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What place is this public space A cura di: Gilda Berruti Gregory Smith INTERVENTI DEI PARTECIPANTI Relatori: Gilda Berruti, Daniela Lepore – Piazze dissequestrate: La sequenza di spazi pubblici tra Spaccanapoli e Rettifilo Giovanni Maria Biddau, Laura Lutzoni – Progetto ambiente e spazio pubblico Matthias Blondia, Erik De Deyn – Big Projects / small stations Francesca Calace, Leonardo Rignanese – Lo spazio urbano della riqualificazione e il suo progetto Cecilia Cecchini, Maria Claudia Clemente, Daniele Durante – Lo spazio pubblico: Progetto e identità del vivere sociale Simona Colucci, Fabio Landolfo – Lo spazio pubblico come costruzione eventuale Lidia Decandia, Anna M. Uttaro, Leonardo Lutzoni – Riaprire relazioni vitali con i luoghi: la creazione di contesti pubblici di apprendimento collettivo. L’esperienza del blocco didattico “Progetto nel contesto sociale” Andrea Di Giovanni – Nuove urbanità, specie di spazi. Per un ri-orientamento del progetto dello spazio pubblico Giovanna Bianchi, Giacomina Di Salvo, Valeria Ciancarelli – La dimensione urbana della residenza e lo spazio pubblico nel progetto della città di tutti i giorni Orfina Fatigato – il progetto del vuoto per spostamenti minimi: trasformazioni in corso in Piazza Mercato a Napoli Enrico Formato, Michelangelo Russo – L’urbanistica dello spazio aperto Valentina Gurgo, Daniela Mello – Il seminario interdisciplinare di Antropologia urbana e Urbanistica. Una sperimentazione per l’analisi dello spazio pubblico Francesco Lo Piccolo – Palermo: laboratori di cittadinanza attiva per la riconquista dello spazio pubblico Annalisa Mauri – Esercitazione “Trasformazione Valnerina” Claudio Mollo – Il concorso nazionale “il mito del Mammut” Maurizio Moretti, Ilaria Angelelli – Ruolo e natura dello spazio pubblico nelle città Samanta Bartocci, Francesca Rango, Michele Valentino – Margine, Frammento e Spazio Pubblico Sang Lee, Marc Schoonderbeek – The story of felice; The Aqueduct’s stratum Porus Olpadwala, Gregory O Smith, Carlotta Fioretti, Claudia Meschiari – Capire lo sguardo in un laboratorio di studi urbani Renèe Tribble – UdN International Summer School

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What place is this public space

A cura di: Gilda Berruti Gregory Smith INTERVENTI DEI PARTECIPANTI Relatori: Gilda Berruti, Daniela Lepore – Piazze dissequestrate: La sequenza di spazi pubblici tra Spaccanapoli e Rettifilo Giovanni Maria Biddau, Laura Lutzoni – Progetto ambiente e spazio pubblico Matthias Blondia, Erik De Deyn – Big Projects / small stations Francesca Calace, Leonardo Rignanese – Lo spazio urbano della riqualificazione e il suo progetto Cecilia Cecchini, Maria Claudia Clemente, Daniele Durante – Lo spazio pubblico: Progetto e identità del vivere sociale Simona Colucci, Fabio Landolfo – Lo spazio pubblico come costruzione eventuale Lidia Decandia, Anna M. Uttaro, Leonardo Lutzoni – Riaprire relazioni vitali con i luoghi: la creazione di contesti pubblici di apprendimento collettivo. L’esperienza del blocco didattico “Progetto nel contesto sociale” Andrea Di Giovanni – Nuove urbanità, specie di spazi. Per un ri-orientamento del progetto dello spazio pubblico Giovanna Bianchi, Giacomina Di Salvo, Valeria Ciancarelli – La dimensione urbana della residenza e lo spazio pubblico nel progetto della città di tutti i giorni Orfina Fatigato – il progetto del vuoto per spostamenti minimi: trasformazioni in corso in Piazza Mercato a Napoli Enrico Formato, Michelangelo Russo – L’urbanistica dello spazio aperto Valentina Gurgo, Daniela Mello – Il seminario interdisciplinare di Antropologia urbana e Urbanistica. Una sperimentazione per l’analisi dello spazio pubblico Francesco Lo Piccolo – Palermo: laboratori di cittadinanza attiva per la riconquista dello spazio pubblico Annalisa Mauri – Esercitazione “Trasformazione Valnerina” Claudio Mollo – Il concorso nazionale “il mito del Mammut” Maurizio Moretti, Ilaria Angelelli – Ruolo e natura dello spazio pubblico nelle città Samanta Bartocci, Francesca Rango, Michele Valentino – Margine, Frammento e Spazio Pubblico Sang Lee, Marc Schoonderbeek – The story of felice; The Aqueduct’s stratum Porus Olpadwala, Gregory O Smith, Carlotta Fioretti, Claudia Meschiari – Capire lo sguardo in un laboratorio di studi urbani Renèe Tribble – UdN International Summer School

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Workshop “What Place is this Space. Un'indagine sul campo a partire dai laboratori di urbanistica” n Il workshop “What Place is this Space”, che si è tenuto a Roma nell’ambito della prima Biennale dello spazio pubblico il 13 maggio 2011, si è interrogato sulle idee di spazio pubblico che emergono oggi dai laboratori attivi in diverse Università italiane e straniere e su quali siano i metodi d’indagine adottati per studiare queste specie di spazi. Il progetto ha avuto il supporto della Cornell University e del corso di laurea Urbanistica Paesaggio Territorio e Ambiente dell’Università di Napoli “Federico II”. La domanda alla base del workshop: “Che luogo è questo spazio pubblico?” parafrasa Kevin Lynch in “What time is this Place” (1972) e invita i partecipanti a concentrarsi sulla materia degli spazi urbani e sul modo in cui sono vissuti. I “luoghi”, infatti, sono “unità di esperienza in cui le attività e la forma fisica sono amalgamate” (Canter 1977), sono “spazi” calati nella realtà, spazi con un aggettivo che vi aderisce, o spazi con un significato (Clifford 1993; Norberg-Schulz 1979). Il punto di partenza dei contributi al workshop è la descrizione degli spazi pubblici approfonditi durante l’attività didattica dei laboratori, provando a restituire insieme le relazioni esistenti tra le persone e gli spazi e quelle tra le persone. In questo modo si possono riconoscere diversi tipi di luoghi – quale che sia la loro natura, attivandosi per leggere tracce e decodificare significati. Ciò è possibile camminando molto, soprattutto a piedi, per la città, guardandosi intorno, prendendo l’abitudine e allenando gli occhi a notare indizi di natura diversa, ma anche essendo capaci di costruire, sulla base di questi, una diagnosi del contesto osservato. L’obiettivo è definire che luogo è uno spazio pubblico, quali sono le pratiche che vi si svolgono e quali le abilità necessarie per leggerle, puntando su un “occhio acuto e partecipe” (Lynch 1980) in grado di riconoscere i confini mobili tra territori e le diverse dimensioni degli spazi. L’adesione di diversi corsi di laurea ha testimoniato l’importanza, tra le abilità di un urbanista o di un progettista urbano, del riconoscimento e poi dell’ascolto del luogo, dell’individuazione del suo carattere, con il proposito di “farlo durare”. Alla base del workshop c’è stata una mostra dei lavori prodotti dai laboratori che si sono candidati a partecipare e si è aperto un confronto su saperi, approcci e pratiche utili a descrivere gli spazi pubblici contemporanei. n Il tema dello spazio pubblico è ampio e si presta a molte definizioni e i contributi ricevuti ci restituiscono la ricchezza del campo, a partire da approcci e strumenti che ne rendono possibile l’analisi e la descrizione fino all’individuazione di diversi tipi di spazi. I contributi raccolti interessano temi affrontati dai laboratori di diversi corsi corsi di laurea, alcuni tirocini e workshop, organizzati nei corsi di studio universitari o

anche da associazioni che lavorano in connessione con le università, e qualche riflessione mirata ai modi di classificare gli spazi pubblici con l’obiettivo di riorientarne il progetto o di rendere aperto il dialogo tra disegno degli spazi e loro utenti. La discussione, che ha impegnato 4 ore, si è articolata a partire da 21 contributi, così ripartiti: 13 da università italiane (Politecnico di Milano, Università di Napoli Federico II, Università di Roma La Sapienza, Politecnico di Bari, Università di Palermo, Facoltà di Architettura di Alghero); 6 da università straniere (Cornell University, HafenCity Universität Hamburg, TU Wien, TU Delft, KU Leuven); 2 da associazioni o centri territoriali che hanno intrapreso progetti con il supporto dell’università (Mammut e Aste e nodi, con i rispettivi workshop “il Mito del Mammut” e “Porta le tue idee in vacanza”). I lavori presentati ed esposti nei poster della mostra sono stati oggetto di studio in diversi laboratori (di Urbanistica, progettazione urbanistica o progettazione urbana, public design, progetto ambientale), che lavorano a diverse scale, dall’area vasta, al contesto urbano, allo spazio di prossimità, limitrofo alle residenze. Alla fine della sessione, che avrebbe richiesto un ulteriore spazio per la discussione che i tempi stretti del programma non ci hanno consentito, è stata confermata la difficoltà di definire in modo univoco lo spazio pubblico e, quindi, l’opportunità di parlare di spazi pubblici, al plurale, spazi concreti in cui si entra, e con cui si entra in contatto, dentro ai quali si stabiliscono relazioni con gli altri. La definizione di spazio pubblico è una questione aperta, su cui non è facile trovare un accordo: addirittura tra i relatori c’è stato qualcuno che ha messo in dubbio l’opportunità di affrontare un tema così complesso nei laboratori, soprattutto del primo anno del corso di studi. n Nelle note che seguono si proverà ad operare una sintesi dei temi affrontati durante il workshop, dal punto di vista dell’individuazione delle idee di spazio pubblico che emergono oggi nei laboratori e dei metodi e delle tecniche adoperate per studiarli. Un tema che ritorna in diversi interventi è la necessità di riaprire relazioni affettive e vitali con i luoghi. In questo senso, la cura degli spazi - che coinvolga le diverse componenti dei luoghi, non solo di pietra - è ritenuta un mezzo per riannodare urbs e civitas (Decandia, Uttaro, Lutzoni). A questo scopo, si suggerisce di lavorare sulle relazioni minute tra luoghi, oggetti e soggetti negli spazi della residenza della città di tutti i giorni, laddove lo spazio pubblico svolge il ruolo di mettere in relazione la dimensione dell’abitare con le altre dimensioni del vivere in città (Di Salvo, Ciancarelli). Un altro percorso teso ad affermare la natura civica delle pratiche di pianificazione porta a porre l’attenzione, nella lettura degli spazi pubblici, alla capacità di gruppi minoritari di lottare per la costruzione sociale dei luoghi, in un’accezione di pubblico come luogo e pratica di cittadinanza attiva (Lo Piccolo).

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Le interazioni forti tra i partecipanti alle scuole estive e i quartieri o i piccoli centri in cui si tengono è messa in luce in diversi esperimenti di questo tipo, che siano organizzati dalle università, come nel caso della UdN International Summer School (Tribble), o da associazioni di studenti che invitano i partecipanti a portare saperi in cambio di ospitalità, come per il Summer workshop di Aste e Nodi “Porta le tue idee in vacanza” (Colucci, Landolfo, Rossi). In ogni caso, la regola di base è la stessa: vivere e lavorare insieme, per un tempo determinato. Possiamo condividere, per gli spazi pubblici della città contemporanea, la definizione di un “pubblico minore” (Bianchetti 2011): “un pubblico un po’ meno pubblico”, amputato del suo carattere stabile e duraturo. Questo spazio depotenziato è declinato in diverse sperimentazioni didattiche, che privilegiano una strategia per spostamenti minimi che mira ad accrescere incrementalmente la qualità della città. Questo atteggiamento emerge nel ruolo assegnato ai vuoti come forme strutturanti la città, ripensati come risorse per rendere la città permeabile (Fatigato), o agli spazi aperti residuali, gli interstizi urbani, come spazi di relazione per i quali ricercare nuove integrazioni, non solo funzionali (Russo, Formato). O ancora, nella capacità, con interventi minimi e con l’attiva partecipazione cittadina, di governare le trasformazioni urbanistiche per rimettere lo spazio pubblico a servizio dei suoi fruitori, ritessendo quella tela di percorsi e di relazioni umane che la modernità ha cancellato (Mauri). Da una riappropriazione degli spazi di tipo progettuale, per cui è preferibile ragionare sullo spazio urbano prima che sullo spazio pubblico (Calace, Rignanese) si passa a riflessioni in cui il tema della territorialità assume un ruolo di primo piano: gli spazi pubblici sono intesi come luoghi da sentire propri, di cui riappropriarsi, su cui esercitare il controllo. Luoghi da recuperare ricorrendo alle pratiche della pedagogia attiva e della partecipazione. Se poi il discorso riguarda una delle periferie italiane più stigmatizzate, diventa interessante il tema dei gradi di uso degli spazi, e della definizione dei confini tra non uso, uso e abuso (Mollo). n Dal punto di vista dei metodi e delle tecniche adoperati per studiare gli spazi pubblici, il workshop ci ha restituito un campo molto vario. Molti dei lavori presentati hanno come punto di partenza l’osservazione diretta e l’ascolto dei luoghi, che in molti casi prevede anche l’uso di interviste. Inoltre, l’osservazione può essere orientata al riconoscimento dei tessuti urbani, anche col supporto della cartografia: la lettura morfologica dei luoghi diviene così traccia per il progetto. Da questo punto di vista, assumono importanza il progetto di suolo e un approccio multiscalare. Si suggerisce l’uso di cornici teoriche ben strutturate per studiare gli spazi vissuti: dalla teoria della buona forma urbana di Kevin Lynch (1981) per impostare il ragionamento sulla valutazione dei luoghi e indirizzare le proposte di scenari futuri, alla materialità della visione di Debord, alla concezione arendtiana dello spazio pubblico.

In alcuni casi la ricerca diventa ricerca-azione, alterna lo studio scientifico del territorio ad “officine” operative, mette insieme competenze diverse e diversi approcci alla città, dall’antropologia urbana al public design, sperimenta sguardi incrociati verso contesti diversi, prova ad includere i cittadini o gli utenti presunti nei processi in corso, fa esperimenti di animazione territoriale e lettura condivisa degli spazi. Altrove, si mantiene un approccio più tradizionale, fondato sulla regolazione degli usi del suolo, lasciando poco spazio al non pianificato e all’imprevisto. GILDA BERRUTI e GREGORY SMITH n Bibliografia Bianchetti C. (2011), “Un pubblico minore”, Crios. Critica degli ordinamenti spaziali, n.1 Canter D. (1977) , The Psychology of Place, The Architectural Press, London Clifford S. (1993), Places: The City and The Invisibile, Public Art Development Trust, London Lynch K. (1972, tr. it.1977), What time is this place, MIT Press, Cambridge (Ma), London Lynch K. (1981), A Theory of Good City Form, Mit Press, Cambridge (Ma) - London Norberg-Schulz C. (1979), Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura, Electa, Milano

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Progetto ambientale e spazio pubblico

Il tradizionale concetto di spazio pubblico appare inadeguato a esprimere la complessità degli attuali sistemi insediativi. Le città, sempre più indistinguibili dal territorio circostante, non possono essere adeguatamente rappresentate mediante modelli interpretativi dicotomici. In questa direzione modalità alternative di lettura della città-territorio rivelano un ordine differente a partire da elementi in passato marginali all'interno del progetto urbano, come ad esempio il sistema ambientale. Il territorio e i suoi processi, infatti, entrano a far parte dell'organizzazione urbana, divenendo un'area disponibile per pensare diverse modalità e forme di appropriazione dello spazio. A partire da questa concezione urbana territoriale emergono prospettive per lo spazio pubblico il cui significato è da ricercare nelle dinamiche di una realtà sociale, economica e culturale in trasformazione, relazionata con le specificità dei luoghi.Le esperienze della Sardegna centro-settentrionale, in particolare quella delle aree umide dell'Oristanese e dell'area produttiva-commerciale della città di Sassari, evidenziano come la prospettiva urbana passi attraverso un ripensamento delle modalità di progettazione dello spazio pubblico. A partire da centralità ambientali, aree di margine e spazi intermedi, il progetto può favorire l’emergere di modi alternativi di pensare lo spazio insediativo.

Public space and its relation to the surrounding environment

It is evident that urban contexts and elements closely related to them can no longer be analysed and explained by using traditional views and interpretations. For instance, it is becoming increasingly difficult to distinguish “the city” from the surrounding environment, and impossible to give the urban condition an adequate representation by using dichotomous categories of interpretation. Also, “public space” appears to be an inadequate concept for expressing the complexity of existing settlements. Hence, alternative ways of conceiving dimensions related to the city/the surrounding territory are developing. This alters the hierarchy of relevance of various elements. As a matter of fact, some elements that previously appeared as marginal have come to take on a more important role within urban planning. One example of such an element is the environmental system.The environment surrounding cities becomes part of the urban context - a space that, hence, gives way to different ways and forms of appropriation of space. This conception of the urban context as enlarged, also encompassing the surrounding environment suggests new prospects for a widened interpretation of public space as a dimension that involves social, economic and cultural aspects, undergoes transformations and interrelates with specific places and their features.Experiences from the central-northern part of Sardinia, in particular the wetlands close to Oristano and the industrial-commercial area of the city of Sassari, indicate that the urban perspective is undergoing a process of change, in which the design of public space is being reconsidered and represented in new ways. These alternative views on public space can change several aspects related to design and planning in fringe urban areas, environmental contexts and intermediate space.

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Città-territorio e spazio pubblico*1

Il dibattito sullo spazio pubblico prende avvio da una riflessione sui cambiamenti in corso nella città contemporanea e sulla dilatazione del concetto di abitare. La complessità dei sistemi insediativi, privi di una struttura univoca e imperativa, appare difficilmente riconducibile al tradizionale concetto di spazio pubblico. Le città appaiono sempre più indistinguibili dal territorio circostante e la differenza tra il dentro e il fuori dell’agglomerato urbano è diventata difficile da percepire (Benevolo 2011). In particolare “la rappresentazione mentale tradizionale della città non ha semplicemente più corso” (Corboz 1998: 217), così come le categorie interpretative dicotomiche (città-campagna, centro-periferia, ecc.) appaiono inadeguate ad esprimere l’attuale complessità urbana. A tale proposito l’assunzione di una concezione territoriale può definire differenti e più appropriati modi di pensare lo spazio insediativo e favorire l’emergere del potenziale urbano dei territori esterni (Maciocco et al. 2011). Le modalità di lettura della città-territorio possono rivelare le strutture del sistema ambientale come generatrici di un ordine diverso. In questo senso il territorio e i suoi processi ambientali entrano a far parte dell’organizzazione urbana, divenendo un’area disponibile per pensare differenti modalità e forme di appropriazione dello spazio.

* Il presente contributo è il risultato di alcune riflessioni sviluppate all’interno delle tesi di laurea di Giovanni Maria Biddau e Laura Lutzoni (Relatori: Giovanni Maciocco, Gianfranco Sanna e Silvia Serreli). Entrambi gli autori hanno curato il primo e l’ultimo paragrafo, Giovanni Maria Biddau ha curato il paragrafo “Dimensione ambientale e progetto della città”, Laura Lutzoni il paragrafo “Leisure urbano e spazio pubblico”.

A partire da questa concezione urbana territoriale emergono prospettive per lo spazio pubblico il cui significato è da ricercare nelle dinamiche di una realtà sociale, economica e culturale in trasformazione, relazionata con le specificità dei luoghi.La Sardegna offre un ampio panorama di sperimentazione per pensare differenti dimensioni dello spazio pubblico e il Laboratorio Internazionale sul Progetto Ambientale (LEAP1) della Facoltà di Architettura di Alghero ricerca nella dimensione ambientale le condizioni strutturanti di una diversa urbanità. Alcune significative esperienze evidenziano come a partire da centralità ambientali, aree di margine e spazi intermedi, il progetto dello spazio pubblico possa determinare le condizioni propizie capaci di favorire l’emergere di modi alternativi di pensare e vivere lo spazio dell’abitare.

Dimensione ambientale e progetto della cittàAll’interno di una concezione territoriale della città il progetto dello spazio pubblico prende avvio da un processo di studio e analisi delle dinamiche ambientali. In questo senso l’esperienza della laguna di Cabras2, nella Sardegna centro-occidentale, si struttura a partire dall’interpretazione delle dinamiche che caratterizzano il territorio delle aree umide dell’Oristanese, le cui condizioni biologiche sono state alterate da interventi

1 La ricerca è venuta a delinearsi nelle sue linee essenziali attraverso le attività del blocco didattico “Città e Territorio”, i laboratori di laurea, le scuole estive e le attività legate alle pubblicazioni scientifiche internazionali.2 Tesi di laurea in Architettura realizzata da Giovanni Maria Biddau dal titolo “Il progetto ambientale della città di Cabras e delle aree umide dell’Oristanese”, Relatori: Giovanni Maciocco, Gianfranco Sanna, Silvia Serreli, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Architettura, A.A. 2008/2009.

Gairo, rapporto tra il centro abitato e il territorio dell’Ogliastra. Foto di Pepe Peralta

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invasivi e dall’immissione nelle acque dei reflui dei centri prossimi. La concezione territoriale della città, in cui le forme urbane sono definite da piccoli episodi insediativi, dalla diffusione urbana, da microsituazioni immerse in contesti molto ampi, si basa sulla ridefinizione della centralità ambientale del sistema. A tale proposito la dinamicità delle relazioni territoriali viene legata all’integrazione tra le dimensioni ambientali-naturali e le dimensioni urbane (Serreli 2004). Lo spazio di confine tra il sistema delle aree umide e il territorio circostante può essere letto come uno spazio intermedio (Maciocco, Tagliagambe 2009) di interfaccia tra acqua e terra, nonché come un’occasione per esplorare le dinamiche e le condizioni dell’ecosistema stesso. In questo senso il sistema delle aree umide viene riconosciuto e acquisito come conoscenza fondamentale per la lettura e il progetto della città (Schauman, Salisbury 1998). Questi spazi, altamente significativi e fragili, rappresentano entità che possono essere salvaguardate solo attraverso azioni progettuali strutturate e organizzate (Ruiz Martinez, Romera Garcia 2005). A tale proposito i paesaggi della pesca, dell’agricoltura e della bonifica di Cabras non sono considerati come elementi separati, ma al contrario strettamente connessi mediante un’ampia rete di relazioni. Ne deriva una visione progettuale che prende in considerazione non solo il funzionamento degli ecosistemi, ma anche le attività a esso connesse (Naveh 2000). Il sistema primario di depurazione delle acque residuali e quello integrato di fitodepurazione, in contrasto con l’attuale gestione dei reflui, reimmettono nel bacino delle aree peri-lagunari acque sottoposte a diversi livelli di depurazione e favoriscono un’organizzazione

Cabras, segni dell’agricoltura. Foto di: Pepe Peralta

policentrica del sistema urbano. Le aree umide del territorio divengono il centro ambientale del sistema insediativo di area vasta e rafforzano il legame tra i centri e la laguna. Il bacino idrografico di Cabras può acquisire funzioni urbane, promuovere la crescita delle economie, orientare la localizzazione e organizzazione dei sistemi insediativi e delle attività, mantenendo la propria rilevanza ambientale e gestendo la promozione e le fasi di apprendimento delle funzioni ad esso connesse. A partire dallo studio delle relazioni tra i differenti paesaggi che caratterizzano questo territorio, il processo di depurazione delle acque diventa un’occasione per riprogettare lo spazio insediativo, organizzare i servizi pubblici e fornire risposte adeguate alle problematiche legate ai deflussi nelle aree umide. Il progetto struttura una sequenza di spazi di relazione che, adattandosi alla sensibilità dell’area peri-lagunare, definiscono uno spazio pubblico lungo la laguna, un percorso nel quale si localizzano servizi e nuove strutture urbane (aree ricreative, per la sosta, la didattica, ecc.). L’articolazione di questi spazi e delle strutture di fruizione costituisce il principio ordinatore per l’inserimento del sistema di fitodepurazione, permettendo l’accesso ad aree di grande interesse naturalistico e favorendo la creazione di differenti forme di spazio pubblico. Le aree di bordo o non pianificate, compaiono come luoghi di affermazione, costruzione di nuovi momenti di comunicazione nei territori marginali, non ancora occupati dal regno dell’urbano (Maciocco, Pittaluga 2006). Il progetto, orientato in senso ambientale, può sperimentare combinazioni inedite in grado di facilitare l’integrazione tra dimensioni diverse, ad esempio tra la dimensione ambientale e quella urbana.

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Progetto ambientale della città di Cabras delle aree umide dell’Oristanese

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Leisure urbano e spazio pubblicoL’interazione tra processi urbani e ambientali può avere luogo non solo nella città estesa nel territorio e caratterizzata da una bassa densità insediativa, come l’esperienza della laguna di Cabras, ma anche nella città densa contraddistinta da processi di privatizzazione legati alle attività del leisure.In questo senso lo spazio pubblico diviene uno strumento con cui è possibile ribaltare il paradigma secondo cui le logiche del consumo dettano forme urbane e stili di vita nella città contemporanea. Fenomeni di commercializzazione, privatizzazione e theme-parking (come shopping centers, parchi tematici, enclaves turistiche) costituiscono spazi privati di uso pubblico. Tale dinamica dell’insediamento privato che conforma lo spazio urbano senza un disegno comune si ritrova ai margini di molte città, in una ripetizione seriale che accomuna paesaggi urbani lontani tra loro. Nell’area commerciale di Predda Niedda nella città di Sassari3 enclaves iperspecializzate ripropongono il tema controverso del rapporto tra consumo e spazio pubblico. I luoghi del consumo si definiscono come aree di intrattenimento, la cui caratteristica principale è quella di simulare lo spazio pubblico (Ritzer 2001), riproducendone sia gli spazi che le funzioni. La costante replica di forme spaziali della città all’interno di questi luoghi, spinge gli individui a ricercarvi esperienze di tipo identitario e a considerarli come forme alternative di spazio pubblico (Amendola 1997). I centri commerciali possono essere rivisitati come

3 Tesi di laurea in Architettura realizzata da Laura Lutzoni dal titolo “Spazi di relazione tra luoghi del commercio e luoghi della città: prospettive urbane per l’area di Predda Niedda a Sassari”, Relatori: Giovanni Maciocco, Gianfranco Sanna, Silvia Serreli, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Architettura, A.A. 2007/2008.

Area commerciale di Predda Niedda a Sassari

luoghi liminali e di transito, in cui è piacevole perdersi in una dimensione senza tempo, in uno spazio che isola dal mondo esterno e che riproduce nel suo interno un mondo a misura di singolo individuo (Codeluppi 1989). Queste strutture commerciali si inseriscono all’interno del tessuto urbano come santuari, come templi in cui lo shopping perde la sua valenza funzionale, per diventare un’esperienza di vita e una pratica di svago costituita da gesti e ritualità codificate (Ritzer 1999). I centri commerciali appaiono come modelli di un nuovo spazio sociale, in cui viene quotidianamente rappresentato uno spettacolo (Debord 1970) e propongono la simulazione degli aspetti tipici della convivialità urbana (Braudillard 2010). Questo fenomeno non risulta essere limitato e circoscritto ai soli centri commerciali, ma la progressiva standardizzazione a cui è andato incontro lo spazio urbano ha condotto verso una negazione della città eterogenea e diversificata a favore della cosiddetta città “generica” (Koolhaas, Man 1998, Chung et al. 2001, Maciocco, Serreli 2009) che sempre più nei centri urbani ha avuto la pretesa di simulare la realtà.A partire dallo studio dei modelli aspaziali delle forme del consumo è emersa la possibilità di contrastarne gli esiti negativi attraverso un’azione di “interferenza”. La continua sottrazione di spazio pubblico genera intorno a questi contenitori la totale scomparsa della funzione sociale della città e conduce gli stessi malls verso la trasformazione in simulacri di spazio pubblico (Braudillard 2010). La creazione di nuovi spazi di relazione (attività residenziali, servizi e spazi pubblici) all’interno dell’area commerciale di Predda Niedda ha l’intento di innescare un processo in grado di sovvertire la logica spaziale e sociale del consumo.L’integrazione tra i modelli del consumo da una parte, e la dimensione urbana dall’altra avviene valorizzando

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Spazi di relazione tra luoghi del commercio e luoghi della città: prospettive urbane per l’area di Predda Niedda

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lo spazio di relazione rappresentato dall’elemento ambientale. Il sistema delle valli della città di Sassari si è da sempre delineato come elemento di rilevanza all’interno del contesto urbano rappresentando un sistema intorno al quale la città si è sviluppata e ha definito i propri caratteri strutturali. Partendo dalla rilevanza del sistema ambientale, assunto come elemento strutturante e di connessione tra il centro storico e l’area commerciale di Predda Niedda, la valle diviene lo spazio di interazione capace di mettere in relazione i due ambiti urbani. A partire dall’elemento ambientale alcuni assi rettilinei e ordinatori si introducono nel tessuto caotico di Predda Niedda e si articolano all’interno dei pochi vuoti ancora presenti, costituendo un riferimento per la riconfigurazione di tutta l’area commerciale.Anche in questa esperienza l’elemento ambientale mostra la sua capacità di strutturazione grazie alla condizione di spazio intermedio, disponibile al progetto e capace di creare differenti prospettive urbane.

Potenzialità del progetto ambientaleLe riflessioni proposte evidenziano come la condizione urbana stia attraversando una fase di profondi cambiamenti. In questo senso una prospettiva ambientale del progetto dello spazio può individuare modi differenti di considerare e progettare lo spazio pubblico. Le esperienze dei territori della Sardegna centro-settentrionale indicano la possibilità di partire

dalla ricentralizzazione della città intorno ai propri elementi ambientali, alle aree di margine o intermedie, per definire spazialità innovative. La dimensione ambientale, sia nella città estesa nel territorio che nella città densa, si definisce come l’elemento guida nello sviluppo di processi singolari in grado di generare forme alternative di urbanità. L’idea di spazio pubblico che emerge da queste esperienze è connessa a una visione sistemico-processuale della città nella quale la complessità urbana è rappresentata da una molteplicità di processi in stretta interconnessione tra loro. Proprio a partire dalle aree di relazione tra questi processi possono definirsi differenti modalità di appropriazione dello spazio urbano,capaci di stabilire rapporti inediti e identificare modi alternativi di pensare lo spazio della città e del territorio.

Giovanni Maria Biddau, Laura Lutzoni (Laboratorio LEaP4)

università degli Studi di Sassari, Facoltà di architettura, dipartimento di architettura, design e urbanistica (dadu)

4 Il gruppo di ricerca che ha curato il progetto della Bienna-le dello Spazio Pubblico è composto da: Giovanni Maciocco, Gianfranco Sanna, Silvia Serreli, Samanta Bartocci, Giovanni Maria Biddau, Francesca Frigau, Laura Lutzoni, Francesca Rango, Michele Valentino.

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BIG PROJECTS / small stations BLONDIA Matthias DE DEYN Erik PhD Researchers, K.U.Leuven Contributing to the Annual Review of Urbanism in Flanders (2006-2010), to which a special issue of the review ‘Ruimte’ was dedicated, one of the authors co-wrote an article on small stations. A call for projects was launched, aimed at public authorities, designers and developers. The contribution to the Biennial of Public Space further elaborated on the projects that were analyzed for the Annual Review. Several of the themes explored here are tributary to the article in ‘Ruimte’1.

This contribution is also part of the ORDERin’F project2, a research that explores the potential of public transport on a regional scale as a lever for urban developmen, focusing on a number of urbanized regions in Flanders. ORDERin’F is a multidisciplinary collaboration between OSA (K.U.Leuven), BUUR (an independent office for urban design and urbanism), IMOB (University of Hasselt), MOSI-T (VUB Brussels) and Lab’Urba (Université Paris-Est).

With the advent of the nineteenth century, through the combination of a dense railway network and a vicinal tramway system, the relatively dense historical rural settlement pattern of Flanders expanded from the inside out. Suburbanization was not solely a process of the main cities growing and spreading into the territory, it was also the growth of smaller town centers, after they were connected to the speed and the economical concentration of the big city centers. Within this process public transport played a prominent role. This lasted until the Second World War, after which the car took over. The vicinal tramway disappeared and the role of small stations in the railway network was largely diminished.

At the end of the 1990’s, many of the bigger city stations started struggling with capacity problems. As a result, several expansions, renovations and infrastructural changes were being planned. Sparked by a new focus within planning policy on the central cities, these projects became levers for

                                                            1 DE BLOCK, G., BLONDIA, M. (2011). Grote projecten voor kleine stations, Ruimte(9), pp. 58-63. 2 More info: http://www.researchportal.be/en/project/-(KUL_3E100557)/

the renewal of station quarters, as is the case in Leuven, Antwerp, Ghent, Liege, … Urban design was introduced as a planning practice, and spatial planning gained a new dimension of a bottom-up project driven approach. Not only were these large scale station area operations influencing urban planning in Belgium, they also inspired small towns to invest in their stations. Over the last years, a remarkable number of master plans for small stations have been made. They reclaim the focus of planning policy, bringing it back once again to the thinned out peri-urban landscape. The design themes for these projects are very different from the large station redevelopments; the ambitions however are equally high. In that sense, one could speak of big projects for small stations.

The limited amount of program and resources that encompass these projects, forces design proposals to tackle a maximal number of spatial complexities with a minimal number of interventions. With more of these projects emerging, certain strategies are becoming recurrent. They deal with the specificity of the nebular urban landscape in very different ways, but all of them highlight the role of public space in a peripheral context.

We have aimed to investigate what these strategies are, within the context of Flanders. Four main categories were derived and will be elaborated. The order within this categorization has a logic of its own. With each category, the framework of the projects become broader. Whereas the first and the second category contain projects that are limited to the infrastructure and architecture of the station, the third category places the project in a broader context. In the final category even the regional scale is taken into account.

1. The engineering solution

Perhaps not worthy of the name ‘design strategy’, this category covers all projects that are still being realized in a mono-disciplinal manner. From an engineering point of view, one could hardly criticize these projects. The problem is however that this is the only point of view taken into consideration.

One of the main railway lines running through Flanders, the coast and the capital Brussels, is being doubled from two to four tracks. All the small

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stations along this line only had two platforms up to now, so they need to be doubled in width. In practice this means redesigning the entire infrastructure of the station and its tracks, the surrounding road structure and public spaces. A small towns like Drongen doesn’t have the decisiveness in local policies to steer these engineering plans into strategic spatial projects for the community. Consequently, the added value on a local level does not go beyond mobility aspects. In fact, there is a real threat that, by enlarging the physical presence of infrastructure, these operations deteriorate local conditions of public space, accessibility, environment and health.

