. Il film si presenta a episodi (ogni anno il regista girava per qualche giorno) che scivolano amabilmente uno dentro l’altro senza che ci siano fastidiose cesure. E in ciascuno di questi episodi i personaggi appaio-no leggermente diversi sia fisica-mente (è passato almeno un anno dall’episodio precedente) sia psico-

logicamente. Sullo sfondo si intra-vedono fatti di cronaca (guerra in Irak, elezione Obama) o oggetti (il nuovo libro di Harry Potter, ecc.) che scandiscono il passare del tem-po senza mai diventare invasivi o prevalere sulla storia di Mason. An-che la colonna sonora sottolinea con i suoi pezzi lo scandire del tem-po narrato. L’impressione è che il regista voglia riprodurre in maniera fedele il flusso della vita in cui la banalità della quo-tidianità prevale sui momenti ecce-zionali e drammatici (che non mo-stra ma evoca come il divorzio dei genitori, la guerra in Irak) destinati a essere superati.

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La riuscita di questo film è sicura-mente dovuta, oltre alla maestria di Linklater che ha confezionato la sto-ria con un equilibrio unico, anche agli attori che per 12 anni si sono incontrati per pochi giorni l’anno, il film è stato girato in tutto in soli 39

giorni. Il regista ha tenuto i contatti con loro, soprattutto con il giovane “Mason”, tutto il tempo per mante-nere vivo il clima. I genitori sono Patricia Arquette e Ethan Hawke che, come racconta Linklater, hanno subito accettato il

progetto. Mason è interpretato dall’ottimo Ellar Coltrane seleziona-to dopo un lungo casting, mentre la sorella Samantha è Lorelei Linkla-ter, figlia del regista. Dorothy Parker

IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE

UN PO' DI STORIA IN MEZZO AL TRAFFICO http://blog.urbanfile.org/2014/12/15/segrate-il-monumento-alla-mitica-lambretta/

MILANO SECONDO [Ruth]

Andrée Ruth Shammah: MILANO RIFLESSIVA http://youtu.be/PSfcqoD55f8