2. The station as machine of congestion

The concept of transit oriented development (TOD) is a planning practice that stimulates developments around public transport nodes. The terminology of the ‘node’ and the related concept of the ‘hub’ can clarify one of the ways in which TOD is being interpreted on a small scale.

Whereas a node can be defined as a connection point within a network of lines, a hub is a place of interchange between different modes of transport, generating flows of movement. Because of that, there’s an increase of development potential that does not need to have an effect on the context of the hub. Hubs are often internalized places that absorb many functions and programs within their own body.

Of course, hubs are always nodes, but to what degree their role as an attractor for functions and programs is being internalized is very decisive. The station as a ‘congestion machines’ means that functions are being absorbed away from their context into the hub’s internal logic.

A first example of this strategy is found in the station project of Kortrijk, a town of about 75.000 inhabitants. The proposal for the BibLLLiotheek project designed by TV Urbain, suggests a new vertical and compact landmark for the city. Six ‘living environments’ are connected by a vertical city foyer, combining a number of public functions, of which the library is the most important. This constellation of programs aims to provoke confrontation and encounter. By joining these

functions within one building, an ‘urban’ density is artificially created.

The same can be said about the design for the new station of Knokke-Heist by Zaha Hadid. The new master plan introduces a large building along the railway in the tissue of this coastal town. However, the edges between building and landscape are blurred through the architecture. An ingenious interplay between the square in front of the building and the adjacent facades, merges public space and public functions together in the building. This is very much the merit of the architecture, however all the programmatic elements are still internalized.

From these projects a strategy can be derived of them being designed as if they were hubs, when in fact they are merely nodes. The grand gestures of metropolitan stations is being translated to the small town scale, either as in the case of Kortrijk’s BibLLLiotheek, by creating an urban density that could otherwise not be found within this context, or as in the case of Zaha Hadid’s project for Knokke-Heist, by a grand gesture that accommodates the architectural ambitions of a local authority.

Inclusive master plans

The third category shifts the focus from the architecture of the station to the urban design and urbanism strategies of its surroundings. Most of the station projects put forward by local authorities aim for this, acknowledging the strategic importance as a mobility node within the tissue of their community. The master plans for the station surroundings of Asse and Ronse (boh by EuroImmostar) have a similar approach: a comprehensive concept ties together all the goals put forward within the project, by drawing a parallel between public space and a stage that provokes commitment and participation in its users.

In the visual presentation of the Asse project it is strongly suggested that the station area serves as a ‘theatre’ within this suburban town. The square in front of the station becomes the main stage, the facades next to it the décor. The square and facades work together intelligently to steer the diverse pallet of traffic flows, which before were considered a nuisance, into an organized and lively scenery. There is an alternation between places of movement and small patches of space for pause.

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A similar reference to the theatrical qualities of public space is found in the project of Ronse. The old train station of this town, located near the Walloon border of the Flemish region, will become a terminus in the near future, rendering obsolete an entire rail trajectory cutting through the fabric of Ronse. Demolishing this track allows for a new green structure that connects the city center to the surrounding Flemish Ardennes landscape. This axis is cut up into a number of sequences, that together form a a gradual park-like transition from the small-scale urban context to the open landscape, like a number of consecutive scenes that each have their own characteristics and use. Experiencing the peripheral urbanity of this place is literally made possible by exploiting the rich pallet of in-between spaces created by this new park. Reconversion projects in the tissue of Ronse use it as a backbone, respecting the scale and density of the place.

Another recurring theme is these master plans is the recognition of the importance of the car in the periphery. Even in nodes of public transport, the car is a lead actor not only in the mobility of people, but also in its physical presence. It is a recurrent theme in many master plans, where a good parking solution is the main problem, the main concept and the main solution for the project. The master plan for Aarschot is a good example of how new concepts of car parking try to reduce the impact of the colonization of public space by cars.

It is not only in its parking solution that the Aarschot project is exemplary: the importance of new connections is also representative. A new bridge, designed by the Dutch architects of West 8, provides access to the platforms. Its main function however, which also motivates the monumentality of the structure, is to connect the front- and backside of the station. In an attempt to maximize the spatial potential of the station, the difference between front- and backside is abated. This is being realized and symbolized by the new bridge. Introducing new connections highlights the nodal function of the station.

This is the fundamental merit of the projects in this category: the fact that they allow new connections between existing functions and networks. In terms of giving the station a central role in the urban development of a town, this is more important than the introduction of new functions.

Constellations of stations

The first category showed that there are still many projects for stations being considered from an infrastructural point of view only. Broadening their ambitions to the field of urbanism and spatial development is not yet a given. Institutional and sectoral reasons aside, this has to do with the fact that station projects need a certain amount of mobility flows and development potential. The critical mass of this is not always found in the individual project. One way to overcome this is by expanding the scope of a project to the regional scale, looking at the system of stations rather than the individual station.

An obvious example of this is the partnership set up for the redevelopment of the stations of Roeselare, Ingelmunster and Izegem. These projects, which are all located in the regional agglomeration surrounding Roeselare, were united under the name Stations Midwest, aiming to realize a complementarity between them in terms of spatial development and transport networks.

A more interesting case however, is the development of the GEN-net, the regional express network around Brussels. This plan comprises of nine radial railway connections to be realized by 2016, connecting Brussels with the wide urbanized region around it. Within the charged context of Belgian politics, where a clear institutional division in spatial and mobility policy is made between the Brussels region and the Flemish territory surrounding it, the project has quite some challenges to realize its spatial ambitions on a regional scale. It is however one of the few projects that dares to look at Brussels and its surroundings a whole, recognizing a coherence in terms of mobility, and through this also in terms of urban planning. On the small scale, that of the individual station and the public space surrounding it, this results in a somewhat consistent formal language applied for (re)new(ed) stations along the lines.

Framing the individual station project within the bigger context of an urban agglomeration, a landscape structure or a new public transport network, as is the case in these projects, puts a focus on the mobility on a regional scale. By doing this, the meaning of the station as a place where the space of flows is grounded, is being recognized.

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Conclusion

The main goal of this paper was to give an overview and an analysis of the different spatial strategies being used in recent master plans for the redevelopment of stations. In doing so, a number of categories became apparent. Furthermore, it became clear that perhaps the most primal defining factor is the extent to which infrastructure is considered either a sectoral mobility project or an integrated spatial solution and a public space, whatever the scale of the context. Because of that, most of the projects discussed are, although small in scale, quite big in their ambitions.

REFERENCES

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Lo spazio urbano della riqualificazione e il suo progettodi Francesca Calace e Leonardo Rignanese*

1. Alcune note sulla progettazione urbanaLa materia della progettazione urbana risulta complessa e articolata quanto le sue molteplici definizioni. Cercare una definizione unica o univoca risulta, perciò, essere operazione dagli incerti esiti: approcci e significati che si avvicinano e si allontanano, scale che si intrecciano e strumenti che si fronteggiano1. Il carattere di interfaccia tra diverse discipline fa sì che la progettazione urbana fatichi a essere considerata un campo disciplinare a sé stante, oscillando le sue applicazioni tra quelli che tradizionalmente sono considerati terreni dell’architettu-ra - che dall’edificio allarga il suo disegno al contesto - e dell’urbanistica - che tende a estendere il suo controllo dagli usi dei suoli alle trasformazioni urbane più minute. La separazione tra discipline urbanistiche e architettoni-che fa sì che si continuano ad attribuire alla riflessione e ai discorsi dell’urbanistica unicamente – o prevalente-mente - gli aspetti processuali, la dimensione dell’area vasta, le componenti strategiche e strutturali dei piani, e, quando si scende di scala, le modalità dell’attuazione. La progettazione urbana ha come proprio contenuto caratteristico e necessario la definizione della forma fisica degli interventi. Essa ha forti caratteri composi-tivi, e ha il compito di stabilire relazioni funzionali e spaziali tra elementi urbani (edifici e spazi aperti), di indicare la loro stessa configurazione in modo che si arrivi a progettare insiemi significanti e dotati di propria identità spaziale. Grande attenzione è quindi rivolta alla definizione e alla progettazione dello spazio urbano inteso come esito non solo delle masse volumetriche che ne fanno da sfondo, ma prodotto dei materiali urbani del progetto di suolo2, delle loro specifiche forme, relazioni e regole aggregative. In questo modo, oltre a ritrovare un’arte visuale, la progettazione urbana si propone di riscoprire il valore dello spazio pubblico e la sua natura. Come sintetizza efficacemente Barnett, la progettazione urbana è essenzialmente «progettare città senza proget-tare edifici»3. Nonostante le incertezze definitorie, la progettazione ur-bana mostra specifiche prerogative rispetto alla pianifi-cazione e alla progettazione edilizia. Essa è componente principale e connotativa della disciplina stessa: l’urba-

nistica come arte cittadina o come arte di costruire la città che si interessa dello spazio urbano - nel senso di qualità dello spazio della città -, che si occupa dello spa-zio pubblico - come luogo in cui si sta, in cui si vive, in cui si abita, in cui ci si rappresenta, in cui si sta bene. Si tratta di un recupero della dimensione dell’arte urbana che assume come idea portante che non c’è urbanistica senza una visione spaziale della città e quindi della sua forma4, che sostiene che la progettazione urbana si occu-pa essenzialmente dello spazio between e di «progettare luoghi dotati di “ragione” spaziale e di identità espres-siva» dove l’architettura deve «essere uno strumento fondamentale del progetto e non più il suo fine ultimo»5. Il progetto di configurazione dello spazio urbano presuppone una riconquista del valore e della centralità delle questioni (degli aspetti) formali, che devono assu-mere una importanza almeno pari a quella attribuita agli aspetti funzionali, ambientali ecc. I progetti di riqualifi-cazione urbana non sempre esprimono contenuti qualita-tivi specificatamente spaziali; non a sufficienza eviden-ziano le caratteristiche dello spazio urbano che vanno a trasformare; e quasi mai comunicano una visione della città che contribuiscono a costruire. «È imbarazzante […] lo scarto tra la ricchezza delle interpretazioni e la qualità delle proposte progettuali»; e soprattutto c’è un «[…] deficit di proiezioni visionarie, di progetti urbani e di idee di spazio per i nuovi territori dell’abitare»6. Non esiste una visione condivisa della città, della sua forma, delle sue qualità spaziali, dei materiali urbani, del nuovo tessuto urbano. Il passo dell’urbanistica è anche quello della dimensione urbana, della qualità spaziale, del disegno urbano: quali strumenti propri della disciplina, strumenti progettuali in senso lato, un po’ troppo abbandonati a una consuetu-dine, a un sapere tecnico che non si è rinnovato e che ha perso parte del suo bagaglio culturale e della sua capa-cità di progettare lo spazio urbano. È compito dell’ur-banistica oltre che porre condizioni alle trasformazio-ni, definire regole sostenibili, individuare procedure democratiche e partecipative, anche quello di indicare una visione della città, una qualità del vivere, un modo di costruire lo spazio dell’abitare e delle relazioni7.L’urbanistica - se vogliamo la progettazione urbanisti-ca - ha come compito anche quello di produrre spazi urbani funzionali e belli. Questa dimensione è alquanto residuale nel dibattito italiano, centrato quasi tutto sul piano, e dove il tema controllo della qualità urbana non è affrontato in modo diretto. Finora la cultura urbanisti-ca ha dedicato poco impegno e una non adeguata rifles-sione a questi temi e solo negli ultimi tempi l’attenzione

* Il testo è frutto di una riflessione comune, mentre la stesura va così attribuita: Leonardo Rignanese ha scritto il par.1, Francesca Calace il par. 2. Il par. 3 è a firma di ambedue. 1 Sui diversi approcci, sulle molteplici definizioni, nonché sulla storia e sui caratteri della disciplina si veda P. COLA-ROSSI, A. P. LATINI (a cura di), La progettazione urbana. 1. Principi e storie, Milano, Il Sole 24 Ore, 2007.2 B. SECCHI, Progetto di suolo, in Casabella n. 520-521, 1986.3 J. BARNETT, Urban Design as public policy. Practical methods for improving cities, Architectural Record Books McGraw-Hill, New York, 1974, pp. 28 e ss.

4 E. PIRODDI, Progettazione urbana, forma e architettura, in Urbanistica n. 140, sett.-dic. 2009.5 R. SPAGNOLO, L’esperienza del progetto all’interno del DoPAU, in E. D’ALFONSO (a cura di), Attualità della forma urbana, Triennale di Milano e Electa, Milano, 1995.6 C. GASPARRINI, Nuovi racconti della città contemporanea, in Urbanistica n. 140, sett.-dic. 2009, pp. 52-53.7 L. RIGNANESE, Il passo dell’urbanistica, in Urbanistica Dossier, n. 113, lug.-ag. 2009.

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sembra essersi spostata anche su questa dimensione della disciplina8. Il piano urbanistico contiene i presupposti per una cor-retta progettazione, ma non è sempre sufficiente da solo a indicare percorsi progettuali che portino a una qualità morfologica dello spazio urbano. Le indicazioni per sa-pere interagire con il proprio specifico contesto, per col-locare attrezzature e individuare tipologie, per misurare strade e disegnare spazi di prossimità, per evidenziare i caratteri dello spazio pubblico e le funzioni dello spazio collettivo, per selezionare materiali urbani e costruire la trama dello spazio verde, per garantire accessibilità e sicurezza ecc. non possono essere espresse solo in forme di criteri e/o requisiti da soddisfare con una più o meno forte cogenza9.Ragionare su questi temi e lavorare su questi spazi, im-plica sperimentare la costruzione dello spazio di relazio-ne, dello spazio di prossimità, dello spazio domestico, dello spazio collettivo fino allo spazio pubblico. Perciò la disciplina deve produrre indicazioni e regole per la costruzione dello spazio urbano, deve lavorare sulla dimensione e sui materiali urbani, deve tornare a occu-parsi di come garantire la qualità dell’abitare compreso la bellezza. La progettazione urbana, allora, potrebbe essere la pratica, specifica ed esclusiva, per migliorare le

condizioni dell’abitare, per trattare le questioni relative al soddisfacimento delle esigenze per un buon abitare10.Emerge la necessità di ritornare a ripercorrere la dimen-sione progettuale dell’urbanistica, del progetto urbano, senza riproporre l’artificiosa contrapposizione tra piano e progetto di qualche decennio addietro. Non si vuole né mettere in discussione il ruolo del piano, né attribuire al progetto urbano capacità risolutive. Piuttosto ritrovare anche nell’arte di costruire la città una componente es-senziale dell’urbanistica, un suo passo un po’ trascurato. Il piano non può contenere in sé tutte le dimensioni del-lo spazio urbano. La sua natura di strumento di governo del territorio sta nella sua capacità di dare indirizzi e norme, di indicare procedure e fornire elementi di progettazione e valutazione. Ma non può assumere in sé ogni altra dimensione dell’urbanistica, tra cui quella di progettare spazio e di occuparsi di progettazione dello spazio. Il tentativo del piano di sopperire aspetti propri del progetto è una delle cause del suo ingigantimento valutativo e procedurale.Occorre rinnovare una componente progettuale (insita nella disciplina stessa) e prestare una maggiore atten-zione alle cose piccole che costruiscono lo spazio nel quale quotidianamente viviamo; occuparsi e prendersi cura della progettazione urbana di dettaglio, ciò che è chiamato nei paesi anglosassoni Urban design, dove l’elaborazione del progetto|disegno urbano è centrale

8 Negli ultimi numeri di Urbanistica i temi della progettazione urbana e della qualità urbana sono diventati più presentii.9 E. MARCHIGIANI, La qualità della forma: temi, strumenti, esperienze, in Planum, 2006. http://www.planum.net/topics/quality_urban_form-link-i.html

10 P. COLAROSSI, A. P. LATINI (a cura di), La città del buon abitare e la progettazione urbana, in Urbanistica 140, sett.-dic. 2009.

descrizioni

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nei processi di sviluppo di alta qualità. L’importanza che viene attribuita alla densità e alla forma delle città fa sì che a strumenti di indirizzo politico e di governo degli usi del suolo si affianchino testi dedicati al controllo della forma, agli aspetti qualitativi e formali del progetto degli edifici e degli spazi aperti.Per affermare una sua specificità, la progettazione urbana deve definire una propria scala operativa11 deve affrontare la questione degli esiti formali - e anche la questione della bellezza (qualità estetica) – ribadire la centralità dello spazio pubblico e chiarire le modalità attuative – dalla necessità di regole morfologiche nel progetto alle relazioni tra progettazione urbana e piano. Anche per contrastare la tendenza delle archistar di interpretare il progetto urbano12 come dimensione fisica allargata dove inserire i loro solitari progetti, la proget-tazione urbana deve sistematizzare l’insieme di espe-rienze e di riflessioni accumulate, deve recuperare saperi e approcci riannodando linee sotterrane di pratiche progettuali mai del tutto abbandonate, deve definire i principi fondativi se non di una nuova disciplina almeno di una pratica specifica e strutturata13.

2. Perché sia sostenibile. Un approccio alla progetta-zione urbanaNon vi è dubbio che la sostenibilità sia stata una parola

chiave di questi decenni. Utilizzata a proposito (e a sproposito) come attributo o finalità di politiche, pro-getti, strategie, è stata spesso utilizzata come termine salvifico, che attribuisce a qualsivoglia progetto un’aura di eticità, legittimità, qualità intrinseca. Tuttavia, per questa come per altre parole chiave della innovazione teorizzata e praticata in questi anni, si è posto e si pone tuttora il problema di tradurre quel concetto e quella parola chiave in azioni concrete, in approcci e codici di comportamento, in altre parole in un metodo del proget-to che effettivamente produca trasformazioni improntate ai principi della sostenibilità. Si tratta, pertanto, di declinare concretamente il concetto della sostenibilità all’interno della progettazione urbana. Ciò implica affrontare due nodi problematici essenziali, legati a:- la vastità dei campi di attenzione e di applicazione

del concetto di sviluppo sostenibile: una definizione matura e condivisa di sostenibilità la vede collocata su tre pilastri, ovvero tale solo se in grado di inte-grare la dimensione ambientale a quella economica a quella sociale14. È infatti evidente come l’azione ambientale da sola non possa esaurire la sfida della sostenibilità, ma che ogni piano o politica di inter-vento debba rispondere ad una visione integrata e farsi carico degli impatti sia economici che sociali ed ambientali;

11 P. AVARELLO, Il tempo del progetto urbano, in Urbanistica n. 140, sett.-dic. 2009.12 Su alcune ultime riflessioni sul progetto urbano si veda il nu-mero monografico di EdA (esempi di Architettura), Materiali per il progetto urbano (a cura di M. MORANDI) n. 5, 2008.13 A. P. LATINI, Princìpi di progettazione urbana, in Urbani-stica n. 140, sett.-dic. 2009.

contesto

14 Nella Conferenza di Rio nel 1992 che, nella sua Dichiara-zione, sancisce i 27 Principi su ambiente e sviluppo, i Principi delle foreste e l’Agenda 21, lo sviluppo sostenibile assume le caratteristiche di concetto integrato, avocando a sé la necessità di coniugare le tre dimensioni fondamentali e inscindibili di Ambiente, Economia e Società.

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- le scale di lavoro entro le quali questo concetto trova collocazione operativa. La ricerca sulla sostenibi-lità si è a lungo esercitata su due scale distanti: da un lato sulle visioni e le strategie di lungo periodo e di area vasta, mirate al collegamento fra le politi-che ambientali e le politiche economiche e sociali e basate sulla definizione di indicatori ambientali, soprattutto macro, per la misurazione degli effetti di quelle politiche nei campi, ad esempio, della gestione delle risorse, dei rifiuti, dei trasporti; d’altra parte si è affermato con evidenza un robusto approfondimento del tema della sostenibilità intesa in senso edilizio, legata alla efficienza energetica dell’edificio, all’uso dei materiali dalle prestazioni elevate ecc.

Un ampio segmento del progetto è rimasto a lungo escluso da questo dibattito e da questa ricerca: quello della progettazione urbana. Peraltro, la progettazione urbana soffre di un’altra circostanza: all’affinarsi delle procedure e dei percorsi attuativi, determinato dalla lunga stagione dei programmi complessi15, non sempre è corrisposta una analoga riflessione della qualità urbana, architettonica e ambientale. Ovvero alla innovazione procedurale non si è affiancato un ripensamento in chiave qualitativa dei progetti, frequentemente concepiti come episodi urbani autoriferiti e volutamente privi di relazioni con il contesto di inserimento, la cui natura “introversa” non ha sortito l’effetto della riqualifica-zione per la quale essi erano stati promossi, ma ha anzi generato ulteriore disagio, segregazione e costi, anche in presenza di procedure e processi virtuosi.

Ne deriva che, perché sia sostenibile, la progettazione urbana deve: - coniugare le dimensioni della sostenibilità - ambien-

tale, economica, sociale- attraverso l’esercizio del progetto;

- rimettere a fuoco il centro tematico del progetto urbano, che non è -non può essere- quello della dimensione edilizia della trasformazione, ma è - deve essere - quello dello spazio urbano nella sua com-plessità, articolazione e scala (urbana, di quartiere, di vicinato);

- interrogarsi sul significato che la qualità ambientale assume in ogni luogo, per cui non esiste una qualità urbana ‘in assoluto’, ma piuttosto una dimensione lo-cale e contestualizzata della qualità, che va decifrata, compresa, rinnovata attraverso il progetto.

Sostenibilità come qualitàNel sapere tecnico, e in misura crescente nel sapere comune, la sostenibilità ambientale è un fondamento della qualità urbana. Non solo per gli evidenti vantaggi in termini di vivibilità garantiti da migliori performance in campo ambientale, ma anche per lo stesso concetto di ambiente: se inteso come ambiente di vita delle nostre esistenze16, esso si carica di una multidimensionalità che chiama in causa per intero tutti gli aspetti che compon-gono l’ambiente di vita: culturali, psicologici, identitari e, spazialmente, estetici morfologici, funzionali. Un

15 Stagione che ha introdotto una maggiore attenzione all’attua-bilità delle trasformazioni e l’introduzione del principio della integrazione (funzionale, sociale, di soggetti e risorse) e il metodo della concorsualità.

16 La stessa Comunità Europea indica “l’ambiente urbano” come oggetto di una strategia specifica e decisiva per gli obiettivi di sviluppo sostenibile e una delle principali sfide per i governi delle città; cfr. “Comunicazione sulla Strategia Tematica sull’Ambiente Urbano”, Commissione europea, 11.1.2006, “Carta di Lipsia”, 2007.

schema strutturale

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ambiente ‘a tutto tondo’, una nozione più vicina a quella europea di ‘paesaggio’17, in via di penetrazione nella pianificazione paesaggistica italiana. Se assumiamo questa accezione ampia di ambiente, inevitabilmente accettiamo questa convergenza tra sostenibilità e quali-tà, in quanto la prima componente imprescindibile della seconda. Dunque, la qualità da perseguire riguarda l’integrazione di contenuti ecologici nella progettazione; riguarda la centralità degli aspetti della forma urbana nella progetta-zione e l’inserimento consapevole del progetto nel con-

testo di riferimento; riguarda quindi la necessità di avere consapevolezza dei caratteri morfologici, funzionali e di giacitura del contesto, di porre in evidenza gli elementi connotativi degli ambiti d’intervento, di valutarli, di utilizzarli (o decidere di non utilizzarli) consapevol-mente come riferimento. È dunque evidente la necessità di porre alla base del progetto di trasformazione una profonda consapevolezza della natura e i caratteri dei luoghi in cui ci si inserisce; è inoltre evidente come il progetto debba confrontarsi con il tema della tradizio-ne; ciò non per un nostalgico richiamo ad essa, ma con la finalità di recuperare, laddove possibile, elementi di qualità e sostenibilità insiti nella città esistente, soprat-tutto in quella storica. Corollario di questo approccio è la necessità di una co-

masterplan

17 Cfr. Convenzione europea del paesaggio (Firenze 2000).

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regole

noscenza profonda e mirata del contesto, soprattutto in riferimento agli aspetti fisico-morfologici, aspetti solita-mente sottovalutati, se non assenti o ridotti a epidermi-che citazioni, nei progetti di trasformazione urbana. Tuttavia non è possibile ritenere che una buona cono-scenza, da sola e senza soluzioni di continuità, produca un buon progetto, ovvero che esso sia già latente nella realtà e vada solo disvelato attraverso l’intervento. Infatti, non è una mimesi del nuovo nell’esistente, né tanto meno la prosecuzione inerziale del processo di stratificazione degli usi e delle forme urbane ad assi-curare la qualità. La storia urbana non ci ha insegnato questo: è una storia in cui continuità e discontinuità18 si alternano e sovrappongono, in cui l’invenzione proget-tuale ha introdotto innovazioni e fratture, in cui la tradi-zione si è sempre confrontata, contrapposta, amalgamata

alla innovazione. Il ruolo del progetto urbano, allora, è proprio quello di introdurre consapevoli innovazioni all’interno di un contesto noto, decifrato, valutato nei suoi fattori di valore e nelle sue criticità.Ad esempio, pur essendo i modelli insediativi storici e della città consolidata più qualificanti e identitari, non sono proponibili oggi integralmente e tanto meno artifi-ciosamente, per la profonda stratificazione storica che li qualifica, per l’elevata densità che li caratterizza, per la diversa concezione del comfort abitativo; tuttavia essi non possono essere ignorati, come oggi il più delle volte accade, o citati in modo vernacolare attraverso stilemi, richiami, rivestimenti. Necessita una loro revisione e risignificazione in chiave contemporanea, comunque at-tenta a cogliere il senso dei rapporti dimensionali, delle proporzioni tra pieni e vuoti, della giacitura. Dunque, l’adesione alla forma urbana della tradizione non è, neppure essa, di per sé, garanzia della qualità ambienta-le; essa tuttavia induce a ri-guardare il territorio e le sue risorse (quelle fisico-ambientali: orografia, vegetazione, permeabilità del suolo ecc.; insediative: morfo-tipologie, densità, orientamenti, grado di apertura) e i rapporti reciproci (margini, spazi costruiti/aperti, edifici/viabilità ecc.) come ad una ‘lezione vivente’ che, nei suoi carat-teri, nei suoi valori e sue criticità, si pone a costituire il primo riferimento del progetto.

18 Sul tema della relazione tra continuità e discontinuità nella storia urbana, si veda B. Secchi, Tre storie per il ventesimo secolo, II International Ph.D Seminar on Urbanism, Barcelona, 27.06.05, in http://www.planum. net/topics/main/m-secchi-storie-1_it.htm. Inoltre, al tema è stata dedicata la 49^ edizione del Congresso Mondiale dell’International Federation for Housing and Planning (IFHP), “Futuri Urbani: continuità e discontinuità”, Roma, 2005.

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misure

3. Note sull’esperienza progettuale del laboratorioA partire da questi assunti, l’offerta didattica è stata finalizzata a riflettere e a intervenire sulla costruzione della città e del territorio, sul carattere dei luoghi, sulle condizioni di vivibilità degli spazi. A questo percorso metodologico si è affiancata una parallela riflessione su alcuni aspetti fondamentali del modello di pianifica-zione in formazione nella nostra regione, per guidare l’applicazione concreta ed evitare l’aleatorietà di formu-lazioni non verificabili. Il laboratorio ha avuto come contenuto privilegiato le scale della struttura urbana e del progetto urbanistico esecutivo applicato a parti urbane circoscritte e di rilie-vo strategico, nelle quali erano necessari interventi di riordino, riqualificazione e ridisegno dell’esistente. Le proposte sono state costantemente valutate rispet-to alle loro implicazioni ambientali, paesaggistiche e insediative, al loro inserimento nel contesto locale, alla configurazione fisica degli spazi pubblici e privati, alla vivibilità degli spazi progettati.Il progetto si articola su tre momenti distinti di un unico processo progettuale: - la costruzione di un framework strategico che contie-

ne l’analisi del contesto, gli obiettivi, le strategie, la visione;

- la costruzione di un masterplan quale strumento tec-nico per definire una strategia per la trasformazione fisica, sociale ed economica del luogo;

- la costruzione delle regole (design guides) per l’im-plementazione del masterplan e per la sua attuazione.

In ognuna di queste fasi vengono prodotti numerosi e

differenti materiali: dati, disegni, immagini, concept, semilavorati ecc. Nell’elaborazione dei singoli materiali e delle tavole di sintesi si presta molta attenzione ai diversi linguaggi a disposizione (testuali, visivi, concept ecc.) per esplorare il vasto campo della conoscenza dei luoghi, del contesto, delle pratiche, per tener conto delle diverse fonti (formali e informali, codificate ed espres-sive) e per poter comunicare l’esito stesso del processo conoscitivo e progettuale a un’utenza allargata. Ciò vuol dire utilizzare un linguaggio specialistico che però non sia esclusivo; fare ricorso a tutte le possibilità linguisti-che ed espressive; elaborare progetti visivi e comuni-cativi che si articolano su vari piani di comunicazione, da quelli più tecnici a quelli divulgativi, da riproduzioni che tentano di restituire l’immagine reale dei luoghi a concept che ne colgano gli assunti fondamentali, le idee guida. Così descrizione, rappresentazione e comuni-cazione diventano temi del progetto stesso, questioni inerenti alla pratica urbanistica; operazione tutt’altro che semplice e scontata anche in una facoltà di Architettura.

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LO SPAZIO PUBBLICO:

PROGETTO E IDENTITÀ DEL VIVERE

SOCIALE

Cecilia Cecchini, Maria Claudia Clemente, Daniele

Durante

La dimensione pubblica dello spazio

Come possiamo immaginare un modello di cultura

senza pensare a un modello di spazio pubblico?

Storicamente lo spazio pubblico è sempre stato

l‟affermazione di uno specifico assetto sociale e

politico, uno spazio con un particolare significato

intersoggettivo e culturale, e proprio in quanto realtà

culturale in trasformazione, è profondamente

condizionato dalla storicità stessa della cultura.

Lo spazio pubblico, inteso quale dimensione fisica

della sfera pubblica, pur dichiarandosi quale spazio

reale e tangibile, nelle visioni e nelle teorie politiche

degli ultimi anni del „9001, è stato invece declinato

prevalentemente nel suo significato immateriale, per

indicare lo spazio astratto che regola e sostiene il

funzionamento democratico della società.

Ma noi crediamo che la dimensione pubblica della

società è tutt‟ora definita dai territori fisici e materiali

della città: il pubblico nelle città, nonostante il

supporto delle nuove tecnologie, esige ancora spazi

in cui potersi riprodurre.

E lo spazio nel quale “l‟esperienza umana si forma, si

accumula e viene condivisa nei luoghi, dove il suo

senso viene elaborato e assimilato”2, è proprio lo

spazio pubblico.

Non è difficile pensare che gli attuali cambiamenti

della società contemporanea si rifletteranno, molto

presto e in maniera molto più massiccia di quanto

avvenuto fino ad oggi, sulla struttura delle città. Ciò

necessita di un più generale ripensamento inerente lo

spazio pubblico e la sua valorizzazione.

Non a caso esso viene infatti considerato come uno

degli ambiti più significativi per la lettura delle

1 In particolare si vedano gli scritti di H. Arendt, M. Augè,

Z. Bauman e J.Habermas. 2 cfr. Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, Bruno

Mondadori, Milano, 2005, pag. 21.

trasformazioni sociali e del riconoscimento dei

processi latenti delle città.

Consapevoli così dell‟ampio repertorio degli

orientamenti teorici con cui è possibile affrontare il

tema, capaci di far emergere principi utili su cui

calibrare la ricerca progettuale, possiamo pensare e

comprendere la dimensione pubblica dello spazio,

quale capacità di favorire la costruzione delle

comunità nella sua legittimazione sociale e culturale,

in grado di permeare lo spazio dell‟abitare in tutte le

sue forme.

Master in Exhibit & Public Design, Progetto per

L‟Arsenale Pontificio, Roma.

Identità dello spazio pubblico

Lo spazio pubblico è fondamentalmente uno spazio

dalla corporalità compiuta. Uno spazio di scambio –

materiale e immateriale - di compromesso, di

relazione e di limite.

Se la vita pubblica - qui intesa come la conoscenza

della realtà del mondo che essa rende possibile al di

là dei canali mediatici e quelli propri degli spazi

privati - cerca nuove possibilità per sollecitare

moderni desideri di socialità, è negli spazi pubblici

della città che queste possono prendere forma.

Dobbiamo però partire da una certezza condivisibile,

che è insita nel significato concreto del termine

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pubblico, che sottende la radice prima dello sviluppo

umanistico, come ricerca naturale del diritto

all‟accesso, al beneficio dei luoghi, alle risorse, ai

servizi, evocando l‟idea innata della condivisione e

del coinvolgimento3.

Il contrario di ciò che avviane nelle società

contemporanee a capitalismo avanzato – in buona

parte dell‟Europa e ancor più degli Stati Uniti – nelle

quali la spinta all‟iperconsumo che ha determinato il

predominio delle merci sui rapporti umani fa sì che i

centri commerciali, gli outlet e, più in generale, i

luoghi dedicati alla pratica dell‟acquisto, siano

diventati i più frequentati quando non gli unici spazi

pubblici di incontro tra le persone. Sostituti delle

antiche piazze.

Spazi che contribuiscono alla desertificazione sociale

sia fisica – attraverso la distruzione del piccolo

commercio e dell‟artigianato – che culturale. Al

consumo del territorio, generalmente di spazi

periferici ancora verdi, si accompagna infatti una

modificazione delle relazioni sociali che si modellano

sulle angustie settoriali (e in tempo di crisi spesso

frustrate) dell‟acquisto.

Che cosa dovrebbe dunque essere lo “spazio

pubblico”? Quali le sue caratteristiche essenziali?

_ In primo luogo uno spazio pubblico dovrebbe

essere accessibile; ovvero non segregato, non

diviso, non controllato4. Del resto per la

costruzione di una società multietnica è molto

importante: “la propagazione di spazi pubblici

aperti, invitanti e ospitali, che tutte le categorie di

residenti urbani sarebbero tentati di frequentare

regolarmente e di condividere, consapevolmente e

volontariamente” perché, dice Bauman: “la

“fusione” che è richiesta dalla comprensione

reciproca può essere soltanto l‟esito di una

3 A tale proposito si legga: E. Cicalò. Spazi pubblici.

Progettare la dimensione pubblica della città contemporanea, Franco Angeli, 2009.

4 “(…) le città diventano più pulite e più sicure, il design

diventa più abbondante e paranoico; l‟evocazione della

paura più che le funzioni ormai guida ormai il design

dell‟arredo urbano” in Nils Norman, Urbanomics, in Simon

Sheikh (edited by), op. cit, pag. 36;

esperienza condivisa; e condividere esperienze è

inconcepibile senza uno spazio condiviso”5;

_ in secondo luogo l‟essere pubblico di uno spazio

dovrebbe essere una condizione di apertura verso

l’altro6; uno spazio pubblico dovrebbe essere

capace di non imporre comportamenti ma di

indurre atteggiamenti; uno spazio che consenta

intensità e diversificazione degli usi nel tempo,

che permetta di essere vissuto in modo organico

ma anche di essere occupato in modo informale;

uno spazio capace di interagire con chi lo occupa;

_ infine lo spazio pubblico dovrebbe essere uno

spazio ri-scrivibile; non una scenografia, né la

rappresentazione del paradigma del temporaneo -

il cui successo, ormai planetario, tradisce la

necessità di momenti collettivi ma al tempo stesso

la difficoltà di trasformare la massa in una

comunità; non, dunque, uno spazio pensato per

essere allestito7 quanto piuttosto uno spazio

capace di assorbire e farsi sfondo per un

qualunque allestimento; uno spazio capace di

assorbire nel tempo nuovi comportamenti sociali

e nuovi usi collettivi.

Lo spazio pubblico contemporaneo: verso un

nuovo urban landscape

La città si trasforma attraverso processi progettuali

non sempre lineari: negli spazi della città avvengono

infatti quotidianamente piccole e grandi

trasformazioni - quasi sempre ignorate dall‟opinione

pubblica e per questo rimosse dalle priorità di

istituzioni ed enti di governo territoriale – che

testimoniano la vitalità multiforme e complessa del

pubblico della città contemporanea.

È necessario quindi considerare lo spazio pubblico

non come un‟astrazione ma come una realtà

modellata da molteplici forze, la cui varietà rende

difficile immaginare soluzioni stabili e universali.

Lo spazio pubblico contemporaneo deve essere,

quindi, necessariamente considerato non nella sua

forma assoluta e definitiva bensì come uno spazio

5 Z. Bauman, Modus Vivendi. Inferno e utopia del mondo

liquido, Editori Laterza, Roma-Bar, pag. 105. 6 Nell‟accezione utilizzata da Rosalind Krauss nel suo noto

testo Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land

Art, Bruno Mondadori, 1998; 7 F. Haydn, R. Temel (a cura di), Temporary Urban Spaces,

Birkhauser, Basel 2006;

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pervasivo, interstiziale, minuto, specchio della

complessità della società che in esso vive, si ritrova e

si rappresenta.

Il progetto contemporaneo dello spazio pubblico deve

essere in grado di generare nuovi luoghi ma anche di

trasformare luoghi già esistenti nella città, deve saper

riconoscere i luoghi anonimi ma potenziali ed

attribuire ad essi un nuova identità, deve essere in

grado di interagire con lo spazio e con le persone.

Il progetto dello spazio pubblico contemporaneo è

dunque composto di piccoli e grandi interventi che

innescano un processo di ri-appropriazione dello

spazio aperto e dunque trasformano lo sfondo della

città operando sul grado zero, lavorando cioè su tutto

ciò che è stato lasciato libero.

Master in Exhibit & Public Design, Progetto per

L‟Arsenale Pontificio, Roma.

Lo sfondo della città assume quindi un ruolo attivo,

non è più quello che avanza dal costruito ma esso

stesso protagonista di un nuovo urban landscape,

portatore di una nuova dimensione materiale e

immateriale, capace di generare nuovi luoghi e nuovi

contesti, di iniettare nuova energia vitale nella città

contemporanea8.

8 I cosiddetti situational interventions hanno un ruolo

fondamentale nella prevenzione dei comportamenti urbani

antisociali; teorie e ricerche nel campo dell‟Environmental

Psychology affermano l‟importanza e l‟efficacia della

progettazione ambientale per accrescere le interazioni

sociali e ridurre i comportamenti antisociali. Il Crime

Prevention through Environmental Design – CPTED -

identifica numerose strategie per scoraggiare gli ASB, tra

cui il disegnare uno spazio che possa essere ben gestito,

attrattivo, che consente molti e diversi usi al fine di

assicurare un alto livello di utilizzo…;

L’esperienza del Master in Exhibit & Public

Design

Questi temi sono trattati a livello didattico e di ricerca

nell‟ambito del corso di laurea di Disegno Industriale

della “Sapienza” – e, più specificamente, nel master

in Exhibit & Public Design, attivo dal 2007.

Il suo percorso formativo è finalizzato a sviluppare

nei partecipanti sensibilità culturale e consapevolezza

tecnica nell‟ambito delle diverse declinazioni del

progetto dello spazio pubblico grazie ad una didattica

caratterizzata da trasversalità e contaminazione tra

saperi diversi. Infatti il Corso si colloca in quel

territorio di confine - a cavallo tra architettura,

design, arte, comunicazione grafica e multimediale -

che affronta temi diversi che vanno dall‟urban

landscape all‟installazione pensata per il singolo

evento, dalla progettazione di piccole strutture

temporanee al retail design.

Fortemente variegata è anche la provenienza degli

studenti: laureati triennali o quinquennali in

architettura, in design, in grafica e comunicazione, in

ingegneria; allievi stranieri o provenienti da tutte le

parti d‟Italia. Un mix di preparazioni, esperienze,

conoscenze, fertile terreno per lo sviluppo di positive

sinergie di crescita tra i partecipanti.

Master in Exhibit & Public Design, Progetto Comunicare il

Colosseo; Allestire lo scavo, Roma.

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Lo spazio pubblico come costruzione eventuale.

Fabio Landolfo, Simona Colucci

Lo spazio pubblico e quella che (forse) erroneamente

viene definita la sua progettazione sono elementi centrali

dell’insegnamento della disciplina urbanistica ed

architettonica. Nei programmi, nei manuali e nelle

conferenze universitarie molte sono le occasioni per

trasmettere l’importanza della qualità del suo progetto.

Tutto questo spazio offerto dal mondo scientifico a questa

tema è apprezzabile per quanto riguarda l’impegno (anche

sociale) che le scuole di architettura sono capaci di

esprimere ma, indubbiamente, pecca d’argomentazione.

Queste, molto frequentemente, interpretano la qualità di

“pubblico” come dato intrinseco di un luogo, preesistente,

legato alla proprietà o tutto al più alla fruizione dello

spazio e non come qualità conferita dal comportamento

d’uso dei soggetti che lo utilizzano, attribuendo cosi il

carattere di pubblico a spazi privi di questa caratteristica

se non per la propria matrice istituzionale. Tuttavia, nel

caso in cui, questa definizione non è legata esclusivamente

al concetto di proprietà ma, bensì, a quello di uso dello

spazio, diviene necessario poter indicare una scala o

quantomeno un insieme di usi che ne restituiscano il

carattere di pubblico, indispensabilmente legato alla

definizione di interesse generale, di cui già gli studi di

Arrow dimostrano l’instabilità e l’inconsistenza, se non come somma di interessi individuali forti (Arrow 1977).

Diviene dunque indispensabili ridiscutere della natura

degli spazi stessi, intendendoli come spazi agiti da chi li

abita; quando l’attività di creazione dei luoghi non è

consentita, quando si costruiscono spazi che gli abitanti non possono modellare, la possibilità di creazione di luoghi viene meno e con essa la qualità di pubblico. (La

Cecla 2007) È necessario, quindi, considerare lo spazio

pubblico come costrutto politico dovuto alle relazioni

sociali che vi si instaurano e che può essere ritenuto solo

risultato eventuale dell’azione dell’attore istituzionale, e a

sua volta considerare la sua costruzione come fondata sulla rinuncia a considerare la diversità come principio di

organizzazione "separata" del territorio per entità sociali. (Crosta 2010).

Da queste riflessioni nasce un progetto di sviluppo locale

che trova nel summer workshop “porta le tue idee in

vacanza”uno dei momenti centrali della sua ricerca-

azione. Il workshop giunto alla sua terza (settembre 2011)

edizione, ha coinvolto oltre trecento studenti di diversa

provenienza territoriale e disciplinare cui è stata offerta

una vacanza a costo zero nel paesino cilentano di Torre

Orsaia (SA) e a cui è stato chiesto di ripagarla mettendo a

servizio della comunità le loro competenze, seconda una

formula che abbiamo definito “saperi in cambio di ospitalità”. Nel contempo abbiamo chiesto alla comunità

locale di aprirsi ed ospitare i partecipanti garantendo cosi

un rapporto costante tra gli studenti e la popolazione. Lo

scopo del workshop è quello di interrogarsi sul futuro di

una piccola comunità, che negli ultimi anni è stata

interessata da una forte emorragia di giovani e di menti, e

come riconsegnare ad essa le scelte sul proprio futuro,

prossimo e remoto, costruendo insieme Scenari Possibili.

La costruzione del problema Torre Orsaia per noi non è mai stato un problema

scientifico, non ci siamo mai approcciati ad essa come una

questione da risolvere, né come un territorio su cui

sperimentare le nostre conoscenze. Ne abbiamo

abbracciato la causa, quella dei paesi della bandiera bianca, abbandonati e, forse, destinati a morire.(Arminio

2008) E' proprio da questo che siamo partiti,

dall'abbandono che ha portato allo svuotamento di queste

terre.

Si tende a credere che la dinamica dell’abbandono si sia

interrotta con la crisi del modello industriale; in realtà

questa non ha fermato l’emorragia di popolazione ma ne

ha principalmente trasformato i soggetti, da operai e

manovali diretti nelle città, sedi di importanti industrie, a

persone altamente formate: cervelli in fuga che per motivi

di lavoro, di studio o di ricerca decidono di lasciare il

luogo natio. Questo, se dal punto di vista umano ha la

stessa intensità emotiva, dal punto di vista sociale è

portatore di un intenso scompenso. La perdita di queste

energie propulsive da parte di aree già economicamente

sofferenti può rappresentare per queste comunità

l’impossibilità di costruire il proprio futuro.

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Se le generazioni precedenti abbandonavano Torre Orsaia

in cerca di lavoro per poi essere destinate a tornare, è

perché qui avevano lasciato la propria casa.

Oggi la partenza non è più, solo, una necessità di

sopravvivenza ma diviene una scelta legata agli stili di

vita, alle ambizioni e ai desideri personali.

Non abbiamo mai pensato di poter bloccare questo flusso,

proprio perché mosso da scelte e bisogni personali, ma

abbiamo voluto invertirlo portando a Torre Orsaia studenti

di diverse università e città italiane ed estere.

Abbiamo chiesto a chi partiva per poi tornare nei mesi

estivi di raccontarci cosa aveva imparato, di metterlo in

pratica e di farlo fruttare. In questo abbiamo un duplice

scopo: rinsaldare il rapporto degli emigranti con la

comunità locale e ripagare l’assenza di tante persone dal

paese con un surplus di conoscenze.

Terra di Saperi: un frame di riferimento

Tale aspetto assume un ruolo ancora più cruciale se si

considera il ruolo strategico del sapere nella nostra epoca:

molte sono le teorie economiche che basano su di esso lo

sviluppo dei sistemi produttivi più avanzati. Il sapere nelle

economie post-moderne diviene un fattore produttivo; la

sua diffusione e accessibilità rappresentano il grado di

avanzamento di un Paese. Riconoscere questa centralità

vuol dire compiere una scelta. Confrontarsi con i temi

della modernità e comprenderne il cambiamento dei

sistemi produttivi e di accumulazione di ricchezze e

cercare di riconoscere le nuove chiavi dell’esclusione

sociale per renderle elemento centrale della riflessione

comune non è un’operazione neutra. Scegliere di

affermare il valore della conoscenza vuol dire rivendicare

il diritto ad accedervi.

Scenari Possibili: costruzione partecipata in forma di

evento. Sollecitare una comunità abituata a fare i conti con

l’emigrazione ad interrogarsi sui motivi ed ad immaginare

possibili scenari futuri di cambiamento di questo

fenomeno non è cosa facile. Abbiamo scelto di rispondere

a questa difficoltà agendo, interpretando il nostro impegno

come militanza attiva; nasce da qui l’idea di un workshop

estivo per interrogare e interrogarsi sugli scenari futuri del

paese; attraverso un approccio al territorio che non

presuma la ricerca di una soluzione univoca, ma la

costruzione incrementale di scenari condivisi.

Un laboratorio di integrazioni

A sottendere l’idea del workshop c’era la chiara volontà di

affermare uno sguardo sul territorio che fosse espressione

di un carattere pluralista, così come pluralista è la

costituzione del territorio con cui ci andavamo a

confrontare; invitare al workshop studenti di diverse

Facoltà e Università ci ha garantito uno sguardo più

complesso rispetto a quello che avremmo potuto mettere

in campo.

Come detto, un’altra fondamentale integrazione è stata

quella tra i partecipanti al workshop e la popolazione

locale tesa a superare il tradizionale concetto di

partecipazione attraverso l’ospitalità diffusa, il

coinvolgimento diretto dei cittadini nell’organizzazione

dell’evento e la valorizzazione dei saperi diffusi.

Lavorare per l’integrazione vuol dire soprattutto

riconoscere le differenze, ed è per questo che abbiamo

scelto di invitare ospiti molto diversi tra loro, consapevoli

del fatto che il loro bagaglio di conoscenza sarebbe stato

fondamentale.

Un altro dei temi centrali del workshop è stato il rapporto

tra gli abitanti e lo spazio pubblico. Uno degli elementi

più interessanti emersi è stata l’importanza, nella cultura e

nelle pratiche della comunità, della soglia di casa in

quanto spazio dell’interazione sociale.

Da ciò emergeva, come detto, che il carattere pubblico di

uno spazio non è frutto semplicemente del suo uso “in-

comune” ma, spesso, costituisce il sottoprodotto di

pratiche sociali finalizzate ad altro.

Il workshop e lo spazio pubblico Sebbene l'analisi dello spazio pubblico sia un tema

cruciale in ogni ricerca, spesso i metodi di indagine si

limitano ad intenderlo come spazio “vuoto” tra spazi

privati pieni, senza indagare le relazioni che esso

determina tra gli users e tra i diversi spazi privati che lo

circondano.

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Il workshop, e l'intera ricerca-azione che scaturisce da

esso, ha voluto indagare lo spazio pubblico come insieme

di relazioni che si sono determinate nel tempo tra i luoghi

fisici e le persone che li vivono o li hanno vissuti.

Abbiamo voluto leggere il territorio a partire dalle

pratiche quotidiane che in esso si svolgono e che lo

utilizzano come appiglio.

Se, come sostiene Crosta, nella società delle differenze il

ruolo dell'interazione sociale è centrale nella produzione

di “pubblico” (al plurale), il workshop “scenari possibili”

ha da un lato indagato lo spazio pubblico, dall'altro

contribuito a crearlo.

La compresenza è la condizione tipica dell'interazione

sociale che ha come esito la costruzione di pubblici locali – in quanto determinati nello spazio e nel tempo.

Il workshop è una ricerca-azione che dura tutto il corso

dell'anno ma accade, nel mese di agosto, come evento che

ha la funzione di portare in uno stesso luogo competenze e

culture diverse per permetterne l'interazione.

Agli eventi, soprattutto a quelli di scala vasta, è legata

l'idea che questi siano deus ex machina concepiti in modo

totalmente avulso dal territorio, come acceleratori dello

sviluppo economico e attrattori di flussi ingenti di

“consumatori”. Il workshop “scenari possibili”, al

contrario, è nato dalla volontà di indagare le peculiarità

del territorio cilentano e ha promosso un nuovo spazio di

confronto e discussione non solo al suo interno ma anche

all'interno della comunità locale e tra questa e i

partecipanti.

Bibliografia

Arminio Franco, (2008) Vento forte tra Lacedonia e

Candela, Laterza.

Arrow, Kenneth J., (1977). "Extended Sympathy and the

Possibility of Social Choice," American Economic

Review,

Cottino Paolo, (2009). Competenze possibili. Sfera

pubblica e potenziali sociali nella città. Jaca Book

Crosta Pier Luigi, (2010). Pratiche. Il territorio “ è

l’uso che se ne fa”. Franco Angeli.

La Cecla Franco (2007). Mente locale. Per

un’antropoligia dell’abitare, Eleuthera .

“Self-City. Pratiche sociali di autocostruzione della

città” Tesi di Laurea di Fabio Landolfo presso la Facoltà

di Architettura dell’Università degli Studi Federico II di

Napoli. Relatrice prof.ssa Daniela Lepore a.a. 2009/2010.

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Riaprire relazioni vitali con i luoghi: la creazione di contesti pubblici di apprendimento collettivo. L’esperienza del blocco didattico “Progetto nel contesto sociale” (Facoltà di Architettura di Alghero). Lidia Decandia Anna M. Uttaro Leonardo Lutzoni La costruzione dei laboratori I laboratori del blocco didattico1 “Progetto nel contesto sociale” svoltisi negli ultimi quattro anni accademici si sono dedicati a pratiche di ricerca-azione svolte assieme agli studenti del 1° anno del corso di Laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale della Facoltà di Architettura di Alghero. L'idea fondante della creazione di queste pratiche è stata la costruzione di veri e propri laboratori di apprendimento collettivo in cui, attraverso il coinvolgimento degli studenti e delle popolazioni di alcuni contesti locali, operare per favorire un ampio processo di conoscenza interattiva da cui far scaturire pratiche pubbliche di riappropriazione e di cura dei luoghi. La necessità di orientare il laboratorio sulla creazione di contesti pubblici di apprendimento collettivo nasce dal bisogno di rispondere alla sfida che pongono le profonde trasformazioni dei nostri modi di vivere e abitare lo spazio contemporaneo. Rotto quel cemento che legava in maniera indissolubile un popolo a una terra e su cui si costruiva il senso d’identità e di appartenenza, sono venuti meno quegli strumenti e quei saperi dell’esperienza attraverso cui per secoli si era intessuto un legame con i luoghi. I nostri linguaggi, le nostre tecniche hanno reso cadaveri i nostri territori, disperdendo l’integrità dell’intero in un mondo sbriciolato in frammenti, lasciandoci soli a navigare in spazi deserti e silenziosi che non sanno più parlare alle profondità dell’uomo. Questa profonda fase di spaesamento richiede la costruzione di nuove mappe che possano aiutarci a orientarci, di trasformare questo territorio che sentiamo estraneo, come un corpo da cui ci siamo separati, scollati, in un cosmo nuovo di cui riconoscerci e sentirci parte. Abbiamo bisogno di compiere una nuova operazione di appaesamento. Dobbiamo ritornare a prenderci cura dei nostri territori, riaprire relazioni affettive e vitali con gli ambienti che ci circondano. Ritessere di nuove trame di significato quella piatta distesa di segni in cui si dipanano le nostre vite. In un momento in cui non è più la tradizione derivata da un’appartenenza a una terra a dettare le forme e i contenuti dell’agire, dobbiamo trovare nuovi strumenti che ci aiutino a riappropriarci creativamente dei nostri

                                                            

1 Il blocco è un’unità didattica in cui diversi corsi si coordinano attorno ad un laboratorio progettuale.

ambienti di vita. Solo, infatti, attraverso pratiche di “spazializzazione attiva”, potranno essere reinventate forme di “cura” e di riguardo verso i luoghi. Per questo non basta, però, limitarsi a costruire luoghi in cui conservare e imbalsamare un passato che non è più, ma occorre realizzare “cantieri” in cui spingere le nuove comunità in divenire, i diversi soggetti che utilizzano, abitano, attraversano il territorio, a ristabilire un rapporto fecondo con i serbatoi di memorie che esso contiene, e a ritornare a essere non più solo spettatori ma artefici e creatori del loro stesso destino. Occorre mettere in funzione dei “dispositivi aperti”, capaci di liberare dalla passività contemplativa, di innescare processi di lettura attiva e di partecipazione creativa. Dispositivi che sappiano risvegliare prima di tutto le dimensioni affettive ed emozionali; situazioni e ambienti in cui creare forme di conoscenza vitali, capaci non di produrre oggetti ma di fornire risorse di senso, di darci energia e motivazioni, di lanciare metafore comunicative in grado di sgelare e di rimettere in moto la passione collettiva, di spingere ad amare, ad agire e a fare. E’da queste premesse che è nata la costruzione del progetto “la strada che parla”: vero e proprio cantiere pubblico di conoscenza e azione nel territorio di Calangianus, un comune della Sardegna situato in Gallura ai piedi del massiccio del Limbara. Il racconto dell’esperienza Il pretesto della costruzione del laboratorio ci è stato fornito da un vecchio tracciato dalla ferrovia a scartamento ridotto Monti-Tempio che in questi ultimi anni è stato in parte recuperato e restituito ai cittadini come percorso ciclo-pedonale, attraverso un progetto della Comunità Montana. Il recupero di questo tracciato è stato accolto con grande entusiasmo dalla popolazione del paese che, nel riappropriarsene, l’ha trasformato in un vero e proprio spazio pubblico. Questo tracciato ferroviario, che racchiude già in se’ cristalli di ricordi legati alla storia della ferrovia, attraversa attualmente un territorio apparentemente vuoto e deserto, muto e silenzioso. Un territorio che per molti aspetti non riesce più a parlare all’uomo, a raccontarsi. Eppure, come ben sanno tutte le persone che hanno in paese una certa età, questo territorio è stato in passato particolarmente vissuto, investito di desideri, paure, affetti. È stato fonte di economie e di legami sociali. La toponomastica, il tessuto proprietario, il reticolo dei muri a secco, la presenza degli stazzi, le grotte abitate dai pastori transumanti sono solo alcuni dei segni che rivelano come le sue qualità siano l’esito di un lungo processo che ha visto l’uomo interagire con l’ambiente. A saperli interrogare questi segni, insieme agli alberi muti e alle rocce bucate dal vento e lavorate dall’atmosfera, ai sentieri minimi che si dipanano nelle campagne, costituiscono veri e propri scrigni di racconti e di storie. È proprio attraverso questo mondo di significati che gli uomini, nell’intessere legami affettivi, impalpabili e invisibili,

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con questi ambienti di vita, hanno prodotto un territorio ricco di senso, hanno avvolto i muri, gli alberi e le pietre di significati: li hanno resi, per poterli pensare, animati e viventi. Il laboratorio, in questo caso, prendendo spunto da queste premesse, intendeva trasformare questa strada muta in una “strada che parla”, per promuovere un vero e proprio viaggio di scoperta delle memorie e dei sogni che continuano a popolare questo territorio. Non per abbandonarsi alla nostalgia di un tempo che fu, ma piuttosto per nutrire l'immaginazione e il progetto, per stimolare e favorire nuove forme di appropriazione e restituire la minata capacità di comunicare con quest’ambiente di vita, attraverso nuove forme di conoscenza. È da questi presupposti che è nata l'organizzazione dell'evento “la strada che parla”, punto di partenza anche questo di un altro progetto più ambizioso, che intendiamo proporre alla comunità calangianese: il progetto di un laboratorio di conoscenza da realizzare lungo questo tracciato nei vecchi caselli della ferrovia dismessa.

La scuola incrocia il territorio: la costruzione dell’evento Da subito abbiamo convenuto che la realizzazione di questo progetto potesse offrire un’opportunità per sperimentare un modo innovativo di concepire la stessa attività didattica. Abbiamo pensato proprio per questo di fare incrociare la scuola con il territorio e di coinvolgere attivamente nella costruzione di questo evento gli studenti del primo anno del blocco didattico “Progettare nel contesto sociale”. Ci siamo mossi dunque in due direzioni. Da un lato, abbiamo costruito nelle aule universitarie insieme agli allievi le conoscenze di base riguardanti il percorso e il territorio ad esso circostante: un lavoro d’interpretazione e di lettura dei quadri ambientali e di ricostruzione storica. Entrambe queste dimensioni sono state restituite attraverso un’originale cartografia interpretativa. Dall'altro, abbiamo avviato una vera e propria fertilizzazione del contesto. In questo caso, un lavoro minuto e capillare d’incontri e di interviste con esperti locali ed abitanti del paese ci ha permesso di

selezionare i temi chiave che ci avrebbero consentito di articolare e ritmare il nostro percorso di esplorazione. Abbiamo scelto di intervistare sia coloro che avevano da raccontare le proprie memorie sull'uso di questo vecchio percorso, sia coloro che oggi in qualche modo hanno a che farci: i bambini e le maestre che lo utilizzano come aula didattica, i nuovi allevatori, i protagonisti tecnici del suo recupero e coloro che in qualche modo nutrono sogni e progetti sul territorio che lo circonda. Dopo questo lavoro di preparazione, ci siamo incontrati per due giorni lungo il percorso della ex-ferrovia per camminare insieme e costruire un processo interattivo di produzione della conoscenza: gli studenti, trasformati in uomini sandwich vestiti con le carte elaborate nelle aule universitarie, hanno ascoltato i ricordi, le storie, i desideri e i sogni degli abitanti, arricchendo di spessore e di senso la conoscenza prodotta nei laboratori. A loro volta gli abitanti si sono confrontati con le documentazioni e il lavoro prodotto in aula. L'antico tracciato ferroviario è stato un pretesto per costruire un vero spazio di discussione pubblica che ci

ha permesso di ragionare sul territorio, di mettere assieme memorie e desideri, sollecitandoci a riflettere sull'antico rapporto tra paese e campagna e su nuove ipotesi di sviluppo locale. Insieme a noi un componente di Studio Azzurro2 ci ha seguito con le telecamere lungo il percorso per documentare l'evento. Questo evento è stato il primo passo di costruzione del laboratorio che continuerà ancora a svilupparsi in diverse fasi. Al termine delle attività laboratoriali con gli studenti e del seminario-itinerante avevamo un ricco patrimonio di documentazione video e di lavori di analisi del territorio. Il passo successivo è stato quello di provare ad immaginare ad una forma di restituzione del lavoro fatto alla più ampia comunità locale. Non volevamo proporre un feedback passivo, ad esempio attraverso una mostra in cui semplicemente invitare la cittadinanza a fruire delle immagini da noi prodotte. Piuttosto volevamo inventare un meccanismo attivo, di scambio reciproco e di co-apprendimento, per produrre

                                                            

2 www.studioazzurro.com

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insieme delle immagini o perlomeno provare a far dialogare immagini differenti. Si è pensato, dunque, di inserire nella sperimentazione un secondo tassello visivo. Un workshop di fotografia dei paesaggi del Limbara3 è stato ideato e condotto con l’intento di attrarre in forma laboratoriale quegli abitanti locali interessati a raccontare il proprio paesaggio di vita attraverso i propri occhi, il proprio sguardo. Un’attività dunque scollegata dal contesto didattico, perché elaborata solo con gli abitanti, ma che alla fine convergerà in una mostra interattiva, attraverso cui entrambi questi tasselli del progetto verranno condivisi con la comunità locale.

                                                            

3 Visioni di paesaggi è il nome del workshop realizzato in collaborazione col fotografo locale Alessandro Graffi, nato con l’intento di coinvolgere la popolazione locale verso la scoperta e l’espressione visiva dei propri paesaggi di vita. In particolare, l’importanza di quest’ azione consiste nell’aver intercettato un evento dell’amministrazione regionale, il Premio del Paesaggio, e di essersi quindi inseriti con il workshop fotografico in un contesto reale, in cui la sperimentazione non sia semplicemente un esercizio fine a se stesso, ma si possa confrontare con un processo realmente in corso. Con il workshop, infatti, si vuole incentivare e sostenere la partecipazione degli abitanti del Limbara al premio con un proprio progetto fotografico. http://visionidipaesaggi.weebly.com/index.html

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per costruire molte di queste nuove città e dalle nuove strutture per il commercio ed il loisir) costituiscono aspet-ti problematici diversi ma convergenti, che testimoniano la sostanziale introversione degli spazi e delle pratiche di vita in pubblico della città contemporanea.

Tali spazi (e le attrezzature di interesse collettivo che in genere ad essi si accompagnano) conservano tuttavia una specifica rilevanza, almeno per due distinti e convergenti ordini di ragioni.La «sinestesia delle pratiche» contemporanee (Pasqui 2008, p. 53) consente di riconoscere che lo spazio della vita in pubblico è l’ambito cruciale in cui si svolgono e si intersecano pratiche sociali di diverso genere. Esso costituisce l’invaso capace di accogliere fasci di pratiche innumerevoli e ibride (nello spazio pubblico si lavora, si sta in famiglia, si trascorre il tempo libero, ci si sposta tra recapiti diversi...), in cui si esprimono principalmente i modi di essere di una società urbana.In secondo luogo, la varietà delle forme e la discontinuità degli episodi insediativi di cui si costituisce il territorio contemporaneo fanno sì che le città appaiano come realtà

Nuove urbanità, specie di spazi.Per un ri-orientamento del progetto dello spazio pubblico

Nuove urbanità

Il territorio urbano contemporaneo, esito perlopiù di pro-cessi di nuova urbanizzazione e di trasformazione interna delle città, appare in molti casi come una realtà dai tratti incerti, di cui si stentano a percepire i caratteri spaziali e a comprendere le logiche di funzionamento. Nuove forma-zioni insediative ibride, che – a rigore – non possono esser considerate città e neppure campagna, tutt’ora in corso di formazione, pongono inedite e controverse domande di trattamento.L’inadeguatezza delle infrastrutture (oggi particolarmen-te acuta a fronte di una domanda di mobilità diffusa), l’esiguità dei servizi (la cui realizzazione appare talvolta non sostenibile in assenza di adeguati bacini di utenza), l’assenza di spazi della vita in pubblico (sostituiti perlopiù dallo spazio aperto di pertinenza dei tipi edilizi utilizzati

1. Le immagini contenute in questo articolo sono tratte da una recente ricerca condotta dal Dipartimento di Architettura e Pianificazione e dal consorzio Metis del Politecnico di Milano (coordinata da Matteo Bolocan Goldstein, Silvia Botti, Gabriele Pasqui) e finanziata da Fondazione Cariplo, Provincia di Milano ed EuroMilano S.p.A. La ricerca si è svolta nei territori urbani compresi tra le provincie di Milano, Varese e Novara e, nella sezione “Urbanità” (responsabili Giuseppe Bertrando Bonfantini e Andrea Di Giovanni), ha indagato i principali caratteri delle formazioni urbane e le forme assunte dallo spazio della vita in pubblico in relazione alle diverse situazioni insediative. Si veda a tal proposito Bolocan Goldstein M., Botti S., Pasqui G. (2011) a cura di, Nord Ovest Milano. Uno studio geografico operativo, Electa, Milano. In questa immagine, relativa al territorio urbanizzato tra Busto Arsizio e Legnano, è possibile apprezzare la varietà di situazioni insediative attraverso le quali prende forma progressivamente una inedita condizione urbana.Fonte: Google EarthTM (original copyright).

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ferite –, migliorando il set delle dotazioni e le prestazioni complessive erogate, nonché per governare le relazioni tra i diversi frammenti insediativi.

Due distinte riflessioni – sulle pratiche sociali innovative che investono la città contemporanea e sulla spazialità ca-ratteristica e inconsueta che contraddistingue queste città in fieri (Calafati 2009, passim) – inducono a riconoscere e distinguere diversi tipi di spazio pubblico in riferimento

frammentarie e spesso incoerenti, in relazione alle quali si avverte l’esigenza e l’urgenza di un progetto di ricom-posizione degli spazi e delle attività (Gabellini 2010, pp. 68-72 e Di Giovanni 2010, pp. 23-33). Nei diversi casi lo spazio della vita in pubblico, più di ogni altro mate-riale urbano, si presta ad agire come “eccipiente urbano” (Munarin 2009, p. 111), utile per garantire l’efficienza dei singoli episodi insediativi – prodotti quasi sempre da razionalità minimali (Secchi 1989, pp. 18-21) e auto-ri-

2a-f. Entro diverse formazioni insediative (centri storici e quartieri unitari, superluoghi e telai urbani, colonie residenziali e della produzione) i sistemi di spazi pubblici appaiono diversamente estesi ed articolati, costituiti da una gamma ampia e variegata di materiali urbani dello spazio aperto e costruito.Fonte: Google EarthTM (original copyright).

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aggregata, organizzati entro composizioni articolate a formare centri civici a servizio del quartiere. In questi casi i materiali urbani ricorrenti appartengono perlopiù a un repertorio consolidato (la strada, la piazza, il parco o il giardino, il parcheggio, il portico o la galleria...) e si compongono entro sequenze definite in relazione ad una sintassi nota.

Altri, sono considerati spazi della vita in pubblico “emer-genti”, caratterizzanti in qualche misura la città contem-poranea.Alcuni di questi sono percepiti come luoghi eccezionali – “superluoghi” (Agnoletto Delpiano Guerzoni 2007) – che si distinguono rispetto al contesto per alcuni caratteri peculiari: possiedono dimensioni e caratteristiche formali fuori dal comune; esprimono una eccellenza funzionale, che a seconda dei casi è relativa alla specializzazione o alla varietà dell’offerta di beni o servizi; manifestano dun-que un’accentuata alterità (fisica e funzionale) rispetto al contesto prossimo in cui si inseriscono. Si tratta perlopiù di spazi e attrezzature per la mobilità (aeroporti e stazio-ni ferroviarie), oppure per il loisir (centri commerciali generici o contenitori commerciali specializzati, multiplex cinematografici, outlet villages, villaggi turistici, parchi

ad altrettante formazioni insediative. L’ipotesi sottesa è che nelle diverse situazioni insediative, spazi e pratiche della vita in pubblico (realizzandosi in forma peculiare) pongano specifici problemi e sollecitino il progetto urba-nistico in maniere diverse.Si tratta, dunque, di riconoscere anzitutto i caratteri specifici assunti da tali spazi nelle forme di urbanità contemporanea e i problemi ad esse relativi; in secondo luogo, si tratta di immaginare gli orientamenti possibili di un’azione pertinente e differenziata sullo spazio della vita in pubblico nei diversi contesti.

Tre situazioni

Alcuni di questi sono spazi “della tradizione”, in cui la vita in pubblico si svolge da molti anni o addirittura da secoli.È il caso degli spazi (propriamente) pubblici della città storica, che spesso rivelano una straordinaria estensione, articolazione e continuità, varietà e coerenza, ma anche di quelle parti della città concepite in maniera organica e coordinata (come nel caso dei quartieri unitari), in cui gli spazi della vita in pubblico si trovano spesso in forma

3. Una rappresentazione sinottica e interpretativa del campo territoriale del nord-ovest milanese consente di riconoscere la compresenza e la diversa prevalenza di spazi della vita in pubblico della tradizione, nei centri storici (areali in verde chiaro); emergenti, nei superluoghi (puntiformi in verde scuro) e nei telai urbani (lineari in verde scuro); latenti, nella geografia pervasiva delle colonie residenziali (in giallo) e della produzione (in viola).Fonte: Bolocan Goldstein Botti Pasqui (2011).

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della vita in pubblico ordinari, comuni, e i diversi mate-riali urbani di cui si costituiscono gli insediamenti urbani contemporanei. Che sia necessario tornare a concepire lo spazio comune come fattore essenziale per la vitalità e l’abitabilità di quelle parti urbane che oggi soffrono le maggiori difficoltà in relazione all’evolvere delle forme di urbanità contemporanee.

Si tratta, probabilmente, di ripensare al ruolo e al progetto possibile di spazi della vita in pubblico non-straordinari, per perseguire maggiore continuità e coerenza della città contemporanea, preservando tuttavia varietà e specifici-tà delle diverse formazioni insediative (che, almeno in qualche misura, possono rappresentare elementi peculiari e connotanti le formazioni urbane contemporanee).Si tratta, almeno in una fase iniziale, di recuperare atten-zione per alcune forme ordinarie dello spazio della vita in pubblico: spazi comuni, per il senso, il ruolo, i caratteri formali dello spazio e per quelli delle pratiche sociali che in essi possono avere luogo.Si tratta, più precisamente, di mettere a fuoco il signifi-cato e il ruolo possibile di questa specie di spazi rispetto alle necessità e alle pratiche dell’abitare contemporaneo, ma anche di ricostruire un immaginario di tecniche e figure compositive che ne hanno storicamente orientato il progetto nella città moderna, valutando la pertinenza e l’attualità di ciascuna di queste rispetto alla possibilità di una loro reinterpretazione in relazione agli specifici problemi di abitabilità e composizione posti dalla città contemporanea.

Andrea Di Giovanni

Riferimenti bibliografici

Agnoletto M., Delpiano A., Guerzoni M. (2007) a cura di, La civiltà dei superluoghi. Notizie dalla metropoli quoti-diana, Damiani, Bologna.Bolocan Goldstein M., Botti S., Pasqui G. (2011) a cura di, Nord Ovest Milano. Uno studio geografico operativo, Electa, Milano.Calafati A. (2009), Economie in cerca di città. La questio-ne urbana in Italia, Donzelli Editore, Roma.Di Giovanni A. (2010), Spazi comuni. Progetto urbanisti-co e vita in pubblico nella città contemporanea, Carocci, Roma.Gabellini P. (2010), Fare urbanistica. Esperienze, comu-nicazione, memoria, Carocci, Roma.Munarin S. (2009), “Città, welfare space, pratiche relazio-nali: immaginare nuovi eccipienti urbani”, in Urbanistica, n. 139, INU Edizioni, Roma.Pasqui G. (2008), Città, popolazioni, politiche, Jaca Book, Milano.Secchi B. (1989), Un progetto per l’urbanistica, Einaudi, Torino.

tematici e di divertimento), costituiti in genere da materia-li urbani complessi ed in cui prevale lo spazio costruito.Altri ancora prendono forma attorno a concatenazioni ar-ticolate e ricche di spazi aperti ed attività ordinarie che si combinano nel territorio formando nuove e rilevanti cen-tralità, elementi di “intelaiatura” che divengono recapito naturale e condiviso per una serie di popolazioni urbane che ad essi si rivolgono nelle routine quotidiane.

In altri casi, infine, laddove la reiterazione di un medesimo tipo edilizio (o con poche varianti) vede il disporsi seriale di oggetti edilizi secondo criteri definiti e ricorrenti, si assiste alla formazione di insediamenti caratterizzati da forte omo-geneità e regolarità (benché talvolta esito di processi incre-mentali e diacronici): si costituiscono in questo modo colonie della residenza o della produzione in cui gli spazi della vita in pubblico sono “latenti”, se non del tutto assenti. Oltre alle strade (proprie della lottizzazione o pubbliche e preesisten-ti, attorno alle quali l’insediamento può anche crescere in maniera parassitaria) e ai parcheggi (materiali essenziali per garantire l’accessibilità alle singole abitazioni) possono es-sere presenti aree verdi (generalmente di piccole dimensioni, scarsamente attrezzate, non connesse e localizzate in maniera eccentrica rispetto all’insediamento) e poche altre attrezzatu-re, esito perlopiù di un’applicazione meramente quantitativa dello standard urbanistico.

Prospettive

Questi tre tipi di spazi pubblici – “della tradizione”, “emergenti”, “latenti” – costituiscono altrettante fattispe-cie compresenti nel farsi progressivo della città contem-poranea; diversamente “a fuoco”, però, nella riflessione critica e nelle pratiche progettuali aventi per oggetto lo spazio urbano della vita in pubblico.L’attenzione e gli sforzi progettuali sembrano oggi con-centrarsi soprattutto sugli spazi nobili dei centri storici e su quelli emergenti e più vitali dei superluoghi contempo-ranei. Più raramente ricerche e progetti si applicano alla rigenerazione o alla realizzazione ex-novo di spazi ordi-nari – ma non per questo meno rilevanti per le pratiche dell’abitare e per l’abitabilità dei diversi contesti – in cui si esprime o potrebbe esprimersi la vita in pubblico nelle diverse formazioni urbane di cui si costituiscono la città ed il territorio contemporanei.

Ciò, di per sé, non fa problema, se non rispetto al fatto che si avverte da più parti una domanda insorgente di qua-lità dell’abitare e degli insediamenti in cui esso si svolge. Si tratta di una domanda diversa dal passato, che riguarda le possibilità di utilizzare in maniera soddisfacente lo spazio urbano: il problema torna per certi versi ad essere “abitare dentro” e “abitare fuori” casa, laddove ciò che in molti casi appare particolarmente problematico e lacunoso è la dimensione del fuori più prossimo, dello spazio non privato attorno e tra le case.L’ipotesi che qui si propone è che sia necessario recupe-rare un rapporto di continuità e propinquità fra gli spazi

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Biennale dello spazio pubblico - Roma 12-14 maggio 2011 workshop What Place is This Space?

LABORATORIO LE CITTA’ 2011 – coord. Prof. Giovanna Bianchi - CdLM in Pianificazione della Città del Territorio, dell’Ambiente - Sapienza Università di Roma - Facoltà di Architettura

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La dimensione urbana della residenza e lo spazio pubblico nel progetto della città di tutti i giorni. L’ipotesi culturale e la sperimentazione didattica VALERIA CIANCARELLI e GIACOMINA DI SALVO

1 Il contributo specifico del laboratorio LE CITTÀ al workshop What Place is This Space? è stato pensato per essere duplice: 1. di tipo tematico, poiché riflette attorno a un tipo di spazio pubblico minuto e “quotidiano”, di piccole dimensioni, legato alla residenza e ai servizi di prossimità, tessuto connettivo ordinario e diffuso, su cui si struttura la “città di tutti i giorni”2; 2. di tipo metodologico, in quanto il progetto urbanistico oggetto del lavoro di laboratorio è articolato in due fasi, corrispondenti con l’elaborazione di un documento preliminare alla progettazione, che definisce temi, obiettivi, prestazioni e tipi di relazioni che l’intervento deve avere con il contesto urbano circostante e di una proposta progettuale specifica, orientata e valutata dal documento stesso. 1. IL CONTRIBUTO TEMATICO: LA DIMENSIONE URBANA

DELLA RESIDENZA DAL PUNTO DI VISTA DELLO SPAZIO

DEL QUOTIDIANO

L’idea di lavorare con un’ottica urbana sullo spazio del quotidiano nasce da un’osservazione di alcune periferie residenziali romane. Alcuni dei problemi e disqualità urbane che emergono trovano origine nella carenza di spazi, strutture, luoghi e sistemi di trasporto adeguati alla dimensione del quotidiano e nell’incompletezza delle relazioni (fisiche e funzionali) tra i singoli luoghi dell’abitare e la città. Sono in particolare gli spazi collettivi di prossimità ad essere spesso assenti, come quegli spazi e funzioni intermedie che si trovano tra la residenza e gli spazi pubblici veri e propri, che svolgono il ruolo fondamentale di mettere in comunicazione e in continuità le diverse parti dei tessuti residenziali, di rispondere a un ruolo diverso ma complementare rispetto ai grandi spazi pubblici; che collegano le diverse funzioni collettive (servizi e negozi); che rispondono a esigenze di sicurezza favorendo forme di controllo sociale spontaneo; che contemplano diverse forme di appropriazione da parte degli abitanti,

1 Il testo è frutto di impostazione comune. Giacomina Di Salvo ha scritto il paragrafo 1. “Il contributo tematico: la dimensione urbana della residenza dal punto di vista dello spazio del quotidiano”, Valeria Ciancarelli il paragrafo 2. “Il contributo metodologico: il documento preliminare alla progettazione e la risposta progettuale espressa attraverso una proposta e un corredo di regole”. 2 Il tema e il metodo sono stati oggetti centrali di ricerche, riflessioni e sperimentazioni didattiche nel corso degli anni. Per un approfondimento si veda G. Bianchi (a cura di), Progettare la qualità nella città di tutti i giorni, Orienta 2010

rispondendo così ai fisiologici cambiamenti di generazioni di residenti. A mancare o a essere poco curato è proprio quello spazio pubblico di prossimità a “portata di mano”, luogo di passaggio comune che può rientrare nell’organizzazione quotidiana ordinaria; che è ugualmente a “portata di piedi”, quindi raggiungibile in autonomia da tutte le fasce di età, permettendo di liberarsi dal vincolo dell’automobile e di invertire la tendenza a pensare, e quindi progettare e disegnare, le connessioni in virtù del loro uso predominante dell’automobile. Anche e soprattutto per queste due ragioni gli spazi di prossimità hanno la potenzialità di diventare un luogo di riferimento locale, punto di incontro e spazio di aggregazione, complementare rispetto ai grandi sistemi di spazi pubblici urbani riconosciuti e consolidati3. La debolezza del sistema degli spazi pubblici, nello svolgere i loro specifici ruoli di luoghi di socialità e di connessione tra nuclei prevalentemente residenziali, è una caratteristica che trova un esempio esplicito in gran parte della periferia residenziale romana, ma che trova fondamento in una frammentarietà tipica della città contemporanea, dove sembrano essersi interrotti in molti casi i rapporti di prossimità fra residenza, servizi collettivi e spazi della vita in pubblico. Ma è proprio su questa realtà che serve lavorare e ragionare, utilizzando la frammentarietà come risorsa (sia per la presenza di vuoti tra i diversi tessuti, spesso in abbandono, che per la differenziazione dei paesaggi urbani che permette) per dare un nuovo ruolo strutturante ai singoli spazi di prossimità, di ri-connessione e di dotazione urbana. Per avvalorare questa tesi è utile fare riferimento alle problematiche comuni riscontrate nei diversi anni di laboratorio che, pur facendo riferimento a contesti urbani di periferia molto diversi tra loro4, trovano tutti

3 Cfr. Di Giovanni A., Spazi comuni. Progetto urbanistico e vita in pubblico nella città contemporanea, Carocci, Roma 2010 - pag. 75. 4 I contesti indagati sono stati: la periferia “storica” di Pietralata, che sta assistendo negli anni a processi di trasformazione e riqualificazione, quella di Tor Cervara caratterizzata invece da grandi vuoti e dalla compresenza di insediamenti artigianali, valenze ambientali (Parco dell’Aniene) e importanti infrastrutture di trasporto metropolitane, e infine Acilia, una periferia a bassa densità interessata da decenni di urbanizzazione incontrollata e spontanea e, oggi, da spinte di crescita residenziale ancora molto forti.

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riscontro nella debolezza del sistema di spazi pubblici e in una realtà insediativa frammentata, dove prevalgono tessuti residenziali isolati tra loro (micro isole residenziali), spazi pubblici poco vissuti come luoghi di relazione, aree verdi non attrezzate o addirittura inaccessibili.

Fig 1 Le debolezze urbane della periferia a bassa densità

La debolezza degli spazi pubblici nello strutturare lo spazio del quotidiano delle nuove periferie residenziali è particolarmente evidente nei tessuti a bassa densità, caratterizzati da case isolate su lotto, edifici a schiera o piccole palazzine bi-quadri familiari. Intervenendo anche in questi contesti, il laboratorio si è posto come obiettivo di lavorare sulla definizione di impianti che tenessero conto anche di queste tipologie edilizie (rispondenti alla domanda residenziale oggi prevalente), ma che non venissero generati solo a partire da queste, quanto da un sistema complesso di spazi, funzioni e percorsi pubblici che si relazionano con il costruito e con gli spazi aperti di pertinenza delle residenze. Confrontando ad esempio alcune soluzioni progettuali del laboratorio, emerge che il sistema di spazi pubblici di prossimità può svolgere un ruolo di strutturazione dell’insediamento e di connessione con il contesto, sia nel caso di tipologie edilizie individuali a bassa densità, come ad esempio case a patio aggregate in modo da definire micro-tessuti, all’interno dei quali si articolano spazi di uso collettivo e percorsi prevalentemente pedonali, sia nel caso opposto di impianti definiti da tipologie a maggiore densità, dove edifici in linea a più piani disegnano delle grandi corti aperte che strutturano, articolano e diversificano lo spazio pubblico e semi pubblico, a seconda delle funzioni accolte dagli edifici.

Fig 2 Ipotesi di articolazione dello “spazio del quotidiano” tra

spazi privati, pubblici e semiprivati

Fig. 3 Temi e obiettivi del progetto urbanistico di “spazio del

quotidiano” (schemi concettuali) Non si è trattato quindi di scegliere tra una o l’altra tipologia edilizia , ma di “usare” il costruito per definire un sistema di spazi urbani, pubblici e semi pubblici, riconoscibili, flessibili, vivibili, accessibili, sicuri e connessi. Si è pensato agli edifici e agli spazi della residenza non solo per rispondere a un comfort edilizio, ma anche e soprattutto a un comfort urbano5. 2. IL CONTRIBUTO METODOLOGICO: IL DOCUMENTO

PRELIMINARE ALLA PROGETTAZIONE E LA RISPOSTA

PROGETTUALE ESPRESSA ATTRAVERSO UNA

PROPOSTA E UN CORREDO DI REGOLE Sotto il profilo metodologico il laboratorio LE CITTÀ ha formulato una sperimentazione basata su un approccio pragmatico e incrementale di costruzione del piano attraverso strumenti e procedure di “guida alla progettazione” e regole che, senza irrigidire il progetto, producano effetti di organizzazione dello spazio rispondendo a obiettivi e requisiti urbani.

Il tema e l’oggetto progettuale del laboratorio non riguarda nello specifico lo spazio pubblico ma nuovi impianti urbani prevalentemente residenziali nella periferia romana, corrispondenti con tre Ambiti di trasformazione ordinaria (Ato) del Prg di Roma6. Il centro dell’esercitazione non è stato tanto un progetto inteso come un disegno di suolo accompagnato da una verifica quantitativa della sostenibilità e del rispetto delle norme urbanistiche, quanto un progetto di trasformazione urbana (pur

5 Si riprendono due riflessioni sulla differenza tra comfort edilizio e comfort urbano di Italo Insolera (1962-2011), In Roma moderna, Einaudi e di Arturo Lanzani (2003) in I paesaggi italiani, Meltemi 6 Nuovo Piano Regolatore di Roma (NTA Prg 2003-2008)

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trattandosi di una piccolissima porzione di città), esplicitato in alcune delle diverse fasi del processo urbanistico, per il quale un determinato disegno di suolo fosse una delle tante ipotesi di possibile configurazione della trasformazione, a fronte di stessi obiettivi e prestazioni qualitative. L’obiettivo più ambizioso del laboratorio è stato sicuramente quello di esercitarsi ad ”abbandonare” il disegno del progetto per inseguire e determinare obiettivi, temi, prestazioni e regole per la qualità e la vivibilità degli spazi urbani.

Fig. 4 Esempi di regole morfologico-funzionali del progetto

Si è proposto quindi di simulare, all’interno della stessa esercitazione disciplinare, la costruzione di un documento preliminare di indirizzo alla progettazione allegato a un bando di concorso e la risposta progettuale ad esso; duplice lavoro che corrisponde a due tipi di sbocchi professionali dell’urbanista: la pubblica amministrazione che definisce un documento concorsuale e il progettista che risponde a un bando. Questa articolazione del lavoro di laboratorio trova un fondamento nella consapevolezza rispetto ai limiti del progetto urbanistico che, nella complessità dei processi di trasformazione urbana, svolge un ruolo centrale e fondamentale, ma ne costituisce solo una parte, che si relaziona con diversi strumenti (il piano, le norme, le regole e il progetto architettonico,…) e diversi soggetti

(amministratori, tecnici, investitori, cittadini,…). Non solo dalla qualità del singolo progetto ma anche da come si sviluppano e si articolano questi rapporti dipende il risultato della trasformazione di una parte di città, della sua vita quotidiana, della qualità dei suoi spazi e delle sue forme edificate. A ciò bisogna aggiungere comunque che pur se un buon progetto non basta per fare un buon pezzo di città, quanto meno il ricorrere a pratiche concorsuali offre una garanzia per ottenere “il progetto migliore”, che risponde cioè nel migliore dei modi agli obiettivi definiti. A tal proposito sono fondamentali, oltre alle scelte di configurazione esplicitate in un progetto nella sua risposta preliminare al bando, il pacchetto di regole che lo corredano. Definire per uno spazio pubblico, o per un sistema di spazi pubblici e semi-pubblici, un pacchetto di regole inequivocabili e allo stesso tempo flessibili significa lasciare aperte diverse possibilità di soluzioni progettuali in un processo progettuale potenzialmente aperto anche a procedure partecipative e di ascolto, tenendo fermi gli obiettivi qualitativi prefissati dallo “sguardo urbano” del documento preliminare, di inserimento nel contesto urbano e di funzione collettiva degli spazi e delle funzioni da essi serviti.

Fig. 5 Vivibilità urbana e dimensione collettiva dello spazio

residenziale

In conclusione, il metodo elaborato e sviluppato nel laboratorio LE CITTÀ, alludendo all’uso di strumenti concorsuali, intende aprire le sua ipotesi di partenza ad alcuni sviluppi. Considerando la condizione attuale di debolezza delle politiche urbane e del soggetto pubblico nel gestire lo sviluppo urbano in generale e nel guidare e orientare i singoli progetti di nuovi frammenti di periferia verso forme di qualità urbana, si propone di provare a rivolgere l’attenzione anche sugli altri soggetti che, oltre al pubblico, intervengono nei processi di trasformazione urbana e che possono sperimentare nuove pratiche più virtuose - e potenzialmente anche più competitive- che si basino su un’evoluzione della domanda di residenza verso la qualità dello spazio pubblico, il comfort urbano e la dimensione collettiva della città.

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Da "vuoti" urbani a spazi aperti pubblici?

Nella condizione frammentaria e discontinua del paesaggio urbano contemporaneo, in cui intere parti di città sembrano implodere su stesse, in cui lo spazio ormai saturo continua a mostrarsi spesso irrisolto, una occasione irrinunciabile di progetto è offerta dallo spazio "vuoto" nelle sue molteplici conformazioni, densità, grane e trame e dal suo ripensamento come spazio pubblico. L'attribuzione della "giusta misura" al vuoto urbano "generico" può contribuire a ricostruire relazioni compositive tra i materiali disseminati e "distanti" della città. Si tratta di ripensare il vuoto da assenza forma strutturante. Contrariamente alle ipotesi visionarie e nichiliste che affermano la inevitabile morte dello spazio pubblico nella città generica e priva di qualità, in cui la serenità si compie tramite l'evacuazione della sfera pubblica (Koolhas, 2006), il carattere della città europea, la sua storia, la sua densità e stratifica­zione di usi e memorie, sembra opporsi a queir "inevitabile" destino. E proprio l'uso degli spazi aperti, i modi talvolta informa­li della loro appropriazione, invitano ad una riflessione attenta sul potenziale racchiuso nei vuoti frammentari che stanno generica­mente tra le cose, che separano gli oggetti della città spesso semplicemente paratatticamente accostati e muti (Secchi, 1993). Secchi fa risalire proprio allo sviluppo della città moderna e dunque al sostanziale mutamento dell'urbanistica del XX secolo rispetto alla città ottocentesca l'insinuarsi del "frammento" nella realtà urbana, quale inevitabile effetto del linguaggio della postmodernità. Se è vero infatti che la storia della città europea sino al XIX è anche la storia della morfologia suoi spazi pubblici certo è che a partire dallo sviluppo di quella moderna quella relazione chiara, sostanziale e strutturante la forma, della città si è spezzata. Ed in questo articolato scenario contem­poraneo i numerosi spazi vuoti, anche interstiziali, generati dalla spesso quasi totale assenza di relazione tra le parti ed tra gli elementi, e sopravvissuti alla densificazione urbana, si mostrano quale potenziale irrinunciabile per la ri-costruzione dei luoghi dell'abitare.

Si tratta di spazi residuali spesso esito di trasformazioni poco attente alle morfologie preesistenti, o diversamente di vuoti pervasi da un livello di degrado tale da farne perdere i caratteri morfologici; Si tratta di vuoti che si insinuano nel continuum edificato senza riuscire a configurasi quali intervalli qualitativi, come spazi dell'architettura, e che appaiono piuttosto come scarti. Questi spazi-rifiuto, spazi-scoria, spazi-scarto rappresentano tuttavia un potenziale non trascurabile per costruire nuovi equilibri e misure tra i pieni ed i vuoti della città. Il progetto dello spazio aperto può contribuire dunque alla costruzione di una nuova dimensione relazionale che a partire dalla ri-strutturazione fisica dei vuoti contribuisca alla costruzione di relazioni tra i materiali della città e di spazi vitali per le comunità. Questo uno degli obiettivi principali perseguito attraverso il lavoro svolto all'interno di un workshop, organizzato dalla facoltà di Architettura di Napoli, in cui i laureandi del corso quinquennale si sono misurati con la complessità del "progetto transitorio" di una delle piazze storiche, densa di significati ma fortemente degradata, della città di Napoli: Piazza Mercato nell'area dei "quartieri bassi".

Il PALper i quartieri bassi di Napoli: un'occasione di riflessione su Piazza Mercato a Napoli. Il tema del workshop è nato da una occasione di trasformazione concreta che sta interessando l'area: la costruzione di un piano di azione locale (PAL). Il piano si configurerà quale esito finale del programma europeo CTUR, di cui la città di Napoli è capofila, incentrato sullo sviluppo turistico sostenibile delle città portuali. Nella redazione del piano di azione locale acquisisce particolare importanza l'individuazione delle diverse azioni da compiere sul territorio oggetto di studio per innescare realmente processi di riqualificazione urbana. Il DPPU della facoltà di Architettura di Napoli partecipa al gruppo di supporto locale del Programma Urbact II con una doppia finalità: offrire un contributo scientifico nella definizione del piano di azione locale per quartieri bassi della città e costruire una relazione con l'attività didattica e di ricerca che si svolge in Facoltà. Il gruppo di ricerca universitario coinvolto nel programma ha dunque organizzato due workshop intensivi finalizzati alla costruzione di scenari di sviluppo possibili per l'area. Il workshop e la proposizione di scenari di trasformazione per la Piazza Mercato. Il percorso progettuale seguito dunque dagli studenti nel mese di lavoro a disposizione ha visto come prima fondamentale operazione di progetto la descrizione dell'area e della piazza in particolare. La lettura morfologica dell'area e della piazza Mercato, è stata però per gli studenti un primo importante momento dell'iter progettuale finalizzato alla comprensione della relazione esistente tra forme, stratificatesi nel tempo, ed usi dello spazio. Una lettura dunque sincronica composta da materiali diversi concentrata sulla individua­zione della forme dello spazio (cronomorfologia) nel tempo. In base al carattere, alla qualità dello spazio, alla natura e alle trasfor­mazione in corso, di questa singolare piazza della città si è deciso di far lavorare gli studenti secondo alcuni principi: di transitorietà, di riduzione e di flessibilità Si è richiesto loro di proporre usi e trasfor­mazioni transitorie per la piazza in vista delle "definitive" previste dai programmi e dalle progettualità che investono l'area. La piazza è oggi un vuoto ampio, liberato da qualche anno dalla funzione di mero parcheggio, ma molto poco valorizzato e sottouti­lizzato. Gli studenti hanno lavorato su questo vuoto secondo un principio di riduzione: cioè limitando le loro azioni progettuali a pochi elementi, a pochi segni cui affidare la capacità di valorizzare la qualità dello spazio e vitalizzarne l'utilizzo a partire dall'osservazione dei differenti modi di appropriazione dello spazio in atto. All'interno dunque di una ridotta griglia di "possibilità", gli studenti hanno lavorato cercando di trasformare i vincoli ed i limiti in occasioni, in risorse, in possibilità. La singolare articolazione dello spazio della piazza, apparentemente geometricamente circoscritta ma in realtà fortemente connessa alla vicina piazza del Carmine e la presenza di tutta una serie di piccoli vuoti frammentati che costellano il tessuto nel suo intorno, hanno suggerito di lavorare individuando differenti ambiti, secondo una sorta di "elementarizzazione" del vuoto, a cui far corrispondere differenti usi secondo una logica di grande flessibilità dello spazio. Attraverso tutti i lavori del workshop complessivamente, e al di là delle differenti proposte, si è cercato di suggerire dunque per Piazza Mercato una strategia di trasformazione, transitoria e flessibile, per spostamenti minimi capaci di vasti cambiamenti di senso (Gregotti, 2006).

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Tre proposte "transitorie" per l'uso flessibile delle Piazza Mercato. I Lanterne per la piazza II vuoto della piazza è stato interpretato come un unico grande invaso quasi interamente corrispondente all'area dell'antico Largo del Mercato. Questo grande vuoto irregolare è delimitato da una parte dagli edifici del tessuto storico, dall'altra dal grande edificio di Palazzo Ottieri, un "fuori scala" esito degli anni bui della speculazione edilizia degli anni '60. Verso est il vuoto di piazza Mercato si ricongiunge invece con quello antistante la Chiesa del Carmine. La proposta Lanterne per la Piazza Mercato prevede la realizzazione di alcuni piccoli box, della dimensione di 3 mtx3mt, sollevati da terra per una altezza di 3mt., posizionati secondo una griglia nord-sud nel vuoto della piazza. L'idea fondante è quella di riempire il vuoto in maniera isotropa e consentendone una fruizione ininterrotta alla quota terra. I box sono stati pensati come dei cubi composti da telai con pannelli di stoffa, prodotti e sponsorizzati dalle botteghe tessili del Borgo, e retro illuminati. Si è pensato che i box, possano fungere di giorno da piccole botteghe, stand per lo svolgimento del mercato e di notte da corpi illuminati, lanterne appunto, che contribuiscano a definire un luogo maggiormente accogliente in cui poter sostare, e mettano in mostra le stoffe prodotte dal Consorzio artigiano.

2 Vuoti a rendere: "riassorbire" i frammenti Il gruppo di studenti ha voluto, attraverso la propria proposta, esaltare il carattere frammentario e "spontaneo" dell' occupazione degli spazi vuoti all'interno dell'area. Il gruppo nella fase di indagine, ha individuato una serie di vuoti differenti, per dimensio­ne, per funzione e posizione, in particolare vuoti "abbandonati" disseminati a partire dalla quota terra, nello sviluppo altimetrico degli edifici sino alle coperture e terrazzi superiori. L'idea fondante il progetto è stata quella di restituire questi vuoti, per l'appunto vuoti a rendere alla città, trasformandoli in spazi per lo svolgimento della vita collettiva. Una della proposte ha riguar­dato l'ipotesi di costruzione di strutture removibili, che occupas­sero alcuni vuoti (nati da demolizioni e/o bombardamenti), da destinare ad atelier-abitazioni per usi temporanei dati in gestione ai consorzi artigiani, tessile ed orefice.

Differentemente dalla precedente proposta, molto orientata e chiara nella interpretazione dello spazio vuoto della piazza, questa seconda invece lascia ampio spazio alla libera occupazione del vuoto e sembra voler piuttosto esaltare, offrendo delle soluzioni architettoniche di maggiora qualità, il carattere frammentario che caratterizza attual­mente la modalità di fruizione dello spazio.

3 II "porto" in Piazza Mercato. Evocazione di una relazione mancata Le due precedenti proposte, anche se in maniera differente, interpre­tano il vuoto della piazza come un unico grande invaso in cui l'esedra piuttosto che "contenere" sembra "essere contenuta". Quest'ultima proposta invece differenzia lo spazio vuoto della piazza in due parti: il vuoto concavo definito dal segno planimetrico dell'esedra e quello determinato dal suo retro. La proposta si articola nella costruzione di una galleria commerciale scoperta delimitata dalla convessità dell'esedra e dagli allestimenti tempora­nei all'interno dello spazio centrale vuoto delimitato dalla esedra. Il vuoto della piazza Mercato è stato pensato come spazio libero, aperto e offerto alla sperimentazione degli usi degli abitanti. Si è immaginato di collocare all'interno della piazza alcuni container, che evocando la prossimità al porto si possano offrire agli abitanti quali spazi da contaminare, ridisegname ed allestire liberamente.

Riferimenti bibliografici B. Secchi, Un progetto per l'urbanistica, Einaudi, Torino, 1989. B. Secchi, Un'urbanistica di spazi aperti, in «Casabella» n° 597-598, 1993. C. Marti Aris, Silenzi eloquenti, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2002. B. Secchi, Prima Lezione di Urbanistica, Editori Laterza, Bari, 2003. G. Clement, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2004. R Espuelas, Il vuoto riflessioni sullo spazio in architettura, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2004. R. Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, Macerata, 2006. V. Gregotti, L'architettura nell'epoca dell'incessante, Editori Laterza, Bari, 2006. E Purini, Comporre l'architettura, Editori Laterza, Bari, 2006. C. Cellamare, Fare città, elèuthera, Roma, 2008.

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Urbanistica dello spazio aperto di Michelangelo Russo e Enrico Formato Il contributo è da ritenersi frutto della riflessione comune dei due autori; introduzione e conclusioni sono state scritte a quattro mani; i paragrafi 2 e 3 sono da attribuire a Enrico Formato.  Il laboratorio1 lavora su aree poste nel territorio di Napoli, città sede del nostro Corso di Laurea; questa scelta ci consente di rafforzare la relazione con spazi e luoghi di cui è possibile avere percezione diretta e quotidiana. Si lavora alla scala del “progetto urbano” articolando l’attività in modo da affrontare la dimensione intermedia tra scelte pianificatorie e attuazione edilizia. Il corso è incentrato sullo sviluppo di tre moduli di produzione del progetto: 1) la conoscenza interpretativa del territorio; 2) la definizione di un programma delle trasformazioni, la sua misura e le strategie di progetto sintetizzate in un’immagine dal forte valore concettuale e comunicativo (il “concept”); 3) l’articolazione tecnica del progetto, la sua stesura e articolazione attraverso un approccio “tecnicamente pertinente” (il “masterplan”). La conoscenza del territorio non è separata dalla ricostruzione delle determinazioni di carattere normativo che rappresentano l’“assetto tendenziale” del territorio, attraverso la disamina dei documenti di pianificazione, a tutte le scale, i loro principi e obiettivi, la definizione delle disposizioni che orientano la trasformazione dei territori oggetto del nostro lavoro. Gli atti del descrivere ed interpretare, a partire dalla lettura delle “carte” fino al “sopralluogo”, tornano continuamente in aula come dibattito collettivo, momento essenziale del laboratorio in cui si strutturano le opinioni e vengono indotte e affinate, mediante un esercizio di critica aperta e collettiva, le ipotesi interpretative e progettuali proposte dagli studenti. Senza soluzione di continuità si passa dall’analisi al progetto, nella consapevolezza che il progetto si fonda sulla conoscenza (in termini di interpretazione dei luoghi ma anche della domanda di cambiamento) e al contempo deve anche descrivere un’ambizione capace di idealizzare una realtà in metamorfosi entro potenziali scenari futuri.

1. La scelta dei temi

Napoli, con la sua forma e le sue contraddizioni, è uno straordinario laboratorio della contemporaneità: la scelta dei temi di progetto ne individua le condizioni più critiche. Si tratta di aree di trasformazione, aree al margine della città consolidata, aree di specializzazione funzionale, margini imprecisi e piccole distanze tra parti urbane.

Uno spazio dove la sovrapposizione di differenti razionalità settoriali definisce divisioni e separazioni topologiche: infrastrutture in viadotto, in rilevato o in trincea; recinti specializzati, legati alla produzione o interdetti all’uso, aree dismesse, abbandonate o proibite; quartieri monofunzionali di edilizia residenziale pubblica; aree a standard prive di uso; spazi interstiziali, residui frammentati di naturalità; paesaggi negati; esile e banale trama pubblica della città intensiva moderna. Una conurbazione ove oltre il recinto non c’è luogo ma solo percezione di altri recinti, visibili ed individuabili come monadi proprio per la concomitante mancanza di contiguità tra parti, per le compenetrazioni di funzioni e comunità senza prossimità, per la mancanza di un limite tra urbanizzato e non urbanizzato. Mentre l’estensione complessiva della città è aperta e idealmente illimitata, senza frontiera, le sue parti costitutive sono separate e spesso appaiono chiuse come tante fortezze. Queste condizioni reclamano un lavoro molto intenso di rilievo e di descrizione: una lettura “a grana fine” consente di comprendere le potenzialità latenti dei luoghi e delle porzioni di territorio che possono essere oggetto di una rigenerazione sistematica, che abbia senso entro “visioni di insieme”. Visioni d’insieme che, proprio partendo dal vuoto tra le parti possono ricostruire il senso – spesso negato – di interi settori urbani attraversati da fenomeni di obsolescenza e di frammentazione: provando a ricostruire tracce di relazioni fatte di “trame”, “reti” e “sistemi”.

2. Il progetto dello spazio pubblico aperto: dal disegno della forma al disegno delle relazioni

La città contemporanea propone una grande quantità di spazi aperti, spesso indipendenti e autonomi dalle parti insediate. Si tratta di un rapporto tra pieni e vuoti che ribalta le quantità e le relazioni tradizionalmente presenti nella città storica: i fenomeni urbani della contemporaneità configurano una trasformazione di senso dello spazio territoriale che risulta efficacemente rappresentata dal termine reverse city2. Si tratta di una città che tende a confondersi con la campagna, dove sfumano i confini tra le parti, si ibridano esterni ed interni, rurale ed urbano, privato e pubblico; una città che compenetra, sovrappone, ma non integra; costituita da parti auto-referenziali, recinti accostati secondo logiche informali e casuali con continue sovrapposizioni e sfilacciamenti3. Per affrontare la reverse city occorre riconoscere come le figure tradizionali della città – la continuità,

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l’uniformità, la regolarità, la gerarchia – siano da sostituire con approcci che partano dal vuoto senza forma, dalla nothingness e dall’earthwork. Si tratta ancora di spostare il fuoco degli sguardi dalla conformazione degli oggetti al piano di relazione (materiale e concettuale) tra gli stessi.

Questo processo porta al centro del dibattito lo spazio aperto, accomunando fenomeni anche molto diversi tra loro: i sobborghi pianificati a bassa densità, le aree della dispersione insediativa e della diffusione semi-spontanea, i quartieri pubblici fatti di barre e torri liberamente disposte, i cluster produttivi, aree

Figura  1.  Interpretazione  dello  stato  dei  luoghi:  spazio  pubblico  e  paesaggi  urbani  (area  occidentale  di  Napoli)  

 

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Figura  2.  Concept  e  programma  degli  interventi  (area  occidentale  di  Napoli)  

 

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specializzate dei servizi o del commercio.

3. Due esperienze recenti di Laboratorio

L’oggetto di studio coincide con alcune parti della città di Napoli, emblematiche per il carattere frammentario dello spazio aperto di relazione e per la topologia discontinua ed informale dell’insediamento: il quartiere di Ponticelli, nell’area orientale, e la zona occidentale di Bagnoli-Fuorigrotta, con il previsto parco post-industriale di Bagnoli e le parti urbane che intorno ad esso gravitano.

A Ponticelli (Napoli Est), intorno al centro storico troviamo insediamenti residenziali di edilizia pubblica anche recente, un grande parco recintato e notevoli estensioni di campagna abbandonata, solcata da grandi infrastrutture per la mobilità su viadotto.

Più complessa è la conformazione dell’area occidentale dove frammenti di “discorsi urbanistici” differenti si accostano ed intrecciano con dismissioni industriali e scorci dello spettacolare paesaggio flegreo. Centrali in questa sequenza sono le grandi narrazioni, per lo più inaccessibili, della Mostra d’Oltremare, dell’ex Collegio Ciano e dei quartieri di edilizia residenziale pubblica d’inizio novecento e dell’INA Casa. Qui gli spazi di separazione tra le parti sono più minuti e spesso sfocati, più massiccia è la presenza della città speculativa della seconda metà del ‘900, con la sua alta densità abitativa e la scarsissima qualità e integrazione dello spazio aperto pubblico, spesso coincidente con una rue corridor stretta tra palazzine pluriplano: caratteri comuni a tanti esempi urbani nella condizione italiana.

I laboratori si concentrano su quest’insieme variegato di spazi aperti, sui “vuoti abbandonati” e sugli “spazi serventi” che caratterizzano questi luoghi, provando a ribaltarne senso e ruolo all’interno del sistema di riferimento: l’ipotesi che emerge dai lavori svolti è che il “luogo privilegiato dello spazio pubblico” coincida proprio con gli interstizi urbani, con la distanza, spesso trascurata e dimenticata, che esiste tra le parti. Ripartire da questi spazi, da alcune semplici mosse di riappropriazione progettuale di questi luoghi, ci sembra il primo passo necessario per modificare punto di vista, per rifondare un approccio progettuale ancora fortemente lacerato tra pratiche regolative astratte ed un’attenzione all’oggetto architettonico eccessivamente incentrata sulla sua forma scultorea.

Nell’area Est, a Ponticelli, il tema è quello della relazione tra residenza (preesistente e da prevedere ex novo), servizi (secondo il Piano regolatore da inserire in una fascia di mediazione tra centro storico e aree di

nuovo impianto), persistenze ambientali di tipo storico (i tessuti degli antichi casali) e di tipo naturalistico (il paesaggio vesuviano, la rete dei canali che drenano la campagna e convogliano le acque del Monte Somma). Tratto comune tra le diverse ipotesi scaturite dal laboratorio è quello dell’integrazione funzionale: in modi diversi, sinteticamente nel seguito illustrati, ma con l’obiettivo comune di mescolare e ricucire i materiali del progetto. Il primo gruppo di progetti lavora sull’accentuazione del carattere di vuoto tra le parti e gli oggetti, a scomporre la “spina attrezzata” del Prg in una moltitudine di parterre e viali che, forzando le preesistenze storiche ed alcune esigenze di messa in relazione (tra il centro antico ed il parco esistente, ad esempio), configurano un vero e proprio “campo”. Un campo che, come a Pisa, è un vuoto denso di significato, uno spazio corrugato, inciso, a tratti arborato, su cui, come volumi stereometrici, si dispongono le nuove e le vecchie case (liberate dai recinti, sostituiti da siepi e salti di quota), le attrezzature ed i servizi che da “standard” diventano i capisaldi visuali e funzionali del nuovo sistema di relazioni. Il secondo tentativo è quello di creare un “tessuto urbano”, a tratti denso, frammisto ad aree naturalistiche continue. Questo tentativo accentua la separazione locale tra città e paesaggio mettendo in tensione i due termini. Si struttura sulla dualità compositiva tra “griglia” (che regola la residenza, integrata dai servizi locali) e anamorfosi (informale) che invece segna le parti di territorio “naturali” in cui, secondo la lezione dei campus americani di Olmsted, si dispongono le attrezzature pubbliche di scala maggiore ed interesse sovra-locale. Il terzo tentativo è quello di articolare “in verticale” la mescolanza funzionale e urbano-naturale: ne deriva un masterplan in cui un movimento di scavo-riporto prova ad integrare in un suolo verde attrezzato ciò che esiste e ciò che il Prg prevede per Ponticelli: più livelli di infrastrutture (interrate, a quota del parco verde, in soprelevato) collega come una ragnatela tridimensionale i piani collettivi delle strutture edilizie.

Nell’area Ovest, a Fuorigrotta-Bagnoli, il laboratorio parte dalla riflessione su due casi: la vicenda del Parco di Bagnoli ed il Forum Universale delle Culture che Napoli ospiterà nel 2013 nella Mostra d’Oltremare. L’obiettivo, coniugato in modo diverso dai progetti, è quello di spostare l’attenzione dal Parco di Bagnoli alle relazioni che questo può assumere con il contesto, con i brani di città al contorno, con il recinto della Mostra, con altre parti, oggi segregate, ma che potranno assumere un ruolo nell’immediato futuro.

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Figura  3.  Masterplan  e  simulazione  dei  nuovi  spazi  pubblici  aperti  (area  occidentale  di  Napoli)  

 

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L’attenzione è sulla miriade di vuoti dallo statuto impreciso (tipo “campagna urbana”) o banale (tipo: “piattaforma di parcheggio”, “viale sovradimensionato”) che lo contornano e che possono diventare, con il progetto, la spina dorsale dell’intero settore urbano. Si torna su quella dimensione intermedia del progetto, scomparsa dall’attuale dibattito culturale e politico cittadino, che sola può ricondurre il caos attuale ad una figura a “mosaico”4, sottraendo l’attuazione del Prg al casuale e frammentario accostamento di gesti individuali (“patchwork”). Anche qui si procede operativamente assumendo modelli di riferimento assunti dal bagaglio di tecniche dell’urbanistica moderna, spingendo gli studenti al consapevole e coerente utilizzo di una o più modalità compositive da quel bagaglio derivate. I progetti per Napoli Ovest possono essere descritti mediante la giustapposizione di due famiglie morfologiche di progetto: il “tunnel” e l’”equilibrio dinamico”. Nel primo modo, del “tunnel”5, la ricomposizione urbana e la messa a sistema dello spazio pubblico avviene mediante il completamento dei viali, la strutturazione dei punti focali, il lavoro sulla costruzione di una sezione complessa per i nuovi spazi aperti urbani: un viale troppo largo ed incompleto diventa così un mall o una rambla, che confluisce in una piazza, da cui si traguardano le pendici collinari e si intuisce la strutturazione di un insieme di percorsi nel paesaggio. Nel secondo modo, dell’”equilibrio dinamico”6 o della “closure”7 si assume la “lezione” della Mostra d’Oltremare e la si estende alla composizione dell’intero settore urbano: le singole parti sono così ricondotte ad una forma aperta in cui il parterre, lo slargo e il sentiero dissolvono ciò che resta dei frammenti di viali preesistenti. Si configura così uno spazio che, assumendo criticamente la lezione di

Bruno Zevi8, abbandona coscientemente qualunque formalismo, alla ricerca di un legame di senso tra esiti “spontanei” della città contemporanea e possibile, attuale, declinazione del fare progetto dello spazio pubblico.

4. Conclusioni. Per un’urbanistica dello spazio aperto

Lo spazio aperto pubblico è il territorio dell’urbanistica contemporanea: un blocco tematico che ha radici profonde nella storia della modernità ma che ha contato, negli ultimi cinquanta anni, sempre meno nei percorsi formativi dell’urbanistica, e soprattutto ha avuto un peso progressivamente marginale nelle pratiche, le tecniche e le competenze dell’urbanista. Tornare a occuparsi di urban design, in relazione alla forma e alla natura degli spazi, alla loro capacità di trasmette benessere a chi li usa, alla loro valenza urbana e paesaggistica, vuol dire dare risposta ad una domanda di spazio pubblico crescente nella nostra realtà urbana, a cui si aggiunge una nuova, altrettanto crescente, domanda di spazio verde, ecologico, e un’esigenza sempre più forte di creare relazioni di integrazione tra i materiali della città. Un’urbanistica rivolta al futuro dev’essere sempre più focalizzata sulla forma dello spazio aperto pubblico per il ruolo preminente che esso riveste nel disegno del territorio. Uno spazio alla cui cura l’urbanistica, le sue tecniche, le sue pratiche, i percorsi formativi legati alla costruzione delle sue competenze, non possono più sottrarsi.

Note                                                                                                                          1 Si dà conto delle esperienze del Laboratorio di Progettazione Urbanistica tenuto dal prof. Michelangelo Russo, con: arch. Enrico Formato, arch. Giuseppe Guida, arch. Alessandro Gebbia. Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli, Corso di Laurea Magistrale in Architettura 2 Come scrivono Rowe e Koetter: “la città si è trasformata da solido continuo in vuoto continuo”. ROWE,, KOETTER, 1978, Collage city, trad. it. Edita da Il Saggiatore, Milano, 1981; la citazione è a p. 128. Cfr. anche: Viganò, P., 1999, La città elementare, Skira, Milano 3 “La città e il territorio sono divenuti immense collezioni di oggetti paratatticamente accostati e muti. Ciò che è simile non è prossimo. Tra gli oggetti ed i luoghi ognuno si muove secondo i propri itinerari; essi lo conducono da specifiche origini ad altrettanto specifiche e personali destinazioni. […] Lo spazio che sta “tra le cose”, tra oggetti e soggetti tra loro prossimi […] è attraversato da estranei, non è luogo di incontro; è divenuto “vuoto” perché privo di un ruolo riconoscibile; a quello spazio si chiede solo di essere permeabile, di lasciarsi percorrere frapponendo il minimo di resistenza”. SECCHI, B., 1993, “Un’urbanistica di spazi aperti”, in Casabella n. 597-598. 4 Cfr. RUSSO, M., 2011, Città mosaico. Il progetto contemporaneo oltre la settorialità, Clean, Napoli

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                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   5 La definizione è ripresa da Corboz: “Ciò che dà forma a queste esperienze di regolarizzazione e continuità è il tema del tunnel che, distanza minima tra due punti, variazione sul riferimento figurale della crypta neapolitana, ritorna sia nella figurazione pittorica che in quella architettonica ed urbanistica”. CORBOZ, A. 1998, Ordine sparso, (raccolta di saggi a cura di Paola Viganò), FrancoAngeli, Milano 6 Cfr. MONDRIAN, P., Scritti scelti, Linea d’ombra libri, Treviso, 2006 7 “la closure viene creata da qualche irregolarità o asimmetria di tracciato per cui il cammino dalla partenza alla meta non è così automatico e inevitabile per l’occhio come in un piano costruito su di un reticolo. Questa irregolarità divide il percorso in una serie di riconoscibili elementi visuali, ciascuno unito all’altro in una maniera effettiva e qualche volta sorprendente, in modo che il percorso sia reso interessante”; CULLEN, G., 1961, Townscape, trad. it. Il paesaggio urbano, Calderoni, Bologna, 1961, p. 103 8 Cfr. ZEVI, B., 1973, Il linguaggio moderno del'architettura, Einaudi, Torino

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Il Seminario interdisciplinare di Antropologia urbana e Urbanistica. Una sperimentazione per l’analisi dello spazio pubblico Il Seminario interdisciplinare di Antropologia urbana e Urbanistica nasce con l’obiettivo di costruire un percorso di formazione alla pratica dell’interdisciplinarietà tale da consentire a portatori di competenze disciplinari diverse di collaborare alla riqualificazione del territorio producendo conoscenza condivisa. Il Seminario, ideato e coordinato da Costanza Caniglia Rispoli e Amalia Signorelli, si è svolto per circa dieci anni presso l’Università Federico II di Napoli coinvolgendo docenti, dottori di ricerca e studenti provenienti dai corsi di Urbanistica delle Facoltà di Architettura e Ingegneria e dai corsi di Antropologia urbana della Facoltà di Sociologia. Il Seminario è stato strutturato nella forma di un laboratorio sperimentale al quale ciascuno ha partecipato offrendo un contributo a partire dal proprio punto di vista e dalla propria competenza specifica. L’interazione si è fondata sull’approfondimento di due argomenti-chiave nei due campi disciplinari: l’ambiente materiale (naturale e umanizzato) per l’urbanistica e le popolazioni che lo abitano per l’antropologia. L’interdisciplinarietà, quindi, è stata intesa come modalità di relazione tra competenze diverse che a partire dalla propria specificità disciplinare si interrogano reciprocamente per la costruzione di una conoscenza del territorio che integra e tiene insieme diversi punti di vista. Il Seminario è stato articolato in tre sezioni. Una prima di carattere teorico, volta a fornire agli studenti alcune conoscenze peculiari fondamentali dell’antropologia urbana e dell’urbanistica. Una seconda, di carattere metodologico, tesa ad illustrare gli strumenti utili per l’analisi in campo sociologico e tecnico-urbanistico. Una terza destinata all’attività laboratoriale finalizzata all’analisi, in chiave interdisciplinare, del quartiere di Bagnoli situato nell’area occidentale della città di Napoli. Un collegio interdisciplinare di docenti ha accompagnato l’intero percorso formativo con una presenza continua e contemporanea in aula. L’attività laboratoriale è stata svolta dividendo gli studenti in gruppi misti composti, ciascuno, da antropologi, urbanisti ed ingegneri. I gruppi sono stati guidati nella sperimentazione da tutors anch’essi portatori di competenze differenti. Il laboratorio ha previsto discese su campo/sopralluoghi, correzioni e discussioni collettive con i tutors, verifiche da parte dei docenti. Il Seminario si è concluso con una presentazione/discussione finale. Il prodotto alla base di tale confronto è consistito in una relazione ed alcuni elaborati grafici. La relazione ha messo insieme gli esiti parziali del diario di campo prodotto dagli antropologi e l’analisi del territorio così come osservato dai tecnici. Gli elaborati grafici hanno restituito una lettura tecnica

del territorio, sviluppata attraverso l’analisi della struttura viaria e della mobilità, della tipologia, epoca di costruzione e stato di manutenzione degli edifici, delle destinazioni d’uso prevalenti, degli elementi costitutivi dell’arredo urbano. Dall’interazione tra i contenuti della relazione e degli elaborati grafici, si è giunti ad alcune ulteriori rappresentazioni tematiche che hanno restituito una lettura percettiva e d’uso dei luoghi a partire dal diverso punto di vista di ciascuna disciplina. Tale lettura è risultata variabile, anche in relazione ad uno stesso oggetto di osservazione, in funzione dell’iterazione tra le diverse professionalità presenti all’interno di ciascun gruppo di lavoro. Identità disciplinare e comunicazione metodologica Tra i risultati della rielaborazione a posteriori dell’esperienza interdisciplinare è emersa la varietà di modi diversi di raccontare uno stesso “brano” di territorio. I modi diversi di guardare, interpretare e rappresentare il contesto osservato hanno acquisito il valore aggiunto di ricerca “di nuove parole/figure” per rendere il proprio linguaggio disciplinare comunicabile. Ciò ha determinato un processo di perdita momentanea del proprio baricentro disciplinare a vantaggio di un punto di vista che potesse essere comunicato e condiviso. Con l’intento di offrire una chiave di lettura alle interpretazioni del territorio derivate dall’esperienza rispetto al nodo di interazione metodologica descritto, abbiamo costruito una tabella riepilogativa in cui sono messe a confronto le caratteristiche dei diversi approcci disciplinari.

La tabella si compone di due colonne in cui sono indicate le figure professionali a confronto, nello specifico sotto la definizione di tecnico si sono raccolti i tratti comuni dell’approccio di urbanisti, ingegneri e architetti, al fine di rendere più immediato il confronto con la figura dell’antropologo. Nelle righe compaiono le caratteristiche dell’approccio analitico che noi abbiamo definito “figure dell’approccio”, quali: strumenti, modalità dell’osservazione, oggetto dello sguardo, dimensione dell’ambito di osservazione, tempo di osservazione, finalità dell’osservazione. L’incrocio delle righe “ figure dell’analisi” con le colonne relative alle figure professionali, mette a confronto alcune delle differenze tra i due tipi di

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approccio che hanno caratterizzato l’interazione prodotta nel corso dell’esperienza del seminario. La differenza tra gli strumenti utilizzati ha portato entrambe le figure professionali e in modo significativo i tecnici, abituati a comunicare con i disegni, a spiegare il proprio “modo di fare”, generando un momento di riflessione a posteriori sul metodo utilizzato che ha prodotto sia un arricchimento della comunicazione tra le discipline che una riflessione critica sul proprio operato. Stesso tipo di approfondimento comunicativo è avvenuto rispetto al linguaggio a partire dai diversi significati che stesse parole rivestono nei diversi campi professionali. Le modalità di osservazione cosi come il tempo dell’osservazione hanno portato alla luce a entrambe le categorie professionali aspetti che l’approccio caratteristico della propria disciplina, normalmente rischia di tenere fuori. Se l’osservazione dell’antropologo condotta da un punto di osservazione fisso in diversi momenti della giornata, in un tempo di osservazione esteso, mette in luce caratteristiche della relazione tra luoghi e soggetti a partire dall’identità sociale e culturale di questi ultimi, l’osservazione del tecnico interessando il territorio nella sua integrità e interpretandolo nelle relative variazioni di scala, inquadra la lettura dei soggetti in un ambito territoriale più vasto. Stesso tipo di interazione si evince nelle differenze tra l’oggetto dello sguardo. Nel corso dell’indagine sul campo uno studente di urbanistica faceva notare come nel guardare al contesto per cercare di individuare caratteristiche significative della zona oggetto di studio, il suo sguardo era rivolto alla larghezza delle strade, agli edifici, all’organizzazione spaziale, alle destinazioni d’uso che caratterizzavano la zona. Contemporaneamente una studentessa di antropologia gli faceva notare una signora con la busta della spesa indicandola come segnale utile alla lettura della vita di quel territorio. Le differenze della dimensione dell’ambito di osservazione oltre a fornire immagini e risposte diverse del contesto osservato hanno determinato problematicità di ordine metodologico. All’ora di accordarsi sulla dimensione degli ambiti di studio, la delimitazione proposta dagli urbanisti era ritenuta troppo estesa dagli antropologi che a loro volta indicavano un ambito di osservazione troppo ridotto per un urbanista. Molto significativa rispetto all’ampliamento del punto di vista disciplinare è stata la comunicazione metodologica rispetto alle finalità dell’osservazione. Lo sguardo del tecnico sul territorio conteneva in sé dei presupposti progettuali tali da condurlo automaticamente a dedicare minore attenzione ad elementi del territorio non ritenuti significativi in tal senso. La relazione con gli antropologi ha in alcuni casi contribuito al recupero di alcuni significati e quindi alla definizione di nuovi possibili scenari progettuali.

Alcuni esiti del confronto tra discipline nell’analisi dello spazio pubblico L’analisi sintetica degli estratti delle elaborazioni grafiche redatte dagli studenti consente di mettere a fuoco alcune delle questioni che emergono dal confronto tra le due discipline e di riflettere sulle possibili modalità di rappresentazione delle stesse. La tavola riportata in figura1 prova ad integrare una lettura degli elementi dell’arredo urbano con l’analisi delle modalità d’uso dello spazio. Questa relazione è osservata a partire dalla caratteristiche costruttive e dal grado di manutenzione degli elementi che ne determinano un maggiore o minore utilizzo da parte degli utenti. La stessa fa comprendere come il viale Campi Flegrei, situato nel cuore del quartiere di Bagnoli, che planimetricamente sembra configurarsi come un ambito uniforme, in realtà, a causa della differenza di densità delle funzioni presenti e della conseguente intensità di utilizzo si percepisce come caratterizzato da due zone tra loro estremamente diverse, collocate rispettivamente in prossimità della stazione della linea ferroviaria della Cumana e della Metropolitana.

Figura 1

Nel passaggio di scala dall’ambito generale ad alcuni focus di osservazione di aree ritenute più significative dagli studenti emergono altri spunti di riflessione. In questo caso (figura 2) lo spazio è osservato rispetto all’uso che ne viene fatto che, sulla dimensione circoscritta, restituisce anche relazioni impreviste che si verificano tra gli elementi dello stesso e gli usi che ne vengono fatti a partire dalle loro peculiarità.

Figura 2

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In alcuni casi l’interpretazione del territorio si presenta come una sorta di “mappa di orientamento” in cui si rappresentano elementi significativi quali: margini, riferimenti, nodi e percorsi che emergono da una lettura del territorio che parte dal suo “attraversamento” e quindi dalla necessità di situarsi e definire l’ambito di osservazione. La rappresentazione che si sceglie di utilizzare (figura3) è significativa di questo tipo di approccio, basto su un osservazione “da dentro” che restituisce immagini degli elementi osservati, piuttosto che una visione dall’alto a scala più amplia propria di una restituzione planimetrica.

Figura 3

Ancora l’identità di un luogo viene restituita non solamente attraverso la sua configurazione planimetrica, ma anche attraverso una valutazione degli elementi mobili e immobili costitutivi dello spazio e del ruolo che effettivamente rivestono a partire dall’uso che ne viene fatto e dalla percezione degli utenti. In particolare, da un confronto tra le due planimetrie in figura 4, si evince come anche un albero, normalmente considerato un elemento positivo di uno spazio pubblico, può trasformarsi in una barriera visiva qualora non adeguatamente relazionato al progetto dello spazio. Altrettanto si può dire per l’illuminazione: se nella prima planimetria sembrerebbe che la piazza sia adeguatamente illuminata, nella seconda si evince come in realtà i lampioni, oltre ad essere alti, quindi schermati dalle chiome degli alberi, sono anche rivolti verso la carreggiata lasciando lo spazio interno assolutamente sprovvisto di illuminazione. Alcune elaborazioni grafiche (figura 5), infine, consentono di verificare in modo evidente il tentativo di integrare linguaggi descrittivi dell’analisi provenienti dalle diverse discipline in un’unica restituzione grafica.

Figura 4

Figura 5

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Palermo: laboratori di cittadinanza attiva per la riconquista dello spazio pubblico Francesco Lo Piccolo Facoltà di Architettura, Università degli studi di Palermo Il progetto scientifico e didattico, di cui qui di seguito si espongono i risultati1 ed alcune conseguenti riflessioni, è nato dall’intento di predisporre un percorso di formazione e crescita necessariamente non convenzionale, per preparare culturalmente e tecnicamente le generazioni future di pianificatori (e cittadini), chiamati a svolgere un compito che si delinea al tempo stesso di grande impegno e responsabilità: raggiungere gli obbiettivi di un effettivo miglioramento delle nostre condizioni di vita e di reale riqualificazione, potenziamento e integrazione sociale e umana, con una particolare attenzione ai principi di equità e giustizia, in un’ottica di sostenibilità sociale delle politiche urbane e delle trasformazioni, volte alla ricostruzione dello spazio pubblico come arena per l’esercizio di cittadinanza attiva (Arendt, 1958). L’obiettivo dell’equità sociale, della città come luogo della convivenza e dell’integrazione, della costruzione dello spazio urbano pubblico come luogo e pratica di cittadinanza attiva rappresentano, di conseguenza, la finalità tematica di questa esplorazione. Per raggiungere tale obiettivo, la nostra attenzione – ancorata ad un percorso di ricerca rivolto alla indagine del ruolo delle minoranze, etniche e sociali, nella costruzione di pratiche urbane condivise – si è rivolta alla natura “civica”, nell’accezione geddesiana del termine, delle pratiche di pianificazione, che non possono in tal senso che configurarsi come pratiche comunitarie, pluralisticamente democratiche nel loro portare avanti il principio di cittadinanza attiva e consapevole. Negli anni AA. AA. 2004/05 e 2005/06, anche alla luce delle mutate esigenze e condizioni delle nostre città, nella loro duplice valenza di configurazione spaziale e di comunità politica, questo progetto di formazione si è misurato con i temi del pluralismo, della molteplicità di soggetti ed esigenze, del multiculturalismo e 1 Il Laboratorio di Pianificazione urbana e territoriale rappresenta l’attività conclusiva del percorso formativo del terzo anno del Corso di Laurea triennale in Scienze della Pianificazione Territoriale, Urbanistica, Paesaggistica e Ambientale (SPTUPA) della Facoltà di Architettura dell’Università degli studi di Palermo.

della multietnia, delle domande inespresse di chi “non ha voce”, dei loro bisogni e desideri. Pertanto, i contesti indagati sono stati alcuni ambiti del centro storico di Palermo fortemente caratterizzati da nuove composizioni etniche e sociali dei residenti, all’interno dei quali si sono sperimentate modalità di indagine e di elaborazione progettuale dedite all’ascolto e all’agire comunicativo (Lo Piccolo et al., 2005). Ciò è avvenuto in occasione di alcune iniziative, istituzionali e non, che hanno coinvolto – in alcune fasi iniziali del loro percorso – docenti e ricercatori della Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo. In anni immediatamente precedenti, l’amministrazione comunale di Palermo ha avviato, nel 2001, con il cofinanziamento del Ministero dell’Ambiente, il progetto di Agenda 21 Locale (Orlando, 2006; Lo Piccolo e Pinzello, 2008), finalizzato all’attivazione di nuovi “processi partecipativi” per lo sviluppo sostenibile della città e del territorio, che – secondo i principi ispiratori di AG21L – dovrebbero rivolgere particolare attenzione alle fasce sociali deboli, in un’ottica di equità sociale ed inclusione (Fregolent e Indovina, 2002). Al di là degli esiti effettivi del processo (modesti, se non nulli), e delle forme istituzionali di partecipazione attivata, che pure mostrano non pochi punti critici (Lo Piccolo, 2008; Lo Piccolo, 2009), tale occasione ha dato luogo ad alcune iniziative intraprese in ambito universitario, che offrono alcuni spunti di riflessione sulla potenziale natura civica di alcune attività didattiche, anche (o forse soprattutto) in contesti istituzionali poco inclini a favorire pratiche inclusive (Brand e Gaffikin, 2007) e a sviluppare forme di cittadinanza attiva all’interno delle pratiche di pianificazione. Infatti, in parallelo al processo istituzionale di Agenda 21 Locale a Palermo, si colloca l’attività dei Laboratori di Pianificazione urbana e territoriale (a.a. 2005/2006), all’interno dei quali sono stati attivati forum civici e laboratori partecipati con le scuole elementari e medie, site nei mandamenti Tribunali e Castellammare del centro storico (Lo Piccolo e Pinzello, 2008), visti come occasione per gli studenti universitari per apprendere, sperimentare ed acquisire nuove abilità, per contribuire alla soluzione dei problemi e pervenire ad una corretta progettazione. Le ragioni della scelta dell’ambito di intervento sono ascrivibili, oltre che ad uno specifico interesse scientifico e didattico (peraltro in linea di continuità metodologica con le attività didattiche svolte

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negli anni precedenti2), anche ad alcune richieste di “base” (scuole, associazioni) per un impegno sul campo, che si trova a fronteggiare un consolidato disagio sociale e abitativo. In coerenza con tali finalità e scelte, negli AA. AA. 2006/07 e 2007/08, anche a seguito di alcune esperienze di ricerca e di diretto coinvolgimento da parte di una rete di associazioni e soggetti locali3, l’ambito di lavoro del Laboratorio si è concentrato su una realtà urbana periferica connotata al tempo stesso da un cronico stato di degrado e da una complessa, e sia pur controversa, realtà sociale: lo ZEN. Lo ZEN rappresenta una delle realtà più difficili e marginali della condizione urbana a Palermo. Mentre le politiche di edilizia pubblica – a Palermo così come in molte altre città italiane – segnano oggi una preoccupante battuta di arresto, ormai da diversi anni conclamata (Bobbio R., 2004; Perin Cavallo, 2004), fenomeni di occupazione abusiva delle abitazioni allo ZEN 2 acquistano una dimensione rilevante e si intrecciano ad un quadro socio-demografico caratterizzato da una struttura della popolazione prevalentemente in età da lavoro con alti tassi di disoccupazione, inusuali indici di analfabetismo e bassi livelli di istruzione superiore, se confrontati con il resto del territorio comunale. Al tempo stesso gli alti livelli di dispersione scolastica, che interessano le fasce più giovani ad alto rischio sociale (Mattina, 2007), alimentano una domanda di servizi di aiuto alla persona e di formazione professionale. Il deficit di servizi e di luoghi pubblici di aggregazione, così come le precarie condizioni igieniche sanitarie e la mancanza di

2 A riguardo si rimanda alle esperienze descritte in Pinzello e Quartarone (2005) ed in Lo Piccolo et al. (2005). 3 Nel quartiere di edilizia pubblica ZEN, a fronte della mancanza di servizi presenti e di una implicita domanda che emerge dalla conoscenza del contesto locale e dall’ascolto degli abitanti, associazioni e istituzioni locali, consolidatesi nel 2005 in una Rete Interistituzionale, hanno attivato progetti di formazione dai quali germinano alcune iniziative socio culturali. Obbiettivo prioritario della Rete Interistituzionale di primo livello San Filippo Neri è la promozione del benessere e la prevenzione del disagio adolescenziale e giovanile, senza tuttavia trascurare ambiti di azione più ampi, che inevitabilmente coinvolgono le politiche pubbliche ed urbanistiche (Bonafede e Lo Piccolo, 2007).

infrastrutture primarie, minano il labile sentimento di inclusione nella civitas che vivono gli abitanti (Bonafede e Lo Piccolo, 2007). La dimensione vissuta allo ZEN acquista caratteri singolari e contradditori. Questi da una parte si manifestano attraverso una cultura della marginalità connotante il meridione, determinata dalla sovrapposizione di modelli propri di una “società moderna” a paradigmi sociali tradizionali (D’Agostino, 1984), e dall’altra rivelano una capacità endogena di riflessione ancora embrionale, che si oppone con pensiero “divergente” a modelli di sviluppo omologanti. L’interferenza mafiosa nella gestione fisica e sociale del quartiere, e l’accettazione implicita dei codici di devianza malavitosa, costituiscono infatti motivo di riflessione non solo per quegli operatori sociali che cercano di sperimentare metodi innovativi, andando incontro alle esigenze della popolazione più a rischio di esclusione sociale, ma anche per quegli stessi abitanti che conducono la loro personale battaglia, sia fuori che dentro il nucleo familiare, per recuperare ed alimentare una dignità stigmatizzata dai ricorrenti stereotipi culturali, che contrassegnano le loro vite semplicemente come “devianti”. Il contesto descritto richiede, anche in un’attività che rimane circoscritta ad una “simulazione didattica”, capacità di “mettersi in gioco” e “misurarsi” con modelli e stili di vita affatto differenti, e per certi versi non condivisibili in alcuni presupposti culturali o manifestazioni. La fase d’esplorazione e quella di individuazione delle azioni sono pertanto state condotte coinvolgendo le comunità locali del quartiere, con particolare riferimento alle pratiche dal basso, alle capacità di ascolto e mediazione, per l’utilizzo di expertise (tecniche e non) condivise nella formazione di processi di piano (Lo Piccolo et al., 2008). In relazione alla presenza di gruppi sociali “deboli” e “minoritari”, è stato pertanto adottato un approccio “inevitabilmente” partecipativo, in un’ottica di equità sociale e scelte che siano espressione di una acquisita cittadinanza attiva. A partire dalla convinzione che la pianificazione, intesa come “sistema concreto di interazione multipla”, non sia soltanto una necessaria opzione democratica ma anche un requisito tecnico del governo del territorio, i Laboratori hanno promosso un percorso partecipato di conoscenza e di azione indirizzato a fornire gli strumenti per “leggere” e recuperare, in chiave sistemica e sostenibile, il patrimonio esistente e quello territoriale – ambientale, in contesti urbani complessi quali

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sono quello del centro storico di Palermo e dello ZEN. A tal fine è stata proposta una metodologia analitica e interpretativa (analisi tematiche e interdisciplinari), che ponesse in luce le interrelazioni tra le varie componenti (fisiche, antropiche, sociali) e tra i vari approcci (interdisciplinarietà), con l’obiettivo di sperimentare i principi, i contenuti e le pratiche di una Agenda 21 Locale. Il Laboratorio si è pertanto proposto di fornire strumenti per “leggere” con sguardi “plurali” la realtà di questi contesti, cercando di sfuggire a consolidate immagini, categorie e stereotipi. Compito non facile, forse non integralmente riuscito, ma che ha suscitato in tutti i soggetti coinvolti (docenti, studenti, insegnanti e alunni delle scuole, associazioni) grande passione, attenzione e disponibilità a “lavorare insieme”, assumendo l’ipotesi di fondo della attività di pianificazione come occasione di sintesi fra conoscenze specialistiche e processi collettivi di costruzione del sapere. Promuovere il processo di partecipazione significa anche assunzione di responsabilità, attivazione di nuove tecniche di dialogo e di scelta, coinvolgendo nel processo decisionale gli utenti del territorio. È durante il processo di partecipazione che si sollecita nei cittadini il diritto-dovere di cittadinanza senza distinzione alcuna. L’esperienza di partecipazione aiuta a crescere, a migliorare la capacità di relazione ed a valorizzare la personalità. Insegna, inoltre, a costruire una coscienza collettiva ed a manifestare la propria volontà in un continuo confronto; discutere le scelte in una logica di vantaggio collettivo. In riferimento alle suddette finalità generali, gli obiettivi didattici specifici sono stati indirizzati all’acquisizione delle metodologie necessarie per le analisi urbane finalizzate alla elaborazione di strumenti attuativi (con particolare riferimento ai temi del recupero urbano in ambito pubblico), all'individuazione e definizione delle modalità di costruzione di pratiche partecipative inclusive in contesti sociali complessi, al potenziamento della capacità dialogica di ascolto e mediazione fra istanze di gruppi socialmente marginali. La fase di esplorazione e quella di individuazione delle azioni sono state condotte, quindi, coinvolgendo le comunità locali, le associazioni che operano sul territorio, nonché gli enti locali, con particolare riferimento alle pratiche dal basso, alle capacità di ascolto e mediazione fra emergenti esigenze di gruppi o singoli individui, per l’utilizzo di expertise (tecniche e non) condivise nella formazione di processi di piano. Il processo di conoscenza e di definizione delle scelte è stato condotto privilegiando una chiave di lettura specifica,

relativa al tema delle pratiche partecipative finalizzate all’inclusione sociale. Tale ottica, basata su un’idea di città come luogo della socializzazione e della pluralità, è mirata a migliorare la “qualità” urbana complessiva, la coerenza degli interventi e, nel contempo, a “rivedere” criticamente le scelte della pianificazione tradizionale. In relazione alla presenza di gruppi sociali “deboli” e “minoritari”, come quelli dei ceti marginali, degli immigrati e dei bambini, il tema della “partecipazione” è stato affrontato in un’ottica di equità sociale e scelte condivise. Particolare attenzione è stata attribuita, sia nella fase dell’analisi sia in quella della definizione delle azioni, alla individuazione delle domande sociali (espresse e non), alla restituzione dei dati e alla comunicazione degli stessi in forme comunicative e condivisibili. Parte centrale dei Laboratori è stata l’attivazione di Workshop di progettazione partecipata che hanno coinvolto direttamente la comunità locale nella convinzione che: - gli abitanti non sono più soggetti passivi,

sui quali “calare” un progetto sulla scorta di dati asettici e neutri; essi diventano soggetti attivi delle scelte inerenti le azioni pubbliche e la progettazione, in quanto portatori di una conoscenza specifica – dei luoghi e dei problemi – che produce un sostanziale salto di qualità nelle pratiche di trasformazione urbana;

- i bambini e i ragazzi hanno il diritto di essere coinvolti nelle scelte che li riguardano, e sono soggetti capaci di esprimere con competenza e responsabilità valutazioni inerenti le trasformazioni degli spazi in cui vivono;

- l’ascolto critico ed il continuo scambio tra i diversi soggetti del processo di pianificazione partecipata delineano i reali bisogni, fanno emergere quelli taciuti, esplicitano i desideri inespressi;

- il processo di pianificazione partecipata contribuisce a costruire la necessaria identificazione degli abitanti con il proprio ambiente di vita assicurandone nel tempo la cura e la manutenzione.

Le attività dei workshop si sono articolate sostanzialmente in due fasi distinte: fase propedeutica e fase operativa. Durante la fase propedeutica sono state attivate una serie di incontri nei luoghi delle associazioni e nell’Università per assicurare un esito positivo del programma da svolgere. Durante la fase operativa si sono messe a frutto le iniziative e gli incontri precedenti per il buon esito delle attività. Pur lasciando gli studenti nella totale autonomia per quanto riguarda lo sviluppo di

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tecniche di partecipazione ed interazione, si è ritenuto di aderire in linea generale e per quanto riguardava gli incontri collettivi a tecniche di partecipazione codificata (Sclavi, 2002). A complemento di queste metodologie impostate dalla docenza, gli studenti hanno sviluppato autonomamente strategie comunicative: queste hanno spaziato dall’ascolto passivo, tramite la somministrazione di questionari, all’ascolto attivo, tentando di immedesimarsi nella realtà dei soggetti intervistati, arrivando ad approdare anche a sperimentazioni piuttosto originali in cui la costruzione collettiva di plastici, mappe e disegni, simulazioni di planning for real hanno fatto emergere osservazioni progettuali dal basso. La scelta dei bambini e dei ragazzi come interlocutori privilegiati, in luogo per esempio di adulti, trae la sua origine da una nuova considerazione che si ha di questi (Alderson, 1995): il bambino/ragazzo non come un futuro adulto, ma come persona, come cittadino, di cui è sostanzialmente riconosciuto il diritto di cittadinanza, che si esplica anche nell’essere interlocutore delle Amministrazioni, al pari dell’adulto. Malgrado i non pochi dilemmi etici e le controversie metodologiche di tali pratiche (Matthews, 2001; Matthews e Tucker, 2000; Lo Piccolo, 2009; Valentine et al., 2001), la scelta di prediligere la scuola, ed in particolare i bambini come interlocutori attivi per la trasformazione della città, è una prassi che si sta facendo strada da tempo (Tonucci, 1996 e 2002; Giusti, 1998; Fera et al., 2003; Pinzello, 2003; Pinzello e Quartarone, 2005; Paba e Pecoriello, 2006). I casi del centro storico di Palermo e dello ZEN, rispetto a questa scelta, si pongono ancora con contenuti di originalità, proprio a causa delle condizioni di marginalità dei contesti, perché i bambini in questo caso non solo assumono la funzione di avere uno sguardo “altro”, un punto di vista differente sulla città, ma soprattutto si dimostrano interlocutori meno disillusi e più pronti a dare fiducia a chi ricerca e studia la città. Essendo l’esperienza del corso improntata alla simulazione di un processo di Agenda 21 Locale, dove centrale è l’apporto dei soggetti che animano la città e le trasformazioni in atto e in divenire, si è cercato (nei limiti definiti dai tempi e dalla natura della dimensione didattica) l’incontro con una parte della comunità locale, quella dei bambini, il cui sguardo e la cui voce sono stati registrati, interpretati e infine tradotti in linee di azione progettuale. Il laboratorio si è svolto quindi essenzialmente come confronto tra gli studenti del Corso di Laurea in SPTUPA – chiamati a testare le loro capacità

comunicative, di ascolto e di sintesi – e i bambini delle scuole, soggetti chiamati dai “colleghi” adulti in un primo momento a “stare al gioco”, e poi impegnati a diventare progettisti essi stessi delle operazioni di riqualificazione, in un processo di apprendimento ed interazione reciproco. Gli studenti universitari hanno affrontato il laboratorio con le scuole attraverso un percorso articolato, che li ha visti in un primo momento impegnati in analisi “canoniche” e disciplinari per la comprensione della natura dell’area di studio. Tutte queste analisi hanno costituito il presupposto di comprensione scientifica in grado di fornire la conoscenza necessaria ad affrontare il passo successivo. Tale passo ha visto lo sforzo di traduzione del dato e dell’informazione tecnica in forme testuali, disegnate, plastiche in grado di costruire il dialogo tra studenti e bambini, attraverso lo strumento dell’attività ludica e creativa: una vera e propria trasposizione del linguaggio tecnico in forme non esperte e facilmente comprensibili per i non addetti ai lavori. L’obiettivo dell’equità sociale, della città come luogo della convivenza e dell’integrazione, della costruzione dello spazio urbano come esercizio e pratica di cittadinanza attiva rappresentano, di conseguenza, la finalità tematica di questa esplorazione. Per raggiungere tale obiettivo, la nostra attenzione si è rivolta, per l’appunto, alla natura “civica”, nell’accezione geddesiana del termine, delle pratiche di pianificazione, che non possono in tal senso che configurarsi come pratiche comunitarie, pluralisticamente democratiche nel loro portare avanti il principio di cittadinanza attiva e consapevole. Rispetto al quadro, articolato e complesso, di presenze, stili di vita, esigenze e modalità insediative, le risposte emerse delineano la necessità di orientarsi, al di là delle “simulazioni didattiche” sperimentate, verso azioni comuni di costruzione sociale degli spazi (Bonafede e Lo Piccolo, 2010). I “racconti” narrati ed esposti – sotto forma di disegni, testi, giochi di gruppo e simulazioni di atti ed interpellanze – hanno confermato, pur tra le luci ed ombre del “successo” o del “fallimento” dei casi specifici, la necessità di proseguire lungo questo percorso. Il confronto tra tali esperienze didattiche e le procedure istituzionali intraprese a Palermo mostra una discrasia notevole e pone alcuni dubbi sulla reale natura inclusiva delle pratiche pubbliche avviate (Bonafede e Lo Piccolo, 2010; Lo Piccolo, 2008). Il rischio di una deriva retorica (e pertanto puramente nominale, fittizia) dell’agire partecipativo è – anche in questo caso – francamente alto. Alla

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luce delle vicende qui descritte e delle questioni analizzate, si ha ulteriore conferma di come le dichiarazioni di principio e l’introduzione di pratiche dal basso non garantiscano, in sé, l’esito positivo e condiviso delle “modalità partecipative”. La ricerca di una formale legittimazione delle scelte e la necessità della costruzione del consenso appaiono come le motivazioni più fondate, e spiegano le derive procedurali che molte di queste esperienze – e relative politiche – finiscono per subire. I casi affrontati sono emblematici in tal senso, in quanto il rischio di una vera e propria “falsificazione di intenti” appare molto alto (Bonafede e Lo Piccolo, 2010; Lo Piccolo, 2008; Lo Piccolo, 2009). Per quel che attiene la nostra esperienza didattica, l’adozione di punti di vista “di parte” e “differenti” consente di riflettere in modo non convenzionale sui principi di cittadinanza attiva, di costruzione collettiva e condivisa degli spazi e delle politiche, di partecipazione democratica. In termini più generali, si confermano, e si arricchiscono di spunti di riflessione, alcune “lezioni” geddesiane, laddove la conoscenza non è tanto da assumersi come strumento professionale esclusivo del tecnico quanto come patrimonio collettivo, in grado di risvegliare l’interesse dei cittadini e di alimentare il processo sociale del piano, a dispetto di culture locali (civiche e di governo) consolidate e di interessi di parte ben radicati. Esercizi di pianificazione – come quelli descritti – possono allora essere praticati non come mera applicazione tecnica di una scelta politica imposta, ma come continuo esercizio di autodeterminazione promosso da individui e gruppi che si riconoscono in un progetto comune, ed al tempo stesso come processo sociale di auto-educazione collettiva a forme di cittadinanza attiva (Arendt, 1958). Risulta pertanto necessaria l’esigenza di sottolineare il valore ed il ruolo politico di possibili future azioni realmente partecipative, quali che siano le forme in cui esse si potranno manifestare e gli strumenti tecnici che coinvolgeranno. Alla luce dei casi descritti, tali notazioni acquistano ulteriore forza e più ampia valenza, in ragione del controverso contesto politico e culturale locale in cui esse si inquadrano. L’ipotesi che sta a fondamento di tali esperienze è pertanto quella di esplorare modalità e tentativi di dar vita a forme di spazio della democrazia così come teorizzato da Hannah Arendt (1958), testimoniando una pluralità di prassi ed esperienze che ampliano la sfera del ‘diritto alla città’ e rafforzano l’ipotesi arendtiana di una concezione plurale (e articolata localmente) dello spazio pubblico,

radicata nella fisicità dei luoghi della città e nei suoi processi di trasformazione e governo.

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Esercitazione „Trasformazione Valnerina“ AA 2010/2011Politecnico di ViennaIstituto di Urbanistica ed Architettura del Paesaggio Ass. Univ. Annalisa Mauri

Nell´ersercitazione svolta con un piccolo gruppo di studenti si é voluto ripensare al governo del territorio ed al suo ridisegno partendo, da chi il paesaggio lo vive e lo patisce di giorno in giorno. La dinamica di gruppo in sede di Workshop é da compararsi a quella di un Team di progettisti che lavora a diverse scale e con diverse proposte progettuali ad un tema territoriale complesso.

Gli studenti hanno ricercato a Vienna, attraverso brevi ma intensi lavori d´analisi, cosa significhi oggi come oggi e in diversi luoghi d´Europa, con Inputs minimalistici e con l´attiva partecipazione cittadina, governare le trasformazioni urbanisti-che per rimettere lo spazio pubblico a servizio dei suoi fruitori. I temi proposti variavano per scala e soggetto ma avevano come minimo comune denominatore quello di risvegliare paesaggi d´indubbio valore storico dal sonno forzato in cui la modernitá li aveva condotti.

Durante l´escursione avvenuta dal 23-30 Ottobre con gli attori locali, gli studenti hanno dapprima indagato la realtá e poi messo a punto la strategia pianificatoria. Il dialogo é stato tessuto con l´Amministrazione del Parco Fluviale del Nera – nei cui locali si é svolto di fatto il Workshop e il cui know how ci é stato messo a disposizione – con gli abitanti dei centri rurali – la cui partecipazione ci ha aiutato a comprendere profondamente le dinamiche territoriali – e con i Giovani Architetti Ternani - con i quali la discussione sul significato locale del termine trasformazione ha raggiunto una preziosa profonditá. Alla fine della intensa settimana di lavoro il nostro contributo é stato presentato in sede del convegno: http://www.landscape.tuwien.ac.at/lva/entwerfen/ws10/valnerina/invitoconvegno.pdfDocumentazione dell´Esercitazione:http://www.landscape.tuwien.ac.at/lva/entwerfen/ws10/valnerina Ora vorrei approfondire i contenuti progettuali del nostro lavoro e dedicare a ciascun tema affrontato lo spazio che si merita.Le proposte progettuali strategicamente collegate le une alle altre, partono dalla consapevolezza di voler intensificare le sinergie giá presenti sul territorio, favorite dalla piccola dimensione e dal conoscersi tutti.

Giunti in Valnerina, siamo stati colpiti dal fascino unico delle torri difensive e dei borghi fortificati, grazie ad un lavoro di ricerca siamo riusciti a capirne il ruolo. Secondo numerose fonti storiche questo sistema di controllo deriva dall'invasione dei Longobardi in Italia avvenuta nel 553 e venne rafforzato tra il XII e il XIV secolo da parte del Ducato di Spoleto con la progressiva fondazione di nuove strutture fortificate intorno alle tre signorie locali degli Arroni, dei signori di Casteldilago e di Collestatte1.

Per recuperare l´importanza storica, di questo patrimonio archi-tettonico, ormai abbandonato a se stesso, il nostro progettopropone la riattivazione della complessa rete di comunicazione rappresentata dalle torri difensive. Il progetto prevede di connettere diverse parti della valle in modo da far riemergere

1 Petralla M., Virili M., Sapor G. La chiesa e il convento di S. francesco di Arrone-Casteldilago (Arrone 2008)

gli assi visivi delle torri: un sistema di specchi potrebbe essere utilizzato durante il giorno e uno d´illuminazione artificiale durante la notte. In oltre viene ripresa e integrata un´ idea già parzialmente attuata da un gruppo di abitanti della valle, quella cioè di sfruttare la posizione strategica delle torri per usarle come punti di distribuzione di una rete internet-wireless (cfr. Valnerina Link di Marco Bettini, Marco Emanuel Francucci, Massimo Zera).

L´unica attrazione turistica frequentata da circa 450.000 visitatori l´anno, é rappresentata dalle Cascate delle Marmore, proprio all’entrata della valle, tuttavia la Valnerina Ternana offre molti altri punti di notevole interesse storico e paesaggistico. La nostra strategia si basa su un´ idea di marketing territoriale, che prevede la creazione di uno strumento di scoperta della Valnerina (i braccialetti). L´area del Parco Fluviale del Nera viene divisa, seguendo i confini dei comuni di Terni, Montefranco, Arrone e Ferentillo, ogni zona avrá un suo braccialetto e vari rivenditori. Sui braccialetti sono stampati una serie di loghi o simboli raffiguranti le attrazioni turistiche, o le attività e i servizi di cui si puó usufruire. Frequentando uno dei punti rappresentati sul braccialetto, l’apposito simbolo verrá spuntato. Dopo aver visitato o vissuto ogni luogo riprodotto sul braccialetto, si riceveranno sconti ed omaggi presso i servizi della zona. I braccialetti rappresentano un nuovo motore promozionale per l´intera Valnerina Ternana.

In un territorio in cui i diversi centri abitati sono collegati solo dalla strada statale senza marciapiede, il trait d´union per ripartire a pensare lo spazio aperto come potenzialitá a servizio degli abitanti, é la progettazione di un percorso di qualitá, che riconnetta i borghi. La storica strada bianca, diventa dorsale di tutti i nostri sforzi progettuali e viene ribattezzata la via bianca. Partendo dalle Cascate delle Marmore essa attraversa tutto il Parco Fluviale del Nera ed é resa leggibile dai paesi sovrastanti attraverso Landmark quali le panche di seduta. La via bianca diventa un nuovo elemento di definizione paesaggistica: riconnette i centri rurali, il paesaggio agrario e le molte offerte

Rendere leggibile il sistema delle fortificazioni di notte e come sistema di distribuzione moderna per internet WIFI

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sportive e culturali (musei e centri di educazione ambientale, canyoning, rafting, mountain bike, arrampicata, centri d´equitazione) finora isolate.Lungo la statale, in corrispondenza delle Cascate delle Marmore, vengono collocate alcune installazioni artistiche per rendere percepibile agli automobilisti l´inizio della Valnerina. Il portale architettonico che segnala l´inizio della via bianca é allo stesso tempo punto d´informazione e luogo dove i turisti possono noleggiare le biciclette per iniziare la loro escursione nel Parco Fluviale. Lungo la via bianca sono state progettate aree di seduta e zone attrezzate per grigliata lungo il Nera cosí da rendere frui-bile il paesaggio del fiume. Attraverso la costruzione di un ponte sul Nera, viene finalmente realizzato un collegamento pedonale e ciclabile tra Arrone e la zona commerciale lungo la statale. Un secondo ponte alle porte di Casteldilago garantisce l´accesso diretto dei mezzi pesanti alla fabbrica di Pellets.

„La via bianca“ Foto panoramica, vista verso Arrone

Un grosso problema delle zone rurali, tra cui anche la Valnerina Ternana, è legato alla perdita di popolazione attiva: i centri cittadini si rafforzano a discapito delle zone periferiche. A Casteldilago, sobborgo medievale che fa capo al comune d´Arrone, vivevano all´inizio del secolo scorso 400 persone, oggi conta solo cento anime. Casteldilago possiede una pre-ziosa risorsa nel palazzo Cristofori all´oggi disabitato. Il bar sulla piazza, giá ristrutturato ma senza gestore, dovrebbe essere riaperto. Accanto ad esso si è pensato di progettare uno spazio d´aggregazione giovanile. Al secondo piano si trovano spazi architettonici di gran rilievo adatti ad accogliere eventi quali: feste, mostre, corsi di pittura o di cucina…Nei locali rimanenti si potrebbe creare un ambulatorio polifunzionale: architetti, avvocati, massaggiatori, istruttori di yoga troverebbero un fertile terreno per insediarsi e nello stesso tempo renderebbero Casteldilago attrattivo per le nuove generazioni.

Palazzo Cristofori, Livello Piazza della Rocchetta

Visualizzazione Piazza della Rocchetta

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Polino, grazioso borgo in prossimitá ad Arrone, dovrebbe secondo noi essere accolto tra i comuni del Parco Fluviale, la stessa popolazione l´ha deciso all´inizio del nuovo secolo, con plebiscito di piazza. Tratti paesaggistici come quello della Cava dell´Oro e del Salto del Cieco dove l´amministrazione locale ha investito nel ristrutturare i percorsi, risulterebbero particolarmente interessanti per i turisti che visitano la Valnerina Ternana ed andrebbero ad integrare le offerte culturali, e le attivitá sportive giá presenti sul territorio.Polino si distingue dai paesi limitrofi per una zona ai margini del paese, alla partenza del sentiero verso il Salto del Cieco, caratterizzata da minute stalle per gli animali. Lo storico macel-lo, in ristrutturazione, ospiterá l´archivio comunale, un motivo in piú per concentrarsi su questa zona oggi come oggi trascura-ta. Le strutture, denominate stalletti, per certi versi interessanti opere di recupero e riuso di materiali di scarto, potrebbero essere facilmente piantumate con diversi tipi di rampicanti, che lascino penetrare la luce ma nascondano le strutture deteriorate. Data la presenza degli animali e il bell´attacco dei percorsi lungo la valle, varrebbe la pena di installarvi un piccolo maneggio, che venga integrato nel sistema delle attrazioni turistiche del braccialetto e garantisca cosí un paio di posti di lavoro.

L´idea di creare un campeggio nella Valnerina Ternana nasce dalle attivitá sportive presenti e dal giovane pubblico ad esse legato. Ferentillo con la sua posizione centrale all´interno del Parco Fluviale e la vicinanza alla parete d´arrampicata é il luogo ideale. Le terrazze con gli ulivi vicino alle rovine della Torre di Precetto sono perfette per installarvi le tende, ombreggiate e tutte ben esposte offrono un fantastico panorama sulla valle. Le case diroccate dell´intorno accolgono, nel progetto, funzioni fondamentali alla vita del campeggio.

Se vogliamo che la Valnerina possa vivere di ció che la generosa natura le offre dobbiamo ripartire dal vivacizzare i paesi, attrarre, chi con sforzo di creativitá e passione é pronto ad investire tra passato e futuro. I vuoti urbani che un centro come Casteldilago offre, sono una preziosa risorsa da reinterpretare e gestire. Se vogliamo che i turisti comprendano appieno il paesaggio dobbiamo ricongiungere i centri storici e le attivitá culturali e sportive attraverso un percorso leggibile, funzionale e gradevole. Dobbiamo ritessere quella tela di percorsi e di relazioni umane, un tempo motivata dalla funzionalitá agricola e che la modernitá ha cancellato.

Annessione di Polino al perimetro del Parco Fluviale del Nera

A cavallo dal Salto del Cieco a Polino

Annalisa MauriPolitecnico di Vienna

Campeggio: Il faló e la grigliata realizzati nella caverna sopra Ferentillo

Salotto del campeggio in un´antica stalla

Campeggio: Bagno realizzato in una struttura fatiscente con copertura a mambrana trasparente

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Il Mito del Mammut

Il viaggio parte da una piazza di cui nessuno riusciva a capire senso e utilità: enorme e assolata, frequentata solo da chi andava a bucarsi e per questo deposito a cielo aperto di siringhe, sangue, abiti vecchi e altri scarti. L’impresa sembrava disperata anche perché Scampia stava appena uscendo dalla fantomatica “guerra di camorra” e il quartiere, oltre ad essere devastato come sempre, sembrava un set per teleoperatori e cineasti internazionali in cerca di buoni e cattivi. Molti degli esponenti del terzo settore – in piena crisi di valori e danari – per parte loro non accolsero di buon grado l’arrivo del Mammut, considerato da subito possibile “concorrente”.Per non parlare delle scuole, dove tra crisi della didattica e bombardamento di progetti da parte di esperti esterni o presunti tali, dirigenti didattici e insegnanti ostentavano (giustamente) molta diffidenza rispetto a proposte e progetti.È per questo che dobbiamo molto al Mito e alla formula che ne è nata in questi anni. Riuscire a spuntarla in quella situazione non era semplice (non lo è tutt’oggi!), eppure il gioco che il Mito è diventato ci ha dato un grande aiuto.Sarà stato l’aver invocato i Miti di creazione di tutti i Continenti (nel primo anno), sarà stato il bisogno di bambini, ragazzi e educatori di giocare finalmente a qualcosa di serio e tutti insieme, sta di fatto che dopo questi tre anni sembra proprio che il nuovo rito collettivo a qualcosa sia servito.Se non altro il fatto che la piazza oggi sia visibilmente qualcosa di molto diverso da come appariva tre anni fa, tanto per quello che vi accade quotidianamente quanto per il significato che ha cominciato ad assumere nell’immaginario collettivo. Se qualcosa abbiamo capito grazie a questo gioco, è che ciò che un educatore può e deve fare per favorire il recupero di spazi abbandonati è modificare l’immaginario che la collettività ha di quei luoghi. I luoghi del male possono diventare luoghi di possibilità, se solo queste possibilità non ci si limita a decantarle con parole e proclami, ma le si agisce assieme a chi in quei luoghi abita o potrebbe abitare. Ed è questo che con il Mito, quando è andata bene, i gruppi e i singoli sono riusciti a fare.Il gioco in questi anni è stato certamente un esempio di quanto la competizione può

diventare molla potente di cooperazione. Nella concentrazione di ognuno a valorizzare e potenziare al meglio il proprio spazio, percependosi però come parte di un arcipelago in fermento, la competizione è diventata semplicemente un tramite, il collegamento attraverso cui queste isole sono riuscite a scambiarsi informazioni, idee, strumenti e motivazioni.È per questo che il Mito si è alla fine rivelato uno strumento utile nella scrittura e verifica del “Metodo Mammut”. L’essere riusciti ad applicare la sperimentazione in contesti tanto lontani sia geograficamente che per il tipo di operatori e utenti (scuole, carceri, centri di salute mentale, associazioni, ludoteche di diverse città d’Italia) è stata una possibilità preziosa per mettere alla prova la validità di modi, strumenti, presupposti e finalità del metodo in costruzione.Questi quattro anni di Mito insomma, oltre a dare vita nuova alla piazza di Scampia e ad aver contribuito ad avviare processi di riappropriazione e aggregazione urbana in strade, rioni, parchi pubblici, hanno prodotto una raccolta di materiali e sperimentazioni utili al più generale lavoro di ricerca. È proprio ai fini della ricerca che di seguito tentiamo di riempire di significato alcune delle parole del Metodo Mammut attraverso le esperienze di questi anni.

Domanda generale“È possibile recuperare spazi pubblici urbani attraverso pratiche della pedagogia attiva e della partecipazione sociale?”

Regia educativaCreare nessi, intuire, scovare e farsi enzima di possibilità, occasioni già presenti nelle varie realtà con cui si lavora.È a questa idea di “maestro” che la segreteria organizzativa del Mito ha tentato di rifarsi. Chi ha fatto la regia educativa del Mito ha insomma soprattutto incoraggiato gli incontri, gli scambi tra le diverse realtà, cercando di valorizzare ogni risorsa presente tra i gruppi partecipanti, attraverso l’invio e la raccolta delle tracce e la loro lettura sistematica.Apprendimento attraverso il corpo e il potenziamento espressivo; circolarità tra educazione e didattica; visione unitaria e unica di ciascuna individualità.Un po’ tutte le esperienze del Mito hanno contenuto questi elementi. Costituiscono la via attraverso la quale compiere tutto il processo di apprendimento–formazione.

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La caccia al tesoro realizzata nell’ultima giornata collettiva è uno degli esempi dove attraverso movimento e contatto corporeo (con sé, gli altri la piazza), utilizzo di materiali (creta, legno, pitture ecc..), gioco teatrale è stato realizzato un articolato percorso di apprendimento e avanzamento educativo.

Sfondo integratore: Siamo partiti dai miti di creazione,ogni agenzia educativa ha liberamente inventato o tratto dalla tradizione popolare il proprio canovaccio su cui lavorare alla trasformazione dello spazio e dell’immaginario di ognuno.

Aula diffusaLa piazza di Scampia; il Forte San Giacomo all’interno del carcere di Porto Azzurro, il muro che collega/separa il Centro di Salute mentale ai Sette Palazzi a Napoli; il parco popolato dai vecchietti in lotta coi ragazzi a Bologna; il fiume a Pistoia e gli altri spazi pubblici scelti dai partecipanti come oggetto di trasformazione, sono diventati il luogo dell’apprendimento, aula dove fare scuola attraverso gli insegnamenti della città, delle strade, delle piazze. Facendo progressivamente spazio alla consapevolezza di una città che educa se vissuta, e quindi alla ricerca di modi sempre migliori per poterla vivere meglio.Molto bello è stato il riscontro dei bambini che hanno partecipato alla caccia al tesoro finale provenienti da un quartiere lontano. La paura (in buona parte dei genitori) di andare in uno dei quartieri più malfamati della città, tanto forte prima della giornata, si è trasformata in divertimento e ammirazione per uno spazio/quartiere scoperto attraverso il Mito.

Riti, rituali, messa in scena e altre teatralità… racconto dalla III edizione del MitoLa caccia al tesoro: “La Battaglia dei Titani III: Viaggio all’avventura con re Serendippo”.Il filo conduttore della caccia al tesoro è stata la favola del re Serendippo, riscritta e riadattata intrecciandola con elementi delle altre storie utilizzate come sfondo integratore dai partecipanti al Mito.La giornata collettiva diventa perciò una messa in scena, o meglio una “messa in piazza” della trama narrativa frutto della commistione tra le storie, i personaggi e le azioni di ciascuno. Dall’interazione con la

scenografia (la piazza è stata trasformata in deserto, con palme, abiti sahariani, cammelli…) e gli attori (molti dei quali erano gli adolescenti e i preadolescenti che frequentano il Centro Mammut) chiamati a impersonare i personaggi della storia, nasce la caccia al tesoro-spettacolo. I 300 bambini e gli altri partecipanti al gioco si sono così trovati a risolvere enigmi matematici, storici, linguistici ecc., diventando nel contempo anch’essi personaggi teatrali, attori di una trama narrativa dai risvolti ancora aperti e tutti da inventare.

Squilli di trombe… arriva il re Serendippo! Vestito d’oro e trasportato su una carrozza… con i suoi 4 figli al seguito, tutti coltissimi perché educati da grandi saggi ma privi d’esperienze concrete. Decise che andassero alla scoperta del mondo.Nasce così il viaggio verso l’ignoto dei tre principi, che subito incappano nella disavventura che li farà passare alla storia.La struttura del gioco segue l’ordine della Ruota della Medicina degli Indiani d’America. Divisa in quattro parti a cui corrispondono i quattro punti cardinali e i quattro elementi, per gli Indiani d’America la Ruota della Medicina è il simbolo dell’Universo.Il gioco e le relative suggestioni partono dall’acqua, il Sud, luogo dell’ispirazione.L’ambientazione e l’attenzione del gioco si sposta poi alla terra, l’Ovest, luogo della materia, dove i partecipanti trovano le materie prime grezze a cui dar forma.Di seguito l’aria, il Nord, dove si trovano le teorie da studiare per poi finire con il sole, ad Est, luogo della concretizzazione, della nascita, la direzione dalla quale nasce un nuovo giorno.

Tracce, cooperazione, scrittura collettiva, ricerca-azioneBarrito: Il foglio d’inchiesta pedagogica, diventato mensile, è stato uno dei principali strumenti di cooperazione del Centro territoriale. Sul giornale venivano comunicate mensilmente scoperte, difficoltà e teorie che nella ricerca di ciascuno venivano a galla a contatto con il lavoro su campo.Il Barrito è stato il filo rosso tra le varie realtà, strumento di condivisione nel racconto della propria esperienza.In questa terza edizione sono state spedite mensilmente a tutti i partecipanti le tracce (4

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in tutto, più una di verifica a fine percorso) da sviluppare durante il mese di gioco, alle quali i partecipanti erano chiamati a rispondere. Alcune delle tracce sono state accompagnate da un kit dove si davano delle suggestioni per ritualizzare il momento della lettura e della restituzione delle tracce. Ogni 15 del mese arrivavano le risposte (o almeno sarebbero dovute arrivare). Tra i materiali arrivati venivano estratte le pagine di Barrito dei Piccoli finalizzate alla condivisione e a fornire elementi utili rispetto al tema oggetto di ricerca diverso di mese in mese.Altri momenti rituali sono stati: il cartellone dell’accoglienza con i bambini che hanno scelto di utilizzare la sede del Centro territoriale e i suoi spazi esterni; le giornate finali organizzate da ciascun partecipante nel proprio spazio; il convegno finale. Durante la caccia al tesoro finale: i rituali di accoglienza,la personalizzazione della casa madre, l’immedesimazione attraverso il travestimento, la creazione di un inno–rito da urlare per scandire i momenti del gioco.Altre tracce: a ciascuna delle agenzie partecipanti è stato consegnato a inizio percorso un diario di bordo da compilare giorno per giorno, con criteri guida per l’osservazione e la scrittura dell’esperienza. È stato grazie a questi diari che si è potuto procedere tanto al lavoro di ricerca, quanto alla proclamazione dei vincitori ad opera degli urbanisti dell’Università di Napoli che se ne sono fatti carico.

In ciascuno dei percorsi messi in campo dai partecipanti al Mito è possibile rilevare molti degli elementi del Metodo Mammut. In particolare: stabilire nessi e interazioni significative tra gruppi e singoli del contesto esistente; modificare il contesto esistente attraverso percorsi di senso orientati al mutamento; fare inchiesta mentre si svolge il lavoro educativo sul campo; incontro tra diversità (geografiche, sociali, culturali, generazionali) come possibilità di potenziamento del gruppo di lavoro; educazione ambientale come sfondo/modo e non materia specifica; interdisciplinarietà; uso dello spazio pubblico come sfondo integratore e oggetto di modificazione collettiva.

Flash dagli spazi trasformati durante la III edizione del Mito1) La Coop. Sociale Progetto Uomo di Bagnoli-Fuorigrotta è stato attivatore di processi cooperativi in diverse agenzie

educative della X Municipalità del Comune di Napoli. L’operatrice responsabile si è fatta regista, quindi enzima tra i soggetti locali, favorendo incontro e confronto attorno a una storia inventata dai bambini.La scelta dello spazio oggetto di gara è caduta sull’area dell’Ex-mercato Rionale di Fuorigrotta. Spazio chiuso, abbandonato e privo di identità. Il gruppo di lavoro si è prefissato l’obiettivo di ridare alla piazza un nuovo utilizzo attraverso la messa in rete di vari attori del territorio (scuole, associazioni, Consiglio jr della X Municipalità), attivando le istituzioni in un percorso tra giochi di piazza e attenzione al verde pubblico.2) L’ associazione Dorad dell’Isola d’Elba, utilizzando come sfondo integratore la storia dei pirati del 1500 – in particolare le avventure del pirata Barbarossa – ha proposto ai bambini e a chiunque volesse giocare, una caccia al tesoro, un viaggio attraverso i 5 sensi ripercorrendo le tappe del pirata. Ogni tappa prevedeva un momento esperienziale di manipolazione costruzione e realizzazione di strumenti utili al viaggio.Essendo le organizzatrici in prevalenza guide ambientali dell’isola, i percorsi consistevano per lo più in giochi di movimento e manipolazione finalizzati all’interazione con gli elementi naturalistici della fortezza spagnola. Per la realizzazione delle scenografie sono stati coinvolti i detenuti di Porto Azzurro e l’Associazione Li Bamboli di Capoliveri.Alla caccia al tesoro, dentro le mura carcerarie, hanno partecipato molte classi del territorio e bambini accompagnati dalle famiglie, trasformando la fortezza del carcere da luogo della paura in ambiente di apprendimento didattico da vivere nel contatto con la natura e la diversità.3) La classe III B della scuola “E. Montale” di Scampia ha deciso di utilizzare i locali del Centro territoriale durante il percorso di trasformazione del proprio spazio.Durante le giornate trascorse al Centro, bambini e maestre hanno ricevuto suggestioni funzionali al percorso e all’andamento della didattica ordinaria. Attraverso l’invenzione di una storia “sfondo” si è lavorato sulla letto-scrittura, sul colore e sulla realizzazione di un giornale murale dove lasciare tracce del percorso svolto. La III B ha realizzato un orto all’interno del cortile della scuola, collaborando con gli alunni adulti della scuola d’italiano per stranieri del Mammut.

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Ogni giornata al centro prevedeva alcuni momenti rituali, come l’accoglienza attraverso il cartellone delle presenze; il cerchio di inizio e fine lavoro; lo spazio di confronto e condivisione; i giochi cantati di movimento e la parte teatrale… Pratiche che il gruppo classe ha assimilato e trasferito nella didattica ordinaria.4) La ludoteca Vulimmo Pazzià di Secondigliano, vincitrice della scorsa edizione del Mito, ha registrato quest’anno una novità importante per il Mito napoletano. Dopo tre anni di partecipazione al gioco, la trasformazione degli spazi scelti si è finalmente verificata. E questo è stato possibile perché gli abitanti hanno finalmente capito l’importanza della proposta, iniziando a proteggere e curare gli spazi in trasformazione. E soprattutto perché la

Municipalità si è occupata di realizzare i lavori strutturali necessari all’effettiva modifica.È stato bello rilevare anche che, dopo tre anni, il Mito era diventato per bambini e ragazzi un rito collettivo appunto. Qualcosa di atteso e conosciuto, grazie al quale genitori e bambini riuscivano condividere divertimento, apprendimento e riappropriazione urbana.5) L’associazione Sconcerto di Pistoia, a partire dal percorso ipotizzato per il Mito, ha saputo ricostruire l’inquietante quadro ambientale che riguardava il fiume scelto inizialmente come sfondo integratore.

Claudia Mollo

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■ " What place is this space? "

Quando si chiede ad un uomo comune di spiegare il

termine città la sua reazione è quasi sempre di

imbarazzo. E’ errato interpretare tale reazione come

indice d’ignoranza o di profonda saggezza, o di un

concetto talmente assodato alla pubblica opinione da

poter essere espresso in modo semplice e definitivo. Ciò

che in realtà si rivela è la sensazione che non c’è nulla

da indagare, (o da spiegare meglio rispetto a ciò che

tutti attendono) e che il concetto di città è spiegato nei

fatti della vita umana organizzata in comunità operative.

Nel caso della progettazione urbana, l’uomo comune si

astiene ( e anche molti professionisti del settore lo

fanno) da una definizione di facile intendimento,

relegando l’aspetto a condizioni tecnocratiche e di

politica del territorio.

Vorremmo suggerire un approccio diverso. Siamo

dell’opinione che quando si tenta di progettare nella

città, di trasformare o rigenerare una parte di essa , non

si può sfuggire dalla necessità di definire il prodotto

finale – la città la sua forma, i suoi spazi e il senso che

essi rappresentano o devono continuare a portare per gli

abitanti che li vivono.

■ Urbano. Spazio pubblico. Spazio collettivo. Spazio

aperto. Centralità. Luoghi Urbani.

Termini con accezioni diverse, usati come sinonimi nel

linguaggio contemporaneo.

Lo spazio pubblico rappresenta il luogo fisico dove

chiunque ha il diritto di circolare e stare, è l’insieme di

spazi di passaggio o d’incontro, nodo dei flussi e dello

scambio.

Nella separazione del regime di proprietà, lo spazio

pubblico cominciò a coincidere con lo spazio collettivo,

perdendo una serie di attività tipiche, artigianato, servizi

e altro in esso contenute, assorbite poi dallo spazio

privato; qualificandosi così in modo diverso, divenendo

il contenitore di un sistema di infrastrutture e di

attrezzature in gran parte nuove e separate dalla

funzione dell’abitare.

Questo processo di specializzazione funzionale dei

luoghi urbani ha inibito la spontanea identificazione

dell’abitante con lo spazio pubblico della vita collettiva

ed esso è divenuto sempre più oggetto e soggetto di

rappresentazione astratta dell’iconografia urbana

contemporanea.

I luoghi scelti dalle persone e quelli istituzionalmente

destinati all’uso pubblico, sono diversi nel disegno e

nella ragione dell’essere città dando luogo (appunto) a

volte a spazi marginali, che sempre più spesso non

svolgono la funzione prima per la quale sono stati

pensati e non interagiscono con il territorio.

Allo spazio (pubblico) aperto è affidato il compito di

dettare le regolare fisico-morfologiche dello sviluppo

urbano programmato. E’ lo spazio che dovrebbe

mediare le principali relazioni con la campagna o con il

non costruito, che dovrebbe ricucire i frammenti tra

parti di città diverse, che dovrebbe caratterizzare i

luoghi e definire i principi insediativi incompiuti.

Centralità. E’ forse il termine più ambiguo e delicato.

Strumento significativo dell’incremento di attenzione al

tema dello spazio pubblico è rappresentato

dall’inserimento nei contenuti del Nuovo Piano

Regolatore di Roma delle “Centralità Metropolitane,

RUOLO E NATURA DELLO SPAZIO PUBBLICO NELLE CITTA’

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Urbane e Locali”. Sono nelle intenzioni

programmatiche del PRG ambiti interni a contesti di

solito molto complessi e in parte compromessi da uno

sviluppo diverso rispetto a quello di piano. Sono in

genere contesti urbani rappresentativi delle potenzialità

di sviluppo del piano stesso su aree strategiche della

città. Aree destinate ad un uso e a una funzione

prevalentemente pubblica in grado di generare ( o

rigenerare) d’identità locale, urbana o metropolitana

rispetto al grado di utenza che le stesse aree assorbono.

Il passaggio dalla definizione del termine città, alla

lettura della sua forma, alla determinazione del legame

che quest’ultima ha con il tempo che la rappresenta, alla

consapevolezza che nella città sono presenti molti tempi

diversi che spesso nella vita un uomo attraversa e

supera a volte, porta tutti noi, con pazienza e spirito

critico, a riconoscere il ruolo dello Spazio Pubblico

come Luogo dell’Urbano.

■ Locale. Negativo dell’Architettura. Residuale.

Marginale. La mancanza di attenzione alla

progettazione dei vuoti funzionali dello spazio pubblico,

spazi incompiuti tra il costruito e il diffondersi di

un’urbanizzazione spesso spontanea ed intensa sul

territorio, ha portato le nostre città (ormai tutte le città,

grandi e piccole) ad uno straordinario aumento

dell’entità degli spazi residui interni ai tessuti. In queste

parti dell’urbano, puntuali e diffuse, caratterizzate da

un’alternanza di pieni e vuoti è difficile ogni operazione

di feeling. Il problema si fa locale come misura ma

metropolitano per estensione e diffusione sul territorio.

Conclusa la fase di espansione delle città, si passa alla

valorizzazione, alla trasformazione, alla rigenerazione

della città costruita. Nasce un nuovo modo di

pianificare orientato non solo allo sviluppo di aree

libere ma alla trasformabilità delle aree costruite della

città.

Si lavora nel dettaglio, alla scala del quartiere,

dell’isolato, per rendere funzionale il quadro generale,

attraverso un susseguirsi di progetti che conferiscono

allo spazio pubblico della strada, della piazza recuperata

la funzione strutturante del progetto morfologico locale.

■ Laboratori didattici: introduzione progressiva al tema

Le nozioni sono introdotte in modo progressivo

all’interno dei corsi e dei laboratori di urbanistica,

mediante programmi didattici che prevedono, dopo un

primo anno d’introduzione alla pianificazione,

l’inserimento, negli anni successivi, di corsi specifici di

progettazione urbana che portano l’attenzione sul

rapporto costruito/non costruito e sui temi della

tipologia e morfologia dello spazio pubblico e privato,

come soggetto di analisi e come materiale utilizzabile ai

fini della progettazione urbanistica.

Le prime analisi sono orientate verso lo studio dei

sistemi generali e, in particolare, per quanto riguarda il

sistema degli spazi aperti, si porta l’attenzione sullo

stato quantitativo e qualitativo degli spazi che

compongono la città: come sono utilizzati attualmente?

sono in stato di abbandono, e perché? sono essi, insieme

alle aree libere, risorsa principale per la riuscita di un

progetto orientato alla valorizzazione?

Le simulazioni progettuali elaborate dagli studenti

prendono le mosse da casi reali e dalle previsioni di

Piano, generali e di settore, e si muovono, per gli

esempi qui presentati, all’interno di Programmi Integrati

o di Ambiti a Trasformazione Ordinaria.

Nelle tavole presentate alla Biennale dello Spazio

Pubblica di Roma, sono stati esposti tali principi

informatori, contenuti in simulazioni progettuali ,

elaborate presso il Corso di Laurea Triennale in

Urbanistica e Sistemi Informativi e presso il Corso

Magistrale di Pianificazione della Città del Territorio e

dell’Ambiente, attivi presso La Facoltà di Architettura

“Ludovico Quaroni” dell’Università di Roma “La

Sapienza”.

Il primo poster si focalizza sul ruolo dello spazio

pubblico nello scenario urbano, mentre il secondo sulla

natura dello spazio pubblico nella dimensione locale.

Prenderemo d’esempio due dei lavori contenuti nei

diversi pannelli.

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Il primo, a carattere urbano, propone una soluzione

progettuale elaborata all’interno di un laboratorio di

Progettazione Urbanistica (secondo anno della

specialistica) con oggetto l’area di Corcolle, VIII

Municipio di Roma, finalizzata alla realizzazione di un

ambito urbano complesso che ospiti una nuova

centralità locale, caratterizzata da un sistema di piazze

tra loro differenziate ed integrate con le permanenze

(filari arborei valorizzati e casale rurale ristrutturato e

rifunzionalizzato) e in stretta connessione, funzionale ed

ambientale, con il nuovo parco fluviale. La connessione

tra i tessuti pre-esistenti e il nuovo ambito urbano è

garantita dalla predisposizione di un grande asse di

trasporto pubblico che metti in rete spazi, residenze,

aree commerciali e verde attrezzato. Il risultato è la

definizione di un nuovo centro urbano che, oltre a

completare, integrare e relazionare morfologicamente

gli ambiti di Giardini di Corcolle e Corcolle, va a dotare

questi ultimi di funzioni e servizi pubblici e privati di

livello urbano e locale e spazi qualificati che

conferiscono identità e riconoscibilità.

Un secondo esempio, contenuto nel poster “Locale”,

consiste in un lavoro di tesi triennale relativa alla

riqualificazione di un tessuto prevalentemente

residenziale, resa possibile attraverso la progettazione,

la riorganizzazione e la messa in rete degli spazi aperti,

interpretandone la funzione e gli elementi che ne

definiscono la forma:

- spazi esistenti, le facciate e la disposizione delle

strutture permettono una continuità visiva verso

l'esterno. Sono elementi di relazione tra la dimensione

locale (piazza, flussi pedonali e veicolari, servizi

pubblici e di quartire, ) e il territorio aperto.

- spazi lineari, generati dall’arretramento dei fronti

commerciali o dall’esistenza di corti interne ad uso

pubblico;

- spazi residuali, ritagli delle infrattrutture, non

coinvolti da un uso collettivo. In prospettiva

progettuale, integrati in un sistema organizzato di flussi

pedonali, tali vuoti possono assumere funzione di

spazio collettivo;

- spazio marginale, ambiti inconclusi spesso

abbandonati che non partecipano al funzionamento

generale della parte di città interessata.

La proposta progettuale si risolve nell’individuazione

di: - luoghi centrali, intesi come ambiti di progetto in

cui concentrare le attività di “mediazione” tra il

contesto locale e quello urbano;

- reti, come assi che garantiscano la continuità dei flussi

pedonali e ambientali; - spazi da valorizzare, che

rappresentino i nodi principali del sistema degli spazi

aperti, il quale prende vita nel tessuto storico e in cui è

prevista la centralità locale; - spazi da rifunzionalizzare,

spazi attualmente residuali, che rappresentino i nodi su

cui basare lo sviluppo dell’intera rete.

prof arch Maurizio Moretti, Ilaria Angelelli

Maurizio Urbani

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Margine, Frammento e Spazio Pubblico

Questo scritto ripercorre alcune esperienze progettuali maturate nell’ambito del laboratorio di laurea Leap in cui gli studenti sono chiamati a confrontarsi con i temi dello spazio pubblico in maniera ampia. In particolare l’attenzione è volta ai complessi processi della città contemporanea e alla dilatazione del concetto di abitare. In questo contesto la dimensione territoriale assume rilevanza in relazione ai paesaggi, alle dominanti ambientali, alla forma urbana. La Sardegna, offre molte opportunità di riflessione in questo senso per la peculiarità del suo territorio in cui urbano e “ambientale” possono diventare sinonimi. I casi studio riportati riflettono sul ruolo dello spazio pubblico in contesti di margine e di bordo, siano essi situazioni di contraddizione geografica o di esclusione alla fruizione della città.

Edge, Fragment and Public Space

This text refers to some design experiences developed as part of the Graduation Studio program run by Leap. Here the students are invited to reflect about the topic of public space in a wide perspective. Particular attention is payed to the complex processes of the contemporary city and to the expansion of the concept of inhabiting. Due to the peculiarity of its territory, Sardinia, offers many opportunities for reflection in this direction. Here the urban and the environment can become synonymous. The study cases consider the role of public space in edge contexts, characterized by geographical contradictions and exclusion situations.

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Margine Sud-Ovest della città di Sassari

Il discorso sullo spazio pubblico sembra essere caratterizzato da una riflessione sulla perdita di significato del termine, e di conseguenza sulla costante ricerca di definizione delle sue proprietà costitutive. E’ un discorso che per alcuni versi investe il concetto di città nella sua interezza. La città contemporanea, organizzata in modelli spaziali dispersi, mobili e individualizzanti, sembra negare il ruolo del pubblico e del suo spazio come dimensione collettiva e di struttura urbana-territoriale. Di contro un pubblico in movimento, si appropria di spazi per renderli, eventualmente, pubblici e condivisi. Eppure, lo spazio pubblico,(o collettivo,come suggerisce Solà Morales superando la dicotomia della prospettiva patrimoniale) nella sua accezione di inclusione e potenzialità per il pubblico, il suo essere disponibile tramite il progetto, ci sembra un elemento importante per costruire modi di vivere insieme. La Sardegna, offre molte opportunità di riflessione in questo senso per la peculiarità del suo territorio. Piccoli e medi centri costruiti su economie di altri tempi, hanno vissuto a lungo in rapporto dialettico con il territorio e con le risorse ambientali.L’evoluzione delle forme urbane più recenti ha, in alcuni casi, reinventato questi rapporti. Altre volte li ha cancellati tramite sistemi insediativi costruiti sulle logiche autoreferenziali del momento. Il progetto di spazio pubblico, nei casi presentati, si colloca come riflessione su queste relazioni. Una particolare attenzione è posta alle aree definite marginali e di bordo. Sono queste aree che offrono

possibilità di ri-strutturare, ri-orientare e, dove necessario, ri-pensare la città. I lavori presentati sono frutto del Laboratorio di Laurea Leap1 (Laboratory on the Environmental and Architecture Project) in cui gli studenti sono invitati a ragionare su questi temi attraverso il progetto del territorio.La Sardegna offre un ampio panorama di sperimentazione per pensare dimensioni dello spazio pubblico in relazione alla sua dimensione ambientale. In particolare i due casi studio, qui presentanti, entrambi nel territorio di Sassari, ri-propongono la relazione fra il contesto urbano e quello ambientale in un’ottica di inclusività, connessione e fruibilità. La struttura urbana di Sassari è immediatamente riconducibile a due sistemi principali. Il primo è il sistema ambientale costituito delle valli interne ed esterne al tessuto compatto. L’espansione ottocentesca vi s’inserisce come appendice secondo un modello additivo. Il secondo sistema è quello più recente: la dispersione e la diffusione urbana rappresentano l’ultimo momento di crescita della città. A partire dalle trame agricole della corona ulivetata, il tessuto man mano si disperde, abbandonando la relazione con la

1 Il presente contributo è il risultato di alcune riflessioni sviluppateall’interno delle tesi di laurea di Silvia Lai e Giacomo Alessandro (Relatori: Giovanni Maciocco, Samanta Bartocci e Michele Valentino).I casi studio mostrati nel secondo e nel terzo paragrafo sono curati rispettivamente da MicheleValentino e Samanta Bartocci.Le riflessioni sui discorsi sullo spazio pubblico sono di Francesca Rango.

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L’area di confine periurbana dell’ Orto Botanico di Sassari

sua matrice ambientale. Il modello tipologico comune è quello della casa singola, proposta individuale di intervento sul territorio a seguito delle lottizzazioni degli anni ‘70. I casi studio si collocano in situazioni intermedie di questo assetto urbano, spazi marginali della città dove il progetto misura la disponibilità di spazio pubblico. Lo scopo è di ri-centrare situazioni periferiche dotandole di diversi significati collettivi. Il tema della “modificazione” (Secchi B., 1984) diventa importante e leitmotiv per gli interventi proposti. La storia dei luoghi, nella sua accezione dinamica, si confronta con questi spazi in modo da fornire chiave di lettura e di intervento. In questo senso la dimensione conoscitiva è elemento fondante dell’azione progettuale. Essa mira a ritagliare le questioni rilevanti cui riferirsi in ogni momento, dettagli pertinenti e significativi, derivati da un complesso intreccio di saperi e abilità. Marginalità e Spazio PubblicoIl progetto per il parco e il centro anziani nell’area dell’Orto Botanico di Sassari2 è un progetto di spazio pubblico ed è un progetto di spazio collettivo. A partire dall’originaria idea di inclusività di ciò che è pubblico, il progetto sperimenta una tipologia di spazio intergenerazionale, spazio di incontro e di

2 Tesi di laurea in Architettura di Silvia Lai, “Lo spazio delle relazioni intergenerazionali: un progetto nell’Orto Botanico di Sassari”, Relatori: Giovanni Maciocco, Correlatori: Samanta Bartocci, Michele Valentino, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Architettura, A.A. 2009/2010.

servizi per fasce d’età diverse. Il vasto programma funzionale previsto è strutturato tramite lo spazio aperto, spazio accessibile a tutti e in grado di ristabilire rapporti fra nuovi edifici e contesto urbano. Il sito di progetto si colloca in quell’ibrido di “fuori e dentro” che caratterizza molte città della Sardegna, dove la dimensione urbana non risulta così pervasiva da annullare il rapporto con l’ambiente. La dialettica fra le due investe di dimensione e di dignità proprie le aree di margine, aprendo il progetto alla dimensione territoriale. Nel progetto di parco, a partire da una situazione pubblica, si definiscono una serie di gerarchie intermedie tra pubblico-privato, che organizzano i volumi e le relazioni con il contesto. La stessa localizzazione del progetto, inserito in un’area di bordo a Sud-Ovest della città, ribalta la connotazione negativa di marginalità e periferia in un’opportunità di sperimentazione di differenti forme e modalità di spazio pubblico. La predisposizione morfologica del progetto viene studiata in relazione alle figure presenti, che oggi risultano latenti e poco fruibili. Gli spazi fisici di risulta, di bordo, non pianificati, compaiono come luoghi di affermazione, costruzione di nuovi momenti di comunicazione.

Frammenti e Spazio Pubblico Dinamiche capaci di frammentare la città in parti che si isolano e si ignorano (Tjallingii S. P., 2000), costruiscono il margine. La sua definizione prescinde così da questioni prettamente localizzative.

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Spazi delle relazioni intergenerazionali: un progetto nell’Orto Botanico di Sassari

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La convivenza urbana porta al centro del dibattito contemporaneo il rapporto tra spazio pubblico e margine, in seguito alle tensioni prodotte dal degrado fisico e sociale di molte città europee. Gli effetti dell’antropizzazione del territorio nell’aria di progetto corrispondono a spazi divenuti marginali in seguito a processi dinamici di inclusione/esclusione; questi sono luoghi capaci si assumere dimensioni, significati e relazioni che derivano, oltre che dalle loro caratteristiche intrinseche, dalle reciprocità con il contesto (Treu M. C., 2004). Il progetto per il parco ferroviario di Sassari3, ha come obiettivo il ridisegno del margine del centro storico, proiettando l’intera città verso l’area industriale. Il fine è il recupero di un rapporto perduto con la sua storia urbana più recente. L’attuale stazione ferroviaria è a tutti gli effetti una cesura fra il confine Nord-Ovest della città compatta e gli insediamenti urbani dispersi. Ne risulta una difficile connessione con i quartieri periferici e la struttura ambientale delle valli. Il progetto, attraverso la demolizione di alcuni edifici eterogenei per funzione e aspetto, fa emergere un nuovo spazio pubblico nel cuore della città. La riorganizzazione infrastrutturale dell’area permette di ricucire parti di città separate dalla presenza della ferrovia e dalle strade. Il parco presenta spazi capaci di offrire occasioni di sosta ed incontro. Le due città, medievale e contemporanea, trovano in questo spazio il perno della loro storia. Il parco è organizzato in fasce parallele rispettose delle caratteristiche morfologiche del sito. Diverse figure di spazio prendono forma a seconda delle funzioni previste dal programma (giardino, spazio per lo sport, piazze ecc.). Attraverso il progetto si restituisce alla città la disponibilità alla fruizione di uno spazio per la connessione, per l’attraversamento e per lo stare.

Quale Spazio Pubblico?Le recenti osservazioni sulla definizione dello spazio pubblico manifestano uno slittamento evidente fra lo spazio pubblico come elemento rivelatore della sfera pubblica. Se da una parte si grida alla morte dello spazio pubblico in pieno spirito postmoderno4, dall’altra si definiscono diversi pubblici, il cui carattere eventuale si palesa nelle manifestazioni di appropriazione, spesso temporanee, dello spazio, al di là della sua accezione proprietaria. Bianchetti (2010, p 130) ricorda come il nuovo pubblico sia costituito da “soggetti dissimili su 3 Tesi di laurea in Architettura di Giacomo Alessandro, “Sassari. Il limite dei piani. Il margine della città”, Relatori: Giovanni Maciocco, Correlatori: Samanta Bartocci, Giovanna Casula, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Architettura, A.A. 2008/2009.4 Dice Jamenson: “Questi ultimi anni sono stati caratterizzati da un millenarismo alla rovescia, in cui le premonizioni del futur, catastrofiche o redentive, hanno lasciato il posto al senso della fine di questo o di quello (…) considerati nel loro insieme, tutti questi fenomeni costituiscono forse ciò che sempre più spesso viene chiamato post-modernismo”. (Jamenson 2007, p.20)

molti piani: hanno itinerari sociali, scolarizzazione, competenze distinte entro il profilo ampio e indeterminato del ceto medio” dimentico della cittadinanza nel “senso tradizionale del termine” ma impegnati in una ricerca soggettiva attraverso forme deboli di condivisione.In questo panorama cercare un pubblico e con esso l’emblema dello (uno) spazio pubblico , sembra inadeguato alle figure così diverse della città contemporanea e delle sue popolazioni. Eppure lo spazio pubblico presenta inerzia nei significati e nelle figure. La capacità connettiva, inclusiva, strutturante dei parchi, delle strade, del paesaggio rappresenta ancora possibilità di ribaltare il paradigma secondo cui le logiche del mercato dettano morfologia e stili di vita nella città contemporanea. Opportunità di equità per minoranze, per gruppi sociali deboli, per territori dimenticati. Forse,in questo senso, lo spazio pubblico rappresenta, ancora, dispositivo per costruire come vivere insieme. Ed è il progetto che sancisce la disponibilità all’esserci dello spazio, disponibilità e progettualità sancita dalla peculiarità dei luoghi. In contesti come la Sardegna, in cui la dimensione urbana necessariamente dà conto a quella ambientale, lo spazio pubblico assume rilevanza contestuale e territoriale. Diventa spazio interscalare per la strutturazione e modificazione del territorio.

SAMANTA BARTOCCI, FRANCESCA RANGO, MICHELE VALENTINO(Laboratorio LEAP5)Università degli Studi di Sassari, Facoltà diArchitettura, Dipartimento di Architettura, Design eUrbanistica (DADU)

5 Il gruppo di ricerca che ha curato il progetto della Biennale dello Spazio Pubblico è composto da: Giovanni Maciocco, Gianfranco Sanna, Silvia Serreli, Samanta Bartocci, Giovanni Maria Biddau, Francesca Frigau, Laura Lutzoni, Francesca Rango, Michele Valentino.

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Parco urbano della ferrovia di Sassari

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Bibliografia

AMENDOLA G. (1997), La città postmoderna. Magiee paure della metropoli contemporanea, Laterza, Roma-Bari. BIANCHETTI C., (2010);“ Se la condivisione è ovunque, che ne è dello spazio pubblico“ in Angelo Sampieri (ed), L’Abitare Collettivo,FrancoAngeli, Milano.DE SOLÁ MORALES M. (1992), “Espacio público o colectivo”, La Vanguardia, Maggio, 10.GUATTARI F. (1997), Piano sul Pianeta, Ombre Corte Edizioni, Verona. JAMENSON F., (2007) Postmodernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, Fazi editore, Roma.MACIOCCO G., SANNA G., SERRELI S. (2011), The urban potential of External Territories, FrancoAngeli, Milano.PÉREZ GOMEZ A. (1994), Chora: the space of Architectural Representation, The MIT Press, Cambridge MA.SECCHI B. (1984), Le condizioni sono cambiate, in “Casabella”; nn. 498-499, Milano.SHEPHEARD P. (1997), The Cultivated Wilderness. Or, What is Landscape?, The Mit Press, Cambridge MA.TJALLINGII S. P. (2000), “Ecology on the Edge: Landscape and Ecology between Town and Country”, Landscape and Urban Planning, vol. 48, nn. 3-4

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THE STORY OF FELICE; The Aqueduct’s

stratum

By Marc Schoonderbeek and Sang Lee

Faculty of Architecture

Delft University of Technology

Netherlands

BORDER CONDITIONS (BC) is a design and

research studio group at the Faculty of

Architecture of the Delft University of

Technology in the Netherlands. BC is engaged

in experimental architectural design

approaches based on investigations of socio-

cultural contexts by tracing contemporary

spatial conditions and phenomena in cities. BC

aims to chart the specific characteristics of the

built environment by exploring and

investigating the kind of peripheral but

influential ways public places are composed

and used. In order to understand the

contemporary workings of architecture, the BC

studio emphasizes mapmaking to document,

register and interpret the urban processes and

to turn them into not only the design

instruments for spatial interventions but also

more importantly a means of exposing the

hidden workings of the city.

The state and control of borders is currently a

compelling issue that is discussed and

investigated since certain traumatic global

events, such as the ‘9/11’ in New York or the

‘7/7’ in London. The events not only further

eroded the historical notion of public space but

also radicalized the borders that used to be a

matter of demarcation with a line. As a result,

the profoundly changed perception of borders

has changed the way the world’s metropolis

are designed, managed and most of all

guarded. This intensification-radicalization

process has resulted in a renewed interest in

the space of conflict and the conflict of space.

The border seen in negativity, that is, as an

instrument of keeping others out, is a highly

troublesome notion in accelerating

globalization. It interferes with the flows of

goods, information and people, and more

importantly it seems to be contradictory to our

increasingly nomadic and virtual experience of

space. Borders, in other words, are on one

hand more fiercely guarded than ever and on

the other they are almost always regarded as a

means of obstruction and exclusion that has to

be dismantled. What is absent in these

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discussions is the nature of borders that are

fluid and dynamic, and yet concrete, in their

formative nuances toward a space of

encounter.

Contemporary architectural discourse has

immersed itself in the notions of

fragmentation, complexity and multiplicity,

which has resulted in an endless array of

teleological enumerations and taxonomies of

spatial phenomena. The current discussions on

borders might be considered too simplistic and

bureaucratic, and even irrelevant in terms of

the borders’ architectonic potentials. Then how

do we move beyond the undifferentiated

debate of borders as lines of division and as

political demarcation and separation? How do

we avoid polarization and dialectic reasoning

when discussing divisions? And, in more

practical terms, where do we find the condition

of borders that are both visible and invisible,

and endless in terms of differentiation and

transformation? How do we address, from a

theoretical perspective, issues of

fragmentation, complexity and multiplicity

with respect to spatial investigations?

Some of the difficulties can be negotiated by

concentrating on at least two aspects: firstly,

the theoretical discussion of borders must be

expanded to include spatiality and, secondly,

specific tools with which the spatial workings

of a border can be described must be

developed. In response, the primary approach

in the BC’s projects focuses on the notions of

the ‘marginal’ and the ‘subversive’ by

employing the more diversified versioning of

mapmaking techniques in order to approach

not only the geocentric readings but also

egocentric ones that have become increasingly

important in today’s individualized, often

virtual, occupation of space.

Research as an Open-Ended Design

Exploration

The back cover of the book Mutations1 that

simply (mis)states ‘WORLD = CITY’ presents

a typical example of the aphoristic slogan

culture dominating the architectural research

practices from the late 1990s to date.2 In stark

contrast, the basic foundation of the BC

research program and its core interests may be

summed up as the diametric reverse of that

statement. The BC research projects consider

the specific, and often emergent, spatial

conditions found in contemporary cities as a

fertile milieu that is yet to be explored and,

ultimately, embraced. The BC attempts to

explore the spatial potentials that are yet little

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regarded and to tackle the urgent need for

corresponding theories.

Yet, precisely the descriptions and analyses of

the factors that make up the contemporary

urban condition need to be revised and

nuanced. To this end, BC focuses on the

sensorial perception, description and

investigation of emergent spatial conditions

within cities by emphasizing the network of

relations among space and social practices.

These practices constitute the events of

‘everyday’ and its durations from daily rituals

to social tensions to anomalous approaches to

space. The BC’s object of investigation is the

expansive array of spatial phenomena and

conditions, from the banal, the extraordinary to

the idiosyncratic, in an attempt to understand

contemporary spatial practices that shape the

urban context.

In the book A Field Guide to Getting Lost, the

author Rebecca Solnit quotes Edgar Allan Poe

to describe the relationship between

knowledge and losing oneself: ‘All experience,

in matters of philosophical discovery, teaches

us that, in such discovery, it is the unforeseen

upon which we must calculate most largely.’3

Solnit is surprised that Poe ‘is consciously

juxtaposing the word “calculate”, which

implies a cold counting up of the facts or

measurements, with “the unforeseen”, which is

precisely that which cannot be measured or

counted, only anticipated.’4 Can one in any

form of research indeed ‘calculate upon the

unforeseen’? In The Postmodern Condition,

Jean-François Lyotard argues for the need of

paradoxes in developing and extending

existing knowledge through imaginative new

concepts of thought. Lyotard coined the term

‘paralogy’ as the principle with which to

describe the nature of contemporary research.5

In ‘paralogical’ research, conflict is considered

crucial for any scientific development because

only through conflict new meanings of deeply

grounded, old and established significations

become visible. Likewise, BC aims to

deliberately create an investigative

environment with: a sense of conflict, in order

to test established knowledge; a sense of

confusion, in order to critically question the

application of investigative tools; and a sense

of openness, in order to be able to adjust

knowledge and to incorporate new findings

and unexpected insights.

Experimental design as research starts with a

speculation, which, to a large extent, requires a

state of uncertainty in relation to the object of

study and to the process of investigation itself.

It requires a strategy that is rigorously open to

the possibilities in ‘becoming’ in its

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imagination, meaning and experience. An

open-ended design as research and its strategy

produces knowledge through the practice of

techné in parallel to episteme, that is, the

construction of unknown relations, rather than

implementing knowledge starts with a general

abstraction in the so-called ‘trickle-down’

manner.

In fact, opening up the discourse on the

emergence of the possible, to an unleashing of

potential, might be reminiscent of Robert

Musil’s ‘sense of possibilities’ replacing the

‘sense of realism’ in The Man without

Qualities.6 Fundamentally, such an

investigative strategy would not even pretend

to be able to govern the current processes

within the city, nor would it pretend to offer

the kind of solutions to problems, actual or

perceived. Rather, it is an attempt to offer

insights into the spatial workings of sensible

urban territories by clarifying the processes

that occur and the agencies that act. The urban

context becomes a terra incognita of

interstices, a territory where the process of

discoveries emphasizes the obscure.

Systematic Urban Explorations

The investigative exploration of contemporary

urban places is particularly challenging when

the outcomes are supposed to inform or

purposefully ‘situate’ contemporary

architectural practices in the urban context.

Today urban places are diverse and changing,

dynamic and ephemeral. Their investigation

requires, borrowing from the Situationsts,

dérive and détournement that incorporate a

certain degree of improvisation and

indeterminate chances, and allows for

deviations and intuitive, immediate decisions.

Dérives offer neither preconceivable outcomes

nor predetermined objects of investigation as

they rely on overlapping of experienced

durations and chance encounters of events,

alongside conjectures and prior experience to

form an ad-hoc reading of the city. In ‘The

Principle of Disorientation’ from 1974,

Constant Nieuwenhuys formulated the

potentials of the drift with wonderful

precision: ‘straying no longer has the negative

sense of getting lost, but the more positive

sense of discovering new paths.’7 In this

regard, dérive as a form of ‘navigation’, deals

with the specifics of systematic urban

explorations that are systematic simply

because they start with a given set of rules

inherent in moving through space, additionally

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with a predetermined procedure or a

speculative trajectory through a given place.

Francesco Careri has discussed the importance

of navigation in the contemporary practice of

the urban drift as a conceptual tool for

investigating urban contexts. He positions this

practice in a wider, historical context and at

the same time extends the idea of the dérive by

including the procedural techniques of

navigation with its counteract, the act of

stopping. In discussing the origins of sailing in

ancient societies, Careri considers the

encounter with ‘the Other’ as crucial for the

drift to be meaningful.8 The act of navigation

measures the world based on the

characteristics and the inhabitants of the

territory.

Maps as an Index of Possibilities, Past and

Future

Apart from a specifically defined object of

investigation and an inventive research

methodology, one also needs to develop and

construct specific instruments with which to

conduct such research. BC embraces methods

of mapmaking in order to make the immanent

spatial conditions accessible, while at the same

time remaining exposed to the complexity and

multiplicity of affectations and properties at

hand. Site- and duration-specific

cartographical techniques enable the

registration and evaluation of the processes

specific to urban spaces, and here the idea of

mapmaking is especially relevant as the map

becomes in many ways a distilled territory – a

nearly tangible place of facts and fiction. In the

book Mappings, the author Denis Cosgrove

states that the map is ‘perhaps the most

sophisticated form yet devised for recording,

generating and transmitting knowledge.’9 In a

mapmaking process, a territory is measured,

circumscribed and demarcated. The map is a

reflection of a social construct within a spatial

representation and offers a means to navigate

the space it represents.

The maps that have taken shape in the BC

program tend to possess two distinctly

separate, yet interrelated aspects: the process

of the dérives themselves and the conditions

found the geographical location. The objective

of maps is to incorporate experiences,

processes and events of the dérive exploration

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into the investigation of the urban conditions.

The difference with respect to the original

intentions of the dérive is that the maps are not

only aimed at changing the personal

experience of the individual that executes the

urban drift, but also it serves as an

investigative tool to re-situate the objects of

investigation. More specifically, if one

combines the urban exploration with a notation

system that is used to ‘capture’ the urban drift,

the resulting map not only traces a factual

journey, executed in the past, but also opens

the discoveries of the trip to a future

modification of the transcribed elements. This

instrumentality makes it possible to connect

the spatial experiences with the observations

and translates them into comprehensive

notation systems. Additionally, and most

importantly, this mapmaking process includes

the observer as part of the territory that is

being mapped.

Mapmaking consists of an index of futurity

that is necessarily contingent in that the

process of mapmaking offers a topical reading

that turns an act of measuring into exploration.

Ambiguity, complexity and contingency are

key to the category of mapmaking that the BC

projects have explored. The idea of

mapmaking in fact is inherent in every

architectural design, not just as a peripheral

informative tool but rather as an integral

process that informs the design process. Much

of contemporary architectural discourse

emphasizes the urban context of architecture

either via the collection of information or

through an analysis of its formal principles, but

what remains absent is both a theory and a

design strategy that connects these two.

Framing: social practices of spatial

demarcations and appropriations

The nature of contemporary urban places and

especially the way they are used and

experienced have been highly influenced by

another, rather paradoxical, development

within contemporary society. This

development is caused by the seemingly

contradictory tendency to simultaneously

emphasize both the individual and the idea of

the collective.10 On one hand, the market

economy democracy focuses on the

importance of individual consumption that

needs to be constantly addressed: individual

needs, individual taste, individual habits, etc.

On the other hand, the emergence of the so-

called mass culture has introduced a sense of

collectiveness that has become inevitable in

the everyday of urban life.

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The problems surrounding an individual

occupying ‘a’ space was radically theorized by

Emmanuel Lévinas using Yuri Gagarin11 as the

protagonist for a nomadic conception of space.

As the literal ‘Odd Man Out’, Gagarin serves

the personification of the one who has left ‘the

Place’ and could thus venture beyond spatial

occupation. No longer limited to earthly

matters, the cosmonaut had been repositioned

in a homologous space, and by going beyond

this horizon, actually managed to be placed

outside the traditional dichotomy between

natives and strangers. For Lévinas, Gagarin is

a constant reminder of the fact that, even on

the scale of an individual, the physical

occupation of space on this planet always

means a form of exclusion: one’s territory is

not always accessible to the other. The spatial

practices of demarcation presents highly

problematic the notion of co-habitation.

To occupy and live in a place means to initiate

a conscious attempt to dwell and to

simultaneously territorialize one’s existence.

In the act of dwelling, whether public, private

or somewhere in between, the appropriation of

space is a fundamental and inevitable part of

Being. However, if the individualized claim of

space is considered problematic, leaving aside

the essentially human aspect of co-habitation,

then the collective claim of space proves even

more contentious in terms of its legitimacy and

entitlement. In fact, the collective claim of

space on one hand reinforces demarcations as

a means of control through membership and on

the other destabilizes the continuity and

openness of territory by establishing a certain

frame. This is because the collective

identification is about denominating shared

traits and such traits inevitably suffer from the

inherent lack of clarity, or the uncontrollable

multiplicity, in the very nature of belonging to

one group.

The establishment of framing an identity,

Elisabeth Grosz states, cuts into a milieu or

space: ‘This cutting of the space of the earth

through the fabrication of the frame is the very

gesture that composes both house and territory,

inside and outside, interior and landscape at

once and as the points of maximal variation,

the two sides, of the space of the earth.’ 12 And

‘this is why the frame’s most elementary form

is the partition, whether wall or screen, that,

projected downward, generates the smoothness

of a floor, that ‘rarefies’ and smooths over the

surface of the earth, creating a first (human)

territorialization.’13

The border is the straightforward physical

object used for demarcating territory and/or

property. As a cultural phenomenon, the

Page 86: A6 what

construction of borders almost always entails

an element of communication: various signs of

instructions, membership, ideological

orientation, propaganda, religion, or simply the

indication of property and legislative divisions.

Elements, signs and devices of borders are

profound manifestations of cultural

conventions, practices and habits. In the

process of identification, border elements are

used to distinguish one from the other by

exclusion, separation or segregation as well as

to express the manifestations of cultures

themselves. Even temporary occupations of

places tend to be communicated by means of

territorial demarcations.

The spatial manifestations always contain

components of identity and thus history and

memory attributed to them. The collective, as

it manifests itself in the construction of spatial

boundaries, needs a formal and architectural

language in common to claim its territory and

communicate its exclusivity to outsiders. Since

the 1960s, the excessive acceleration of

globalization process has simultaneously

resulted in a shift ‘in the scale of world

conflict from international to intrastate’14 and

the intensification of the interdependent world

economy, an increase in the radicalization of

local identities and the need for drawing

borders accordingly. This suggests that the

spatial has become the political. Andreas

Huyssen argues that this connection means a

turn to history: ‘In an era of ethnic cleansings

and refugee crises, mass migrations and global

mobility for ever more people, the experience

of displacement and relocation, migration and

diaspora seems no longer the exception but the

rule. […] The faster we are pushed into a

global future that does not inspire confidence,

the stronger we feel the desire to slow down,

the more we turn to memory for comfort.’15

Spatial demarcations are inscriptions into the

territory and constitute a human sense of space

that forms a measurement. This measurement

is not only limited to sizes or quantities but

also framed by what we sense and envision as

the possibilities of spatial meaning. Since ‘the

frame is what establishes territory out of the

chaos that is the earth’,16 there can be neither

territory nor space without the frame or the

boundary. The frame not only gathers but also,

somewhat like a Debordian détournement,

separates. It is a means of selection and thus

inclusion and exclusion. According to Bernard

Cache, ‘The frame selects because it

eliminates the tendency for evasion. And what

holds true in physics also holds true in

society.’17

Page 87: A6 what

As a last détournement, Giorgio Agamben

revised the reading of sovereignty emerging

out of the nation-state. It is precisely in the

ban, the state of exception that political

relation originates from. This calls into

question ‘…every attempt to ground political

communities in something like a “belonging”,

whether it be founded on popular, national,

religious, or any other identity.’18 In fact, the

simultaneous presence of the individual and

the collective, the confusing amalgamation of

the political and the juridical, have resulted in

the contemporary condition of urban space:

temporary, ephemeral, contested and in

constant flux. Today’s urban dwellers have

become once again, or still are, nomads living

in displacement.

Rome: Public Places and Peripheries

The BC Rome studio attempts a new reading

of Rome’s urban places – in this particular

instance, along L’Acqua Felice – and explore

the conditions of peripheries that enclose and

frame those places in the city. Here the public-

ness of the city is essentially seen as a milieu

composed of ‘interstices’ (or the nooks and

crannies) that have accumulated over

centuries. This temporal duration presents not

only the horizontality of the city’s expansive

territories but also the verticality of its

historical sedimentation and strata. In this case,

the reading of the city’s public places provides

rich opportunities of unexpected spatial

encounters running along the aqueduct.

The BC Rome studio consists of investigations

on the expression of urban interactions and

their boundaries in both actuality and fiction.

The studio is conducted in two major sections

of assignments that promote the use of

notations, drawings and maps as a means of

urban investigations, experiments and trials.

The overall objective of the studio is to

investigate public places in Rome where the

idea of contingency, in the border of a certain

thickness presented by the aqueduct, is a

pronounced feature. Such places include many

types of buildings in which the social

encounters take place. These encounters may

be planned (appointments and schedules:

congress centers, restaurants, theaters) or by

chance (serendipity and spontaneity: markets,

bars, cafes, clubs). Or it could simply be

Page 88: A6 what

transient and fleeting: intersections and

passages where we just pass by (strolling or

passeggiata: streets and squares) as well as

those places where the consumptive

abandonment left a void.

Resulting from this stage are various drawings,

maps and models as fragments that inform the

indexicality and the contingency of urban

activities. In the second stage, students

investigate the formal qualities of the

indexicality (as composed in drawings,

notations and maps) and the programmatic

nature of a public place as a locus of personal

and sometimes fictitious, imagined events.

Using the outcome of the programmatic

investigation, the students eventually develop

an architectural composition that reflects both

the programmatic components and the index

models. Major emphasis will be given to the

architectonic processes and techniques.

The BC Rome studio’s explorations consisted

of the places that are thought of as peripheral

or marginal and at the same as presenting the

kind of conditions that are representative of the

‘cracks’ of time and history. The participants

in the studio were asked to explore the city in

terms of dérive and détournement and produce

maps of different kinds that expose the

invisible. The mapmaking exercise consisted

of geocentric, egocentric and ‘choropleth’

maps. First, the students were asked to engage

in ‘wandering’ in which they discovered

certain conditions of urban appropriation and

activities and to catalogue them. This forms

the basis of the geocentric maps that link

specific paths and places in the city in terms of

its geographical navigation. In parallel, the

egocentric version of the maps is also

produced, in which the students plotted and

notated the personal, subjective and perceptual

aspects of their journey along the aqueduct. In

this particular form, the egocentric maps were

expected to expose the experiential

composition. Along with the two primary

modalities of mapmaking, the choroplethic

process was also employed in order to arrive at

readings that are specific to time and place and

relative to the kind of information that was

supposed to be presented. In the three parallel

mapmaking processes, the geocentric maps

presented the more quantifiable kind of

information, while the egocentric ones exposed

the ‘moods’ or the perceptual dimensions.

Both forms of maps were composed by

applying mapmaking techniques in order to

pronounce or emphasize particular elements or

features of the documented urban places.

Page 89: A6 what

An investigation into the recent history of the

Felice aqueduct showed already the

marginality of the spaces and their typical

‘occupants’, exclusively consisting of social

‘outsiders’. The shantytown (or ‘peripheral

slums’) that had grown in and around the

aqueduct, have been cleared out the last

decades, resulting in the present-day condition

where practices of spatial appropriations and

demarcations have turned the aqueduct area

into a diffused mix between public, semi-

private and private spaces. Simultaneously, the

traces of the previous inhabitants are still

abundantly present. While focusing on

particular aspects of urban places and

peripheries presented along the aqueduct, the

very idea of a periphery appears blurred and

problematic in that the multiplicity of

interpretations that this monument can assume

in the contemporary city. It is out of this

apparently uncontrollable and actually

apprehensible notion of the ‘marginal’ and the

‘peripheral’ that new concepts of space could

form. The aim of the BC’s research and

mapmaking work in Rome research was

indeed to speculate on the potential of these

urban patches where the indeterminacy still

leaves room for interpretation that is

transformed into a strategy through a precise

process of mapmaking. In this way, subjective

experiences of the city are translated into an

architectural discourse that is on one hand

sensuous and personal and on the other the

fiction of maps contribute to the formation of

posterity. The practice of mapmaking provides

the opportunity to extract and reassemble

conventional concepts into spatial ones by

shifting the perception of the navigator. It is an

instrument of translation of the everyday of the

city into the complex vocabulary of techné and

appeals to the construction of new epistemes.

Border Conditions Group Researchers:

Henriette Bier, Sang Lee, Oscar Rommens,

Marc Schoonderbeek

Students of L’Acqua Felice Studio:

Monica Balan, Filippo Maria Doria, Luigi

Grosso, Karolina Konecka, Ke Chang, Irina

Niculescu, Miguel Setas, Joe Wu, Song Zeying

Page 90: A6 what

1 Koolhaas, Rem et al. Mutations:

Harvard Project on the City.

Barcelona: Actar, 2001

2 Of course, this is an intentional

misreading of the book cover slogan

that mainly refers to the fact that, by

now, the majority of the world’s

population lives in cities, providing an

evidence that the urban conditions will

be the main objective of architectural

research for generations to come.

3 Solnit, Rebecca, A Field Guide to

Getting Lost.

Edinburgh/NewYork/Melbourne:

Canongate Books, 2006 (originally

published by Viking Penguin, USA in

2005). p. 6.

4 Ibid, pp. 6-7.

5 Lyotard, Jean-François, The

Postmodern Condition: A Report on

Knowledge. Minneapolis: University

of Minnesota Press, 1984. pp. 60-61.

6 Musil, Robert, The Man without

Qualities. London: Picador, 1997.

7 Nieuwenhuys, Constant, ‘The

Principle of Disorientation’, in:

Wigley, Mark, Constant’s New

Babylon; The Hyper-Architecture of

Desire. Rotterdam: 010 Publishers,

1998. pp. 225-226.

8 Careri, Francesco, ‘Of Sailing and

Stopping’, in: Schoonderbeek, Marc

(ed.), Border Conditions, Amsterdam:

Architectura & Natura Press,

2010.221-227 pp.

9 Cosgrove, Denis E., Mappings.

London: Reaktion Books, 1999. p. 12.

10 The paradox between

individualization and experiences of

collectivity has also been extensively

discussed by Guy Debord in his

Society of the Spectacle. Debord states

that the principle of separation

working within contemporary,

Page 91: A6 what

‘spectacular’ society, forms the very

basis of conflict.

11 Lévinas, Emmanuel. ‘Gagarin,

Heidegger and Us’ in Heijnen, Hilde et

al. (eds.), Dat is Architectuur:

Sleutelteksten uit de Twintigste Eeuw.

Rotterdam: 010 Publishers, 2002. pp.

347-349.

12 Grosz, Elizabeth, Chaos, Territory,

Art; Deleuze and the Framing of the

Earth. New York: Columbia

University Press, 2008. p. 13.

13 Ibid. p. 14.

14 Bollens. Scott A., On Narrow

Ground: Urban Policy and Ethnic

Conflict in Jerusalem and Belfast.

Albany/New York: SUNY Press, 2000.

p. 5.

15 Huyssen, Andreas, op. cit. p. 25.

16 Grosz, Elisabeth, op. cit. p. 11.

17 Cache, Bernard. Earth Moves: The

Furnishing of Territories. Cambridge:

The MIT Press, 1995. p. 59.

18 Agamben, Giorgio, Home Sacer:

Sovereign Power and Bare Life.

Stanford: Stanford University Press,

1998. p. 181.

Page 92: A6 what

Capire lo sguardo in un laboratorio di studi urbani

Gregory O Smith, Porus Olpadwala, Carlotta Fioretti, Claudia Meschiari

Cornell in Rome

Questo contributo illustra il laboratorio di studi urbani organizzato presso Cornell in Rome nella primavera del 2011. Il corso è incentrato su Roma, e coinvolge principalmente studenti che non hanno dimestichezza con le realtà italiane. Obiettivo del corso è quello di valutare diversi sguardi sulla città, partendo dalla visione di chi viene da fuori, per poi confrontarla con quella degli abitanti utilizzando principalmente le mappe suggerite da Kevin Lynch. A seguito di una fase più empirica e olistica, gli studenti hanno realizzato delle ricerche analitiche, prendendo in esame diversi elementi dell’esperienza romana: il ruolo dei monumenti nella costruzione di un sapere locale nella periferia, sicurezza e accessibilità degli spazi pubblici, il suono nei contesti urbani tramite la realizzazione di una mappa acustografica ispirata largamente a Guy Debord.

Vision and meaning in an urban studies workshop

Cornell’s Rome workshop has existed for about twenty years, bringing American undergraduate students to an important European capital city as part of their undergraduate training in urban studies. The course is organized in the fourteen-week spring semester. The pedagogical approach is experiential and holistic, rather than being client-based as is common in workshops conduced in the US. The experience of Rome is enriched with study tours to other Italian urban centers, including Turin, Naples and Modena. Contextual reading is provided for both the Rome based part of the course as for the tours to other parts of the country (for the mentioned tours outside of Rome, particularly Maritano, Dines, Meschiari). The structure of the seminar changes from year to year. Here we present the seminar as it was structured in spring 2011.

Since the workshop is part of a US undergraduate curriculum in urban planning, the philosophy of the course is colored by the curricular orientation of City and Regional Planning (CRP) as offered at Cornell University. While no department will limit the variety of intellectual orientations which can enrich student learning, a common feature at CRP is the emphasis on equity planning broadly considered, where multiple stakeholder voices are collected and assessed in an effort to understand how contrasting identities interact within a single urban setting (Forester, Friedmann).

Though an experiential course where the city is the text, background reading is necessary, as stated above. Some of the readings focus on urban dynamics in Italy (Agnew, Bosker, Costa, Kostof, Malanima, Ugo Rossi, Vigneswaran). Other readings provide models for understanding contemporary Italian society (Di Addario and Patacchini, Dundord and Greco, Petsimeris, Piori and Sabel, Pompili, Tilly, Whitford, Zamagni). Many readings represent an economic approach, so

1

Page 93: A6 what

cities are seen not as the expression of free-floating cultural values, but as the outcome of complex historically determined political and economic forces (Olpadwala). From the outset emphasis is placed on the vision of the city (Debord). We also attempt to explore how everyday life practices shape the city experience (Certeau), although this ethnographic approach requires skills which we were unable fully to develop within the temporal limitations of the workshop.

Other supporting literature concerns the specific tasks students are called upon to face in their research. Bear in mind these are US undergraduate students with no previous experience of Italy or Italian culture. In 2011 we had fifteen students organized in four teams, with two US professors, two Italian teaching assistants, and four architecture and planning students from Rome 3 University who served as field assistants. The four Rome neighborhoods studied were preselected by the teaching staff to provide interesting contrasts. The neighborhoods were Labaro, Casilino 23, Mandrione, and Tuscolano II. While some of the research tools were predefined, others were selected as based on specific student interests. Among the predefined tools were a systematic street survey, direct observation, statistical data analysis, informal and formal interviews with selected citizens, and Lynch cognitive maps. The workshop was structured as a progressive movement from a typo-morphological survey, through the study of function, to an analysis of cognitive factors. The workshop ended with comparative analytical studies of selected issues which cut across the four neighborhoods.

The most valuable background sources for the typo-morphological survey, available in English, are readings from Aldo Rossi and those about Giancarlo de Carlo (Zucchi). This survey establishes the first encounter with the neighborhoods, with a systematic survey of a predefined area which is gradually narrowed down as students acquire a better understanding of the environment. The survey includes buildings and street types which are classified and mapped out.

The best source for the functional analysis proved to be Agnew whose work provides an excellent survey of the social, economic and political forces which have shaped Rome’s growth in the post-World War II period. Students use their typo-morphological studies, their growing understanding of neighborhood history, and the analysis of official statistical data, to fit their neighborhoods in this context. Thanks to this contextualizing approach we could, for instance, appreciate the impact of the strong masterplan used

to structure Tuscolano II and Casilino 23, and compare this to the more spontaneous and unregulated growth of Labaro and Mandrione. The ability to work with an increasingly complex array of data allowed students to compare the outcomes of variegated urban process in terms of quality and livability.

Though planning practitioners may judge his work outdated, over the years we have found Kevin Lynch’s approach to be a useful pedagogical tool in helping students to access the role of subjectivity in urban studies. It is well known that a single urban element may convey completely different meanings to different people, even though the material artifact itself is one. This was seen, for instance, in the case of the aqueducts which run through the eastern side of Rome. The aqueduct in Tuscolano II is a powerful landmark, yet an aqueduct of the same period and similar characteristics that runs through Mandrione has little impact in cognitive accounts furnished by citizens. Single physically discernable features of the cityscape can also have different meanings for the researcher as compared to the citizen. This was the case of Labaro, where the omission in citizen-generated Lynch accounts of existing built landmarks indicated that the design of these spaces failed to elicit a significant response in the image citizens held of their own neighborhood.

Students from Rome 3 University made a valuable contribution to the project not only by providing an historical analysis of each neighborhood, but also by collecting geo-referenced citizen narratives around cognitive maps which helped the groups better understand the relationship between perception, everyday life practices, and the objectively verifiable character of the urban environment. It is significant that the different sets of students were as interested in understanding their respective viewpoints as in understanding the community itself, providing a measure of our success in introducing sensitivity to the role of reflexivity in generating vision and meaning in an urban environment.

One of the concerns in a course like this is time management. This semester we focused strongly on empirical research techniques, an activity which some students found tedious. The analytical exercises, which required that groups be reconfigured in the last part of the semester around themes they selected as appropriate for cross neighborhood analysis, seemed to elicit more excitement. This is perhaps because the analytical exercises returned to the more familiar text based research method, with explorations of the literature for models that could be applied to the conditions documented in Rome. Ideally we would mix

2

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together empirical data collection with on-going analytical explorations, as would be common in professional urban research, (cf. Wacquant). But this mixing of approaches is difficult to achieve in an undergraduate seminar with such strong time constraints.

In fact, the analytical exercises produced interesting results. One project involved creating what we called, in tribute to Guy Debord, an acoustographic map. This required the collection of sound samples in a neighborhood (Casilino 23) based on grid analysis and the previously documented Lynch maps. It was interesting to find a spontaneous zonal distribution of sound intensity consistent with the range in acoustic data reported in the literature for small towns in Tuscany. But while similar in range, the Rome data showed a higher overall sound level owing to our location in an urban environment. This was a straightforward empirical research project, comparing original data with that reported for other Italian urban environments. The only specialized instrument required to make this research possible was the decibel measuring application available in the students’ Smartphones.

Another group focused on built public space, and surveyed use in contrasting neighborhoods. This was carefully done, but we found that the students’ difficulty in documenting everyday practice and perceptual data made it difficult for them to achieve a sophisticated understanding of the issues they chose to explore. The challenges for American students attempting to understand an Italian urban environment were clearly evident in this study, which could have benefitted from more strict conceptual and methodological definition.

The two other analytical studies were the continuation of research interests which surfaced during the neighborhood study phase. One was on the role of aqueducts in forging community identity in the eastern part of the city. The other was an exploration of urban horticulture. The latter topic in particular generated enthusiasm among student researchers, and led to a number of rich encounters with local activists.

All the analytical studies focused on issues concerning public space. This was done with an eye to airing findings at the Biennale dello Spazio Pubblico. We stressed there, and reiterate the position here, that our workshop is an undergraduate pedagogical project which builds research skills among prospective urban planners. Our pedagogical aims were largely satisfied, although we make no claim that the findings generated by the students have the same character and value as professionally conducted studies.

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4

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Projects in public space – Working in urban Reality:The approach of the UdN International Summer School,HafenCity University HamburgCreated in 2009 by HafenCity University Hamburg, the UdN Inter-national Summer School (ISS) is an immersive workshop, proposing a bottom-up approach to urban design and development. Young students and professionals are living and working together in the “Neighbourhoods University” (UdN*) in Hamburg-Wilhelmsburg in order to investigate issues of urban development in immediate dialogue with the surrounding neighbourhood.

#1 The SettingCreating a re-appropriative placeThe IslandHamburg-Wilhelmsburg is located on the Elbe Islands, a district just South of the centre of Hamburg. The area houses approximately 55.000 people from more than 40 nations. Embraced by the river Elbe, the district is not well connected to the centre of Hamburg despite its proximity. The area has rather become associated with harbour facilities, working class immigrants, dissused industrial sides as well as agricultural land, natural reservoirs.In 2007 the Municipality of Hamburg established the International Building Exhibition Hamburg 2013 (IBA Hamburg) in order to regenerate the area, to promote Wilhelmsburg as a natural “stepping stone” between the North and the South of Hamburg, and accom-modating its urban growth. The neighbourhood is now undergoing a dramatic change, which provokes an ambivalent situation and a starting point for discussing and re-considering contemporary prac-tices of planning and urban design as well as the role of university teaching in this area.

The NeighbourhoodThe charming diversity of Wilhelmsburgs urban fabric is caused by unfinished, undefined build up areas that border onto each other without any identifiable rational connection, and it’s multicultural population. Its built environment has a distinctive characteristic and is very spacious and green at the same time since Wilhelsmburg density is much lower than other inner-urban neighbourhoods. The UdN building itself lies in an idyllic immediate surrounding and represents in some ways the idiosyncratic characteristics of the Wilhelmsburg neighbourhood:Wilhelmsburg is equally characterised by a series of building typologies from the last century. A multitude of different, clashing structures making up a strange and incoherent urban fabric: 19th century perimeter blocks sit next to the remainders of villages to one side, and to zeilenbau from the 1950s to the other, which again is mixed with brick working class tenements from the 1920s. The unusual mix continues with detached family homes next to pre-fab-ricated concrete housing blocks, fragments of historic villages next to high rise social housing in the periphery. Further south we find a strange mix of light industrial uses and harbour related industries. Finally a large area of open green land and agricultural uses opens up in the eastern part of the island, but is intersected by heavily frequented traffic arteries. The community of Wilhelmsburg has a diverse sociography: a high percentage of young people from different national backgrounds, still intact communities of first-generation immigrants, residing vil-lagers and a slowly increasing number of students and artists.

*Neighbourhoods University (UdN)The UdN is a teaching and research project of the HafenCity University Hamburg (HCU) and an excellency project of the IBA Hamburg. As a joint venture of the HCU and the IBA Hamburg the project is the result of a student competition in 2007. The winning concept proposed the reuse of an existing but derelict health care building, maintaining its structure and adjusting its internal layout creating a meeting place for an active and changing neighbourhood.

The aim of the building is to provide an un-programmed space that can be (re-)appropriated by diverse actors and cater for diverse needs. The building has subsequently become part of the academic cur-ricula of the HCU. It allows students of architecture and planning to participate actively on the construction-site and in the refurbishment of the building, and to work on the programming of its use. The teaching programmes are encouraging interdisciplinary work and active engagement with members and groups of the surrounding community. For a duration of 5 years, ending in 2013, when the site will be given back to the munincipality, the former health care centre turnes into a multi-functional learning platform: not merely a construction site, but also an interactive laboratory for an experimental one-to-one practice to urban and architectural design that puts its findings and assumptions on trial and on an immediate reality-check on site.

A short introduction to the UdN programme:The UdN’s main aim is to engage with current questions of urban research and the future needs of urban centres and to link these to its teaching activities. As ready-to-use space the UdN provides a place for lectures, seminars, conferences and workshops. Due to its central location in Wilhelmsburg, the UdN is a particularly ideal location for the set up of an urban laboratory. It provides students with the unique op-portunity to work on projects at both building and at district scale, examining the fast urban development provoked by the IBA, the specific features of the urban fabric in the district and the coexist-ence of multiple different backgrounds and nationalities. The UdN aims to provide a dynamic, active, open place, where the effects and efforts of district planning can be discussed not only within the academic perspective but within and together with the community.Improving the level of social integration and activating autonomous behaviour within the community is key of all UdN activities. To-gether with artists and professionals students are sought to establish interactive platforms for communication and exchange such as the “International kitchen” (2009), the “urban gardening project” (2011) or the “Wilhelmsburg Orchestra”. On certain occasions the projects are presented and discussed in public and the community is invited to join parties, dinners, concerts, movies and expositions. to introduce residents to the UdN activities and to encourage them to participate in an active way, as well as to share drinks, food and mu-

The UdN biuilding. View from the public park.

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sic in an informal way. One special course is the “UdN Bauhütte”, which allows students to practice and apply their architectural skills and knowledge on a construction site. This requires constantly new and innovative ideas as the building structure is being maintained with very limited funds, whilst the inner structure has to flexibly adapt to a wide set of possible uses. (UdN 04.10, HCU Hamburg)

#2 The TaskEngaging to define the crux in urban communitiesInternational Summer School (ISS)The workshop topic is to discuss public space as a place for partici-pation and its role in the urban transformation process of the island. The group of international students with backgrounds in different academic fields (such as urban planning, architecture, environ-mental and landscape design or sociology) are asked to explore the neighbourhood, to dérive in Wilhelmsburg, to spot local distinctions in everyday life. In doing so, the provoking upcoming questions have to be answered by the participants, rather than taking one specific problem to define a limited project task, which has then to be solved.

DiversityStudy areas are all kind of public or semi public spaces that can be encountered, identified, examined or exposed. The distinctive elements of Wilhelmsburg diverse spaces are being distinguished and explored: What are its specific character and properties? Which potentials do they provide? What are the means and strategies to make use of these and create an intelligent and forward-looking urban realm?

Existing resourcesBy examining open spaces, the students are asked to explore public engagement. The everyday knowledge of local people reveals a differentiated and specific understanding of local practices or spatial arrangements, which can allow developing different strategies for change. What existing qualities are already being perceived? How could uses be added and strengthened? What are people’s needs and wishes? How can the local residents be encouraged to make a more active part of the transformation process?

Custom strategies for transformationThe knowledge generated in research and analysis will be trans-formed into actual design projects, which exemplify useful urban

strategies. The development process respects and enhances the existing urban fabric. By choosing a specific urban actor within a specified target group the implemented project seeks a down-to-earth approach. It proposes a step-by-step strategy from the initial idea to a wider urban transformation. This approach allows to inte-grate the local community and to spot possible key-drivers within the neighbourhood.

#3 The ApproachLiving and working together at a building site in transitionDuring the UdN International Summer School participants are living and working together on site, in a building in permanent transformation and adaptation. Living, working and residing ties the teams to an intensive and lively situation. The occupied site of the re-used building is not only an inspiring platform for the student’s working process, but it also fosters spontaneous everyday learning experiences and unexpected innovations. Additionally, it enables positive exchanges with the neighbourhood. Working on site makes Summer School participants visible to the residents of the neighbourhood. The direct or indirect, aimed or accidental interaction with the neighbourhood achieved in the pro-gram is the chance to attract neighbouring people to the activities of the UdN, to destroy prejudices and to favour exchange between the residents and the students, which appear as mediators between different languages, cultures and life styles, and which collect the ideas and the dreams of the people about the future of their environ-ment.Intercultural co-operation is an important underlying rationale of the project. The outside view of the participants and their in-ternational experience favours unexpected outcomes of the ISS projects. The interdisciplinary teams of students are setting off into the neighbourhood and are working with the local community to investigate knowledge and the production of space within a diverse urban context. The aim is to not only design, but to engage in public space. The process of engagement with urban reality aims to extend traditional boundaries of the planning and design disciplines.

#4 The MethodsInvestigate knowledge in an urban the context …Dérive/set off into the neighbourhood…working with the local community …process of engagement …motive-based-learning

The UdN Kitchen. Open space. The UdN Kitchen. Prepare, discuss, share.

© Felix Amsel, Hamburg © Felix Amsel, Hamburg

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…putting into placeThe goal of the Summer School is to provide a “bottom-up” ap-proach to urban development. How can planners and designers integrate and co-work with residents, local needs and habits? How can theoretical knowledge be verified and tested to be relevant for urban practice? What is the community knowledge and what does that teach us? The Summer School aims to gain that knowledge and to practice design in a real urban context. While learning to understand the prevailing urgent questions and social and spatial needs of a diverse community, participants simultaneously learn to apply and adopt new techniques such as improvisational concepts and interventional research methods. Hence the ISS puts a particular focus on user-centred, context-specific solutions, rather than on the large-scale strategic regulatory and infrastructure ideas. It seeks ideas that can be pragmatic, experimental and minimalist.Different kinds of approaches are continuously developed and tested. ISS participants are urged to develop and implement their ideas in urban reality. Why are spaces unused? Is the space really unused or does it host functions not visible at first sight? Would the proposed design lead to the favoured changes? How to outline and carry out an experiment that proves or does not prove the conclu-sions?

#5 The ProjectsProjects carried out by the students of the Summer School are aim-ing to spark off a new interaction amongst the district residents by suggesting new or additional uses within the urban fabric. Projects aim to improve the quality of everyday life and might also influence the areas resource circuits, foster economic change or provoke the positive effects of intercultural exchange.

Multiwash (2009, Deborah Zervas, Giacomo Losio, Martin Krings)An urban Experiment. Looking for the „spark“ to ignite intercul-tural exchange, this group tests the interaction potential of places like the local public transport line and a laundrette. They explore interventions involving interactive elements like music, a “barter box” and a coffee table to ignite unexpected reactions. The space is transformed into a place of interaction, suggesting a new use and adding a new functions. Expanding the use of ordinary shared place like laundrettes demonstrates high potentials for intercultural exchange and the creation of new social space.

Ausstellung (Exhibition)(2010, Maria Scantamburlo, Sofía Rodrigo, Guadalupe Bernabé)A project consisting of a series of experiments: action, interaction and reaction. Using the abandoned clotheshorse structures inside the courtyards of residential buildings the project heads to organ-ize temporary exhibitions involving directly the people that live in the neighbourhood. Using this in-between space formerly designed for a specific function (cloth drying) for other activities without changing its nature “hanging”, temporary installations are used to create new situations and to evaluate people’s reaction of the intervention. Thus leading to the people needs on the one hand and to the maximum possible use of the space at the moment on the other. With a more permanent installation, a “hanging garden”, the final project aims to resolve people needs (e.g usable green space and nice smell) as at the same time adding new functions without redesigning the space.

Integration (2010, Karolina Rawluszko, Saraih del Cid)Starting from the places where people meet this group raises the question of identity, social affiliation and integration. Spotting common meeting places like the corner shop, the vegetable shop, the portuguese café or turkish kebap shop they interview main characters of the island. In the outcome of the talks unique but also idealistic characters are created, representing the diverse lifestyles in Wilhelmsburg. A matrix showes the already existing number of activities in people’s lives and overlapping possibilities for intercul-tural exchange. With understanding the specific backgrounds, inter-ests and habits of the people they develop a game, which allows to change your own character and to adopt another. The game can both be played in everyday live transferring the places and activities to your neighbourhood as well as in education institutions.

Dipl.-Ing. Renée Tribble HCU Hamburg | District planning | Professur Michael KochHCU Hamburg | Urban Design | Professur Bernd Kniess*UdN-Team: Benjamin Becker, Prof. Christopher Dell, Ellen Fiedelmeyer, Stefanie Gernert, Prof. Bernd Kniess, Prof. Dr. Michael Koch, Renée Tribble

http://udn.hcu-hamburg.de/wordpress | http://udn.hcu-hamburg.de/ISS2011.html|“UdN-Universtität der Nachbarschaften”, UdN Team, S. de Buhr, R. Reckschwardt in: Metropolis: Education, IBA series METROPOLIS, no.3, IBA Hamburg GmbH, Jovis Verlag GmbH, Berlin, 2009, S. 50-59 |“Universität der Nachbarschaften 04.10”, HCU Hamburg, B. Kniess, C. Dell, M. Koch, E. Fiedelmeyer, Hamburg, 2010 | ©Pictures by the author or as indicated by the image rights holder

EXPERIMENT AT THE LAUNDRY:RESULTS:

MIX OF USES

PUBLIC SPACE

UNIVERSAL CONCERN (MUSIC, COMMUNITY, HEALTH,

GOODS)

OPEN METHOD

CAFE AT THE LAUNDRY

INTERVENTIONS PRODUCE DATA

FROM INTERVENTION TO PLANNING, DESIGN,

AND ACTIONS

ELEMENTS

wash

plus

- NEW EXPERIENCES NEED UNUSUAL ANSWERS

- UNUSUAL ANSWERS ARE NECESSARY FOR EXCHANGE

ART LEADS TO DEVELOPMENT AND HAS AN EDUCATIONAL ROLE

- INDIVIDUAL TESTS DIFFERENT USES AND MAKES DIVERSE ACTIONS THROUGH NEW TOOLS

WHERE SPACE AND DESIGN DON’T SOLVE SOCIAL INTEGRATION ...

THE EXPERIMENT: FROM THE LAUNDRY TO THE MULTIWASH a small interventions in a shared space:

GEORG WILHELM STRASSE

3 Approach: Outline of projects/ Interventions made/

Multiwash. Putting into place. Emptiness of urban space. Engage in (semi)public space.

© Deborah Zervas, Giacomo Losio